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Si parla spesso di bullismo, di crisi della scuola, di maleducazione, di adolescenti allo sbando, delle droghe, delle nuove

generazioni, della mancanza di saldi principi nei giovani, si parla di tutto questo. Ci si chiede il perché, il come, si cerca
di trovare un colpevole, di accusare qualcuno. Si cerca di proteggere i giovani, o di santificare i docenti. Ognuno ha i
suoi santi e suoi diavoli. Tutti hanno delle risposte, tutte diverse, e mai reali. Io ho una risposta. Una risposta reale,
concisa. Qual è la mia ripsosta a tutti questi problemi? La mia risposta è “vaffanculo!”. Vaffanculo perché io non vedo
nessun problema. O meglio ne vedo troppi, perché qui il problema è che non siamo perfetti. Quindi vaffanculo a ogni
stronzo che si lamenta dei giovani, della loro strafottenza, e della loro arroganza. Vaffanculo a ogni stronzo genitore che
si lamenta dei professori, a ogni alunno che è stressato per i troppi compiti. I professori sono persone normali, frustrate,
non sono dei supereroi, non sono dei supercervelloni. Gli alunni non sono dei piccoli robottini da impostare e manovrare
come cazzo vi pare. È logico che vadano in cortocircuito. Quindi studenti di tutto il mondo, andate a fanculo se prendete
troppo seriamente la scuola. La scuola non è niente di importante, non è niente che serva, è solo una cosa che dovete
frequentare e basta. Non ridicolizzatevi. E anche voi professori, andate a fare in culo, e non rompete il cazzo se nessuno
vi prende seriamente, non siete supereroi, siete degli emeriti coglioni come noi altri. Non rendetevi ridicoli.

Nessuno è un santo in questa terra quindi non mettetevi a fare i superirori, chiunque voi siate, siete fatti della mia stessa
merda. Non ho scritto questo diario per denunciare o criticare, l’ho scritto per descrivere la realtà. Non c’è giustizia
nella realtà, perché nessuno vuole essere giusto, nessuno vuole rinunciare a niente. Ed è anche giusto che sia così. Siamo
tutti degli stronzi che cercano di fottersi a vicenda, quindi nessuno si lamenti.

Non cercate un modello di vita, né una risposta ai vostri dubbi in queste pagine, perché non ve ne darò, l’unica cosa che
otterrete, saranno grosse dosi di amarezza e di alienazione.
GIORNO #1

“È pronta la colazione!!.. Sveglia !”


“Cristo Santo!”.
“Cosa??”.
“Niente Mamma!”
Inizia così la mia giornata. Una giornata tipo. Il tipo di giornata che non ho mai chiesto di avere, ma che prontamente,
ogni mattina si ripresenta. Il sole viene a rompermi i coglioni nel sonno. Con i suoi raggi del cazzo interrompe i miei
sogni ingenui. E mi riporta nella vita. Così a freddo, senza preavviso. Sono bravo a incassare. Ma questi colpi così
improvvisi, mi tolgono il fiato. Come un pugno alla bocca dello stomaco. Mia madre deve svegliarmi almeno tre o
quattro volte, prima di riuscirmi a smuovermi dal materasso. Prima che io mi convinca che valga la pena affrontare
un’altra stupida giornata. Striscio come un verme fino al bagno, mi siedo sul water. Sono stanco, e nervoso. E quando
sono nervoso il sonno sembra raddoppiare. E mentre formulo questa teoria. Mi addormento di nuovo, sul cesso.
Poi però riapro gli occhi. Di botto . Pugno alla bocca dello stomaco. Fiato assente. La solita routine. Mi guardo allo
specchio. E penso che gli specchi siano troppo sinceri. Il mio riflesso moribondo, indossa ancora i jeans e la felpa di
ieri sera. Non credo sia un buon segno. Esco dal bagno e mia madre: “ bravo, ti sei già vestito!”. Io continuo a guardare
il pavimento e ciondolo verso la cucina. Assaggio il latte. Non è né freddo né caldo, tiepido, come la mia vita. Ha la
stessa temperatura delle mie labbra, sembra quasi di bere aria. Con la piccola differenza che basta un sorso per
sfondarmi lo stomaco. Così lascio sul tavolo la mia tazza ancora mezza piena, o forse dovrei dire mezza vuota. Ma sono
troppo stanco per chiedermelo. Ritorno in camera. Il computer è rimasto acceso tutta la notte, fottendomi con le sue
radiazioni. Prendo il diario per vedere le materie di oggi. Decido che oggi è una giornata di merda, solo guardando
l’orario. Preparo la cartella: Rimetto dentro il diario, una biro raccolta dal pavimento, e un quaderno a casaccio. E’ già
abbastanza pesante così, non c’è spazio anche per i libri. Non voglio spaccarmi la schiena per qualche fottuta
professoressa. Piuttosto mi prenderò una nota. Nessuno è mai morto per una nota. Esco di casa, e prima ancora di
entrare in macchina, faccio in tempo a morire di freddo. Ho dimenticato la sciarpa, ho dimenticato i guanti, ma va bene
così. Ho il mio lettore mp3. Ed è abbastanza per me. Metto su una album di quelli cattivi. Con tante parolacce, con
l’attitudine da “non spaccatemi il cazzo se sbaglio”. Mi piace il rap. È sincero, è strafottente, ed è potente. Alzo il
volume, ad un livello assurdo. Continuo a schiacciare, ma più di così non si alza. I miei timpani tirano un sospiro di
sollievo. Bum cham, bum bum cha!. A ogni colpo di cassa e di rullante, il mio cervello sussulta. Mi dà la carica. Mia
madre mi sta dicendo qualcosa. La vedo con la coda dell’occhio muovere le labbra. Perciò annuisco. E lei s’incazza,
allora scuoto la testa, e si calma. Scendo dalla macchina, sono in ritardo, naturalmente. Mentre esco mi cade il
portafoglio, e mentre mi piego per raccoglierlo, mi si stacca una bretella dello zaino. Faccio finta di niente, con finta
disinvoltura, e finta sicurezza. Ma quel gruppetto di ragazzetti stà ridendo. Così li guardo male. Sono alto un metro e
novanta, e sono piuttosto piazzato fisicamente. Smettono subito di ridere. Busso alla porta, e sento già quella stronza
della prof di biologia che stà spiegando l’apparato digerente. In questo momento il mio è rivoltato dal nervoso. Entro, e
la stronza mi dice qualcosa. Io dico “la giustifica la porto domani”. il mio posto è già occupato, così mi tocca sedermi in
prima fila. Cazzo se sono nervoso!. Odio la prima fila, bisogna far finta di seguire. Bisogna far finta di prendere appunti.
Devo far finta che me strasbatta almeno un po’ di quello che mi stà dicendo. La stronza non smette un secondo di
parlare. Non si accorge che nessuno la stà seguendo?.. Non si ferma, continua a parlare a cazzo. Come se stesse
spiegando per se stessa. Usa termini cazzuti che conosce solo lei. La stò odiando, la stò uccidendo nel mio cervello.
Almeno mi tiene sveglio. Suona la campana e questa stronza continua a parlare. Così un paio di noi fanno per alzarsi, e
questa si offende: “ io stò finendo di spiegare, guardate che poi dovete studiarvelo da soli”. Come se a qualcuno di noi
fottesse qualcosa. Come se qualcuno di noi si preoccupasse del futuro, di quello che succederà fra una settimana, di
quello che dovremmo studiare nel pomeriggio. Le stronze si danno il cambio e io non faccio in tempo ad alzarmi dalla
sedia. Non ci saluta, non ci guarda nemmeno in faccia. È superiore. Ha paura di mettersi al nostro livello. Dice di
correggere gli esercizi. I soliti bravi alunni tirano fuori gli esercizi. I soliti quattro stronzi, si guardano in giro con la
faccia persa, chiedendosi “c’erano esercizi?”. Io sono un fiero appartenente al gruppo degli stronzi. Così apro il
quaderno, quello preso a caso, e faccio finta di seguire la correzione. Il mio compagno fa lo stesso. Stiamo correggendo
delle esercitazioni di chimica, e davanti a me ho un tema, e il mio vicino ha degli appunti d’inglese. Teniamo gli occhi
incollati sui nostri fogli. Le prof sentono l’odore della paura quando ti guardano negli occhi. Ho un gran torcicollo, ma
almeno la stronza non mi ha sgamato. Suona ancora la campana. Stavolta non mi lascio fregare. Mi alzo e mi sposto nel
banco in fondo, portandomi appresso le mie cose, ed esco dalla classe. La prof stà ancora assegnando i compiti per la
prossima lezione. E io sono fuori dalla porta, appoggiato al calorifero, con le braccia conserte e lo sguardo incollato al
vetro della finestra. Stò pensando che la prossima volta che avremo chimica, e dovremo corregere i compiti, farò di
nuovo la mia faccia spaesata. Quindi mi convinco che dovrei entrare e segnare gli esercizi sul diario. Ma giungo alla
conclusione che tanto non li farei lo stesso. E rimango a farmi squagliare il culo sul calorifero. La prof esce, e un mio
compagno dice “salve”. E lei se ne và. Dal corridoio spuntano i centocinquanta centimetri della prof di matematica. La
temibile prof di matematica. È la più temuta, quindi la più odiata. È quella che dà più insufficienze, debiti, e cose varie.
Io con lei ho il 3 fisso. È da quando andavo alle medie che vado così male in questa materia. Ma stranamente, le prof di
matematica, non mi sono mai state antipatiche. Nonostante la stupidità della loro materia, sembrano tutte piuttosto
intelligenti. Sono imparziali, precise, cordiali. E soprattutto, si fanno i cazzi propri. Nel senso che non ti rompono le
palle se vai male. Accettano le tue difficoltà, non ti aiutano di certo. Ma ti lasciano sguazzare in pace nel tuo brodo.
Sono razionali, ed educate. Il contrario di me. Quei centocinquanta centimetri, sono in piedi davanti alla lavagna. E
stanno scrivendo strane formule con radici quadrate, esponenti, logaritmi, parentesi. Inizio a scrivere, però poi mi perdo.
Allora sbircio dal mio vicino, e il suo foglio è più bianco del mio. Ci guardiamo e scuotiamo la testa. Ridiamo. Come
stupidi fantocci senz’anima. Ridiamo con una certa energia. Siamo felici della nostra ignoranza, e della nostra sincera
ottusità. Stupidi ma felici. Suona ancora la campana. La classe si dilegua. La prof è intelligente e non si stupisce, né si
offende. Io prendo il foglio su cui avevo provato a scrivere qualche equazione, e lo accartoccio, per poi imbucarlo nel
cestino. La prof mi vede, ma non dice niente. Entrambi sappiamo che presto avrò la mia ricompensa. Un’altra
insufficienza. Un altro 3 da aggiungere alla collezione. E non lo farà per vendetta o per antipatia, quel 3 me lo sarò
meritato, con ogni mia singola cellula strafottente. Il solito gruppetto dei fumatori, si veste e corre in giardino. Sono tutti
bravi ragazzi. Sono quelli con la media più alta, quelli che sono attenti in classe. Quelli che fanno le domande. Quelli
che leccano il culo. Sono gli stessi che al magnifico suono della campana, si precipitano di sotto per accendersi una
sigaretta, o farsi una canna. Sono gli stessi che il sabato affollano le discoteche. Sono gli stessi che prendono appunti.
Gli stessi che tornano alle quattro sbronzi. Gli stessi cocchi dei professori, dei genitori. Poi ci siamo noi. I perdenti. I
ribelli. I maleducati. Rimaniamo seduti tutto l’intervallo, aspettando che lo sfigato di turno ci porti il panino. E
aspettiamo a mangiarlo. Iniziamo giusto alla fine della ricreazione. Ci sediamo coi piedi sui banchi. Siamo sulla nostra
fottuta spiaggia immaginaria. Parliamo di calcio, ci insultiamo. Poi parliamo di quanto ci fa schifo la scuola. Poi
parliamo male della prof di matematica, mentre lei è ancora in classe, ad alta voce. Poi ruttiamo e bestemmiamo.
Dobbiamo sfogarci. Ci aspettano altre tre ore di merda, dove degli emeriti falliti ci racconteranno le loro cazzate
preferite. Sono col culo appoggiato su un banco di uno dei “fumatori”. l’istinto mi dice che è uno di quelli talmente
insicuri, che si studiano gli atteggiamenti e le mosse per sembrare dei fighi. Uno di quelli che rimorchia più tipe possibili
in discoteca, per dimostrare di non essere un fallito. Uno di quelli che si fuma le canne per fare il grande. Uno di quelli
che snifferebbe cocaina solo per andarlo a raccontare. E senza motivo, prendo il suo astuccio e lo lancio in testa a Luca.
Luca è uno stronzo come me, come tutti noi. Ridiamo come deficienti. Anche Luca. Poi però si alza dalla sedia, e mi
rilancia l’astuccio a un centimetro dal mio naso. L’astuccio si schianta contro il muro, e si apre, disperdendo penne e
matite dappertutto. Avrebbe potuto accecarmi, ma ridiamo. Intanto Stè(stefano), fruga nello zaino di Andrea. Andrea è il
migliore della classe. Ha sempre voti alti, non chiacchera mai. È uno di quelli da prendere come esempio. Non è un
secchione. Dice di non studiare niente, ma in realtà un’oretta e mezzo al giorno di studio se la fa. Poi esce. Esce nel mio
fottuto paesino. Qui non abbiamo niente. Né un locale, un ristorante, un negozio per giovani. Quindi se ne stà tutto il
giorno con i suoi amichetti tamarri, sulle panchine vicino ai giardinetti. A stare tutti i pomeriggi a cazzeggiare però,
conosce un sacco di tipe. Quasi tutte più piccole, ma quasi tutte zoccole. È il classico tipo tutto firmato, e ingellato. Ha
la cintura giusta, il jeans giusto, e la maglietta giusta. Dice di fare il breaker, ma nessuno lo ha mai visto. Passa il sabato
pomeriggio a rimorchiare dodicenni in discoteca. E per questo è molto rispettato. Non è più vergine. E tutti i pidocchiosi
tamarri pippaioli, lo seguono come fosse un uomo vero, come fosse un uomo. Io di solito lo chiamo “bella fica”, oppure
lo chiamiamo “Mr.Bean”, perché ci assomiglia. Beh comunque Stè tira fuori, dallo zaino di Bella Fica, un paio di
occhiali da sole. Se li mette e incomincia a imitare il suo modo di camminare alla “Mr.bean”. Fruga ancora e trova un
cappello. Se lo mette e continua la sua performance. Suona la campana. Tiro fuori il panino e incomincio a morsicarlo
pian piano. Rientra Mr.bean. E Stè ha ancora indosso gli occhiali e il cappello. Io li guardo tutti e due e dico:
“cazzo,oggi ci sono due belle fiche!”.
E Stè: “no!, sono io l’originale!”, imitandone la parlata da finocchio.
Andrea non capisce lo scherzo, è troppo intelligente per capirlo. Ci dice che quegli occhiali costano più di noi due messi
insieme. E io gli dico che al contrario di sua mamma noi non siamo in vendita. Poi mi accorgo di aver forzato la mano, e
anche Stè se ne accorge. E ridendogli in faccia a crepapelle, gli ridiamo cappello e occhiali. Poi rientrano anche gli altri.
E sono curioso di sapere, a chi abbiamo rotto l’astuccio. Federico, (o per noi stronzi “anoressico”, o “auscwhitz”, o …
vabbè la lista è troppo lunga), incomincia ad agitarsi e a sbraitare :
“Chi è stato?”.
Luca dice : “Un tipo è passato e l’ha tirato contro il muro”.
E auscwitchz : “Fanculo, so che siete stati voi. Avanti chi è stato?”.
Allora intervengo: “ Sono stato io”.
E Anoressico si precipita da me e incomincia ad agitarsi sempre di più:
”adesso dammi il tuo astuccio così te lo rompo, brutto deficiente immaturo”.
Io gli dico con tono placato:”non ho un astuccio, se vuoi ti do la mia biro, ma tanto non funziona neanche”, e gliela
lancio addosso. Lui la prende al volo e la spezza, con cattiveria. E noi ridiamo.
Entra la prof, e Auscwitchz stà ancora raccogliendo le matite dal pavimento. Così la prof lo interroga, e noi ridiamo, con
più gusto. Una piccola e stupiddsima vittoria, per un branco di falliti come noi. È passata un’altra ora, e siamo ancora
vivi. E siamo ancora stupidi e immaturi. Non mi sento affatto cresciuto. Stavolta è il turno d’Italiano. Dovrebbe
piacermi. Mi piace scrivere, a volte anche leggere, quindi quest’ora dovrebbe entusiasmarmi. Cazzate!.. La nostra prof
d’Italiano, è una tipa bassa e cicciottella. Ha i capelli corti e bianchi, e a prima vista, il suo sesso, non è esattamente
chiaro. È una di quelle persone, che se vedi sul pullman, continui a chiederti per tutto il viaggio, “secondo me è un
maschio.. Però ha anche le tette.. Secondo me è un maschio grassottello.. No anzi no, porta le scarpe da femmina..”. E’
una persona calma, mite, ma decisa e sicura. La classica persona da cui è meglio stare alla larga. Una di quelle persone
aggrappate alle proprie convinzioni. Chiuse nel loro guscio che difendono a spada tratta. Mi dà l’idea della classica
depressa che si rifugia nella letteratura, e che ci si trova bene. Anzi, ci sguazza a meraviglia, e vorrebbe tenersela tutta
per sé. I miei compagni tirano fuori le 845 pagine del nostro libro di Storia della letteratura italiana. Un titolo così
freddo, non sembra avere niente a che fare con lo scrivere. Io intanto finisco il panino, con un ultimo e volgare boccone.
Sotto gli occhi della prof, che mi guarda con disprezzo.
“oggi parliamo del sonetto petrarchesco”.
“Oh santo Dio, che rottura di coglioni” sussurro nell’aria.
Eppure è un poeta, uno che scrive, che trasmette emozioni, che ama comunicare attraverso la scrittura, come me. Perché
sono così ostinato nei suoi confronti?.. La risposta non c’è l’ho, è una cosa più forte di me. Tutto quello che mi dicono
di fare gli altri, io non riesco a farlo. Cascasse il mondo, qualunque cosa mi obbligano a fare, io devo fottermene
totalmente e assolutamente. Ma forse non è solo questo..
La prof incomincia : “Nato nel .. da una famiglia di.. Nel mille e … và a … poi si sposta a … e infine muore a..”.
Vorrei chiedergli “ E a me che cazzo me ne fotte?”. Ma so già, che appena avrei provato ad aprir bocca, sarei stato
dapprima ignorato, successivamente sbattuto in presidenza, e infine mi avrebbero spiegato che per comprendere al
meglio il senso di un’opera è necessario conoscere la vita dell’autore e il suo contesto storico. Io me ne strafotto il cazzo
della scuola che ha frequentato Petrarca, me ne strafotto della data della sua morte, e del numero di versi in cui divide i
suoi sonetti. Quartine, terzetti, coppie, rime baciate, alternate, figure retoriche.. tutte puttanate! Io voglio sapere quanto
cazzo soffriva Petrarca, il suo dolore, il suo amore impossibile. Voglio sentire le sue emozioni, voglio sapere se alla fine
se le scopava le sue donne angelo. Non me ne frega un cazzo di quante rime metteva nelle strofe. Voglio sapere quante
lacrime ci versava. La palla di ciccia asessuata, usa un tono di voce bassissimo. Soporifero. E intanto che ci addormenta
i neuroni, mescola, con lo stecchino di plastica, il suo merdoso bicchierino di caffè. Ha indosso la sua giacca sulla
schiena, come un mantello, come la vecchia stronza che è. Si sente così sicura, al calduccio, dietro quella cattedra.
Seduta sulla sua seggiolina, con la sua letteratura. Con il suo merdoso caffè, e i versi numerati di un cazzo di sonetto che
stà leggendo, ma che proprio non riesce a capire. Ma gli piace lo stesso, è bello. Stiamo tutti dormendo, dal primo
all’ultimo. C’è chi lo fa con gli occhi persi nel vuoto, e chi lo fa prendendo appunti, passivamente, riporta le parole,
senza che passino dal cervello. Io e il mio compagno di banco, Francesco, non siamo altrettanto bravi a gestire la noia. E
così diamo inizio ad uno dei nostri sketch più classici. Inizia Frà, partendo con i suoi grugniti, quelli tipici del sonno,
quando si russa. Sembra proprio reale. Così inizio anch’io a farlo, ci guardiamo e ridiamo. Il tono di voce della prof
sembra abbassarsi ancora. Il nostro russare invece, è sempre più intenso. I due tipi seduti davanti a noi, ci hanno sentiti e
si girano, ridiamo ancora di più, insieme a loro. Poi Frà decide di fare sul serio. I suoi rumori nasali sono sempre più
fastidiosi. La prof si gira. Frà ha gli occhi chiusi, e la testa morta sul braccio. È partito il vero show. Io mi giro e cerco di
svegliarlo. Frà non sa che la prof ci stà guardando, ma secondo me lo sta immaginando. Gli tolgo il braccio da sotto la
testa, sbatte contro il banco. Apre gli occhi, e alza lo sguardo, spaesato.
Dicendo “dove sono?.. eh?.. Cosa?”.
Io cerco di trattenere la risata, la palletta di lardo mi continua a fissare, non ce la faccio più.. scoppio. Gli altri stronzi
scoppiano a ridere insieme a me. Il resto della classe è troppo intelligente per capire le nostre stronzate, hanno il senso
dell’umorismo consumato dal troppo fumo, dal troppo studio. La prof non dice niente, scrive qualcosa sul registro.
Qualcosa su di me, immagino, e su Francesco. Passano i minuti, e sembrano muoversi lenti apposta, per dispetto. Ogni
30 secondi mi giro verso Simone e gli chiedo l’ora.
La metà delle volte mi risponde “la stessa di prima”.
Simone è un ragazzo serio. Hai capelli rossi e lunghi, porta sempre la chefia, e magliette bruttissime con sigle di gruppi
rock sconosciuti. O almeno, io non li ho mai sentiti. Prende sempre voti altissimi, e sembrerebbe intelligente, di sani
principi, e legato ai propri ideali comunisti. È la decima volta che mi giro, negli ultimi cinque minuti, e dalla sua voce
capisco che gli piacerebbe seguire la lezione, senza essere disturbato. Perciò continuo. Nel frattempo, e non so
assolutamente il come, la palla di ciccia è passata a parlare della Chiesa, e di Dio. Chissà come mai, in ogni ora di
lettere, si finisce sempre per fare religione. Non c’è l’ho particolarmente con Dio. Ma come ogni cosa che mi
impongono, la sua esistenza, non riesco proprio ad accettarla. Posso capire che una persona possa crederci, in Dio
intendo. Posso anche far finta di comprendere, uno che si fida di tutte quelle puttanate scritte nella Bibbia, e dette nei
discorsi da preti, papi e vescovi. Ma è meglio se non cercate di convincermi, o di impormelo, o peggio ancora, di farmi
sentire inferiore, per il solo fatto che non credo nel vostro idolo hippy morto in croce.
E appunto, la cicciotella con gli occhiali, sta annunciando, stavolta ad alta voce:
“.. come tutti i grandi uomini, anche lui credeva nell’esistenza di Dio, era cristiano. Era dotato di una grande fede, un
po’ quella che manca alla gente di oggi. Ragazzi, una vita senza Dio.. beh.. Non avrebbe senso.. La risposta è quella non
c’è né!.. È scritto anche sui testi storici, Gesù è esistito.“.
Ci stò provando a trattenermi, davvero, ci stò provando..
Ma è inutile, e la sparo: “Dio se davvero esisti, falla smettere..”.
Sento ridere, è Simone. La sua è una risata diabolica, come la sua musica preferita. Stà ridendo, perché anche lui faceva
fatica a trattenersi, nel sentire tutte quelle stronzate. Stà ridendo con cattiveria. La prof mi ha sentito, ma non si è
nemmeno girata. Scrive qualcosa sul registro. Io mi giro verso Simone, e mi dà il cinque, anche se nel farlo, risulta un
po’ ambiguo. Rimane sempre un secchione anarchico. Siamo riusciti a sopravvivere a un’altra ora: forse un Dio esiste
veramente. E’ l’ora di filosofia. In qualunque scuola del mondo, durante l’ora di filosofia, partono commenti del tipo:
“Non c’avevano proprio un cazzo da fare questi filosofi, per farsi tutte queste domande”. Io invece mi chiedo “Cosa, di
così importante, impediva a tutti gli altri uomini, di farsi queste domande?”. la prof si materializza in classe con il suo
vestito nero, che non so proprio come definire. Incomincia ad aprire registri, sfogliare quaderni, vuotare borse.
Strampalata, forse è questo il termine esatto. La sua testa ingenua sembra viaggiare ad altezza nuvole, mentre il suo
corpo inciampa negli ostacoli della praticità. Penso sia un tipo di persona interessante. È simpatica, non è per niente
severa, né minuziosa. Il suo vero problema è quello di avere delle colleghe. Delle colleghe che ci rintontiscono per tutta
la mattinata, e poi ci consegnano nelle sue mani con i neuroni anestetizzati. Siamo inquadrati nei nostri schemi mentali
del cazzo, in cui ci ingabbiano per tutta la giornata. Siamo scettici, siamo stanchi, e siamo stronzi. Non possiamo
spegnere l’interruttore della strafottenza, da un momento all’altro. Così ci limitiamo a ripagare la sua disponibilità,
prendendoci il dito, il braccio, e tutta la spalla. In classe vige il caos. Suona la campana, e siamo già fuori dalla porta,
nessuno che saluta la prof, anche se lei ci saluta tutti, uno per uno. Scendiamo le scale, ci spingiamo, parte qualche coro,
parte qualche insulto, parte qualche pugno. Siamo liberi. Ho gli occhi disabituati al sole, ma per fortuna oggi il cielo è
più grigio del cemento. E le nuvole non lasciano spazio a i raggi, come tante guardie del corpo, intorno a un fottuto vip
della tv. Solita strada. Soliti passi, solito marciapiede, solite facce, solito senso di stanchezza, di sonno. Solita fermata,
solito posto vicino al finestrino, soliti sguardi persi nel vuoto, e allo stesso tempo in allerta, insicuri. Solito semaforo,
solite strisce pedonali, solite chiavi, e soliti scalini. Entro in casa e mi sento Dio sceso in terra. Sono solo, sono libero, e
sono fottutamente rilassato. Metto la pasta nel piatto, porto il piatto sul divano. Faccio scorrere i canali col telecomando,
li finisco, e li rigiro tutti. Non c’è assolutamente niente per cui valga la pena sprecare le mie preziose ore pomeridiane.
Mi sparo un film sul pc. Finisco di mangiare, e nessun attore ha ancora detto una battuta. Mi addormento col piatto sulla
pancia, il telecomando nella mano, e con le scarpe ancora ai piedi.
GIORNO #2

Apro gli occhi, ma il buio non scompare. Ascolto il silenzio. C’è troppo silenzio. C’è troppa quiete per potersela godere.
Sono nel letto e ho lo sguardo fisso al soffitto, o almeno immagino che ci sia il soffitto sopra di me : è troppo buio per
vedere, e ho gli occhi troppo stanchi per sforzarmi. Le tapparelle sono abbassate, e quindi potrebbe essere qualunque ora
del giorno. Non riesco a focalizzare il tempo in cui mi trovo. Ma avverto la sensazione di essere in ritardo. E io odio il
ritardo. Sono agitato, agitatissimo. Ho paura di riuscire a ricordarmi per cosa sono in ritardo, e di scoprire di quanto lo
sono. Ma ormai ci sono dentro, e l’unico modo per uscirne, e impugnare quella cazzo di sveglia muta, e ascoltare il suo
parere. 7.30 dice la sveglia. Porca troia. Porca di quella grandissima troia. Sono in ritardo. Ho dieci minuti per buttarmi
in macchina, e pregare il signore di non trovare traffico. Stò pensando che non potrò fare colazione, anche se ho proprio
voglia di una bella tazza di latte caldo. Per iniziare bene la giornata. Invece No. Mi sa che questa giornata del cazzo
inizierà senza il mio permesso. Stò pensando che prenderò il primo jeans che capita e me lo metterò, e lo stesso farò
con la prima felpa che mi capiterà davanti. La maglietta va bene quella che ho usato per dormire. Stò pensando a cosa
ho oggi a scuola. Stò pensando a che giornata di merda è oggi, e intanto sono passati altri cinque minuti, e io sono
ancora nel letto. E devo essermi proprio addormentato. E questi miei pensieri, sembrano ora, molto più simili a dei
sogni. L’unica chance di alzarmi e quella di farlo in una botta sola, a freddo, di scatto. Ed è quello che faccio, un colpo
di reni e mi torvo in piedi con la testa ciondolante. Corro strisciando in camera dei miei e gli urlo che “sono le 7 e
mezza! Sveglia, sono in ritardo!”. Mia madre mi risponde con un sospiro di terrore, come se fosse la cosa più tragica del
mondo, come se gli avessi appena detto che una bomba nucleare stà per esplodere nel nostro giardino. E poi si
riaddormenta. Mio padre non si degna neanche di rispondere a un qualunque stimolo proveniente dall’esterno.
In un modo o nell’altro mia madre si sveglia. Io stò bestemmiando il mondo nella mia testa, perché alla prima ora ho la
verifica di scienze. Non ho studiato niente. E se arriverò in ritardo andrò a finire dritto in prima fila. Una forza esterna,
molto fiacca, mi dà la forza di uscire di casa. Accendo il lettore. Metto su tutte e due le cuffie. Il volume è già al
massimo, non ho tempo di abituarmi. Seleziono l’album più malato in assoluto. Sono dei rapper metallari, parlano di
sangue, sborra, crack e nasi rotti. I ritornelli sono blasfemi e perversi. Mi piacciono. Rispecchiano il bollore del mio
sangue nelle vene. Mia madre mi chiede se ho portato le chiavi, e intanto nelle mie orecchie scorre quella schifezza.
Dico “cazzo le ho lasciate a casa”.
Lei mi dice “cos’è questo linguaggio?”.
E io mi rimetto le cuffie.
Il signore come al solito mi ha voltato le spalle, e oggi il traffico è talmente intasato da sembrare fermo. Mi auguro che
un Dio non esista davvero, altrimenti ce l’avrebbe a morte con me. E chissà una volta morto cosa potrà combinarmi,
quando finalmente mi avrà a portata di mano. Sono le 8 e 10, e il limite massimo per essere accettati in classe è le 8 e 5.
Esco di macchina inciampando in tutto quello che trovo, ma non cado. Ho la sciarpa penzolante, la cartella ancora rotta
da ieri, la giacca infilata solo per metà,e stò accennando una corsetta piuttosto goffa. Busso alla porta, e la vedo.. E’
lei!. La prof di scienze. La odio, lei mi odia, ci odiamo sinceramente e apertamente. Non so come è cominciato, o chi di
noi ha incominciato a odiare l’altro per primo. Dev’essere stato come un colpo di fulmine, un odio a prima vista. I nostri
scontri sono epici, sono dei classici. Siamo il drago e il cavaliere dei tempi nostri. E naturalmente io sono il drago. Non
sputo fuoco, ma volgarità, e cinismo.
La prof mi guarda e dice con un sorrisetto: “alla buon’ora eh?.. Ti ho riservato questo posto giusto affianco a me.. Sei
contento?”.
Sembrerebbe simpatica, ma io che la conosco, so che non stà scherzando, mi vuole avere vicino per tenermi d’occhio.
Aspetta il mio minimo errore per fottermi.
Rispondo dandogli le spalle:” che culo!”.
Sembra che non se la sia presa, ma poi i miei compagni inutili scoppiano a ridere, e lei accusa il colpo e deve
contrattaccare: “ vuoi portarmi il diario?”.
Non sono in condizioni di reggere lo scontro. E mi siedo da buon automa a fianco alla cattedra. Il drago oggi sputa
fumo, mi dispiace. Chiedo in prestito un foglio, chiedo in prestito una penna e un fazzoletto. E sento che i miei
compagni sono un po’ ostili nel cedermeli. Come se non me li meritassi. Come se anch’io dovrei sbattermi come loro
per procurarmeli. come se si stessero separando dal loro ciondolo in oro, cedutogli dal padre in fin di morte. È solo
cazzo di foglio, sannt’iddio!. La verifica non và poi così tanto male, contando la mia preparazione inesistente. Succede
sempre così: più studi e più vai male. Fottersene è il trucco. A volte studio ore intere e poi vado di merda. Per fortuna
ogni tanto succede il contrario. Una sorta di giustizia cosmica intergalattica. Suona la campana. C’è chi si affretta a
finire, c’è chi invece come me, tenta il tutto per tutto. Mi giro e chiedo la domanda numero 3, poi la 6, e infine la 8.
Ormai non sussurro più, stò urlando. Non ho più niente da perdere, ormai devo consegnare lo stesso, in ogni caso. Una
mia compagna mi risponde, un altro fa finta di niente, un altro ancora mi dice di non saperla, ma io la vedo sul suo
foglio. Avrà scritto almeno 10 righe. 10 righe di cose di cui non sapeva niente. Curiosa come cosa. Di solito non mi alzo
mai per consegnare la verifica, aspetto sempre che la prof me la strappi dalle mani. Dà l’idea che avrei potuto fare di
più. E me ne convinco anch’io. La prof ormai stà uscendo e siamo tutti in piedi a sfogarci dopo l’ora della verifica di
scienze. Sono tutti lì. Tutti i fighissimi fottuti alunni inquadrati del cazzo. Preoccupati per l‘esito del test. Hanno studiato
ore, forse giorni, e non possono permettersi un‘insufficienza. Si chiedono le risposte, litigano per avere ragione, poi
tirano fuori il libro e scoprono di avere tutti torto. Noi invece, gli stronzi della classe, i falliti, i perdenti, ci
accontentiamo di chiederci a vicenda “com’è andata?”.
La risposta è quasi sempre la stessa “ una merda, non sapevo un cazzo”.
Quando qualcuno invece risponde “boh.. Non lo so..“. Si capisce che è convinto di averla fatta bene. E per questo viene
insultato, o allontanato. Vogliamo sentirci dire che è andata male, per sentirci meno sfigati. Vogliamo qualcuno che
prenda un 4 o un 3, qualcuno che ci faccia compagnia sul fondo della nostra fallimentare esperienza scolastica.
Vogliamo qualcuno messo peggio di noi, o come noi, per sentirci meno cazzoni. Per sentirci meno sbagliati. Per questo
che rispondiamo sempre alla stessa maniera, anche quando ci è andata bene, perché in fondo è quella la risposta che gli
altri vogliono sentire. Che noi vorremmo sentire. E’ l’ora d’inglese. La prof d’inglese è un esemplare davvero raro di
insopportabilità e mancanza di neuroni. Non è cattiva, forse è un po’ stronza, ma sembra che proprio non c’arriva. Non
ce la fa. Entra in classe e si siede alla cattedra, iniziando a parlarci. Ma sono disposto a scommetterci le palle, che se al
posto nostro mettessimo dei sacchi di cemento, o dei pupazzi di peluches, lei continuerebbe la sua spiegazione come se
niente fosse. È proprio stupida nell’anima, e il bello è che è la nostra coordinatrice di classe. L’ora d’inglese consiste nel
giocare a nomi cose animali, dormire, copiare i compiti per l’ora dopo, o qualunque altra cosa fatta eccezione di seguire
la lezione. Anche i più leccaculo della scuola, non riescono a starle dietro. Va proprio per fatti suoi, è incredibile, sul
serio.
Per animare un po’ l’ora gli chiedo : ”prof ma quindi Shakspeare aveva un amante maschio?”.
E lei: “ ehm.. Take the book at page 61 and listen ..”.
Io dico “eh?..”.
E lei “sonnets number 3.. Luca read!..”
Luca dice “ sorry i don’t understand”.
E lei incomincia a leggere per fatti suoi. Boh. Sono incredulo ma è così. Suona la campana, e siamo già fuori, lei invece
stà ancora spiegando. E anche i banchi sembrano non riuscire a seguirla. Spunta all’orizzonte la palla di ciccia, la prof di
lettere. Nel guardarla rotolare verso di me, mi torna in mente all’improvviso, che oggi avrebbe interrogato in storia. Oh
cazzo!.
Corro in classe e chiedo ad Alessio: “cosa c’era da studiare per oggi?”.
Alessio è il più patetico dei leccaculo. È alto poco più del mio ombelico, è un po’ bruttino e neanche tanto intelligente,
anche se pensa di esserlo. È simpatico per l’amor di Dio, è quasi tenero. Ma il suo modello di vita parassitario è
qualcosa che proprio non riesco a digerire. Le sue continue domande durante la lezione, le sue proposte di film, o dei
suoi documentari del cazzo, sono qualcosa in grado di farmi esplodere i nervi, come tanti piccoli petardi. E il classico
tipo che studia tutto il giorno, poi esce appiccicato a qualche suo amichetto tamarro, e si fa passare qualche tipa di
scarto. Si ciba dei complimenti degli altri, ed è troppo debole per sopravvivere in questa giungla da solo, per questo
spesso si incolla ai più forti. È un piccolo robottino che esegue le operazione giuste, nel modo migliore, e senza
lamentarsi mai. Fa tutto il necessario per non essere mangiato dai grandi predatori che lo circondano.
Beh comunque, alla mia domanda, mi risponde: “ cosa c’era per oggi?.. Boh non lo so.. Chiedilo a Samu.. Davvero non
me lo ricordo..”.
Glielo leggo negli occhi, lo sa benissimo cosa c’era da studiare, ci ha passato quasi due ore intere ieri pomeriggio, e non
c’è niente al mondo che sappia meglio di quel capitolo di storia. Stò pensando di insistere, ma poi ci ripenso.. E la palla
di ciccia è già entrata. Non ci saluta nemmeno, ma in cambio si rivolge subito verso il suo fottuto robottino, Alessio, e
gli chiede: “ oggi dovevo interrogare, giusto?”.
Le sue parole sono stalattiti di ghiaccio che svolazzano per la classe. Non colpiscono a caso, ma puntano dritto verso noi
stronzi impauriti, che raggeliamo all’impatto. Le lancette dell’orologio decidono di prendersi una pausa, e i minuti
smettono di scorrere. Si sentono solo i battiti del cuore di noi “terrorizzati“, e ogni tanto il ticchettare di qualche goccia
di sudore che si infrange sul banco. Potresti farla franca e sfuggire alle grinfie della prof. Potresti andare a casa come se
niente fosse, e alla domanda “com’è andata oggi?”, potresti finalmente rispondere :”tutto bene”. Oppure potresti essere
beccato, uscire alla cattedra e fare scena muta. Potresti prendere tre in storia, e come se non bastasse, potresti incazzarti
con la prof e prendere una nota. Potresti, non ancora contento, sbattere la porta e uscire di classe. Potresti prendere
quindi una nota sul registro, che sommata alle altre potrebbe portare alla sospensione, e data la mia già precaria
situazione, alla bocciatura. Potresti litigare con i tuoi genitori, mandarli affanculo e uscire di casa per tutto il
pomeriggio, ascoltando rap a tutto volume e girovagando nell’asfalto. Potresti tornare a casa e vederli litigare fra di loro,
scannarsi come non mai. Potresti poi, andare a dormire senza cena, senza voglia di chiudere gli occhi, per paura di
risvegliarti l’indomani.. È inutile dire quale delle due strade la sorte mi ha imposto. Quella gran puttana della sorte.!!
Spero tanto che un Dio non esista..
GIORNO #3

È lì seduta. Capelli biondi, o castani, non è molto chiaro il colore.. ma ne percepisco la bellezza, come un’aura che mi
stritola il cuore. Gli occhi scuri, avvolti nell’azzurro del suo trucco, mi chiamano, e mi dicono che non potrò mai averli..
Quegli occhi. Mi guarda, ma le sue pupille sono sfuggenti. Appena si incontrano con le mie, scompaiono. Si avvicina.
Ha un passo così sicuro, i suoi capelli brillano ei riflessi mi accecano l’anima. Fra tutti, ha scelto me. Fra tutti gli uomini
del mondo, lei ha scelto me, ha scelto me! Ha scelto me!. Probabilmente stò sognando, ma perché svegliarsi?..
Probabilmente non stà accadendo veramente, ma i suoi occhi sono maledettamente vicini ai miei. Quegli occhi che non
riuscivo ad afferrare, ora mi stringono in un abbraccio di sguardi colorati. Le sue mani sono così maledettamente reali, e
si appoggiano sul mio petto, percorrono il busto, ricalcando la mia sagoma. Scendono, finchè non s’incontrano con le
mie dita. E le sento, così maledettamente vere, così maledettamente fredde da sentirsi protette dal calore del mio palmo.
“Sono le 7 e 10!!… dai veloce.. Ti ho già scaldato il latte, è sul tavolo..”.
“D** C*** Bastardo Infame!!!”.
Un sogno, solo un cazzo di sogno. Ogni piccolo frammento del mio cuore spezzettato, rimane attaccato alla federa del
cuscino, e incomincio questa giornata con un bel calcio nelle palle. Sono intrattabile, sono un camion carico di fuochi
d’artificio parcheggiato dentro a un benzinaio. E ogni parola che mi viene detta è una cazzo di scintilla. Mi muovo goffo
come un elefante in questo mondo di cristallo. Ho stampato in fronte un bel “VAFFANCULO” in grassetto. Mi vesto, e
la solita inerzia mi trascina fuori di casa, tirandomi per le orecchie. Fa freddo, fa caldo, non sento niente. Oggi non mi
sfiora neanche l’idea di rimanere a casa. Avrei troppe ore per pensare, per maledire il mondo, per masturbarmi l’anima
come una checca isterica. Sarebbe solo una disgustosa tortura. Meglio entrare nella parte, infilarsi la maschera, e
ritornare a sputare fuoco come ai vecchi tempi. Prima ora: c’è fisica. La prof di Fisica è una tipa giovane, e disponibile.
Disponibile nel senso che sorride sempre come una gran vacca, e sculetta come una gran troia. E poi ha quella vocina,
quella vocina da bocchina ritardata. Soltanto che una cazzo di laurea gli permette di venire in classe e incominciare a
spiegare come funziona il mondo, dai suoi alti tacchi da prostituta, e con la sua borsetta di gucci. Noi manica di stronzi,
siamo abituati a vedere solo grossi culi ciccioni, e tette rugose. Quindi la prof di fisica, pur non essendo uno schianto,
rimane sempre un toccasana per i nostri occhi. C’è un nostro compagno, Marco, che si è quasi innamorato, e passa le ore
a studiare per poi farsi interrogare. Marco è un ragazzo abbastanza alto, ma soprattutto abbastanza piazzato. Piazzato nel
senso di grasso.. O come di sicuro gli dirà sua madre: di corporatura robusta. È pallido e brufoloso, segno delle troppe
giornate passate in camera a studiare, e delle troppe merendine mandate giù per sconfiggere la noia. Si.. Oggi sono
cattivo.. Ne ho per tutti!. Incomincia a spiegare. Io di fisica non ho mai capito un cazzo, è come la matematica, un vuoto
dentro al mio cervello. Sembra un fatto scientifico, ma nei primi 10 minuti di lezione, sembra tutto chiaro, riesco a
seguire, qualsiasi cosa mi viene detta la capisco al volo. Ma poi.. Poi parto e mi stacco da terra. Guardo le nuvole sotto i
miei piedi. Scaduti i 10 minuti, non riuscirei a capire nemmeno le tabelline. Mi consola vedere il mio compagno di
banco non riuscire nemmeno a entrare in quei primi 10 minuti. Non capisce e basta. Non è stupido, Francesco. Solo non
è un granchè brillante, ma la cosa che ammiro di lui, è che ne è consapevole, e non ha paura di ammetterlo. Francesco è
il mio vicino di banco, da quasi un anno e mezzo. È un ragazzo non troppo alto, ne particolarmente figo, è un po’
“robusto”, ed è simpaticissimo. Viaggiamo sulla stessa lunghezza d’onda. Ci lamentiamo insieme della vita, e della non
vita che facciamo. Ha una ragazza che ha due anni in più di lui, e un corpicino mica male. Resta un mistero come abbia
fatto a conquistarla, con il suo fisico non esattamente da sex-simbol, e senza nessuna dote particolarmente spiccata. Ci è
insieme da diversi mesi, è una cosa seria, amore vero, e io ne sono tremendamente invidioso, ma allo stesso tempo sono
straordinariamente felice per lui. Però ho questa cazzo di domanda che mi balena per la testa “se lui è riuscito a trovare
una bella ragazza come quella, io dovrei trovare di meglio, e invece No.. Ma perché???”. Ecco, devono essere scaduti i
dieci minuti, e adesso sto fissando la scollatura biricchina della prof. Sono in fissa sulle sue tette, e sto pensando a tante
cose, stò guardando la sua bocca, e sto pensando ad altre cose ancora. Ha una vocina così acuta e fastidiosa, che mi
piacerebbe tanto strangolarla. E poi si crede così intelligente, così una donna seria, così speciale. E invece non sa che
rimane una stupida e insignificante sgualdrina. Non sopporto i numeri, non sopporto la fisica e la matematica, e quando
le due discipline si incontrano sento un lieve senso di nausea , come in questo momento. La vedo muovere le labbra e
penso che sia una donna davvero fortunata, intelligente, benestante(dai vestiti), simpatica, attraente. Poi mi chiedo
perché si ostini a venire a scuola con quei tacchi spavaldi, con quelle camicette attillate e trasparenti. Sempre in giro con
borsette costosissime, e orecchini appariscenti. Mi dà tanto l’idea di una persona sola, di una persona debole, di una
persona che ha bisogno di continue conferme. Una persona che cerca continuamente di dimostrare qualcosa a sé stessa e
agli altri. Una persona vuota e inutile. Una puttana di periferia. Suona la campana, e io mi alzo nel bel mezzo della
lezione, ed esco dalla classe. La zoccoletta, vuole finire la sua cazzo di spiegazione, come fosse una cosa importante,
come se la sua vita fosse migliorata con tutte quelle formule. Mi muovo come un fantasma, uno zombie, un morto
vivente, come quello che sono. Sembra che nessuno sia nel mio stesso mondo. Poi incrocio lo sguardo, lo sguardo di
Laura, la ragazza seduta dietro di me. Laura è una ragazza con un bel culo, e delle belle tette, di viso non è granchè..
Però in fondo è carina. Gioca a fare l’anarchica, la ribelle, dice che li piace il sangue. Ma non è una stupida emo. È
intelligente, ed insicura. Scrive per il giornalino della scuola, fa l’animatrice in oratorio, e ascolta musica rock. Mi
accorgo di sapere troppe cose sul suo conto. E dal suo sguardo capisco che lei ne sa altrettanto sul mio. Da quando è
seduta dietro di me, la sento sempre ridere alle mie battute. Prima invece sembrava disgustata dalla mia maleducazione.
Non ho capito bene se ha paura di me, o se conoscendomi meglio, non gli faccio più così tanto schifo. Se non avessi
lasciato il cuore sotto al cuscino, ora probabilmente proverei qualcosa.. Ma non avendolo, non so esattamente cosa. È
l’ora di scienze. Io sono il drago, e la prof l’eroe di turno che proverà a sconfiggermi. Siamo noi, i nemici storici,
avversari epici e spietati. Ogni due settimane i miei genitori vengono invitati gentilmente per discutere con la prof di
scienze sul mio profitto, sul mio comportamento inadeguato, e bla bla bla.. La mia prof di scienze è una donna non tanto
vecchia, ma piuttosto larga, e non di voti. Ha dei figli e un marito, come fosse una persona normale. La sua parola
preferita si chiama vendetta. Oggi non sono dell’umore giusto, e mi si legge dritto in faccia, nonostante le maschere e i
travestimenti. E lei, la cicciona vendicativa, l’ha notato subito. Ha scovato un mio punto debole, e non può lasciarsi
sfuggire questo momento, vuole stuzzicare il drago per farlo uscire dalla tana, e poi colpirlo.
“oggi interrogo, avevo detto che interrogavo giusto?”.
Cala il silenzio, oltre che il gelo e il panico.
“beh, tanto posso interrogare sempre, lo sapete..”.
È troppo euforica, c’è qualcosa che non và, stà nascondendo qualcosa. Vedo grossi nuvoloni grigi all’orizzonte. Guarda
il registro, scorre tutti i nostri nomi, come una lista della spesa. Stà cercando il suo ingrediente preferito da cuocere per
bene, a fuoco lento. Io sono il numero 9 sul registro. E infatti la sua testa si alza dalla cattedra, dopo neanche un
secondo. Noi studenti abbiamo il sesto senso per certe cose. Riusciamo a calcolare perfettamente a che numero
dell’elenco sia arrivata a leggere la prof, da metri e metri di distanza, come fosse un’addizione. E lei mi ha beccato in
pieno. Sogghigna, io ho paura, ma in fondo sogghigno anch’io. Non ho niente da perdere, e non ho mai avuto niente da
chiedere a questa merda di giornata. Mi guarda e, sul suo volto lucido e paffuto, si lacera un sorriso che gli divide il viso
in due. Sulle labbra porta un rossetto sexy, e alle orecchie ha degli orecchini eleganti, ma è una cicciona, una cicciona
mia nemica. Mi sta sfidando, mi sta sfidando apertamente. E io non riesco a tirarmi in dietro.
Mi dice: “prego accomodati alla lavagna”.
Infilo maschera e costume e parto: “no grazie, guardi veramente, non mi và.. Non si disturbi”.
So benissimo, che così facendo, stò solo peggiorando le cose. Ma il libro di scienze non lo apro da mesi, e non ho
speranze di raggiungere un voto neanche lontanamente accettabile. E poi i miei compagni ridono, Laura ride, io rido, e
sono convinto che anche la cicciona riderebbe, se non fosse accecata dall’odio.
Mi dice: “se vuoi ti metto subito 3 così facciamo alla svelta”.
E io : “beh.. Non puntavo così in alto”. Ma poi mi alzo, solo per il gusto d fargli perdere tempo, e pazienza. Ma stò
facendo il suo gioco. Incomincia con la prima domanda. Io non ho mai sentito la cosa che mi ha chiesto, e dopo essermi
messo le mani sulle orecchie, modi quiz televisivo, dico : “passaparola”.
Seconda domanda. La scena si ripete. Terza domanda, e sono carico, e sono pazzo e gli dico :
“ dai Gerry, fammene una più facile”.
Quarta domanda. Mi arriva un suggerimento. Lo ripeto con aria spavalda. Peccato che al posto di Linneo dico “Galileo”.
E lei “dammi il libretto!”.
E io “ho vinto?”
E lei: “ si hai vinto un bel 3!”.
E io, irritato: “ allora tanto vale che me lo metteva subito!.. Invece di sorbirmi il suo cazzo di interrogatorio!”.
E lei : “ ok.. Portami anche il diario”.
E io : “ ma li ha già visti l’altro ieri i miei genitori.. Si è affezionata?”.
E lei : “ vuoi andare dal preside?”.
E io : “ No..troppe scale.”
E così suona ancora la campanella.
Sono strafottente, sono strafottente.. Continuo a ripetermelo, ma niente non ci riesco. Ho fatto una gran cazzata, mi sono
giocato la sufficienza in scienze. Sono proprio nei cazzi, la promozione è sempre più lontana, e proprio come nelle
favole, il drago cattivo ha perso. Mi sono buttato a pesce nella sua trappola, e solo ora mi accorgo che forse non né
valeva la pena. È l’intervallo, e me ne stò appoggiato al muro con i piedi sul banco, con le cuffie dell’ipod nelle
orecchie. Il mio sguardo viene rapito dal nulla più completo. Intanto i miei “amici”, continuano il loro show, lo
spettacolo deve continuare, come se niente fosse successo. E poi passa lei, Laura, e riempie quel vuoto che prima
catturava la mia vista. Guarda i miei occhi smorti, e mi chiede se “va tutto bene?”. Se solo avessi con me il mio cuore, se
solo fosse ancora intero..
Gli rispondo “ si tutto ok”.

GIORNO #4
Cazzo devo essermi addormentato sul divano. Ho perso la sensibilità di un braccio, ma non ho la forza di agitarlo. Ho
un di torcicollo che mi tiene fottutamente rigido come un coglione. La tele è accesa, e stà proiettando dei penosi telefilm
d‘epoca, che a quest‘ora del mattino mostrano tutto il loro squallore. Mi giro sul fianco, e mi accorgo di aver dormito
sopra il tema d’italiano. Non sono ancora del tutto sveglio, ma riesco a strisciare fino in camera. Non vedo più la sedia, è
aggredita da miliardi di strati di vestiti. Le cartacce sembrano ribellarsi, e provano a fuggire dal cestino, sono troppe e
troppo strette. Metto un piede giù dal letto, con una fatica che non è affatto normale, e schiaccio qualcosa. La sento
rompersi, e affondo il piede senza remore. Un altro passo, stavolta è qualcosa di morbido. Un altro ancora, stavolta è
freddo, o umido. Sono troppo stanco per aprire gli occhi e guardare il vortice di disordine che ha travolto la mia vita, la
mia stanza. Sono nell’occhio del ciclone, e rimango fermo. Guardo i pezzi della mia vita girarmi intorno, e non provo
nemmeno ad afferrarli, e tanto meno a fermarli. Dovrei riassemblare questo maledetto puzzle, ma non ne ho voglia, né
forza. Sono allo sbando. Mi sveglio già stanco, senza voglia di mangiare e senza voglia di iniziare la giornata. Mi
sveglio ogni giorno dentro a un tunnel, e non ho mai abbastanza voglia di uscirne. Mi lascio guidare dalla marea. Non
provo più niente quando scavalco i panni per uscire dalla camera, non provo più niente quando mi sveglio con le scarpe
ancora ai piedi. Stò sprofondando e non me ne sbatte un bel cazzo di niente. Nessuno è mai morto per il disordine.. Fino
ad oggi. Non so come, e soprattutto non so il perché, ma riesco ad arrivare fino in classe. Ho le cuffie nelle orecchie.
Mentre percorro il corridoio il volume osceno del mio ipod mi isola dal mondo. Guardo tante facce venirmi in contro e
scomparire. Li vedo sorridenti, energici, profumati. Li vedo tutti belli impacchettati nelle loro confezioni rosa shocking,
i loro giubbottini stretti, le loro scarpe argentate. Non provo niente per loro, provo solo un senso di non appartenenza a
questo mondo. Mi chiedo cosa ci faccio qui? Come cazzo ci sono finito in questo posto? Perché spreco le mie giornate
qua? Dove stò andando?.. mentre penso a tutto questo, urto uno stronzo qualsiasi, che vorrebbe guardarmi male ma non
ne ha il coraggio, o forse sì, ma io continuo per la mia strada. Non sono il tipo che si volta in dietro. Entro in classe,
pesante come un lottatore di sumo, e con la stessa agilità. Sembra di muovermi sott’acqua, sento di non essere apposto,
di non essere uguale agli altri. Vedo gli sguardi dei miei compagni incrociare il mio, e poi voltarsi, non ci salutiamo.
Non siamo amici, siamo compagni di cella, ci spalleggiamo giusto per 5 o 6 ore, ma in realtà ci sentiamo superiori. Poi
incrocio lo sguardo di Laura, e con un cenno della testa la saluto. Lei risponde con un mezzo sorriso, e dicendo
qualcosa, che proprio non riesce a sopraffare la musica che stà violentando le mie orecchie. Poi esce di classe,
probabilmente a fumarsi una sigaretta con il suo ragazzo. Mi siedo appoggiandomi al muro, coi piedi sul banco. E li
guardo. Li guardo tutti impauriti, indaffarati a copiare compiti, a ripassare, a ripetere. Sento il voltastomaco. Basta così
poco per spaventarli???.. Batsa così poco per mandarli in cortocircuito???.. Prima ora: matematica. La scienza esatta,
precisa, infallibile.. Non mi stupisce che io non riesca proprio a capirla. Oggi ci ridà le verifiche. E ancora una volta, mi
sento fuori da questo mondo del cazzo. Li vedo tutti sulle spine, sudati, speranziosi. Aspettano quel voto come fosse una
cazzo di cosa importante per le loro vite di merda. Io il mio voto lo conosco già, non ci sono mai sorprese per me. Non
ho niente da temere, né niente in cui sperare. Chissà come mai, io sono sempre l’ultimo a ricevere la verifica. Prima
vengono quelli bravi. I bravi studenti, che non sbagliano mai un calcolo, che non dimenticano mai una formula, che non
confondono mai i numeri. Arrivano alla cattedra e prendono il loro 8 o il loro 9. E s’impegnano anche a fare facce del
tipo “che culo, avevo studiato pochissimo”, o “per quell’errore non ho preso il punteggio massimo”. Io quelle dannate
facce di merda le odio, le vorrei tempestare di sprangate. Vorrei vederle sanguinare, e poi guardarle con
quell’espressione da “e pensa che non mi sono neanche impegnato..”. Ecco che arriva la mia, mi sradico dalla sedia e
vado in contro al destino, di petto. La prof prende la mia verifica, controlla il punteggio, e io non sento niente. Prende la
penna rossa, e disegna un bellissimo 3. Non faccio nessuna faccia da stronzo, non sono dispiaciuto per un cazzo, né
tanto meno deluso. A volte vorrei alzarmi e vedere quella fottuta biro rossa, scrivere sulla mia verifica un bel 7 o anche
un 6. Giusto per dimostrarmi che a volte le cose possono cambiare. Per mostrarmi che la merda non è per sempre. Per
ricordarmi che esistono le sorprese. Ma niente, la routine mi ha incastrato nella sua gabbia e non riesco ad uscirne.
Tanto vale prenderla sul ridere. Tanto vale provare a prendersi gioco della vita, di ogni suo cazzo di valore, pisciare su
ogni fottuto principio e sputare su ogni merda di regola. Tanto in questo mondo non c’è giustizia, non c’è un senso a
quello che vedo, e perché dovrei rispettarlo. Perché dovrei piegarmi a novanta, da buon alunno , e aspettare che il
mondo intero me lo ficchi nel culo. Torno al posto sorridendo, e dicendo: “Paolo Maldini!.. Ancora lui..!”
E Francesco, il mio compagno di banco, scoppia a ridere rumorosamente, contorcendosi. Paolo Maldini, nel nostro
gergo squallidissimo, vuol dire appunto “3”, come il suo numero di maglia. Ma adesso tocca a lui. La prof lo chiama due
volte, infastidita dalla sua disattenzione.
Frà torna al posto e..: “ Carlos Cafù (#2).. Vi ho battuto!”.
Io esplodo in una risata sincera e penosa. Rido di gusto, per la disgrazia di Frà. Ridiamo insieme, persi nella nostra
ignoranza. Ci teniamo su il morale a vicenda, altrimenti sprofonderemo nella noia di questo mondo. E intanto gli altri
frocetti impacchettati ci guardano, e in fondo gli stiamo simpatici. Possono anche loro consolarsi, di non essere ancora
arrivati al nostro punto. Di non aver ancora toccato il fondo. Io li guardo tutti impegnati a rileggere le loro fottute
verifiche. Li guardo mentre stò ridendo a crepapelle per una cosa stupidissima, mentre stò fottendo la vita, stò inculando
il destino che mi vorrebbe triste e in colpa. Li guardo e in fondo anch’io mi consolo. Suona la campanella. E la staffetta
delle stronze continua. È l’ora di chimica.. Cazzo adesso ritira le relazioni. Quelle che i miei bravi compagni stavano
copiando al mattino. O che stavano finendo di ricopiare in bella. Quelle che io non ho mai avuto intenzione di fare, né
di iniziare, e neppure di copiare. Tanto quella stronza della prof non le legge nemmeno. Guarda solo se i grafici sono
colorati, se gli schemi sono belli, e se il numero delle pagine è sufficiente. Sono pure formalità. Sono la concretizzazione
della paura di noi studenti. Maggiore è la cura, maggiore è il terrore. Più è lunga, e più l‘alunno che l‘ha scritta si stà
cagando sotto. Magari è anche rilegata e colorata, in quel caso bisogna essere proprio dei conigli senza colgioni. Sono la
prova dell’impegno, della devozione allo studio, o nel mio caso, della totale assenza di tutto ciò. Ogni prof vuole leggere
le sue parole, ogni cazzo di prof vuole sentirsi ripetere le sue parole, vuole vedere i suoi diagrammi ricopiati in bella su
un fottuto quaderno. Siamo il loro stronzissimo specchio personale. Pensano di poter creare tanti piccoli cloni di loro
stessi. Perché loro sono così intelligenti da aver colto il senso della vita. Loro ne hanno passate tante, loro hanno una
laurea, loro sanno come và il mondo. Ogni fottuto docente scolastico su questo pianeta è convinto di sapere come vivere
al meglio, e di poterlo, anzi doverlo, insegnare a i suoi pupazzetti personali. Noi stronzi. Io la guardo perdere il
controllo, solo perché io non ho le sue schifose relazioni. La stò guardando dritto negli occhi, nelle sue vene gonfie,
nella sua pelle arrossata e consumata. La stò guardando agitarsi per un povero coglione come me. Un povero coglione
che non vuole dire sempre di sì. Un coglione insignificante, che però riesce a mandarla in cortocircuito. E mi chiedo se
questa persona possa veramente insegnarmi a vivere, se abbia veramente scoperto il trucco per resistere in questo
mondo. Se abbia veramente qualcosa da trasmettermi.E mi accorgo che forse è meglio incominciare a cercare da
un’altra parte, forse è meglio cambiare strada e cercare più in là. Dove la gente non guarda. Gli stò portando il diario,
non me l’ha chiesto, ma non sopporto sentirla gridare. Ha una voce fastidiosissima. Sembra offesa dal mio gesto, ed è
proprio quello che volevo.
Mi chiede: “ma cosa vieni a scuola a fare?”.
Cazzo bella domanda.. Provo a tenergli testa, a provocarla ancora, perché rispondere a quella domanda fa troppa paura-
E gli rispondo: “e lei cosa viene a fare?”.
Le vene gli si rigonfiano, e la sua voce torna a graffiare, sopra la mia lavagna immaginaria. Forse anche a lei fa troppo
paura quella domanda..
È l’ora di informatica. Quand’ero piccolo mi piaceva un casino l’informatica, ero convinto che significasse giocare al
computer, poi crescendo mi sono convinto che significasse creare giochi per il computer. Ora invece so che informatica
significa un insieme di codici del cazzo che servono a fare due stupidissime operazioni, e che non c’è assolutamente
niente di divertente, e soprattutto non c’è niente che assomigli ad un gioco. Incomincio il programma assegnato. Mi
blocco già alla seconda riga, e sbircio dal compagno di fianco. Faccio un copia e incolla mentale, e ricopio pari pari il
suo codice nel mio pc. Ok.. Adesso ho tutto il resto dell’ora per non fare un cazzo.
Mi guardo intorno, dalla mia poltroncina girevole. Vedo tanti bravi ragazzi spremersi le meningi per riuscire a fare quel
maledetto programma. Invidio la loro pazienza. Li vedo correre ogni tre secondi dal prof per chiedergli cosa hanno
sbagliato. Invidio la loro umiltà. Li vedo esultare compiaciuti, una volta riusciti nel loro intento. Invidio la loro felicità.
Ruoto su me stesso, con la mia sedia girevole da ufficio. Arrivano dei flash dritti al mio cranio. Che mi abbagliano i
neuroni, e spaccano i lucchetti della mia immaginazione. Vedo i miei compagni, bravi alunni, diventare bravi
universitari, diventare bravi lavoratori, diventare bravissimi lavoratori. Vedo Andrea, il più bravo della classe, dietro
alla scrivania del suo ufficio, firmare assegni come autografi. Vedo Simone, al tavolo dei dirigenti, alzarsi e presentare il
suo progetto con tanto di diapositive. Vedo Ilaria, col suo camice da chirurgo, camminare orgogliosa nel suo ospedale
privato. Vedo Alessio, a bordo del suo jet, atterrare ancora prima di decollare, parlare alla folla dal palco. Poi vedo Luca
dietro la cassa di un McDonald. Vedo Francesco rispondere al telefono del centralino. Vedo Stefano operaio
nell’azienda di turno. Vedo Gabriele sgobbare per l’azienda di papà. Poi finisco il giro, e ritorno davanti al mio
computer. Non l’ho usato per troppo, e si è disconnesso andando in stand by. Nello schermo nero compaio io. Uguale a
come sono adesso, senza un futuro, senza una cazzo di divisa da bidello o poliziotto. Senza una ventiquattrore. Senza un
ufficio del cazzo, né una poltrona o una sedia. Senza un ufficio, senza una sedia girevole, senza un assegno a fine mese.
Mi rivedo uguale adesso, con più barba e meno brufoli, ma uguale adesso. Nella mia camera devastata dall’uragano del
mio disordine. Farmi spazio tra le mutande e i postick appesi dappertutto. Addormentarmi coi jeans e le scarpe, e
svegliarmi ogni giorno dentro a un mondo che non è il mio. Non penso di non avere futuro. Solo non riesco a
immaginarlo, o forse non voglio immaginarlo.. Perché ho paura farlo. Potrei vedermi dietro allo sportello di una banca,
o ai fornelli di una cucina, o alla guida di un treno. Potrei scoprire di non essere speciale. Potrei scoprire di dover morire
nel futile anonimato che ci avvolge tutti. Potrei scoprire che un giorno dovrò diventare grande, pensare pratico, portare il
pane a casa, leccare il culo al mio capo, fare gli straordinari, addormentarmi col pigiama e svegliarmi con lo stesso
fottutissimo pigiama grigio del cazzo!!!

GIORNO #5
Sono sveglio.. Ma ho paura ad aprire gli occhi.. Ho paura di svegliarmi ancora in quel fetido corpo in cui sono
incastrato, in quella fetida stanza in cui mi hanno intrappolato, in quel fetido mondo in cui mi hanno lasciato.
Ma neanche oggi il miracolo è avvenuto. E mi ritrovo ancora al centro della mia camera carnivora, che mi divora e mi
mastica, con le sue fauci affilate. La finestra è rimasta aperta tutta la notte, per questo ho i piedi congelati, ho le braccia
congelate, e tra un incubo e l’altro, devo aver scaraventato via la mia coperta. La cerco ovunque ma non la trovo. Ho
paura di muovermi, devo cercare di rimanere immobile sulla mia sagoma di calore impressa nel materasso. Sono
indeciso se alzarmi o riaddormentarmi. Non ho motivo di fare né l’una, né l’altra cosa. Per cui rimango fermo ad
aspettare qualcosa che non arriverà mai. Fa troppo freddo per rimanere a letto, ma se scendessi congelerei in un istante.
Cazzo!. Anche oggi la routine ha avuto la meglio, e riesce a sradicarmi dal lenzuolo. Apro l’armadio per cercare un
qualcosa che mi blocchi i brividi. Un maglione, una giacca, qualunque cazzo di cosa. Esco di casa con felpa, guanti,
sciarpa, cappello, giubbotto da neve. Mi siedo in macchina è scopro che il sedile è ghiacciato, scopro che l’aria è più
fredda qua dentro che là fuori, scopro che l’aria condizionata, per i primi 10 minuti, esce fredda.
Mi attorciglio la faccia dentro alla sciarpa, come un ultras, e mi infilo le solite cuffie del solito ipod nelle orecchie.
Selezione l’album giusto per questo clima, è di un rapper di new york. La musica è cruda e angosciosa, si sente il gelo
pungente della metropoli. Ogni colpo di cassa e rullante è come una spranga di ferro che si infrange sui timpani. La
musica fende l’aria ghiacciata, e graffia le mie tempie, fin dentro il mio teschio. Entro in classe, avvolto nel mio buffo
guscio termico. Mi attacco al calorifero, come un cane in calore alla gamba della sua padrona. La prof entra e rimango
lì. La prof fa l’appello e io rimango lì. La prof mi guarda male e io rimango lì. La prof mi chiede di sedermi e io
rimango lì altri 5 lunghissimi secondi e poi vado a sedermi. Giusto per mostrargli che non ha il nessunissimo controllo
su di me.
“Oggi facciamo storia” dice la palletta di ciccia. “tirate fuori il libro e incominciate a ripassare, io intanto compilo il
registro, e poi sento qualcuno..”.
Tutti i miei compagni mandano in esecuzione l’istruzione ricevuta, e sfogliano le pagine del libro convinti di che sai
giusto fare così, e forse lo è, ma non se lo chiedono. Io il libro l’ho dimenticato, ho dimenticato che oggi c’era storia, ho
dimenticato quindi di studiarla. Non sono nervoso, so che la prof non mi chiamerà mai, oggi. Il mio istinto di studente
mi dice che oggi la passerò liscia. Ho ancora indosso la giacca, i guanti e la sciarpa. Ho la faccia troppo sconvolta, e a
nessuno sano di mente verrebbe voglia di interrogarmi. Basta guardarmi per capire che sarebbe solo una gran perdita di
tempo.
La prof chiama “Simone, Alessio e Francesco“.
Simone, il secchione metallaro\socialista. Alessio, il minuscolo e appiccicoso parassita. E Francesco, il mio stupido
compagno di banco, uno di noi stronzi. Per fortuna, e stranamente, Francesco ha studiato e si avvicina alla cattedra con
aria brillante. Seguo le prime due o tre domande, poi mi accorgo di non essere in grado di suggerirgli e mi stacco da
terra, navigo per altri mondi. Fin’ora Francesco ha risposto a entrambe le domande, con decisione e correttezza. Un
minimo errore, e il viscido Alessio, sarebbe intervenuto sottolineandolo, e correggendolo, come un grazioso pezzetto di
merda. Altrimenti ci avrebbe pensato quel comunista di Simone, sempre pronto e preparato, da far innervosire. Mi
faccio i cazzi miei, intanto Frà cerca di tenere testa alla palletta di ciccia, con il fiato dei due serpenti in agguato sul suo
collo. A un certo punto cala il silenzio, e rimangono nell’aria solo alcune parole, goffe e titubanti.
È Frà che stà parlando : “.. e di risposta la Chiesa, prese seri provvedimenti di repressione, per ostacolare questa nuova
corrente.. ”.
Dalle retrovie si sente : “uuuuh.. Brutta mossa!”.
C’è silenzio.. C’è troppo silenzio, come nei film quando sai già che dietro alla porta c’è il cadavere di Tizio.
Mi guardo intorno, e Stè mi dice: “No cazzo.. La prof non vuole.. Bisogna diglielo in un altro modo.. Cazzo Frà si è
giocato il voto!”.
La bassa e grassa prof, manda giù l’ultimo sorso del suo caffè del cazzo, e con voce pacatissima si rivolge a Francesco:”
No!.. Non ci siamo.. “.
Frà dice:” come? Perché?”.
E Lei: “non è giusto.. Alessio tu lo sai?”.
Ma Frà insiste:” guardi che sul libro c’è scritto così.. Vuole leggerlo?.. Glielo porto se vuole?”.
E ancora la palletta di ciccia, stavolta urlando: “ non mi interessa cosa c’è scritto sul libro.. Io ve lo spiegato
diversamente!!.. Bisogna stare attenti quando spiego.”.
Intanto Alessio si intrufola come una iena nel discorso, azzannando la carcassa ormai priva di sensi. “la controriforma è
un movimento con il quale la Chiesa ha cercato di riordinare il proprio apparato organizzativo, e di rafforzare i propri
principi di fede, che al tempo stavano perdendosi.”.
Frà insiste: “io sul libro l’ho trovato scirtto così..!”
E la prof chiude ogni discorso, con uno squallido compiacimento verso la sua autorità : “ non ci siamo Francesco.. La
tua preparazione non è sufficiente.. Devi ascoltare le spiegazioni.. Ti metto 5 .. Ma non te lo meriteresti”.
Il timer che mi stava tenendo a bada, scade rumorosamente. Ho già assistito abbastanza a questa buffonata.
E parto: “ Dai Frà la prossima volta gli reciti una preghiera così recuperi l’insufficienza..”.
Lei fa finta di non aver sentito, e questo mi manda ancora di più sui nervi: “ prof?.. Ma quindi sul libro ci sono scritte
CAZZATE?..prooof??”.
Non reagisce ancora, però prende il registro e comincia a scrivere.
Anche Stè parte all’attacco: ” prof cosa ce lo fa comprare a fare il libro??”.
E lei finalmente infastidita: “finitela.. O vi metto una nota di classe..”.
E stranamente, quel secchione di Simone si aggiunge alla truppa: “ però prof.. In effetti non è corretto dire che la
Chiesa…”.
Ma viene azzittito: “ finitela di giudicare.. E pensate a studiare e stare attenti..”.
Suona la campana, e la cicciona se ne esce, orgogliosa della sua crociata vinta.

È l‘intervallo. Sono tutti fuori. Rimaniamo io, i banchi, e la classe vuota. Ho la fronte schiacciata contro il vetro della
finestra. Guardo la pioggia bombardare il prato del cortile. Dentro l’aria è così calda, afosa, finta, inquinata, tossica.
Guardo una signora camminare sotto l’ombrello, con le buste della spesa. Guardo il mondo così immobile, così grigio,
così scialbo. Guardo la signora entrare in macchina, poggiare le buste dietro, chiudere l’ombrello e scrollarlo, e poi
mettersi alla guida. Guardo la sua macchina avviarsi qualche metro più avanti, svoltare a destra e poi fermarsi. La
signora esce dall’auto, riapre l’ombrello, tira fuori le chiavi, prende le buste, ed entra in casa. Non so il perché, ma
questa scena mi infonde una tristezza immensa. Rientrano tutti in classe, e giunge anche la prof, che ci chiude nel
recinto, da brave pecorelle. Passa un’altra ora, e fuori continua a piovere, e qui dentro continuiamo ad essere asciutti.
Guardo Giacomo, uno dei fiori all’occhiello dei prof. Un ragazzo quieto ed educato, preciso e puntuale. Ha i capelli tinti
di biondo, indossa sempre vestiti firmati, sempre stirati alla perfezione, mai una piega. Ha tanti amici e tante ragazze. Ha
i soldi ed è intelligente. Lo stò odiando. Forse dovrei parlare d’invidia. Ma non è questo che provo, è proprio un senso
di rigetto. È così diverso da me, così schifosamente inquadrato, perfetto, impeccabile. Lo stò immaginando sotto la
pioggia, fradicio, con al braccio una delle sue fichette. Stò immaginando di passargli accanto e di urtarlo. Lui
reagirebbe, s’incazzarebbe, si toglierebbe quella fottuta maschera da brava persona. E incominceremmo a picchiarci.
Con la pioggia che si infilerebbe fin dentro i vestiti, negli occhi, nelle ferite aperte e si mischierebbe al sangue.
Scivoleremmo nel sangue, rotolando come stronzi, e continueremo a menare colpi su colpi. Io, il bullo perdente, e lui, il
figo dagli occhi azzurri e dalla media voti più alta. Io, esperto in fallimenti, e lui, abituato a vincere. Ma dentro a quel
fango. Con le ginocchia sbucciate e gli zigomi rotti. Con la pioggia sul volto, e le nocche scheggiate. Senza la sua
maschera, senza le sue regole, senza il suo taglio di capelli sempre in ordine.. Senza tutto questo non avrebbe scampo.
Sarebbe costretto per una volta a soccombere. Verrebbe sfigurato dai miei pugni carichi di odio e di dolore. E sarebbe
lui a perdere, sarebbe lui a finire con la faccia nel fango, e a sporcarsi le sue guance abbronzate. E le sue fichette
saprebbero la nullità che è, e lui saprebbe finalmente cosa vuol dire essere sconfitti. Sono proprio un coglione sfigato, a
farmi questi viaggi mentali del cazzo. Il tipico esempio di adolescente frustrato con le sue mille paranoie. Un moccioso
senza le palle di vivere nel mondo reale, e che per questo se ne crea uno personale e contorto. Altra ora, le pozzanghere
continuano a sprofondare nell’erba, e la nostra pelle continua a rimanere dannatamente asciutta. Dannatamente secca. La
prof di informatica ci restituisce le verifiche. Vado bene in informatica, l’ultima verifica ho preso 8 senza nemmeno
studiare. Non mi importa gran chè, ma è sempre bello portare a casa qualche bel voto. Soprattutto per uno, che come
me, è abituato a insufficienze scarnissime. La prof incomincia a chiamare alla cattedra..
I soliti stronzi che vanno bene, e i soliti stronzi che vanno male.. È la routine. Poi chiama il mio nome, mi guarda con un
occhio diverso. Come di rimprovero. Io abortisco immediatamente il mio, già timido, sorriso. La prof guarda la mia
verifica, con sdegno, quasi delusione, come se significasse qualcosa per lei, come se avesse scommesso su di me. Lo
stupido cavallo che gli ha fatto perdere i suoi soldi del cazzo. Un fottuto cavallo lento e zoppicante.
Mi dice : “guarda hai fatto una schifezza.. Riguardatela un attimo e dimmi se non capisci qualcosa”.
Io dico “ ..ma..”.
Poi mi blocco, non voglio fare la solita commedia dell’alunno sorpreso e rammaricato. Vaffanculo troia, vaffanculo
all’informatica, e vaffanculo alla scuola, non ho bisogno di un cazzo di voto per vivere. Torno al posto e guardo la mia
verifica, non guardo le correzioni, guardo solo il voto, da bravo coglione. Fisso quel 4 marcato in penna rossa. Cerco di
convincermi che me ne fotte un cazzo, che è solo un voto. Ma poi vengo assediato da pensieri malvagi, che si insinuano
da soli nel mio cervello. Rifletto sul fatto che l’unica prof che aveva un minimo di stima per me, ora ha anche lei un
buon motivo per considerarmi un buon a nulla, fallito. Anzi adesso capisce a cosa si riferivano gli altri merdosi
professori quando sparlavano di me. Ma in fondo vaffanculo..si vaffanculo a tutti!.. Sono superiore.. sono superiore.
Suona ancora la campana, anche se il tempo non sembra avanzare, sembra tutto così fermo, così uguale. Tutti si
preparano per tornare a casa. Si chiudono le cerniere, si tirano su i cappucci, si aprono gli ombrelli, si annodano le
sciarpe. Il triste pianto del mondo è pronto a bagnarci, e noi siamo pronti a schivarlo, in vano. Io esco per ultimo. Senza
nessuna preoccupazione di perdere il pullman, non ho nessuna fretta di andare a casa, non ho niente e nessuno ad
aspettarmi. Cammino lento. Senza cappuccio e senza ombrello. Senza guanti né sciarpa. Ascolto la pioggia sussurrarmi
la sua fredda sinfonia pizzicata. Sento le nuvole sfogarsi contro il mio corpo, piangere sulla mia spalla, scoppiare in
lacrime sul mio cranio. I capelli, che ho perso mezzora a sistemare, senza riuscire a ottenere un risultato decente,
assorbono le gocce del cielo. Pian paino incominciano anche loro a piangere, contagiati dalla malinconia. Sento l’acqua
infilarsi ovunque, sento freddo, sento il bisogno di ripararmi, ma lo sopprimo. Lascio che il blu mi imbratti col suo
lacrimare. Non sono più asciutto, non sono più secco. Non mi fotte più un cazzo dei voti, d’informatica, di quella prof di
merda che non crede più in me. Non mi fotte se Giacomo è pieno di ragazze, non mi fotte se Laura ha un fidanzatoo,
non mi fotte se la prof d’italiano ha vinto la sua crociata. La pioggia ha sciolto i miei bollori, le mie paure, i miei
problemi. Li sento scivolare lungo le guance, le braccia, il corpo. Sento la natura parlarmi direttamente, comunico col
mondo e lui comunica con me. Guardo l’autobus partire, ma non aumento il passo, non mi dispero. Rimango a
conversare con la mia vera natura, con l’istinto, con i sensi che tutta la cazzo di gente cerca di ignorare. Ma che io oggi
sento gonfiarsi. Esplodere. Alzo il volume del mio ipod:
“A volte si vince, a volte si perde.. A volte piove..”.

GIORNO #6
Driinn.. Driiin.. Fanculo! La sveglia!. Fanculo il sole! Fanculo un’altra giornata!.
Inizia così il mio sabato. È un giorno come gli altri, è un fottutissimo giorno qualunque. Tutto il resto del mondo però,
aspetta il sabato come fosse un giorno speciale, ne sono proprio convinti!. Io non vedo niente di speciale allo specchio,
sempre la solita faccia di cazzo. Il solito muso lungo. Le solite occhiaie viola scuro. La solita poca voglia di vivere. La
solita mancanza di uno stupido motivo per continuare a sopportare questo mondo. Non c’è niente di speciale nella mia
giornata, non ricordo nemmeno più il significato di questa parola: Speciale. Suona bene, mi ricorda quando ero piccolo e
andavamo con tutta la famiglia nei grandi centri commerciali, dove sbavavo davanti alle vetrine dei negozi di giocattoli.
Dove mangiavo insieme ai miei genitori patatine fritte e gelati, panini e caramelle. Poi mi addormentavo sfinito sul
sedile della macchina, durante il viaggio di ritorno. Mi metto i soliti jeans grigi, quelli con la macchia di sugo affianco
alla tasca destra. Mi metto la solita felpa nera, con il solito cordino sbilanciato tutto su un lato. Poi mi infilo le scarpe,
senza slacciarle né allacciarle. Il piede non entra del tutto, ma passo dopo passo, la pianta scivola lungo la suola. Solito
ipod, e solita stupidissima musica giovanile. Il colore azzurro del cielo sembra volermi ricordare che esistono ancora
persone felici, che esistono migliaia e milioni di persone felici. Che tutto il mondo, aspetta il sabato per essere felice, e si
sente fortunato per questa splendida giornata. Vorrei che grandinasse improvvisamente, che tutto il mondo fosse
costretto a rimanere chiuso nella sua fottuta casa. A guardare il cielo grigio bombardare il cemento, e mischiarsi allo
sporco e al fango. Scendo dal pullman, e calpesto l’asfalto con rabbia e pesantezza. Ogni passo e un tonfo. Trascino le
gambe come fossero palle di piombo, e poi le lascio sbattere sul marciapiede. Mentre infierisco sopra il suolo sento il
fiato corto. Ho l’affanno, e stò ansimando. Eppure sto solo camminando. Sto facendo solo la solita fottuta strada di tutti i
giorni. Sembra che il mio cuore non riesca a stare dietro al ritmo di questa cazzo di vita. Sembra che il mio cuore stia
invecchiando prima della mia pelle. Mi sorprendo perché continuo ad arrancare, poi mi sorprendo di avere ancora un
cuore, me né ero scordato. Sento freddo alle mani e ho il viso ghiacciato, ma nel frattempo sto sudando sotto la felpa,
gocce ruvide. Fanculo, sono le 8 e 5, e mancano ancora un centinaio di metri alla scuola. Alla prima ora ho una verifica
di scienze sul sistema circolatorio e linfatico. Ieri ho studiato quasi un’ora e mezza, senza capirci un emerito cazzo di
niente. Mi aspetta un’altra insufficienza, ma non voglio fare tardi, altrimenti dovrò recuperarla un altro giorno. E avrò
ancora questo cazzo di pensiero ad appesantirmi lo stomaco, e soprattutto, anche fra una settimana, un mese, un anno,
non cambierebbe assolutamente nulla!. Non capirei un cazzo comunque. Passo davanti a una coppia di giovani
innamorati, proprio mentre ero occupato a bestemmiare il mondo, e li vedo così teneri ed odiosi, con i loro bacetti e i
loro abbracci. E io solo come un cane, sudato e infreddolito, in ritardo, senza un cazzo di appiglio in questo mondo,
senza niente di speciale, senza niente per cui sorridere. Sembra passata un’ora, ma mancano ancora una cinquantina di
metri. Sento il mondo appeso alle caviglie, sento di doverlo trascinare in giro per la strada. Passo davanti a un manifesto,
la pubblicità di una discoteca. Stasera ci saranno i dj più famosi d’Italia, la musica più cool del momento e come special
guest un tipo che non ho mai visto prima, ma che sembrerebbe molto famoso. Tante ragazze mezze nude, alcol, musica
martellante e fiumi di gente che si urta e che si sballa. Sembra proprio quello che mi servirebbe.. No grazie!. Non è il
posto per uno come me. E non voglio che lo sia, o che lo diventi. O peggio ancora, non voglio diventare il tipo che
frequenta quei posti. La mia vita sarebbe magicamente più serena e meno angosciosa, potrei dire addio alle mie
paranoie.. No grazie!. Lasciatemi affogare nel mio brodo, ma che sia il mio. Avanzo ancora di qualche metro, con una
fatica indescrivibile. Mi sento molto un criceto incastrato in una folle corsa sulla sua stupida ruota. Un cazzo di criceto
che si affretta a muovere le zampette, sperando di arrivare da qualche parte, convinto di muoversi, ma che continua a
rimanere dentro la sua cazzo di ruota, dentro la sua cazzo di gabbia. Vivo in compagnia di un po’ di sabbia, una
vaschetta per l’acqua, una per il cibo, e un po’ di bisognini sparsi qua e là. Ecco come vedo la mia vita. Quindi
lasciatemi in pace, lasciatemi girare sulla mi rotellina. Lasciatemi vivere nei miei bisogni, nella mia stessa merda. Aiuto!
Ho bisogno di aiuto!. No!. Non c’è nessuno ad ascoltarmi, non c’è nessuno disposto a salvarmi, non sono abbastanza
interessante. Fanculo!. Perso nei miei fantasmi non mi accorgo di aver urtato un signore. Un tipo brillante e pettinato.
Un tipo che probabilmente oggi è felice per questa bellissima giornata. Fanculo stronzo, non pensare che sia disposto a
spostarmi. Tieniti la tua bella giornata, io mi tengo il mio marciapiede. Spalla contro spalla, e il tipo con la cravatta
perde l’equilibrio, lasciando cadere la valigetta che teneva stretta in mano. Un’occhiata gelida, ricambiata da un’altra
occhiata gelida. Il ghiaccio intrappola l’aria. Mi giro per vederlo raccogliere la sua valigetta del cazzo, impotente
davanti alla mia arroganza, la mia maleducazione. Ha già voltato l’angolo, come se fosse di fretta, come se stesse
scappando, da me, o dalla brutta figura appena rimediata. Lo guardo allontanarsi, sentendomi un po’ più vicino a Dio.
Poi il mio sguardo viene sequestrato da quell’oggetto marrone, che giace silenzioso sopra il tombino polveroso poco più
in dietro. È un portafoglio!. È il portafoglio di quel tipo elegante!. Dev’essergli caduto durante lo scontro. Dovrei
riportarglielo, gli eviterei un sacco di problemi, potrebbe contenere qualche documento importante, forse è giusto che
glielo riporti.. Naaa! Neanche per sogno. Nessuno mi ha mai salvato il culo in queste situazioni, nessuno ha mai cercato
di evitarmi tanti problemi. La gente è un ammasso di ipocriti opportunisti bastardi, perché dovrei essere proprio io
l’unico stronzo buono??. . Avete voluto la guerra.. E guerra sia. Raccolgo il portafoglio, e già il suo peso eccessivo mi
spaventa, e allo stesso tempo mi eccita. Apro e vedo tante banconote, di tanti colori, colori che non avevo mai visto su
una banconota. Vedo carte di credito, carte fidaty del supermercato, carta d’identità, patente e altri mille fogliettini e
scontrini. Sogghigno.. Immagino la faccia dello stronzo quando si accorgerà di non avere il portafoglio.. Mi mordo il
labbro e sento il sapore della vendetta, della cattiveria. Mi fermo su un muretto e incomincio a contare i soldi. 100, 200,
2 e cinquanta, 300, 500, 5 e 20, 5 e 70. Cinquecentosettanta euro!. Uno che gira con tutti sti soldi non deve avere
problemi economici, i miei sensi di colpa si spengono del tutto. Frugo ancora tra le cartacce. E trovo due strani pezzi di
carta un po’ più dura. Sono due biglietti del treno. La destinazione è una città straniera che proprio non conosco, e che
anzi non riesco nemmeno a pronunciare.. Incomincia a formarsi una strana vocina nel mio orecchio, che mi sussurra che
forse dovrei scoprirlo, scoprire dove si trova quel posto. Intanto continuo ad avvicinarmi alla scuola, e più mi avvicino,
più fisso quei biglietti, e più la scuola sembra rimpicciolirsi. È sempre meno nitida, e sempre più lontana. Mi sembra di
guardarla dal finestrino di un aereo, così minuscola e indifesa. Così insignificante, innocua, ignara. Sembra di guardare
un piccolo mondo di 200, forse 300,anime che vagano frenetiche, e non si accorgono del mondo esterno, non si
domandano cosa c‘è all‘esterno. Mi sento come uno scienziato che fissa una colonia di batteri attraverso la lente del suo
microscopio, e li vede agitarsi, muoversi, riprodursi, ignari della sua presenza, ignari della presenza di un qualcosa al di
fuori. Adesso sono dietro quella fottutissima lente, e so che c’è qualcosa al di fuori della nostra cazzo di colonia. L’ho
sempre saputo, ci ho sempre sperato, e ora finalmente ho l’opportunità per toccarlo, scoprirlo. All’improvviso le bretelle
scivolano da sole dalle mie spalle, e piombano dentro al buco di un cestino, trascinandosi con loro il mio zaino.
All’improvviso le mie gambe decidono di fare inversione, e di proseguire contromano, controcorrente. Adesso le mie
spalle stanno guardando la mia scuola scomparire pian piano, allontanarsi sempre di più. Non so dove sto andando, ma
so da cosa sto scappando. Non ho paura. Non ho niente da perdere, non ho niente da lasciare in questo posto. Nessuno si
chiederà di me, come io non mi chiederò di nessuno. La vita continuerà a scorrere ingenua. Ci sono strade che si
dividono, e altre che continuano dritte. La mia strada è larga e dritta, senza curve o biforcazioni. Ma da oggi le mie ruote
non saggeranno più l’asfalto, No.. Da oggi lascerò le mie impronte sul terreno fertile e sull’erbaccia selvatica. Non
seguirò più una strada, non guarderò più i cartelli, non chiederò più indicazioni. Sarà la vita stessa a mostrarmi ciò che
ha in serbo per me.
“Il treno è in partenza al binario 12“.
Guardo una macchia di persone fluire verso il binario, con appresso bagagli di grandezza disumana, valige, carrelli,
sacchi a pelo. Io ho solo il mio ipod e i miei due biglietti, e naturalmente i 570 euro. Vedo una signora baciare il proprio
uomo, salutarlo con un abbraccio che sembra non volersi slacciare. Sento un’altra ragazza parlare al cellulare, avvertire
della propria partenza, e dell’imminente arrivo. Sento l’entusiasmo dei suoi familiari rimbombare fuori dal telefono, i
suoi cari saranno lì ad aspettarla quando arriverà. Io non sto lasciando nessuno, e nessuno mi aspetterà quando arriverò.
Ma questo non mi preoccupa, oggi sono forte. Non sono più il bambino capriccioso di ieri sera, di stamattina, di qualche
ora fa. Sono un uomo che ha deciso di prendere di petto la vita, che ha preso una decisione, si è preso le sue
responsabilità e ha fatto le sue scelte. Dovrò sudare per tenere viva questa scelta, per non trasformarla in un tragico
fallimento, in un’enorme cazzata. Ma non ho paura di correre questo rischio, ho voglia di girare le mie carte e scoprire il
mio valore. Ho voglia di lasciare affondare la zavorra del mio passato e lasciare che sia il futuro a trascinarmi. Il treno è
arrivato. Il capostazione si affaccia per controllare che tutti i passeggeri siano saliti. Le porte si chiudono.. Il treno
parte..

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