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CORSO BASE DI FOTOGRAFIA - TEORIA di Daniele Canonica

CORSO BASE DI FOTOGRAFIA


“TEORIA” - “ANALOGICA E DIGITALE”

Questo corso persegue lo scopo di dare le nozioni principali per poter affrontare con consapevolezza il
meraviglioso mondo della fotografia.

Le regole, in ambito creativo, esistono per essere conosciute, non per essere rispettate! E' una realtà che
dovremo tenere sempre presente in questo breve viaggio nella fotografia, perché solo con la conoscenza
delle "regole" potremo essere padroni degli strumenti che utilizziamo e, di conseguenza, trasgredire e creare
secondo la nostra volontà.

Nozioni che, spesso, sono “difficili”: fisica, ottica, chimica, non da ultimo elettronica ed informatica. Nozioni
che una volta digerite permetteranno di dedicarsi all’aspetto artistico molto più compiutamente e con
sicurezza, riuscendo ad ottenere immagini migliori.

Leica II (1932) – uno dei primi apparecchi 35 mm

Nikon D3 (2007) – reflex professionale digitale 12.4 Mpx

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Sommario

1. INTRODUZIONE E BREVE STORIA DELLA FOTOGRAFIA 6


1.1 Agli albori 6

1.2 Le tappe principali della fotografia 9

1.3 La nascita del digitale 10

2. NOZIONI FONDAMENTALI D’OTTICA 12


2.1 La luce 12
2.1.1 Riflessione su una superficie opaca 12
2.1.2 Riflessione su una superficie lucida 13
2.1.3 Rifrazione 13

2.2 La temperatura cromatica 14

2.3 Il bilanciamento del bianco 14

2.4 La luce dal punto di vista del fotografo 15


2.4.1 Illuminazione normale 15
2.4.2 Illuminazione insolita 16
2.4.3 Illuminazione fantastica 16

2.5 Le lenti convergenti 17

2.6 Le lenti divergenti 17

3. LA MACCHINA FOTOGRAFICA (SLR) 19


3.1 Le parti fondamentali dell’apparecchio fotografico 20

3.2 La camera oscura 21

3.3 Il dorso 22

3.4 Il pressapellicola 23

3.5 L'otturatore 23

3.6 Costruzione e sperimentazione di un apparecchio fotografico 25

4. I FORMATI DELLE PELLICOLE 27


4.1 Il 35 mm (o 135) 27

4.2 Apparecchi “compatti” che utilizzano la pellicola 135 27

4.3 Apparecchi SLR 135 mm (reflex) 28

4.4 Il medio formato (o 120) 28

4.5 Le pellicole piane 29

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4.6 Il grande formato (banco ottico) 30

5. GLI OBIETTIVI FOTOGRAFICI 32


5.1 Lunghezza focale di un obiettivo 32

5.2 Angolo visivo di un obiettivo 32

5.3 Obiettivo grandangolare 33

5.4 Teleobiettivo 34

5.5 Obiettivo zoom 34

5.6 Il diaframma (luminosità dell'obiettivo) 35


5.6.1 Com'è fatto 35
5.6.2 La luminosità e la progressione dei diaframmi 35

5.7 La profondità di campo 37


5.7.1 Come e perché si forma la profondità di campo 38
5.7.2 Circolo di confusione 38
5.7.3 Diaframma e circolo di confusione 38
5.7.4 Diaframma aperto 39

5.8 La scelta dell’obiettivo 40

6. L’ESPOSIZIONE (MISURA DELLA LUCE) 42


6.1 Sensibilità della pellicola 42

6.2 Apertura del diaframma 43


6.3.1 Tempi medi 44
6.3.2 Tempi brevi 44
6.3.3 Tempi brevissimi 44
6.3.4 Tempi lunghi 44
6.3.5 Tempi lunghissimi 44
6.3.6 Tempi estremamente lunghi 44

6.4 Capiamo l’esposizione 44

6.4 Il diaframma come elemento creativo 46

6.5 I tempi d’esposizione come elemento creativo 47

6.6 Misuriamo la luce, l’esposimetro 48

6.7 I diversi sistemi di misurazione 48


6.7.1 Semi spot 48
6.7.2 Spot 48
6.7.3 Sistema Matrix 49

6.8 Le principali modalità di impostazione 49


6.8.1 Modalità manuale 49
6.8.2 Automatica a priorità dei diaframmi 49
6.8.3 Automatica a priorità dei tempi 49
6.8.4 Programmata 49
6.8.5 Il Bracketing 49

6.9 Altri fattori modificanti l’esposizione 50

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7. FOTOGRAFARE CON IL FLASH 51


7.1 L’impiego del flash 51

7.2 Flash a computer di prima generazione 51

7.3 Il flash a TTL 52

7.4 Flash dedicati 53

7.5 Esposizione con il flash 53

7.6 Con il TTL in esterno 53

8. SCATTARE UNA BUONA FOTOGRAFIA 54


8.1 L’esposizione nella pratica 54
8.1.1 La scelta della pellicola 54
8.1.2 Consideriamo il soggetto 54

8.2 La regola delle coppie equivalenti 55

8.3 Cenni sulla composizione fotografica 55

8.4 Prima regola fondamentale la struttura compositiva dell'immagine 56

8.5 Seconda regola fondamentale, no al centro immagine 56

8.6 Terza regola, i due terzi 56

9. LA FOTOGRAFIA DIGITALE 58
9.1 Dalla pellicola al digitale 58

9.2 Introduzione 58

9.3 Quanto conta il numero di Mpx 58

9.4 Grandezza dei sensori CCD 58

9.5 Funzionamento 59

9.6 Pixel Monocromatici 59

9.7 Range dinamico 59

9.8 Convertitore AD 61

9.9 Tipi di ccd 61

9.10 Conclusioni… 61

9.11 Limiti e pregi delle macchine fotografiche digitali 62

9.12 Risoluzione e dimensione di un’immagine digitale 64


9.12.1 Mini glossario 64

9.13 La stampa 65
9.13.1 Riassumendo 65

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9.14 Modificare le dimensioni di un’immagine 66


9.14.1 Risoluzione fissa 66
9.14.2 Dimensione pixel fissi 67

10. LA FOTOGRAFIA COME ESPRESSIONE ARTISTICA 68


10.1 L’arte e la fotografia 68

10.2 Registrare la luce! 69

10.3 Fare fotografia, il fine è... 69


10.3.1 Lo scatto 69
10.3.2 Creare 69
10.3.3 Il soggetto 69
10.3.3.1 Il soggetto è indipendente dal fotografo 70
10.3.3.2 Il fotografo influenza il soggetto 70
10.3.3.3 Fotografo e soggetto si autoalimentano 70

10.4 Guardare la fotografia 71

10.5 Guardare la fotografia "artistica" 71

10.6 Guardare la foto "a soggetto" 72

10.7 Avere fotografie 72

10.8 Fotografia e società 72

10.9 Galleria d’immagini per riflettere 73

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1. Introduzione e breve storia della fotografia

1.1 Agli albori

La fotografia è un procedimento chimico-fisico che permette di fissare l'immagine del soggetto su un


opportuno supporto (di sostanze sensibili alla luce).

L'apparecchio a foro stenopeico è lo strumento più elementare per formare immagini fotografiche. Al posto
dell'obiettivo ha un minuscolo foro che lascia passare la luce e forma l'immagine capovolta sulla parete
opposta del foro stesso.

Gia Aristotele nel IV sec. a.c. osserva che i raggi del sole che passano per una piccola apertura producono
un’immagine, ma passeranno 17 secoli prima che Ruggero Bacone nel 1267, monaco inglese, descriva la
camera oscura e l’uso dello specchio da anteporre al "forame" per raddrizzare le immagini.
Nel Quattrocento, gli artisti mostrano uno spiccato interesse per l’oggetto in questione, ma solo come tecnica
per gestire la prospettiva dei loro quadri. Nel 1515, alla camera oscura si riferisce anche Leonardo da Vinci.

Disegno realizzato da Athanasius Kircher durante un suo viaggio in Germania nel 1640, la camera aveva dimensioni di una piccola
capanna leggera, l'artista vi entrava tramite una botola nel pavimento.

Chi inventò la camera oscura "moderna"? Di sicuro, c’è il disegno dell’olandese Rainer Frisius che illustra la
grande camera oscura utilizzata per l’osservazione dell’eclissi di sole dell’anno precedente. Girolamo
Cardano, invece, nel 1550 applica una lente alla camera oscura ed ottiene un’immagine più luminosa,
mentre Daniele Barbaro adotta il diaframma per ridurre le aberrazioni. Il salto di qualità arriva dopo cento
anni, quando il monaco Johann Zahn progetta una camera oscura con uno specchio a 45° dietro la lente per
rinviare l’immagine verso l’alto e consentire un più facile ricalco sul vetro smerigliato.

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Sono evidenti le analogie fra la vecchia camera oscura e la macchina fotografica moderna. Ma ancora
manca l’elemento chimico che permetterà di catturare le immagini in maniera permanente.

Nel 1725 Johann Heinrich Schultze scopre che il nitrato d’argento annerisce con l’esposizione alla luce. Il
primo tentativo di fissare un’immagine su un supporto alla luce della scoperta di Schultze, fu quello di
Thomas Wedgwood, figlio del famoso ceramista inglese. Probabilmente, il suo scopo era quello di
industrializzare l’uso della camera oscura di cui si servivano gli artigiani della ditta paterna per riprodurre su
piatti e zuppiere le ville ed i castelli della clientela. Dopo vari esperimenti condotti tra il 1796 ed il 1802,
riesce a registrare i profili degli oggetti che appoggiava su piccoli pezzi di pelle bianca sensibilizzata e che
esponeva alla luce del sole. Ma le immagini non erano permanenti e Wedgwood poteva osservarle solo per
pochi minuti a lume di candela.

Uno scienziato di nome Joseph Nicéphore Niepce, dopo aver studiato a


lungo il problema, si concentrò sulla tecnica della litografia, cioè l’arte della
pietra incisa e decise di utilizzare un procedimento simile per risolvere il
problema delle immagini sfuggenti.

Prese una lamina di peltro, la ricoprì di uno speciale asfalto chiamato bitume
di giudea, poi la mise in contatto con un dipinto e lasciò esposto il tutto alla
luce del sole.

Quindi notò che le parti più chiare del dipinto permettevano alla luce di
raggiungere lo speciale asfalto, rendendo queste parti più chiare rispetto a
quelle ricoperte di pittura più coprente. Allora lavò la lastra con un’essenza
di lavanda che sciolse il bitume non impressionato, lasciando attaccato alla
lastra quello reso più chiaro dal sole.

Nacque così il primo negativo della storia tramite il procedimento che


Niepce stesso chiamo Eliografia.

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La prima fotografia della storia nel 1826 Niepce la ottenne con una posa di ben otto ore su una lastra per eliografia da lui stesso
preparata

Natura morta (Niepce 1829)

Il primo dagherrotipo giunto fino a noi, scattato da Louis Daguerre nel 1837

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Nel 1839 L'accademia di Francia rende noto al mondo il metodo di Louis Daguerre, scienziato che per un
certo tempo collaborò con Niepce, è la nascita ufficiale della fotografia. La tecnica del dagherrotipo
consisteva nel sottoporre (al buio) una lastra d'argento ai vapori di iodio, poi veniva esposta alla luce tramite
una camera oscura per almeno 15 minuti e successivamente sviluppata per effetto dei vapori di mercurio.
L'immagine andava poi fissata in un bagno d'iposolfito di sodio.

L. Daguerre, la prima immagine in cui compare l'uomo è datata 1839

1.2 Le tappe principali della fotografia

• 1841 Talbot porta a termine le sue esperienze sulla Calotipia. La tecnica del calotipo (o talbotipo)
consisteva nell'utilizzare della carta resa trasparente dalla paraffina e sensibilizzata con bagni in
soluzioni di cloruro di sodio e nitrato d'argento. Una volta esposta l'immagine veniva sviluppata con
acido pirogallico. Il risultato è un negativo dal quale sarà possibile ottenere un numero illimitato di
copie. La qualità, però, non è ancora al livello del dagherrotipo.
• 1844 Talbot realizza il primo fotolibro: "The pencil of nature".

Immagine tratta dal primo libro fotografico "The pencil of nature".

• 1847 Niepce De Saint Victor (nipote di Nicephore) descrive il metodo fotografico dell'albumina,
nascono le prime lastre di vetro sensibile.
• 1850 Viene introdotto il procedimento al collodio che sostituirà in breve tempo la dagherrotipia e
calotipia. Il procedimento al collodio (composto da nitrocellulosa, etere ed alcol) consisteva nel
mescolarlo a ioduro di potassio e stenderlo su una lastra di vetro che verrà immersa in un bagno

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d’acqua distillata e nitrato d'argento per sensibilizzarla. Usata quando è ancora umida permetterà dei
tempi esposizione anche di frazioni di secondo. Lo sviluppo veniva fatto con acido pirogallico, il
fissaggio con iposolfito.
• 1869 Viene brevettato il metodo Archer-Frey per la fotografia al collodio.
• 1869 Viene dato alla stampa un libro: "I colori della fotografia: soluzione di un problema". L'autore è
Louis Doucros de Hauron
• 1871 La gelatina sostituisce il collodio, le lastre così realizzate potranno essere usate asciutte e
permettere tempi d’esposizione di 1/25 di secondo.
• 1873 Leon Vidal ottiene immagini a colori con un procedimento chiamato "fotocromia a colori indiretti".
• 1874 Viene prodotta e venduta una pellicola fotografica a base di gelatina e bromuro d'argento.
• 1888 George Eastman, fonda la più grande industria fotografica, la Kodak, e realizza il primo rullo
fotografico basato su celluloide che permette di ottenere ventiquattro immagini 10x12.5 cm, i rulli
esposti con un apparecchio della stessa casa vengono, dalla Kodak, sviluppati e stampati, rendendo
la fotografia accessibile a chiunque, il suo motto era "voi premete il bottone, noi facciamo il resto".
• 1900 S’intensificano gli studi sulla fotografia del movimento che porteranno allo sviluppo del cinema,
di cui la fotografia è madre.
• 1904 I fratelli Lumière brevettano il sistema "autocrome". Nasce la fotografia a colori diretti.

Oggi la fotografia è alla portata di tutti, nel senso più ampio della parola, le macchine professionali sono
state affiancate da sistemi e fotocamere in grado di soddisfare ogni esigenza di qualità e prezzo. Le grandi
produzioni di massa e l'alta produttività industriale, unite ai progressi in campo chimico ed elettronico, hanno
permesso una riduzione dei costi, pellicole sempre più veloci e macchine maneggevoli. A questo si sono
aggiunte la velocità di trattamento delle pellicole e la comodità di avere subito stampe e diapositive,
favorendo un controllo immediato dei lavori eseguiti anche da parte di fotografi non specializzati.

1.3 La nascita del digitale

Infine la rivoluzione digitale degli ultimi anni ha completamente cambiato l’approccio che tutti noi abbiamo
con il mondo della fotografia.

Il progresso dell'elettronica permise di adottare alcune delle ultime scoperte anche nell'acquisizione delle
immagini. Nel 1957 Russel Kirsch trasformò una fotografia del figlio in un file attraverso un prototipo di
scanner d'immagine. Nel 1972 la Texas Instruments brevettò un progetto di macchina fotografica senza
pellicola, utilizzando però alcuni componenti analogici.

La prima vera fotografia ottenuta attraverso un processo esclusivamente elettronico fu realizzata nel
dicembre 1975 nei laboratori Kodak dal prototipo di fotocamera digitale di Steven Sasson.

Steven Sasson con la prima fotocamera digitale

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L'immagine in bianco e nero del viso di un’assistente di laboratorio fu memorizzata su un nastro digitale alla
risoluzione di 0.01 Megapixel (10000 pixel), utilizzando il CCD della Fairchild Imaging.

Le altre ricerche sulla fotografia digitale furono rallentate dai continui miglioramenti delle fotocamere a
pellicola, che proposero modelli sempre più semplici e comodi da usare, come la Konika C35 AF del 1977, il
primo modello di fotocamera totalmente automatica.
Solo quando le emulsioni fotografiche non permisero ulteriori miglioramenti e la tecnologia digitale raggiunse
un livello qualitativo equiparabile, allora l'interesse dei consumatori si trasferì sul nuovo procedimento.

Il digitale sostituì la pellicola nei settori dove la visione istantanea del risultato era un fattore determinante,
come nel giornalismo, che usufruì anche della facilità di trasmissione delle immagini via internet. Inoltre la
produzione di un gran numero di compatte digitali totalmente automatiche invase il mercato riscontrando il
favore del fotografo occasionale, che poté conservare e rivedere le immagini direttamente nella fotocamera.

Anche se il digitale è acclamato come una rivoluzione della fotografia, le regole per ottenere i migliori risultati
risalgono ai pionieri del XIX secolo, dove era importante una buona esposizione e un’attenta composizione
dell'immagine, regole che anche nell’era digitale non sono cambiate assolutamente!

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2. Nozioni fondamentali d’ottica

2.1 La luce

La materia prima del fotografo è la luce. È attraverso la luce che noi possiamo vedere le cose, nella loro
forma e nei loro colori, valutarne la dimensione e la distanza. La luce è energia, in particolare essa è una
radiazione elettromagnetica che ha la stessa natura delle onde radio, delle microonde, dei raggi X e dei
raggi (gamma), ne differisce solo per la lunghezza d'onda (o per la frequenza). La luce è caratterizzata da:

a - intensità, da cui dipende la luminosità (esempio: una candelina emette una luce debole, poco intensa o
luminosa, mentre un faro emette una luce forte, molto intensa o luminosa)

b - lunghezza d'onda (o frequenza), da cui dipende il colore (esempio: una luce rossa ha lunghezza d'onda
maggiore di una luce verde).

La luce, nel vuoto e nei materiali trasparenti, si propaga in linea retta. Ci sono situazioni in cui il cammino
rettilineo di un raggio di luce può essere deviato, si tratta dei seguenti fenomeni fisici:

a - riflessione, ogni qual volta la luce incontra un materiale su cui rimbalza

b - rifrazione, ogni qual volta la luce passa da un mezzo trasparente ad un altro mezzo trasparente (per
esempio un raggio di luce che prima attraversa aria e poi acqua, o vetro, o plastica, ecc.)

Si considerano due tipi fondamentali di riflessione:

a - quella su una superficie ruvida o opaca (per esempio un pezzo di carta, un muro, una stoffa)

b - quella su una superficie perfettamente levigata o lucida (per esempio uno specchio, un metallo liscio e
lucidato)

2.1.1 Riflessione su una superficie opaca

In questo caso noi osserviamo che il raggio incidente, dopo avere incontrato la superficie opaca, viene
rimbalzato in tutte le direzioni. E' per questo motivo che, anche stando all'ombra, possiamo essere illuminati.
Infatti la luce, pur non potendo raggiungerci con un cammino diretto dalla sua fonte (per esempio dal sole), ci
raggiunge indirettamente dopo essere stata rimbalzata dalla superficie degli oggetti (per esempio il suolo, le
case, le pareti, gli alberi). Il fenomeno della riflessione sulle superfici non lucide è utilizzato spesso dal
fotografo per fornire un’illuminazione morbida, ovverosia capace di creare delle ombre che non siano troppo
nette e dei contrasti attenuati. A volte questa luce risulta migliore di quella diretta che dà ombre dure e
contrasti violenti fra zone troppo chiare e zone troppo scure.

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2.1.2 Riflessione su una superficie lucida

In questo caso noi osserviamo che il raggio incidente, dopo avere incontrato la superficie opaca, viene
rimbalzato in una sola ben precisa direzione.

La legge della riflessione dice che l'angolo d’incidenza e l'angolo di riflessione sono sempre uguali.
Naturalmente per angolo d’incidenza s’intende quello fra il raggio incidente e la verticale, mentre per angolo
di riflessione s’intende quello fra il raggio riflesso e la verticale.

2.1.3 Rifrazione

Il secondo fenomeno fisico grazie al quale


si ha una deviazione del cammino
rettilineo di un raggio di luce è la
rifrazione, che si verifica quando un
raggio di luce passa da una sostanza
trasparente ad un'altra (per esempio
quando un raggio di luce si muove prima
nell'aria e poi nel vetro, oppure prima
nell'aria e poi nell'acqua).

Se osserviamo la figura possiamo notare


che l'angolo di rifrazione r1 è inferiore
all'angolo d’incidenza i1 e che il raggio
di luce, dopo avere attraversato la
superficie che separa l'aria dal vetro, si è
avvicinato alla verticale. Le cose non
vanno sempre così, ci sono situazioni in

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cui il raggio rifratto invece di avvicinarsi alla verticale se n’allontana. E' il caso in cui la luce passa da un
mezzo più denso ad uno meno denso.

a - se un raggio di luce passa da un mezzo meno denso ad uno più denso si avvicina alla verticale (dall'aria
all'acqua o dall'aria al vetro)

b - se un raggio di luce passa da un mezzo più denso ad uno meno denso si allontana dalla verticale
(dall'acqua all'aria, o dal vetro all'aria)

2.2 La temperatura cromatica

Un bambino disegna prima il contorno degli oggetti, poi li riempie con un colore, per traslato egli crede che il
colore sia una caratteristica intrinseca delle cose, quasi uno strato che gli è attaccato sopra. Sappiamo che
in realtà i colori sono dati dalle diverse lunghezze d'onda: se una stoffa ci appare rossa è perché riflette
quella lunghezza d'onda assorbendo le altre, così è per gli altri colori. Quando si sceglie, ad esempio una
stoffa e meglio uscire dalla merceria alla luce del sole per una migliore valutazione, pur non essendo
fotografi si deve sapere che il colore di un oggetto è condizionato dal tipo di luce che lo colpisce. Ma nel
corso della giornata la luce del sole cambia, al tramonto è più calda, rossa, arancio o dorata, mentre sotto un
cielo nuvoloso un panorama apparirà plumbeo e bluastro, anche queste variazioni dipendono
dall'abbondanza o scarsità delle relative lunghezze d'onda.

Semplificando diciamo che la miscela delle lunghezze d'onda determina la temperatura cromatica della luce
che è misurata in gradi Kelvin (K). Quando mettiamo gli occhiali da sole per qualche tempo percepiremo il
mondo colorato con lo stesso colore delle lenti, successivamente non vi faremo più caso: questo significa
che l'occhio rimane facilmente ingannato sull’effettiva temperatura colore poiché in presenza di sfasature il
cervello tende a ricostruire una scala simile a quella dello spettro solare. Per il fotografo invece è
estremamente importante conoscere l'effettiva temperatura cromatica di una sorgente luce o di una luce
ambiente per mettersi al riparo da risultati inattesi e per esercitare un controllo fine sulla resa dei colori. Le
pellicole non dispongono di alcun sistema d’autocompensazione nei confronti delle variazioni di temperatura
cromatica e sono prodotte in due tipi: pellicole day light tarate sulla luce del sole e dei flash elettronici, e
pellicole per luce artificiale, tarate per sorgenti luce di 3.200° K, in pratica le lampade utilizzate in studio dai
professionisti.

La stessa immagine fotografata con pellicole e luci differenti da risultati evidentemente anche molto differenti

2.3 Il bilanciamento del bianco

Oggigiorno con la diffusione delle camere digitali possiamo disporre di un potente strumento di controllo
della temperatura colore: il bilanciamento del bianco.

Facciamo un esempio: distesa di neve. Generalmente la


consideriamo un manto bianco, e così è descritta dai poeti.
Ma se guardiamo più attentamente, ci accorgiamo della
dominante rosa (all'alba), oppure blu (se il cielo si è messo al
brutto) che serpeggiano nel bianco della neve.

Alla fotocamera digitale tutte queste sottili variazioni di colore


non sfuggono, ma è l'interpretazione che ne fa che è diversa
da quella dell'occhio umano. Potremmo così ritrovarci con
immagini, sul monitor o in stampa, ben diverse da quelle che
ci aspettavamo.

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Nelle fotocamere digitali appositi sensori si occupano della misurazione della temperatura colore e del
bilanciamento del bianco. Cercano, cioè, di produrre nell'immagine un bianco puro e, di riflesso, sfumature di
colore corrette. Se nel bianco c'è una quota di verde - "pensa" la fotocamera - questa si ripeterà anche sulle
altre tinte dell'immagine, quindi occorre sottrarre quella quota in tutta la foto. Troppo complicato? Niente
paura, nella maggior parte delle situazioni di ripresa è la fotocamera digitale ad occuparsi, in automatico, del
bilanciamento del bianco e a fornirci immagini fedeli al soggetto.

Ma non è sempre così. Pensiamo, ad esempio, ad un interno in cui sono presenti diversi tipi d’illuminazione:
qualche raggio di sole che filtra dalla finestra, una lampada da tavolo, una luce alogena, ecc. E' possibile che
in una circostanza come questa vada in crisi l'automatismo per il bilanciamento del bianco. La fotocamera
non riuscirà a restituirci immagini fedeli della scena. A questo punto sta al fotografo riconoscere la situazione
complessa e intervenire sul menu della macchina fotografica digitale selezionando l'opzione di bilanciamento
del bianco più corretta: notte, tungsteno, neon, ecc..

2.4 La luce dal punto di vista del fotografo

Alla domanda "che cosa è la luce?" si potrebbe rispondere in modi molto diversi, poiché qui parliamo di
fotografia riformulerò la domanda in termini più precisi: "che cosa significa la luce per il fotografo?".
La luce è il mezzo fotografico dominante, il fattore singolo fondamentale per l'esecuzione e la riuscita di una
fotografia, e non solo per quanto riguarda l'esposizione tecnicamente corretta.
È infinitamente variabile e duttile e in casi specifici alcune delle forme in cui si manifesta consentono più
d’altri buoni risultati, in altre parole il fotografo deve fare una scelta, la luce non è sempre uguale, esistono
differenze importanti a proposito di qualità come luminosità, direzione, diffusione, contrasto, colore,
disposizione e numero delle sorgenti luminose.
Per sfruttare al meglio l'enorme potenziale di questo mezzo, il fotografo deve imparare a valutarla non solo
quantitativamente ma anche qualitativamente, prima di scattare ci si dovrebbe porre queste tre domande:

• che tipo di luce ho a disposizione?

• che tipo di luce, in questa situazione mi può dare i risultati migliori?

• che tipo di luce posso ottenere, date le circostanze e i mezzi a disposizione?

Possiamo dividere grossomodo in tre grandi categorie “compositive” la luce che abbiamo a disposizione:

2.4.1 Illuminazione normale


È la luce d’ogni giorno, la luce del sole dal mattino al pomeriggio, o la luce di un cielo coperto, la solita
illuminazione d’interni, in altre parole il tipo di luce a cui siamo abituati.
Questo tipo di luce dà, di solito, i risultati migliori quando si richiedono chiarezza, naturalezza e
riconoscibilità (per esempio nelle istantanee di famiglia o nelle foto ricordo) ma raramente si presta alla
creazione di fotografie graficamente significative e pregnanti.

Il soggetto è interessante, ma la luce assolutamente normale

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2.4.2 Illuminazione insolita


È l'esito di una luce, che per quanto non "anormale", può essere definita rara nel senso che non è abituale
nella realtà o nella fotografia, vale a dire la luce laterale bassa e radente che all'inizio o alla fine del giorno
proietta ombre lunghe ed espressive, i cieli infuocati del tramonto, la luce delicata, perlacea, tipica delle
giornate di pioggia, di foschia o di nebbia.
Caratterizzate da quest’illuminazione sono anche la maggior parte delle fotografie scattate con l'apparecchio
puntato direttamente verso la sorgente luminosa.
Questo tipo di luce si presta particolarmente alla creazione d’immagini che aggrediscono l'occhio, che
devono staccarsi dalla massa delle foto normali e lasciare impressioni indelebili.

Il tramonto è un classico momento per cogliere una luce che chiameremo insolita

2.4.3 Illuminazione fantastica


È una luce che colpisce chi osserva la fotografia. È una luce anomala difficilmente riscontrabile e
fotografabile, è per esempio la luce emessa da una fiamma ossidrica che trasforma la banale operazione di
saldatura in una scena infernale, la vampa accecante di una colata d'acciaio.
L'illuminazione fantastica non ha regole e rappresenta tutto quanto c'è d’anormale nel campo della luce. A
volte è quasi impossibile dare un giudizio unanime su di una fotografia di questo tipo, quello che per alcuni
è un capolavoro per altri è un fiasco totale.

Una luce che “non c’è”! Una lunghissima esposizione riesce però a mostrarcela ed a creare un’atmosfera fantastica

Si può senz'altro dire che la luce è ben più complessa di quanto può rilevare la lettura di un esposimetro,
un'esposizione corretta è senza dubbio la premessa per la riuscita di una fotografia ma l'immagine che si

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ottiene può essere quanto mai banale, è quasi sempre il carattere dell'illuminazione (e non l'esposizione
corretta) che daimmagine finale quel tocco unico che fa di una fotografia una fotografia speciale, unica.

Proprio per questi motivi un buon fotografo è anzitutto un buon osservatore, proviamo nella vita d’ogni giorno ad
individuare situazioni dove la luce è interessante, piano, piano miglioreremo anche i nostri scatti.

2.5 Le lenti convergenti

Le lenti sfruttano il fenomeno fisico della rifrazione e deviano i raggi di luce in un modo molto particolare.
Nell’illustrazione, sulla sinistra della lente osserviamo un fascio di raggi paralleli, si tratta della luce incidente.
A destra invece, osserviamo i raggi che, dopo avere attraversato la lente, sono stati deviati in modo da
andare a convergere tutti quanti in un punto detto fuoco, che è situato su un piano, detto piano focale.
Questa è la lente convergente o biconvessa. Essa è caratterizzata da una certa distanza fra il fuoco e la
lente stessa, tale distanza si chiama lunghezza focale ed è normalmente indicata con una lettera "elle".

2.6 Le lenti divergenti

Nell’illustrazione, sulla sinistra della lente osserviamo un fascio di raggi paralleli, si tratta della luce incidente.
A destra invece, osserviamo i raggi che, dopo avere attraversato la lente, sono stati deviati in modo da
allontanarsi l'uno dall'altro, ovverosia da divergere.

In questo caso i raggi non s’incontrano mai in un punto reale e quindi non possiamo dire che esiste
veramente un fuoco. Se però noi disegniamo i prolungamenti dei raggi, ci accorgiamo che questi
s’incontrano in un punto detto fuoco immaginario o virtuale. Anche in questo caso, allora, possiamo parlare
di piano focale e di lunghezza focale.

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Lenti convergenti (ca. 1800)

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3. La macchina fotografica (SLR)

Iniziamo questa parte accennando alla struttura dell'occhio umano, per poi mostrare come la macchina
fotografica sia una sua imitazione tecnologica. L'uomo percepisce la luce attraverso l'occhio. Davanti c'è una
lente, detta cristallino, che ha la straordinaria capacità di potersi deformare e di cambiare la sua lunghezza
focale secondo il bisogno (per guardare cose vicine o lontane). Anteriormente al cristallino si trova l'iride (la
parte colorata in bruno, azzurro, verde...), che delimita un foro detto pupilla (che appare nero). Tutti
possiamo notare facilmente che la pupilla si allarga o si restringe a seconda delle condizioni di luce
ambientale (ampia con poca luce, stretta con tanta luce). Internamente all'occhio, nel bulbo, c'è un liquido
perfettamente trasparente, detto umor vitreo, e in fondo c'è la retina, che è la parte sensibile alla luce. La
retina si trova sul piano focale del cristallino, in modo da poter mettere a fuoco le immagini.

1. obiettivo
2. corpo macchina
3. pentaprisma
4. ghiera per la messa a fuoco
manuale
5. ghiera per la impostazione
manuale del diaframma
6. leva per il recupero della pellicola
7. interruttore generale
8. zoccolo/contatto per la
applicazione del flash
9. mirino
10. leva per l'avanzamento della
pellicola
11. contapose
12. regolazione dei tempi di
esposizione
13. impostazione della sensibilità della
pellicola

La macchina fotografica, come abbiamo già detto, è strutturata ad imitazione dell'occhio umano. Essa, infatti,
è costituita da un recipiente vuoto, detto corpo macchina [2] (paragonabile al bulbo) che ha, nella parte
anteriore, un sistema di lenti detto obiettivo (paragonabile al cristallino) [1] e che ospita, nella parte interna
posteriore, detta magazzino, un materiale fotosensibile detto pellicola (paragonabile alla retina).

La macchina fotografica ha un dispositivo che si apre e si richiude al momento dello scatto e permette alla
luce di entrare, per un attimo, e di impressionare la pellicola. Si tratta dell'otturatore (paragonabile alla
palpebra).

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C'è poi un diaframma (paragonabile all'iride), situato nell'obiettivo, che ha un forellino che può allargarsi o
restringersi (paragonabile alla pupilla), facendo così entrare più o meno luce, il quale serve per adattarsi alle
condizioni di luce ambientale (diaframma più aperto quando c'è poca luce, diaframma più chiuso quando c'è
tanta luce). C'è un mirino che consente al fotografo di inquadrare l'immagine da fotografare. C'è un
dispositivo per la messa a fuoco dell'immagine, a seconda della distanza che intercorre fra la macchina
fotografica e il soggetto da fotografare. C'è un pulsante di scatto, che consente al fotografo di decidere
l'istante esatto in cui deve essere effettuata la foto, ed infine, c'è una leva di trascinamento della pellicola.

3.1 Le parti fondamentali dell’apparecchio fotografico

1. obiettivo
2. corpo macchina
3. magazzino (è la parte in cui è alloggiata la pellicola)

Una caratteristica fondamentale del modello SLR (single lens reflex = reflex con un solo obiettivo) è la
seguente:

quando il fotografo guarda nel mirino vede attraverso l'obiettivo, pertanto egli ha una visione esatta
dell'immagine che sarà registrata sulla pellicola al momento dello scatto.

In altre macchine questo non accade, poiché l'immagine nel mirino non viene dall'obiettivo, ma da una
piccola finestrina sulla parte anteriore della macchina, in corrispondenza del mirino stesso.
Conseguentemente l'immagine nel mirino è spostata di qualche centimetro rispetto a quella che
impressionerà la pellicola. Quando si fotografa un paesaggio questo non è un problema, ma quando si
fotografano oggetti piccoli e vicini questo può essere un problema.

Questa caratteristica delle SLR è possibile grazie ad un sistema di riflessioni che mandano fin dentro il
mirino il raggio proveniente dall'obiettivo. Per ottenere questo scopo, ci sono dentro la macchina:

a - un pentaprisma
b - uno specchietto

1. obiettivo
2. specchietto nella posizione a riposo (inclinato
a 45°)
3. specchietto durante lo scatto (in posizione
sollevata)
4. pentaprisma
5. mirino
6. otturatore
7. pellicola
8. diaframma
9. percorso del raggio luminoso (linea
tratteggiata)

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Osservando lo schema di una SLR si può vedere quale è il cammino della luce (9, linea tratteggiata)
dall'obiettivo fino al mirino. In pratica ci sono tre riflessioni, una nello specchietto e due nel pentaprisma. Si
tenga presente che:

a - dopo avere attraversato l'obiettivo l'immagine è rovesciata


b - dopo essere stata riflessa dallo specchietto l'immagine è diritta
c - dopo la prima riflessione nel pentaprisma l'immagine è rovesciata
d - dopo la seconda riflessione nel pentaprisma l'immagine è diritta e può essere osservata dal fotografo

Ovviamente in questo modo la luce proveniente dall'obiettivo non potrebbe mai colpire la pellicola, perché è
deviata verso l'alto dallo specchietto (2). Pertanto, al momento dello scatto, lo specchietto si alza (3) in
contemporanea con l'apertura dell'otturatore, e per un istante il raggio di luce non è rimbalzato verso l'alto,
ma procede diritto e colpisce la pellicola, impressionandola.
Normalmente le SLR (quelle per il formato 35 mm) hanno il corpo macchina e il magazzino uniti in un unico
pezzo.
Quasi sempre le SLR hanno l'ottica intercambiabile, ovverosia gli obiettivi possono essere staccati dal
corpo macchina e cambiati con altri obiettivi (normali, grandangolari, teleobiettivi, macro...).

3.2 La camera oscura

Subito dietro l'obiettivo si trova la camera oscura vera e propria, è ricoperta di materiale a bassissimo potere
riflettente, in genere verniciata in nero opaco con una sorta di laminatura inclinata per assorbire tutti quei
raggi di luce non direttamente interessati alla formazione dell'immagine. Essa deve essere sempre protetta
dalla polvere (non riporre mai una macchina senza obiettivo o senza l'apposito coperchio).

1. leva di controllo della profondità di campo


2. timer meccanico dell’autoscatto
3. pulsante di sblocco per smontare l’obiettivo

Lo specchio, il vetrino di messa a fuoco ed il pentaprisma sono tre elementi


caratteristici delle reflex poiché consentono di sfruttare l'obiettivo per inquadrare
e per focheggiare, nello spaccato si vede la loro posizione nel sistema ed il
percorso compiuto dall'immagine (luce).

Alcune fotocamere consentono la sostituzione dei vetrini o schermi di messa a fuoco, essi sono scelti in
relazione al tipo di fotografia che si fa abitualmente o sulla base di preferenze personali. Il più diffuso è lo

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stigmometro con immagine spezzata. Lo schermo di messa a fuoco con il reticolo è utilizzato in particolare
per riprese d’architettura.

Lo specchio è inclinato a 45° con il piano pellicola e con il vetrino così che quando l'immagine appare nitida
su questo ultimo, lo sarà anche sulla pellicola quando si scatta, in quel momento lo specchio si alza
avvicinandosi al vetrino e la tendina si apre per esporre la pellicola.

Caratteristico il black-out delle reflex durante l'esposizione. Subito dopo lo specchio ritorna in posizione
consentendo la visione. Il rumore che si sente durante lo scatto proviene in massima parte dal movimento
dello specchio, l'impatto produce uno sciame di vibrazioni, nonostante il sistema d’ammortizzamento.

3.3 Il dorso

E’ opposto all'obiettivo e corrisponde al fondo dell'occhio, esso è in genere incernierato al corpo macchina in
modo da consentire l'accesso al vano pellicola.

Tutto attorno all’elemento ribaltabile si trova una scanalatura riempita di feltro nero che va a chiudersi su un
corrispondente filo a sbalzo, il sistema consente di ottenere agevolmente la chiusura stagna alla luce.

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3.4 Il pressapellicola

E’ posto sulla parte interna del dorso ed ha il compito di esercitare una


moderata pressione sulla pellicola in modo da tenerla ben piana contro la
finestra da cui entra l'immagine.

Tale pressione è fornita da due


mollette.

3.5 L'otturatore

Tutte le reflex 35 mm dispongono di un otturatore sul piano focale, Questo serve per distinguerle dalle
fotocamere con l'otturatore nell'obiettivo e non a ridosso della pellicola, queste ultime vengono definite ad
otturatore centrale.

Il funzionamento di un otturatore a tendina è relativamente semplice: paragoniamolo ad una finestra su cui è


montata una tenda doppia, il primo telo (rosso) è avvolto attorno ad un bastone verticale sulla destra della
finestra stessa, il secondo (blu) è completamente steso, un lembo è sovrapposto alla prima tenda e l'altro è
attaccato ad un bastone (attorno al quale si avvolgerà), posto sulla sinistra della finestra. Questa posizione
corrisponde al momento in cui la macchina è pronta a scattare.

Con il clic il telo blu si avvolge attorno all'asse ricevente, la finestra si scopre: la pellicola riceve la luce che
compone l'immagine, infatti questo momento si chiama esposizione.

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Terminato il tempo d’esposizione il telo rosso si svolge fino a raggiungere quello blu e la finestra tornerà ad
essere coperta.

Per ricaricare l'otturatore senza scoprire nuovamente la finestra sarà sufficiente tirare indietro le due tende
contemporaneamente, questo movimento comandato dalla leva di carica, fa avanzare contemporaneamente
la pellicola della quantità necessaria per una nuova fotografia.

Lo scorrimento orizzontale delle tendine è piuttosto


desueto. Le tendine allora sono state sostituite da una
serie di lamine metalliche sottilissime che si aprono e
chiudono come una veneziana consentendo tempi di
scorrimento più rapidi. I materiali impiegati nelle ultime
generazioni sono acciai, leggeri e resistentissimi.

Il tempo dell'esposizione viene impostato mediante


una ghiera di selezione, solitamente posta sul castello
del corpo macchina, fra il pentaprisma e la leva
d’avanzamento della pellicola.

Sulla ghiera dell’immagine, i numeri gialli indicano i


secondi, quelli bianchi le frazioni di secondo mentre il
valore riportato in rosso è il tempo d’esposizione più
veloce utilizzabile con un flash, M90 indica il tempo
meccanico, cioè l'unico tempo possibile in assenza di
pile e la scritta verde AUTO serve a selezionare
l'esposizione automatica.

Nel nostro caso il tempo impostato è di 1/125° di


secondo. Il cerchio tagliato in basso a sinistra indica il
piano su cui giace la pellicola.

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Alcune vecchie camere presentano anche i valori B e T: con B l'otturatore rimane aperto per tutto il tempo in
cui si esercita la pressione sul pulsante di scatto, mentre nel più raro comando T l'otturatore si apre al primo
clic e rimane aperto finché non si schiaccia nuovamente. Il nome della posa B deriva da Bulb, lo scatto
pneumatico utilizzato dagli avi per far scattare i primi otturatori. La posa T deriva da Time.

I corpi macchina meccanici dispongono di sistemi ad orologeria per comandare le tendine, mentre le camere
d’ultima generazione dispongono d’otturatori elettronici, questi sono ovviamente più precisi, ma presentano
l'inconveniente di non funzionare senza pile

3.6 Costruzione e sperimentazione di un apparecchio fotografico

Potremmo definire questo apparecchio fotografico con il nome di barattolo ottico o scatola fotografica.

Prendiamo un barattolo (per esempio quello dell'ovomaltina), o una scatola delle scarpe, foderiamo l'interno
sia della scatola che del coperchio con carta adesiva nera, controlliamo che non vi penetri nemmeno un filo
di luce.

Prestare attenzione alla completa impermeabilità alla luce della scatola.

Dopo di ciò nel coperchio, esattamente nel centro, facciamo un piccolo buco con uno spillo (foro
stenopeico), questo sarà il nostro obiettivo.

Il nostro barattolo ottico è pronto, basta solo caricarlo con del materiale sensibile e fare degli esperimenti sul
tempo d'esposizione, i risultati saranno sorprendenti.

Il negativo così prodotto

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Immagine fotografata con un apparecchio autocostruito, l'originale è un negativo bianco/nero che in seguito è stato ingrandito per
ottenere un risultato decisamente valida se si considerano le condizioni "tecniche" di ripresa

Questo piccolo esercizio ci dimostra come il principio della fotografia sia molto semplice e dunque le
sofisticazioni non porteranno a nulla se nelle nostre fotografie non metteremo un po' di "anima".

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4. I formati delle pellicole

4.1 Il 35 mm (o 135)

Il formato di pellicola che tutti conoscono è il cosiddetto 35 mm, in quanto la sua altezza è, appunto, di 35
mm. In realtà questa pellicola non nacque per la fotografia, ma per il cinema. E' per questo scopo che essa
fu dotata di forellini, infatti questi servivano per poter agganciare la pellicola agli ingranaggi del meccanismo
di trascinamento. I fotogrammi avevano una dimensione di 18 mm x 24 mm.

In seguito, qualcuno decise di inventare una macchina fotografica che potesse utilizzare la stessa pellicola
del cinema, ma, al fine di ottenere immagini con una migliore definizione dei particolari, la progettò in modo
che i fotogrammi fossero grandi il doppio rispetto a quelli del cinema, cioè 24 mm x 36 mm.

Da allora la tecnologia si è evoluta moltissimo, ma si continua ad utilizzare la pellicola 35 mm (detta anche


135) e i fotogrammi 24 x 36.

4.2 Apparecchi “compatti” che utilizzano la pellicola 135

La macchina compatta è la più diffusa in assoluto per ritrarre momenti di vita che devono essere ricordati
(compleanni, feste...). La macchina compatta, generalmente, ma non necessariamente, ha un piccolo
obiettivo (fuoco fisso o autofocus), ha, quasi sempre, diaframma e tempo di esposizione fissi, in pratica il

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fotografo dovrà solo inquadrare e scattare, senza preoccuparsi di nient'altro, ma le foto saranno
soddisfacenti solo se prese a distanze medie e in condizioni di luce buone (all'aperto, con luce diurna).

Spesso queste macchine montano un flash incorporato. Una delle caratteristiche principali delle macchine
compatte è la presenza del mirino a visione diretta. In questo modo, il fotografo vede attraverso un mirino
che è spostato di qualche cm rispetto a ciò che vede l'obiettivo (errore di parallasse), ciò costituisce un
problema se si fotografano dei soggetti vicini, mentre l’errore diventa trascurabile se il soggetto da
fotografare è lontano.

4.3 Apparecchi SLR 135 mm (reflex)

1. obiettivo
2. specchietto nella posizione a riposo
3. specchietto durante lo scatto
4. pentaprisma
5. mirino
6. otturatore
7. pellicola
8. diaframma
9. percorso del raggio luminoso (linea
tratteggiata)

Come abbiamo già spiegato, il modello SLR ha il vantaggio di mostrare al fotografo, attraverso il mirino,
proprio l'immagine che passa dall'obiettivo e che sarà impressa sulla pellicola, non c'è errore di parallasse.
Le SLR hanno anche il vantaggio di poter cambiare gli obiettivi, montando così grandangolari, normali, tele o
macro, a seconda delle esigenze del momento. Le SLR hanno tutte le regolazioni del diaframma, del tempo
di esposizione e della messa a fuoco, permettendo al fotografo di scattare in tutte le condizioni di luce e a
qualsiasi distanza. In genere queste macchine montano anche un sistema esposimetrico per misurare la
luce.

La SLR di piccolo formato è la tipica macchina del fotoreporter, o del fotografo viaggiatore, insomma, è la
macchina professionale per colui che si muove molto in cerca dei suoi soggetti, anche in luoghi disagevoli.
Per quanto riguarda la fotografia in studio (ritratto, modelle, still-life...) la SLR 35 mm spesso è sostituita dai
formati più grandi.

4.4 Il medio formato (o 120)

Naturalmente, rispetto alle pellicole dei pionieri della fotografia, il formato 135 è molto piccolo, e neanche il
miglioramento della tecnologia può impedire che, con un forte ingrandimento, l'immagine finisca per
sgranare e perdere la definizione dei particolari. E' per questo che i fotografi esigenti, o i professionisti che
necessitano di un'alta qualità, hanno sentito il bisogno di formati più grandi. E' così stata inventata la pellicola
detta di "medio formato" (o 120).

Essa ha alcune differenze fondamentali rispetto alla 135. Innanzitutto ha un'altezza di 6 centimetri (61 mm
per l'esattezza), poi non ha i forellini, infine non è contenuta in una scatola metallica, ma è semplicemente
avvolta intorno ad un supporto di plastica, insieme con un striscia di carta nera che ha la funzione di
proteggerla dalla luce.

Su questa pellicola, sono possibili fotogrammi di formato diverso, secondo il magazzino utilizzato, in pratica:

cm: 6 x 4,5 - 6 x 6 - 6 x 7 - 6 x 9

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Nell'immagine sopra osserviamo due tipi di fotogramma, il 6x4,5 e il 6x6, entrambi messi a confronto col
fotogramma del formato 135 (cioè il 24x36). Come possiamo notare il medio formato offre fotogrammi assai
più grandi, che danno la possibilità di mantenere una buona qualità dell'immagine, specialmente una buona
definizione dei particolari, anche negli ingrandimenti
maggiori.

La maggior parte di queste macchine a medio formato


(120), sono SLR a tutti gli effetti, perché, come le loro
sorelle minori di piccolo formato, adottano la tecnologia
reflex, hanno tutte le funzioni, l'esposimetro, il
pentaprisma, prevedono il cambio degli obiettivi, ecc..

Le più famose nel mondo sono le svedesi Hasselblad e le


giapponesi Zenza Bronica.

Una delle caratteristiche fondamentali di queste macchine,


non posseduta dal piccolo formato, è la possibilità di
cambiare non solo l'obiettivo, ma anche il magazzino.
Pertanto su uno stesso corpo macchina è possibile
montare magazzini diversi (potendo così effettuare
fotografie 6x4,5 o 6x6 o 6x7 con la stessa macchina).

Un'altra caratteristica di molte macchine di medio formato è quella di avere il mirino a pozzetto, in cui il
fotografo guarda generalmente dall'alto verso il basso.

Esiste una celebre macchina di medio formato che è stata usata da molti fotografi
professionisti per tanti anni. Si tratta della Rolleiflex. La sua caratteristica principale è
quella di essere una reflex binoculare, ovverosia di avere due obiettivi di cui uno,
quello superiore, serve per portare l'immagine al mirino a pozzetto ed è utilizzato dal
fotografo per inquadrare e mettere a fuoco, l'altro, quello inferiore porta l'immagine
alla pellicola. Ovviamente si ripresenta il problema dell'errore di parallasse, ma questo
non ha impedito alla Rolleiflex di essere una macchina d’alta qualità.

4.5 Le pellicole piane

Si chiamano pellicole piane quelle che non sono avvolte, formando così un rotolino, ma che sono preparate
in forma di lastre piane. In pratica ogni pellicola fornisce un solo fotogramma, a differenza dei rullini 135 e
120 che forniscono molti fotogrammi. Queste pellicole sono usate per un genere di macchina fotografica
professionale detta "banco ottico", ed hanno dei fotogrammi di dimensioni molto grandi, per questo sono
anche definite di grande formato. Ecco alcune delle possibili misure del grande formato:

cm 10 x 12 - 13 x 18 - 20 x 25

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La qualità dell'immagine e la definizione dei particolari che si può ottenere con queste pellicole è eccezionale
e adatta a lavori d’alta professionalità.

4.6 Il grande formato (banco ottico)

Ancora oggi, il design delle vecchie fotocamere dei pionieri


della fotografia è utilizzato nel cosiddetto banco ottico, più
moderno e sofisticato, ma sempre montato su un ingombrante
cavalletto e caratterizzato da un soffietto nero a fisarmonica.

Questo grosso e ingombrante apparecchio, è il principe della


fotografia in studio e, specialmente, del cosiddetto still-life
(natura morta), ovverosia della ripresa d’oggetti inanimati.
Qualche volta è usato anche per la fotografia architettonica
perché il banco ottico consente di correggere le deformazioni
prospettiche.

La definizione dei particolari che si ottiene è tale da consentire


ingrandimenti notevoli, anche poster giganti, senza perdere
minimamente la qualità dell'immagine. Negli anni '30, '40, '50 il
fotografo Ansel Adams, utilizzando il banco ottico, ha ripreso i
parchi naturali americani producendo alcune delle più belle
immagini di paesaggio, mentre Robert Mapplethorpe, sempre
col banco ottico, negli anni '70, '80 ha prodotto alcune fra le
più belle fotografie del corpo umano e dei fiori.

Ansel Adams “Monn and Half Dome” Ansel Adams “Aspens – Vertical”

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Robert Mapplethorpe - Calla Lily 1984

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5. Gli obiettivi fotografici

5.1 Lunghezza focale di un obiettivo

Ricordiamo adesso alcune nozioni elementari d’ottica e, in particolare, il concetto di lunghezza focale.

Come già sappiamo si chiama lunghezza focale la distanza fra una


lente e il suo piano focale, ovverosia il piano su cui si trovano i
fuochi, punti di convergenza dei raggi luminosi. Nella figura a lato
vediamo illustrato il concetto di lunghezza focale riferito ad una
singola lente, ma esso può essere esteso anche ad un obiettivo, che
è, in realtà, un complesso sistema di più lenti.

Insomma, si può tranquillamente parlare di lunghezza focale di un


obiettivo, che sarà ovviamente la distanza fra il centro ottico
dell'obiettivo e il suo piano focale dove ovviamente è posizionata la
pellicola.

Il punto di fuoco sarà più distante negli obiettivi di lunga focale dove la lente ha spessore e curvatura minori
mentre sarà più vicino negli obiettivi di corta focale dove la lente ha spessore e curvatura più accentuati.

5.2 Angolo visivo di un obiettivo

Se chiudiamo un occhio e con l'altro guardiamo davanti, ci accorgiamo facilmente che non abbiamo una
visione globale a 360 gradi intorno a noi, bensì che il nostro campo visivo, o angolo visivo, ha una
ampiezza di circa 45 gradi. Nelle macchine fotografiche, viene montato spesso un obiettivo che ha un angolo

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visivo intorno ai 45 gradi e che viene chiamato obiettivo normale. Esso vede, più o meno, come l'occhio
umano.

Angolo di campo dell’obiettivo normale

Il concetto di focale normale è legato al formato del negativo. Infatti quando la lunghezza focale è uguale alla
diagonale del negativo che deve coprire si definisce normale. Per esempio in una pellicola 35mm la
diagonale misura 43mm ed infatti nel sistema 35mm l’ottica standard e’ il 50mm (per l'esattezza sarebbe il
45).

In un negativo più grande di un medio formato come ad esempio il 6x6 per avere una copertura di 50° quindi
per definizione “normale” l’ottica standard o focale normale è di 80mm in quanto la diagonale del negativo è
di circa 85mm.

Possiamo quindi affermare che più piccolo è il formato del negativo minore è la lunghezza focale
necessaria a coprire un determinato angolo di visuale.

5.3 Obiettivo grandangolare

Chi possiede una SLR può montare su essa un obiettivo che vede molto più largo, ovverosia che ha un
angolo visivo superiore ai 45 gradi. Si può arrivare a 60, 90, in casi estremi anche a 180 gradi.

Un obiettivo di questo genere non vede certo come l'occhio umano e lo si definisce obiettivo
grandangolare. Guardando attraverso si abbraccia un panorama più ampio di quello colto dall'occhio, ma i
singoli oggetti risulteranno rimpiccioliti.

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Angolo di campo dell’obiettivo grandangolare

5.4 Teleobiettivo

Un obiettivo che ha un angolo visivo inferiore ai 45 gradi, cioè 30, 15, in casi estremi anche 6 gradi, è
definito teleobiettivo. Guardando attraverso si abbraccia un panorama più stretto di quello colto dall'occhio,
ma i singoli oggetti risulteranno ingranditi.

Angolo di campo del teleobiettivo

5.5 Obiettivo zoom

Esistono alcuni obiettivi la cui lunghezza focale è variabile fra due estremi. Essi si chiamano zoom, a causa
dell'effetto di spostamento che producono quando si varia rapidamente la loro lunghezza focale.

Esistono degli zoom che variano da un leggero grandangolare ad un modesto teleobiettivo: per esempio il
28-80. Altri che vanno da un modesto teleobiettivo ad un teleobiettivo medio: per esempio il 70-210.
Ricordiamoci allora che gli obiettivi possono essere a focale fissa o zoom (a focale variabile).

Attenzione a non confondere le espressioni focale fissa e fuoco fisso, che hanno significati completamente
diversi. La prima si riferisce alla lunghezza focale di un obiettivo, la seconda al fatto che alcune macchine
compatte di costruzione molto semplice non hanno alcun dispositivo per la messa a fuoco, né manuale né
automatico.

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Angolo Lunghezza focale Effetto Distanza Profondità di


visivo minima di campo
messa a fuoco
(per il formato 35
mm)

GRANDANGOLARE Più di 45 Meno di 50 mm Vede ampi panorami e Meno di mezzo Grande


gradi rimpicciolisce gli oggetti metro
E' facile mettere
a fuoco

NORMALE 45 gradi 50 mm Vede come l'occhio umano Mezzo metro Media


circa

TELEOBIETTIVO Meno di 45 Più di 50 mm Vede panorami stretti e Più di mezzo Piccola


gradi ingrandisce gli oggetti metro
E' difficile
mettere a fuoco

In questa semplice tabella riassuntiva, possiamo notare le principali caratteristiche degli obiettivi fotografici
che andremo ad usare.

5.6 Il diaframma (luminosità dell'obiettivo)

5.6.1 Com'è fatto

Il diaframma sostanzialmente è un foro a diametro variabile posto all'interno degli obiettivi una delle sue
funzioni è di regolare la luminosità (lux) dell'immagine che si forma sul piano focale, insieme ai tempi di
scatto determina la quantità totale della luce che raggiunge la pellicola. L'altra funzione importantissima è
quella di determinare la profondità di campo.

5.6.2 La luminosità e la progressione dei diaframmi

Va da sé che un diaframma grande lascia passare più luce di uno piccolo e viceversa, ma la luminosità
dell'immagine che si forma sul piano focale dipende anche dalla lunghezza focale, occorre dunque mettere
in relazione le due variabili attraverso un rapporto.

La luminosità di un obiettivo corrisponde al diaframma più largo: un obiettivo di focale 50 mm. con
un'apertura di 25 mm ha una luminosità relativa di f/2, infatti:

Il numero del diaframma indica quante volte il diametro di quel foro sta nella lunghezza focale dell'obiettivo.

f = focale dell’obiettivo : diametro del foro

Per cui essendo il diametro del foro al denominatore appare evidente una prima considerazione, e cioè che
più il numero del diaframma (f) è piccolo, più il diametro del foro è grande.

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f/2

f/4

Alcuni esempi:
obiettivo grandangolare: lunghezza focale 28 mm, diaframma 8 uguale ad un’apertura di 3.5 mm
teleobiettivo: diaframma 22, apertura di 13.63 mm uguale ad una lunghezza focale di 300 mm

Un obiettivo da 200 mm per avere una luminosità f/2 dovrebbe avere un'apertura di 10 cm, mentre per f/4
bastano solo 5 cm, dunque anche le relative lenti avrebbero queste dimensioni, il che spiega perché gli
obiettivi molto luminosi sono molto costosi, infatti una lente di 10 cm di diametro costa molto, molto di più di
una di soli 5 cm.

Prendiamo in esame una progressione di diaframmi:

2 2.8 4 5.6 8 11

Vediamo cosa succede in pratica (poniamo che l'obiettivo sia un 50 mm.):

• a f/2 il foro misura 25 mm. di diametro quindi la sua superficie è:

raggio al quadrato x 3,14 = 12,5 2 x 3,14 = mm quadrati 490

• a f/2,8 il foro misura 17,67 mm. di diametro quindi la sua superficie è:

raggio al quadrato x 3,14 = 8,92 2 x 3,14 = mm quadrati 245

• a f/4 il foro misura 12, 5 mm. di diametro quindi la sua superficie è:

raggio al quadrato x 3,14 = 6,25 2 x 3,14 = mm quadrati 122

Per il fotografo è importante questo:

partendo dal diaframma tutto aperto, ad ogni stop si dimezza la superficie del foro e la quantità di
luce che passa. Al contrario se si parte dall'apertura minima verso la più grande, ad ogni stop la
quantità di luce raddoppia.

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In una reflex il diaframma rimane sempre aperto alla massima luminosità e si chiude al valore impostato solo
al momento dello scatto, questa soluzione tecnica consente di inquadrare più facilmente in condizioni di
scarsa luminosità.

Un apposito congegno chiamato simulatore del diaframma s'incarica della chiusura al momento giusto e fa
riaprire l'iride dopo l'esposizione, a seconda della casa costruttrice altri sistemi comunicano all'esposimetro
quale diaframma è stato impostato per suggerire il tempo adatto
Per vedere l'effetto della chiusura del diaframma direttamente nell'oculare, alcune camere prevedono un
pulsante che lo stringe al valore impostato, pulsante per il controllo della profondità di campo.

5.7 La profondità di campo

Dopo l'inquadratura, il secondo elemento creativo importante sta nell'impiego sapiente della profondità di
campo.

Si tratta di un'area di dimensioni molto variabili all'interno della quale tutto è a fuoco. La vorremo più ampia
possibile nei panorami, così da mantenere nitidi sia lo scenario distante sia gli eventuali oggetti in primo
piano, mentre la preferiremo il più ristretta possibile nei ritratti, così da mantenere nitido solo il viso della
persona che si contrasta con uno sfondo sfocato che fa da cornice.

• Il primo dei fattori che influenzano la profondità di campo è la distanza dell'oggetto dall'obiettivo,
maggiore è la distanza, più ampia sarà la profondità di campo.

Di conseguenza nelle foto panoramiche di oggetti lontani non dovremo preoccuparci di controllare cosa sia o
meno a fuoco: basta impostare la messa a fuoco sull'infinito. Molte fotocamere consentono di selezionare
una modalità "panorama", solitamente identificata dall'icona di una montagna, che blocca il fuoco a una
distanza infinita (alla massima distanza consentita dall'ottica) e disabilita il calcolo automatico della distanza
di messa a fuoco.

• Il secondo fatto che influenza la profondità di campo è la lunghezza focale dell'ottica.

Un obiettivo grandangolare, con una lunghezza focale ridotta e con un raggio di visione molto ampio,
tenderà ad amplificare la profondità di campo, viceversa un obiettivo tele, con una focale molto lunga e un
campo di visione ristretto, ridurrà la profondità di campo.

Ciò si sposa con la prassi di usare il grandangolare per i panorami, dove vogliamo che siano perfettamente a
fuoco sia le cose vicine sia gli oggetti lontani, e di usare il tele per i ritratti, così da isolare il soggetto da ciò
che lo circonda, lasciando semplicemente una piccola cornice di sfondo, sfocata.

• Il terzo fattore, il più importante, che regola in proporzione inversa la profondità di campo, è l'apertura
di diaframma.

Considerando l'importanza di poter governare il campo di messa a fuoco, numerose fotocamere di fascia
medio alta consentono di controllarla a mano, mediante una modalità solitamente contraddistinta dalla
lettera A (aperture priority) che corrisponde alla modalità di controllo manuale del diaframma.

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Aprendo e chiudendo il diaframma noi ridurremo o amplieremo la profondità di campo raggiungendo il


risultato creativo che ci siamo prefissi ricordando che la profondità di campo si estende per 1/3 nell'area che
viene prima del soggetto che abbiamo messo a fuoco (più vicina all'obiettivo) e per 2/3 nell'area che viene
dopo il piano di fuoco critico (più lontana dall'obiettivo).

5.7.1 Come e perché si forma la profondità di campo

Quando si mette a fuoco un punto, esso ha la forma di un minuscolo cerchietto sul sensore o sulla superficie
della pellicola.

Il nostro occhio ha una capacità limitata di discernere i dettagli e tende a trasformare in punti anche piccoli
cerchi che abbiano una circonferenza inferiore ad un certo valore denominato "circolo o cerchio di
confusione".

Storicamente il circolo di confusione aveva un diametro di 0,25 mm per stampe osservate da una distanza di
25 cm, ma con lo sviluppo degli obiettivi a lunga focale e i sempre maggiori ingrandimenti delle foto lo si
considera ora compreso tra 0,20 e 0,33 mm.

5.7.2 Circolo di confusione

Quando un punto non è completamente a fuoco forma un circolo. Se il diametro di tale circolo non supera gli
0,20 o 0,33 mm avremo comunque l'impressione di vedere un punto.

5.7.3 Diaframma e circolo di confusione

Qui vediamo come un diaframma chiuso al massimo riduce le dimensioni del circolo di confusione.

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5.7.4 Diaframma aperto

Ecco la situazione opposta: aprendo il diaframma il circolo di confusione diventa maggiore e più evidente,
rendendo l'immagine sfocata.

Il nostro occhio vedrà quindi come puntiforme qualsiasi cerchietto che abbia un diametro inferiore al cerchio
di confusione, permettendoci perciò di ampliare l'efficacia della focheggiatura creando l'effetto della
profondità di campo, che benché faccia leva sull'apparenza, è molto convincente per stampe di piccolo
formato.
Naturalmente l'efficacia della profondità di campo diminuisce a mano a mano che aumentiamo la dimensione
della stampa prodotta dalla nostra fotografia, perciò teniamone conto nel momento di stampare e chiudiamo
il diaframma in proporzione al livello d'ingrandimento atteso.

 Infinito

 Massima nitidezza

 Punto di messa a
fuoco

 Massima nitidezza

f 2,8 f8 f 22  Punto di ripresa

Tabella schematica dell’effetto della profondità di campo

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Scatto a f/4.5 Scatto a f/29

5.8 La scelta dell’obiettivo

Oggigiorno disponiamo di una scelta quasi infinità d’ottiche. Scegliere non è sempre facile, ma anzitutto
dovremmo cercare di focalizzare quali sono i nostri principali interessi fotografici: ritratto, paesaggio,
reportage, macrofotografia, sport, animali, ecc..

Un esempio di scelta di obiettivi di una grande marca (Nikon)

Una volta individuato il o i campi di lavoro potremo poi scegliere, non dimenticando che l’ottica è il cuore
della nostra macchina fotografica, un buon obiettivo di qualità ci garantisce ottimi risultati e dunque una
corretta scelta, è determinante.

Spesso il prezzo non è semplicemente indice di qualità, ma sicuramente non possiamo pretendere di
acquistare per pochi spiccioli obiettivi luminosi o speciali, dunque diffidiamo da offerte troppo allettanti!

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Un buon corredo dovrebbe comunque comprendere un grandangolare, un normale, ed un teleobiettivo.


Obiettivi zoom, i cosiddetti “tuttofare” sono delle ottime alternative in particolare durante i viaggi,
permettendoci di risparmiare su peso ed ingombro, ecco un paio di idee:

• zoom 12-24 mm supergrandangolare zoom di elevate prestazioni (paesaggi, architettura)


• zoom 17-55 mm versatile e leggero, sempre pronto per tutte le situazioni
• zoom 70-200 mm teleobiettivo (ritratti, animali, sport)
• zoom 80-400 mm superteleobiettivo per usi estremi (animali, sport)

Immagine ripresa con un teleobbiettivo 300 mm

Immagine ripresa con un grandangolare 28 mm

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6. L’esposizione (misura della luce)

In prima fase, possiamo distinguere una fotografia in base alla sua capacità di essere godibile, infatti una
fotografia anche se scattata da un fotografo con elevate capacità creative, risulta non valutabile se essa è o
troppo scura o troppo chiara.

Entra quindi in gioco il fattore esposizione di una foto,cioè la giusta quantità di luce che la pellicola deve
ricevere affinché una foto sia godibile ,cioè ben visibile.

Sottoesposizione Esposizione corretta Sovraesposizione

lasciamo perdere per il momento la composizione e consideriamo solamente la giusta esposizione di una
fotografia.

Essa dipende essenzialmente da 3 fattori fondamentali:

• sensibilità della pellicola


• apertura del diaframma
• tempo di esposizione (velocità dell’otturatore)

6.1 Sensibilità della pellicola

Per sensibilità si intende la capacità di una pellicola di rispondere a determinate quantità di luce. La
sensibilità è indicata su ogni pellicola con un indice ISO (che comprende entrambe le indicazioni di ASA e
DIN).

Ci sono pellicole molto sensibili, impressionabili con poca luce, che saranno adatte a fotografare scene
scarsamente illuminate, oscure. E ci sono pellicole poco sensibili, che richiedono di molta luce per
impressionarsi, adatte a fotografare scene molto illuminate.

Si hanno i seguenti valori ISO:

25 - 50 - 100 - 200 - 400 - 800 - 1600 – 3200

Il più comune è senz'altro 100/200 ISO, che corrisponde alla sensibilità delle pellicole vendute normalmente.
A volte si possono incontrare valori intermedi: 64, 125, 160, ecc..

Al di sotto di 100 ISO abbiamo le pellicole meno sensibili. Invece i valori di 400 corrispondono a pellicole
piuttosto sensibili, anche se ancora comuni nel mercato e nell'uso dei dilettanti. Al di sopra di 400 ISO
abbiamo le alte sensibilità, fra cui possiamo citare il valore 3200 ISO, corrispondente ad una pellicola

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sensibilissima, adatta a fotografare agevolmente anche in condizioni di luce molto scarsa, senza ricorrere a
illuminazione artificiale.

Un concetto fondamentale che riguarda la sensibilità delle pellicole è il seguente:

quanto più sensibile è una pellicola quanto maggiore è la granulosità dell'immagine.

Una fotografia scattata con pellicola a bassa sensibilità dà una immagine a grana finissima, mentre una
fotografia scattata con pellicola ad alta sensibilità dà una immagine a grana grossa.

Immagine a bassa granulosità Immagine ad alta granulosità


Pellicola poco sensibile Pellicola molto sensibile

Quando parliamo di grana o di granulosità ci riferiamo al fatto che l'immagine fotografica risulta dall'insieme
di tanti minuscoli puntini neri (grani o cristalli). Essi non sono visibili quando la grana è fine, e allora si ha
un’immagine di buona qualità in cui l'occhio riconosce solo aree uniformi a diversa gradazione di grigio.

I cristalli sono visibili quando la grana è grossa, e allora si ha una immagine di qualità inferiore in cui l'occhio
riconosce la presenza di puntini neri più o meno grossi.

In conseguenza di quanto abbiamo detto, se non siamo costretti dalle scarse condizioni di luce ad usare
pellicole molto sensibili, si preferirà usare pellicole normali o poco sensibili (200 ISO o meno), infatti, in
questo modo, l'immagine che otterremo sarà poco granulosa e di buona qualità.

6.2 Apertura del diaframma

Come abbiamo in precedenza visto, il diaframma regola la quantità di luce che colpisce la pellicola. Alcuni
valori normalmente usati sono:

1,4 2 2,8 4 5,6 8 11 16 22 32

più il valore è piccolo, più il diaframma è aperto, maggiore è la quantità di luce che impressiona la pellicola e
ad ogni valore si raddoppia o si dimezza questa quantità rispetto al valore precedente o successivo:

a f/1,4 passa una quantità di luce doppia rispetto a f/2


a f/16 passa la metà della luce che passa a f/11

6.3 Tempo d’esposizione

I tempi di esposizione sono regolati dall’otturatore.

Essi si misurano in frazioni di secondo. Si usano comunemente delle cifre intere, ma devono essere
implicitamente considerate come denominatori di una frazione, ad esempio 60 si legge "1/60” = un
sessantesimo di secondo, mentre 250 si legge "1/250” = un duecento cinquantesimo di secondo.

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I numeri dei tempi d’esposizione si indicano talvolta con "t" e sono essenzialmente questi:

2000 1000 500 250 125 60 30 15 8 4 2 1 B

E' chiaro, analogamente a quanto succedeva con i numeri f del diaframma, che i numeri più grandi si
riferiscono ai tempi più brevi (rapidi), mentre i numeri più piccoli si riferiscono ai tempi più lunghi (lenti).

6.3.1 Tempi medi


Sono 60 e 125 (1/60 di sec. e 1/125 di sec. Sono adatti per condizioni di luce normale: ambienti aperti con
luce naturale.

6.3.2 Tempi brevi


Sono 250 e 500 (1/250 di sec. e 1/500 di sec.), che permettono di riprendere anche scene in movimento
senza ottenere il cosiddetto effetto mosso. Sono adatti per condizioni di luce forte: ambienti aperti con sole
molto diretto.

6.3.3 Tempi brevissimi


Sono 1000 e 2000 (1/1000 di sec. e 1/2000 di sec.), che permettono di riprendere anche scene in forte
movimento senza ottenere il cosiddetto effetto mosso. Sono adatti per condizioni di luce estrema: ambienti
aperti con sole molto diretto, su neve, mare.

6.3.4 Tempi lunghi


Sono 30 e 15 (1/30 di sec. e 1/15 di sec.), che devono essere usati col cavalletto e non permettono di
riprendere scene in movimento senza ottenere l'effetto mosso. Sono adatti per condizioni di luce debole:
ambienti chiusi con illuminazione artificiale o ambienti aperti in penombra.

6.3.5 Tempi lunghissimi


Sono 4 e 8 (1/4 di sec. e 1/8 di sec.), che devono assolutamente essere usati col cavalletto e non
permettono di riprendere scene in movimento senza ottenere l'effetto mosso. Sono adatti per condizioni di
luce molto debole: ambienti chiusi con poca illuminazione o ambienti aperti in penombra oscura.

6.3.6 Tempi estremamente lunghi


Sono 1 e 2 (1 sec. e 1/2 sec.), che devono assolutamente essere usati col cavalletto e non permettono di
riprendere scene in movimento senza ottenere l'effetto mosso. Sono adatti per condizioni di luce
estremamente debole: ambienti chiusi con pochissima illuminazione o ambienti aperti in penombra o
notturni.

Il tempo B è la cosiddetta posa, cioè l'apertura dell'otturatore per un tempo a piacere: tutto il tempo in cui il
fotografo tiene il dito premuto sul pulsante di scatto. Può essere anche un tempo di decine di secondi.

6.4 Capiamo l’esposizione

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Facciamo ora una similitudine per spiegare la corretta esposizione.

Consideriamo una foto ben esposta (cioè perfettamente distinguibile) come se fosse un bicchiere riempito
fino all’orlo. Nel caso avessimo, invece della luce, dell’acqua che esce da un rubinetto, per riempire il
bicchiere avremmo due possibilità.

t 10 secondi

Apriamo poco il rubinetto e aspettiamo un tempo piuttosto lungo, diaframma poco aperto e tempo
d’esposizione lungo.

t 5 secondi

Apriamo molto il rubinetto e riduciamo di conseguenza il tempo necessario per il riempimento del bicchiere,
diaframma molto aperto e tempo d’esposizione breve.

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Se teniamo il rubinetto aperto per troppo tempo o per troppo poco, avremo l’acqua che trasborda nel primo
caso, foto sovresposte oppure il bicchiere non pieno nel secondo, foto sottoesposta.

Quindi è così spiegata la funzione del diaframma (apertura del rubinetto = apertura del diaframma) e quella
dell’otturatore che regola il tempo d’ingresso della luce (dell’acqua nel caso del bicchiere in esame)

La sensibilità della pellicola si può paragonare alla grandezza del bicchiere.

Più questo valore è elevato e più è piccolo il bicchiere che dobbiamo riempire, in altre parole minore è la
quantità di luce (o d’acqua) necessaria per impressionare correttamente la pellicola (per riempire il bicchiere
in questione)

Ora si tenga presente una regola fondamentale della fotografia.

Non ha assolutamente senso considerare il valore del diaframma da solo, indipendentemente da


quello del tempo d’esposizione, e entrambi indipendentemente da quello della sensibilità della
pellicola. Sensibilità, diaframma e tempo hanno senso solo come valori considerati in gruppo e, se
vogliamo cambiare il valore di uno di loro, dobbiamo cambiare opportunamente anche il valore degli
altri.

In pratica non ha senso limitarsi a dire: "questa fotografia deve essere scattata col diaframma f/8", perché il
valore del diaframma da solo, se non è accoppiato ad un opportuno valore del tempo di esposizione, e se
non si conosce il valore della sensibilità della pellicola, non ha alcun significato ai fini di una corretta
esposizione della pellicola.

Fortunatamente la maggior parte delle macchine moderne contiene un sistema di misurazione, detto
appunto esposimetro, che c’informa se la regolazione della coppia diaframma - tempo è corretta per la
quantità di luce disponibile e per la sensibilità della pellicola.

In genere ci sono delle lancette o delle cifre luminose (led), visibili nel mirino, che segnalano la corretta
regolazione del diaframma e del tempo d’esposizione. Spesso appare una luce verde quando la regolazione
è corretta. In ogni caso ogni modello di macchina ha il suo sistema e il fotografo dovrà imparare a
familiarizzare con la sua fotocamera.

6.4 Il diaframma come elemento creativo

A rigor di termini un obiettivo non può mettere a fuoco contemporaneamente oggetti a distanze diverse. Una
volta messo a fuoco un oggetto ad una certa distanza, tutti gli altri oggetti al di qua ed al di là dell'oggetto a
fuoco saranno più o meno "sfocati". Tuttavia entro certi limiti l'occhio ne accetta l'immagine come nitida. La
zona entro la quale, per certe condizioni di ripresa, gli oggetti vengono riprodotti come accettabilmente nitidi,
si chiama profondità di campo.

Come abbiamo gia in parte visto, la profondità di campo aumenta:

• con l'inverso della lunghezza focale, un 28mm avrà, a parità di diaframma, una profondità di campo
maggiore di un 50mm, e quella di questo ultimo sarà maggiore di quella di un 200mm.

• con la distanza di messa a fuoco, se regoliamo un 50 mm su 3 metri mantenendo f/22, gli oggetti
riprodotti in maniera nitida si troveranno tra 1,6 e 15 metri,quindi con una profondità di campo di m

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13,4, se regoliamo la messa a fuoco a 2 m, abbiamo nitidezza fra 1,2 e 5 m quindi uno spazio di 3,8
m.

• con il valore numerico del diaframma, a parità di distanza di messa a fuoco la profondità aumenta con
la chiusura di diaframma.

Conoscendo la profondità di campo, abbiamo nelle mani un primo elemento creativo che ci permette
di fare delle scelte, di scegliere in maniera consapevole gli oggetti che vogliamo che nella foto siano
nitidi oppure sfocati, abbiamo la capacità di spostare l’attenzione in un punto rispetto ad un altro.

La particolarità dello scatto consiste nel fatto che il soggetto principale, appare nitido ma è situato in un
ambiente sfumato, in cui tutto appare sfuocato. Ciò permette di isolare il soggetto dal resto e di renderlo
molto suggestivo. Per ottenere quest’effetto il fotografo ha cercato di mettere bene a fuoco la statua, ma ha
usato un valore del diaframma piuttosto basso (diaframma aperto).

6.5 I tempi d’esposizione come elemento creativo

Che cosa varia cambiando il tempo d’esposizione della pellicola?

Questa frazione di secondo che compare nella maggior parte delle macchine fotografiche, non è altro che il
tempo in cui il fotogramma è esposto alla luce, in altre parole il tempo necessario alla pellicola affinché
possa registrare in maniera corretta la scena che noi stiamo fotografando.

Più questa frazione di secondo è piccola, vale a dire più l’otturatore è veloce, e più riusciremo a congelare
la scena, cioè a rendere immobili anche le parti in movimento.

Viceversa più l’otturatore è lento, più le parti in movimento di una scena risulteranno mosse nella foto, fino
ad arrivare a sembrare delle scie non riconoscibili se usiamo dei tempi estremamente lunghi. Bisogna
distinguere due tipi di movimento:

• quello del fotografo


• quello del soggetto da fotografare

Nel primo caso, che può verificarsi se il fotografo non ha la mano ferma o se stiamo usando tempi
d’esposizione più lenti che 1/30 sec, è certamente consigliabile l'uso di un solido cavalletto. Per premere il
tasto di scatto si può usare il flessibile, che impedisce alla mano di comunicare vibrazioni alla macchina, o
impostare l'autoscatto, in modo che lo scatto vero e proprio avvenga 10 secondi dopo che il dito avrà
premuto il pulsante.

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Il movimento del fotografo può essere dovuto anche al fatto di trovarsi sopra un treno in corsa, un'auto, una
motocicletta, un elicottero. Allora il cavalletto non servirà a niente e il problema potrà essere risolto solo con
l'uso di tempi d’esposizione molto brevi (come 1/250, 1/500, 1/1000, ecc...).

Nel secondo caso, ovverosia quando il movimento non dipende dal fotografo, ma dal soggetto da fotografare
(una ballerina, uno sportivo in azione, un animale in corsa, l'acqua di una cascata, ecc...) il cavalletto non
serve, anche questa volta occorre l'uso di tempi d’esposizione molto brevi (come 1/250, 1/500, 1/1000,
ecc...).

Siamo arrivati al secondo degli elementi fondamentali che ci permettono di intervenire in maniera
creativa(consapevole) nella composizione della foto.

Con l’otturatore infatti, abbiamo la possibilità di congelare, oppure di rendere mosso ogni elemento in
movimento che decidiamo di fotografare

6.6 Misuriamo la luce, l’esposimetro

È uno strumento incorporato nella maggioranza delle fotocamere amatoriali e professionali che misura
l'intensità della luce riflessa dalla scena inquadrata. L'esposimetro incorporato nelle macchine fotografiche
automatiche, non "informa" semplicemente il fotografo circa la quantità di luce presente in campo ma è
connesso con un microcomputer delegato alla regolazione automatica del tempo d’otturazione e/o
dell'apertura del diaframma necessari ad una corretta esposizione.

6.7 I diversi sistemi di misurazione

Gli esposimetri incorporati nelle fotocamere non misurano tutti la luce allo stesso modo. In alcuni casi la
lettura avviene su tutta la superficie del campo inquadrato, mentre in altri solo nella zona centrale di ripresa.
I sistemi di misurazione più usati dalle reflex sono: Semi spot, Spot e Matrix.

6.7.1 Semi spot

L'esposimetro legge la luce su tutto il campo inquadrato dando molto più "peso" alla zona centrale del
fotogramma (ossia eseguendo una media ponderata) rispetto ai bordi.

È il sistema più comune nelle fotocamere tradizionali e fornisce letture precise nella maggioranza delle
situazioni. Ma attenzione: è sufficiente che nella scena sia presente una luce molto intensa, ad esempio il
sole alle spalle del soggetto, per alterare la giusta media di misurazione e indurre ad una sottoesposizione
dell'elemento meno illuminato. In questo caso si dovrà correggere l'esposizione aprendo il diaframma o
usando un tempo di scatto più lungo.

6.7.2 Spot

In questo tipo di misurazione, lo strumento esegue la lettura solo nella zona centrale dell'inquadratura, in
un’area molto ristretta (spot, in inglese, significa "punto").

È un sistema molto preciso anche se deve essere usato con una certa pratica e consapevolezza in special
modo quando nel campo ripreso dall'obiettivo sono compresi due o più soggetti illuminati con intensità
differenti. In questo caso il fotografo dovrà eseguire una valutazione finale in base alla sua esperienza.

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6.7.3 Sistema Matrix

Nelle attuali fotocamere le comuni modalità di lettura esposimetrica sono state affiancate dalle cosiddette
rilevazioni a zone, tipo il Matrix. In questo caso il campo inquadrato è suddiviso in tanti settori o zone di
lettura e l'esposimetro rileva l'intensità della luce in ognuno di essi.

Le diverse letture sono poi elaborate dal computer della macchina ed in base all'analisi risultante viene
selezionata la corretta coppia tempo/diaframma.

Il sistema esposimetrico delle moderne fotocamere è normalmente basato sul sistema Matrix.

Tutti i sistemi descritti funzionano piuttosto bene nella maggioranza delle situazioni ma non sono indicati
quando il fotografo desidera intervenire creativamente sull'esposizione. La lettura a zone, infatti, ti permette
di esporre in modo soddisfacente un soggetto posto al centro del fotogramma (e, in certi casi anche in
controluce), ma se l'effetto voluto è una fotografia molto scura, diciamo con un effetto di silhouette, dovrai
passare ad un altro tipo di lettura, oppure intervenire su un apposito correttore di esposizione. Anche nel
caso di soggetti chiari su fondo molto scuro (caso opposto al controluce) l'esposimetro può fornire indicazioni
poco attendibili portando ad una sovraesposizione.

Per eliminare l'inconveniente, impiegando una fotocamera manuale, si deve impostare un tempo più veloce
o un diaframma più chiuso di quello consigliato dall'esposimetro, mentre con le automatiche si agisce sul
comando di compensazione sottoesponendo di 1/2 o, addirittura, di 1 stop (diaframma). Anche con i sistemi
Matrix, come accennato, è possibile correggere l'esposizione automatica operando tramite specifici comandi
differenti a seconda del modello di fotocamera impiegato.

6.8 Le principali modalità di impostazione

6.8.1 Modalità manuale

In base alle indicazioni fornite dall'esposimetro, il fotografo imposta tempi e diaframmi. Il sistema manuale
permetta la massima flessibilità d’utilizzo ma, nell'uso pratico, può rivelarsi un procedimento poco immediato
e che richiede una grande esperienza.

6.8.2 Automatica a priorità dei diaframmi

In base al diaframma selezionato dal fotografo, la reflex imposta automaticamente il tempo di esposizione. E'
il sistema preferito da molti in quanto consente di scegliere manualmente l'apertura in base alla profondità di
campo richiesta dalle esigenze creative dello scatto delegando al computer della fotocamera la scelta del
tempo di otturazione corrispondente.

6.8.3 Automatica a priorità dei tempi

In rapporto al tempo di posa selezionato dal fotografo, la fotocamera regola il valore del diaframma
sull'obiettivo. Questa modalità di scatto viene usata per fissare un tempo d’otturazione molto rapido quando
si riprendono soggetti in movimento assicurandosi, entro certi limiti, fotografie nitide.

6.8.4 Programmata

In base alle indicazioni dell'esposimetro e riferendosi ad una serie di situazioni standard preimpostate nella
memoria della fotocamera, il computer seleziona sia il tempo che il diaframma più adatti alle condizioni
d’illuminazione. Questa modalità fornisce buoni risultati nelle situazioni più comuni ma mostra i suoi limiti
nelle riprese creative. In molti casi si rivela controproducente il fatto che sia la fotocamera a fare tutto da sé.
Per questo motivo con alcune reflex sono possibili aggiustamenti manuali alle valutazioni dell'esposimetro.

6.8.5 Il Bracketing

Termine inglese che definisce una serie d’esposizioni successive allo stesso soggetto variando
l'impostazione di tempo o diaframma. In genere si usa il bracketing (definito spesso anche come
"esposizione a forcella") quando non si è sicuri della corretta esposizione e non si vogliono avere sorprese
dopo lo sviluppo.

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6.9 Altri fattori modificanti l’esposizione

Esistono molti parametri che di volta in volta possono modificare l'esposizione, vediamone alcuni di una
certa importanza:

• Luce incidente sul soggetto, intensità della sorgente luminosa, sua distanza dal soggetto, direzione e
lunghezza d'onda in relazione alla sensibilità cromatica della pellicola.

• Caratteristiche del soggetto, potere riflettente delle superfici, suoi toni e colori.

• Condizioni di ripresa, rifrazione della luce dovuta alle condizioni atmosferiche; foschia, nebbia, ecc..

• Fattore di riproduzione, l'allungamento del soffietto in riprese ravvicinate riduce la quantità


d'illuminazione che colpisce la pellicola.

• Caratteristiche dell'emulsione, rapidità, contrasto, comportamento alle sovra e sotto esposizioni,


sensibilità cromatica.

• Sviluppo che s’intende adottare (per il bianco/nero).

• Filtri, assorbimento di luce e colore in relazione al colore dell'illuminazione e del soggetto, alla
sensibilità cromatica ed alla pellicola.

• Fattori soggettivi, il fotografo può desiderare una buona definizione di tutti i toni del soggetto, oppure
solo alcuni, nel primo caso può essere meglio aumentare o diminuire il contrasto, nel secondo bisogna
scegliere tra le ombre e le luci.

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7. Fotografare con il flash

Nell'insieme del corredo fotografico il flash non è solo un accessorio, ma bensì uno strumento molto
importante che non solo ci permette di fotografare quando le condizioni di luce sono "impossibili", ma ci
permette pure di avere a disposizione un'importante strumento compositivo ed artistico.

7.1 L’impiego del flash

Il flash è un valido strumento che consente di orientare su uno specifico punto un fascio di luce là dove
manca.

Oggigiorno con l'avvento dei moderni flash elettronici tutti i fotografi dispongono di una fonte di luce a poco
prezzo e piuttosto valida, bisogna pure dire che vi sono opinioni contrastanti sull'uso del flash, soprattutto
perché la maggior parte lo usa direttamente sulla camera fotografica posizione quanto mai infelice perché
appiattisce qualsiasi soggetto.

Bisogna dunque fare alcune precisazioni: con l'avvento di pellicole ultrasensibili ad un fotografo consapevole
è offerta la possibilità di risolvere in sostanza quasi tutti i problemi di mancanza di luce (con una pellicola
3200 ASA ed un obiettivo di luminosità f/1,8 si può rimanere veramente sbalorditi di cosa si può ottenere), ed
in più l'uso puro e semplice del flash non è esattamente il sistema migliore per ottenere dei buoni risultati.

Dunque cosa fare? Anzitutto non scoraggiarsi se dopo i primi tentativi i risultati sono pessimi e soprattutto
importante è conoscere il mezzo tecnico che abbiamo montato sulla nostra camera fotografica.

Non dimentichiamoci infine che quasi tutte le immagini pubblicitarie e di moda che vediamo su riviste e
giornali sono state eseguite usando dei flash!

7.2 Flash a computer di prima generazione

La gran parte dei flash moderni ci dà un'esposizione automatica grazie all'intervento di un computer, che in
pratica non è altro che una cellula fotoelettrica.

Il principio di funzionamento dei flash elettronici a calcolatore incorporato della prima generazione (vale a
dire non ancora TTL), è molto semplice: lo scatto dell'otturatore fa partire un lampo che illumina il soggetto,
la luce è riflessa dal medesimo verso una cellula fotoelettrica posta sul corpo anteriore del flash, cellula che
trasforma l'energia luminosa in un impulso elettrico proporzionale che è a sua volta comparato con un
programma fissato in anticipo (sensibilità del film e diaframma), dal momento che il collegamento è stabilito
una specie d’interruttore elettronico (thyristore) provvederà a bloccare la scarica ed a spegnere il flash.

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Questa operazione è fatta in tempi relativamente brevi (ca. 1/100000 di secondo), l'esatta esposizione non è
dunque stabilita da una regolazione della potenza del lampo ma dalla durata del medesimo in funzione della
distanza flash - soggetto: più il soggetto è lontano più il lampo è lungo, più è vicino più la durata del lampo è
corta (da un minino di 1/50000 per ca. 70/80 cm ad 1/1000 a 4/5 metri).

È chiaro come con un lampo di 1/50000 sia possibile "fermare" le immagini, non dobbiamo però dimenticare
che con lampi brevi si riscontra normalmente una dominante di colore blu.

Il flash a controllo elettronico è stato concepito per evitare tutti i problemi d'esposizione, il sistema funziona in
ogni modo bene ad una distanza di 2/4 metri, in fotografie ravvicinate o a lunga distanza si riscontrano
spesso problemi e dunque bisogna correggere manualmente l'esposizione.

Altro problema è che la misura della luce riflessa usando il flash in modo indiretto, (contro il muro per
esempio), non è normalmente esatta.

Il flash elettronico offre normalmente due o tre diaframmi in automatismo e di conseguenza quando
occorrono delle aperture o molto piccole o molto grandi siamo nei guai.

Classica tabella di un flash prima generazione: all'aumentare del diaframma aumenta anche lo spazio
d'azione del flash, ogni diaframma è in pratica un automatismo, in altre parole usando il diaframma stabilito il
computer si occupa di regolare la durata del lampo.

1m 3m 5m 10m
f2,8
f4
f5,6
f8

7.3 Il flash a TTL

Quando si utilizza un flash a computer la cellula fotoelettrica si trova davanti al flash, al contrario con un
flash TTL la cellula si trova dietro l'obiettivo (Trough The Lens - attraverso l'obiettivo).

È il sistema più recente che risale oramai al 1976, quando fu lanciato dall'Olympus con il modello OM2, si
basa sulla misura direttamente sulla pellicola dell'immagine luminosa formata dall'obiettivo, questa misura è
effettuata in tempo reale, dunque durante l'esposizione. Il sistema comporta i seguenti vantaggi:

• Il calcolo automatico dell'esposizione, cioè la durata del lampo tiene conto della focale, del tiraggio
(importante nella fotografia macro), dell'uso di eventuali filtri o di altri accessori (diffusori, ecc.).

• Il calcolo dell'esposizione tiene naturalmente conto di perdite di luce dovute all'uso del flash
indirettamente (riflesso contro una parete o contro il soffitto per esempio).

• Si possono utilizzare più flash sincronizzati senza dover fare alcun calcolo.

• Al contrario di un flash non TTL che permette normalmente di usare solo tre diaframmi ora sarà
possibile usare tutte le aperture riuscendo così a controllare la profondità di campo e la durata del
lampo.

Risulta evidente che durante l'uso del flash all'esterno la disponibilità di usare tutti i diaframmi è essenziale
per poter equilibrare i due tipi di luce (ambiente e flash).

Uno dei principali inconvenienti è dovuto al fatto che con solamente un flash risulta molto difficile equilibrare
il primo piano con il secondo, per ottenere un buon risultato normalmente i professionisti ricorrono a più
flash.

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7.4 Flash dedicati

Esistono sul mercato tipi di flash detti dedicati, questo perché sono utilizzabili esclusivamente con
apparecchi della propria marca, infatti un Canon funzionerà solo su di un apparecchio Canon, un Nikon solo
su di un Nikon e via di seguito, non ci sono evidenti vantaggi se non di mercato per le case produttrici!

7.5 Esposizione con il flash

Il calcolo dell'esposizione usando il flash non è normalmente molto difficile se ci si affida agli automatismi
presenti sia sulla camera che sul lampo elettronico, è naturalmente necessario tenere presente alcuni fattori,
vediamoli:

• Il tempo di sincronizzazione.

• Il diaframma previsto dall'automatismo.

• La distanza flash/camera – soggetto.

È importante sapere che usando il flash sarà necessario per prima cosa impostare il tempo di
sincronizzazione, (il tempo cioè nel quale il flash accendendosi riesce in modo completo ad impressionare
tutta la pellicola), infatti ogni apparecchio ha un tempo ben preciso che normalmente fino a qualche anno fa
era attorno ad 1/60 di secondo, le nuove tendenze l'hanno lentamente portato fino ad 1/250 ed oltre.

In seguito si sceglierà un diaframma tra quelli previsti dal flash per poter funzionare in automatico, scelta che
si farà in base alla distanza alla quale si troverà il nostro soggetto, infatti per ogni diaframma il flash
stabilisce uno spazio d'azione espresso in metri, (più il diaframma è aperto più il flash illuminerà lontano).

Se si lavora con un flash TTL saranno disponibili tutti i diaframmi in modo completamente automatico, ed in
più se anche l'apparecchio fotografico a delle funzioni di programma anche la scelta del diaframma sarà
automatica.

Una volta fatte queste selezioni sarà l'automatismo del flash che, come spiegato prima, si occuperà di
decidere la durata del lampo per poter quindi ottenere un'immagine ben esposta, il TTL in più ottimizzerà il
diaframma ed eventualmente il tempo d'esposizione, in modo completamente automatico se, sulla camera è
presente un sistema di programma.

7.6 Con il TTL in esterno

Fotografare usando il flash in luce esterna per eliminare per esempio delle fastidiose ombre date dal sole o
per rischiarare un soggetto in controluce, diviene un'operazione molto facile e di sicuro effetto quando si ha
la fortuna di usare un flash al TTL.

La misura attraverso l'obiettivo sia della luce emanata dal flash sia della luce presente sulla scena permette
all'automatismo di regolare sapientemente le due fonti di luce, (sole o altro più flash), e di regolare in modo
autonomo l'esposizione.

Evidentemente il colpo di flash potrà illuminare solo il primo piano e sarà dunque la copia diaframma - durata
lampo a decidere l'esposizione.

Sarà solo con una regolazione del tempo d’otturazione che si riuscirà ad esporre correttamente lo sfondo,
pensiamo di avere una persona in primo piano e come sfondo una città illuminata di notte:

• Stabilire la distanza camera/flash - primo piano.

• Trovare un diaframma adatto alla distanza.

• Stabilire il tempo d’otturazione per lo sfondo in base a questo diaframma.

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8. Scattare una buona fotografia

Il fotografo professionista, così come il buon dilettante, prima di premere il pulsante e di scattare, ha
imparato a fare velocemente tre cose indispensabili:

• inquadrare correttamente
• mettere a fuoco
• regolare l'esposizione della pellicola (cioè sia il valore del diaframma che del tempo d’esposizione)

Attenzione, desidero ripetere il triplice concetto:

inquadrare, focalizzare, regolare tempo e diaframma.

Trascurare una di queste tre cose significa scattare una fotografia “sbagliata”, a meno che la fortuna non ci
aiuti.

Sarà bene aggiungere un altro elemento da considerare prima ancora dei tre che abbiamo già elencato:

avere la migliore luce possibile (controllo dell’illuminazione)

I concetti espressi in questo breve capitolo sono assolutamente fondamentali e non possono essere
trascurati.

8.1 L’esposizione nella pratica

8.1.1 La scelta della pellicola

si considera prima di tutto l’illuminazione ed il tipo di scena che si vuol fotografare:

• moltissima luce (montagna) => pellicola inferiore ai 100 iso (50/25)

• giornata con sole => pellicola 100/200 iso consideriamola normale

• giornata grigia o interni => pellicola 400/800 iso

8.1.2 Consideriamo il soggetto

Sappiamo che abbiamo due parametri da impostare, il tempo di scatto ed il diaframma. Ma come
procediamo?
Impostiamo per primo quel parametro che sappiamo essere più importante per fotografare la scena come
noi vogliamo.

Il diaframma se quello che c’interessa è la profondità di campo, cioè la quantità di cose che vogliamo
nitide, anche se in piani diversi:

grande profondità di campo => diaframma molto chiuso f/11, f/16, ecc.

piccola profondità di campo => diaframma aperto f/5,6, f/4, ecc.

Quindi si regola poi il secondo parametro, (il tempo d’esposizione), in base alle indicazioni dell’esposimetro,
si mette a fuoco e si scatta.

Il tempo d’esposizione se abbiamo dei soggetti da rendere:

• in movimento => tempo di scatto lento 1/60,1/30, 1/15 o meno

• da congelare => tempo di scatto molto breve 1/250,1/500, ecc.

Quindi dopo aver scelto il tempo, si regola il diaframma in base alle indicazioni dell’esposimetro presente in
macchina,si mette a fuoco e si scatta.

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8.2 La regola delle coppie equivalenti

È necessario tenere sempre presente la regola delle coppie equivalenti: coppie di valori tempo – diaframma
sono sempre in relazione fra loro.

Consideriamo una pellicola di 100 iso ed una determinata luce costante:

Se impostiamo 1/250 e l’esposimetro ci dice f/5,6

Dal punto di vista dell’esposizione ciò equivale anche a: 1/125 – f/8

Infatti se aumentiamo il tempo d’esposizione del doppio (2 X 1/250 =1/125) dobbiamo (per avere la stessa
quantità di luce che colpisce la pellicola) diminuire esattamente della metà il foro d’entrata (la quantità di luce
che entra a f/8 è esattamente la metà di quella che entra a f/5,6).

Ciò equivale anche per la sensibilità della pellicola, in pratica una 400 iso è esattamente sensibile il doppio di
una 200 iso che a sua volta è sensibile il doppio di una 100 iso e così via.

Secondo queste ultime considerazioni è utile, come esercizio, valutare le seguenti coppie di tempo -
diaframma, e verificare che, prese assieme alla sensibilità della pellicola, sono esattamente identiche dal
punto di vista d’esposizione, cioè di quantità di luce che colpisce la pellicola:

ASA Tempo Diaframma

100 1/125 8

100 1/60 11

200 1/125 11

400 1/125 16

100 1/500 4

400 1/2000 4

200 1/2000 2,8

200 1/1000 4

100 1/250 5,6

8.3 Cenni sulla composizione fotografica

Troppe fotografie (non solo di dilettanti) inducono il destinatario a chiedersi perché esse siano state scattate.
L'assenza di un soggetto e di un qualsiasi punto d’interesse fa sì che certe immagini siano ridotte a puro
rumore non strutturato: il disordine regna sovrano, né esiste un codice riconoscibile capace di affidare un
qualche significato alle figure.

Questo accade, il più delle volte, perché un soggetto che sembrava interessante e fotogenico
all'osservazione dal vivo è poi del tutto insignificante una volta fissato sulla pellicola. Non ci si è resi conto
che l'occhio (o meglio il cervello) umano e la fotocamera "vedono" la realtà in modo assai diverso.

La scelta del soggetto e l'inquadratura sono soggettivi, legati al gusto e al senso artistico del fotografo. In
ogni caso possiamo dire che esistono delle regole classiche, che possiamo descrivere, da rispettare per non
ottenere una foto visibilmente brutta.

Cominciamo subito a stabilire dei concetti importanti. La fotografia è un’immagine generalmente rettangolare
che, nel caso delle pellicole comuni (formato 35 mm), ha un rapporto fra i lati 2/3

Essa può essere sistemata in senso orizzontale (landscape) o verticale (portrait).

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8.4 Prima regola fondamentale la struttura compositiva dell'immagine

Il fotografo deve avere la capacità di visualizzare mentalmente l'immagine nella sua cornice rettangolare, in
tutto il suo complesso (non semplicemente di concentrare la sua attenzione su un singolo particolare che
attrae il suo interesse) e di equilibrarla nelle sue varie parti come un "quadro".

Al centro perfetto dell'immagine creata dal principiante si trova sempre e immancabilmente la cosa che lo
interessa di più (un volto, un oggetto, un elemento del paesaggio che intendeva riprendere). Non sembra
che egli abbia scattato una fotografia, si direbbe piuttosto che ha "sparato una fucilata" cercando di centrare
un bersaglio.

8.5 Seconda regola fondamentale, no al centro immagine

Raramente il particolare che c’interessa di più, nell'immagine, deve essere collocato proprio al centro. Ciò
può anche capitare ma, il più delle volte, si troverà in una posizione decentrata.

Sbagliato Corretto

Pertanto, al fine di sviluppare la suddetta maturità visiva, si facciano due cose: si osservino spesso le
fotografie dei fotografi famosi, per capire come sono costruite le immagini, e ci si liberi dalla suggestione
irresistibile "del centro".

8.6 Terza regola, i due terzi

Il criterio più classico per impostare una corretta inquadratura è la cosiddetta regola dei terzi. Essa consiste
nell'immaginare che il rettangolo sia diviso in tre parti sia orizzontalmente che verticalmente, come indicato
nelle figure qui sotto.

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Gli elementi compositivi dell'immagine, secondo questa regola, dovrebbero essere disposti in modo che le
linee importanti coincidano (più o meno) con la divisione dello spazio in terzi. Ciò conferisce alle immagini un
notevole equilibrio strutturale. Si osservino anche le seguenti fotografie.

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9. La fotografia digitale

9.1 Dalla pellicola al digitale

Dall’invenzione della fotografia sono oramai passati più di 150 anni, ed in questo lungo tempo ci sono stati
enormi progressi tecnologici nella pellicola, negli apparecchi, ecc, ma gli elementi fondamentali sono rimasti
sostanzialmente gli stessi.

La nostra camera fotografica ci permette di catturare delle immagini usando la pellicola!

Con l’avvento della tecnica digitale la pellicola scompare ed appaiono dei dispositivi elettronici chiamati CCD
(Charge Coupled Device – dispositivi a scorrimento di carica).

Il procedimento fotochimico è finalmente sostituito da quello fotoelettrico, la luce colpisce dunque una
superficie di materiale semiconduttore, costituito da una griglia d’elementi di dimensioni microscopiche che
fungono da sensori, ognuno dei quali registra un “punto” dell’immagine.

9.2 Introduzione

Nelle macchine fotografiche digitali la pellicola è sostituita da un sensore. Questo sensore non è altro che un
chip su cui l’immagine è catturata in analogico e convertita in digitale.

Il sensore è diviso in milioni di piccole aree chiamate pixel, ognuna delle quali registra l’informazione di
colore riguardante un’area molto piccola. Oggi i sensori raggiungono facilmente risoluzioni enormi come 8/10
milioni di pixel.

In fotografia il numero di pixel si misura in Megapixel/Mpx (milioni di pixel). Il numero totale di pixel è
calcolabile anche come prodotto della massima risoluzione verticale per la massima risoluzione orizzontale.
Ad es. se la macchina riprende 1280x1024 = 1,3 Mpx.

Per eseguire l’operazione contraria (massima risoluzione a partire dai Megapixel) dobbiamo ricordarci che il
rapporto standard tra la risoluzione orizzontale e quella verticale è di 1,25:1. Quindi per prima cosa
dobbiamo dividere il numero di Mpx per 1,25 poi calcolare la radice quadrata (otterremo la misura minore:
1024) infine calcolare l’altra misura moltiplicando nuovamente per 1,25.

9.3 Quanto conta il numero di Mpx

È importante notare che la “definizione” aggiuntiva catturata da un CCD con più Mpx potrebbe deludere chi
si aspetta un nettissimo cambiamento. Mi spiego meglio: passando da 2 Mpx a 5Mp potreste pensare che
un oggetto fotografato raddoppi (e oltre) la sua dimensione e sia quindi stampabile a grandezza più che
doppia.

Potreste pensare che un’immagine a 2Mp sia stampabile agevolmente a 9x12 e quella da 5Mp a 18x24. (Le
cifre non sono accurate, sono scelte solo per dare un’idea tangibile). Invece no, infatti linearmente la
risoluzione del CCD è aumentata solo della radice quadrata di 5/2 e cioè di 1,6 volte! Ben meno che 2,5 che
ci saremmo aspettati ad occhio.

Dunque se per definizione intendiamo l’aumento di dettagli in entrambe le direzioni, i Mpx sono
effettivamente un parametro utile che misura l’aumento di nitidezza nell’immagine. Ma se c’interessa notare
un particolare o stampare la foto più che i Megapixel c’interessa la risoluzione orizzontale (o verticale) e
passando da un ccd all’altro quello che conta è la radice quadrata del rapporto tra le dimensioni dei sensori
in Mpx.

9.4 Grandezza dei sensori CCD

Un'altra caratteristica molto importante per i sensori CCD è la grandezza: la grandezza dei singoli pixel (più
che del ccd) influisce moltissimo sulla capacità di catturare luce. Sensori grandi (e quindi pixel più grandi) di
norma hanno una resa dinamica maggiore dei sensori piccoli. I valori più diffusi in ordine crescente di
grandezza sono:

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1/2.7", 1/1.8", 2/3", 23x15mm circa, 35x23mm (FF)

La grandezza effettiva del ccd si calcola esattamente com’è facile ipotizzare. Ad esempio 1/1.8" = 0.55"
quindi 1/1.8 è più piccolo di 1/1.3. Grandezze di ccd da 23x15mm circa a 35x23mm o superiori sono le più
usate dai professionisti.

9.5 Funzionamento

Il funzionamento fisico di un ccd è qualcosa di complesso e poco interessante per un fotografo, vi basta
sapere che grazie all’elettronica è stato possibile costruire strutture microscopiche in grado di rilevare
l’intensità di luce che le colpisce attraverso variazioni della corrente elettrica prodotta (o lasciata passare).

Il passo successivo è quello di convertire l’intensità di corrente elettrica in un segnale digitale attraverso un
convertitore AD (Analogico-Digitale) a grande risoluzione di colore (12 bit, 16 bit).

9.6 Pixel Monocromatici

La cosa che è importante notare però, è che ogni pixel cattura un solo colore. Esatto, i pixel sono
monocromatici. In pratica i CCD attuali sono “verniciati” pixel per pixel con una vernice trasparente che
permette a ogni pixel di catturare la luce solo nella componente di colore di cui è verniciato.

Per capire meglio questa tecnica basta pensare all’effetto che si ha guardano attraverso un filtro colorato. In
pratica vediamo solo quel colore nelle sue diverse intensità.

Lo schema più usato consiste nel dipingere i pixel adiacenti secondo lo schema GRGB Green (verde), Red
(rosso), Green (verde), Blue (blu) (si noti che il verde è il colore a cui l’occhio umano percepisce la maggior
parte di dettagli). I colori appena citati sono i colori primari, da questi è possibile ottenere qualsiasi altro
colore.

In pratica l’effetto che si ottiene attraverso questa tecnica è quello di avere tre fotografie dello stesso
oggetto, ognuna leggermente spostata rispetto all’altra di una certa misura angolare (che corrisponde a
pochi millimetri o meno a distanze di pochi metri). Il calcolo si esegue così: larghezza area fotografata alla
distanza X (ad es. circa 5 metri di larghezza a 5 di distanza)/risoluzione orizzontale. Per un sensore a 3Mp
abbiamo 5 m / 1550 = 3mm.

Queste immagini sono fuse insieme attraverso un procedimento molto complesso che richiede, per dare
un’idea, circa 100 operazione per singolo pixel. Nonostante ciò il procedimento produce artefatti abbastanza
vistosi come una risoluzione “reale” inferiore a quella dichiarata e raggiunta solo grazie all’interpolazione, un
certo livello di sfocatura necessario per evitare artefatti di colore che si verificano comunque su superfici a
mosaico (es. una camicia).

9.7 Range dinamico

Il range dinamico è il rapporto tra la più forte e la più debole luce catturabile dal sensore ccd una volta
fissati tempo d’otturazione, apertura diaframma e sensibilità iso. Il range dinamico è quindi un sinonimo di
contrasto massimo tra luce e ombra che viene reso correttamente dal ccd. Anche l’occhio umano e la

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pellicola hanno un range dinamico limitato, il fatto è evidente se si pensa all’effetto che si ha guardando una
pila che c’è puntata in faccia o fotografando con qualunque macchina in controluce.
In pratica un range dinamico troppo limitato ci porterà ad avere immagini con parti troppo chiare
(sovraesposte), troppo scure (sottoesposte) o addirittura entrambe. In queste aree perdiamo completamente
(o quasi) i dettagli e anche i migliori software faticano a recuperarli (e se ci riescono spesso l’immagine non è
certo gradevole).

Buon range dinamico

Range dinamico troppo basso

Il range dinamico non viene dichiarato dai costruttori, ma può essere misurato attraverso alcuni test, la
misura è espressa in ev (equivalent value) o in rapporti di contrasto (es. 400:1).

Questo range varia anche al variare della sensibilità iso impostata, avendo il valore massimo per iso bassi
(100) e calando rapidamente per valori alti (a iso 800 è in media 4 volte più basso che a iso 100). Nella
maggior parte degli apparecchi il range dinamico a iso 100 spazia tra 100 e 400, a secondo del modello.

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9.8 Convertitore AD

Come ho detto i pixel sono misuratori analogici e la misura da loro prodotta è un segnale elettrico misurabile
in volt. Tale segnale deve essere convertito in digitale. La conversione introduce un fenomeno di perdita
d’informazione chiamato “quantizzazione”.
Questo fenomeno è dovuto al fatto che il numero di bit usati per ogni pixel è molto piccolo e il numero di
informazioni codificabili con N pixel è 2N.

Nella maggior parte delle fotocamere abbiamo N = 8 e di conseguenza 2N= 256. Ciò significa che qualsiasi
immagine fotografiamo dovremo descriverla con “solo” 256 gradazioni di luminosità (per ogni colore).

Le ultime fotocamere professionali hanno 10 o addirittura 12 bit che corrispondono rispettivamente a 1024 e
4096 gradazioni.

È utile? Beh diciamo di sì ma molto, molto meno delle altre caratteristiche. Sarà più utile in futuro, quando le
macchine avranno range dinamici molto superiori a quelli attuali e si potrà scegliere l’esposizione migliore
dopo aver scattato la foto (il range sarà così ampio da equivalere a due foto con due esposizioni diverse).

Si noti infatti che avere un buon range dinamico e soli 8 bit significa comprimere le informazioni aggiuntive
rinunciando a buona parte delle informazioni guadagnate (in pratica la forte perdita di dettagli presente nelle
zone scure o chiare si distribuisce ovunque ma molto, molto attenuata).

Si noti inoltre che il Jpeg non supporta risoluzione di colore superiori a 8 bit (ecco il perché dei formati Raw o
proprietari)

9.9 Tipi di ccd

Ci sono essenzialmente due tipi di ccd: “interline transfer” e “full frame”. Il primo tipo è quello più diffuso,
non necessita di un otturatore fisico, permette di utilizzare la macchina fotografica per realizzare brevi filmati
e permette inoltre l’utilizzo del display lcd.

Per contro però richiede un’elettronica molto ingombrante (dovuta alla presenza di registri a scorrimento)
riducendo così la dimensione della parte sensibile del pixel a 1/3 dell’area totale. Il secondo non ha i registri
a scorrimento ma richiede un otturatore fisico (tempi di otturazione molto bassi saranno quindi difficili da
raggiungere) e non permette l’utilizzo dello schermo lcd (richiede quindi una struttura reflex o un viewfinder
non allineato) in compenso l’area sensibile riempie circa il 70% dell’area del pixel. Ovviamente non è
possibile registrare minifilm con questo tipo di sensore.

Riassumendo, vediamo di elencare i pro e i contro

Interline Transfer Full Frame


Possibilità di usare il display lcd Maggior grandezza del ccd
Possibilità di girare filmati Miglior qualità dell’immagine
Possibilità di usare l’otturatore elettronico Miglior Range Dinamico
Basso livello di “rumore”

9.10 Conclusioni…

Incominciamo col far notare che pellicola e sensori digitali presentano limiti in aree differenti, e che la rapida
evoluzione tecnologica di cui il settore digitale si è reso protagonista negli ultimi anni porterà presto ad un
superamento della qualità ottenibile tramite pellicola.

Si avete capito bene, per gli amanti della pellicola non c’è nulla da fare, entro alcuni anni (probabilmente
non più di dieci) la pellicola sarà completamente superata sotto ogni aspetto.

Il motivo è semplice: una pellicola costa in media pochi euro mentre il sensore ccd (o cmos), che
rappresenta l’analogo della pellicola in una macchina fotografica digitale, può arrivare a costare anche più
del 50% del prezzo della fotocamera stessa! È davvero difficile credere che un sensore da 350€ o addirittura
da 900€ non riesca a superare uno da 3€, soprattutto con la rapidissima evoluzione dell’elettronica a cui
assistiamo in questi anni.

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9.11 Limiti e pregi delle macchine fotografiche digitali

Iniziamo elencando i principali pregi e difetti presentati in questo momento dalle macchine fotografiche
digitali rispetto a quelle a pellicola. Tra i pregi delle digitali dobbiamo includere ovviamente il costo d’utilizzo,
praticamente nullo, e la comodità di poter mantenere e catalogare le foto su cd-rom o dvd a costi veramente
esigui.

Non dobbiamo inoltre dimenticare che è possibile ritoccare le foto per migliorarle, correggendo difetti dei
soggetti ripresi (spesso nelle foto dei matrimoni viene richiesto di nascondere le imperfezioni del viso e della
pelle) o errori del fotografo (condizioni di ripresa, esposizione, occhi rossi, ecc).

Per contro però il costo di una macchina fotografica digitale è superiore a quella di una qualsiasi fotocamera
analogica con le stesse caratteristiche. Anzi le digitali di fascia media costano più delle migliori analogiche di
fascia semiprofessionale. Del resto il costo delle pellicole e della stampa di tutte le foto (anche quelle meno
importanti o uscite male) tende a bilanciare i costi dopo qualche anno di utilizzo intenso.

Inoltre bisogna tener presente che l’infinita comodità di poter rivedere immediatamente le foto (al computer,
in televisione o persino stampandole con la propria stampante) può far dimenticare a molti la maggior spesa
iniziale sostenuta per dotarsi di un apparecchio digitale.

Paragonare macchine fotografiche digitali e a pellicola non è affatto così facile. In primo luogo la
comparazione dovrebbe essere aggiornata almeno una volta ogni sei mesi per via del rapido cambiamento
in atto nel settore digitale, poi andrebbe fatto per fasce di prezzo (in alcune fasce il digitale supera la
pellicola sotto molti aspetti, in altre accade il contrario), infine alcune caratteristiche di punta di una o
dell’altra tecnologia potrebbero essere poco utili per la stragrande maggioranza dei fotografi amatoriali
complicando di conseguenza la scelta delle caratteristiche in base alle quali formulare un giudizio.

Elenchiamo quindi solo i principali difetti del digitale rispetto alla pellicola. Difetti che sono una costante in
praticamente ogni macchina fotografica digitale, dalla compatta da un centinaio di euro fino al modello più
costoso da diverse migliaia di euro.

Un primo difetto è legato alla risoluzione massima delle foto: la pellicola permette di effettuare anche
ingrandimenti molto elevati arrivando addirittura a stampare poster senza perdere eccessivamente di qualità.
La stragrande maggioranza delle digitali non offre invece un dettaglio sufficiente per questi scopi. Al
momento attuale solo le reflex più nuove e costose hanno una risoluzione paragonabile a quella della
pellicola.

Un secondo difetto realmente visibile e fastidioso è dovuto al contrasto dinamico (chiamato anche gamma
dinamica o dynamic range) decisamente limitato nelle digitali anche di fascia professionale. D’estate sotto il
sole battente, riprendere zone in luce e zone in ombra porta a “bruciare” quelle in luce o sottoesporre quelle
in ombra. E se i dettagli delle zone in ombra risultano comunque recuperabili (ma non senza una forte
perdita di qualità) per quelli in luce non c’è nulla da fare.

I difetti tuttavia non sono finiti: nel tentativo di correggere, in fase di fotoritocco, un’esposizione sbagliata
(foto troppo scura o troppo chiara) o di recuperare dettagli da una zona sottoesposta ci si scontra con la
limitatezza di colori registrati dal digitale: il problema è noto come posterizzazione e si nota prevalentemente
in presenza di sfumature di colore (es. dal bianco al nero). La maggior parte delle macchine fotografiche
registra infatti “solo” 256 livelli di colore (es. dal bianco al nero ci sono 256 sfumature di grigio). Ciò non
rappresenterebbe un problema se non fosse spesso necessario correggere l’esposizione in fase di
postproduzione tramite interventi di fotoritocco.

Altri due difetti meno rilevanti sono dovuti alla struttura costruttiva stessa dei sensori ccd e cmos: senza
entrare in dettaglio vi basti sapere che tale struttura rende necessario usare un filtro matematico sulle
immagini chiamato filtro di Bayern. Tale filtro sfoca le immagini e introduce errori in caso di rapide variazioni
di colore (ad esempio fotografando una camicia composta da punti bianchi e azzurri). Ogni fotocamera
digitale produce un’immagine con definizione inferiore a quella dichiarata, ogni singolo pixel contiene
un’informazione non del tutto completa che produce un’immagine leggermente sfumata a livello dei dettagli.
La cosa peggiore legata a questo filtro è però la creazione di rumore colorato. Per rumore in fotografia si
intende la presenza in una foto di puntini di colore o luminosità diversa da quella reale. Il rumore è visibile
solo a iso elevati e soprattutto in foto scure (ad esempio è ben visibile nelle foto notturne). Una pellicola di
sensibilità 400 ISO produce un rumore di colore neutro (dello stesso colore del pixel che sostituisce) che è
visibile, ma quasi difficile da notare e comunque non fastidioso. Le digitali invece (a causa del filtro di

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Bayern) producono un rumore con tinte molto vivaci e con colori saturi e intensi (verde, viola, rosso, blu) che
rende quasi inservibili le foto agli iso più elevati. Il difetto è particolarmente evidente nelle compatte. Anche
se ultimamente esistono degli algoritmi che tentano di ridurlo le foto scattate con le compatte digitali a iso
elevati sono spesso tutt’altro che belle da vedere.

Un difetto inesistente è invece quello dovuto al fatto che le foto ottenute dalla pellicola vengono sempre
stampate, mentre quelle sviluppate da un rullino digitale possono essere visualizzate sul monitor di un
computer. Le dimensioni di un monitor (15” o più) facilitano l’individuazione dei limiti del proprio apparecchio
e sfavoriscono il giudizio verso le fotocamere digitali. Il confronto quindi dovrebbe essere effettuato
unicamente tra foto stampate nello stesso formato.

Il digitale non ha solo difetti, anzi ha anche molti pregi, ma i principali riguardano comodità, costi e facilità di
ritocco. Altri pregi del digitale sono tuttavia presenti ma limitati solo alle macchine meno professionali!
Sembra incredibile, eppure proprio le compatte digitali hanno dei vantaggi innegabili rispetto alle reflex
digitali e analogiche! Sarebbe però un errore credere le compatte digitali migliori delle macchine reflex,
dimenticando tutti i difetti che presentano e i pregi di queste ultime.

Il principale pregio delle compatte è determinato da una caratteristica tutt’altro che positiva: spesso infatti vi
abbiamo elencato i difetti collegati a un sensore di piccole dimensioni, eppure proprio questo difetto è fonte
di un vantaggio molto utile in diversi casi. Le compatte infatti hanno una profondità di campo notevolissima.
In pratica mettono a fuoco sia oggetti vicini che distanti, anche se si usano ottiche da 300mm equivalenti!
Tali ottiche infatti equivalgono in realtà a dei 60mm! La cosa interessante è comunque la possibilità di
sbagliare la messa a fuoco e avere ugualmente il soggetto perfettamente a fuoco, soprattutto in modalità con
zoom non elevato.

Sempre per le ridotte dimensioni del sensore inoltre si ottengono immagini molto luminose anche a zoom
molto elevati. Si pensi solo che uno zoom per reflex da 300€ presenta a 300mm un diaframma di 5,6 mentre
una compatta arriva a 3,5, garantendo una luminosità di 2,5 volte superiore!

Infine il costo delle ottiche di buona qualità (per le reflex) è elevatissimo. Gli ultimi modelli di zoom hanno
escursione molto elevata con caratteristiche discrete di aberrazione, distorsione, nitidezza, ecc e con lo
stabilizzatore integrato! Un ottica per reflex con caratteristiche simili ma senza stabilizzatore costa sui 300€!
E per avere lo stabilizzatore si arriva a più del doppio di questa cifra! Certo, la qualità di un’ottica con questi
prezzi è notevole, ma anche il suo prezzo e avere su una compatta uno zoom 10x con stabilizzatore è
davvero interessante.

Uno degli aspetti più stimolanti della fotografia digitale è sicuramente l’ampia gamma di opzioni creative
messe a disposizione dai programmi di elaborazione e ritocco delle immagini. Grazie alle numerose funzioni
incorporate in Photo Shop, Corel Draw o Paint Shop Pro, giusto per citare alcuni tra i più famosi programmi
di photo editing disponibili, dopo lo scatto, il fotografo digitale ha oggi infinite possibilità di intervento creativo.
Con pochi clic del mouse si possono ottenere elaborazioni che con la fotografia tradizionale richiederebbero
la disponibilità di una costosa e complicata camera oscura professionale.

Tuttavia, prima di lanciarsi nell’uso di questi sofisticati programmi è opportuno aver chiari alcuni concetti
fondamentali che avranno un decisivo effetto sulla resa delle immagini, soprattutto quando il risultato finale
da ottenere è una stampa di grande formato ottenuta con una stampante inkjet o meglio ancora inviando le
foto ad un laboratorio dotato di minilab digitale. I principali parametri da tenere sotto controllo sono la
dimensione dei pixel e la risoluzione dell’immagine, aspetti questi su cui regna ancora molta confusione tra
gli appassionati.

La dimensione dei pixel dell’immagine dipende dal sensore usato per la ripresa, per esempio un sensore da
circa 5 megapixel registrerà in uscita immagini di 2560 pixel in larghezza ed 1920 pixel in altezza, mentre nel
caso di un sensore da 1,2 megapixel si avranno in uscita immagini da 1280 pixel per 960 pixel. Nel momento
in cui andremo a visualizzare o a stampare le due immagini avremo una differenza di risoluzione
determinata dalla dimensione dei pixel che nel primo caso saranno più piccoli e quindi faranno risultare
l’immagine molto più definita.

Andiamo ora a calcolare la risoluzione per una stampa nel classico formato 20x27. La risoluzione di norma
viene espressa in DPI cioè Dot per Inch (in italiano punti per pollice quadrato) e per il calcolo occorre
trasformare le dimensioni di stampa in pollici (dividere per 2,54) e poi dividere il numero dei pixel di ogni lato
per la dimensione in pollici del formato di stampa. Nel caso dunque del formato 20x27 cm. la risoluzione

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delle due immagini di cui sopra sarà di: 240 DPI per l’immagine da 5 megapixel e 120 DPI per quella da 1,2
megapixel.

Riassumendo quindi, la risoluzione è espressa in punti per pollice ed esprime un valore di densità di
informazioni per una certa dimensione di stampa o visualizzazione, la dimensione dei pixel è invece
espressa a prescindere dal formato di stampa o di visualizzazione e fornisce una indicazione della ricchezza
di dettagli complessiva dell'immagine.

9.12 Risoluzione e dimensione di un’immagine digitale

Sembra che, per rendersi la vita più semplice, molto spesso gli "addetti ai lavori" abbiano la tendenza a
sintetizzare in minuscole sigle concetti che per essere spiegati per intero necessiterebbero di intere pagine.
Questa "corsa al risparmio" ci porta ad essere quotidianamente sommersi da sigle, acronimi, abbreviazioni
con il rischio sempre più presente di non riuscire a capirsi anche su concetti molto semplici.

Nello specifico, il gergo del fotografo digitale è pienissimo di questi neologismi e forse varrebbe la pena fare
un po' di luce.

Cercheremo di capire, prima di tutto, la terminologia adottata per definire le dimensioni e le caratteristiche
principale di un'immagine e in secondo luogo vedremo cosa hanno a che fare sigle come dpi, ppi, o
megapixel con una fotografia stampata.

9.12.1 Mini glossario

Per cominciare riporto alcuni dei termini base usati con maggior frequenza dandone una breve spiegazione

• dpi: ( Dots Per Inch ) Unità di misura utilizzata per indicare la risoluzione grafica che può essere
riprodotta ad esempio da una stampante

• MegaPixel: Unità di misura corrispondente a 1 milione di pixel. Molto usata per definire la risoluzione
di una immagine prodotta da una macchina digitale

• bit: Un bit è la più piccola quantità di informazione memorizzabile

• byte: Unità di misura corrispondente a 8 bit

• Kilobyte: 1024 byte

• Megabyte: 1 milione di byte

• pixel: ( Picture Element ) Il più piccolo tra gli elementi che vengono visualizzati su uno schermo. La più
piccola area dello schermo che possa accendersi e spegnersi e variare d'intensità indipendentemente
dalle altre

• ppi: (pixel per inch) Unità di misura concettualmente simile a dpi ma utilizzata per definire la
risoluzione di monitor, scanner e macchine fotografiche digitali

9.13 Le immagini digitali

Quando scattiamo una fotografia la nostra macchina digitale svolge, in rapidissima successione una serie di
passi. Prima di tutto viene impostato il diaframma al valore scelto.

Successivamente l'otturatore si apre e lascia passare luce in modo da impressionare il sensore digitale.
Quest'ultimo trasforma le informazioni luminose in impulsi elettrici e li invia ai circuiti dedicati all'elaborazione
dell'immagine. Qui i dati verranno adeguatamente manipolati e infine salvati come file digitale.

A questo punto nella nostra scheda di memoria abbiamo archiviata sotto forma di bit una fotografia digitale.

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9.13 La stampa

Dopo questa lunga, ma credo abbastanza interessante, introduzione, veniamo al dunque cercando di capire
come si passa dal file memorizzato sull'hard disk ad una bella fotografia appesa al muro del nostro
soggiorno.

In questi casi non è raro sentirsi porre domande del tipo: quanto grande posso stampare questa immagine ?
o ancora ...ho stampato questa fotografia in formato A4 ma i risultati sono pessimi ...perchè ?

Il nocciolo della questione è quindi capire quale relazione esista tra risoluzione di un'immagine digitale e
dimensione finale della stampa.

Prima di tutto cerchiamo di fare luce sul concetto di dpi.

Un'immagine digitale è composta essenzialmente da un certo numero di punti colorati, i pixel, disposti
ordinatamente in una griglia di dimensioni fissate. Ad esempio una foto da due megapixel sarà composta da
circa 2 milioni di pixel disposti in un rettangolo di dimensioni 1600x1200 pixel per lato circa.

Stampare una foto significa riportare su carta tutti i punti costituenti l'immagine.

Qui interviene il concetto di dpi. Un certo valore di dpi ( dots per inch ) infatti ci dice quanti punti (dots)
vengono stampati per ogni pollice (inch). Valori più alti significheranno che i punti saranno più fitti, più vicini
tra loro. Al contrario valori bassi indicheranno che i punti avranno una densità, una distanza tra di loro più
elevata.

Punti troppo distanti tra loro daranno luogo ad un'immagine poco definita, granosa in cui i punti stessi
saranno visibili ad occhio nudo con conseguente degrado della qualità della stampa.

Aumentando la densità dei punti si ottengono immagini migliori, in cui non è presente alcun effetto grana e in
cui i passaggi tonali sono più graduali e delicati.

A causa della struttura stessa dei nostri occhi però è inutile superare una cera soglia di definizione. Il nostro
apparato visivo infatti è in grado di distinguere dettagli fino alla risoluzione di circa 300dpi. Oltre questo
valore, ogni informazione aggiuntiva verrebbe confusa con le altre e non sarebbe rilevabile.

Per questo motivo si è stabilito che la risoluzione ottimale per un'immagine fotografica sarà di circa 300dpi
(massima qualità) con un minimo di 200-240dpi in casi particolari. Utilizzi diversi dalla stampa prevedono
tuttavia valori anche molto più bassi.

DESTINAZIONE VALORE dpi CONSIGLIATO


Esposizioni, libri, riviste di qualità 300 dpi
Stampe di grandi dimensioni 300/200 dpi
Quotidiani, stampe casalinghe 8max 13x18) 150/100 dpi
Web, monitor 100/72 dpi

9.13.1 Riassumendo

Una volta compreso il concetto di dpi basta tenere a mente quanto segue:

• Un'immagine digitale è definita da una dimensione, espressa in pixel, per il lato maggiore e una per il
lato minore.

• Un'immagine digitale non ha dimensioni assolute di stampa.

• La relazione tra dimensioni in pixel e dimensioni in cm della stampa passa solo ed esclusivamente
attraverso il concetto di dpi.

Riporto una piccola tabella che mette in evidenza il rapporto esistente tra il numero di megapixel, la
risoluzione e la dimensione massima stampabile a 72, 150 e 300dpi.

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MEGAPIXEL (Mpx) RISOLUZIONE STAMPA 72 dpi STAMPA 150 dpi STAMPA 300 dpi
2 1600x1200 56x42 cm 27x20 cm 13x10 cm
4 2272x1704 80x60 cm 38x28 cm 19x14 cm
5 2650x1920 90x67 cm 43x32 cm 21x16 cm
6 3072x2048 108x72 cm 52x34 cm 26x17 cm
10 3872x2592 137x92 cm 66x44 cm 33x22 cm

Per chiarire i concetti fin qui esposti riporto la schermata delle dimensioni di un’immagine usando il
programma Photoshop di Adobe.

Come potete vedere una fotografia di circa 60cm di lato richiede ben 7195 pixel per essere stampa alla
massima qualità di 300dpi.

9.14 Modificare le dimensioni di un’immagine

A volte può essere necessario modificare le dimensioni di un'immagine per adattarla a scopi specifici.
Esistono 2 modi di procedere.

9.14.1 Risoluzione fissa

Modificare le dimensioni in pixel dell'immagine lasciando invariato la risoluzione in dpi. Questo approccio è
"indolore" nel caso l'immagine venga rimpicciolita mente può creare un degrado di qualità nel caso in cui le
dimensioni finali siano maggiori di quelle iniziali.

Riducendo le dimensioni di un'immagine infatti non si fa altro che scartare dati non più necessari.

Ingrandendo invece, il programma di fotoritocco dovrà interpolare i dati esistenti per crearne di nuovi. Questo
processo, sebbene venga realizzato tramite algoritmi molto sofisticati, ha dei limiti e da risultati accettabili
solo se usato con moderazione.

Per compiete questa operazione nella casella delle dimensioni immagine di photoshop, assicurarsi che la
voce "Resample image - Ricampiona Immagine" sia selezionata. Successivamente modificare dimensioni a
piacere.

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Notate come anche le dimensioni dell'immagine siano variate. Il file, prima di 37 MB è diventato ora di 101
MB. Questa è conseguenza dei nuovi dati, generati dal programma di fotoritocco, che sono serviti per
passare dalla risoluzione di 7.195 pixel alla nuova di 11.811 pixel. Allo stesso tempo notate come i dpi siano
rimasti fissi a 300.

9.14.2 Dimensione pixel fissi

Questo secondo approccio prevede di modificare la risoluzione dell'immagine cambiando il valore di dpi.
Anche in questo caso rimpicciolendo l'immagine non si hanno particolari controindicazioni. Ingrandendo
invece il problema risiede nel fatto che si tenta di disporre su una superficie più ampia lo stesso numero di
pixel che costituivano l'immagine iniziale. Per forti ingrandimenti il livello qualitativo della stampa potrebbe
non essere accettabile.

Per compiete questa operazione nella casella delle dimensioni immagine di Photoshop, assicurarsi che la
voce "Resample image - Ricampiona Immagine" non sia selezionata. Successivamente modificare
dimensioni a piacere. Noterete che il valore dpi diminuirà se ingrandirete l'immagine e aumenterà se la
rimpicciolirete.

La dimensione in MB dell'immagine è rimasta costante come i valori in pixel. Avendo deselezionato il


ricampionamento immagine, modificando le dimensioni cambia solo la risoluzione.

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10. La fotografia come espressione artistica

Con l’ultimo capitolo siamo arrivati alla conclusione di questo nostro corso introduttivo alla fotografia.

l'immagine artistica è probabilmente l'espressione più libera e più pura di una qualsiasi espressione
dell'uomo e dunque anche per delle persone che da poco hanno iniziato il difficile cammino nell'espressione
personale trovo sia giusto ed importante conoscere, anche se marginalmente, il mondo dell'immagine
artistica.

Chi tra di voi è già stato a visitare una galleria fotografica, di conseguenza a contatto con immagini ed
emozioni molto particolari ha, penso, avuto la possibilità di meglio capire quello che la fotografia come
mezzo espressivo può dare, e dunque accumulare esperienza visiva per poter meglio comunicare agli altri le
proprie emozioni.

Per chi al contrario non ha avuto questa fortuna voglio solo consigliare di visitare qualche galleria o mostra
fotografica, se non altro per vedere un'altra faccia dell'eterogeneo mondo della fotografia.

Ognuno di noi adotta nella vita uno stile particolare, qualsiasi cosa noi facciamo è condizionata da
innumerevoli fattori, dunque anche in fotografia ciascuno di noi dovrà avere uno stile personale ed è solo
con molto esercizio che si riuscirà ad ottenerlo.

Dunque pratica ed esercizio, consumando anche parecchio materiale, sono gli unici mezzi per impratichirsi
della tecnica a tal punto da poter dedicare completa attenzione al fattore espressivo.

10.1 L’arte e la fotografia

La fotografia è una vera e propria arte.

Per questo motivo possiamo dire che esistono delle vere proprie fotografie artistiche che sanno trasmettere
grandi emozioni e suggestione.

La fotografia può essere concepita come un semplice immortalare di avvenimenti e nulla più, ma allo stesso
tempo può essere definita uno specchio dell’arte capace di cogliere la realtà nella sua magia effimera.

Saper scattare fotografie non equivale a saper fare belle fotografie, proprio perché fotografare è un arte in
tutto e per tutto, e come tutte le srti necessita studio, dedizione e, soprattutto, passione.

Si, finché la fotografia risulti artistica ci vuole molta passione e dedizione da parte di chi la scatta, chi
osserva la fotografia deve percepire quanta passione dell’autore vi sia celata in essa.

Vi sono libri nei quali compaiono le fotografie dei più grandi fotografi mai esistiti. Osservando queste
fotografie si riesce al primo colpo d occhio a capire cosa significa fotografia artistica.

E una fotografia che trasmette emozioni, che in poco spazio è in grado di raccontare una vita e senza
parole è in grado di trasmettere i pensieri e i sentimenti dei personaggi che la caratterizzano.

Possono essere fotografie artistiche anche quelle dai soggetti più banali come ritratti, paesaggi, nature
morte, animali, foto aeree, foto giornalistiche e nudi.

Proprio le foto giornalistiche possono esprimere molte sensazioni in chi le osserva. Basti pensare
all’immagine di un bimbo terrorizzato dalla distruzione provocata da un terremoto, una donna smarrita
davanti all’effetto di una bomba e così via.

Saper immortalare artisticamente questi momenti significa trasmettere all’osservatore il battito del cuore dei
soggetti, i loro sentimenti e il loro smarrimento. Queste sono le foto artistiche!

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10.2 Registrare la luce!

La fotografia è la registrazione della luce (chimica o elettronica) di una certa regione dello spazio da un dato
punto di vista per un dato tempo su un supporto (pellicola o dischetto) che permette una successiva
trasformazione ad una forma visibile all'occhio umano (carta, monitor).

Registrare la luce. È una delle tante possibilità che l'uomo si è inventata. Ha imparato a registrare la lingua e
le idee (scrittura, disegno, pittura, spartiti), il suono (registratori) e poi la luce e il movimento (fotografia,
cinema).

10.3 Fare fotografia, il fine è...

La fotografia è un mezzo per registrare, ed è "facile": basta pigiare un bottone e sono registrate tantissime
informazioni. Poi c'è la buona e la brutta fotografia e a volte è questione di gusti e interpretazioni, ma cosa ci
spinge a farlo?

Credo ci siano tre intenzioni che possono spingere a fare fotografia:

10.3.1 Lo scatto

Registrare, riprodurre, ricordare, fermare, avere, possedere, mantenere, rivivere, vedere, mostrare,
difendere, immaginare, analizzare, scoprire.

Fare fotografia non si limita a questo. Spesso diventa fine a se stesso. È lo scatto il fine. Come quando c’è
successo qualcosa e dobbiamo raccontarlo: non è comunicare il fine, ma liberarci di un peso.

Scattare è uguale a sparare, immobilizzare, bloccare, scaricare, liberarsi, attaccare, salvarsi, esprimersi,
difendersi.

Questo approccio è una fuga e fare fotografia non è di nessun aiuto, se non come un'altra sigaretta per chi
fuma solo per vizio. Fare fotografia dovrebbe essere solo un mezzo, ma vorrei capire perché l'uomo (io
compreso) spesso trasforma la fotografia in fine. Quando vedo turisti esporre metri di pellicola non posso
evitare di pensare ai bambini che vogliono a tutti i costi pigiare quel bottone.

10.3.2 Creare

Credo che una delle ragioni per fare fotografia sia quella di creare qualcosa: un'esperienza visiva.

L'immagine in quel modo, con quella luce, stampata su quel supporto, di quel formato, tutte queste
componenti assieme è il fine.

Non è importante il soggetto in sé, in quanto entità reale. Il soggetto è stato solo un ausilio per sviluppare
un'idea visiva: come per la pittura astratta (infatti alcuni artisti hanno mischiato le due arti).

Il fotografo ha fatto la foto consapevole del processo fotografico. E' questa, secondo me, la foto "artistica".

10.3.3 Il soggetto

Il modo più classico di fare fotografia è invece quello di "prendere appunti visivi" di un dato soggetto.

E' allora il soggetto, il fine, e fare una buona fotografia diventa dunque cercare di "prendere appunti" nel
modo migliore, dove migliore è soggettivo e relativo al rapporto fra fotografo e ciò che vuole registrare.

Questo significa assumere un punto di vista e quindi anche un’interpretazione del soggetto. Questo tipo di
fotografia è così un mezzo di comunicazione, dove è pericoloso escludere il punto di vista del fotografo. Il
destinatario può essere una persona che non era presente, oppure il noi stessi che nascerà in futuro.

E' importante anche notare che la fotografia registra di più di quanto voluto: ci sono particolari che non
avevamo notato quando abbiamo scattato la foto e che (forse) successivamente vengono scoperti, eppure,
al fotografo novizio,dà l'illusione di poter registrare ogni cosa del soggetto o della situazione, mentre invece
la fotografia registra solo la luce di quella particolare regione dello spazio, senza rispetto dell'importanza

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effettiva di ciò che viene fotografato: così ci sono stupende fotografie di oggetti assolutamente inutili e
pessime fotografie di persone ed avvenimenti eccezionali.

La fotografia "a soggetto" si può dividere in tre categorie, che non dipendono dal tipo di soggetto fotografato,
ma da come il fotografo è in relazione con esso.

10.3.3.1 Il soggetto è indipendente dal fotografo

Foto scientifiche, foto di panorami, foto di persone inconsapevoli, immagini di telecamere nascoste. In alcuni
casi si potrebbe quasi parlare di furto, se effettivamente ci fosse un'immagine che abbiamo il diritto di
difendere.

Comunque è certo che la fotografia ruberà solo quello che la situazione permetterà al fotografo di fotografare
senza farsi scoprire: dovrà scendere a compromessi, un po' come con gli animali selvatici. Bisogna essere
veloci, furbi, avere intuito. Se si ha fortuna, il risultato è "vero" e addirittura "compromettente": ad esempio
un'espressione genuina di una persona in una certa situazione, che nemmeno il soggetto stesso conosce di
sè e che è fermata per sempre (la foto può diventare un testimone o un'arma psicologica).

Kieslowski diceva: "Ho paura di quelle lacrime vere. Infatti, non so se ho il diritto di fotografarle”.

Però non sono molte le situazioni in cui il fotografo può veramente dichiararsi indipendente dal soggetto o
dalla situazione che sta fotografando. Il decidere di fermarsi a fotografare significa partecipare all'azione con
la scelta di non partecipare all'azione.

L'esempio, più volte ripreso anche al cinema è quello del giornalista che fotografa un uomo che uccide
un'altro uomo. Quanto è più forte la necessità di registrare un dato evento, da quella di tentare di evitare che
questo avvenga? Quale sarebbe il comportamento del fotografo se non avesse la macchina?

Inoltre la fotografia può cambiare il futuro del soggetto. Spesso quando l'opinione pubblica scopre qualcosa,
il soggetto conosce un destino diverso da quello che avrebbe avuto se non fosse stato fotografato.

Quello che è sicuro è che la fotografia cambierà il destino del fotografo stesso, che ha fatto l'esperienza
dell'avvenimento fotografato attraverso l'occhio della macchina fotografica e che si dovrà mettere in
relazione alla fotografia finita.

Il fotografo dovrebbe domandarsi quanto è disposto a sacrificare della propria esperienza (e della propria
vita) per registrare.

10.3.3.2 Il fotografo influenza il soggetto

Foto di gruppo, di famiglia, possiamo avere un po' più di tempo, ma la foto riporterà solo ciò che la persona è
disposta a concederci, o meglio, ciò che pensa di star concedendo, infatti spesso facciamo fatica a
riconoscerci ed accettarci, sebbene consapevoli di essere stati fotografati.

Questa la dimostrazione che quanto noi ci immaginiamo non corrisponde a quello che in realtà viene visto
da un altro punto di vista: ci sono tante variabili di cui non teniamo conto.

Una grande abilità del fotografo sta nel riuscire a portare il soggetto verso l'espressione che desidera
fermare, distogliendo l'attenzione dalla macchina fotografica. Il problema sta quando la presenza o
l'esigenza del fotografo provoca l'avvenimento l'etica di chi vuole fare una fotografia dovrebbe spingerlo a
porsi la domanda se la sua azione non è parte determinante dell'avvenimento, come ad esempio spaventare
con la macchina fotografica un animale a tal punto di ucciderlo, oppure certo reportage aggressivo e
irrispettoso che crea la scoop dalla reazione che egli stesso a provocato.

10.3.3.3 Fotografo e soggetto si autoalimentano

Un esempio su tutti: la televisione.

Un mostro che non tace mai, che si autogenera pur di non fermarsi un momento. Affamato d’ubiquità e di
"espansione del consenso" si autoalimenta, cercando il soggetto anche dove non c'è oppure ripetendosi o
peggio ancora parlando di sé stesso.

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Una versione più sottile dello stesso meccanismo che induce un pazzoide a riprendere con una telecamera
le sue azioni e commette le stesse per poterle riprendere.

Un altro esempio curioso sono i frattali generati puntando una telecamera su una televisione che trasmette
le immagini che la telecamera riprende.

10.4 Guardare la fotografia

Riflettere sul "guardare la fotografia" implica inevitabilmente una discussione delle capacità visive dell'uomo.

Non è infatti evidente che dei colori e dei contorni bidimensionali vengano interpretati come tridimensionali,
oppure che in una foto di tre centimetri quadrati "riconosciamo" qualcuno.

A volte guardare un'immagine è quasi come fare esperienza diretta, come ad aver vissuto veramente
quell'avvenimento.

Per questo motivo la fotografia è potente, in quanto può riproporre un'esperienza in modo realistico, e senza
pausa. Ci fidiamo di lei perché passa attraverso la vista, il nostro senso più sviluppato, perché crediamo
(ancora) sia difficile barare, inventare qualcosa che non è veramente successo e perché la riteniamo
oggettiva poiché non completamente controllabile dal fotografo.

Questa fonte di esperienza continua porta a vantaggi e svantaggi: possibili vantaggi quando sono per
esempio fonte di memoria sociale, testimonianza storica; possibili svantaggi quando sono fonte di shock,
come la pornografia o la brutalità agli occhi dei bambini, infatti la sua resistenza nel tempo e la sua
immobilità ci impongono di affrontarla.

Guardando una fotografia bisognerebbe essere coscienti che quella è una sopravvissuta di un’infinita strage,
non solo d’infiniti momenti fotografabili, ma anche molto più pragmaticamente, di tutte le altre fotografie che il
fotografo ha scartato: la foto non è quello che volevamo vedere, ma solo ciò che ci è stato reso possibile
vedere.

Le fotografie hanno la forza di distorcere l'importanza degli avvenimenti: alcuni vengono addirittura
dimenticati perché non fotografati o perché altri sono stati fotografati meglio, altri momenti, magari futili,
vivono per sempre perché fotografati.

La fotografia focalizza l'attenzione e la coscienza su un dato punto, tutto il resto è dimenticato.

Discutendo sui motivi per fare fotografia, nella prima parte, terminavo dicendo che si può scattare "a
soggetto" o "per arte". A questi due modi di scattare corrispondono due modi di guardare la fotografia: come
fonte d’informazione o come espressione artistica. Non esiste una divisione netta fra le due categorie e
soprattutto non n’esiste un’assoluta.

10.5 Guardare la fotografia "artistica"

La foto artistica è una nuova entità: indipendente dal soggetto da cui ha rubato la luce e
indipendente dal fotografo che l'ha codificata: è in un certo senso atemporale.

La valutazione della foto viene fatta in base alla tecnica usata, al formato, al soggetto in quanto insieme di
informazioni "lì in quel momento su quel supporto", in pratica tutto quello che è stato deciso di includere
nell'opera, compresa la didascalia o la cornice.

A volte, per una valutazione corretta, si dovrebbero possedere certe conoscenze tecniche, per tenere conto
delle possibilità che il fotografo ha avuto e delle scelte che ha fatto.

Così a volte la foto artistica, come per altre forme d'arte, diventa un altro linguaggio, quello del mezzo
tecnico, parlato solo da alcuni addetti ai lavori.

Un altro esempio particolare di "foto artistiche" sono quelle che registrano un'idea: le si riconoscono perché
si può spiegare a parole che cosa è l'idea fotografata.

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10.6 Guardare la foto "a soggetto"

Più spesso invece la fotografia è fonte di informazione, in quanto riferisce di un preciso soggetto in un
preciso momento. In questo caso ritengo sia giusto considerare la fotografia un atto comunicativo completo
e per questo credo sia importante considerare chi l'ha scattata (e magari anche perché).

Il fotografo che riguarda uno dei suoi scatti, dovrebbe valutare quanto e come ciò che voleva comunicare,
viene trasmesso.

Chiaramente uno spettatore può focalizzarsi su altri particolari, perché quello che uno vede dipende dalla
sua predisposizione, dai suoi interessi e dalle sue necessità. Si può quindi dire che la foto è da considerarsi
riuscita, quando lo spettatore ritiene che un dato messaggio (magari diverso da quello che sottintendeva il
fotografo) è stato comunicato in modo chiaro.

A questo punto è evidente come potrebbe essere forte l'influenza che una didascalia o un commento
potrebbe avere nella valutazione e interpretazione di una foto, poiché l'attenzione sarebbe focalizzata su un
preciso particolare.

Quasi immancabilmente succede poi che con il tempo cambia la lettura dell'informazione che noi facciamo di
una stessa fotografia: predisposizione, stato d'animo e necessità sono cambiate e siamo interessati da
qualcosa d'altro.

10.7 Avere fotografie

Si possono collezionare opere d'arte o immagazzinare informazioni.

La fotografia come informazione sta subendo, come la scrittura e la musica (e i soldi), un processo di
smaterializzazione diventano bit.

Per la fotografia come opera d'arte si può dire che essa vive principalmente nella sua materialità. Però, visto
che può essere copiata, subisce sempre più la stessa sorte della scrittura e della musica registrata, dove lo
spettatore (rispettivamente il lettore o l'ascoltatore) costruisce la sua opera d'arte usando l'opera originale
come materiale grezzo: un processo di elaborazione che in passato era possibile solo nella testa dello
spettatore.

E' incredibile notare come a volte la gente si preoccupa di più dell'avere fotografie, e non dell'uso che ne
viene fatto: le foto vengono sviluppate e dopo una prima visione rimangono semplicemente nella stessa
busta, per sempre.

In un certo senso rientra nella legge dei link: sappiamo che sono lì e se c'è bisogno o interesse, le andiamo
a riprendere. Però la legge del link può essere pericolosa perché tende a delegare tutto all'esterno e a
rinviare anche delle riflessioni importanti e necessarie.

Poi a volte succede che le foto si perdono e con esse si perde anche la nostra possibilità di capire; rimane
solo l'angoscia che lì c'era qualcosa che non avevamo ancora "catalizzato".

Ci si può domandare a questo punto perché registrare, perché ricordare, e cosa, e a che prezzo, e come ma
è un altro capitolo.

10.8 Fotografia e società

La fotografia fa parte della cultura dell'umanità.

E' mezzo di comunicazione, di memorizzazione, di educazione, di intrattenimento, un mezzo molto diretto,


che non necessita nella maggior parte dei casi di apprendere un linguaggio per capirlo.

La nostra società (o almeno quella occidentale) ne fa comunque un uso talmente elevato che ne è
completamente assuefatta, a volte succube.

Sempre più spesso non è in grado di distinguere ciò che è reale, realistico o virtuale. Le immagini sono
macinate passivamente e in quantità talmente grandi da perdere sempre più il senso dell'importante non
solo per la società, quanto peggio per sé stessi.

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Il risultato è una società che sta completamente cancellando il senso critico (criticare implica responsabilità,
e per questo è preferibile perdere il diritto di criticare) e si lascia trascinare solo dalle mode, dai trend, dai
gusti di personaggi autorizzati ad esprimere la propria opinione.

Questa società, ispirata dal movente economico (per antonomasia oggettivo), è stata capace di creare il
gusto oggettivo: la bellezza oggettiva, la competenza oggettiva, l'arte oggettiva.

10.9 Galleria d’immagini per riflettere

Sono alcuni, pochi ma significativi, esempi di come la fotografia influisca sulla nostra vita!

Robert Capa “Falling soldier”

Cecile Beaton “Marlen Dietrich”

Alberto Korda “Che Guevara”

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Esecuzione di Nguyễn Văn Lém

Kim Phúc fugge dopo un attacco al napalm

Muhammad al-Durrah e suo figlio, prima che questo venga ucciso

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Scatto di soldati americani ad un “loro” prigioniero nella prigione di Abu Ghraib

Joe Rosenthal “marines alzano la bandiera ad Iwo Jima”

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