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con quasi 6 anni da fuori corso alle spalle. Non esattamente ciò che nel gergo
sportivo si chiamano “numeri da record”, però va benissimo così.
Quindi no, non parlerò di me stesso: non vedo come un teatrino del privato
possa essere motivo di interesse. Approfitto, al contrario, di questa occasione
per rovesciare con forza la vulgata comune sopracitata. L’esperienza, infatti,
mi parla con conclamata chiarezza: NON è vero che l’università forma cittadini
consapevoli in grado di incidere tanto sul loro destino quanto sul mondo
sociale che abitano, NON è vero che la didattica universitaria è eccelsa e d’elite
come si vuole far credere, ma soprattutto, NON è vero che tale didattica ha a
che fare con la conoscenza.
Tutti questi miei ex-colleghi, chi per connivenza, chi per ingenuità, ignorano (o
fingono di ignorare) che, per secoli, la conoscenza è stata una minacciosa terra
di nessuno, un percorso accidentato, un processo che testimonia la
pericolosità insita nell’atto stesso di pensare, una dolorosa trasformazione
costellata di necessari momenti di crisi. Di più: la conoscenza era per sua
stessa vocazione trans-disciplinare, e non di rado filosofia e scienza, tecnica e
pensiero puro hanno camminato insieme, realizzando reciprocamente i loro
destini. Questa semplice constatazione dell’abissale vitalità della conoscenza
rimane vera anche oggi, quando Carlo Rovelli dimostra come l’intuito poetico
di artisti come Rilke avessero già dimostrato la natura a-lineare del tempo,
prima ancora che la scienza arrivasse a descriverla in tempi recenti.
Quel che ho scritto fin qui potrebbe sembrare solo una sequela di rabbiose
invettive, ma ciò che ho visto e vissuto durante i miei anni universitari non
possono che convincermi della ferma verità di queste mie parole. Non solo
questa pianificazione perversa dell’istruzione statale in quanto fabbrica di
“carne da lavoro” mi è sembrata particolarmente evidente a livello
universitario, ma spicca con notevole allarmismo nell’ambito degli studi
orientali, il che è grave se si considera che gli studenti reduci da questo
percorso di studi saranno chiamati a fare da mediatori con quella che si
appresta a diventare la nuova superpotenza mondiale.
Temo che la cosa non sia affatto casuale, vista l’importanza strategica, sia
politica ed economica, che ha ormai assunto il Grande Dragone orientale. E se
è vero, come recita il noto detto, che il pesce puzza sempre dalla testa,
esaminare la storia e il modus operandi dei rettori di facoltà e dei direttori di
dipartimento già sarebbe di per sé sufficiente a delineare un quadro d’insieme
di storture e mancanze sempre più generalizzate. Essendo ormai ufficialmente
fuori dall’università, posso permettermi il lusso di fare nomi e cognomi senza
remora alcuna: per questo intendo parlare nel dettaglio del mio ex-professore
di lingua cinese e attuale direttore della propaggine di lingue e civiltà orientali
della Sapienza di Roma, ovvero Federico Masini.
Lascia sorpresi anche un intervento che Masini tenne tempo addietro durante
un convegno della rivista Left (l’alveo della peggior sinistra radical-chic, guarda
caso): sul perché invitare i giovani a intraprendere gli studi orientali,
l’eminente professore non ha dubbi. Per anni il mondo è stato dominato da
una ristretta “minoranza” di uomini che è riuscita a imperversare per ogni
angolo del pianeta, forte della sua cultura di matrice greco-cristiana. Ebbene,
oggi sappiamo che la maggioranza della popolazione mondiale (più di un
miliardo di persone) parla cinese e le sue radici affondano nel confucianesimo,
nel buddismo e nel taoismo. Ecco perché studiare il cinese: per rispetto nei
confronti di questa nuova, energica, montante maggioranza. Non di certo
perché la cultura cinese sia affascinante e prorompente nella sua radicale
diversità, pur con le sue contraddizioni!
Ma la vera natura del professor Masini sembra essere quella del capofabbrica,
il suo lessico quello di un giornale di regime: i suoi discorsi sono
costantemente incentrati sul progresso, sui traguardi raggiunti, sui numeri,
sull’economia, sul PIL. Come disse in un’altra intervista: la Cina ha il PIL che
merita, perché i cinesi sono molto più laboriosi ed efficienti degli occidentali.
Davanti a simili discorsi, non possono che tornarmi in mente le parole di
Carmelo Bene in merito agli insegnanti: i maestri sono di un ordine superiore,
perché sanno insegnare quanto dis-apprendere; i professori, al contrario, sono
solo dei miseri impiegati (di Stato, ovviamente).
È ciò che qualsiasi studente sano di mente (ammesso che ve ne sia rimasto
qualcuno all’interno della fauna universitaria) penserebbe allorché sentisse le
spiegazioni del prode Santangelo. Secondo le quali, ad esempio, i taoisti erano
santoni che trascorrevano le loro giornate seduti a osservare il tempo che
passa (confondendo così in modo clamoroso “bu wei”, non fare niente, con,
“wu wei”, “non-agire”) e asserendo che i cittadini devono vivere come
“tartarughe nel fango”, nell’auspicio di essere governati da un sovrano
“incapace” in grado di riempire le loro pance (lasciando così in sordina gli
ulteriori sviluppi di una teoria della sovranità ben più complessa di quel che
parrebbe una sorta di proto-grillismo alla cinese). Chiaro che ci si sente un po’
beffati se poi, alla richiesta di maggiori spiegazioni, il succitato professorone
risponda con un lapidario: “Eh, ma queste cose andrebbero lette in cinese,
perché in italiano non rendono!” Molto appropriato, specie se detto a degli
studenti che, tra le altre cose, stanno pure imparando a tradurre dal cinese…
Eppure, nonostante tutto questo, voglio illudermi che qualcosa sia ancora
possibile, che ci siano delle fessure, dei margini attraverso i quali operare una
forzatura. Non tutto è stato vano: la passione un po’ naive della mia
professoressa di Religioni e Filosofie dell’Oriente (Donatella Rossi) mi ha
sospinto verso le indicibili rivelazioni del buddismo, del taoismo e di tutto ciò
che di sublime il misticismo asiatico ha prodotto. La mia docente di glottologia
(la professoressa Ciancaglini) mi ha instradato verso la linguistica strutturalista,
dalla quale ho poi proseguito da solo, risalendo alla filosofia francese del ‘900
e alla grande tradizione del sapere occidentale. Piccoli semi che possono
diventare enormi alberi per chi li sa cogliere. Senza falsa modestia, posso dire
di averli saputi accumulare e trasformarli nella mia personale “catastrofe”. È
proprio in quel momento, quando sai di non poter più tornare indietro, che
una conoscenza ha fatto il suo effetto.
Ma, al momento, per quel che posso vedere, si tratta di qualche sparuta
eccezione e poco più. Sono fermamente convinto che se l’università tornasse
ad essere un luogo di incontri (di idee, di concetti, mai di persone, che sono
sempre i più deludenti), e si scrollasse di dosso tutte quelle farneticazioni
americaneggianti che di fatto la rendono una cupa appendice del mondo
lavoro, l’estensione di un’oppressione meccanizzata, buona solo a produrre
“specialisti”, “esperti” e altri coglioni di vario nome e titolo, forse solo allora
istruirsi potrà tornare ad avere un briciolo di senso.
Fino a pochi anni fa, mi sarei stracciato le vesti pur di difendere la pubblica
istruzione. Oggi, a chi mi chiede se manderei o no un ipotetico figlio a scuola,
non saprei davvero cosa rispondere. Concludo questa lunga denuncia
lasciando spazio alle profetiche parole di Gilles Deleuze. E nella
consapevolezza che, visti i tempi che tirano, chi non studia ha forse capito
qualcosa, ha forse qualche probabilità in più di esercitare un pensiero
sanamente anarchico. In loro, e nella loro recalcitranza, sento di voler riporre
qualche fievole speranza.
(Abecedario, 1988)