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Lf PL EBE O LO STRf NI ERO I NTE RI ORE

Fulvio, Carnevale
fig.14
"Non una raccolta di ritratti quella che si legger: sono delle trappole, delle
armi, delle grida, dei gest, degli atteggiamenti e delle astuzie, degli intrighi di cui
le parole sono state lo strumento2". cos che Foucault descrive l'antologia delle
Lettres de cachet, estratte dagli Archivi della Bastiglia da Ariette Farge e da mi-
manipolo di assidui ricercatori e ricercatrici, pubblicate con il titolo Le dsordre
desfamilles. Nella celebre prefazione di Foucault, La vita degli uomini infamj&L-
lano "questi ciabattini, questi soldati disertori, questi ambulanti, questi scribac-
chini, questi monaci vagabondi, tutti arrabbiati, scandalosi, o miserabili3"; costo-
ro ci appaiono fugacemente illuminati da una luce che viene d'altrove. Le loro
vociferazioni, la loro rivolta, non le riceviamo se non trasmesse dalla grande reto-
rica degli scrittori pubblici, creata per abbigliare dei fatti da poco.
1 Questo testo ricalca La plbe ou l'tranger intrieur, intervento del 16 dicembre 2004 durante il
"Colloque Autour de Michel Foucault" organizzato dalTUniversit de Paris Vili Saint Denis -
Vincennes.
2 M. Foucault, La vita degli uomini infami, in Archivio Foucault 2.1971-1977, Feltrinelli, Milano
1997, p. 248.
'Ibidem.
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sgr
4
! j Un ventrilquio politico mette la sua voce di giudice nei corpi senza storia e la
presenza fisica di questi corpi polarizza la nostra attenzione, quel che resta da
dire poi non altro che l'accanimento ordinario del potere a far parlar i muti.
In un'intervista dello stesso anno, Foucault constatava che "i vinti [...] sono
coloro ai quali per definizione stata tolta la parola! ". E se nonostante ci par-
lano, parlano una lingua straniera che stata imposta loro. Non sono muti. Non
parlano neppure "una lingua che non avrebbero mai sentito e che ora si sentireb-
bero obbligati ad ascoltare. In quanto dominati, gli sono stati imposti una lingua
e dei concetti" che sono alla fine diventati cicatrici della loro oppressione. "Delle
cicatrici, delle tracce che hanno impregnato il loro pensiero [...] e che impregna-
no fino agli atteggiamenti del loro corpo. La lingua dei vinti mai esistita?4".
Alla stessa domanda Spivak rispondeva negativamente nel suo testo Con th
Subalterri Speak?. I subalterni, vittime dunque d'una discriminazione molteplice,
legata alla loro posizione ;in seno alla distribuzione geopolitica globale del lavo-
ro cosicome alla loro particolare situazione sociale, non possono parlare.
L'archeologia del loro silenzio il nostro compito e gli sfregi che la storia colo-
niale ha inferto loro non fanno che confermare e aggravare la diagnosi fucaul-
tiana. Spivak cita, a questo proposito, l'esempio estremo di quelle vedove india-
ne che usavano immolarsi sulle pire funerarie dei loro mariti, aggiungendo alla
loro scomparsa verbale, culturale e politica, la propria scomparsa fisica.
Che fare allora di questa assenza? Accontentarsi di esumarne le tracce,
oppure impegnarsi a rappresentare questo luogo senza luogo, questo spazio
altro, che il continente degli esclusi da ogni scacchiera politica?
La questione della rappresentanza ritorna con forza nel seguito del testo in cui
Spivak accusa la leggerezza di cui Deleuze e Foucault danno prova nella loro
intervista del 1972, pubblicata sotto il titolo Gli intellettuali e il potere. A detta, di
Spivak i continui riferimenti alle lotte dei lavoratori hanno l'aria d'esser riveren-
ze di circostanza piuttosto che il frutto d'interrogazioni sulla distribuzione geo-
politica del lavoro. E come se non bastasse sono accompagnati da una teoria
della rappresentazione secondo la quale Tintellettuale teorico come scrive
Deleuze - ha smesso d'essere un soggetto, una coscienza rappresentante e rap-
presentativa. Quelli che agiscono e lottano hanno smesso d'essere rappresentati,
foss'anche da un partito o un sindacato che si arrogassero a loro volta il diritto di
essere la loro coscienza [...]. Siamo tutti dei gruppuscoli. Non c' pi rappresen-
tazione, non c' che l'azione, l'azione della teoria e quella della pratica in rappor-
ti di collegamento o di scambio5". Travolti da un ottimismo un po' affrettato,
Deleuze e Foucault finiscono per trascurare il posto che occupano nelTingra-
4 M. Foucault, La torture e est la raison, in Dits et ecrits, tome m, Gallimard, Paris 1994, p. 391.
5 M. Foucault, Gli intellettuali e il f etere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze,
in II discorso, la storia, la -verit, Einaudi, Torino 2001, p. 121.
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naggio che vorrebbero denunciare. La rinuncia alla funzione rappresentativa
dell'intellettuale, anche se animata dalle migliori intenzioni e dalla fiducia
i assoluta nel processo di emancipazione in corso all'epoca (penso tra l'altro al
i loro impegno nel Gruppo Informazione sulle Prigioni), aveva per conseguen-
za la violenza epistemica che comporta l'oblio di quelli e quelle che, subalter-
ni, colonizzati, esclusi quindi da ogni dialettica con il potere, non avevano
L nemmeno accesso alla lotta.
: Ne II diciotto brumaio di Luigi Bonaparte troviamo una precisazione cara a
\k sulle due accezioni che il termine "rappresentare" ha in tedesco:
; Vertretung significa parlare al posto di qualcun altro mentre Darstellung un
[ termine impiegato per la descrizione, la presentazione, in generale per un uso
artistico. Dovremmo quindi, secondo Spivak, imparare a rappresentare noi
I stessi, nel senso di Vertreten, di fronte ai contadini che vivono di sussistenza,
ai lavoratori della terra inorganici, alle trib e alle comunit degli "zero wor-
;; kers" nelle strade delle citt e delle campagne e a rappresentarli solamente nel
senso di Darstellen, portandone solo la voce.
I Ma il problema rimane irrisolto: appena si cerca di rappresentarli, non si fa
\o che descrivere le componenti molteplici e disparate di questa folla
\. Anche quando in gioco soltanto un procedimento antropologico
i o letterario, non si sfugge mai ai rischi della rappresentazione, e la stessa
I Spivak si ritrova spesso a stilare la lista dei soggetti subalterni. NeEo stesso
! Marx, capo mastro dei pi suggestivi pittori di affreschi di vita popolare e
I cospiratrice, si pu leggere, sempre nel celeberrimo Diciatto brumaio, la
I descrizione degH affiliati alla Societ del 10 dicembre: "Accanto a rous in dis-
| sesto, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti,
| feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati
\i dal bagno, galeotti,evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurma-
| tori, bari, ruffiani, tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulan-
I ti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa
| confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohme6".
"Bohme" infatti un altro nome che si da a questa folla pittoresca.
Benjamin, nello scritto del 1938 che porta appunto il titolo La Bohme, non
ce ne svela la genealogia: "Qui - si legge in una nota d'accompagnamento al
manoscritto - manca un passaggio di circa sei pagine che abbozza una breve
storia della bohme neEe generazioni. Definisce la bohme dorata di Gautier
e di Nerval, la bohme della generazione di Baudelaire, Asselineau, Delvau,
infine tutta l'ultima bohme, la bohme proletarizzata di cui Valls fu il por-
tavoce". Questa racconto, non c' dubbio, sarebbe d'ordine filologico e anco-
ra una volta descrittivo, poich registrerebbe gli slittamenti del significato del
K. Marx, II didotto brumaio di Luigi Eonaparte, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 129.
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termine e descriverebbe ogni sorta di umanit del margine che la societ sem-
pre secerne. E il margine qui descritto non occupa, se non raramente, il
davanti della scena, crea certo uno spazio teatrale, vocifera, grida, gesticola,
ma la sua posizione fantomatica: non accede mai alla Storia e resta confina-
to nello spazio effimero dell'aneddoto. Non sono altro che corpi, i corpi ano-
nimi, infami del popolo, quelli che contiene per esempio la Parigi notturna di
Farge e di Foucault: "La canaglia - si legge nella prefazione firmata da
entrambi all'edizione del 1982 di Le dsordre desfamilles che fa paura e affa-
scina nello stesso tempo: quella che sembra sempre aggiungere la depravazio-
ne alle proprie cattive azioni, quella che non si pu veramente .chiamare cri-
minale^ che conosce i mille e un rifugio deEa capitale dove nascondere com-
plicit, bottini e progetti di avventure, quella che i borghesi credono si iden-
tifichi totalmente con il popolo7". Da sempre schermo delle proiezioni e delle
inquietudini borghesi, questo mareggio di malandrini e sfortunati, quest'on-
da immensa che avanza e si dirama, che si gonfia e svanisce o si blocca per
poi riapparire ancora, il popolo minuto nella sua massa brulicante, nella sua
solidariet di quartiere, nel suo miscuglio inestricabile di classi industriose e
pericolose che sarebbe necessario poter dividere una volta e per tutte, affin-
ch la borghesia possa dormire sonni tranquilli8.
In un testo del 1995 intitolato Che cos' un popolo? Giorgio Agamben
s'interrogava sull'ambiguit intrinseca del termine "popolo", che si ritrova
invariabilmente in tutte le lingue moderne europee. "Popolo" designa sem-
pre gli esclusi, i poveri, i diseredati, ma nello stesso tempo il nome del
soggetto costitutivo della politica. E contemporaneamente l'insieme dei
cittadini come corpo politico unitario e la molteplicit frammentaria di
corpi bisognosi, "l un'inclusione che si pretende senza residui, qua
un'esclusione .che si sa senza speranze; a un estremo, lo Stato totale dei cit-
tadini integrati e sovrani, all'altro la riserva corte dei miracoli o campo
dei miserabili, degli oppressi, dei vinti9".
Agamben intravede nel concetto bipolare di "popolo" l'ombra d'una linea
che struttura la frattura biopolitica, la traccia di una spartizione che assegna
una vita alla sfera del bios, dell'esistenza che ha accesso al linguaggio, al senso
e dunque alla politica, e un'altra a quella della zo, oggetto di dominio, pro-
duttrice di un discorso inteso solo come rumore. Il seguito di queste riflessio-
ni costituisce la trilogia di cui Homo sacer t il primo volume; questo lavoro si
presenta n pi n meno che come il proseguimento di un impensato di
Foucault, di un percorso rimasto in sospeso perch bruscamente interrotto
7 A. Farge, M. Foucault, Le dsordre desfamilles, Gallimard, Paris 1982, pp. 13-14.
3 Cfr. Ibidem.
' G. Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 31.
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dalla sua morte. Ci sarebbe stato, secondo Agamben, un collegamento possi-
bile e mancato tra le analisi di Hannah Arendt ne La condizione umana, che
denunciava l'arrivo s&homo laborans sulla scena della modernit come
l'evento che metteva in primo piano la vita biologica in quanto tale, e i can-
tieri foucaultiani della biopolitica. Perch la questione principale, che si fa
sempre pi pressante oggigiorno, quella che interroga il rapporto tra la nuda
vita e la politica, o, se si vuole, il punto d'indistinzione tra il paradigma giu-
ridico istituzionale del potere e il suo modello biopolitico.
Aristotele distingue nella Politica la phon, la voce che pu esprimere il
dolore e il piacere e che condividiamo con gli altri viventi, dal logos, appan-
naggio umano che struttura la polis poich esprime il giusto, l'ingiusto, ci che
presentabile e il suo contrario.
Nella domanda "in che modo il vivente ha il linguaggio?" si nasconde quel-
la che vuole sapere "in che modo la nuda vita abita lo spazio della polis, del
politico, lei che ha una voce ma non la parola?".
"Vi politica - scrive Agamben perch l'uomo il vivente che, nel lin-
guaggio, separa e oppone a s la propria nuda vita e, insieme, si mantiene
in rapporto con essa in un'esclusione inclusiva10".
In queste righe si ritrova la problematica che Foucault e Rancire trac-
ciano nell'intervista di "Les Rvoltes Logiques" che data dello stesso inver-
no del 1977, anno in cui La vita degli uomini infami e l'appello sugli unto-
relli italiani avevano visto la luce. In questo testo, apparso con il titolo di
Poteri e strategie, Foucault parla della plebe come del bersaglio costante e
costantemente muto dei dispositivi di potere. La plebe non , non mai
una designazione sociologica. E qualcosa che ha una natura distributiva:
c' della plebe in tutte le classi come un solvente da attivare per reazione
chimica, una potenza ,che sonnecchia di un sonno agitato. Non va conce-
pita come l'origine n come il soggetto d'ogni rivolta. Lungi dall'essere il
risultato di una ipostasi al contrario una definizione negativa che sfugge
o che tenta continuamente di sfuggire al potere; movimento centrifugo,
energia inversa, fuga nei corpi, nelle anime, limite, contraccolpo d'ogni
avanzata puntuale del potere.
La plebe entra nella cassetta degli attrezzi come l'esatto contrario di un
soggetto da descrivere, essa struttura una "macchina di visione". Ci che
conta non sono i suoi diritti primari cantati dal neoliberismo n la sua
sostanzializzazione promossa dai neopopulismo, ma il punto di vista della
plebe, perch questo punto di vista svela i dispositivi e permette la costru-
zione di strategie di resistenza.
La rivista "Les Rvoltes Logiques" nasce all'epoca delle grandi monografe
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 11.
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dei tenitori paesani, delle biografe dei fieri uomini del popolo, delle evoca-
zioni dei carnevali popolari o delle barbarie plebee. "Al posto del severo pro-
letario della scienza marxista scrive Rancire si delineava un popolo rumo-
roso e colorato [...] ma anche un popolo ben conforme alla sua essenza, ben
radicato nel suo tempo e nel suo spazio, pronto a passare dalla leggenda del
popolo dal basso alla positivit delle maggioranze silenziose11". La reazione al
mito del popolo rivoluzionario marxista, associato direttamente al crimine di
massa del gulag, faceva sorgere quindi l'immagine di una plebe immacolata e
spontaneamente insorta, in cui si coniugavano rimmediata positivit del
corpo popolare e la pura negativit della resistenza al potere.
Nella triade problematica che riunisce lungo tutti gli anni Settanta ' & pro-
letariato, il popolo e la plebe, se quest'ultima ricopriva neEa diagnosi di
Rancire la proiezione del nuovo soggetto rivoluzionario, nel pensiero di
Foucault essa diventa l'esatto contrario di un soggetto, e designa un possi-
bile spazio di desoggettivazione.
Nel contesto dell'interrogazione foucaultiana sulla critica come risposta alla
governamentalizzazione, la plebe l'artista anonimo dell'arte di non essere
troppo governati, l'autore del reay-made transtorico che l'insieme delle
strategie di resistenza al potere. La plebe sfugge alle statistiche e ai tracciati,
presentandosi come il contrario della popolazione. Le sue modalit d'inclu-
sione nello spazio politico sono sempre aporetiche, poich la plebe si ritrova,
grazie alla sua natura distributiva, al confine tra logos e phon, tra linguaggio e
rumore, la sua esistenza ci che contesta in atto, con l'opposizione del suo
proprio corpo al potere nell'insurrezione, con la resistenza quotidiana alla
governamentalit, lo spazio del politico come spazio di linguaggio.
Il punto di vista della plebe quello che ci mostra che i rapporti di potere
passano attraverso i corpi, che lo spazio politico oggi lo spazio muto della
biopolitica, dove l'eccezione si distingue appena dalla regola.
La maniera in cui il potere cerca d'orientare la frattura biopolitica che la
plebe incarna, tramite il sistema carcerario e il dispositivo giuridico, era
stata abbordata da Foucault nel dialogo sulla giustizia popolare del 1972,
con Benny Lvy e Andre Glucksmann. Il tribunale con la sua specifica
architettura, con il tavolo che divide i giudici dai giudicati, che la rappre-
sentazione spaziale della neutralit, anche nella sua forma popolare e rivo-
luzionaria non si presta e non si prester mai a risolvere le contraddizioni
tra proletari e borghesi, perch la sua funzione principale conservatrice e
antisediziosa. Questo tavolo con le sedie su entrambi i lati ha stricamente
prodotto la linea di separazione che spezza le insurrezioni, che divide la plebe
dai proletari. Questo dispositivo ha sempre estratto dalla massa confusa del
11J. Rancire , Les Scnes dupeuple: Les Rvoltes Logiqttes 1975-1985, Horlieu, Paris 2003, p. 8.
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popolo la teppaglia emarginata, pericolosa, minacciosa, inviandola in prigio-
ne, all'ospedale, nelle galere, nelle colonie. E non affatto sorprendente che
ci si accanisca a dipingere il ritratto immorale della plebe, dato che, nella
distinzione aristotelica, la phon delle sue vociferazioni, tale e quale al borbot-
tio minaccioso di ogni spazio di reclusione, pu esprimere la gioia o la pena .
ma non attinge al giusto e all'ingiusto.
Il 1977, l'anno in cui Foucault lavorava pi intensamente a questi proble-
mi, fu in Italia l'anno della plebe. Ci sono ragioni per credere che sia stato uno
spettatore attento di questi avvenimenti, che non sia stato affatto soddisfatto
della loro versione ufficiale, quella degli anni di piombo, del terrorismo di
Stato, di una lotta puramente reattiva per ripristinare una democrazia minac-
ciata dal passato fascista - non a caso lo si ritrova tra i firmatari dell'appello
lanciato da Guattari contro la criminalizzazione del movimento.
Il '77 in Italia fu l'anno che non si commemora perch stato il momento
in cui le separazioni che strutturano.la nostra vita presente sono state pi
duramente messe in discussione : quella tra tempo libero e tempo di lavoro,
tra produzione e consumo, tra pace e guerra, tra pazzi e sani di mente, tra
uomini e donne. Si racconta di un'onda di politicizzazione di massa che aveva
intaccato persino le radici della societ civile, questi pilastri della formazione
dei giovani che erano la scuola eia famiglia. Il bisogno di comunismo, l'affer-
mazione orgogliosa della propria estraneit, l'autonomia operaia concepita
come rifiuto del lavoro alienato dentro e fuori dalla fabbrica hanno provoca-
to la messa in crisi delle strutture militanti classiche e l'autodissoluzione della
maggioranza dei gruppi. Gi nel '73 il Gruppo Granisci scriveva nella
Proposta per un modo differente di fare-politica: "Non pi possibile rivolgersi
da avanguardie a avanguardie con un linguaggio parrocchiale da esperti della
politica [...] e non riuscire a parlare concretamente di noi e delle nostre espe-
rienze. Perch la coscienza e le spiegazioni devono diventare evidenti attra-
verso una esperienza delle proprie condizioni, problemi e bisogni e non solo
attraverso teorie che descrivono meccanismi12". Il logos proposto dalla politica
tradizionale appariva del tutto inadatto, i componenti dei gruppi si sentivano
parlati, attraversati da una parola che non li trasformava e per questo conta-
vano di disfarsene mettendo in disuso la loro soggettivit militante, mesco-
landosi all'insurrezione generale. Un protagonista dei fatti racconta con degli
accenti incontestabilmente foucaultiani la sua posizione di piccolo capo nella
dinamica gruppuscolare e il suo malessere rispetto all'uso deEa lingua in que- \ p contesto. "Il leaderino dice - quello che si convince di essere sempre
stato un comunista, un vero rivoluzionario, e non si chiede che cosa sia la tra-
sformazione concreta di se stesso e degli altri [...]. Il leaderino quello che
12 N. Balestrini, P. Moroni, L'orda ( foro, Feltrinelli, Milano 1997, p. 508.
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durante le assemblee che vanno male o perch si crea il silenzio o perch ven-
gono espresse posizioni politiche diverse da quelle del proprio gruppo, si
sente in dovere di intervenire per riempire il vuoto del silenzio o per afferma-
re la giustezza della propria linea su quella degli altri13".
Si attribuisce al movimento femminista degli anni Settanta un ruolo molto
importante nella propagazione del desiderio di desoggettivazione e di ricerca
di una parola differente cos come di una presenza pi anonima, meno gerar-
chicamente definita nelle relazioni. Il ramo pi avanzato del movimento fem-
minista - che aveva sicuramente una coscienza acuta della natura biopolitica
del potere - esaltava per questo la delegificazione. Queste donne, nel bel
mezzo delle lotte per la legalizzazione dell'aborto, la penalizzazione dello stu-
pro, l'applicazione della politica delle quote, domandavano il silenzio della
legge sui loro destini e sui loro corpi, che da sempre erano stati assegnati al
dominio della phon, della lingua immorale delle emozioni. Una delle loro
parole d'ordine era "non credere di avere dei diritti", che vuoi dire: non cre-
dere di essere inclusa nel dispositivo che fino a ieri ti ha rigettato senza che la
frattura biopolitica ti attraversi da parte a parte. Un opuscolo femminista ita-
liano del 1976 pubblicava una lettera firmata Lia: "II ritorno del rimosso
minaccia tutti i miei progetti di lavoro, di ricerca, di politica. Li minaccia o
la cosa realmente politica in me, a cui si dovrebbe dare sollievo, spazio? [...].
Il mutismo continua metteva in scacco, negava quella parte di me che
voleva fare politica, ma affermava qualcosa di nuovo. C' stato un cambia-
mento, ho preso la parola, ma in questi giorni ho capito che la parte afferma-
tiva di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio. Mi sono convinta che la
donna muta l'obiezione pi feconda alla nostra politica. Il non-politico scava
dei cunicoli che non dobbiamo riempire di terra". Quando si cerca di fare
astrazione del corpo positivo delle donne fatto di apparenza, che sembra fatto
per essere descritto, cos come quello della bohme, del popolo della strada,
per dare loro un corpo politico, il silenzio dei vinti lo mette in scacco o la lin-
gua straniera che si impone loro riempie i tunnel delle vere contraddizioni.
Nel 1976 una partecipante alla riunione di Pinarella riferisce un'espe-
rienza meno frustrante: "Dopo la prima giornata e mezza mi capitata una
cosa strana: al di sotto delle teste che parlavano, ascoltavano, ridevano,
c'era il mio corpo che trovava uno strano modo di farsi parola". Questa
maniera di farsi parola del corpo detta strana perch scombina le geome-
trie rassicuranti della soggettivit, e non rappresenta nient'altro che l'equi-
librio fragile dell'esclusivit inclusiva della nuda vita, la parola momenta-
neamente ritrovata della plebe.
bene ricordare che questo laboratorio straordinario di forme di vita fu
13 Ivi, pp. 505-506.
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chiuso di forza da un'incarcerazione di massa che vide quarantamila persone
denunciate, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di anni
di prigione, centinaia di morti e di feriti da ogni parte. Alcuni intellettuali
S della sinistra istituzionale fornirono la teoria a questa operazione poliziesca.
Alberto Asor Rosa, ex operaista, scrive nel 1977 Le due societ, la cui tesi prin-
cipale pu essere riassunta in questo modo: la crisi determina la disoccupazio-
ne, i pi coinvolti sono i giovani, la disoccupazione significa marginalit
rispetto al sistema del lavoro produttivo che quello effettuato in fabbrica, la
marginalit produce poi l'isolamento e la disperazione che si traducono in
. esplosioni di violenza irrazionali. Questi soggetti marginali - che dovrebbero
essere operai ma non lo sono sono la seconda societ che cresciuta a fian-
co della prima, forse a sue spese ma senza mai guadagnarci qualcosa e poter-
si radicare nell'ambiente operaio. La criminalizzazione generalizzata di una
molteplicit enorme di esperienze, tutte soffocate nell'unico sacco della lotta
armata, si prolunga ancora oggi nel commercio ignobile dei ministeri degli
interni francese e italiano per rimpatriare gli esiliati protagonisti dei fatti di
ormai trent'anni fa, accusati con procedure sommarie, mantenuti costante-
mente in stato d'eccezione in prigione come in esilio.
Appena diventa impossibile parlare di moltitudini pittoresche e colorate
che animano il grigiore dello spazio pubblico, la plebe prolunga la sua ombra
silenziosa sui corpi, la separazione s'impone. I criteri che strutturano questa
divisione sono molto vicini ai riflessi che animano ogni razzismo: l'incom-
prensione, la generalizzazione, il fatto di non capire la lingua di questa poli-
tica, di non capire una domanda che non si rivolge pi all'apparecchio giuri-
': dico che raccoglie le rivendicazioni e le dimentica, ma al volto biopolitico del
potere che capisce solo l'idioma deEa presenza dei corpi.
Nel 2001 a Genova un contro vertice aveva riunito qualche migliaio di
persone venute da tutta Europa. Ci che conta nella storia di questa pic-
cola insurrezione che la traccia che ne resta un ricordo di violenza muta.
Alcuni tra i partecipanti agli scontri, che sono stati chiamati black bloc
perch portavano degli abiti scuri, avevano attraversato i quartieri accessi-
bili di una citt completamente blindata e distrutto qualche oggetto sul
loro passaggio. Una divisione stata stabilita in questa occasione tra mani-
festanti violenti e non violenti, ed difficile credere che ci si sia sofferma-
ti sulla violenza di questo piccolo scasso mentre nello stesso momento la
polizia e i carabinieri, in numero esorbitante, sparavano a pi riprese nella
citt pallottole ad altezza d'uomo, uccidevano un manifestante, picchiava-
no migliaia di persone nelle strade e ne torturavano altrettante protetti dal
segreto delle caserme. strano anche sentire, nelle versioni fornite da
molti partecipanti o dai media, che questi manifestanti violenti non erano
degli italiani (essi provenivano, come ogni altro flagello, dalle frontiere che
avrebbero dovuto essere pi sorvegliate) oppure che erano dei poliziotti
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infiltrati, il che spiegherebbe il loro volto coperto. Ai giorni nostri, che
sono quelli della deleuziana "societ del controllo", pu darsi che la cre-
scente angoscia verso l'anonimato spinga a voler ridurre, tradurre, sma-
scherare la plebe addirittura associandola - nella confusione della paura -
al volto senza volto dei guardiani dell'ordine pubblico.
Nel terzo tomo di Homo sacer Agamben mostra che una delle caratteri-
stiche dello stato d'eccezione l'applicazione di misure di polizia all'inter-
no del territorio d'uno Stato, che si utilizzano normalmente soltanto in
paso d'invasione straniera.
Ma questo oggetto della nostra paura, cui vorremmo tanto poter dare il
volto .dell'altro, del barbaro, dello sconosciuto, non viene a noi da nessuna
frontiera, da nessuna classe pericolosa.
In ciascuno di noi la plebe sutura giorno dopo giorno la frattura biopo-
litica per trasformarla in cicatrice finalmente dicibile.
Perch la plebe il nostro straniero intcriore.
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