Sei sulla pagina 1di 10

Finisce così la mia carriera di universitario: votazione finale di 106 punti su 110,

con quasi 6 anni da fuori corso alle spalle. Non esattamente ciò che nel gergo
sportivo si chiamano “numeri da record”, però va benissimo così.

Sobillato dall’importanza che la vulgata comune attribuisce a un simile evento,


potrei a questo punto essere portato a scrivere le cose più ovvie: fare un sacco
di ringraziamenti, per esempio. E neanche saprei bene a chi, visto che, ad
essere sinceri, mi sono cavato d’impaccio solo ed esclusivamente con le mie
forze. O forse rievocare un periodo “unico e irripetibile” della mia vita. Fermo
restando che chi abusa di due simili aggettivi commette un grave crimine
contro il buon senso (nulla è unico e irripetibile, ce lo dice perfino la scienza),
anche in questa fase, come in tutte quelle che contraddistinguono la vita di un
uomo, ho saputo come “guadagnarmi” i miei fantasmi, per usare una formula
di Villiers de L’isle-Adam.

Quindi no, non parlerò di me stesso: non vedo come un teatrino del privato
possa essere motivo di interesse. Approfitto, al contrario, di questa occasione
per rovesciare con forza la vulgata comune sopracitata. L’esperienza, infatti,
mi parla con conclamata chiarezza: NON è vero che l’università forma cittadini
consapevoli in grado di incidere tanto sul loro destino quanto sul mondo
sociale che abitano, NON è vero che la didattica universitaria è eccelsa e d’elite
come si vuole far credere, ma soprattutto, NON è vero che tale didattica ha a
che fare con la conoscenza.

Il problema dell’università, contrariamente a quanto si crede, non è né


economico, né amministrativo (per quanto questi due aspetti abbiano
un’innegabile importanza strutturale). Chi dice che un’università con più soldi
e più mezzi funzionerebbe meglio semplicemente non sa di cosa sta parlando:
anche nelle migliori condizioni, in essa permarrebbero irrisolte le sue aporie
concettuali e pedagogiche, che ne decretano di fatto la sua totale inefficacia, il
suo completo asservimento alle strategie del profitto, al tritacarne del mercato
del lavoro, la sua leopardiana indifferenza verso le turbinose incertezze di chi,
fuoriuscito da quel caotico crogiolo che sono le scuole dell’obbligo, si appresta
a raccogliere affannosamente i mezzi per poter “diventare sé stesso”.
Il primo elemento destabilizzante, quello che salta subito all’occhio a chiunque
si abitui al rito quotidiano delle lezioni in facoltà, è il completo stato di
isolamento in cui ogni branca del sapere sembra trovarsi imprigionata: gli
umanisti parlano solo tra di loro, e soltanto di materie umanistiche; allo stesso
modo dei loro colleghi di fisica, di geologia, di matematica…e a questa miope
condizione non sfuggono nemmeno gli orientalisti, anche loro più che disposti
a chiudersi in un mondo ovattato e monocolore, dove i cinesi sono l’archetipo
ultimo dell’essere umano perfetto e la Cina un paese-faro la cui luce è
destinata a illuminare perennemente il mondo.

Tutti questi miei ex-colleghi, chi per connivenza, chi per ingenuità, ignorano (o
fingono di ignorare) che, per secoli, la conoscenza è stata una minacciosa terra
di nessuno, un percorso accidentato, un processo che testimonia la
pericolosità insita nell’atto stesso di pensare, una dolorosa trasformazione
costellata di necessari momenti di crisi. Di più: la conoscenza era per sua
stessa vocazione trans-disciplinare, e non di rado filosofia e scienza, tecnica e
pensiero puro hanno camminato insieme, realizzando reciprocamente i loro
destini. Questa semplice constatazione dell’abissale vitalità della conoscenza
rimane vera anche oggi, quando Carlo Rovelli dimostra come l’intuito poetico
di artisti come Rilke avessero già dimostrato la natura a-lineare del tempo,
prima ancora che la scienza arrivasse a descriverla in tempi recenti.

Ma tutto questo, purtroppo, rimane vero soprattutto per il passato: oggi


l’università è un “mercato” come tanti altri, la conoscenza è stata degradata a
“merce” (il cui valore è valutato esclusivamente in base alla sua capacità di
venire incontro alle richieste del mondo dell’impresa e all’appeal carismatico
che esercita sui futuri laureandi/dottorandi) e lo studente ridotto a un
semplice “consumatore”, infima ruota del carro del mondo accademico, in
grado di operare solo vista di una subalternità ancora più grande: quella che
dovrà tributare al mondo del lavoro, all’oppressivo nucleo familiare borghese,
alla società dello spettacolo integrato, agli interessi ideologici di uno Stato
sempre più padre-padrone.

Tutti i campanelli di allarme lanciati da chi, più di trent’anni fa, denunciava il


depauperamento cui l’università, sempre più compromessa con le esigenze del
business e del marketing, sarebbe andata incontro si sono tradotti oggi nei
frutti avvelenati che gli studenti, con disgusto o con piacere, divorano a
profusione. Come dicevo, lo studente universitario è, a tutti gli effetti, più la
rotella di una catena di montaggio che non un individuo in cerca della sua
singolarità. I professori hanno ben poco di che lamentarsi per non avere degli
allievi “eccellenti”, poiché sono i primi a porsi con animo passivo di fronte a un
simile stato dell’arte, se non addirittura a pascersi di un sistema che, a conti
fatti, ingrassa i docenti mediocri e più in vista (e non soltanto per motivi
politici), favorendo lo spargersi miasmatico di un apprendimento basato sulla
peggiore teoria informazionale di stampo pubblicitario, e non su di un vero
amore per la conoscenza.

Quel che ho scritto fin qui potrebbe sembrare solo una sequela di rabbiose
invettive, ma ciò che ho visto e vissuto durante i miei anni universitari non
possono che convincermi della ferma verità di queste mie parole. Non solo
questa pianificazione perversa dell’istruzione statale in quanto fabbrica di
“carne da lavoro” mi è sembrata particolarmente evidente a livello
universitario, ma spicca con notevole allarmismo nell’ambito degli studi
orientali, il che è grave se si considera che gli studenti reduci da questo
percorso di studi saranno chiamati a fare da mediatori con quella che si
appresta a diventare la nuova superpotenza mondiale.

Temo che la cosa non sia affatto casuale, vista l’importanza strategica, sia
politica ed economica, che ha ormai assunto il Grande Dragone orientale. E se
è vero, come recita il noto detto, che il pesce puzza sempre dalla testa,
esaminare la storia e il modus operandi dei rettori di facoltà e dei direttori di
dipartimento già sarebbe di per sé sufficiente a delineare un quadro d’insieme
di storture e mancanze sempre più generalizzate. Essendo ormai ufficialmente
fuori dall’università, posso permettermi il lusso di fare nomi e cognomi senza
remora alcuna: per questo intendo parlare nel dettaglio del mio ex-professore
di lingua cinese e attuale direttore della propaggine di lingue e civiltà orientali
della Sapienza di Roma, ovvero Federico Masini.

Generalmente dipinto come uomo di somma cultura, sopraffino accademico e


addirittura “luminare”, dalla sua biografia si evince che la sua formazione
risiede perlopiù in molti anni trascorsi in Cina in qualità di traduttore e
interprete per svariate istituzioni nazionali, tra cui spiccano alcuni funzionari e
membri interni o prossimi al Partito Comunista Cinese. Ora, non intendo
affermare che il professor Masini sia un incapace, perché ciò non
risponderebbe al vero. Avendolo avuto come docente di lingua, posso
affermare che la sua lunga permanenza in Cina abbia notevolmente forgiato la
sua padronanza con l’idioma mandarino. Insomma, abbiamo a che fare con un
ottimo insegnante di lingua, ma, volendo esaminare la cosa con un minimo di
onestà intellettuale, ciò è quanto di più lontano esista da quel che
comunemente s’intende per “luminare”.

Nell’orientalistica ci sono effettivamente stati degli insigni studiosi: Giuseppe


Tucci, Pio Filippano-Ronconi, Lionello Lanciotti...personaggi che non si sono
solo limitati a studiare qualche lingua e ad accasarsi nello zeitgeist a loro
contemporaneo, ma hanno saputo vivere l’Oriente con spirito pervicace,
mescolando la curiosità con un insopprimibile spirito critico, forti di un
bagaglio di conoscenze traversale e quanto mai poliedrico (esemplare, in tal
senso, la capacità di Tucci di spiegare Il Libro dei Morti Tibetano opponendo ad
esso i termini dell’ontologia di Heidegger, che tra l’altro lo stesso Tucci
conosceva di persona). Un luminare, per quel che gli è concesso, non è un
professore che parla come un manuale o un libro stampato: egli, agendo per
sovrapposizione di dati, è in grado di aprire nuove e quanto mai preziose
prospettive su di un insieme di conoscenze.

Certo, è molto curioso che un semplice insegnante di lingua come il professor


Masini venga messo alla guida di un intero dipartimento di studi orientali, reso
cioè responsabile dell’intero apparato didattico, cultura e filosofia compresi
(che, vista la loro distanza dal pensiero occidentale, sono indubbiamente le
materie più delicate da organizzare). Volendo riesumare l’orrendo (ma, ahinoi,
purtroppo molto calzante) paragone dell’università con le forme aziendali, si
potrebbe pensare che, per quanto un uomo delle pulizie sia efficiente e
puntuale nel suo lavoro, nessuno si sognerebbe mai di metterlo a capo di tutta
la ditta. Ciò non significherebbe sminuire l’importanza del ruolo che riveste (la
pulizia è sempre cosa buona), né tantomeno la qualità del suo lavoro: la
direzione, molto semplicemente, è un affare troppo complicato perché venga
lasciato in mano a qualcuno che ha lavorato di scopa per quasi tutta la vita.
Col senno di poi, e con la giusta dose di sospetto, ci si potrebbe chiedere: forse
che il signor Masini occupi il suo posto più in virtù dei suoi legami politici, dei
suoi rapporti con gli ambienti della sinistra italiana, col succitato PCC e con le
ambasciate internazionali, che non per via della sua (magra) carriera da
accademico e interprete? Certo, i miei ex-colleghi avrebbero potuto
chiederselo, se non fossero a loro volta obnubilati, tanto quanto lo sono i
professori dalle cui labbra pendono in profonda adorazione. O, molto
semplicemente, perché non hanno i mezzi per poter dare adito a simili pensieri
(mezzi che l’università, per una questione di sopravvivenza, non ha
naturalmente alcun interesse a metter loro a disposizione).

Il Masini-pensiero è un animale piuttosto curioso, uno stravagante miscuglio di


immaginazione favolesca, tronfia condiscendenza istituzionale e tifoseria da
stadio degna del peggiore ultrà: basta sentirlo aprire bocca perché almeno un
piccolo dubbio sulla sua effettiva autorevolezza possa sorgere. Pochi esempi
varranno tra i tanti: qualche tempo fa, Masini era stato invitato a Rai News 24,
per parlare di un suo libro di recente uscita. Il mezzobusto lì presente gli chiese
di commentare la notizia dell’acquisto di consistenti quote dell’Eni da parte
della Cina. La sua risposta fu molto eloquente: si disse molto soddisfatto,
proprio perché parte di un’azienda così importante e strategica era andata ai
cinesi, e non in mano a “certi paesi dell’America del nord con il vizio di fare la
guerra in giro per il mondo”. Una dichiarazione assoluta per superficialità e
pochezza, che stona non poco in bocca a un professore che si fregia del titolo
di “luminare” dell’orientalistica italiana. Sgominando, tra l’altro, la difficile
domanda con poche parole.

Lascia sorpresi anche un intervento che Masini tenne tempo addietro durante
un convegno della rivista Left (l’alveo della peggior sinistra radical-chic, guarda
caso): sul perché invitare i giovani a intraprendere gli studi orientali,
l’eminente professore non ha dubbi. Per anni il mondo è stato dominato da
una ristretta “minoranza” di uomini che è riuscita a imperversare per ogni
angolo del pianeta, forte della sua cultura di matrice greco-cristiana. Ebbene,
oggi sappiamo che la maggioranza della popolazione mondiale (più di un
miliardo di persone) parla cinese e le sue radici affondano nel confucianesimo,
nel buddismo e nel taoismo. Ecco perché studiare il cinese: per rispetto nei
confronti di questa nuova, energica, montante maggioranza. Non di certo
perché la cultura cinese sia affascinante e prorompente nella sua radicale
diversità, pur con le sue contraddizioni!

Ma la vera natura del professor Masini sembra essere quella del capofabbrica,
il suo lessico quello di un giornale di regime: i suoi discorsi sono
costantemente incentrati sul progresso, sui traguardi raggiunti, sui numeri,
sull’economia, sul PIL. Come disse in un’altra intervista: la Cina ha il PIL che
merita, perché i cinesi sono molto più laboriosi ed efficienti degli occidentali.
Davanti a simili discorsi, non possono che tornarmi in mente le parole di
Carmelo Bene in merito agli insegnanti: i maestri sono di un ordine superiore,
perché sanno insegnare quanto dis-apprendere; i professori, al contrario, sono
solo dei miseri impiegati (di Stato, ovviamente).

Certo, è molto strano che di illuminati rappresentanti di questa sorta di razza


ariana dagli occhi a mandorla non si sia vista nemmeno l’ombra in questi 8
anni di università. In compenso, io e i miei ex-colleghi abbiamo ricevuto la
visita di personalità “eminenti” quale, ad esempio, il redento Cesare Romiti, la
cui elezione a presidente della fondazione Italia-Cina sembra aver cancellato
con un colpo di spugna i suoi anni di gestione disastrosa e corrotta della FIAT
durante gli anni di Tangentopoli. Ma d’altra parte sembra proprio essere
questo il mondo di “menti elette” nel quale il professor Masini si trova
maggiormente a suo agio, ed è da questo mondo che proviene l’immagine
distorta ed edulcorata della Cina che l’università si appresta a innestare nelle
giovani e impreparate menti che la popolano.

Ma perché lo scempio didattico possa essere messo in atto, la miopia


ideologica e vagamente fascista di un direttore di dipartimento non basta: è
necessario che anche il resto del corpo docente si adegui o riesca perfino a
fare di peggio. Non posso che richiamare alla mente, in tal senso, quella figura
leggendaria che fu il professor Paolo Santangelo, professore in Storia dell’Asia
all’Orientale di Napoli prima e alla Sapienza poi: ebbene, sono convinto che da
qualche parte esista un libro che spieghi per filo e per segno tutte le cose che
un insegnante NON dovrebbe mai fare, e che il professor Santangelo lo
conosca molto bene. Ma probabilmente non l’ha capito.
In merito all’insegnamento come miscela perversa di informazione e
comunicazione che citavo all’inizio, Carlo Sini han ben spiegato questo immane
sfascio con poche parole, immaginando un docente di filosofia che cerca di
spiegare Parmenide a un liceale: “Ma come fai tu a prendere un ragazzino e a
dirgli: adesso ti spiego Parmenide! Egli diceva che tutto è immobile,
un’enorme sfera eterna, e tutto è Uno. L’allievo non potrà che pensare: ma
questo è scemo!”

È ciò che qualsiasi studente sano di mente (ammesso che ve ne sia rimasto
qualcuno all’interno della fauna universitaria) penserebbe allorché sentisse le
spiegazioni del prode Santangelo. Secondo le quali, ad esempio, i taoisti erano
santoni che trascorrevano le loro giornate seduti a osservare il tempo che
passa (confondendo così in modo clamoroso “bu wei”, non fare niente, con,
“wu wei”, “non-agire”) e asserendo che i cittadini devono vivere come
“tartarughe nel fango”, nell’auspicio di essere governati da un sovrano
“incapace” in grado di riempire le loro pance (lasciando così in sordina gli
ulteriori sviluppi di una teoria della sovranità ben più complessa di quel che
parrebbe una sorta di proto-grillismo alla cinese). Chiaro che ci si sente un po’
beffati se poi, alla richiesta di maggiori spiegazioni, il succitato professorone
risponda con un lapidario: “Eh, ma queste cose andrebbero lette in cinese,
perché in italiano non rendono!” Molto appropriato, specie se detto a degli
studenti che, tra le altre cose, stanno pure imparando a tradurre dal cinese…

La didattica orientalistica a Roma è tale da far pensare non tanto a


un’università, quanto a una macelleria: tranci di Buddha, frattaglie di Lao Tzu,
spezzatino di Lu Xun (per tacere poi del povero Saussure, scambiato spesso
dalla comunità studentesca per una sorta di pazzo furioso). Se l’università
fosse davvero una cosa seria, un dialogo tra studenti e professori si
svolgerebbe probabilmente così: “Salve, cosa desidera?” “Tre etti di religioni e
filosofie, due di letteratura cinese e uno di glottologia.” “Ok, in tutto sono 28
crediti. Che faccio, lascio?” Eppure, nonostante tutto questo, c’è davvero chi
crede che darsi a degli studi “matti e disperati” per ripetere a pappagallo degli
slogan (perché chiamarli concetti sarebbe eccessivo) davanti a un professore
totalmente disinteressato abbia un senso.
Una fiera di non-sensi, quindi, che non avrebbe luogo se i miei (ex)colleghi
avessero una vaga idea di come si legge un testo. E che mai avranno: unico
scopo dell’università sembra infatti quello di prolungare l’esperienza delle
scuole dell’obbligo, con tutte le sue storture e le sue isterie quotidiane, e
trasporle all’ennesima potenza. Gli autori non sono uomini da interrogare, ma
giganti irraggiungibili da idolatrare o statue da abbattere con gusto irrisorio.
Non si legge per operare una messa in crisi, quel “godimento” tanto caro a
Barthes e a Lacan, ma solo per sperare di trovare nella scrittura lo specchio di
sé stessi, delle proprie idee precotte, delle preoccupazioni più infime. Si legge
per passeggiare in pianura, non per scalare una montagna. Si legge per questo,
ma anche per compiacere il professore, creatura felliniana oltre ogni limite del
grottesco, vera e propria bestia nera con la quale si finisce per instaurare un
rapporto edipico degno del peggior manuale sulle perversioni sessuali. Sfido
chiunque ad ascoltare uno scambio di battute-tipo tra universitari, e a non
pensare che somigli alle farneticazioni ossessive di un manipolo di nevrotici
che cercano di psicanalizzarsi tra di loro!

Ci si rap-presenta in ciò che si studia, si studia per rap-presentarsi davanti al


professore, e al contempo per rap-presentarsi davanti a sé stessi, alla propria
famiglia, ai propri colleghi di studio, al mondo esterno: la conoscenza,
trasformata e istituzionalizzata in cultura, diventa travestimento, arma e
mezzo privilegiato di profitto sociale. Non è un caso che, quando Erving
Goffman scrive “La vita quotidiana come rappresentazione”, egli faccia
esplicito riferimento alle comunità universitarie, perché è proprio in questi
alvei che prende avvio una sistematica esercitazione nella contraffazione, nella
mistificazione, nel nascondimento vergognoso del proprio sé, schiacciato sullo
sfondo in nome del prestigio e dell’uso interessato di altri esseri umani.

Si entra così in una facoltà esattamente come se si entrasse in un circolo del


tè: non è un caso che ad avere vita facile, tra i miei colleghi orientalisti, siano
stati soprattutto quei ragazzi che già nutrivano per la Cina un amore smodato
sin da giovanissimi (e poco importa se tale amore abbia restituito loro una
rassicurante immagine da cartolina del Paese di Mezzo). Non c’è posto per i
dubbiosi e i critici, per le incertezze e le domande tormentose: lo studente è
solo una triste parodia dell’“uomo che non deve chiedere mai” di una vecchia
pubblicità.
Esco così da quest’università con lo stesso spirito di chi, vestito con una tuta da
ginnastica, fuoriesce da un club di indossatori di smoking. Esattamente l’ultima
cosa che una facoltà dovrebbe essere. Riscopro, con forza tagliente, come la
cultura sia un’illusione, priva di qualsiasi legame con la crudeltà della vita, un
immaginario codificato contrapposto ad altri immaginari codificati, in una
costante guerra tra bande. Come il grande capitalismo e la mediocrità
borghese siano entrati di forza negli atenei trasformandoli in delle catene di
montaggio uniformanti. Come, in ultima analisi, gli esami, i tirocini e gli
Erasmus non servano proprio niente, se non a riempire cumuli di scartoffie utili
ad ostentare una “formazione” di non si sa bene quale prestigio (e, Dio mio,
non c’è niente di peggiore dell’utilità!).

Eppure, nonostante tutto questo, voglio illudermi che qualcosa sia ancora
possibile, che ci siano delle fessure, dei margini attraverso i quali operare una
forzatura. Non tutto è stato vano: la passione un po’ naive della mia
professoressa di Religioni e Filosofie dell’Oriente (Donatella Rossi) mi ha
sospinto verso le indicibili rivelazioni del buddismo, del taoismo e di tutto ciò
che di sublime il misticismo asiatico ha prodotto. La mia docente di glottologia
(la professoressa Ciancaglini) mi ha instradato verso la linguistica strutturalista,
dalla quale ho poi proseguito da solo, risalendo alla filosofia francese del ‘900
e alla grande tradizione del sapere occidentale. Piccoli semi che possono
diventare enormi alberi per chi li sa cogliere. Senza falsa modestia, posso dire
di averli saputi accumulare e trasformarli nella mia personale “catastrofe”. È
proprio in quel momento, quando sai di non poter più tornare indietro, che
una conoscenza ha fatto il suo effetto.

Ma, al momento, per quel che posso vedere, si tratta di qualche sparuta
eccezione e poco più. Sono fermamente convinto che se l’università tornasse
ad essere un luogo di incontri (di idee, di concetti, mai di persone, che sono
sempre i più deludenti), e si scrollasse di dosso tutte quelle farneticazioni
americaneggianti che di fatto la rendono una cupa appendice del mondo
lavoro, l’estensione di un’oppressione meccanizzata, buona solo a produrre
“specialisti”, “esperti” e altri coglioni di vario nome e titolo, forse solo allora
istruirsi potrà tornare ad avere un briciolo di senso.
Fino a pochi anni fa, mi sarei stracciato le vesti pur di difendere la pubblica
istruzione. Oggi, a chi mi chiede se manderei o no un ipotetico figlio a scuola,
non saprei davvero cosa rispondere. Concludo questa lunga denuncia
lasciando spazio alle profetiche parole di Gilles Deleuze. E nella
consapevolezza che, visti i tempi che tirano, chi non studia ha forse capito
qualcosa, ha forse qualche probabilità in più di esercitare un pensiero
sanamente anarchico. In loro, e nella loro recalcitranza, sento di voler riporre
qualche fievole speranza.

“L’università e la politica attuale è molto chiara: l’università smetterà di essere


un luogo di ricerca. Fa tutt’uno con la comparsa in massa di discipline che non
hanno niente a che vedere con le discipline universitarie.

Il mio sogno sarebbe che le università restassero luoghi di ricerca e che


accanto alle università si moltiplicassero le suole tecniche in cui si insegni
l’amministrazione contabile, l’informatica e così via. Ma sulla gestione
contabile o sull’informatica l’università deve intervenire solo sul piano della
ricerca e immagino degli accordi, ogni genere di accordo, tra scuole e
università, con le scuole che mandano i propri allievi a seguire corsi di ricerca,
questo sì. Ma dal momento in cui all’università si fanno entrare materie
scolastiche è la fine dell’università, non è più luogo di ricerca…E si è sempre
più assillati da problemi di gestione, il numero di riunioni all’università…per
questo non capisco come i professori possano preparare un corso, e suppongo
che ripetano lo stesso ogni anni o che non ne facciano più, ma forse mi sbaglio,
forse continuano a farli, meglio così.

Ma la tendenza mi sembra essere la scomparsa della ricerca dell’università,


l’incremento di discipline non creative all’interno dell’università che non sono
discipline di ricerca.

Si chiama l’adattamento dell’università al mercato del lavoro, ma non sta


all’università adattarsi al mercato del lavoro, è la funzione delle scuole.”

(Abecedario, 1988)

Potrebbero piacerti anche