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Serraino Vulpitta

A partire dall’11 marzo 2010 la Facoltà di Lettere e Filosofa dell’università degli studi
di Palermo ha tenuto un laboratorio in collaborazione con l’associazione ‘Human Rights
Youth Organization’ dal titolo ‘Diritti Umani e Nonviolenza – Esperienze a confronto e
testimonianze’ il cui obiettivo è imparare a vivere secondo il principio della nonviolenza.
Durante uno degli incontri abbiamo avuto il piacere di incontrare dei rappresentanti
del ‘Movimento Primo Marzo’ che ci hanno dato un’idea, purtroppo negativa, di quale sia la
situazione degli immigrati in Sicilia. Pertanto, dovendo fare una relazione su un tema di
violenza dando una risoluzione nonviolenta mi concentrerò su una vicenda verifcatasi a
Trapani nel centro di permanenza temporanea “Serraino Vulpitta”.

1- INTRODUZIONE
Il Serraino Vulpitta nasce come centro per gli anziani, ma con la legge Turco -
Napolitano, un’ala dell’edifcio viene adibita come CPT (centro di permanenza
temporanea). Il centro è disposto su tre piani in un’ala dell’ospizio. Al piano terra si trovano
l’uffcio immigrazione della questura e gli uffci amministrativi. Salendo le scale, al primo
piano si trova l’infermeria e l’assistente sociale. I detenuti stanno al secondo piano. Dalle
sbarre del cancello s’intravedono le porte delle celle aperte sul ballatoio, le balaustre sono
circondate da reti metalliche. Il ballatoio è chiuso sui due lati da cancelli grigi di ferro, i
lucchetti si aprono quattro volte al giorno: per i pasti, per l’ora d’aria concessa nel
pomeriggio, per giocare nel campetto di calcio nel parcheggio all’ingresso, sotto la vigilanza
della polizia. Lungo lo stretto corridoio del ballatoio, si affacciano due sezioni, per un totale
di 57 posti, dall’inizio del 2008 ne è attiva soltanto una. I trattenuti sono ex detenuti,
lavoratori migranti fermati sul territorio senza documenti, oppure tunisini respinti alla

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frontiera dopo essere sbarcati sull’isola di Pantelleria. In comune hanno una sola cosa:
l’assenza di un documento di soggiorno e un ordine di espulsione non rispettato. Ricevono
una scheda telefonica ogni dieci giorni, sigarette e assistenza medica e sociale. In ogni cella
ci sono quattro brandine, una delle camere è stata adibita a moschea. Nel primo semestre
del 2008 sono transitate dal Vulpitta 94 persone, soprattutto tunisini e marocchini. Al
momento i presenti sono 29. Con questi numeri, le condizioni del trattenimento sono più
vivibili. E non è facile immaginare come nei primi anni di apertura, nel 1998 e 1999, il
centro potesse contenere fno a 180 persone, con 12 o 13 persone per ogni stanza.

2- I FATTI
Il 29 dicembre del 1999 durante un tentativo di fuga venne appiccato un incendio da
un tunisino, che costò la vita a tre extracomunitari. Ecco i fatti brevemente: sei clandestini
fuggono dal centro di accoglienza, che ospita in tutto 85 extracomunitari di passaggio a
Trapani o clandestini senza permesso di soggiorno in attesa di essere rimpatriati. Nel
frattempo, all'interno, una decina di extracomunitari cerca di fuggire come gli altri sei: come
i loro compagni, erano senza permesso di soggiorno e non erano stati ancora sottoposti alla
procedura di riconoscimento che precede l'espulsione. Ecco la carta della rivolta: si
barricano in una camerata accatastando le brande davanti alla porta e appiccano il fuoco a
materassi e cuscini nel tentativo di costringere la polizia a ritirarsi. Ma la situazione gli
sfugge di mano, la stanza si trasforma in una camera a gas e i rivoltosi restano intrappolati
tra le famme.
Questa però non era la prima rivolta che scoppiava nel centro trapanese, ma era la
quarta, la prima con morti, tanto che il Vulpitta all’epoca fu defnito "un lager dove viene
negato l'accesso perfno alle associazioni di volontariato". Il Vulpitta, quindi, fu chiuso per
adeguare le misure di sicurezza e per ristrutturare i locali, ma dal 2002 al 2004 e ancora tra

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il 2007 e il 2008 si sono verifcate altre rivolte a causa del sovraffollamento bestiale (in
quindici in una cella, dormendo per terra), condizioni terribili e soprattutto
botte, botte, botte. I racconti di chi ha provato a fuggire:

Abdallah Fathi, 24 anni, è rinchiuso qui dentro da una settimana, dopo


essere sbarcato a Mazara del Vallo con altri otto uomini, provenienti
dal Marocco. Cinquecento euro il prezzo del viaggio della speranza,
conclusosi dietro le sbarre e con la prospettiva di essere liberato dopo
60 giorni, il tempo concesso dalla legge Bossi-Fini per accertare la
provenienza dei clandestini. Chi è identifcato viene accompagnato alle
frontiere ed espulso, ma solo dopo aver ottenuto i documenti di viaggio
dal paese di provenienza. Agli altri toccherà il foglio di via e l'obbligo a
lasciare il paese entro cinque giorni. Assieme ad altri 5 immigrati,
Fathi venerdì scorso ha tentato di evadere dal Vulpitta, ma non ce l'ha
fatta. «Dormo su un materasso per terra - racconta - non posso
telefonare e poi ho bisogno di essere operato». Su tutta la schiena e sulle
braccia Fathi ha i segni di un'ustione che l'ha sfgurato quando aveva
solo due anni. «Ho lasciato il mio paese perché la mia famiglia non
aveva i soldi per pagarmi le operazioni, così ho creduto di venire in
Italia per lavorare, e invece mi trovo rinchiuso in un carcere. Quando
esco parto per la Francia dove mi aspetta la mia fdanzata».

In questi anni, la storia del CPT “Serraino Vulpitta” è stata scandita da episodi simili:
rivolte, tentativi di fuga, atti di autolesionismo, tentati suicidi, scioperi della fame, proteste
individuali e collettive. Per non parlare poi delle denunce degli immigrati che hanno puntato

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il dito contro l’invivibilità della struttura e le violenze delle forze dell’ordine deputate alla
sorveglianza dei trattenuti. Una storia, quella del “Serraino Vulpitta” simile a quella degli
altri Centri di detenzione per immigrati sparsi per l’Italia. Galere etniche in cui le persone
vengono rinchiuse solo perché classifcate dalla legge come “irregolari” o “clandestine” e
“orribili luoghi di detenzione che l'ipocrisia vieta di chiamare carceri”.
A più di dieci anni dal rogo del “Vulpitta” il livello della repressione nei confronti degli
immigrati in Italia è addirittura peggiorato. Governi di centrodestra e di centrosinistra
hanno garantito una sostanziale continuità nelle normative sull’immigrazione, sempre
fnalizzate a rendere diffcile l’ottenimento del permesso di soggiorno e a creare un’enorme
massa di manodopera a basso costo esposta al ricatto della clandestinità, delle mafe e dei
traffcanti di esseri umani. Le campagne di criminalizzazione promosse dalla classe dirigente
nei confronti degli immigrati hanno spianato la strada a un razzismo diffuso, a un’aperta
ostilità contro gli stranieri, accusati di essere gli artefci di tutti i mali della nostra società. La
legge Bossi-Fini sull’immigrazione dispone la costruzione di nuovi Centri di detenzione per
immigrati, il prolungamento della detenzione fno a sei mesi, il carattere penale del reato di
clandestinità, il respingimento in mare dei migranti.
Negli ultimi dieci anni la migliore resistenza al razzismo è stata offerta proprio dagli
immigrati, dalla loro autorganizzazione, dalla loro capacità di mobilitarsi per difendere i
loro diritti. Le stesse rivolte, sempre frequenti in tutti i Centri di detenzione d’Italia, sono la
testimonianza di quanto sia insostenibile la privazione della libertà quando si viene
incriminati ‘non per ciò che si fa ma per ciò che si è’.

3- PER UNA RISOLUZIONE NONVIOLENTA

Non è semplice dare una risoluzione ad una situazione così complessa

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che alla fne non riguarda solo la città di Trapani ma tutta l’Italia (basta
pensare ai fatti di Rosarno).
In primo luogo ma credo sia un’utopia, deve esserci la volontà di
entrambe le comunità di venirsi incontro, pertanto rinchiudere i migranti in
un centro di accoglienza, che deve garantire condizioni di vita umane prima di
un eventuale rimpatrio, ma in realtà è un carcere, certamente non aiuta anzi
crea le basi per comportamenti violenti da parte dei migranti che
determinano a loro volta comportamenti xenofobi. Proviamo a pensare a
quale sarebbe la nostra reazione se dovessimo vivere in 15 ammassati in una
stanza dove possono stare 8 persone, dormendo per terra, in condizioni
disumane! Non agiremmo allo stesso modo?
In secondo luogo oggi i lavori defniti ‘umili’ sono lasciati ai migranti,
quegli stessi migranti che vorremmo cacciare dal nostro Paese, da questo
presupposto si è tentata una risoluzione nonviolenta condotta dal Movimento
Primo Marzo che nasce nel 2009 e trova i suoi fondamenti in questa frase:
Cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di
incrociare le braccia per un giorno? E se a sostenere la loro azione ci fossero anche i milioni
d’italiani stanchi del razzismo?
Obiettivo di questo movimento è stato, infatti, l'organizzazione di una manifestazione
nonviolenta per far comprendere all'opinione pubblica quanto l'apporto dei migranti sia
indispensabile al funzionamento della nostra società e come gli italiani debbano essere uniti
per difendere i diritti fondamentali della persona, combattere il razzismo e superare la
contrapposizione tra "noi" e "loro". Partendo da questi obiettivi il primo marzo 2010 si è
svolta una manifestazione che ha avuto grande successo coinvolgendo almeno 300mila
persone nelle piazze italiane. Adesso scopo del movimento è impegnarsi a livello politico e

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coinvolgere sempre di più la popolazione italiana.


Combattere attraverso la nonviolenza non è non-reagire ai soprusi ma
subirli per far valere le proprie ragioni.

Riferimenti:
www.meltingpot.org
http://coordinamentoperlapacetp.wordpress.com/
www.primomarzo2010.it

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