IL DENARO
Giovedì 21 maggio 2009
Supplemento di ricerca, tecnologia, creatività del Denaro
Il futuro dell’innovazione è open
A Napoli si discute delle nuove dinamiche della ricerca e dello sviluppo
TONINO FERRO
Nel 1989 la petroliera Exxson Valdez
urtò uno scoglio in Alaska, riversan-
do in mare 40 tonnellate di greggio.
Tutti ricordano l'immagine dei
pinguini fradici di oro nero, ma
pochissimi sanno come quel proble-
ma venne risolto. Ci vollero 10 anni
di ricerche, densi dello studio di una
nuvola di cervelloni provenienti da
tutte le università del mondo. 10 anni
inutili, visto che la soluzione arrivò
da un umile muratore che applicò al
mare ghiacciato ed al petrolio i
metodi che ogni giorno usava con
l'acqua ed il cemento. Un solver
qualunque finito dentro un processo
di Open innovation. I termini sem-
brano difficili, ma il concetto è
semplice: un qualsiasi problema può
essere risolto molto più facilmente
da una grande massa di persone (o
meglio di cervelli), interpellati
attraverso sistemi di social networ-
king, che da una sola persona. O da
un solo comparto aziendale, fosse
anche il più qualificato del mondo.
E' questo il concetto base dell'Open
Innovation. Una pratica che in Ame-
rica funziona ormai stabilmente e
che in Italia, nel Mezzogiorno in
particolare, potrebbe risolvere una
serie di problemi e innestarsi nel
sistema economico come leva fonda-
mentale per lo sviluppo. A trarne
vantaggio potrebbero essere proprio
le piccole e medie imprese, come ha
A sinistra un’opera d’arte contemporanea dal titolo “Roaming”. Sulla destra l’Europa vista dal satellite
spiegato lunedì scorso Alex Orlando,
vicepresidente di Innocrowding,
all'incontro organizzato dal Centro
Studi dell'Unione Industriali di
Napoli, proprio sul tema dell'Open
Innovation. Orlando ha iniziato la
sua relazione in modo un po' provo-
catorio, chiedendosi se ci fossero
possibilità reali di portare l'innova-
zione anche in Italia, tenuto conto
che le più grosse aziende della peni-
sola sono tra i suoi clienti a Washing-
ton. Ha proseguito, poi, appellandosi
alle Pmi: “esiste, oggi, la possibilità
reale che le aziende trovino soluzioni
ai loro problemi, in tutti i campi, dal
marketing, alla vendita, attuando la
pratica dell'Open Innovation”. La
domanda è: come? Un passo indie-
tro, allora.
Il termine è promosso da Henry
Chesbrough, presidente del Center
for Open Innovation at Berkeley in
un articolo, manco a dirlo, pubblicato
su Wired.
In concreto: la funzione o l'area
“ricerca e innovazione” di una qual-
siasi impresa diventa trainante se si
apre all'esterno. La cosa, attraverso la
rete e le pratiche del web 2.0, risulta
abbastanza semplice: basta partire da
una base, come dire, morale. Serve
apertura ed onestà nel trattamento
delle richieste e dei risultati raggiun-
ti. Attraverso la rete si individua una
comunità di solver, cioè di soggetti
tra i più disparati culturalmente, ai
quali si chiede la soluzione creativa a
quesiti che l'azienda propone. Dalla
creazione e lancio di un prodotto, ad
una formula chimica, al cambiamen-
to di una funzione. Si scompongono i
processi e si ricavano i singoli quesiti
a cui l'azienda chiede risposta. Si
stabilisce un premio per il solver
“vincente” e si parte con la ricerca.
Servendosi di qualsiasi mezzo: dai
social network già conosciuti, al
Black Barry, ai tradizionali sms usati
dai bambini. Quando la soluzione
arriva, l'azienda la valuta ed elargisce
la ricompensa.
Nel caso in cui le necessità siano
diverse, l'Open innovation prevede
lo scambio o l'acquisto di brevetti o
di soluzioni innovative proprietarie.
Per cui Ibm può acquistare o scam-
biare una piattaforma con Kraft e
viceversa. O può acquistare una
soluzione creata da un qualsiasi
utente della rete. Il vantaggio è pale-
se. Intanto aumenta il valore delle
aziende. Ed in secondo luogo si
promuove la creatività, non come
concetto legato alla mera fantasia, ma
come mezzo per dare concretezza alle
cose.
C'è una terza via, per la verità, che è
quella da cui tutta questa faccenda è
tratta. Una via che focalizza l'atten-
zione più sul termine “open”, che su
“innovation”. Col termine inglese
“open”, in questo caso non traduci-
bile, gli ideologi del web intendono
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una volontà soggettiva di prestare il
proprio lavoro, il proprio cervello, la
propria fatica, ad una causa. Senza
denaro, in genere. C'è una comunità
enorme che lavora per questo. Un'a-
zienda (o un soggetto qualsiasi) può
dimostrare che la ricerca di una
determinata soluzione è importante
per una ragione specifica, che va
oltre il mercato. Questo discorso
innesca un meccanismo di fiducia tra
l'azienda e la comunità virtuale, che
non può essere tradito. Pena la
rivolta della stessa comunità. E la
denigrazione globale.
Un ultimo accenno merita lo scenario
teorico sul quale questo sistema
poggia. Si tratta, in definitiva, delle
dinamiche della società della cono-
scenza. Amedeo Lepore, ordinario
all'Università di Bari, ha introdotto i
temi del seminario di Palazzo Partan-
na, ricordando come crocevia del
mercato moderno sia il concetto
della Long Tail (La lunga coda) rias-
sunto da Chris Anderson (Direttore
di Wired) nell'oramai celebre testo.
Qualsiasi cosa venga immessa sull'e-
norme mercato globale, attraverso il
web, trova dei compratori. Trova un
mercato di nicchia che, esteso all'in-
tero pianeta diventa, semplicemente,
un mercato grande. La stessa cosa
che vale per i beni, vale inevitabil-
mente per le idee e per le conoscen-
ze, che sono l'unica cosa, si dice, di
cui al Sud siamo pieni zeppi.