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9. NASCITA DELL'ARCHITETTO
Larchitetto cos come lo intendiamo oggi non sempre esistito. La sua figura si definisce nel
tempo in modo lento e contraddittorio. Di questo lungo processo, raccontiamo qui alcuni frammenti.
Il medioevo: committenti e magistri
L'architetto in senso moderno nell'alto medioevo non pare esistere: nei testi del tempo difficile
rintracciare non solo il vocabolo, ma la stessa funzione di architetto cos come si delineer fra
l'et gotica e il Rinascimento. Troviamo piuttosto una pluralit di figure, che per semplicit di
esposizione possiamo ricondurre a due principali: da un lato il progettista colto, l'ideatore,
dall'altro l'artifex, il costruttore che realizza l'opera. Il primo quasi sempre un chierico: non gi un
architetto di professione, ma piuttosto un uomo di cultura capace di elaborare fino a un certo grado
il progetto, di valutarne la rispondenza al programma funzionale e soprattutto, nel caso di un
convento o una chiesa, competente circa le implicazioni liturgiche e simboliche dell'edificio. La
seconda figura, il costruttore, esce invece dai ranghi delle maestranze, ed sostanzialmente un
artigiano capace di organizzare il cantiere e di tradurre il progetto in realt. I confini fra i due tipi di
architetto non sono affatto precisi: i testi tramandano vari casi di chierici capaci, parrebbe, di
controllare anche gli aspetti costruttivi e ingegneristici dell'edificio, mentre sembra molto pi raro il
caso opposto, cio quello di un laico in grado di elaborare i contenuti intellettuali del progetto
(forse era un laico il magister Odo di Metz, architetto della cappella palatina di Acquisgrana, di cui
per non sappiamo nulla. Un laico era certo Eginardo, che per, educato a Fulda, era in realt un
esponente della cultura monastica del suo tempo). Inoltre, a complicare la figura dell'architetto
colto intervengono altre variabili: in particolare pu accadere che questi, quando si tratta di un
chierico di alto grado, vescovo o abate, sia anche il committente dell'opera. Questa eventualit, che
non rara, complica l'interpretazione delle fonti: evidente che spesso le cronache e i testi
agiografici, quando attribuiscono a un certo vescovo, abate o santo la costruzione di una chiesa o di
un monastero, intendono assegnargli il merito dell'iniziativa, non gi la sua esecuzione. Tuttavia in
vari casi l'insistenza su dettagli tecnici, l'assegnazione al committente di scelte molto precise (dalla
distribuzione alle proporzioni, alla scelta dei materiali ecc.) fanno pensare che molti committenti
fossero anche, in diverso grado, i progettisti dell'opera che intendevano realizzare. La figura del
committente-architetto, insomma, si muove tra l'estremo del semplice patronage, e quello della vera
e propria competenza professionale. Del resto il clero medievale, in quanto detentore pressoch
unico del sapere, nei suoi strati pi colti possedeva certamente le nozioni scientifiche sufficienti
non solo a intendere, ma anche a controllare e a stimolare l'attivit dei costruttori a cui faceva
ricorso. Esclusivamente ecclesiastica, d'altra parte, era la competenza teologica e liturgica che
consentiva di valutare non soltanto l'impianto costruttivo, ma anche molti dettagli dell'edificio
sacro. Potremmo forse dire, utilizzando una formula semplicistica ma non del tutto ingiusta, che la
definizione di massima dell'edificio e perci, nel caso, l'invenzione tipologica, spettavano al primo
tipo di architetto, in sostanza al clero; le scelte costruttive e la realizzazione, ma forse anche
l'apparato decorativo e le innovazioni stilistiche conseguenti, alla categoria degli esecutori.
Sembra dunque che in linea di principio fosse la realizzazione concreta dell'edificio, il
cantiere, a costituire il confine fra le due figure. L'ipotesi ragionevole, perch un confine di questo
tipo attraversava, nonch l'architettura, tutta la cultura e la societ medievali. Nel campo della
geometria, per esempio, si distingueva fra geometria theorica, fondata sulle dimostrazioni, e
geometria practica, che era propria di fabri (i costruttori) e mensores (gli agrimensori). La gerarchia
fra teoria e prassi era netta: fondamento dell'arte - si riteneva - non gi la capacit tecnica, bens la
conoscenza dei principi intellettuali da cui l'arte stessa discende, e che soli devono guidare
l'esecuzione. Questa concezione enunciata con forza da autori fondamentali per il pensiero del
tempo come Agostino e Boezio. La capacit intellettuale di comprendere le ragioni del bello, scrive
Agostino, intrinsecamente superiore all'abilit pratica che consente di realizzarlo, cio all'ars

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vulgaris dell'artigiano, fatta solo di abitudine e di esperienza: "rerum expertarum placitarumque
memoria". Conferma il concetto Boezio (+ 524), De institutione musica, I, 34: "Perci musico
colui, che ha acquistato la scienza del canto a ragion veduta, senza subire la schiavit della
pratica e con la guida della speculazione. E questo lo osserviamo in opera architettonica e
guerresca, con uso cio contrario di vocabolo. Poich si designano gli edifici e si erigono trionfi
col nome di coloro, per la cui autorit e ragione sono stati instituiti, non per la cui opera sono
stati compiuti."1 La congiunzione fra ratio e imperium, cio fra consapevolezza intellettuale ed
autorit, garantisce la vera paternit dell'opera; tale congiunzione si realizza perfettamente nel
committente ecclesiastico che possiede, accanto all'autorit, il sapere: il trivio, cio grammatica,
retorica e dialettica, e il quadrivio, cio aritmetica, geometria, musica e astronomia, secondo un
ideale ancora, e forse a volte consapevolmente, classico e vitruviano. In sintesi, "ars sine scientia
nihil est": insomma pienamente medievale la sentenza che, nella disputa sul Duomo di Milano,
l'architetto francese Jean Mignot oppone alle incerte velleit innovatrici della cultura locale.
La distinzione fra teoria e pratica del costruire era dunque, prima che un fatto, un principio,
n i testi a noi noti lasciano trasparire ambizione alcuna di riunire i due livelli di competenze in una
figura ideale di costruttore, versato in entrambi. Questo obbiettivo apparterr ad un nuovo tipo di
architetto, che si profila nell'et gotica e che acquister piena cittadinanza - non senza numerose
contraddizioni - soltanto con il Rinascimento e l'et moderna. Del resto, a mantenere separate (di
regola, se non sempre di fatto) le competenze del teorico e dell'artifex provvedeva, nel medioevo, lo
statuto ontologico e sociale dell'architettura. Esso era ambiguo, nel senso proprio della parola. Da
un lato l'architettura un'arte per eccellenza sacerdotale, cio un'arte che la tripartizione della
societ medievale (tra oratores, bellatores e laboratores) assegnava al clero, in modo forse
implicito ma chiaro. La ragione evidente: l'architettura imita l'azione divina, poich realizza e
dispone "in mensura et numero et pondere"2 appropriati il microcosmo in cui la vita umana si
svolge, innanzitutto i luoghi del culto. Radice dell'architettura la sapienza, nell'accezione
teologica della parola: modelli biblici dell'architetto sono Beseleel, a cui Dio stesso aveva dato
"sapientiam et intellectum"3 per realizzare il Tabernacolo nel deserto, e Salomone, "sapientior
cunctis hominibus"4, che fece edificare il primo Tempio. "Sapiens architectus" definisce se stesso
san Paolo5, per descrivere il proprio ruolo di organizzatore della Chiesa nascente. Sul piano sociale,
inutile sottolineare che le intraprese edilizie erano, come sempre anche allora, un elemento
fondamentale per rendere concreto, raffigurandolo, il prestigio e l'autorit di una citt, di una
diocesi, di un'abbazia. Per altro verso l'architettura, in quanto arte del costruire, ars mechanica, e
come tale investita delle connotazioni, ambigue ma in sostanza negative, che il medioevo applicava
alle arti fabbrili. Alcuni eruditi del tempo ritenevano che l'aggettivo mechanicus derivasse dal greco
moichs, adultero. Secondo Ugo di San Vittore l'architettura, in quanto ars mechanica, poteva
essere praticata soltanto da "plebei [...] et ignobilium filii"6. Un ecclesiastico consapevole della
propria dignit e del proprio ruolo poteva dunque dettare la forma e le proporzioni di un edificio,
ma pi difficilmente occuparsi della sua realizzazione concreta.
Tutto ci certamente un po' sommario. I testi e i documenti del tempo registrano
sfumature, complicazioni, eccezioni di cui sarebbe necessario tenere conto: anche gli esecutori, ad
esempio, potevano appartenere al clero, sia pure in posizione subordinata; anche i committenti
ecclesiastici di alto grado potevano impegnarsi, per dare prova di umilt e di zelo, in questioni
strettamente tecniche e materiali. Tuttavia la complementarit e le differenze fra architetto-teorico e
architetto-costruttore possono valere come paradigma esplicativo, sia pure un paradigma
semplificato. Se lo applichiamo al nostro tema di partenza, questo paradigma ci fa comprendere che
1

Boezio, Pensieri sulla musica, Firenze 1949, p. 65.


Sapienza, 11, 21.
3
Esodo, 36, 1.
4
III Libro dei Re,. 4, 31 (= 1 Re 5, 11).
5
I Lettera ai Corinti, 3, 10.
6
Ugo di S. Vittore ( 1141), Eruditio Didascalica, II, 21, Patrologia Latina Migne, vol. 176, col. 760.
2

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disegni come quelli di Arculfo o il piano di S. Gallo sono bens disegni di architettura, ma in un
senso assai pi parziale di quanto non sembrasse a prima vista. In altre parole, questi disegni
esemplificano s la cultura, la mentalit, le conoscenze tecniche degli architetti del tempo: ma non
la cultura degli artifices, dei costruttori, bens la cultura di quel tipo di committente-progettista colto
che decideva e impostava l'opera esercitando la ratio che gli veniva dalle sue capacit intellettuali,
nonch l'imperium implicito nel suo ruolo sociale.
Arculfo, Adamnano e Haito erano tutti chierici di alto grado: Arculfo e Haito vescovi,
Adamnano abate. Di Arculfo e Adamnano, non sappiamo se avessero uno specifico interesse per
l'architettura: per la loro carica implicava contatti frequenti con maestranze e cantieri, per decidere
e valutare i nuovi edifici, o per provvedere alla manutenzione degli antichi; certamente questi
contatti richiedevano non soltanto la capacit, per esempio, di decifrare una planimetria, ma anche
una rudimentale capacit di tracciarla. Quanto ad Haito, sappiamo che egli fece costruire la
cattedrale di Basilea: il piano di San Gallo, se Haito ne davvero l'autore, confermerebbe un
interesse non episodico per l'arte del costruire. Certo, la loro competenza aveva dei limiti: l'autore
del disegno di San Gallo, ad esempio, nei punti pi complessi adotta un'ingegnosa ma impropria
stenografia. Si osservino in particolare le due torri che fronteggiano l'abside occidentale della
chiesa: la spirale, e la stella al centro, indicano con chiarezza la presenza di una scala ad elica e di
una cappella alla sommit; ma fra questa rappresentazione e la realizzazione concreta di una simile
torre, evidentemente si frappone tutta una serie di operazioni e di scelte (si pensi solo alla
complessit dei problemi di stereometria e di quote posti da una scala ad elica in pietra) che il
disegno non sfiora, e che probabilmente esulavano non solo dalla competenza, ma anche dagli
interessi di Haito.
Si considerino anche i disegni che illustrano il resoconto di Arculfo. Questi, reduce da un
pellegrinaggio in Terra santa compiuto nella seconda met del VII secolo, narr il suo viaggio
all'abate di Hy, Adamnano, che provvide a fissare su pergamena testo e immagini; non ci giunto il
manoscritto originale, ma delle copie pi o meno fedeli. Ora, i disegni di Arculfo (disegni, si badi,
stesi probabilmente a memoria) bench sommari mostrano una certa familiarit con le regole del
rilievo: i muri non sono tracciati a fil di ferro, ma in spessore; le aperture sono indicate
correttamente; la complessa struttura dell'Anstasis, nonostante la difficolt di rappresentarla,
suggerita con una certa efficacia, impiegando il compasso. Ancora pi notevole la perizia con cui
tracciata la planimetria di San Gallo. Opera forse di Haito, vescovo di Basilea e poi abate di
Reichenau, questo disegno risale all'820 o pressappoco. La sua natura ibrida: in parte un
progetto (sia pure un progetto ideale), in parte il diagramma astratto di una certa concezione della
vita monastica, ancora molto lontano dal soddisfare i requisiti tecnici di una realizzazione effettiva.
Nonostante questi limiti, si tratta di un disegno di architettura a tutti gli effetti: il disegno in
scala (con la sola eccezione della chiesa, eccezione che lecito collegare ad un pentimento del
progettista); l'autore impiega sistematicamente squadra e compasso; in particolare, la grande
dimensione del complesso controllata con disinvoltura mediante l'adozione di una maglia
modulare che governa le proporzioni, secondo un espediente pienamente professionale.
Fra Medioevo e Rinascimento: alcuni espisodi
La figura dell'architetto, in un senso abbastanza simile a quello moderno, si delinea fra medioevo e
rinascimento, con tempi e modi diversi a seconda dei contesti geografici e culturali, non senza
arretramenti e contraddizioni. Alcuni episodi, intervallati nel tempo, mostrano il processo in atto.

L'epigrafe nel Duomo di Modena definisce larchitetto del Duomo, Lanfranco (XI-XII sec.)
come "Doctus et aptus, operis princeps huius rectorque magister": "Dotto e competente
direttore dei lavori, reggitore e maestro".

Nicolas de Biard (XIII sec.): "Nei grandi edifici c' l'uso di avere un maestro principale che
manda avanti l'opera solamente con le parole, ma che raramente o addirittura mai vi
mette mano, e tuttavia riceve salari pi alti degli altri... I maestri muratori che hanno in

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mano la bacchetta e i guanti dicono agli altri: devi tagliare qui e qui e non lavorano
affatto, ma ricevono un maggior compenso, come fanno i prelati di oggi."

Il triforio della cattedrale di S. Vito a Praga (1344 ss.) ospita i busti di una serie di personaggi
legati alla cattedrale, alcuni idealizzati, altri realistici. Fra essi l'imperatore, la sua famiglia,
arcivescovi, e anche gli architetti Matthieu d'Arras e Peter Parler. La prima pietra della
cattedrale di S. Vito venne posata nel 1344, nell'anno in cui Praga divenne sede di un
arcivescovo, mentre nel 1355 fu elevata alla dignit di citt e divenne una delle capitali
dell'Impero. A causa dei legami fra l'Imperatore, Carlo IV, e la Francia, venne chiamato un
architetto francese, Matthieu d'Arras, che mor nel 1352 dopo avere impostato il coro. Gli
successe Peter Parler, figlio di Heinrich, che venne nominato maestro d'opera della cattedrale fra
il 1353 e il 1356, a soli 20 o 23 anni. Coperto di onori dall'Imperatore, Peter Parler costru anche
il ponte Carlo sulla Vltava (1357) e la porta monumentale di accesso alla citt.

Filarete immagina che il Signore lo inviti a pranzo (onore del tutto inconsueto per un artista del
tempo): E postosi a tavola lui col suo maggiore figliuolo e certi altri signori, e io a una
tavola non troppo di lunga dalla sua, insieme collo suo commessario e con uno altro suo
caro, desinai.7 Filarete non appartiene pi, o ritiene di non appartenere, al mondo delle
maestranze (che per parte loro lo respingono) bens a quello dei filosofi e dei letterati,
socialmente ben superiore. Da una lettera dell'umanista Francesco Filelfo (1398-1481) al poeta
Antonio Trebano risulta che Filarete, che aveva conosciuto il Filelfo a Firenze, era in familiarit
con loro8. Forse la diversa accoglienza dellarchitettura allantica a Venezia (dove incontra
molte resistenze) e Roma (dove penetra pi agevolmente) dipende dalla differenza sociale di
coloro che se ne fanno interpreti e che a Venezia, pur essendo portatori di un linguaggio nuovo,
appartengono per ancora al mondo del cantiere tradizionale.

Drer, che nel 1506 fu a Venezia, scrive da l a un amico: "Qui io sono un signore, e in patria
nient'altro che un parassita"9.

Il Rinascimento: l'architettura da arte meccanica ad arte liberale

"Uno dei primi casi di disobbedienza alle leggi corporative di cui abbiamo notizia quello del
Brunelleschi, che rifiut di pagare i tributi. L'Arte de' maestri di pietra e legnami, a cui
appartenevano tutti i lavoratori edili, lo fece gettare in prigione il 20 agosto 1434. In questo
caso, il capitolo del duomo prese immediatamente energiche contromisure: undici giorni dopo
Brunelleschi fu liberato, e pot continuare la grande opera della cupola fiorentina senza altri
fastidi da parte della corporazione da lui spregiata."10
"Salvo qualche eccezione - come l'Alberti, Brunelleschi e Leonardo, gli ultimi due figli di notai
molto stimati - non sarebbe facile citare degli artisti quattrocenteschi provenienti dall'alta
borghesia o dalla nobilt: la professione era tenuta in pari discredito dall'aristocrazia, dai
finanzieri, dai mercanti e dalla Chiesa."11
"Per innalzare le arti visive dal rango di arti meccaniche a quello di arti liberali bisognava dar
loro un saldo fondamento teorico: il primo e pi importante passo in tale direzione fu fatto
dall'Alberti. Con quell'ammissione nella cerchia delle arti liberali, propugnata dagli artisti del
XV e XVI secolo con le parole e con le immagini, l'artista passava dal rango di lavoratore
manuale a quello di lavoratore intellettuale."12 Nel suo trattato Della pittura, scritto nel 1436,
egli definisce la pittura arte somma fra tutte, che "tiene in s forza divina" ed "optimo et

Filarete, Trattato, , a cura di A.M. Finoli e L. Grassi, Il Polifilo, Milano 1972, VI, vol. I, p. 174.
Filarete, Trattato cit., XII, vol. I, p. 321 n.
9
R. e M. Wittkower, Nati sotto Saturno. La figura dell'artista dall'antichit alla Rivoluzione francese (1963), ed. it. Einaudi, Torino 1996, p. 47.
10
Ibid., p. 19.
11
Ibid., p. 22.
12
Ibid., p. 25.
8

antiquissimo ornamento delle cose, degnia ad i liberi huomini, grata a i dotti et al indocti".
Per praticarla occorrer studiare geometria, ottica e prospettiva, composizione e anatomia; ma
anche acquisire familiarit con letterati e poeti. L'amore per la pittura, scrive Alberti, dimostra
intelligenza ( "optimo inditio d'uno perfettissimo ingegnio [...] in chi molto si diletti di
pictura") e chi pratica quest'arte deve porre "una cura grande ad acquistare fama et nome,
quale vedete li antiqui avere agiunta".13
L'ultimo punto la convinzione che nell'antichit gli artisti godessero di grande prestigio sociale
tanto infondata quanto diffusa nel Rinascimento: "Filarete ricordava che la pittura,
considerata ancora ai giorni suoi come un'occupazione indecorosa, era praticata anche dagli
imperatori romani, e Giovanni Santi, il padre di Raffaello, sosteneva, e non era il primo, che i
greci non permettevano agli schiavi di studiare pittura. Anche Michelangelo, se il suo biografo
Condivi dice il vero, era vittima dell'illusorio convincimento che gli antichi non ammettessero i
plebei alla pratica dell'arte."14
L'emergere della personalit dell'artefice ben espresso da Marsilio Ficino (Theologia
Platonica, 1470 ca.): "Nelle pitture e negli edifici risplende la sapienza e la capacit
dell'artefice. In essi possiamo inoltre vedere la disposizione e quasi l'immagine dell'animo
suo, giacch in tali opere l'anima esprime e riflette se stessa non altrimenti da come uno
specchio riflette il volto di chi vi guarda dentro". Analogo il concetto espresso da Cosimo de'
Medici e ricordato da Poliziano, "ogni dipintore dipigne s".15

Filarete e l'ambiente milanese


Antonio Averlino o Averulino detto il Filarete, nato nel 1400 ca. a Firenze, fu allievo di Ghiberti
(quanto al soprannome, Filarete potrebbe averlo adottato negli ultimi anni di vita. Nella dedica del
trattato a Piero de Medici egli designa se stesso come il tuo filareto architetto Antonio Averlino
fiorentino16). Come scultore, fra il 1433 e il 35 realizz a Roma le porte bronzee di S. Pietro. Nel
1449 fu a Venezia, nel 1451 giunse a Milano su raccomandazione di Piero de Medici come ingegnere della fabbrica del Castello. Nel 1452 il Francesco Sforza impose ai deputati della fabbrica del
Duomo Filarete e Giovanni Solari quali ingegneri al posto del defunto Filippino degli Organi. Rest
a Milano fino al 1465 (Francesco Sforza morir lanno seguente). Del 1461-64 la stesura del Trattato di Architettura in 25 libri. Mor a Roma intorno al 1469.
Lettere di Filarete a Piero de Medici (1451), a Cicco Simonetta (1452) e a Francesco Sforza
(1453) attestano le difficolt che Filarete incontrava, a opera delle maestranze locali, sul cantiere del
Castello, da cui fu allontanato nel 1453. A Piero de Medici scriveva: perch sono forestieri loro
ci fanno ripulsa, credo pure faranno la volunt del Signore. Nel 1454 anche i deputati del
Duomo decisero di licenziarlo perch inutile, ma Filarete, protetto da Francesco Sforza, dovette
restare in carica perch nel 1457 i deputati protestarono per il salario di 12 ducati al mese che il Duca gli aveva fissato. Dei rapporti difficili tra Filarete e lambiente milanese forse un riflesso un
passo del suo Trattato in cui egli critica quei maestri che come sanno mettere una pietra in calcina e imbrattarla di malta, pare loro essere ottimi maestri darchitettura []. E quello che
fanno, se pure alcuna cosa fanno, pi per una loro pratica che per scienza di disegno o di lettere o di misure che abbino.17 Dal 1456 al 1465 fu a capo della fabbrica dellOspedale. Dimessosi nel 1465 dallOspedale, torn a Firenze dove dedic a Piero il Trattato. Non si sa dove morisse:
secondo una lettera di Francesco Filelfo a Costantinopoli, secondo Vasari a Roma; ma forse a Firenze.18

13

Ibid., p. 25.
Ibid., pp. 25-6.
15
Ibid., pp. 106-7.
16
Filarete, Trattato cit., I, vol. I, p. 5.
17
Ibid., I, vol. I, p. 13.
18
Ibid., I, vol. I, pp. LXXXVIII-XCI, 6-7 n.
14

6
Michelangelo e Giulio II
"Il Condivi, aiuto e biografo di Michelangelo, riferisce che la famiglia Buonarroti considerava
vergognoso che un suo membro volesse diventare artista, e che il padre picchi duramente il
ragazzo nel vano tentativo di fargli cambiare idea. La professione dello scultore era anche meno
stimata socialmente di quella pittorica; e sebbene il pittore Granacci, primo maestro di
Michelangelo, cercasse di spiegare al padre la differenza tra scultore e scarpellino, il vecchio
Buonarroti non voleva saperne, e solo le preghiere di Lorenzo il magnifico in persona riuscirono a
vincere la sua resistenza."19
I rapporti fra Michelangelo e Giulio II son in gran parte condizionati dal carattere e dalle
qualit singolari dei due personaggi, e in questo senso costituiscono un'eccezione; tuttavia in minor
misura possono valere come spia del mutamento in atto. noto l'episodio della fuga di Michelangelo. Nel 1504 Giulio II lo aveva incaricato di realizzare la sua tomba. Ma l'anno dopo venne assorbito dai progetti per il nuovo S. Pietro. Questo fatto, e una crisi finanziaria, spinsero Michelangelo ad abbandonare Roma e a tornare a Firenze. Il papa lo perdon, ma fece pressioni perch tornasse
a Roma, come infine avvenne. Cos Michelangelo stesso raccontava molti anni dopo l'episodio:
stringiendo [io] il Papa a seguitare [i lavori per la tomba] el pi che potevo, mi fecie una mattina che io ero per parlargli per tal conto, mi fecie [sic] mandare fuora da un palafreniere. Io
me ne andai a casa, e scrissi questo al Papa: Beatissimo Padre: io sono stato stamani cacciato
di Palazzo da parte della vostra Santit; onde io le fo intendere che da ora innanzi, se mi vorr, mi ciercher altrove che a Roma. Et io andai, et montai in su le poste, et anda'mene verso
Firenze. El Papa, avendo ricieputa la lettera mia, mi mand dreto cinque cavallari, e quali mi
giunsono a Poggi Bonzi circa a tre ore di notte, e presentornomi una lettera del Papa, la quale
diceva: Sbito vista la presente, sotto pena de la nostra disgrazia, che tu ritorni a Roma.
Risposi al Papa, che ogni volta che m'osservassi quello a che era obrigato, che io tornerei; altrimenti non sperassi d'avermi mai. E standomi di poi in Firenze, mand Iulio tre Brevi alla
Signoria. All'ultima la Signoria mand per me e dissemi: Noi non vogliamo pigliare la guerra
per te contra papa Iulio: bisogna che tu te ne vadi; et se tu vuoi ritornare a lui, noi ti faremo
lettere di tanta autorit, che quando faciessi ingiuria a te, la farebbe a questa Signoria. Et cos mi fecie: et ritornai al Papa"20.
Dalla corporazione alle Accademie
L'artigiano (e l'artista) medievali dovevano di regola appartenere a una corporazione di mestiere,
che si faceva garante delle loro capacit tecniche, ma per contro li imprigionava implicitamente
nella condizione di appartenenti a un'arte meccanica. Si visto sopra che gi Brunelleschi aveva
rifiutato di sottostare a questo obbligo. Le Accademie (libere associazioni di eruditi e di artisti,
svincolate dal controllo delle corporazioni) sono uno dei mezzi con i quali gli artisti, durante il
Rinascimento, cercano di liberarsi dalla taccia di artigiani e di acquisire status di intellettuali. La
prima Accademia fu probabilmente quella istituita poco dopo il 1530 a Firenze da Baccio
Bandinelli (1488-1560). Scultore rivale di Michelangelo e poeta in volgare, convinto di
discendere dalla nobile famiglia dei Bandinelli di Siena, Baccio diede il nome di Accademia alla
propria bottega. Ma la prima vera Accademia fu quella fondata nel 1563 a Firenze da Vasari:
l'Accademia del Disegno, da lui istituita sotto la protezione del duca Cosimo de' Medici e di
Michelangelo. Palladio, Tintoretto, Tiziano chiesero di esservi ammessi. Pur avendo statuti e scopi
del tutto diversi dalla corporazione, l'Accademia di fatto la sostituiva, indicando che l'artista
sfuggiva per ruolo e per censo al dominio della corporazione. Nel 1571, in effetti, un decreto ducale
esent membri dell'Accademia dall'appartenere a una corporazione. Ma non fu l'Accademia del
Disegno a costituire il modello delle istituzioni analoghe che fiorirono nei secoli successivi, bens
l'Accademia di San Luca a Roma, fondata nel 1593 da Federico Zuccari. Seguirono istituzioni come
19
20

Wittkower cit., pp. 20-21.


Ibid., p. 51.

7
l'Acadmie Royale francese (1648) e la Royal Academy inglese (1768). Senza soppiantare
interamente le corporazioni, fino alle soglie dell'et contemporanea le Accademie cresceranno in
numero e importanza.
L'architettura come svago del Principe. Alcuni esempi

21

"Cosimo de' Medici (morto nel 1464) [...] si occup molto da vicino dei molti edifici che fece
erigere ed era consultato dai suoi contemporanei in fatto d'architettura.[...] Suo nipote, [...] Lorenzo il Magnifico, era talmente versato nelle teorie architettoniche da presentare addirittura un
proprio progetto a un concorso per la facciata del duomo di Firenze, nel 1491. Quando il duca di
Calabria e il re di Napoli si vollero costruire delle nuove residenze, chiesero a Lorenzo di aiutarli nella scelta di un architetto adatto. Si ritiene che Federigo da Montefeltro avesse contribuito
poco meno dei suoi architetti alla progettazione del grande palazzo di Urbino, e diversi principi si presero la briga di ottenere disegni dell'edificio - fra cui il duca di Mantova e Lorenzo de'
Medici. Isabella d'Este prese parte attiva alla creazione del suo appartamento privato, dedicando
molta attenzione ai dettagli della decorazione [...] In seguito consigli suo fratello, a Ferrara, su
come decorare il suo studio."21 (Altri esempi: i papi, cardinali ecc.)
Filippo II amava esaminare e correggere personalmente i progetti che i suoi architetti (come
Juan Bautista de Toledo e Gaspar de Vega) elaboravano per i suoi palazzi e giardini. Ci restano
disegni (per il palazzo reale di El Pardo, per esempio, o per l'Alcazr Real di Madrid) fittamente
annotati e modificati dallimperatore.

P. Thornton, Interni del rinascimento italiano. 1400-1600, ed. it. Leonardo Milano 1992, pp. 330-1.

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