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MARC AUGÉ

Gioco (jeu), io (je): necessità di un


punto di vista unico sull'uomo
singolare/plurale.

Dire che gli uomini sono simili non è

a rigore né vero né falso, perchè sono innanzi tutto un'altra cosa: uguali, per
esempio.

Impossibile dissociare i problemi di identità di gruppo dai problemi di identità


individuale.

Se è vero che l'individuo acquista senso nella relazione, è anche vero che questa
non ha senso senza di lui. E inversamente, l'identità non si valuta che al confine del
sé e dell'altro, ma questo stesso confine è essenzialmente culturale.

Il corpo umano è uno spazio, uno spazio abitato nel quale non cessano di giocare le
relazioni di identità e alterità.

Il paradosso della surmodernità è allora al suo culmine: nei non-luoghi nessuno si


sente a casa propria, ma non si è nemmeno a casa degli altri.
Il non-luogo è lo spazio degli altri senza la presenza dell'altro, lo spazio reso
spettacolo. Se il rapporto diventa spettacolarizzazione dell'altro diventa astratto.
In un'epoca in cui si obbligano i nomadi al sistema di vita sedentario e in cui si
trasformano gli abitanti delle campagne in emigrati dei sobborghi, è proprio la
cetegoria del luogo che salta e che, con questo, rende più difficile concepire l'altro.
È l'emigrato che spaventa nel personaggio dell'immigrato; era la stabilità dell'altro
che rendeva l'identità concepibile e facile. Oggi la categoria dell'altro si è offuscata.
Non riuscendo a pensare l'altro, si costruisce lo straniero.

Crisi del senso: un elemento di questa crisi sembra risiedere nella sostituzione,
caratteristica della nostra modernità, dei media alle mediazioni.

ENZO BIANCHI

Nella nostra società “occidentale”, in seguito dapprima


all'urbanizzazione massiccia, poi alla nascita dei
quartieri residenziali periferici e alla ricerca di ville e
villette monofamiliari nel verde, abbiamo assistito a un
progressivo “isolamento” delle nostre case, ormai
lontane parenti sia delle dimore rurali aperte sui campi
e alla sosta dei viandanti, sia delle abitazioni di paese
affacciate su piazze e vie di convergenza e di
comunicazione, sia dei condomini popolari dove
l'affollamento andava di pari passo con una spontanea
solidarietà. Oggi la dimora ideale pare essere una
proprietà ben delimitata da cinte, muri, siepi,
cancelli, protetta da sguardi indiscreti, difesa da
porte blindate, allarmi e congegni elettronici. (...)
Non si tratta di rinunciare ad avere un luogo in cui poter vivere un certo silenzio,
una dimensione raccolta, singola o familiare che sia (“metti una siepe tra te e il
vicino di casa – diceva la sapienza antica – se vuoi vivere bene con lui”), ma la
qualità della nostra vita sociale dipende anche dalla nostra capacità di non
trasformare questa custodia dell'intimità in un'ossessione offensiva degli altri o in
una barriera invalicabile che imprigiona per primo colui che l'ha costruita. È ancora
una volta il difficile eppure fecondo equilibrio tra alterità e identità a mettere in
gioco in quella che potrebbe sembrare una semplice questione architettonica o
urbanistica. D'altronde chi non si rende conto che oggi la ricerca della sicurezza va
di pari passo con la perdita della tranquillità? Facciamo di tutto, e chiediamo che lo
stato tutto predisponga per la nostra sicurezza, ma ci sentiamo e siamo sempre
meno tranquilli, perché la salvaguardia a ogni costo di uno spazio “nostro” non
porta automaticamente con sé la serenità nell'abitarlo, anzi, sovente si rivela un
ulteriore fattore ansiogeno. (...)
Il saluto di benvenuto introduce l'ospite non solo nella casa, ma nello spazio
privilegiato dell'accoglienza: l'ascolto. Si tratta di ascoltare innanzitutto la
“presenza” dell’altro, prima ancora delle sue parole, e cercare di percepire qual è il
suo bisogno. A volte chi è ospitato, soprattutto se straniero, fatica a parlare, resta
come incapace di esprimersi, mostra di avere un altro linguaggio. Ascoltarlo,
allora, è compito primario ed essenziale. Si tratta di ascoltare quello che l’ospite
vuole comunicare, e l'ascolto autentico ha sempre una dimensione di
obbedienza, quasi di sottomissione; non si può avviare un dialogo assalendo
subito di domande il nuovo arrivato, non possiamo essere disponibili all’incontro
solo se avviene secondo i nostri schemi e desideri. Allora, per ascoltare
veramente, è necessario far cessare dentro di sé ogni parola precedentemente
depositatasi, far tacere i rumori interiori, creare uno spazio di silenzio in cui la
parola dell'altro possa risuonare con chiarezza.
Lo straniero cessa di essere “estraneo” quando lo ascoltiamo, nella sua
irriducibile diversità, ma anche nella sua umanità a noi comune. (...)
L'ospitalità, se saremo capaci di praticarla, a livello individuale e collettivo, ne
riceveremo un dono inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che
facendo spazio all'altro nella nostra casa e nel nostro mondo interiore, la sua
presenza non ci sottrarrà spazio vitale, ma allargherà le nostre stanze e i nostri
orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro
respiro fino ad abbracciare il mondo intero.

La diversità delle culture umane non deve invitarci a un'osservazione spezzettante


o spezzettata. Essa è funzione non tanto dell'isolamento dei gruppi quanto delle
relazioni che li uniscono. (Claude Lévi-Strauss)

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