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ORESTE TOLONE

LA POSTHISTOIRE DI ARNOLD GEHLEN


A cavallo tra modernità e postmodernità

Il termine posthistoire venne introdotto per la prima volta nel 1952 da


Arnold Gehlen, che lo utilizzò all’interno del saggio Die Rolle des Lebens-
standards1, per poi riprenderlo e definirne la portata filosofica, nell’articolo
dal titolo Die Säkularisierung des Fortschritts2 , apparso in Germania nel
1967. Insieme a tanti autori e a molte correnti filosofiche, quali il poststrut-
turalismo, l’ermeneutica, l’epistemologia postpositivistica, il decostruttivi-
smo ecc., egli contribuisce in modo significativo alla comprensione di quel
fenomeno, complesso e articolato, che chiamiamo postmoderno. Per molti
versi la posthistoire delinea e anticipa le caratteristiche di una società, mo-
derna, che di lì a poco, proprio in virtù del suo stato di avanzamento e di
avanguardia, sarà considerata superata.
La caratteristica fondamentale della società occidentale nella quale vi-
viamo, risiederebbe, a parere di Gehlen, nella sua strutturale «fede nel pro-
gresso». Il processo di secolarizzazione, che giunge a compimento nel corso
del Novecento, ha infatti come suo esito, la progressiva perdita di potere
della religione e dei suoi valori i quali, tuttavia, non scompaiono, ma vengo-
no trasferiti in un contesto laico e immanente. Pertanto, la fede nel progres-
so sarebbe nient’altro che la traduzione di un’aspirazione tipicamente reli-
giosa alla redenzione, di una tensione messianica, all’interno di una società
oramai laica e desacralizzata. Quando la fiducia ebraico-cristiana nella fine
dei tempi viene meno, e l’enorme aspettativa che l’uomo ha nei confronti
di un rinnovamento ontologico viene indirizzata verso la scienza, a quel
punto le dinamiche sociali si sovraccaricano di significato e il progresso
diventa una fede, la scienza una profezia. Cosicché l’uomo comincia a
guardare alla storia, come a un luogo in cui poter realizzare le proprie spe-
ranze e perseguire, con fede entusiastica, un rinnovamento, una trasforma-
zione radicale che sia in grado di inaugurare un’epoca diversa. Un uomo
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1 A. Gehlen, Die Rolle des Lebensstandards in der heutigen Gesellschaft, in Id.,
Einblicke, Klostermann, Frankfurt a.M. 1978, pp. 15-19.
2 A. Gehlen, Die Säkularisierung des Fortschritts, in Id., Einblicke, cit., pp. 403-413;
tr. it. La secolarizzazione del progresso, a cura di B. Maj, in «Discipline Filosofiche»
1(2001), pp. 171-180.

Humanitas 62(2/2007) 410-419


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nuovo, in quanto profondamente convinto di poter sovvertire un ordine co-


stituito e anacronistico, è la premessa per un mondo rinnovato, nel quale
nuove forze ed energie, suscitate da idee e idealità, entrano in circolo. Stori-
camente questo accade «quando gli antichi orizzonti cominciano a sfumare
e si presagisce una vita nuova»3 – promossa da settori della società spesso
marginali – che presenta tutte le caratteristiche di un paradiso in terra, in cui
regnano libertà e uguaglianza. Un uomo nuovo aspira a un nuovo mondo,
che assume sempre più le caratteristiche di un luogo utopico, di una «Nuo-
va Atlantide» in cui si compirà quella rigenerazione, a cui una parte della
società lavora con pathos e tensione religiosa. Venuta meno la fede in un
altro mondo, rimane integra la tensione religiosa verso un mondo diverso,
a cui lavorare con furore millenaristico. È questo il caso dei popoli che
combattono per la loro indipendenza, delle classi sociali che aspirano alla
piena emancipazione, di tutti coloro che, per la prima volta, sanno di posse-
dere un progetto autenticamente utopico4 .
Una società di questo genere, sebbene secolarizzata, conservava l’idea
di una missione, di una fede laica nel progresso, nella ragione, che permet-
teva all’uomo di continuare ad agire all’interno di un orizzonte di senso.
Nella società della posthistoire, invece, è come se la modernità giungesse
al suo esito ultimo e definitivo, e si pervenisse a una forma di secolarizza-
zione di secondo grado, che determina l’affievolirsi anche di quegli ideali
utopici, ancora in vigore nella società moderna. Questo perché l’energia spi-
rituale e ideale viene progressivamente smorzata e soffocata dalle dinami-
che di una società tecnologizzata, che spegne la carica rivoluzionaria e di-
sperde quelle energie in rivoli di procedure, sotto-progetti, a cui è necessario
sottostia il progetto complessivo. Al contempo, l’innesto originale di scien-
za, tecnica e valorizzazione industriale 5 , crea una collaborazione in linea di
principio imperitura, poiché basata sulla necessità di risolvere problemi che
si ripresentano continuamente e sotto sembianze mutevoli. Ragion per cui
l’infinita tensione dell’uomo viene canalizzata su binari operativi, nei quali
egli sarà chiamato a esercitare il proprio furore su progetti finiti, ma rinno-
vabili. Il progresso, in definitiva, perde la fede, ma non perde la frenesia di
progredire che, in una società postmoderna, ha libero sfogo nell’operatività
delle scienze esatte. Quando Gehlen afferma che «gli alberi della tecnica

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3Ivi, p. 171.
4«La felicità di chi mette piede su un terreno vergine, la cui fertilità è incalcolabile,
non conosce alcun paragone» (ibidem).
5 Ivi, p. 177.
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crescono fino al cielo»6 , vuol dire che la società postmoderna ha secolariz-


zato anche la fede nel progresso, e di esso è rimasto, da un lato, la routine,
cioè la capacità di reiterare all’infinito, su problemi sempre diversi, il mede-
simo approccio, che si limita al perseguimento di un crescente standard di
vita. Dall’altro – venendo meno i progetti di senso, ma non le aspettative –
è rimasto un bisogno spasmodico della novità. Esso, dovendo soddisfare le
speranze di compensazione, prende le forme di processo pubblicitario, pro-
paganda, retrospettiva cinematografica o pittorica, di remake, di moda ecc.,
procedure, queste, che difficilmente daranno origine a una nuova immagine
dell’uomo7. Ora, infatti, l’ipertrofia del nuovo, la rincorsa alla novità, di-
ventano una necessità, proprio perché da esse ci si aspetta la resurrezione.
L’epoca della posthistoire, dunque, secondo Gehlen, è l’epoca in cui «si ve-
rifica un risucchio nel futuro, quando i motivi ideali retrocedono e tuttavia
le invenzioni antiquate vengono velocemente sostituite con delle nuove, la
totalità diventa l’ambito da tempo abituale di un costante sviluppo del ge-
nere umano con un crescente standard di vita»8 .
Essere nella post-storia, dunque, vuol dire: entrare in una fase in cui si
assiste a una strutturale erosione delle funzioni ideative, le uniche in grado
di sfumare gli orizzonti consolidati e preannunciare la nascita di uomini e
luoghi nuovi, capaci di fornire nuovi progetti di senso; esaltare l’intreccio
tra tecnica, scienza e industria, che con la loro capacità di sollevare e risol-
vere problemi sempre nuovi, canalizzano le religiose aspettative di progres-
so in un ambito meramente quantitativo, che al massimo mira al miglio-
ramento dello standard di vita; esasperare la ricerca della ripetizione, della
routine e della novità, le quali, con il venir meno di grandi idee-guida, epo-
cali, danno la sensazione di assicurare il progresso per un tempo indefinito.
Così si spiega l’esasperato bisogno di inseguire l’eclatante, il sensazionale,
la novità che di lì a poco sarà riproposta alle giovani generazioni come
qualcosa di assolutamente originale, e ciò con piccoli correttivi e adatta-
menti che il passare del tempo richiede (questo vale per gli spettacoli tele-
visivi, le ricette di cucina, le opere d’arte, i best seller ecc.). Essere nella
post-storia vuol dire, «risucchio nel futuro», ovvero entrare in una dimen-
sione temporale in cui l’erosione dell’ideativo determina una «kulturelle
Kristallisation»9 , una ripetizione del medesimo e del sempre uguale, che
————————
6
Ibidem.
7
Cfr. M.T. Pansera, L’uomo e i sentieri della tecnica. Heidegger, Gehlen, Marcuse,
Armando, Roma 1988, pp. 114-117.
8 Ivi, p. 178.
9 Cfr. A. Gehlen, Über kulturelle Kristallisation, in Id., Studien zur Anthropologie
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abolisce la possibilità di un avvenire e che fa sì, invece, che il futuro di


questo futuro sia il passato10.
Arnold Gehlen, dunque, risvegliando una certa avversione per il siste-
ma, giunge alla conclusione che la civilizzazione nei suoi contorni fonda-
mentali è fatta, che la storia umana sembra aver raggiunto una configura-
zione definitiva, e che perciò non le resti che dispiegare e combinare le di-
sposizioni in essa presenti. La storia non è più in grado di produrre nulla di
nuovo, tanto meno orientamenti generali o concezioni del mondo, non ha
capacità d’innovazione, ma solo di rielaborazione pianificata del livello
raggiunto, e ciò vale sia per la società che per l’arte e la cultura, nelle quali
assistiamo all’imperversare della monotonia, dell’identico. La cristallizza-
zione culturale che ne consegue, con la tendenza alla riduzione, all’univer-
salizzazione e al livellamento, è tipica dello stato che nasce «quando tutte
le possibilità predisposte sono sviluppate nelle loro consistenze fondamen-
tali» 11, e quando viene meno la speranza nella possibilità di un futuro dav-
vero aperto. Viene meno, tuttavia, anche il senso vitale delle culture prece-
denti, delle tradizioni culturali passate, ora respinte nel dimenticatoio e oc-
cultate per sempre dalla congerie di innovazioni e ritrovati, con i quali la
civiltà accelerata contemporanea supplisce alla mancanza di radici.
La posthistoire, allora, assume i tratti di una vera e propria profezia,
che annuncia la fine della storia. Ma non della storia empirica, evenemen-
ziale, bensì della storia delle idee, dei grandi progetti, del mondo nuovo: la
fine del senso. Rappresenterebbe il momento della secolarizzazione-della-
secolarizzazione, ovvero la fine di quell’epoca in cui ancora si pensava di
poter utilizzare la filosofia della storia in modo profetico e postreligioso,
così da assegnarle quel compito di fondazione, che nel frattempo era stato
perso dalla religione12. Anche l’ultima intercapedine viene buttata giù, e
l’uomo si trova al cospetto del nulla, di una verità che non tollera più illu-
sioni di alcun genere, tanto meno quelle filosofiche che si presentano con
pretese di laicità. Il tempo delle ideologie globali è passato e al suo posto,
potremmo dire, sopraggiunge il tempo della globalizzazione, in cui è in vi-
————————
und Soziologie, Luchterhand, Neuwied am Rhein - Berlin 1963, pp. 311-327; si veda anche
H. Böhme, Natur und Subjekt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988.
10 Cfr. A. Gehlen, Die Säkularisierung des Fortschritts, cit., p. 180, citando Julien
Freund.
11 A. Gehlen, Über kulturelle Kristallisation, cit., p. 321; si veda inoltre il saggio di J.
Rohbeck, Storia universale e globalizzazione, presente negli Annali del Dipartimento di
Filosofia 2003-2004, Firenze University Press, Firenze 2005.
12 Si veda, ad esempio, R. Burger, Retheologisierung der Politik und Weltpolitische
Konfliktkonstellationen, Landesverteidigungakademie, Wien 2004.
414 Postmodernità senza Dio?

gore la pluralità dei principi, l’eterogeneità dei saperi, la molteplicità dei


valori e, soprattutto, la mancanza di una chiave di lettura, di un punto archi-
medeo intorno al quale aggregare la realtà, e alla luce del quale riorganiz-
zare il tutto. Più che fine della storia, quindi, dovremmo parlare di fine del
senso, o meglio di sfiducia in quei grandi racconti, grand récits – storie di
emancipazione di cui J.F. Lyotard sarà grande teorizzatore – che finora ave-
vano consentito agli uomini di credere nella possibilità di un significato.
Certamente, ogni epoca aveva sostituito la narrazione precedente con la pro-
pria, ritenuta più avanzata e comunque in grado di fornire una fondazione
dell’esistenza umana. Nessuno, però, aveva mai messo in dubbio l’ipotesi
che ci dovessero essere tali metaracconti, capaci di fornire una legittimazio-
ne filosofica, politica, del sapere e della verità. Non, dunque, fine dei tempi,
che invece non finiscono, e anzi perseverano imperterriti nella ripetizione
infinita, bensì «fine delle alternative», poiché da questo momento è l’idea
stessa di opzione, di scelta, di progressione, a risultare impossibile. Non ci
sono più alternative da valutare, né provenienti dal passato, né provenienti
dal futuro, ma solo un unico, interminabile e disperato presente.

1. Eccentrico postmoderno

Molti anni prima, e precisamente nel 1920, l’altro fondatore dell’antro-


pologia filosofica, Helmuth Plessner, aveva già anticipato l’idea di una fede
nel progresso ormai laica e desacralizzata, facendo tuttavia balenare linee
interpretative abbastanza differenti. Il ragionamento era inserito all’interno
di un saggio dal titolo L’Europa e la visione del tramonto 13, e quindi aveva
come nucleo centrale l’identità europea e la sua eventuale decadenza contem-
poranea – all’epoca sostenuta con forza, ad esempio, da Oswald Spengler.
Plessner, in quell’occasione, sostenne «la vittoria di Manchester»14, ovvero
la vittoria, tutta contemporanea ed europea, dello sviluppo infinito, che aspi-
ra all’infinita produzione delle merci, al guadagno illimitato, alla conoscen-
za intramondana della natura, alla commercializzazione internazionale, che
ha bisogno di mezzi e tecniche di comunicazione pressoché globali. La
vittoria di Manchester sancisce l’affermazione di una metafisica, quella del-
l’éschaton borghese, à la Comte, Marx o Darwin, che tuttavia altro non rap-
————————
13 H. Plessner, Die Untergangsvision und Europa, in «Der neue Merkur» 4(1920),
pp. 265-279; tr. it. L’Europa e la visione del tramonto, a cura di B. Accarino, in «Discipline
Filosofiche» 1 (2002), pp. 47-59.
14 Ivi, p. 49.
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presenta, se non il trasferimento di una fede messianica nella riproduzione


tecnica, quella che Gehlen chiamava «fede nel progresso» e che Plessner,
con non minore fascinazione, definisce «romanticizzazione dell’industria»15.
Ovvero, l’applicazione di una tensione assoluta e creatrice (che fino all’Ot-
tocento aveva avuto carattere di religiosità romantica), al processo d’inno-
vazione e di trasformazione dinamica del mondo, per mezzo delle macchi-
ne. Ciò che colpisce maggiormente di tale romanticizzazione, tuttavia, è
«la terribile crescita della meccanizzazione e della economicizzazione della
vita, della burocratizzazione e della nazionalizzazione, e che cercano di
opporre una resistenza sempre più forte alla degenerazione dell’uomo a fa-
vore dell’azienda: l’esistenza di una minaccia della fine umana per atrofia,
per mancanza di cultura, per mancanza di fede»16.
Come abbiamo accennato, però, la lettura di Plessner a questo punto
diverge sostanzialmente da quella di Gehlen, poiché egli intravede, in que-
sta svolta, un’opportunità per l’umanità, un modo diverso di rapportarsi alla
realtà, che non rappresenta una degenerazione, bensì un modo tipico di es-
sere che appartiene, per eccellenza, all’identità culturale europea. Ciò non
vuol dire sottovalutare gli effetti imponenti di tale metamorfosi, ma ricono-
scerne il potenziale positivo, che già si percepisce nella capacità dell’uomo
di lavorare per l’unità dei popoli, per l’organizzazione internazionale degli
Stati, per il superamento delle barriere spaziali e temporali, linguistiche e
materiali: si percepisce nel carattere di universalità che la storia dell’uomo
sembra avere imboccato. E anzi, l’interpretazione degenerativa di questo
processo, ossia l’idea che ci si trovi al cospetto di un tradimento della sto-
ria, delle sue profonde speranze e delle sue teologie, delle utopie e dei rac-
conti che danno senso alla vita, deriva da una concezione orientale 17, che si
conserva nella romaticizzazione dell’industria, in base alla quale l’epoca
attuale rappresenterebbe un’epoca di degenerazione nel quantitativo, e di
perdita del significato. È l’Oriente magico, con la sua interpretazione orga-
nica e comunitaria della storia18, ad avallare l’idea che la civiltà occidenta-
le contemporanea rappresenti il faustiano rinnegamento delle proprie radici,
il decadimento dell’idealità in una logica di ripetizione del medesimo e di
routine e quindi l’appiattimento del tempo in un presente standardizzato e
————————
15 Ivi, p. 50.
16 Ibidem; tr. leggermente modificata.
17 Ivi, p. 58.
18 Cfr. H. Plessner, Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalis-
mus, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981; tr. it. I limiti della comunità. Per una critica del radi-
calismo sociale, a cura di di B. Accarino, Laterza, Roma-Bari 2001.
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senza futuro. E questo, perché l’industria non rinuncia, a fine Ottocento, a


quella secolarizzazione di secondo grado, che laicizza il progresso e impe-
disce di alimentare lo scontro tra una fantomatica, autentica idea di svilup-
po della storia, tra una cultura profonda e carica di valore, e una civiltà del-
l’agire tecnico-industriale, e quindi del tramonto. Al contrario, per Plessner,
«una nuova cultura comincia a dare realizzazione in forma sempre più
pura, scossa da temporali bellici, alla contrapposizione all’Oriente: la cul-
tura della civilizzazione a partire dallo spirito dell’azione e della conquista
per la creazione di una comunione umana su tutta la terra»19.
Sebbene sia consapevole dei rischi connessi a un’industriosità depri-
mente, indirizzata verso finalità infime e irrilevanti, ciononostante Plessner
rileva che la vera novità, la vita nuova, concerne «la creazione di una conti-
nuità nello spazio e nel tempo, l’inizio di un’organizzazione di tutta l’uma-
nità, la canalizzazione di tutte le forze in un solo senso di marcia. La storia
profana assume un carattere di internazionalità e di universalità, quasi come
se la sempiternità della storia salvifica cristiana dovesse conservare, in
questa sempiternità a carattere solo tecnico, una strana immagine specu-
lare di sé»20.
Come dire, leggendo Plessner si ha l’impressione che ciò che induce
Gehlen a temere la società della posthistoire, ovvero la mancanza di una
missione, di una fede assoluta, che dispiega un orizzonte di senso in cui
muoversi, spinge Plessner a considerazioni di più ampio ottimismo. È pro-
prio il venire meno di un approccio teologico e fondamentale al tempo e alla
storia, che apre l’umanità a una progettazione di sé che punta esclusivamen-
te all’emancipazione dell’uomo dalla terra, dalla materia per mezzo della
tecnica, a una filosofia dell’agire che sappia spostare il baricentro dell’uo-
mo sull’esistenza dell’uomo, che sappia raggiungere un equilibrio con la
natura, per mezzo della scienza e della tecnica21. È la rinuncia, tipica di una
cultura eccentrica, a un fondamento indiscusso, sia esso religioso o cultura-
le, a un metaracconto, ciò che favorisce la reale apertura al futuro; è l’ab-
bandono della filosofia della storia, a costringere uomini e popoli ad avvici-
narsi, gli uni agli altri, mettendo da parte le proprie verità integrali, per co-
struirne insieme di comuni. E tutto questo, non per demolire e distruggere
semplicemente, ma per rimuovere idee, autorità tradizionali, visioni cosmo-
logiche, primati, così da poter inaugurare una fase di confronto nuova, auten-
————————
19 H. Plessner, L’Europa e la visione del tramonto, cit., p. 58.
20 Ibidem.
21 Cfr. ivi, p. 57.
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tica, nella quale individui e culture, in virtù di un passo indietro, sappiano


preparare un passo avanti. Un passo che sia figlio del dubbio e della volon-
tà di coordinare il tutto in un solo senso di marcia, senza verità precostituite
o tradizionali, e dunque aperto alla pluralità dei punti di vista. Ovviamente
Plessner, nel 1920, non parla di posthistoire o di epoca postmoderna, tutta-
via, professando il bisogno di una nuova antropologia filosofica, che sappia
ricostruire l’immagine dell’uomo su nuove basi rispetto a quelle tradiziona-
li, inaugura un diverso modo di rapportarsi alla storia e al tempo. Prevale la
consapevolezza della debolezza di ogni orizzonte di senso culturale, di ogni
racconto, di ogni fede che pretenda di essere comprendente, e di rappresenta-
re quella missione, quel pathos, di cui Gehlen denunciava la scomparsa in
età contemporanea. E questo non per ribadire, però, come Gehlen, la scom-
parsa dei motivi ideali, l’ingresso nel tempo della ripetizione, della vita
standardizzata, in cui l’unico futuro immaginabile è rappresentato dal passa-
to; bensì per evitare il fanatismo di quegli orizzonti di senso, i quali, nella
loro eccessiva chiusura o pretesa di fondazione, rischiavano di apparire auto-
ritari, eurocentrici, «moderni», ovvero inadatti a una società e a un’epoca,
che sperimentavano l’esigenza di una profonda tolleranza ed eccentricità.

2. Conclusioni

Per riassumere, Gehlen intende per posthistoire la fine del racconto cul-
turale tout court, nel senso che le diverse culture, le epoche, gli ambienti, ri-
velano finalmente la loro debolezza, cioè la difficoltà ad essere convincenti
e a valere non solo come strumento di sopravvivenza, ma anche come oriz-
zonte di senso. Intende la consunzione delle Umwelten culturali, la consape-
volezza che induce alla standardizzazione, alla routine, che baratta l’utopia
con la sicurezza della ripetizione. Come sostiene magistralmente Remo Bo-
dei, «lo strapotere della realtà, a cui il mito ha sempre cercato di reagire ela-
borando dei racconti (e iniziando così il processo di razionalizzazione del
mondo), sembra arretrare dinanzi alla moderna volontà di autoaffermazione
dell’uomo, alla sua disponibilità ad affrontare direttamente, senza storie con-
solatrici e paure prive di oggetto, i pericoli della navigazione della vita»22.
Le storie consolatrici non ce la fanno più, cosicché la replica industria-
le del medesimo riproduce la sensazione della verità, tramite la successione
————————
22 R. Bodei, Distanza di sicurezza, in H. Blumenberg, Naufragio con spettatore.
Paradigma di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna 2001, p. 19.
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lineare degli orizzonti di senso. Il rifugio nell’individualismo, come forma


ultima di protezione, e nel benessere, sarebbero pienamente compatibili con
tale impostazione.
Se questo, però, conduce la filosofia postmoderna a sottolineare le op-
portunità positive e le chances offerte da un’epoca contrassegnata dalla sfi-
ducia in ogni tipo di normatività, diversamente induce il nostro autore a un
atteggiamento, per così dire, «conservatore». Gehlen ribadisce, infatti, la
necessità di perseguire una stabilità sociale, che passi attraverso il rafforza-
mento e il consolidamento delle istituzioni, e quindi anche di quelle religio-
se, poiché solo in questa maniera si evita il rischio dello sfaldamento socia-
le, della degenerazione, che potrebbe ricacciare l’uomo nello stato di ferini-
tà. Nell’epoca della posthistoire, neanche più la quieta vitalità dell’animale23
ha la forza di fungere da parametro, né quindi la religiosità mitopoietica
arcaica, che sempre meno sembra riuscire a svolgere la sua funzione di sta-
bilizzazione del mondo ambiente24 (Umweltstabilisierung). Di qui la convi-
venza di posizioni che da un lato, richiamano all’ascesi – come strumento
in grado di frenare il furore sradicatore del postmoderno, preparando una
nuova epoca25 – da un altro accentuano aspetti etici e quindi normativi
della religione, e da un altro ancora annunciano il riemergere di forme di
religiosità primitiva, irrazionale pre-postmoderna26. Ovvero: ascesi come
preparazione al superamento del sempre uguale; eticizzazione della religio-
ne come sistema per garantire una normatività giustificata da fattori sociali
e non metafisici; ritorno al mito come garanzia del sacro.
Di certo la fine della storia ha incrinato l’idea di un orizzonte di senso
capace di «reggere» il mondo; di fronte a ciò, la prima cosa da fare è impe-
dire lo sfaldamento delle istituzioni, persino religiose, allo scopo di tutelare
————————
23 «Nell’animale l’uomo ammira una modalità di esistenza imperturbata, imperturba-
bile, che a lui non è data, una modalità dunque della “potenza”: una perfezione non umana e
interpretata dalla sua immaginazione come sovrumana. In altri termini: tutta la disarmonia e
tutto il peso costituzionali dell’umana esistenza – la sovrabbondanza di pulsioni, la neces-
sità di autocondursi, la necessità del lavoro, l’inquietudine che si accompagna alla previ-
sione e il perpetuo spettacolo della morte – tutte queste rischiose complicazioni della vita
non compaiono nell’agevole, sicura, quieta vitalità dell’animale appunto, e in ciò l’uomo,
proprio perché uomo, si distingue dall’animale, il quale è “divino” sotto il riguardo della
forza composta e segreta della sua esistenza» (A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und sei-
ne Stellung in der Welt, Athenaion, Wiesbaden 1978; tr. it. L’uomo. La sua natura e il suo
posto nel mondo, a cura di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983, p. 369).
24 Cfr. A. Gehlen, Religion und Umweltstabilisierung, in O. Schatz (Hrsg.), Hat die
Religion Zukunft?, Styria, Graz-Wien-Köln 1971.
25 Cfr. U. Fadini, Progresso e post-histoire, cit., pp. 189-190.
26 Cfr. P. De Vitiis, Il sacro e il divino, in «Idee» 19(1992), pp. 10-11.
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quello spazio di umanità culturale. Come dire, dopo aver intravisto l’impos-
sibilità di stare-dentro un qualsiasi progetto culturale di senso, il nostro
autore rinviene la necessità di stare-dentro un qualsiasi progetto culturale
di senso!
Diversamente Plessner, sembra non dover compiere retromarcia, poi-
ché, a differenza di Gehlen, non decreta la fine dei tempi, delle istituzioni,
dei mondi-ambiente e culturali, né dunque la loro necessaria riabilitazione;
bensì l’esigenza di una scepsi catartica e salutare27, che salvaguarda le radi-
ci culturali e i punti di partenza, senza tuttavia assolutizzarli. Se questo ha
forse molto a che fare con l’ermeneutica e l’antropologia filosofica, ha al-
trettanto a che fare con il postmoderno, di cui sottolinea opportunità positive
e chances, vissute, invece, con grande «modernità» da Arnold Gehlen.

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27 Cfr. H. Plessner, Die Aufgabe der philosophischen Anthropologie, in Gesammelte
Schriften, vol., VIII, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003, p. 46.

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