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• Introduzione: La musica, il tempo, il mito, di Paolo Isotta

LA TENDENZA SOVRUMANISTA
Mito e "tendenza"

L'opera artistica di Richard Wagner [alias, alias] dall'Anello del Nibelungo al Parsifal [alias] è
«rappresentazione» di un mito nuovo, mito fondatore, con il quale si costituisce una nuova «tendenza»
storica. Oltreché rappresentare questo mito, Wagner ha anche tentato di formularlo nei suoi scritti
teorici; ma è soprattutto nella formulazione che poi gli dette Friedrich Nietzsche [alias, alias] che il
mito nuovo ha circolato in seno alla cultura europea del XX secolo. L'identità del mito rappresentato da
Wagner e di quello formulato da Nietzsche è stata spesso sentita, quasi mai riconosciuta, anche perché
Nietzsche ha deliberatamente occultato l'origine wagneriana della sua visione «zarathustriana [alias]».
Poiché d'altra parte una «tendenza» storica, una volta apparsa, si manifesta nei modi più vari in tutti i
campi dell'umano attraverso una circolazione di idee e di sentimenti spesso sotterranea, definirla in
modo semplice non è certo impresa facile, soprattutto quando la si deve cogliere in quelle sue prime
espressioni che proprio l'assoluta novità rende oscure. Peraltro, già all'inizio del secolo, l'emergenza
della tendenza nuova in seno alle società ed alla cultura europee era divenuta evidente, nella sua
opposizione all'altra bimillenaria tendenza affermatasi nell'Occidente cristiano; e lo storico tedesco
Ernst Tröltsch poteva scrivere: «Chiunque creda nell'esistenza di una eterna legge naturale o divina,
cioè di una base comune ed universale di umanità, vedrà nella parte anti-occidentale del pensiero
tedesco una strana combinazione di misticismo e brutalità. Ma chiunque consideri che la storia è una
continua creazione di forme individuali viventi, ordinate secondo una legge che varia incessantemente,
vedrà nelle idee occidentali un prodotto di arido razionalismo, di atomismo livellatore, in breve: una
combinazione di banalità e farisaismo» (da Deutscher Geist und Westeuropa, "Spirito tedesco ed
Europa occidentale").

«Occidentale», nel testo del Tröltsch, definisce tutta quella cultura (nel senso tedesco del
termine) che affonda le sue radici nel sistema di valori introdotto in Europa dal cristianesimo ed è
espressione di quella tendenza storica che Nietzsche aveva chiamato «movimento egalitarista». Con
«parte anti-occidentale del pensiero tedesco» il Tröltsch designa invece l'altra opposta tendenza, che in
realtà s'è diffusa ovunque in Europa e che, con riferimento a Nietzsche, chiameremo «sovrumanista»,
quand'anche - come detto - essa si sia storicamente costituita con l'opera di Richard Wagner. Con
eccezionale acume, già ai suoi tempi il Tröltsch seppe individuare il tratto caratteristico della nuova
tendenza nella particolare concezione della storia come «creazione continua... [retta da] una legge che
varia incessantemente», una concezione che - va fin da ora premesso - ritrova poi proprio nella storicità
la definizione dell'«umano», ricollegando l'una e l'altro (in quanto «coscienza») ad un tempo
tridimensionale (o «triestatico», nel linguaggio di Martin Heidegger [alias, alias]). Gli avversari, per
contro, hanno preteso di individuare il carattere essenziale del pensiero sovrumanista nell'avversione al
razionalismo e magari nell'«irrazionalismo». Così, ad esempio, in un saggio che ha fatto scuola e si
intitola Metapolitics: From Wagner and the German Romantics to Hitler (Dai Romantici a Hitler,
pubblicato in Italia da Einaudi, Torino 1948), Peter Viereck definisce - ad hoc - «romantico» tutto un
aspetto del pensiero e della letteratura tedeschi del XIX secolo, caratterizzato - egli afferma - dall'«anti-
razionalismo» e del quale Richard Wagner sarebbe, sul piano artistico e «metapolitico», il
rappresentante più tipico e storicamente più influente. In questo «romanticismo» così definito ed in
Richard Wagner, Peter Viereck individua e intende «denunciare» la matrice della particolare forma
tedesca del «fascismo», contro la quale egli d'altra parte invoca - come in veste di testimonio a carico -
il pensiero di Friedrich Nietzsche, interpretato in modo superficiale e abusivo. Invece è proprio nel
pensiero di Friedrich Nietzsche che György Lukàcs [alias, alias] vede la matrice prima del grande
fenomeno culturale e spirituale da lui ribattezzato «irrazionalismo», di cui il «fascismo» in tutte le sue
forme sarebbe la manifestazione propriamente politica. Lukàcs, che anche accenna a Wagner come ad
un altro, minore esponente dell'«irrazionalismo», ha esposto queste sue idee in un'opera intitolata Die
Zerstörung der Vernunft (trad. italiana La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959) e le ha
successivamente condensate e attualizzate in un saggio il cui titolo è Von Nietzsche bis Hitler oder Der
Irrationalismus in der deutschen Politik (Da Nietzsche a Hitler, ossia L'irrazionalismo e la politica
tedesca). Gli studi di Peter Viereck e György Lukàcs si inseriscono di fatto in una ricchissima
letteratura che, o di Nietzsche o di Wagner, fa per l'appunto il primo responsabile di concezioni del
mondo che avrebbero condotto al «fascismo» oppure li accomuna in questa responsabilità (letteratura
alla quale fa poi riscontro un'altra, appena meno ricca ma senza dubbio più ingenua, che s'ingegna
invece di assolvere Nietzsche e Wagner da questa sorta di «peccato» storico e magari di recuperarli -
come si suol dire - a cause filosofiche o politiche che mai furono le loro).

Razionalità e irrazionalismo

Gli avversari della tendenza sovrumanista confondono, sinceramente oppure ad arte,


«irrazionalismo» e «irrazionalità». Gli esponenti del sovrumanismo, seppure molto spesso si ri
conoscano «irrazionalisti» e cioè ostili alle filosofie «razionaliste», non considerano peraltro in alcun
modo «irrazionali» le loro concezioni del mondo. E’ che, per i «sovrumanisti», la ragione altro non è
che una facoltà d'intelligenza, uno «strumento», laddove per i loro avversari essa e, insieme, il
fondamento ed il fine del divenire storico e magari cosmico. Per i primi tutto ciò che l'uomo pensa o fa,
può essere razionale ed effettivamente lo diviene nella misura sempre diversa dell'intelligenza umana; i
secondi, pur predicando l'assoluta universalità della ragione, non esitano invece a rifiutare «razionalità»
a molteplici aspetti del pensiero e dell'azione umana.

Il dibattito concerne, essenzialmente, i limiti della ragione umana, ma fin dall'origine è stato
impostato in modo assai improprio, avviato su vie traverse, a causa stessa del tipo di «espressione» che
la tendenza sovrumanista ha dato e ancora dà al suo sentimento ed alla sua concezione del mondo e
dell'uomo. Questo tipo di espressione è il «mito». Richard Wagner [alias, alias] ha esplicitamente
affermato di voler «rigenerare il mito». Nietzsche [alias, alias], con quella parte della sua opera che è
lecito chiamare «predicazione zaratustriana», ha deliberatamente proposto un «mito»; e ad un proprio
«mito» si sono richiamate e si richiamano in questo XX secolo correnti filosofiche e movimenti artistici
o politici che, per l'appunto, sono stati ricollegati alla tendenza sovrumanista. Ora, nella sua accezione
corrente, «mito» è genericamente un racconto favoloso, in cui la fantasia poeticamente elabora una
soggiacente verità. Per gli etnologhi e gli storici, in particolare per gli storici della religione, «mito» è
piuttosto una concezione del mondo espressa con una forma specifica, propria di popoli primitivi o di
popoli all'alba della loro «civiltà», forma scaturente immediatamente da una mentalità alogica secondo
alcuni o pre-logica secondo altri, la quale comporterebbe poi, secondo Mircea Eliade [alias], una
caratteristica «nostalgia delle origini». Altri ancora, come Lalande, notano che il mito comporta anche
«l'immagine di un avvenire fittizio (...) che esprime i sentimenti di una collettività e serve a provocare e
sostenere l'azione»; e Georges Sorel, nelle sue Réflexions sur la violence (trad. italiana Riflessioni sulla
violenza, Rizzoli, Milano 1988) affermava: «Si può parlare indefinitamente di rivolta senza provocare
mai alcun movimento rivoluzionario, finché non ci sono miti accettati dalla massa». Per l'appunto gli
autori sovrumanisti sempre ricollegano l'idea di «mito» a quella di «rivoluzione», all'interno di una
concezione della storia in cui la linearità del divenire storico non è più che una apparenza - ed in cui
1'«origine» è in ogni «presente» e da ogni «presente» scaturisce. La forma specifica che è il «mito» non
è considerata più espressione caratteristica di una mentalità a-logica o pre-logica, bensì propria di una
creatività dello spirito affermantesi nella sua originalità storica: il mito è così l'espressione immediata
di una concezione del mondo nuova - originaria e originale - ed insieme designazione di un «fine»
umano al cui servizio la ragione è posta.

Gli avversari della tendenza sovrumanista, ciascuno richiamandosi ad una «razionalità»


variamente definita, scorgono invece nel «mito» una «ideologia regressiva», fondata da una «falsa
coscienza della realtà». «Mito» acquista nel loro linguaggio un senso dispregiativo ed è genericamente
applicato alle concezioni del mondo considerate menzognere o frutto d'illusione. I marxisti fanno un
grande uso del termine «mito» in questo senso denigratorio, ma accade ormai che proprio la concezione
marxista della storia sia sempre più spesso tacciata di «mito» dai suoi contraddittori cristiani o liberali.
Conviene peraltro, a fini di chiarezza, distinguere in modo chiaro coloro che espressamente aderiscono
ad un «mito» o lo propongono, comunque individuando in esso un valore altamente positivo, e d'altra
parte coloro che non meno espressamente condannano il «mito» e la «mentalità mitica», richiamandosi
ad una «razionalità» del proprio sistema di pensiero o delle proprie «teorie»: d'ora in poi si parlerà qui
di «mito» soltanto là dove il mito si riconosce espressamente per tale. Sarà così più facile ritrovare il
fondo del problema che oppone gli uni agli altri, per constatare, come già abbiamo premesso, che esso
concerne i «limiti della ragione» e, in particolare, la possibilità per la ragione di «fondare se stessa», ciò
che rinvia al sempre malcompreso «criticismo assoluto» di Friedrich Nietzsche.

La natura gnoseologica del dibattito è messa perfettamente in luce proprio dalla polemica di
Lukàcs [alias, alias] contro la pretesa «irrazionalità» del sistema di pensiero nietzschiano. Riferendosi
al «mito» formulato da Nietzsche, Lukàcs dà in effetti del «mito» la definizione seguente:
«un'ingegnosa invenzione soggettiva, che si presenta con la pretesa di una obiettività [che è però]
gnoseologicamente non fondata, di una obiettività che si fonda soltanto su una base estremamente
soggettiva, si appoggia sull'intuizione e così via, e dunque soltanto può essere una pseudo-oggettività».
Applicata al «mito» formulato da Nietzsche, questa definizione di Lukàcs nasconde, sotto le apparenze
di una fredda «obiettività», una fondamentale menzogna, che forse non è deliberata bensì frutto di una
cecità quanto mai «marxista» dell'autore. Il «mito» nietzschiano non si presenta in alcun modo «con la
pretesa di oggettività»; Nietzsche rivendica anzi esplicitamente l'arbitrarietà del «mito» da lui
formulato, che è non soltanto interpretazione della storia ma, insieme, progetto storico. Agli occhi di
Nietzsche, ogni «principio» concernente l'uomo e la storia non può essere che arbitrario; e soltanto il
«pregiudizio morale», la famosa «Circe dei filosofi», può indurre a credere che a fondarlo sia un
assoluto. Formulata in termini di criticismo razionalista, la posizione di Nietzsche è questa: che la
ragione non può fondare se stessa, bensì soltanto sviluppare logicamente, da un «principio»
arbitriaramente posto, una «teoria» ed una «prassi». Lukàcs, come tutti i marxisti, è convinto invece e
pretende che la ragione possa «fondare se stessa» e, più precisamente, «fondare se stessa criticamente»,
così ritrovando in se stessa un «principio» universalmente valido, di valore assoluto.

Scienza e storia

Marx ed i marxisti restano in fondo su posizioni kantiane; riconoscono cioè, in un certo senso, i
limiti della ragion pura, ma ritengono che la ragion pratica possa tuttavia dare risposta alle «ultime
questioni», certo non già col procedimento usato da Kant [alias], bensì grazie al procedimento critico-
scientifico: cioè sviluppando sulla base di un principio (ritrovato con la riflessione critica) una teoria
logicamente coerente e sottoponendola poi all'esperimento scientifico, che dovrà verificarla o
inficiarla, dimostrarne la validità oppure la non-validità. Nietzsche [alias, alias], per contro, va al di là
di Kant, si fa assertore di un criticismo assoluto e cioè afferma che è impossibile dare risposta
«razionale» alle «questioni ultime», tra cui figura quella concernente la libertà dell'uomo e la sua
storicità.
Marx - non va dimenticato - voleva fondare una teoria della storia umana per derivarne una
«prassi politica». Il suo ideale era «scientifico» e, per fondare la sua teoria, egli si ispirò proprio al
modello offerto dalla Fisica, considerata come il paradigma di ogni scienza. Ai suoi tempi
l'epistemologia scientifica era sfociata nel «determinismo scientifico»: e Marx restò sempre
«determinista», pur non cessando - è vero - di interrogarsi. Il «determinismo scientifico» del XIX
secolo (in quanto filosofia...) è stato definitivamente messo in crisi dalla microfisica e dal cosiddetto
«principio di indeterminazione»; la scienza resta peraltro «determinista», nel senso che essa si sforza -
istituzionalmente - di determinare praticamente il proprio oggetto, fine a cui perviene entro i limiti
consentiti dalla «definizione» data dell'oggetto stesso. L'«impresa scientifica» si fonda sempre sulla
convinzione che sia possibile giungere in qualche modo a «definire» l'oggetto, a «misurarlo» (seppure
imperfettamente) e poi, per ricaduta tecnica dell'«esperimento», a «determinarlo» concretamente. La
microfisica non procede altrimenti; solo che i fatti l'hanno costretta a riconoscere che l'«oggetto
elementare» non può essere mai «definito» univocamente, mai esattamente misurato, e che dunque la
sua «determinazione» da parte del soggetto umano può soltanto essere di natura «statistica». In
macrofisica il principio di indeterminazione scoperto da Heisenberg [alias] non ha rilevanza pratica,
giacché l'inevitabile errore di misura è sempre inferiore alla capacità di «definizione» degli strumenti di
misura disponibili ed è cioè in pratica «uguale a zero». (Questa circostanza va messa poi in relazione
con la natura propria degli «oggetti macrofisici», sempre considerati arbitrariamente «sistemi chiusi» e,
in quanto tali, da un punto di vista gnoseologico, «prodotti» dal dispositivo sperimentale o, al limite,
dal dispositivo sensoriale dell'uomo). In microfisica, invece, l'errore di misura diviene rilevante in
rapporto alla capacità di definizione degli strumenti: l'oggetto è costituito qui - si badi bene -
dall'elementare, la cui singolarità si lascia definire soltanto in modo ambiguo (onda-corpuscolo e né
l'una né l'altra cosa). Questa singolarità, i cui parametri non possono essere mai misurati insieme con
precisione, si sottrae in quanto tale ad ogni osservazione e concettualizzazione, talché la microfisica
non può «conoscere» e non conosce che particelle elementari in interazione. Quel che in microfisica è
possibile definire, misurare e determinare praticamente è sempre una massa innumerevole di particelle
in interazione, considerata come un complessivo «sistema chiuso», sistema che - essendo definito
statisticamente - è determinato soltanto statisticamente, seppure con «certezza pratica».

Per attenersi agli insegnamenti ultimi della fisica, una scienza dell'umano in quanto storicità
deve porsi pregiudizialmente il problema della «definibilità» del proprio oggetto, cioè dell'oggetto
storico. Marx ha creduto che fosse possibile definire perfettamente 1'«oggetto storico» ed anzi ne ha
dato una definizione implicita nel «principio» materialista sul quale ha fondato la sua teoria. Senza
dubbio è oggi assai difficile dire, sulla base del dibattito intermarxista e delle opposte «letture di Marx»
proposte dagli uni e dagli altri, se davvero i marxisti ritengano fondati il «principio» e la teoria di Marx
o se invece si limitino ormai a ritenere valido soltanto il «metodo», però proponendo una vera e propria
sostituzione del «principio» affermato da Marx. Il «marxismo» non ha mai cessato di subire «revisioni»
da parte dei marxisti e «revisioni» sono oggi ancora in atto: ma, per l'appunto, è ben arduo
comprendere quale mai sia l'oggetto delle revisioni, se cioè ad essere riveduti siano «errori di calcolo»
o di misura oppure i «teoremi» e le «equazioni» che stanno alla base del calcolo.

In ogni caso appare chiaramente che il marxismo, in quanto «teoria della storia», riposa su un
"principio chiuso" e cioè considera l'oggetto storico come un «sistema chiuso», così come fa la
Macrofisica coi propri oggetti. Per essere precisi, va detto che Marx non ha mai esplicitato una sua
«antropologia», che offra una definizione chiara dell'uomo e della «storicità» dell'uomo; l'antropologia
di Marx è implicita e, per di più, assai ambigua. Dal discorso di Marx è possibile ricavare due diverse,
successive definizioni della «storicità» umana, la prima non cessando però di interferire con la seconda.
Con Marx non si sa mai bene se siano le condizioni economiche a determinare il comportamento
storico dell'uomo oppure sia l'uomo a determinare la condizione economica dell'umanità: ed in fondo, a
questo proposito, l'esegesi dei testi marxiani ripete sotto altre spoglie la disputa grottesca
sull'antecedenza dell'uovo o della gallina. Di fatto Marx non si interessa all'«uomo» che è o potrebbe
essere colui che fa la storia, bensì al. «genere umano», al «menschliches Geschlecht», che biblicamente
subisce la storia. Ma per l'appunto il «genere umano», se indubbiamente ha realtà zoologica come
qualsiasi altra specie animale, è nella realtà storica un'astrazione, un'assurdità. Vero è che Marx,
giudiziosamente obbedendo alla logica imposta dal principio egalitarista, capovolge l'assurdità in
utopia: se c'è storia, se c'è divenire storico, sarebbe proprio perché il genere umano resta ancora
un'astrazione teorica e gli uomini, opponendosi nella lotta di classe e così alienandosi a se stessi, si
privano del loro essere autentico, che è l'umana genericità. L'utopia, in quanto non-luogo dell'essere,
sarebbe il divenire storico, la storia stessa; abolire il divenire storico, abolendo la lotta di classe che lo
sostanzia, permetterebbe di accedere al vero essere, alla umana genericità. Per Marx l'abolizione della
lotta di classe e del divenire storico, del non-essere dell'uomo, è pre-determinata, resa fatale da quella
stessa legge che alla storia ha dato inizio. In questo senso l'abolizione della lotta di classe e la «fine
della storia» si rivelano indipendenti dalla volontà umana. L'uomo può soltanto prendere coscienza di
questa «necessità storica» e, in questa coscienza, «mettersi dalla parte dell'avvenire». Tutto è scritto in
anticipo: la crisi inevitabile del capitalismo e l'abolizione della lotta di classe ad opera del proletariato,
reso cosciente dall'accumulazione di una miseria divenuta infine insopportabile. Il «proletariato» è
l'ultimo strumento della legge che presiede alla storia: la List der Vernunft, l'astuzia della Ragione di
hegeliana memoria, non cessa di essere presente nella teoria del suo discepolo Marx.

L'oggetto storico della teoria marxista della storia è la storia stessa nella sua totalità, concepita
cioè e definita come un sistema assolutamente chiuso. Ma questo «sistema chiuso» ha una sua
paradossale particolarità: teoricamente chiuso e chiuso una volta per sempre («fine della filosofia»),
resta praticamente da chiudere. Affinché la «teoria» sia verificata, la prassi ha da «cambiare il mondo»
(che contraddice la teoria); ma, poiché è fuori di dubbio che la teoria - «scientifica» - è giusta, la prassi
(marxista) è fatalmente destinata al successo. Insomma: la teoria affermando che la storia è lotta di
classe necessariamente destinata ad essere abolita, la prassi comunista abolirà la lotta di classe,
chiuderà con ciò stesso la storia (così lapalissianamente verificando la chiusura postulata dalla teoria)
e, al di là della fine della storia, instaurerà il Regno della Libertà e del vero essere dell'umano genere. È
un po' come se la fisica, postulando una fine del divenire cosmico, rinviasse - per «verificare» la teoria
- ad un esperimento scientifico, il cui risultato dovrebbe essere la fine del mondo. Ma chi, allora, la
«verificherebbe»? La cosiddetta «prassi scientifica» del marxismo spesso concepisce se stessa alla
stregua dell'esperimento scientifico: è che i marxisti, pessimi epistemologhi, confondono esperimento
scientifico e prassi. In realtà per la scienza, «prassi» soltanto può essere ed è la «tecnica» (come
insieme di comportamenti tecnici e di strumenti tecnici) derivata dall'esperimento «riuscito» - e non già
la sperimentazione stessa. In realtà la cosiddetta «teoria» marxista è un «progetto storico», come ogni
altro reso possibile dalla libertà, storica dell'uomo e volto però a sopprimere, con la storia, questa
libertà storica dell'uomo, risentita e considerata come un male, come privazione di quell'essere assoluto
in cui libertà e necessità, anch'esse assolute, dovrebbero confondersi.

La «libertà storica»

Che la storia - il divenire storico dell'uomo - scaturisca dalla storicità stessa dell'uomo, cioè
dalla libertà storica dell'uomo e dall'esercizio sempre rinnovato che di questa libertà, di generazione in
generazione, fanno personalità umane differenti, è l'ipotesi di lavoro che qui viene proposta. La teoria
scientifica scaturente da questa ipotesi si fonda su un «principio» aperto e cioè concepisce il suo
«oggetto» come aperto su due opposte determinazioni. Essa considera il divenire storico aperto su
possibilità differenti e, al limite, opposte - e ciò tanto in direzione del passato che dell'avvenire -
ovverosia considera gli uomini sempre liberi di decidere agonisticamente del loro divenire storico.
Questa teoria sistematicamente concettualizza la geniale intuizione di Friedrich Nietzsche [alias, alias],
il solo pensatore che, fin qui, abbia basato la sua visione della storia su un «principio aperto», in virtù
di una riflessione critica alla quale un numero sempre più grande di sociologi e di storici si richiama
oggi confusamente. La riflessione critica di Nietzsche prende peraltro le mosse dall'opera artistica di
Richard Wagner [alias, alias], opera che è «rappresentazione» di un mito e, in quanto tale, visione della
storia e di una storia sentita come scaturente dall'esercizio di una inesauribile libertà dell'uomo e,
dunque, «rigenerabile».

La critica nietzschana della ragione, che è critica assoluta, scopre l'impossibilità in cui è la
«ragione» di fondare se stessa, afferma che ogni «sistema di pensiero», ogni filosofia, ogni concezione
del mondo nel cui oggetto anche sia conglobato l'uomo in quanto storicità sempre si fonda in realtà su
un «atto di libertà» umano. A tutti i filosofi che lo hanno preceduto Nietzsche rimprovera di essersi
ingannati sulla natura di quell'«atto», di averlo interpretato come scaturente non già dalla libertà
dell'uomo bensì da una legge trascendente, cui l'uomo sarebbe sottomesso, ovverosia - come egli dice -
di aver obbedito ad un «pregiudizio morale», di aver ceduto alla «Circe dei filosofi». In Nietzsche la
critica assoluta della ragione si capovolge così in affermazione della libertà dell'uomo e della «libertà
del divenire» (storico). Proprio questa libertà del divenire storico rende possibile la «rigenerazione del
mito», già perseguita da Richard Wagner [alias, alias]: giacché la «rigenerazione del mito» è per
l'appunto esercizio della libertà storica da parte di una personalità umana che oppone la propria
volontà, come un'«origine» nuova, ad un'altra volontà umana che, scaturendo dal «passato», predomina
nella «co-attualità» oggettiva. Appassionatamente Friedrich Nietzsche [alias, alias] afferma di essere il
«primo» ad aver preso coscienza della «morte di Dio», cioè della libertà storica dell'uomo, ed è nella
coscienza di questa libertà che egli deliberatamente propone a sua volta un «mito» nuovo, un «progetto
d'avvenire»; ma, di fatto, questa coscienza già è affermata nel «mito» rappresentato da Wagner, proprio
in quanto esso è dichiaratamente «mito» e, insieme, «rigenerazione del mito».

Se si considera che la "morale" è per l'appunto la legge che regge (o dovrebbe reggere) il
comportamento umano, diviene chiaro che il suo contenuto concreto è sempre dedotto da una sia pure
incosciente definizione dell'uomo stesso, cioè da una «idea dell'uomo», magari inespressa. Nietzsche,
da questa considerazione, deduce che non esiste una legge del comportamento umano e dunque della
storia, bensì che esistono potenzialmente tante leggi quante personalità umane (in assoluto) ed al limite
pratico, macrostoricamente, di volta in volta due leggi opposte, manifestantisi come opposte tendenze
storiche incarnate da personalità umane antagoniste. Nietzsche non ha esplicitato questa sua deduzione
nei termini di una teoria vera e propria, ma ha immediatamente fondato su di essa la sua interpretazione
della storia, concernente essenzialmente la storia del cosiddetto Occidente. Come è noto, egli ha veduto
nella storia un conflitto tra due opposti tipi di uomo, tra due «morali» avverse (o, nel mio linguaggio,
«tendenze»), ha parlato di «anima aristocratica» e di «anima di schiavo», ed ha poi interpretato
l'evoluzione di questo conflitto, a partire dagli inizi del cristianesimo, come un'affermazione
progressiva della «morale degli schiavi», cioè della tendenza che, in relazione al fine che essa persegue,
egli ha chiamato «movimento egalitarista». In realtà l'interpretazione di Nietzsche si applica, come
vedremo, soltanto ad un'«epoca storica» scaturente da un «presente» che ancora è il «nostro»; ma, nei
limiti di questa applicazione, si sta sempre più imponendo a tutti, anche agli avversari del «mito»
sovrumanista. Nella prefazione del suo saggio Von Nietzsche bis Hitler oder Der Irrationalismus in der
deutschen Politik, György Lukàcs [alias, alias] rileva, ai fini d'una condanna definitiva del
«sovrumanismo», che «al centro del sistema» edificato da Friedrich Nietzsche «sta la negazione,
reazionariamente arbitraria, di tendenze che da tempi immemoriali sono state e sono le forze attive
dell'evoluzione dell'umanità: come 1'egalitarismo, che prende inizio con gli Stoici e la primitiva
dottrina cristiana dell'uguaglianza delle anime dinanzi a Dio, che si innalza con la grande rivoluzione
francese ad [affermazione di una] sia pur formale uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, e che poi
proprio il secolo di Nietzsche si sforzò di portare avanti, in larghezza e profondità». È, in fondo, il più
grande omaggio implicito che il marxista Lukàcs potesse rendere a Friedrich Nietzsche, giacché - senza
neanche avvedersene - egli fa sua, contro la visione di Marx, la visione nietzschana della storia. E’ stato
infatti Friedrich Nietzsche [alias, alias] - lo abbiamo indicato - ad istituire ed affermare per primo la
«prospettiva» secondo cui la storia del cosiddetto Occidente appare come l'affermazione progressiva e
sempre più possente del «principio egalitaristico», non già peraltro da «tempi immemoriali» bensì,
come del resto Lukàcs stesso indica imperfettamente, a partire dalla diffusione del cristianesimo
giudaico in seno all'Impero Romano, dove larga parte dell'intellighentsia era stata predisposta ad
accoglierlo dalle dottrine socratiche e, soprattutto, dallo stoicismo. Questa prospettiva nietzschana,
Lukàcs stesso se l'appropria e la riassume altrove così: «dal cristianesimo trae origine la rivoluzione
francese, da questa la democrazia, da questa il socialismo». Marx - è quasi inutile ricordarlo - era
convinto che la sua teoria «scientifica» dovesse immediatamente tradursi in prassi «rivoluzionaria»,
proprio perché gli sembrava che il suo «comunismo» rappresentasse una rottura definitiva con tutto ciò
che lo aveva preceduto. Per Nietzsche, invece, socialismo e comunismo altro non sono che le ultime
attuali «conseguenze» dell'egalitarismo, un'ultima evoluzione d'un bimillenario processo e, se si vuole,
un ulteriore progresso «storico» del «principio» che anima 1'«egalitarismo», ma non certo una
«rivoluzione». Senza attardarci sull'attuale tendenza «riformistica» (e cioè evoluzionistica anziché
rivoluzionaria) delle scuole marxiste e, perfino, dei partiti comunisti d'Europa occidentale, si potrebbe
osservare che la visione nietzschana della storia trionfa oggi ovunque nell'atteggiamento dei partiti
politici europei, allorquando - e si potrebbe dire: ritualmente - essi si proclamano «uniti
nell'antifascismo» e si riconoscono insomma in una comune matrice, che è antifascista nella negazione
e egalitarista nell'affermazione. Questa constatazione diviene tanto più significativa, se si considera che
per Lukàcs [alias, alias] la «matrice del fascismo» è per l'appunto il «sistema» di Friedrich Nietzsche
[alias, alias], sistema che si configura come un «mito».

La «riflessione critica» e la «riflessione storica» di Nietzsche - va qui sottolineato con forza -


sono assolutamente indipendenti dal «progetto storico» che egli concepisce e propone e dalla
«predicazione zarathustriana» di questo progetto; e lo sono allo stesso modo in cui la «teoria della
relatività ristretta» è assolutamente indipendente dalle convinzioni religiose e dai progetti politici del
suo autore Albert Einstein. Da questo punto di vita, la «posizione» di Nietzsche è assolutamente
opposta a quella di Marx e dei marxisti, come anche dei cristiani, per i quali teoria della storia e
«progetto storico» si confondono nel modo più inestricabile, in indissolubile interdipendenza.
Nietzsche concepisce il suo «progetto» e con ciò propone una «morale» e «fini da raggiungere» (non
all'umanità, del resto, ma soltanto ad un certo tipo d'uomo da lui chiamato «uomo superiore») e lo fa
riconoscendo esplicitamente che il suo proposito è arbitrario e scaturisce da un suo personale
Geschmack ("gusto"), da una sua particolare «sensibilità estetica», da un personale giudizio di valore.
La sua concezione della storia non pregiudica però il futuro; anzi egli lascia intendere che il divenire
dell'umanità - la storia - è aperto su due opposte possibilità, che nella «predicazione zarathustriana»
sono indicate sotto forma mitica, designate con due mitemi: l'avvento dell'ultimo uomo e l'avvento del
superuomo. Per Nietzsche il «movimento dell'ultimo uomo» è paurosamente affermato in Europa e
condurrebbe alla catastrofe; questa catastrofe è inevitabile, ma potrà essere capovolta in «grande
meriggio» se al «movimento dell'ultimo uomo», che è poi 1'egalitarismo, potrà essere opposto un
«movimento contrario», quello che per l'appunto Nietzsche vorrebbe suscitare con la sua «predicazione
zarathustriana» e che, in questo saggio, è chiamato «tendenza sovrumanista».

L'apertura della storia

La visione nietzschana della storia, intuitivamente fondata su un principio aperto, lascia la storia
«aperta», come essa in effetti è. Nietzsche [alias, alias] ha proclamato la «libertà del Divenire» (e poco
importa qui che lo proclamasse non soltanto a proposito del divenire storico dell'uomo bensì anche in
senso cosmologico) così come, parallelamente, ha anche riconosciuto - sulle orme di Herder [alias] ma
con largo anticipo sulla moderna antropologia filosofica - che l'uomo è «animale incompiuto» e sempre
in divenire. In Nietzsche l'affermazione della «morte di Dio» traduce e proclama l'acquisita coscienza
della libertà storica dell'uomo: in virtù di questa coscienza nuova, l'uomo non crede più di essere
governato da una legge storica che lo trascende e lo conduce, con l'umanità intera, verso un fine - ed
una fine - della storia predeterminato ab aeterno o a principio; bensì sa oramai che è l'uomo stesso, in
ogni «presente» della storia, a stabilire conflittualmente la legge con cui determinare l'avvenire
dell'umanità, una legge che poi sempre, in ogni altro «presente» del divenire storico, è conflittualmente
rimessa in questione e dunque, per dirla col Tröltsch, «incessantemente varia».

Quanto è stato detto rende evidente che l'elaborazione di una vera e propria «teoria aperta della
storia» - nel «presente» storico che è il nostro - presupponeva una riflessione critica concernente la
specificità del «divenire storico» propria della visione nietzschana. Nietzsche aveva rivendicato alla
filosofia tedesca, in particolare agli idealisti e a Hegel, il merito della «scoperta del divenire»; ma
sebbene egli stesso avesse in realtà ereditato un sentimento ed un'idea nuovi del «divenire» dall'opera
artistica di Richard Wagner [alias, alias], non si rese mai bene conto di come Hegel e gli idealisti, con
la loro «dialettica chiusa», avessero poi subito ricondotto il «divenire» all'«essere». Forse è proprio
questa circostanza che lo ha reso incapace di esplicitare anche in termini filosofici quella specificità del
divenire storico che la sua opera mitico-poetica ha saputo per contro esaltare.

Per il Nietzsche «filosofo critico», tutto liberamente diviene; altre volte egli restringe alla sola «Vita» la
specificità di questo «libero Divenire», scivolando in un apparente «biologismo», raccolto poi da altri
autori di tendenza sovrumanista nelle cosiddette «Lebensphilosophien», biologismo e
Lebensphilosophien comunque più che altro «verbali», perché «vita» vi è termine quasi sempre inteso
in un senso particolare, seppure mal definito, che rinvia soprattutto alla «storicità» propria dell'uomo.
Si potrebbe parlare, a questo proposito, di errori dovuti ai limiti d'un linguaggio grammaticalmente e
sintatticamente incapace di esprimere l'idea nuova. Per affermare la realtà di qualcosa l'abitudine
linguistica impone l'uso del verbo essere; così è stato detto: «Il divenire è»; mentre invece, per un
«divenire libero», bisogna dire: «Il divenire diviene». Gli aspetti della realtà - quali oggi a poco a poco
si disegnano nella coscienza umana - sono quattro e, per la ragione umana coi suoi limiti, irriducibili
l'uno all'altro in unità; ed ognuno di questi aspetti è una particolare coniugazione di «essere» e
«divenire». L'essere è (E): aspetto elementare della realtà, oggetto della Microfisica. Il divenire è (d):
aspetto macrofisico della realtà, oggetto della Fisica. L'Essere diviene (e): aspetto biologico della realtà,
oggetto della Biologia. Il divenire diviene (D): aspetto storico della realtà, oggetto della Storia umana
(si noti comunque che queste espressioni altro non sono che operazioni logiche verbalizzate, cui non va
attribuito alcun significato metafisico; esse sono le operazioni logiche nuove con le quali l'osservatore
scientifico umano fin dallo scorso secolo ha cominciato ad affrontare intuitivamente una realtà di cui il
progresso stesso della riflessione umana - il «progresso scientifico» - gli andava rivelando, dietro la
dualità di aspetto prima concepita e supposta, un'ulteriore complessità). L'Essere che diviene, noi lo
cogliamo e di esso diveniamo coscienti nella «vita», nei fenomeni biologici; questo specifico «divenire
dell'essere», che Jacques Monod ha caratterizzato come «riproduzione dell'identico», è evoluzione retta
da una «legge» specifica dell'Essere, identica a sé in ogni momento del divenire dell'Essere, «legge»
che, in virtù stessa della complementarità di macrocosmo e vita (del divenire che è e dell'essere che
diviene), per l'appunto comanda che la vita evolva onde assicurare la «riproduzione identica di sé». La
«legge» del divenire che diviene è invece legge comandata dal divenire stesso e dunque essa stessa
diviene in ogni «presente» del divenire. (cfr. a questo proposito il capitolo su L'idea della Musica e il
tempo della Storia). Questo divenire che diviene, l'uomo lo coglie e lo constata soltanto nella propria
coscienza e nella proiezione che essa ne fa, che è la storia umana. Il divenire che diviene è la storicità
stessa dell'uomo, l'uomo nella sua storicità.

Conseguenza di una storicità umana che è «divenire che diviene», è la indeterminabilità


dell'oggetto storico, non assumibile come «sistema chiuso». Di fatto, con l'oggetto storico ci si ritrova
dinanzi ad un problema analogo (ma non identico) a quello posto dall'oggetto della microfisica, nel
senso che né l'uno né l'altro possono essere esattamente «misurati», «determinati»: e ciò è tanto vero
che a proposito delle particelle elementari si è addirittura parlato, certo impropriamente, di «libertà».
Questa indeterminabilità dell'«oggetto storico», anche quando non è stata intuita, si è quasi sempre
nondimeno imposta all'osservatore storico, conformandone gli atteggiamenti. Proprio per questo la
Storia, quando vuol farsi scienza, restringe il proprio oggetto al «passato», al divenire storico divenuto,
cioè a quel solo divenire che le appare per così dire concluso e dunque misurabile e determinabile. Di
fatto, questa apparente determinabilità del «passato» si rivela illusoria ed ogni «determinazione» del
passato falsificabile o, più esattamente, inverificabile. Laddove l'esperimento fisico è caratterizzato
dalla sua ripetibilità, l'evento storico è caratterizzato invece proprio dalla sua originalità: e se
l'esperimento fisico, nella sua ripetibilità, si apre sulla tecnica e cioè sulla prassi di determinazione di
un «oggetto» divenuto disponibile, l'evento storico soltanto si offre, nella sua originalità, a
interpretazioni personali, che sempre si rivelano divergenti ed anzi opposte. È che il fatto storico, il
cosiddetto "passato", è e resta fondamentalmente ambiguo e, proprio per questo, incapace di
determinare univocamente gli eventi presenti e a venire, incapace di abolire la libertà storica.

Si potrebbe obiettare che sia soltanto la nostra imperfetta conoscenza del «passato» a farcelo
sembrare ambiguo, ad impedirci di constatare in qual modo esso determini univocamente presente e
avvenire, ad impedirci dunque di «prevedere» il «futuro». E magari si potrebbe essere tentati di
ammettere - come fu ingloriosamente tentato nel campo della microfisica - che una esatta conoscenza
del passato ancora ci sfugga perché ancora resterebbero invisibili certi «parametri», che un giorno,
affinandosi gli strumenti d'osservazione, potrebbero peraltro divenire visibili e, allora, «misurabili». Ma
il fatto è che questi «parametri invisibili» non esistono. Nel campo della microfisica, il cosiddetto
principio di indeterminazione o di incertezza dimostra la statutaria impossibilità di misurare
esattamente i due parametri dell'«elementare», giacché la tanto più precisa misurazione dell'un
parametro si risolve necessariamente nella tanto meno precisa misurazione dell'altro. Impossibilità
statutaria - abbiamo detto - giacché scaturisce dallo statuto stesso della relazione che s'instaura tra
l'oggetto elementare ed un osservatore-operatore scientifico, la cui osservazione-operazione è
forzosamente mediata da uno strumento che per un verso appartiene anch'esso al dominio
dell'elementare ed entra in interazione con l'«oggetto». Questo statuto fa sì che l'osservatore-operatore
(di cui lo strumento d'osservazione-operazione è gnoseologicamente parte integrante) non può mai, in
pratica, astrarsi totalmente dall'oggetto elementare e astrarre totalmente l'oggetto da sé, considerarlo un
«sistema chiuso». Ne consegue, notoriamente, che la microfica non conosce mai l'elementare nella sua
singolarità, bensì soltanto conosce particelle elementari in interazione.

Analoga è la situazione nel campo della Storia, della conoscenza storica. Analoga ma,
ovviamente, differente: giacché lo statuto di indeterminabilità non è qui sperimentale-operativo, bensì
esistenziale nel senso che dà a questo termine Martin Heidegger [alias, alias]. La Storia ha sempre
voluto essere conoscenza del divenire storico, sempre si è affannata - senza successo - a scoprire la
«legge» che determinerebbe questo «oggetto». A questo fine essa si è sforzata di cogliere, osservare,
studiare il suo oggetto là dove in apparenza oggettivamente si dà, nel cosiddetto «passato», cioè in quel
divenire storico divenuto, che sembra in quanto tale fenomeno perfettamente concluso, in se definito e
dunque gnoseologicamente definibile e «determinabile» come «sistema chiuso». Questa idea del
«passato» è però falsa: il cosiddetto passato non è un divenire divenuto in sé conchiuso, non è un
«sistema chiuso»: esso non è che un aspetto, un parametro del divenire storico e dovrebbe essere
un'evidenza che esso non cessa di divenire, allo stesso modo del cosiddetto presente e del cosiddetto
futuro. In precedenza abbiamo affermato che il «genere umano» storicamente non esiste, è
affabulazione. Con questo abbiamo inteso dire che l'uomo non è storicamente determinato dalla sua
appartenenza ad una determinata specie animale. Il comportamento di ogni animale è ripetizione
fenomenica del pre-determinato comportamento della sua specie (zoologica). L'animale non fa che
ripetere il «passato», vive nel passato della specie, «passato» che, certo, può subire mutazioni, ma non
già per «decisione biologica», bensì per cause di ordine chimico o microfisico. Il fenomeno biologico è,
come quello macrofisico seppure in modo diverso, ripetizione ciclica del passato, e come tale in ogni
suo momento pre-determinato. Anche la vita umana è ripetizione ciclica, si iscrive cioè nel tempo
fenomenico della specie; ma l'esistenza storica dell'uomo non è la vita e non deve essere confusa con la
vita. L'esistenza storica dell'uomo non si iscrive nel tempo fenomenico, ma in un tempo storico; e
finché è in questo tempo, è divenire mai concluso, divenire diveniente.

Nella sua prima riflessione storica, l'uomo si è compreso come vita, seppure come vita data in
una forma singolare, lo ζώoν πολιτικoν, zoon politikon di Aristotele: e la storia gli è sembrata come la
vita essere una ripetizione ciclica. Con la successiva riflessione «cristiana», l'uomo è giunto ad intuire
che l'esistenza storica non è ripetizione ciclica e l'ha concepita come una parabola, compresa tra un
principio ed una fine, principio avvenuto, fine avvenire. La visione ciclica ammetteva logicamente la
pre-determinazione della storia concepita come vita; per il paganesimo tutto è comandato dal Fato. La
visione parabolica della storia, propria del cristianesimo è drasticamente contraddittoria: il libero
arbitrio in essa attribuito all'uomo è tuttavia vanificato sul piano storico dalla «volontà di Dio» che ab
aeterno tutto comanda e pre-determina. Le «mondanizzazioni» di questa visione cristiana, fino a quella
marxista, restano nella stessa contraddizione e, sempre, considerano la storia e l'esistenza storica
dell'uomo iscritte in un tempo lineare fenomenico, che è potenzialmente e necessariamente concluso,
seppur non lo sia ancora fattualmente.

La teoria aperta della storia

La rappresentazione-fondazione wagneriana del mito sovrumanista e la formulazione


nietzschana di questo mito anche ed essenzialmente implicano una nuova riflessione sulla storia, che
s'apre in modo immediato su una nuova visione della storia. La visione della storia sovrumanista è stata
in genere e quasi sempre fraintesa come una visione ciclica, analoga a quella scaturente dalla
riflessione storica «pagana». Ciò è accaduto e accade a causa della stessa originalità e novità della
visione sovrumanista della storia, che non si lascia in alcun modo comprendere e interpretare sulla
scorta della tramandata concezione di un tempo lineare fenomenico. Proclamando che «Dio è morto»,
Friedrich Nietzsche [alias, alias] ha anche e soprattutto inteso dire che l'esistenza storica non è
comandata dal Fato o dalla «volontà di Dio» e che di essa decide bensì, in ogni «presente» e
conflittualmente, l'umanità stessa. Il «mito sovrumanista» è - in un suo fondamentale aspetto - visione
della storia che intuisce il divenire storico stesso come un divenire la cui «legge» - per dirla con il già
citato Ernst Tröltsch - «incessantemente diviene» in ogni presente: divenire-che-diviene, divenire
storicamente autentico. Visione ciclica e visione parabolica della storia iscrivevano e iscrivono
ambedue l'esistenza storica dell'uomo in un tempo fenomenico lineare; la visione sovrumanista iscrive
invece la storia in un tempo specifico della storia, non più lineare (cioè unidimensionale) bensì
trimensionale. È anzi proprio questa intuizione della tridimensionalità del tempo della storia che fonda
e struttura il «mito sovrumanista»: e non si può comprendere il mito sovrumanista, senza tener conto di
quell'intuizione, senza aver preliminarmente compreso cosa si intenda per tridimensionalità del tempo
della storia. Proprio per questa ragione ci è sembrato necessario avviare la proposta analisi dell'opera di
Richard Wagner [alias, alias] (e cioè del «mito sovrumanista», che essa rappresenta) con la
preliminare, succinta esposizione di una teoria della storia, che tenga per l'appunto conto della
«visione della storia» radicalmente nuova e originale che il «mito sovrumanista» introduce nella storia
stessa. Questo «tener conto» - va sottolineato con insistenza - di per sé non significa accettare e far
propria la «visione della storia» sovrumanista in quanto tale; bensì soltanto significa voler
comprenderla, riconoscerla per quello che è e vuole essere. Una «visione-della-storia» è sempre aspetto
fondamentale di una Weltanschauung, di una globale visione-del-mondo: non è soltanto interpretazione
del passato, è anche e con pari forza (quand'anche fosse implicitamente) impegno dell'attualità e
progetto dell'avvenire. Come tale essa si inserisce nel conflitto epocale, conflitto indeciso di cui uno
storico non può in alcun modo prevedere l'esito. Quand'anche lo storico volesse erigersi a «tribunale
della storia», egli altro non farebbe che prendere parte al conflitto epocale (con un suo impegno
dell'attualità), ma non per questo il conflitto epocale risulterebbe ipso facto deciso.

Visioni della storia antagoniste, fondamentalmente implicate nel conflitto epocale, sono parte
integrante dell'«oggetto» offerto alla osservazione degli storici. E’ proprio da questa situazione che
scaturisce lo statuto di indeterminabilità dell'«oggetto storico»: la Storia è sempre nella storia sia come
«soggetto» (osservatore storico) sia come «oggetto» (osservabile e osservato storico): cosicché ogni
Storia (visione della storia, conoscenza della storia) sempre è stata ed è, insieme, storia, e metastoria.
Ogni Storia scaturisce dalla storia, aggiunge Storia alla storia e ricade nella storia. La fondamentale
importanza del «mito» sovrumanista per lo storico è che questo «mito» inserisce nella Storia una
visione radicalmente nuova della storia, in un mondo dominato dalle versioni di un'opposta tramandata
visione-della-storia, talché la stessa «posizione gnoseologica» dello storico ne risulta radicalmente
mutata.

La teoria aperta della storia da noi proposta intende per l'appunto prendere atto di questa
mutata posizione gnoseologica dello storico e della Storia, posizione che gli rivela fattualmente la
«indeterminabilità» dell'oggetto della conoscenza storica e cioè l'apertura di questo «oggetto», il
divenire storico dell'umanità, su due opposte equivalenti possibilità. L'«oggetto storico» è veramente
conosciuto soltanto se ri-conosciuto nella sua statutaria indeterminabilità. La teoria della storia vuol
essere uno strumento di analisi dell'oggetto storico; di per se stessa non afferma nulla a proposito
dell'esistenza storica dell'uomo, bensì la lascia parlare e cioè l'analizza storiologicamente (così come
la fenomenologia intendeva lasciar parlare le cose, che peraltro, al contrario delle esistenze storiche -
degli uomini - notoriamente non parlano). «Oggetto» della Storia, secondo la teoria, è ciò che è
concretamente osservabile, perché dato al «presente» dell'osservatore: questo oggetto è la
«contemporaneità».

La teoria è relativistica, nel senso in cui lo è, nel campo della fisica, la teoria einsteiniana.
L'osservatore storico è lui stesso una esistenza storica, esiste in un «presente» storico personale e come
tale unico: la stessa «contemporaneità» si configura così differentemente a differenti «presenti» e in
quanto così configurantesi essa è «epoca». Ciò che l'osservatore storico osserva dal suo «presente» è
sempre la sua «epoca»; cosicché la sua osservazione ha validità pratica solo per coloro che si
riconoscono comunicativamente nel suo «presente», con un riconoscimento che sempre trova un limite
nella unicità personale dei «presenti» (quand'anche questo limite possa essere come annullato dalla
immedesimazione). Nell'epoca, lo Storico ritrova ed osserva il cosiddetto «passato», nella misura in cui
esso vi è memorizzato, documentato, indirettamente testimoniato nelle «vestigia», così come ritrova ed
osserva l'«attualità» e, in quanto progetti perseguiti, l'«avvenire». Secondo la teoria l'epoca è sempre
caratterizzata dal conflitto epocale, conflitto che investe passato, attualità ed avvenire, costituendone la
fondamentale ambiguità; conflitto cioè tra opposte «interpretazioni del passato», opposti «impegni
nell'attualità», opposti «progetti d'avvenire»: interpretazioni, impegni, progetti intimamente e
indissolubilmente legati. Le decisioni che possono essere prese nel quadro del conflitto epocale
investono non soltanto l'avvenire bensì anche lo stesso «passato». Nella applicazione al contesto storico
della «nostra» epoca, caratterizzata - come fin dall'inizio abbiamo premesso - dal conflitto tra tendenza
egalitarista (o umanista) e tendenza sovrumanista, la teoria scopre e constata che la scelta storico-
esistenziale posta all'umanità epocale investe la stessa esistenza storica dell'uomo.

L'esistenza storica stessa dell'uomo è soltanto una possibilità, cui si oppone sempre un'altra
possibilità. Realizzata dalle scelte storico-esistenziali conflittualmente maturate nel cosiddetto
«passato», l'esistenza storica non cessa tuttavia di riproporsi come possibilità alternativa, non cessa di
essere possibilità. Il mitema dell'«avvento del superuomo» nella formulazione nietzschana del mito
sovrumanista altro non configura che questo riproporsi dell'esistenza storica come possibilità, in
alternativa con quell'altra possibilità configurata dal mitema dell'«avvento dell'ultimo uomo»: il
«superuomo» è una possibilità che resta eternamente da ri-conquistare - eternamente, cioè finché
l'uomo resta nella storia e non cessa di scegliere l'esistenza storica. Se, «in passato», l'umanità ha
potuto credere che la scelta storico-esistenziale si ponesse fra due possibili destini storici, il «mito
sovrumanista» nella sua opposizione alle espressioni (mitiche, ideologiche, critiche) della tendenza
egalitarista rivela che la scelta storico-esistenziale investe ormai coscientemente la stessa esistenza
storica dell'uomo: ri-generazione della storia o uscita dalla storia, riaffermazione 'della storicità
umana o ingresso nel « regno della Libertà», cioè nella pura «felice» fenomenalità della «specie»,
dell'indifferenza generica.

L'analisi epocale

La teoria aperta della storia procede alla analisi epocale, cioè di una «contemporaneità» che -
come già - indicato - si configura allo storico come «epoca», metodicamente riconducendo tutte le
«interpretazioni del passato», tutti «gli impegni dell'attualità» e tutti i «progetti dell'avvenire» osservati
nell'epoca a espressioni di due tendenze antagoniste. La diversità delle espressioni ricondotte ad
un'identica tendenza è compresa come una conseguenza della diversa profondità temporale delle varie
espressioni. «Tendenza» è un concetto operativo, come tutti gli altri della teoria; d'altra parte le due
tendenze epocali vanno considerate come gli «attori» della storia nell'epoca considerata. L'esistenza di
tendenze epocali antagoniste, sempre constatata, è stata interpretata empiricamente nei modi più vari,
ma sempre sulla base di un pregiudizio morale anti-storico: lotta tra il Bene e il Male, tra Civiltà e
Barbarie, lotta ancora tra classi sociali, l'una portatrice di «progresso» e per così dire strumento della
«legge della storia», l'altra invece portatrice di «regresso» e come resistenza naturale alla «legge della
storia»... Il concetto di tendenza si ricollega intimamente a quello di personalità (storica): la tendenza
può essere cioè compresa come l'aspetto macrostorico di quella coscienza storica, il cui aspetto
microstorico è la singola personalità umana: la tendenza storica scaturisce, come risultante, dalla
comunicazione di personalità umane che, soggettivamente e oggettivamente, si riconoscono nella stessa
interpretazione del passato, nello stesso impegno dell'attualità, nello stesso progetto dell'avvenire. Le
grandi personalità storiche fanno le tendenze storiche e queste tendenze, conflittualmente, fanno la
storia.

All'osservatore storico le due tendenze epocali si presentano sempre in collocazione


antinomica, cioè in fase opposta. La teoria postula che una tendenza possa attraversare tre fasi
successive: una fase mitica, una fase ideologica, una fase autocritica. Tuttavia l'osservabile storico,
cioè l'epoca, sempre e soltanto si presenta come conflitto tra una tendenza X «antica» in fase
autocritica ed una tendenza Y «nuova» in fase mitica. Non è mai osservabile, ma deducibile e
ricostruibile, una anti-epoca, caratterizzata dal conflitto tra ideologie antitetiche proprie di una stessa
tendenza e dalla avvenuta repressione ed eliminazione storica di una tendenza pre-epocale Z. Questa
tendenza Z pre-epocale è presente nella anti-epoca soltanto come «residuo pre-epocale» (o resistenza
pre-epocale) confinato nell'incosciente individuale e collettivo. La repressione della tendenza pre-
epocale Z è compresa come risultato del conflitto che, in epoca precedente quella dell'osservazione, ha
opposto la tendenza Z in fase autocritica alla tendenza Y, allora in fase mitica.

A questo punto è di estrema importanza ben comprendere che la teoria aperta della storia non
assume in alcun modo che il conflitto epocale tra tendenza in fase mitica e tendenza in fase autocritica
debba necessariamente risolversi col prevalere della prima e la repressione della seconda. Per la teoria
il conflitto epocale osservabile e osservato è sempre «indeciso», ugualmente aperto su due opposte
possibilità di esito; per converso la teoria logicamente deduce che, nell'epoca precedente quella
osservabile ed osservata, il conflitto epocale fu risolto dal, e con il, prevalere della tendenza in fase
mitica e la repressione ed eliminazione dalla storia della tendenza in fase autocritica. Per quanto poi
concerne il «residuo pre-epocale» della tendenza repressa, presente nella «anti-epoca», la teoria lo
considera come una tendenza virtuale: esso è cioè la virtualità, sempre conservata, dalla quale può
scaturire, per trasmutazione qualitativa, una tendenza storica nuova che, ovviamente, emergerebbe
allora in fase mitica. La trasmutazione qualitativa di un residuo pre-epocale altro non è che la possibile
ri-produzione della cosiddetta «ominazione», dell'evento originale con il quale l'uomo entrò nella storia
e la storia stessa si fondò.

La tendenza X in fase autocritica, data all'osservazione epocale, avrà dunque attraversato - per
l'osservatore storico - le altre due precedenti fasi: 1) la fase di «auto-creazione» detta mitica, perché in
essa la tendenza, in quanto comunicatività, si esprime attraverso il mito, fase in cui essa si oppose ad
una tendenza pre-epocale Z, infine reprimendola; 2) una fase di «riflessione», detta «ideologica»,
perché in essa la tendenza si esprime e si conosce contraddittoriamente attraverso sue ideologie
antitetiche, così scindendosi intimamente in due sub-tendenze x' ed x", fase in cui ha luogo anche il
processo virtuale attraverso cui si prepara la trasmutazione qualitativa del residuo pre-epocale Z in
(futura) tendenza Y; 3) una terza fase, raggiunta nell'epoca osservata, detta «autocritica», perché con
essa la tendenza X tenta di riassorbire in unità le sue sub-tendenze ideologiche e si esprime così
attraverso tentativi di «critica anti-ideologica», intesa a ricondurre le proprie ideologie antitetiche ad
unità, con una sintesi realizzante la perfetta autocoscienza tendenziale. A questa fase «autocritica» della
tendenza X è sempre coeva la fase mitica (e cioè di autocreazione) della tendenza antagonista Y.

Prima di precisare cosa, per definizione, si intenda qui per «mito», «ideologie antitetiche»,
"autocritica" in quanto forme di «espressione» tendenziali e di evidenziare l'intima funzionale
dipendenza di queste forme dalla profondità storica della tendenza che con esse si esprime, è il termine
stesso di «espressione» (tendenziale) a meritare una conveniente elucidazione L'espressione della
tendenza in quanto comunicatività manifesta - artisticamente, filosoficamente, politicamente, etc., e
fors'anche in modo implicito - la interpretazione del passato, l'impegno d'attualità, il progetto
dell'avvenire proprio della tendenza; essa è così, insieme, «visione della storia» e «azione storica». In
tutte le sue forme, l'espressione tendenziale si fonda sul «principio» tendenziale e ad esso obbedisce.
Questo non significa che l'espressione implichi la piena coscienza del «principio» tendenziale cui essa
obbedisce: giacché anzi è proprio attraverso le sue espressioni che la tendenza storica si sforza di
pervenire alla coscienza del proprio «principio» e, in questa coscienza, alla definitiva affermazione
storica di sé. L'acquisita coscienza del proprio «principio» si identifica così col «fine storico» stesso
della tendenza: il «principio» è l'Alfa, col quale e sul quale la tendenza si fonda e fonda le sue
espressioni, e ne è insieme l'Omega.

Linguaggio e «espressioni»

Strumento dell'espressione è il linguaggio, nella più ampia accezione del termine (la parola
precipuamente, ma anche ogni veicolo della comunicazione). La forma dell'espressione è funzione
della profondità temporale della tendenza che essa esprime, e cioè funzione del linguaggio sociale
ricevuto. E’ che il linguaggio ricevuto dell'epoca osservata è necessariamente linguaggio in-formato e
con-formato attraverso i secoli dalla dialettica delle ideologie antitetiche proprie della tendenza X,
«antica», dialettica che resta inconciliata. Questa stessa tendenza X deve allora conciliare criticamente
- e innanzitutto già nel suo linguaggio - gli ideologemi delle proprie ideologie antitetiche: la sua
espressione è «autocritica». La emergente, nuova tendenza Y non dispone di un suo linguaggio, di un
linguaggio informato e conformato dal suo «principio». Per esprimersi essa deve necessariamente far
ricorso al linguaggio ricevuto, che è quello della tendenza antagonista, deve parassitarlo e, però,
costantemente violarne la dialettica, negarla, per de-strutturarlo e ristrutturarlo a suo modo, secondo il
suo proprio «principio». La nuova emergente tendenza epocale - è vero - «nasce» manifestandosi in
quanto rappresentazione di sé, che ha essenzialmente luogo fuori dal linguaggio vero e proprio e
questa rappresentazione di sé è il «mito». Ma il «mito» anche deve dirsi e parlarsi, con sue proprie
formulazioni: e sono queste formulazioni a parassitare il linguaggio ricevuto, negandone la dialettica
concettuale, che è quella di un «principio» opposto al «principio» del mito. Proprio per questo il «mito»
e le sue formulazioni appaiono "irrazionali" a chiunque, coscientemente o incoscientemente, aderisca al
«principio» che informa e conforma il linguaggio ricevuto. Non solo: le formulazioni del mito restano
oscure anche a chi istintivamente si riconosce nel mito ed è nel mito, perché queste formulazioni sono
comunque dette in un linguaggio ricevuto che, di per sé e fino a quando non sarà stato totalmente
«falsificato» dalla tendenza in fase mitica, resta incapace di «spiegare» il mito nuovo.

L'espressione mitica è riconoscibile non soltanto perché in modo evidente nega il λόγος, logos
(la dialettica) del linguaggio ricevuto, che essa parassita, ma anche perché rifiuta qualsiasi propria
intima dialettica o, più esattamente, rifiuta qualsiasi propria oggettivazione dialettica. La emergente
nuova tendenza epocale deve essere compresa come una istintività immediata, che pone ed afferma se
stessa, in totale unità con se stessa. Il suo «discorso» incessantemente riafferma nei «mitemi» (elementi
strutturali del «mito») l'unità dei contrari. I mitemi sono Leitbilder, immagini conduttrici, nel senso che
Armin Mohler [alias] ha dato a questo termine, e sempre in qualche modo rinviano - al di là del
linguaggio ricevuto - a simboli ed alla ritualizzazione di questi simboli, cioè al mito stesso in quanto
rappresentazione. Il mito, in cui la tendenza si rappresenta, è la tendenza stessa in quanto attività
sentimentale che non cessa di affermare l'unità dei contrari in seno al principio tendenziale.
Oggettivamente rappresentazione di sé nel mito, questa attività sentimentale è soggettivamente
sentimento del sacro, che afferma una sacralità e, affermandola, la fa storicamente esistere. (Mircea
Eliade [alias] lo ha ben visto nella sua Storia delle religioni, ma attribuisce il sentimento del sacro ad
un qualcosa che trascenderebbe l'uomo, laddove esso altro non traduce che il trascendersi dell'uomo in
quanto esistenza storica, al di là della vita).

Le espressioni della tendenza in fase mitica sono così non soltanto costituite dal «discorso» che
in quanto parola detta esse sviluppano, bensì anche - e si potrebbe dire: fondamentalmente - dalla
disposizione mitica di chi il discorso dice e dalla disponibilità mitica di coloro cui il discorso è rivolto e
che soltanto possono accoglierlo ritrovandone il «principio» in sé stessi; disposizione e disponibilità,
che i mitemi ed i loro simboli ritualizzati eccitano, sorreggono e rafforzano, all'interno del quadro
sociale in cui il mito tende a diffondersi. Il «mito» - è lecito affermare - è tutto nei mitemi-simbolo,
nella loro vis comunicativa; ma, così come l'opera d'arte presuppone la disponibilità estetica di coloro
ai quali essa intende «parlare», anch'esso presuppone - in seno al quadro sociale in cui nasce - la
disponibilità di uomini e gruppi umani ad accoglierlo.

Scaturente dalla istintività immediata di una tendenza storica nuova, il «mito» progressivamente
decade e perde la sua vis eccitativa a mano a mano che si afferma socialmente la tendenza di cui esso è
espressione. Dal momento (possibile, non necessario) in cui la tendenza in fase mitica si afferma
socialmente, reprimendo la tendenza antagonista, il vecchio linguaggio può essere radicalmente
ristrutturato secondo il principio «nuovo»; l'antica dialettica è debellata, tutte le parole fondamentali
ricevono un nuovo significato. La violenza che il mito fa subire al linguaggio ricevuto era immediato
riflesso di quella violenza che la tendenza emergente esercitava sulla stessa «società ricevuta»,
dominata dall'avversa tendenza. Trionfando, la tendenza in fase mitica si trova confrontata unicamente
a se stessa; essa si era ri-conosciuta soltanto in modo negativo, nel suo antagonismo con la tendenza
avversa, e adesso, nella comunità che ha creato, trova unicamente il proprio riflesso e, in questo
riflesso, può apprendere a ri-conoscersi in modo positivo: essa entra in fase ideologica. Le sue
espressioni divengono ideologiche in funzione di un linguaggio informato e conformato dal suo
«principio»: ma nel gioco di specchi della riflessione su di sé, il «principio» tendenziale stesso si
dialettizza in idee antitetiche; i mitemi, che assicuravano l'«unità dei contrari», parallelamente si
scindono ciascuno in coppie di ideologemi antitetici; il «mito» genera «ideologie antitetiche». Il
«mito», affermandosi, aveva impresso alla società ricevuta il carattere di una armoniosa organica
«comunità», retta da un unico «principio»; adesso l'insorgere di ideologie antitetiche mina l'armonia e
la coerenza comunitarie, la riflessione tendenziale non cessa di produrre nuove ideologie antitetiche
sempre più «demitizzate», finché si giunge ad un punto di rottura e la tentenza stessa si scinde in
subtendenze antitetiche, la comunità in avverse «controcomunità», ciascuna delle quali non cessa di
riprodurre nel suo seno il processo di scissione.

Le tre «fasi» dell'egalitarismo

Questa evoluzione tendenziale è quanto mai evidente nella storia del mondo pagano e lo è ancor
più - perché direttamente osservabile - in quella dell'Occidente cristiano, che è la nostra «epoca». La
tendenza egalitarista emerse (in una società dominata da una tendenza «pagana» in fase autocritica)
fondandosi come «mito» cristiano nel « mito » cristiano. Questo «mito» è rappresentazione di sé nella
vita di Gesù Emanuele e nella ri-petizione ritualizzata dei «simboli» creati da questa «vita». Con le sue
formulazioni mitiche il cristianesimo riuscì a snaturare completamente il linguaggio ricevuto del
mondo greco-romano, che era informato e conformato dal «principio» pagano. (Martin Heidegger
[alias, alias] ha mirabilmente mostrato come le teologie e filosofie cristiane abbiano «falsificato» i
concetti stessi del pensiero pagano, versando nelle parole greche e latine significati che ad esse erano
totalmente estranei...). Il «principio» egalitarista, nella sua forma mitica (cristiana), poté così
riorganizzare le rovine del mondo pagano in ecumene cattolica; ma proprio con il definitivo trionfo
sulla tendenza pagana subito si annunciano i primi segni di decadenza del nuovo mito. L'ecumene
cristiana durò fino a quando il mito ed i suoi simboli conservarono forza sufficiente per riassorbire in
unità i «contrari» che, nella riflessione, erano sviluppati dalla dialettica stessa del «principio» cristiano,
e cioè forza sufficiente per riassorbire (anche sul piano sociale) i settarismi sempre rinascenti. Ma,
proprio con l'approfondirsi della riflessione su di sé, proprio con la sempre maggiore coscienza di sé, la
tendenza egalitarista perde la sua vis istintiva, il mito decade e degenera, i «contrari» che la dialettica
riflessiva sviluppa dallo stesso principio tendenziale possono opporsi sempre più liberamente e porsi in
non riassorbite concrezioni sociali, le ideologie antitetiche si affermano infine e la stessa ecumene si
scinde: Chiesa della Riforma e Chiesa della Controriforma. (Si noti che tra le cause ideali di questa
scissione sta proprio il rivelarsi delle contraddizioni generate dalla decadenza dei fondamentali mitemi
cristiani, come quello dell'assoluta bontà, onnipotenza ed onniveggenza di Dio e, purtuttavia, della
responsabilità dell'uomo, creatura prevista e voluta da Dio, donde la disputa sui problemi della «grazia»
e del «libero arbitrio»).

Successivamente, coll'avanzare ulteriore della tendenza egalitaristica verso una sempre più
piena coscienza dialettica, anche le «ideologie religiose» decadono, si razionalizzano e mondanizzano
alla stregua del loro λόγος, logos, con sostituzione di ideologemi astratti ai mitemi, non escluso il
mitema «Dio» (Nietzsche: «morte di Dio»). Appaiono così ideologie antitetiche «razionaliste» e
concomitantemente appaiono i «partiti politici» e la «lotta ideologica» all'interno degli Stati e sul piano
europeo (guerre napoleoniche subito seguite alla rivoluzione francese). L'aspirazione hegeliana ad
un'ultima sintesi segna la nascita dell'espressione autocritica, ma solo su un piano «astratto»; sul piano
reale, cioè «ideale» e «materiale» insieme, l'autocritica anti-ideologica vera e propria sarà fondata da
Marx e si svilupperà come «marxismo», in continuo fallimento e continua revisione. In seno alle attuali
società occidentali, i «momenti» fondamentali dell'evoluzione della tendenza egalitarista sono tutti
presenti, conservati, cristallizzati in istituti, dottrine, forme sociali, abiti mentali. La presenza in seno ad
esse della forma «più avanzata» della coscienza egalitarista, deliberatamente volta alla conquista d'una
piena autocoscienza storica tendenziale, esercita però ovunque un'influenza mobilizzatrice sulle forme
meno avanzate della tendenza egalitarista, provocandone quella «cattiva coscienza» che è poi anche
causa del processo autocritico dello stesso marxismo, delle «epurazioni» in seno a partiti e regimi
comunisti, e che, nell'Europa occidentale, si manifesta invece nella diffusa «cattiva coscienza del
potere», tante volte denunciata, causa prima del «permissivismo». L'aspirazione anti-ideologica, così
ovunque diffondendosi, finisce col decristallizzare progressivamente e rimettere in movimento storico i
vecchi istituti, i partiti ideologici, le dottrine e gli abiti mentali creati dai precedenti «momenti»
dell'evoluzione della tendenza egalitarista. Tutto - per parlare col gergo attuale - diviene «progressista»,
«va a sinistra», non escluse le Chiese cristiane. La teologia stessa, seppure con movimento pendolare,
tende sempre più verso un monoteismo «astratto», svuotato d'ogni «miticità» e d'ogni «ideologismo»,
ciò che nella prassi ecclesiastica dovrebbe permettere di riedificare l'ecumene d'un tempo e addirittura
di allargarla a monoteismi non cristiani come l'islamismo e il giudaismo. I partiti politici egalitaristi
costituiscono fronti a tendenza anti-ideologica, seppure soltanto negativamente, riconoscendosi
solidariamente nella «tendenza antifascista» coi cosiddetti «fronti della resistenza» o «archi
costituzionali»; mentre il «socialismo», seppure latamente e variamente inteso, comincia a divenire più
o meno esplicitamente un comune «fine immediato».

Wagner ante Nietzsche

Questo processo, largamente constatato nell'attualità, sarebbe stato e sarebbe - si può pensare -
ancora più rapido e più vasto, se Marx, nel fondare 1'«espressione anti-ideologica» non avesse
commesso l'errore (forse difficilmente correggibile in Europa) di concepire il «comunismo» come una
rottura assoluta con tutto il passato occidentale, di non comprendere che la «sintesi finale» cui il
marxismo aspira deve riprodurre concettualmente quella stessa unità dei contrari con la quale la
tendenza egalitarista aveva storicamente fondato se stessa nel «mito» cristiano, che cioè - insomma - il
marxismo non deve negare e reprimere l'istinto tendenziale dal quale attraverso un secolare processo è
scaturito, se davvero vuole un giorno costituirsi in piena autocoscienza storica della tendenza
egalitarista, bensì elevarlo a sé ed affermarlo in sé. E’ da questa esigenza, più o meno chiaramente
percepita, che scaturiscono gli appelli di pensatori come i maestri della scuola di Francoforte [alias]
(Horkheimer, Adorno, Bloch) e, ad un livello più ingenuo, le vociferazioni di alcuni «nuovi filosofi»
francesi (André Glucksmann, Bernard-Henri Lévy [alias]), i quali tutti raccomandano di «ritrovare»,
astrattamente trasceso, il «Geova» della Bibbia, liberato dalla sua maschera indoeuropea di Deus Pater
(Jupiter, Zeus Patér, Tiu). Questi pensatori, sia incidentalmente notato, sono tutti ebrei e dimenticano,
certo ad arte, che il Dio Padre cristiano, se certamente non è il Deus Pater indoeuropeo, è però un
«Geova» già trasceso, non astrattamente bensì storicamente, e che è questo dio, cristiano e non più
ebreo, a dover essere semmai astrattamente trasceso dalla sintesi anti-ideologica egalitarista.

L'«errore» di Marx, ereditato da una delle ideologie della Rivoluzione francese (ateismo e culto
della «Dea Ragione») e dalla sinistra hegeliana, ha non già causato bensì più o meno facilitato un
capovolgimento del movimento d'evoluzione di frazioni delle vecchie cristallizzazioni della fase di
espressione mitica e, anche, ideologica della tendenza egalitarista, così indotte a tentativi assurdi di
recupero di momenti storici superati: sogno comune a molti romantici (cfr. Novalis) di un ritorno
all'«ecumene cattolica» dell'Europa medioevale o all'Europa delle monarchie di diritto divino, sogno
rispecchiato anche ai nostri giorni da talune concezioni politiche o religiose, certo non importanti ma
difficilmente riducibili. Ma, quel che e più importante, la reazione così provocata ha anche avuto la
conseguenza di rendere gruppi umani d'Europa sempre più sensibili, in un primo momento, alla «forma
mitica» della nuova tendenza sovrumanistica e poi, attraverso il sentimento di questa parentela formale,
al contenuto stesso del mito sovrumanista (in virtù d'una eccitazione del processo di mutazione del
residuo pagano incosciente): ciò che ha permesso alla tendenza sovrumanista di manifestarsi con forza
anche sul terreno politico. Nelle attuali circostanze, infatti, un aspetto dell'«azione» della tendenza
sovrumanistica è proprio questo: di capovolgere il senso dell'evoluzione delle cristallizzazioni mitiche
e ideologiche della tendenza egalitarista, là dov'esse sono ancora conservate, facendole regredire al di
là della loro «soglia memoriale» (riproducente nella coscienza degli individui il momento storico in cui
la tendenza stessa si costituì) e così indurle in involuzione ciclica parastorica, con produzione di un
nuovo tipo umano ripetibile, destinato ad essere conservato (e cioè sempre riprodotto) socialmente, tipo
che la strutturazione sociale implicata dal «progetto sovrumanista» per l'appunto prevede (insieme ad
altri), così come chiaramente traspare nella formulazione che Nietzsche [alias, alias] nei suoi ultimi
scritti ha dato a quel progetto.

Si può anzi dire che l'involuzione ciclica delle attuali cristallizzazioni della fase mitica della
tendenza egalitarista (o - più esattamente - la produzione di questa involuzione) costituisca uno degli
elementi essenziali del «progetto sovrumanista». Nietzsche stesso si era interrogato sull'opportunità di
«conservare per le masse il cristianesimo», ma non ha in alcun modo intuito che questa
«conservazione» dovrebbe essere in realtà «mutazione regressiva» e tanto meno si è posto il problema
di come «produrla». Invece Richard Wagner [alias, alias], manifestando a questo proposito la sicurezza
istintiva del suo immenso genio, ha offerto col Parsifal [alias] - sul piano artistico che era il suo - il
paradigma perfetto dell'azione volta a far regredire la religiosità cristiana al di là di quella soglia
memoriale, dove essa poi, ritrovandosi priva del suo contenuto, diviene religiosità pura e forma vuota
disponibile per un contenuto nuovo (cfr. il capitolo quarto; queste ultime considerazioni concernenti la
possibile, non necessaria, mutazione regressiva delle cristallizzazioni d'una tendenza epocale - è bene
avvertirne il lettore - esulano dalla vera e propria analisi della situazione epocale e si inquadrano
invece nella analisi della produzione della storia, sezione della teoria aperta della storia che affronta i
problemi «metapolitici». Esse anche sfiorano poi un'altra specifica problematica della teoria, che è il
rapporto fra storia e parastoria, cioè fra l'azione storica dell'umanità ed una evoluzione biologica della
specie umana guidata riflessivamente dall'uomo in quanto storicità - e fin dal suo primo apparire -,
rapporto dal quale scaturiscono poi fenomeni che la teoria affronta più particolarmente con l'analisi
della psiche socio-storica, o psicologia socio-storica).

***

Questa succinta esposizione della teoria aperta della storia e del suo metodo di analisi epocale è
stata deliberatamente accompagnata da esemplificazioni concrete concernenti l'evoluzione della
tendenza egalitarista. Poiché una tendenza storica può essere pienamente compresa soltanto nel suo
confronto con la tendenza antagonista, le esemplificazioni apportate dovrebbero facilitare al lettore la
«comprensione» del «mito sovrumanista». Questo saggio su «Wagner, Nietzsche e il mito
sovrumanista» non estende il suo studio a tutte le manifestazioni della tendenza sovrumanista fino ai
nostri giorni, ma lo limita alle origini della tendenza in questione, cioè alla rappresentazione originaria
che del «mito sovrumanista» ha dato Richard Wagner [alias, alias] e poi anche, ma schematicamente,
alla prima formulazione di questo mito nell'opera di Friedrich Nietzsche [alias, alias].
Alla luce del concetto di «tendenza» appariranno chiaramente l'intima parentela tendenziale
dell'opera di Wagner e di quella di Nietzsche, le quali costituiscono per così dire i due poli in virtù dei
quali la tendenza sovrumanista ha creato nella nostra epoca il suo «campo mitico». Su questa parentela
conviene insistere in modo particolare, giacché proprio Nietzsche ha operato una vasta manovra di
occultamento nell'intento di far credere - e forse in primo luogo a se stesso - che la sua opera si
distinguesse ed anzi si opponesse, nella sua «finalità», a quella di Richard Wagner. Questa manovra ha
largamente influenzato, spesso in modo determinante, il giudizio di filosofi ed intellettuali,
naturalmente portati a prestare all'opera «intellettuale» di Nietzsche un'attenzione più profonda di
quella riservata all'opera «artistica» di Wagner. Per di più proprio l'intellettuale può rivelarsi
costituzionalmente «sordo al mito» e così, non cogliendolo né nell'opera di Wagner né in quella di
Nietzsche, ritrovarsi nella incapacità di discernere l'identità tendenziale di queste due opere. Ma per
l'appunto: se non si lacera la cortina di occultamento stesa da Nietzsche sulla vera origine del «mito
sovrumanista», è la comprensione stessa di questo «mito» e della sua struttura ad essere
irreparabilmente compromessa. La chiave della comprensione del «mito sovrumanista» sta infatti -
come vedremo - in quella «idea della musica» che sorregge e struttura l'opera artistica di Wagner e che
è il simbolo esistente della tridimensionalità del tempo della storia.
LA «PROSPETTIVA WAGNERIANA» SULLA MUSICA EUROPEA
«Dagli abissi dionisiaci dell'anima tedesca è riemersa una forza che non ha nulla in comune con le
fondamenta della cultura socratica, una forza che queste fondamenta non potrebbero spiegare né
giustificare; anzi: una forza in cui questa cultura avverte qualcosa di inspiegabile, di terrificante, di
ostile per eccellenza. Intendo qui parlare della musica tedesca, così come noi dobbiamo comprenderla,
nella sua possente traiettoria solare da Bach a Beethoven, da Beethoven a Wagner». (Friedrich
Nietzsche, L'origine della tragedia dallo spirito della musica [versione originale Web])

Un linguaggio cifrato

Ogni discorso su Wagner diviene - fatalmente - discorso sulla musica europea, sul posto che
questa musica occupa nella civiltà in cui viviamo ed anzi (come già si constata con Nietzsche [alias,
alias] e poi fino ad Adorno) sul destino stesso di questa civiltà. La ragione di ciò va ritrovata nel fatto
che l'opera di Richard Wagner [alias, alias] di per se stessa istituisce una prospettiva storica sulla
musica europea, della quale pretende chiarificare origini, sviluppo, coronamento. A tutti, o quasi a tutti,
è divenuto chiaro che l'edificio della musica europea, costruito nell'arco di due secoli sulla base del
cosiddetto sistema tonale, trova in Richard Wagner il suo ultimo architetto; ma l'opera di Wagner è
qualcosa di più d'un semplice compimento e coronamento ed anche qualcosa di più di quell'ultima,
grandiosa sintesi che Friedrich Nietzsche [alias, alias] scopriva nell'ascoltare l'ouverture dei Maestri
Cantori di Norimberga. Nella sua aspirazione, quest'opera è superamento della musica, fondazione di
un mito antico e purtuttavia nuovo, rigenerazione della storia.

Wagner non è soltanto un musicista e non è un musicista come gli altri. Egli vuol essere ed è
Wort-Ton-Dichter, «poeta in virtù del verbo e del suono» - e del gesto anche, elemento indispensabile
per la realizzazione del Gesamtkunstwerk, dell'opera d'arte totale. È l'«idea della Musica» a imporre a
Wagner il suo fine, ma questo fine è situato al di là della stessa musica, giacché abbraccia un Rein-
Menschliches, che è pienezza, perfezione, riconquista e superamento dell'umano. La musica, che per
Wagner è linguaggio dell'inconscio, risulta necessariamente superata non appena, con Wagner e grazie
a Wagner, 1'«idea della Musica» da inconscia che era diviene cosciente e può riconoscersi nello
specchio del Mito oramai fondato. Così, implicitamente ma con forza, l'opera di Wagner anche intende
rivelare il vero significato della musica europea, offrire la chiave di questa musica. Nella luce gettata
dall'opera di Wagner, l'avventura della musica europea appare come il lungo cammino conducente a
quel mito che Wagner «rappresenta».

Analogamente al sogno, la musica tonale si rivela linguaggio cifrato di un «inconscio» il cui


discorso, sottratto - dalla sua apparente insignificanza - a qualsiasi censura da parte d'una coscienza
sociale e individuale che gli sarebbe violentemente ostile, può così segretamente veicolare in seno alla
civiltà europea un nuovo «sentimento del mondo», rendervelo storicamente «possibile» e dunque
capace di trasformarsi un giorno in nuova «idea del mondo». Questo «inconscio», che attraverso la
musica tonale vuole farsi intendere, altro non è - nel linguaggio della «teoria aperta della storia» - che il
«residuo» di una tendenza pre-epocale, repressa dal cristianesimo egalitarista; ed è proprio la coscienza
cristiana, sociale ed individuale, che subito sarebbe portata a reprimere - laddove lo intendesse - il
discorso musicale scaturente da quel «residuo», che è residuo pagano. Attraverso la musica tonale e
grazie ad essa, questo «residuo» (che Wagner a ragione chiama «inconscio») virtualizza un suo
processo di mutazione qualitativa destinato a trasformarlo in nuova tendenza epocale: ciò che di fatto
avverrà il giorno in cui, il Suono fondendosi con il Verbo, questa tendenza nuova si rappresenterà nel
suo Mito e con ciò stesso si fonderà storicamente. Nella prospettiva wagneriana, il Mito nasce dinanzi
ai nostri occhi dallo spirito della Musica, «aus dem Geiste der Musik»; lo sviluppo della musica tonale
si rivela lunga gestazione del Mito ed il Mito nuovo, «idea del Mondo», scaturita dal «sentimento del
mondo» proprio della musica tonale. Non appena questo Mito è «rappresentato», la missione storica
della Musica è compiuta e la Musica (tonale) stessa trova il proprio coronamento storico.

La storia della musica europea è - limitatamente a se stessa - anche storia di un linguaggio


cifrato che ha creato se stesso, così come anche fa il mito. Dal momento in cui questa autocreazione è
terminata, la musica europea in quanto La «prospettiva wagneriana» sulla musica europea linguaggio
cessa di parlare, non può più parlare e soltanto può essere parlata. Proprio per questo, dopo Wagner, il
bisogno di autentica creazione originale ha indotto tanti musicisti a rinunciare a quel linguaggio,
confuso a torto col sistema tonale stesso, per andare alla ricerca d'un nuovo mezzo d'espressione. Il
caso non è nuovo nella storia. La poesia epica fu anch'essa linguaggio autocreantesi, mezzo
d'espressione delle nascenti società da cui scaturirono le «grandi civiltà» succedute alla rivoluzione
neolitica; Omero ne fu l'ultimo testimonio per quanto concerne la «civiltà classica»; dopo di lui l'epos
soltanto poté essere «ripetuto» o magari divenire, grazie alla riflessione critica, una sorta di parodia
nostalgica all'Ariosto, un lamento su un mondo perduto. Omero non fu peraltro il creatore del mito
ellenico, di cui la sua opera offre soltanto un'ultima eco, prima che questo mito finisse con
l'ideologizzarsi nelle filosofie presocratiche. Richard Wagner [alias, alias], per contro, ri-crea un mito
abolito, che, grazie a questa rigenerazione, diviene altra cosa da quel che era stato, così come la
coscienza è cosa diversa dall'istinto. Forse proprio per questo Herbert von Karajan ha una volta
dichiarato di considerare Wagner «più grande» di Omero e «più completo»...

Indubbiamente, la «prospettiva wagneriana» non è che una tra le tante prospettive storiche che è
possibile istituire ed aprire sullo sviluppo e la storia della musica europea. Ma essa si impone a noi,
nella misura stessa in cui l'opera di Wagner ci appare come una svolta decisiva - e magari conclusione -
di questa storia. Anche in questo caso, tuttavia, quasi sempre prevale la tentazione di ignorare la
«prospettiva wagneriana», giacché essa dischiude una visione che disturba e sconvolge troppe e troppo
confortevoli abitudini mentali, ad un punto tale da poter essere risentita come un'offesa, come una
ingiuria. È che la «prospettiva wagneriana» spoglia la musica della sua «innocenza», della sua
neutralità, ed in modo ben più profondo e radicale di quanto non si sforzino di fare le miopi analisi
sociologiche di tipo marxista: essa rivela nella musica l'origine prima di un conflitto storico
concernente il destino dell'uomo, un conflitto che per i filosofi si riallaccia al nome ed all'opera di
Friedrich Nietzsche [alias, alias]: ma, per l'appunto, Nietzsche, senza Wagner, sarebbe «inconcepibile».
L'opera di Nietzsche, «filosofia-del-martello» che intende dinamitare la civiltà giudeocristiana,
scaturisce in modo diretto dal mito forgiato in musica da Richard Wagner (e poco importa, a questo
punto del discorso, di sapere se questa filiazione ebbe luogo per «prolungamento», come io sostengo,
oppure per «reazione», come Nietzsche stesso si sforzò di credere e volle far credere).

E’ comunque evidente che non si può comprendere l'idea che Wagner aveva della sua opera e
dunque l'ambizione di questa opera, se deliberatamente non si adotta la «prospettiva wagneriana» sulla
musica. In Wagner l'enchanteur (La Baconnière, Neûchatel, 1965), Jean Matter osserva a proposito di
certe affermazioni di Adorno: «[Questo] musicologo spesso sembra attendersi da Wagner quel che
Wagner mai ebbe l'intenzione di creare. La maggior parte dei suoi giudizi sono formulati a dispetto dei
dati stessi della storia della musica (i quali costituiscono, per quanto concerne Wagner, un ciclo chiuso)
e pretendono rifare questa storia su nuove basi e da un punto di vista, diciamo: marxista, che non fu
mai e non poteva essere quello a partire dal quale Wagner realizzò la sua opera». Nel caso di Wagner,
mettere in luce le intenzioni per meglio comprendere ed apprezzare l'opera, significa per l'appunto
adottare la «prospettiva wagneriana», cioè «osservare» l'opera di Wagner - e, preliminarmente, la storia
stessa della musica europea - all'interno di quel «cerchio chiuso» che la prospettiva wagneriana
evidenzia e mette a fuoco; e per converso ritrovare nell'opera artistica di Wagner la luce che illumina e
«spiega» questa storia. Va da sé che assumere la prospettiva wagneriana anche significa, per un
«osservatore» immerso nel divenire storico, prolungare fino a se stesso ed al proprio tempo quella
prospettiva, assumendola «sperimentalmente». Che ciò equivalga a «prendere parte» (e partito) pro o
contro Wagner non stupirà nessuno: non s'è mai cessato e mai si cessa di prendere partito pro o contro
Wagner. Ed anche ciò, Wagner lo ha voluto.

Unicità della musica europea

Quel che noi chiamiamo qui, per definizione, «musica europea» costituisce nella prospettiva
wagneriana un tutto il cui divenire va da Bach [alias] a Wagner. Bach e Wagner non rappresentano in
questo discorso limiti cronologici stricto sensu, bensì poli di riferimento: Bach ha avuto precursori e,
ancora dopo Wagner, la «musica europea» ha continuato ad iscrivere sulla sua parabola splendidi,
affascinanti capolavori (e basti, a tale proposito, pensare ad Anton Bruckner e a Richard Strauss). In
virtù del suo carattere proprio, la musica europea pone, in modo immediato, un fondamentale
problema, quello della sua unicità, da tutti sentita e spesso riconosciuta anche da coloro che peraltro le
rifiuterebbero all'occorrenza il significato di cui la prospettiva wagneriana l'investe. Walter Wiora, che
la chiama «musica occidentale», scrive a questo proposito: «Ciò che s'intende quando si parla di
musica occidentale, non è tutta la musica in Europa dalla preistoria ai nostri giorni, è una
concatenazione che ha inizio ai tempi dei Carolingi e si prolunga fino all'epoca contemporanea [...]
Non è un fenomeno essenzialmente geografico, bensì storico. Essa non costituisce un tipo di cultura
musicale come se accanto ad essa esistessero altri modelli dello stesso tipo, ma è un genere unico,
quanto mai particolare. I suoi risultati ed i suoi prodotti sono storicamente unici, non trovano replica
altrove [...] Indipendentemente dalla soppressione del colonialismo, la teoria musicale occidentale è
divenuta la base d'ogni insegnamento musicale nei cinque continenti ed un florilegio delle sue creazioni
costituisce l'essenziale della letteratura musicale mondiale... » (Die vier Weltalter der Musik).

Sebbene proclami così implicitamente che non esiste altra letteratura musicale all'infuori
dell'europea, Walter Wiora non sa peraltro offrire una valida, soddisfacente definizione dell'unicità di
questa musica. Egli si limita ad osservare: «La musica occidentale costituisce nella storia dell'umanità
l'analogo di quel che la Grecia ha fatto nel campo della scultura, dell'architettura, della logica e delle
matematiche: essa ha stabilito strutture classiche di carattere universale. In nessun'altra civiltà la
melodia cantata ha avuto un simile sviluppo ed è pervenuta ad una tale supremazia; in nessun altro
luogo sono state costruite strutture architettoniche su temi e motivi concisi...» (ibid.). È un discorso
vago e contorto, non convincente: i dati d'ordine quantitativo messi in evidenza non bastano per
spiegare la differenza qualitativa. In realtà - lo premetto subito - il fatto essenziale è che, ovunque
altrove, la musica ha rivestito una funzione ancillare, subalterna, ornamentale in relazione ad altri
mezzi di espressione artistica, laddove in Europa essa ha voluto invece divenire autonoma, significativa
di per se stessa.

Un altro musicologo, Thrasybulos G. Georgiades (Musik und Sprache, Springer, Berlin, 1954),
si avvicina sensibilmente alla verità allorquando afferma che la musica europea «è una continua
Auseinandersetzung (dialogo e insieme conflitto) fra la Musica e il Verbo in quanto fenomeno originale
dello Spirito». Curiosamente (forse in omaggio alla sua origine greca), Georgiades adotta una
concezione più «geografica» che «storica» della musica europea e ne colloca gli inizi nell'antica Ellade;
ma poi è costretto a constatare che «con Bach tutto diviene altra cosa», che con Bach la musica europea
acquisisce un carattere fondamentalmente differente. «Dal canto gregoriano fino a Schütz» egli annota
«la composizione mirava soprattutto alla realizzazione musicale del linguaggio. Un aspetto determinato
della sonorità del linguaggio veniva preso in considerazione, fissato musicalmente, messo in primo
piano. Con Bach, tutto ciò cambia: oramai l'oggetto della musica non è più il linguaggio, ma il senso, il
significato che il compositore scopre dietro il linguaggio ed al di là del linguaggio». E, in un commento
della Messa in si minore di Bach, Georgiades aggiunge: «Qui, una memoria al massimo grado creativa
si è messa all'opera. Sarebbe impossibile fare a meno di un solo elemento. E’ l'insieme degli elementi
del discorso che fa sorgere in noi la coscienza dell'unico senso, che, superandoli, li organizza tutti».
Pare quasi impossibile che Georgiades non tragga la conclusione che logicamente scaturisce dalle sue
constatazioni; ma ciò è forse dovuto al fatto che egli attribuisce alla «coscienza» quel che in realtà è
opera di un istinto incosciente. Di fatto, se il compositore «scopre un senso dietro ed al di là del
linguaggio», ciò avviene perché egli sente che il linguaggio (la parola) è incapace di dire il vero senso
e d'altra parte crede di poter affidare alla musica l'espressione di questo vero senso.

Oscuro ma vivace, questo sentimento nuovo dell'«impotenza» della parola scaturisce,


all'indomani della Riforma, da un conflitto fra coscienza sociale dominata dal Verbo cristiano ed
inconscio: è che il linguaggio (ricevuto) è conformato oramai pienamente dal Verbo cristiano e dice
così un senso che non è quello voluto da un inconscio, nei cui abissi l'antico «residuo» pagano s'è una
volta di più ridestato ma, questa volta, per entrare in mutazione e dire un suo «senso nuovo». Se, d'altra
parte, il «residuo» pagano tenta adesso di esprimere il suo «senso nuovo» soprattutto attraverso il
mezzo musicale, è che la musica è divenuta potenzialmente significativa e per di più, nel contesto
sociale ostile, si configura come un linguaggio cifrato, la cui chiave è detenuta soltanto dall'inconscio,
sicché la coscienza stessa del compositore per lungo tempo ancora non perverrà a decifrarlo.

La musica era divenuta capace di significazione grazie alla costituzione del «sistema tonale»,
perfezionato dal «temperamento» di Werckmeister: cosicché il problema della unicità della musica
europea deve essere preliminarmente abbordato in termini puramente tecnici. Max Weber, il grande
sociologo tedesco, lo aveva perfettamente compreso: «Perché mai - egli chiede - la musica armonica,
scaturita quasi ovunque dalla polifonia popolare, s'è sviluppata unicamente in Europa [...] allorquando,
ovunque altrove, è sfociata su una divisione non perfetta degli intervalli e, quasi sempre, su una
divisione della quarta anziché sulla divisione armonica (che è quella della quinta)?». Sul piano
«storico» una sola risposta è possibile: ciò è accaduto, perché in Europa esisteva una particolare
«sensibilità», legata a un certo tipo umano, una sensibilità che - in un mondo che la reprimeva - si era
sforzata di creare un proprio linguaggio segreto e, forgiando a poco a poco il «sistema tonale», lo aveva
trovato infine nella musica.

Il ponte da Bach a Wagner

Siamo qui giunti al nocciolo del problema. La musica che la Chiesa aveva imposto all'ecumene
cattolica riposava su una tradizione pseudo greco-romana d'origine mediterraneo-orientale, a proposito
della quale si può parlare di sensibilità musicale precipuamente melodica. Peraltro, a partire dall'epoca
dei Carolingi, un'altra sensibilità musicale, armonica questa, comincia a farsi strada nell'universo fin là
chiuso della musica ecclesiastica. Qual era la sua origine? Nella sua Storia della musica nell'ambiente
culturale europeo (Das Atlantis-Buch der Musik, Atlantis, Zürich-Freiburg i.Br., 1934 e 1959), Fred
Hamel parla, a proposito dei popoli del Nord-Europa, di una «cultura musicale indigena (...) veicolante
una tradizione pagana», cultura e tradizione che la chiesa cristiana non poteva non considerare come
una «forza reazionaria ostile» e che, dunque si sforzò di reprimere nella più ampia misura possibile,
riuscendo per secoli e secoli a confinarla in una pratica popolare malamente tollerata. La «sensibilità
armonica» pervenne tuttavia ad abbattere progressivamente le mura del ghetto in cui s'era voluto
imprigionarla e ad «invadere» perfino le forme stesse della musica ecclesiastica. È da questa
opposizione fra la Chiesa e la «cultura musicale indigena» del Nord che scaturisce la
Auseinandersetzung messa in evidenza da Georgiades - e dalla quale emergerà poi, sul filo dei secoli, il
nuovo sistema tonale.
Prima tappa verso questo emergere è quella che, a partire dalla monodia, conduce alla polifonia
ed alle prime acquisizioni di una dimensione armonica della musica. «Naturalmente - osserva a tale
proposito Fred Hamel - questo avvenimento elementare che conferisce all'esperienza musicale vissuta
nuove dimensioni spaziali è dovuta a importanti ragioni, che si ricollegano ad un complesso fisiologico
e fors'anche razziale. Per spiegarle, si è parlato di Dreiklangsgefühl (sensibilità armonica) proprio degli
abitanti del Nord dell'Europa. Le più antiche testimonianze musicali concernenti il mondo germanica e
celtico non si lasciano inquadrare nel sistema dei modi ecclesiastici, ma si ricollegano a complessi
melodici in maggiore, fondati sulla terza e l'accordo maggiore. È il caso, questo, delle arie per corno
alpino degli Jodler svizzeri, di numerosi canti di. trovatori e Minnesänger e, in modo particolarmente
evidente, degli antichi Volkslieder tedeschi come In dulce jubilo o Den die Hirten loben sehre. A questi
dati misteriosi, non ancora chiariti perfettamente, s'aggiunge il fatto che le lure, gli antichissimi ottoni
germanici, sono stati ritrovati sempre in paia, mentre d'altra parte i canti popolari norvegesi fin
dall'inizio si presentano come concatenazioni di terze. Va ancora aggiunto che lo scrittore e filosofo
Scoto Eriugeno testimonia per il suo Paese, già verso la metà dell'XI secolo, l'abitudine del canto a due
voci, ciò che Giraud di Cambrai conferma tre secoli più tardi per la stessa Scozia, il Galles e
l'Inghilterra settentrionale; e che poi nel XIII secolo il Canone d'Estate inglese (Sumer is icomen in),
una delle prime manifestazioni di polifonia artisticamente compiuta, si culla in una serie di cadenze
purissime in mi maggiore...» (op. cit.).

Questo lungo periodo, in cui il sistema totale progressivamente s'elabora fino alla decisiva
invenzione del temperamento abbraccia la preistoria della musica europea. I «segni», le «parole» -
potremmo dire - già esistono: ma il significato di questi segni deve ancora essere scoperto o, meglio,
inventato; esiste una lingua potenziale, ma ancora non è parlata. Questa lingua, come ogni altra lingua,
costituisce in modo implicito una visione-del-mondo (fra tante altre). Il discorso di questa visione-del-
mondo esiste potenzialmente; ma ancora deve essere pronunciato, ancora deve essere detto: e, a dirlo,
sarà la musica europea. La prima manifestazione autentica di questo discorso interviene con Johann
Sebastian Bach [alias]. L'illustre musicologo Werner Kuntz, come egli stesso constata nella
introduzione al suo saggio Die Brücke von Bach zu Wagner (Kohlhammer, Stuttgart, 1965), è stato il
primo a mettere perfettamente in luce «la legge intima, la correlazione inevitabile» che presiede «allo
sviluppo della musica da Bach a Wagner», a considerare la musica europea, nel suo insieme, come una
«grande unità», una «costruzione» oggi perfezionata ormai, un «ponte lanciato tra questi due grandi
pilastri d'angolo (cioè tra Bach e Wagner) e ricollegante, con rigorosa architettura, di pilone in pilone,
tutte le grandi creazioni intermediarie». Per Werner Kuntz - ed io sono totalmente d'accordo con lui - la
musica europea è un «unico discorso», il cui insieme costituisce forse quella stessa Decima Sinfonia di
cui Beethoven sognava.

In quanto sviluppo progressivo, la musica europea è agli occhi di Kuntz il risultato di una
«invasione progressiva della materia sonora, che è il sistema tonale, e dell'architettura naturale
oggettiva, che essa di per sé costituisce, da parte della soggettività specifica del compositore». Da
questo punto di vista, la musica europea (considerata come un insieme) si presenta - secondo Kuntz -
come una sorta di «campo magnetico con due poli»: il polo oggettivo dell'omogeneità universale
(poiché tutto ciò che è risale ad una identica elementare natura) ed il polo soggettivo della specificità
individuale. Il primo rinvia alla categoria, il secondo all'entelechìa, che è la legge singolare regolante
lo sviluppo, il divenire, l'unità intima dell'individuo. Il sistema tonale - spiega Werner Kuntz - «così
come s'è cristallizzato in modo visibile sulla tastiera [del pianoforte «ben temperato]», rappresenta
l'intimo ordine formale, infine scoperto, di questi materiali della musica che son le note; e poiché la
materia conforma lo stile, accade che la tastiera canti di per se stessa, che ogni accordo ed ogni
sequenza di note siano già, da soli, musica...». « A risonare qui - egli aggiunge - è un ordine pitagorico,
un senso dell'universo... [Ma] noi vogliamo qualcosa di più della semplice materia e della forma che
immediatamente se ne sprigiona. Se lo spazio della musica [europea] è uno spazio finito, e che oramai
ci è dato completamente, se il paragone col campo magnetico può essere mantenuto, allora la preistoria
di questa musica è proprio il cammino che [...] conduce al primo polo, quello dell'omogeneità o della
categoria. Fin quando questo polo non è raggiunto, noi restiamo nel campo della Materialmusik (di una
musica-della-materia). Ma non appena il primo polo è raggiunto, ce ne accorgiamo immediatamente,
giacché subito l'altro polo, quello della specificità o entelechia, entra in risonanza. I due poli hanno in
effetti una stessa identica essenza; l'uno non esiste che in relazione all'altro ed è soltanto la loro
completa interpenetrazione a costituire l'essere. La storia della musica perviene al polo dell'omogeneità
nel momento in cui la materia musicale è matura ormai per un fiorire della forma specifica da cui è
abitata. Essa non ha peraltro inizio vero che quando penetra all'interno di questo polo: avvenimento
tradotto dal fatto che oramai non è più il materiale sonoro a cantare per virtù propria e per la sua stessa
forma, bensì è il sentimento umano a conferire un'anima ai suoni. Tutta un'architettura scaturisce allora
dalla conformazione dei materiali sonori; ed alla sintesi infinita dell'universo che son le note s'impone
ormai un'unità plastica, simmetrica. Noi abbiamo infine musica nel senso pieno della musica europea;
non più soltanto una cosmica musica-di-sfere, bensì un'allegoria del cosmo, architettonicamente
compiuta » (ibid.).

Non è forse inutile aggiungere che Kuntz non pensa in alcun modo a negare l'esistenza di
«precursori» di Bach, di compositori cioè, che, prima di Bach, seppero anch'essi infondere un'anima
nella loro musica. «In ogni tempo da quando la musica esiste - egli precisa - sono state create, di tanto
in tanto, opere isolate che l'energia entelechiale dell'anima umana ha saputo innalzare al rango di opere
d'arte. [...] Ma ciò accadeva sporadicamente, senza estensione significativa, poiché le necessarie
premesse non esistevano ancora né nel materiale sonoro disponibile, né nelle forme tipiche della
composizione musicale...» (ibid.). Werner Kuntz, che ha il genio delle analogie, ne istituisce qui una fra
l'architettura e la musica e fra la storia dell'una e dell'altra. La scoperta, o - per meglio dire -
l'invenzione delle forme geometriche - egli afferma - costituisce il materiale dell'architettura: e sono
precisamente queste forme a «cristallizzarsi» nei primi grandi monumenti umani, piramidi d'Egitto
oppure cilindri di semplici colonnate. Ma questo abbandono estatico all'ordine geometrico non è ancora
architettura vera e propria, arte; quest'ultima appare, in Europa, soltanto col tempio dorico, grazie al
quale ancor oggi l'anima ellenica parla alla nostra. Parallelamente nel campo della musica già tonale,
prima di Bach, noi troviamo soprattutto e quasi esclusivamente «abbandono alle pure forme
dell'armonia, gioia ed orgoglio della scoperta»; l'anima umana è allora immersa nel seno della
«materia» musicale e vorrebbe come annientarvisi. All'interno di queste forme, un'anima umana a volte
tenta di far vibrare la propria specificità, e magari con successo: il « tempio dorico » della musica,
tuttavia, fa la sua apparizione soltanto con Bach.

Il sistema tonale

Nella prospettiva proposta da Werner Kuntz, lo sviluppo della musica europea va, da
un'architettura già specifica (entelechiale) ma ancora legata potentemente alle forme suggerite dalla
natura stessa della materia tonale, ad una «architettura» quasi totalmente «in-formata» dal principio di
specificità o entelechia e nella quale le forme naturali della «materia» soltanto sussistono come
«fondamenta sotterranee della costruzione». Parallelamente a questa evoluzione, si sviluppa
un'esplorazione sempre più spinta delle possibilità di espressione inerenti al sistema tonale, fino al
punto in cui, con Liszt e con Wagner [alias, alias], gli ultimi limiti sembrano raggiunti.

Ci sarebbe dunque, da una parte, espansione progressiva della specificità entelechiale,


soggettiva - ma sempre entro i limiti della legge categorica, oggettiva - e, dall'altra, sfruttamento
sempre più ardito delle possibilità del «sistema». È stato preteso che proprio questo «sfruttamento»
avrebbe finito con lo «svuotare il giacimento», così da disgregare e distruggere il sistema tonale.
Werner Kuntz, dal canto suo, si limita a constatare che, effettivamente, dopo Liszt e Wagner, ed a
dispetto di tentativi grandiosi di conservazione o restaurazione, il sistema tonale s'è come disgregato
nelle mani dei compositori, prima di essere infine abbandonato, quanto meno nel campo della «musica
classica», come se divenuto «impossibile». Kuntz non sembra tuttavia convinto della fatalità di questa
disgregazione del sistema tonale. Le sue risposte al problema tecnico che qui si pone sono sempre
piuttosto ambigue, e magari francamente evasive. Per lui, comunque, la storia della musica europea
giunge alla sua logica conclusione con il mito wagneriano, ultima pietra della «cattedrale, che apre
oramai le porte alla comunità per la celebrazione del culto».

Il problema posto dalla pretesa disgregazione del sistema tonale, può sembrare estraneo ai fini
di questo saggio. Esso merita nondimeno riflessione attenta, non foss'altro che a causa delle sue strette
correlazioni con l'opera di Wagner, o - più esattamente - con le conclusioni che molti hanno voluto
trarne. Al primo approccio, il sistema tonale ci appare come la semplice «rivelazione» dell'ordine
naturale del mondo dei suoni. Gli Elleni ne avevano intuito l'esistenza e Pitagora aveva aritmeticamente
diviso lo spazio dell'ottava, immediatamente dato all'orecchio, in dodici piccoli intervalli uguali: i
semitoni. Tuttavia la vera legge dell'armonia restò ignota agli Antichi, i quali non riuscirono mai a
comprendere che i sette modi (diatonici) da essi impiegati potevano tutti essere ricondotti, come
altrettante specifiche modulazioni, al modo di do maggiore, che essi del resto ignoravano. Come i modi
degli Elleni, anche il modo di do maggiore è diatonico; ma ha la particolarità di essere costituito da una
gamma di sette suoni risultanti dalla legge stessa dell'armonia. Non soltanto la terza e la quinta sono
qui le armoniche naturali della tonica e si fondono con essa in un accordo maggiore perfetto, ma per di
più gli accordi maggiori perfetti rispettivamente basati sulla tonica, la sottodominante (quarta) e la
dominante (quinta) restituiscono insieme tutti i sette suoni della gamma. In questa gamma - va
ricordato - gli intervalli sono diversi ed hanno un ordine specifico, che è possibile riprodurre a partire
da uno qualsiasi dei dodici semitoni risultanti dalla divisione pitagorica. Ciò fornisce altrettante tonalità
in "maggiore", ciascuna caratterizzata da un suo «colore psicologico». Esiste inoltre un secondo modo,
in cui figurano in altro ordine le stesse sette note della gamma del do maggiore (ma dove, beninteso, gli
intervalli si susseguono in ordine differente): è il modo di la minore, che può essere anch'esso
riprodotto a partire da ogni semitono. Qui son gli accordi minori perfetti (basati su tonica, quarta e
quinta) a restituire i sette suoni della gamma. E’ facile rendersi conto della ricchezza di «colori» offerta
dal «sistema tonale» edificato su questi due modi, maggiore e minore.

Ma non è tutto: giacché anche entra in giuoco il «temperamento», questo temperamento che nel
nostro secolo tanto è discusso, perché sembra introdurre un «artificio» arbitrario là dove
precedentemente soltanto regnavano ordine naturale e pitagorica armonia di numeri. In cosa mai
consiste il temperamento? Sulla tastiera del piano temperato, c'è un certo numero di tasti. Ora, questi
tasti dovrebbero essere ben più numerosi se si volesse disporre, per ogni tonalità maggiore o minore,
delle «vere» armoniche «naturali» (terze, quinte, ecc.) di ogni suono assunto come tonica. Se i tasti
sono meno di quanti dovrebbero essere, è che per l'appunto il temperamento è intervenuto per
semplificare, assimilando l'uno all'altro certi suoni estremamente vicini (cioè, in termini di acustica, di
frequenza vicinissima). È stato detto che un tale «arbitrio» violenterebbe la natura e, alla lunga,
minerebbe il sistema. A parer mio, una simile affermazione confonde «natura» e «aritmetica». Ad
essere violentata dal temperamento è soltanto l'aritmetica. La «natura» resta perfettamente indifferente
ed anzi, si potrebbe dire, è perfettamente soddisfatta dal «temperamento». La ragione è semplice. Il
suono non è soltanto un «numero», una «frequenza», la sua essenza non è puramente quantitativa; esso
è anche una qualità e questa sua qualità è istituita dall'orecchio umano, il quale sa assimilare e
confondere, in questa unica qualità che è un suono determinato, numerose frequenze immediatamente
vicine, entro «sogli» precisi definiti dalla cosiddetta "legge di Fechner". Il suono, insomma, risulta
insieme da un fatto naturale, quantitativo, e da una «scelta» propria della sensibilità umana. Il
«temperamento» non distrugge dunque un ordine naturale, che di per sé non significa nulla. Al
contrario esso concreta quella Tat, quell'intervento umano, che solo può dare un significato all'ordine
tonale ed alle interrelazioni che vi si creano.

L'altra causa della pretesa disgregazione del sistema tonale (senza dubbio la più importante) è
stata da certuni ravvisata nella invasione del sistema da parte del cromatismo, cosa di cui Liszt e
Wagner sarebbero i massimi responsabili. Poco importa a questo proposito di appurare se, sì o no,
Wagner davvero sia andato «fino ai limiti del tonale» e magari li abbia varcati. E’ sufficiente osservare
che, a lume di logica, non c'è cromatismo che all'interno della «dialettica tonale». Un suono, di per se
stesso, non è né diatonico né cromatico; diviene l'una o l'altra cosa in relazione alla tonalità scelta
all'interno del sistema. Se d'altra parte è quasi inutile richiamare l'attenzione sul fatto che un
cromatismo accentuato è già presente nelle prime opere tonali, quelle di un Bach [alias] per esempio,
importa invece sottolineare che il discorso musicale del sistema tonale non può, nel suo insieme, essere
concepito senza un ricorso alla contrapposizione del diatonico e del cromatico, giacché soltanto questa
contrapposizione crea tensioni «dialettiche» significative. Il sistema tonale è una «lingua», proprio e
soltanto perché struttura in modo sensibile i dati oggettivi naturali, li assume in un mutevole ordine,
strettamente gerarchico, istituente i necessari rapporti fra diatonico e cromatico e, conseguentemente,
fra tonalità e tonalità. E’ grazie alla presenza, nel suo seno, di diatonico e cromatico - e soltanto grazie
ad essa - che il sistema tonale può divenire l'immagine sonora di una realtà universale anch'essa
dialettica non appena diviene per noi significante.

L'«impossibilità» del sistema tonale avvertita e denunciata dopo Wagner da tanti musicisti che
aspirano alla creazione non deve dunque essere ricercata nel sistema tonale stesso, nella sua pretesa
"disgregazione" storica. Una tale «impossibilità» intrinseca non esiste. Lo stesso Schönberg, l'inventore
della musica atonale, lo ha riconosciuto verso la fine della sua vita, affermando che «è ancora possibile
scrivere innumerevoli capolavori in do maggiore». L'affermazione di una tale «impossibilità» dissimula
in realtà un'avversione precisa, cosciente o istintiva, i cui motivi psicologici - come vedremo - sono
molteplici, avversione che spesso è una manifestazione fra tante altre del disorientamento proprio delle
civiltà morenti.

La prospettiva adottata da Kuntz coincide in larga parte con la «prospettiva wagneriana».


L'unicità della musica europea è affermata decisamente, «spiegata»; l'insieme di questa musica è
considerato come un Bau, come una «costruzione» che s'è sviluppata nel tempo della storia, la sua
«entelechia» strutturando ed organizzando tutti gli elementi a mano a mano che appaiono. Lo sviluppo
storico della musica europea è in tal modo assimilato allo sviluppo stesso di ogni opera musicale, dove
il tempo assume la funzione che nelle arti plastiche è propria dello spazio, e la memoria auditiva la
funzione che là è propria dello sguardo: «Du siehst, mein Sohn, hier wird die Zeit zu Raum...» ("Vedi,
figliolo mio, qui il tempo diviene spazio"; Wagner, Parsifal [alias]). Tuttavia il discorso di Kuntz, forse
deliberatamente, abbraccia soltanto il fenomeno musicale europeo in se stesso, facendo astrazione da
qualsiasi «contesto di civiltà» storico e sociale più vasto. A causa di questa limitazione, il discorso
kuntziano pare svolgersi nel regno dell'astrazione e resta sempre più o meno nel vago, facendosi tutt'al
più, nel migliore dei casi, discretamente allusivo. L'invasione progressiva delle «forme materiali» da
parte della «specificità entelechiale» è continuamente sottolineata, messa in luce come unica
spiegazione dello sviluppo e del destino «finale» della musica europea; ma la natura di questa
specificità, il fine di questo movimento entelechiale non sono mai precisati. Solo una volta Kuntz
indica, troppo fugacemente, che la rigenerazione del Mito germanico in cui sfocia con Wagner la
musica europea fu resa necessaria dall'indebolimento del mito cristiano. «La civiltà (Kultur) - egli
scrive - è nuovamente giunta a questa fase di maturazione, in cui il critianesimo, quanto meno nella
misura in cui si esprime attraverso il mito, non può più soddisfare gli spiriti maturi». E poiché «il mito
è indispensabile ai fini dell'educazione della gioventù e dello sbocciare del germe metafisico in ogni
individuo» - Kuntz conclude infine - bisogna dedurre che Wagner ha per l'appunto voluto soddisfare
questa esigenza di civiltà con la sua geniale rielaborazione dei miti del ciclo germanico».

Fornita in questi termini esitanti e vaghi, 1'«analisi» di Kuntz non è certo esauriente. Il merito di
questo musicologo tedesco, di chiara tendenza sovrumanista, è tuttavia immenso, giacché egli ha
saputo porre le questioni fondamentali ed anzi lo ha fatto in modo così pertinente, così perfettamente
articolato e strutturato che, al di là del suo discorso esplicito, le risposte si impongono quasi da sole,
silenziosamente. Se è vero infatti, come è vero, che da Johann Sebastian Bach [alias] a Richard Wagner
[alias, alias] la musica europea costituisce un unico coerente edificio, bisogna allora ammettere che, al
di là delle specificità soggettive personali dei singoli autori - e noi diremo, più precisamente: della
personalità (microstorica) dei singoli autori -, una unica più profonda specificità entelechiale - e cioè:
uno specifico «residuo» pre-epocale - deve aver costantemente guidato lo sviluppo di questa musica,
deve averla animata, organizzata, deve averle conferito il suo significato globale. Se questa musica, nel
suo insieme, è come un campo magnetico di cui Wagner occupa proprio il polo della «specificità
entelechiale» (come Bach quello della «universale omogeneità»), noi potremo dire che, con Bach, un
«residuo» pre-epocale comincia a virtualizzare la propria mutazione qualitativa e che, con Wagner, la
mutazione avviene ed una nuova tendenza epocale si attualizza. Apparirà dunque chiaro che il Mito
forgiato da Richard Wagner non è frutto del caso, d'una fortuita personale espressione, bensì è
l'espressione di una tendenza nuova che in Bach era ancora «residuo» ed è insomma il necessario
«coronamento» di tutta una evoluzione, il fine stesso della mutazione prodottasi. Capovolgendo i
termini, è un altro fondamentale problema che immediatamente si pone. Il «coronamento» wagneriano
della Musica nel Mito e grazie al Mito pretende - ed è Wagner stesso a pretenderlo - essere fatto di
civiltà, fatto storico; Wagner parla di Tat ed anzi di Tat der Musik, di una azione-fatto della Musica che
investe, al di là della storia stessa della Musica, tutti gli aspetti della cultura tedesca ed europea. Ciò è
evidente, una volta ammesso che il Mito è espressione d'una nuova tendenza epocale. Ma ci si deve
chiedere allora perché mai questo «fatto di civiltà», questa Tat, abbia tratto origine proprio dalla
musica, perché mai il nuovo Mito non abbia potuto scaturire da altra fonte che dallo «spirito della
Musica».

In nessun'altra società e cultura la musica ha rivestito la preminente importanza culturale che


essa ha avuto ed ancora ha in Europa. Il fatto che un secolo dopo la sua morte si continui a discutere
Wagner, ad affrontarsi intorno al significato della sua opera, ad insultarlo, «scusarlo» o portarlo alle
stelle, offre testimonianza evidente della sua importanza, del fascino che egli esercita. «Wagner seduce
o ripugna - ha scritto il già citato Jean Matter - suscita l'amore oppure l'odio. Nessun altro artista ha
ispirato simili devozioni. A nessun altro come a lui sono associate simili idee di culto, divinità, tempio,
redenzione...». E Michel-François Demet ha da parte sua postillato: «Wagner non è un compositore fra
tanti altri (...) È il solo ad agire fisicamente su di noi. Confrontati alla sua opera, noi non possiamo
situarci simultaneamente dentro e fuori. Se siamo dentro, la subiamo: se siamo fuori, la odiamo per
averla subita». È, quest'ultimo, il giudizio o meglio il sentimento personale di qualcuno che subisce suo
malgrado un fascino cui vorrebbe sottrarsi. Wagner è amato oppure odiato soprattutto a causa della
potenza del suo fascino. Da questo punto di vista, il suo destino è quanto mai simile a quello del suo
"stellare amico" (Sternenfreund) Friedrich Nietzsche [alias, alias], peraltro con una non irrilevante
differenza. Nietzsche è meglio sopportato, meglio «tollerato» dai suoi avversari di quanto Wagner non
lo sia dai suoi: forse perché, incoscientemente, si è inclini a riconoscere maggiore importanza al
«pericolo» rappresentato da Wagner che a quello rappresentato da Nietzsche. Nietzsche è «soltanto» un
filosofo, quand'anche abbia fatto ricorso a tutti i poteri di seduzione della poesia; egli si indirizza
dunque soprattutto alle intelligenze ed è più facile distorcere o addirittura falsificare il suo discorso.
Wagner, lui, si esprime essenzialmente attraverso la musica, questa musica che parla direttamente
all'«anima», alla sensibilità, alla immaginazione e sempre finisce con il disarmare gli interpreti
malevoli, col renderne penose e ridicole le falsificazioni - ed anzi, magari, col servirsene. Wagner
seduce i suoi stessi avversari, li turba; e Nietzsche, geloso, dirà che egli «rende malati», «avvelena»...

La «Tat der Musik»

Richard Wagner [alias, alias] non ha cessato di affermare che i suoi Musikdramen ed in
particolare Anello del Nibelungo esprimevano «l'idea della Musica», cioè l'idea-del-mondo (ma sa
rebbe più esatto dire: il sentimento, l'intuizione del mondo) che la musica tonale europea porta in sé.
Questa «idea», che conforma l'intera sua opera, si oppone drasticamente all'«idea-del-mondo» propria
della civiltà giudeo-cristiana, espressione della tendenza egalitarista. Th. Georgiades - come abbiamo
visto - parla di una Auseinandersetzung, di un dialogo-conflitto perpetuo fra la Musica ed il Verbo, in
quanto fenomeni originali dello Spirito. Il Verbo cui si riferisce Georgiades (il cui studio concerne
l'evoluzione musicale della Messa) è proprio quel «Logos che era in principio», cioè il «discorso» del
cristianesimo ed il linguaggio stesso che lo veicola, in quanto retto dal λόγος, logos della tendenza
epocale egalitarista che vi si esprime. Goethe, in una frase che ha fatto fortuna («Im Anfang war die
Tat», "All'inizio fu l'azione"), oppone al logos la Tat, l'azione che si oggettivizza in fatto, e Wagner
parlerà di Tat der Musik. Con ciò l'uno e l'altro intendono affermare la preminenza d'una storicità, d'una
personalità umana creatrice, di cui la ragione è in quanto logos al servizio. Ma quando parla di Tat der
Musik, Wagner anche intende parlare d'una azione della Musica che per l'appunto si oppone al Logos
del discorso e del linguaggio imperanti, conformati dalla civiltà giudeo-cristiana.

Se la Musica è in conflitto con il Verbo, è che la Musica di cui parlano Georgiades e Wagner,
cioè la musica tonale a partire da Bach [alias], nasce da una «sensibilità armonica» che è
originariamente quella delle popolazioni germaniche, cioè di un mondo che - non va mai dimenticato -
ha ricevuto il cristianesimo dall'esterno e che talvolta se lo è visto imporre con la violenza. Le
coscienze, in quel mondo, avevano accettato il cristianesimo come un'evidenza o come una fatalità, poi
avevano finito con l'aderirvi più o meno totalmente, per così dire reprimendo le loro convinzioni o la
loro fede anteriori. Allorquando il cristianesimo si fu socialmente affermato, tutto ciò che di non
cristiano ancora restava in vita, fu implacabilmente perseguitato, represso, relegato nelle tenebre
dell'inconscio dalla censura individuale (d'ordine psicologico) e sociale (costituita dal clima sociale ma
anche traducentesi in violenta repressione materiale).

Senza dubbio la resistenza del residuo pagano ancora tentava talvolta di manifestarsi,
riemergendo dall'inconscio individuale e sociale nelle coscienze; ma le sue espressioni, filtrate dalla
censura della coscienza cristiana e costrette ad adottare il solo linguaggio esistente, cristiano anch'esso,
non potevano non trasformarsi in «cattiva coscienza» e così finivano col riconoscersi esse stesse tali,
cioè col riconoscersi - il Medioevo lo mostra bene - «blasfematorie», «sataniche», opera di «magia»,
parodia «nera» (e tale proclamantesi) dell'idea e del rito cristiano. Non poteva essere altrimenti:
«satanico», questo riemergente «residuo» lo era effettivamente, perché pura negazione, perché non
ancora mutato in tendenza nuova, sprovvisto dunque d'un suo «principio» e d'un suo «Verbo», costretto
per esprimersi a capovolgere il Verbo cristiano, solo effettivamente esistente in seno alle società
cristiane. Questo «residuo», di fatto, non poté virtualizzare un proprio processo di mutazione in nuova
tendenza, che a partire dal momento in cui la tendenza egalitarista, nel suo sviluppo storico, passò dalla
fase di espressione mitica alla fase delle ideologie antitetiche: ed è per l'appunto all'epoca della
scissione dell'«ecumene cattolica», della Riforma e della Controriforma, che quel «residuo» abbandona
progressivamente i tentativi che fatalmente lo destinavano a cattiva coscienza, accetta invece il ripiego
totale nell'inconscio e, così virtualizzando un suo processo di mutazione storica, si dota del linguaggio
cifrato col quale parlare unicamente a se stesso, nel segreto dell'inconscio individuale e collettivo, e in
tal modo recupera innocenza e dignità: e questo linguaggio di cui esso si dota, facendolo suo, è la
musica tonale, che la sensibilità germanica aveva a poco a poco elaborato.

L'Europa intera ha partecipato all'elaborazione del sistema tonale, giacché ovunque in Europa
l'elemento germanico era presente (portatovi dalle grandi, successive ondate migratorie cominciate a
partire dal secolo precedente la fondazione augustea dell'Impero Romano) ed anzi ovunque aveva
costituito il nerbo di nuove aristocrazie, creatrici di nuovi stati e nuove nazioni. Nondimeno, proprio a
partire dal momento in cui si costituisce definitivamente il sistema tonale, la sensibilità germanica;
prima ovunque diffusa, è quasi ovunque diluita, indebolita (e Nietzsche sarcasticamente dirà:
«dall'alcool e dal cristianesimo»); le aristocrazie hanno quasi ovunque «dimenticato» la loro origine,
mentre d'altra parte la musica stessa s'è pietrificata nelle forme consacrate dalla liturgia cattolica oppure
s'è vista confinare, insignificante, nel ruolo banale del puro divertimento mondano o dell'esercizio di
virtuosismo. Per contro la «germanità» resta, com'è naturale, ancora viva in Germania, dove per di più
la Riforma luterana ha infranto le vecchie forme rituali della musica sacra e, nello stesso tempo - fatto
decisivo - ha conferito alla musica una «funzione metafisica». Va ricordato inoltre che, mentre quasi
ovunque in Europa la conversione al cristianesimo era avvenuta in un modo che può essere detto
spontaneo e fu insomma frutto d'una scelta deliberata seppur talvolta motivata dal solo interesse
politico (tipico e rivelatore a questo proposito l'«in hoc signo vinces» costantiniano), invece la
Germania sassone, vinta dai Franchi, s'era vista imporre il cristianesimo a fil di spada, come un obbligo
esterno ed una umiliazione definitiva: avvenimento forse essenziale nella storia della Germania e
avvenimento destinato a ripetersi sotto forme diverse fino ai nostri giorni.

La singolarità della Germania e del suo destino in seno al mondo europeo, l'ambiguità del
carattere tedesco - Nietzsche parlerà di «mancanza di carattere» - e però anche la «profondità» tedesca
(che agli altri, per le sue conseguenze, appare come difetto di «chiarezza»), tutti questi tratti non hanno
forse altra origine e causa che in quella «umiliazione» sassone.

Se la sensibilità germanica aveva laboriosamente dato vita al sistema tonale, a voler poi fare di questo
sistema tonale un proprio linguaggio, per altri indecifrabile, è soltanto il «residuo» pagano, là dove esso
entra in mutazione e con ciò stesso già cessa di essere «pagano» per accingersi a divenire altra cosa: e
ciò precipuamente in Germania, sua antica e sua nuova patria. Incontestabilmente la «musica europea»
dal XVII al XX secolo è di fatto, in quel che ha di singolare e di unico, una «musica tedesca». I suoi
«classici» sono quasi tutti tedeschi: Bach [alias] ed i suoi figli, Händel [alias], i Mannheimer, Haydn,
Mozart [alias], Beethoven, Schubert, Schumann, Weber, Brahms [alias], Bruckner, Liszt, Wagner
[alias, alias], Pfitzner, Richard Strauss... Altrove la musica è soprattutto (così prolungando un'antica
tradizione) divertimento e mezzo di divertimento; essa resta serva di altre arti, di altri linguaggi.
Heilige Kunst, «arte sacra» (Hugo von Hofmannsthal), «linguaggio dell'anima» (Hegel), voce di una
Volontà metafisica che è fondamento ultimo del Divenire (Schopenhauer [alias]), la musica lo è
soltanto in Germania - «da Bach a Wagner». Della musica, parafrasando la definizione che Gustav
Kossinna dava dell'archeologia preistorica, si potrebbe dire che è per antonomasia un'arte tedesca,
essendo inteso che noi stiamo parlando qui della musica fondata sul sistema tonale, dal XVII secolo ai
primi decenni del XX. Ciò non vuol dire - una volta di più - che la stessa «specificità» non si sia
espressa anche altrove che in Germania. Sebbene estremamente indebolita, l'eredità «pagana» ha
ovunque resistito in Europa, confinata negli abissi dell'inconscio. Ma, fuor di Germania, le
manifestazioni di questa «specificità» restano sporadiche, come marcate dal sigillo del caso, sono voci
isolate, sia pure possenti, e non costituiscono mai questo discorso ininterrotto e quasi ossessivo, che
come un torrente sommerge un'intera cultura, la feconda, 1'«informa» e ne trasforma molteplici aspetti
in proprio riflesso.
Dalla musica al mito

Fino a Wagner la musica tedesca resterà sempre «linguaggio dell'inconscio», cioè linguaggio di
un « residuo » pagano ancora in virtuale processo di mutazione qualitativa. La funzione della musica
tonale è analoga alla funzione del sogno; essere «linguaggio dell'inconscio» è la sua ragione d'essere.
Attraverso la musica, 1'«inconscio» che fu pagano e non lo sarà più, può esprimersi ormai
innocentemente, orgogliosamente, senza essere condannato ipso facto a «cattiva coscienza». Questo
inconscio, che è «residuo» in mutazione, è così confortato, rafforzato, nutrito nel suo processo di
mutazione qualitativa, perché nella musica trova lo sfogo salutare del sogno, un sogno che esso sa
interpretare come una prima realizzazione soggettiva di sé. Ridiciamolo: a parlare attraverso la musica
è l’«inconscio», quel1'«inconscio», ed esso parla unicamente a se stesso. La coscienza del compositore,
l'idea che il compositore fino a Wagner si fa coscientemente di sé, non ha rilevanza nella creazione
musicale; la coscienza del compositore è «messa fuori gioco», giacché la musica è, anche, «astuzia
dell'inconscio». Se Lutero, istintivamente, proclama la musica «arte divina», è che in lui parla
quell'inconscio. Agli occhi del giovane Nietzsche [alias, alias] autore della Origine della tragedia
[versione originale Web], questo inconscio si configura come «una forza magnifica, intimamente sana,
originale», nascosta «sotto la vita inquieta e spasmodica della cultura socratica», cioè giudeo-cristiana,
una forza «che s'è rimossa soltanto in qualche eccezionale momento, per poi ben presto riaddormentarsi
e sognare d'un nuovo risveglio». È «da questi profondi abissi - egli aggiunge - [che] è scaturita la
Riforma, il cui corale fa risuonare per la prima volta la melodia d'avvenire della musica tedesca»;
«questo corale di Lutero, così profondo e coraggioso, così pieno d'anima, supremamente buono e dolce,
che riecheggiò come un primo appello dionisiaco, aprendosi il cammino attraverso la boscaglia densa,
all'avvicinarsi della primavera», e cui «rispose come un'eco il corteo solenne ed impetuoso dei fanatici
di Dioniso, ai quali noi siamo debitori della musica tedesca».

Eine feste Burg ist unser Gott ("una salda fortezza è il nostro dio"), proclama il corale luterano.
Ma qual è questo dio? Come Lutero, anche Bach [alias] è cristiano, profondamente pio. Ma senza che
egli lo sappia, ciò che parla nella sua musica come già parlava nel corale luterano altro non è che «il
profondo abisso dionisiaco» dell'anima tedesca. Il dio «nascosto» che ispira la sua musica e che la sua
musica celebra non è il Geova della Bibbia, è - trasceso - il dio d'un altro tempo, di un'altra storia: a
passare attraverso la Toccata e Fuga in re minore è l'immagine trascesa del «vero» dio-padre, il dio
monocolo della Caccia Selvaggia, del Valhalla e dell'Olimpo, restituita da un'incosciente nostalgia. E la
gioia di vivere del divino Mozart [alias] è una gioia pagana, di un «paganesimo» trasceso anch'esso,
che per l'ultima volta può ignorarsi ed ignorare il conflitto che l'oppone alla civiltà che lo circonda. Con
Mozart, peraltro, già siamo giunti a quel momento unico dove tutto è come sospeso in un ultimo,
fragile equilibrio, dove la «omogeneità universale» e la «specificità entelechiale» mai prevalgono l'una
sull'altra (o quasi mai: giacché c'è anche un Mozart che prefigura il romanticismo). Il momento di
Mozart è quello in cui «muore» il dio cristiano, il momento di Goethe, il momento di una olimpicità
indifferente e impossibile.

Subito dopo, 1'«inconscio» che si esprime attraverso la musica oserà intraprendere le sue prime
incursioni nel regno della coscienza - e del «verbo» -, ma questa volta innocentemente, senza più
condannarsi per questo ad essere «cattiva coscienza». Goethe segna la frontiera sulla quale,
improvvisamente, il tedesco si scopre «due anime nel petto». Qualcosa avviene, che annuncia il
possibile Zeitumbruch, la frattura epocale nel tempo della storia. Il Romanticismo tedesco e la sua
musica, diranno più tardi pretesi «razionalisti», si accinge ad «avvelenare l'Europa». Nel corso d'un
programma televisivo francese animato dal critico Bernard Gavoty, Yehudi Menuhin ha confessato un
giorno di non suonare volentieri «la musica tedesca dopo Mozart», di avvertire già in Beethoven «i
germi dell'evoluzione infelice» che condurrà al Terzo Reich.
Ai tempi del Romanticismo - potremmo dire - il processo di mutazione del «residuo» pagano è
quasi compiuto, esso è già divenuto nuova «pretendenza». Non ancora riconoscibile, questa
«pretendenza» può cominciare a invadere le coscienze individuali; non si contenta più di parlare il
linguaggio della musica, di rappresentarsi soggettivamente a se stessa nella e con la musica, bensì
vuole anche rappresentarsi oggettivamente, darsi una «parola» propria, esprimersi e non più soltanto
imprimersi. Un vigore nuovo la sorregge; essa è un istinto la cui forza è stata nutrita da un secolo di
musica sua, dal prepotente rifiorire d'una sensibilità prima umiliata e mortificata. Il «dio» cristiano sta
«morendo», la tendenza epocale egalitarista è alla vigilia del suo passaggio dalla fase di espressione
ideologica alla fase di espressione critica anti-ideologica; la tendenza egalitarista, che fin qui aveva
occupato sola le coscienze, è colpita da incertezza, incapace di vegliare fermamente alle porte del suo
regno ormai quasi bimillenario, dove una nuova «anima» va infiltrandosi.

La coscienza europea diviene «romantica», potremmo dire schizofrenica: essa è il terreno dove
due «anime» si affrontano, confusamente, l'una e l'altra sotto ambigue bandiere. L'«anima» cristiana
sviluppa il suo vecchio discorso egalitarista, difficoltosamente, giacché al di là delle ideologie vorrebbe
rifonderlo in anti-ideologia; ma l'altra anima, che non dispone d'un proprio linguaggio e ancora deve
fondarsi storicamente, parassita il discorso stesso dell'anima egalitarista, introducendovi riflessi
immediati seppure informi ed imprecisi del proprio «sentimento del mondo», già cominciando a
contestarne il logos e, perfino, deformandone il «principio» stesso. Questa altra anima, che è la
«pretendenza» sovrumanista elabora così, in seno al discorso egalitarista, i suoi «pre-mitemi», che a
sua volta il logos egalitaristico deforma e falsifica. La filosofia e la poesia romantica scoprono così il
Divenire, ma anche - subito - lo riconducono all'Essere. Il discorso romantico è un discorso ambiguo:
però è fondamentalmente «egalitaristico», seppure per l'appunto caratterizzato dalla presenza di tutta
una folla di fatali «lapsus» (chiamiamoli così, freudianamente), contrabbandati dall'«anima pre-
sovrumanista». Si noti poi che il discorso dell'epica romantica è quello stesso attraverso il quale la
tendenza egalitaristica comincia ad elaborare una sua espressione anti-ideologica, una espressione che
sarà così immediatamente viziata dalle interferenze pre-sovrumanistiche. Marx stesso, sebbene si fosse
riproposto di epurare il discorso hegeliano rimettendolo sui piedi, sarà anche lui vittima di più di un
"lapsus". Oggi ancora, alla fine del XX secolo, il pensiero egalitaristico più avanzato, proprio perché
continua a sfruttare l'eredità hegelo-marxista, anche non cessa di ritrovarsi alle prese con gli errori e le
«sviste» scaturenti dall'ambiguità del discorso romantico.

Per la «pre-tendenza sovrumanista», il parassitaggio del discorso romantico non ha conseguenze


negative ed anzi è per essa l'occasione di mettere al vaglio e diffondere ovunque idee e simboli, che
sono altrettanti «pre-mitemi». Evidentemente, nel discorso romantico questi pre-mitemi fioriscono in
solitudine, anarchicamente, talché il loro vero senso non può apparire. Affinché un giorno, divenendo
«mitemi», si strutturino insieme e, nel «mito» così forgiato, trovino il loro senso, ancora sarà necessario
che la Musica stessa conduca per mano la sua «idea» fino a quel decisivo momento in cui il Suono e il
Verbo - un Verbo nuovo - coincidano e si confondano, in virtù di quella Tat creatrice in cui Goethe
aveva individuato il principio d'ogni cosa: il momento wagneriano.

Se nel discorso romantico molti teorici marxisti, come Lukàcs [alias, alias], e paramarxisti,
come un Viereck, hanno potuto vedere un'«impresa di progressiva distruzione della Ragione», è che
per essi non può esistere che un'unica «ragione», quella egalitarista. Il loro errore (cfr. il capitolo
introduttivo) consiste nel ritenere che la «Ragione» sia il principio stesso, che la Ragione fondi se
stessa, allorquando essa altro non è che un mezzo che l'uomo mette al servizio del principio che egli
ritrova in sé e che si confonde col suo personale sentimento-del-mondo. Il «discorso romantico» - lo
abbiamo visto - è ambiguo perché la ragione - in quanto Logos - vi serve un «principio» egalitaristico,
col quale però interferisce un «principio» estraneo che parassita il discorso stesso. Dopo il periodo
romantico i due principi tendono a separarsi; il discorso egalitaristico si fa sempre più critico (sinistra
hegeliana) e poi già con Marx diviene, seppure embrionalmente, «critica della critica», con processo
che storicamente si prolunga ancora ai nostri giorni; d'altra parte la «tendenza sovrumanista» si
costituirà come tale, manifestandosi nel Mito rigenerato, cioè in un suo proprio «discorso», sorretto da
un suo proprio logos, «discorso» storico di auto-creazione sempre ripetuta, la cui prima espressione
fondatrice sarà - Suono e Verbo confusi - l'opera artistica di Richard Wagner. A questa prima
manifestazione subito risponderà una prima espressione puramente verbale - separata dalla musica -
l'opera mito-poetica di Friedrich Nietzsche [alias, alias] con la «riflessione critica» che l'accompagna.
La «tendenza sovrumanista» è oramai storicamente entrata nella sua prima fase, quella
dell'autocreazione mitica, essa è divenuta storicamente visibile: un nuovo «conflitto epocale» è in atto.

Un'anima nuova

Prima di procedere, in un altro contesto, nello studio e nell'analisi del «mito sovrumanista»
nella sua rappresentazione wagneriana e, parallelamente quando necessario, nella sua formulazione
nietzschana, mi sembra opportuno insistere - a titolo ricapitolativo - sulla «prospettiva» aperta da
Wagner sulla storia della musica europea: che cioè la Musica (del sistema tonale) porta in se stessa una
«idea del mondo», che è quella d'un'«anima che fu pagana», di un «residuo» pre-epocale relegato
nell'inconscio, che proprio grazie alla musica veicola segretamente a se stesso una prima segreta
rappresentazione della sua propria «idea». «Voce dell'inconscio», questa musica parla all'inconscio
stesso, parla all'«anima» ed è, al massimo grado, «arte di seduzione». In tal modo, passo a passo, la
Musica apre alla sua «idea» la strada che la conduce alla futura conquista di un verbo proprio.

Un primo emergere di questa «idea» dall'inconscio verso la coscienza si manifesta, sotto una
forma necessariamente conflittuale, nel romanticismo. Il pensiero filosofico della Germania del XIX
secolo è - si può dire - pensiero musicale, nel senso che è suggerito dall'«idea della musica»,
interpretata come Divenire: ed è un fatto che la riflessione sulla musica, sul suo significato e sulla sua
funzione sociale caratterizza il pensiero dell'Ottocento tedesco. È rivelatrice del resto l'aspirazione
manifestata, dopo Herder [alias], da tanti e tanti filosofi e poeti tedeschi, ad una fusione del Verbo e del
Suono, giacché questa aspirazione per l'appunto esprime l'intuizione dell'esistenza di un'altra verità, che
soltanto la musica potrà confidare ad un Verbo futuro. Facendo nuovamente ricorso alla terminologia
di Werner Kuntz, si può dire che la «specificità entelechiale», cui immediatamente si ricollega l'«idea
della Musica», acquisisce pienezza di sé e perfezione, così divenendo libera da ogni impaccio facendosi
creatrice di un mito, soltanto nella fusione del Verbo e del Suono e grazie ad essa. In questa fusione
con un Verbo che essa suscita e crea, la Musica europea conduce a compimento la sua missione.
Avendo ricevuto il seme nel proprio grembo, la Musica ve lo ha fatto dischiudere e l'ha poi condotto
fuori dalla notte viscerale fino alla luce del sole, sui campi che saranno suoi: e questo «seme» è la
«tendenza sovrumanista». È quanto mai naturale che, in un mondo dominato ancora da un'altra
«tendenza epocale», la Musica - rivelando la sua vera natura - possa disturbare profondamente ed anzi
apparire come una minaccia, un pericolo. Thomas Mann, che pure non fu mai capace di cessare di
amarla, ha scritto un giorno, dopo la sua «conversione ideologica»: «Si, bisognerebbe odiare, ma anche
approvare in segreto colui che osasse denunciare nella musica un ostacolo all'umanità dei Tedeschi».
Ma qui, in fondo, Mann altro non ha fatto che esprimere con prudenza - e rovesciandola dal punto di
vista dei valori - quella stessa convinzione che ben prima di lui il giovane Nietzsche [alias, alias] aveva
orgogliosamente proclamato: «Dagli abissi dionisiaci dell'anima tedesca è riemersa una forza che non
ha nulla in comune con le fondamenta della cultura socratica, una forza che queste fondamenta non
potrebbero spiegare né giustificare; anzi: una forza in cui questa cultura avverte qualcosa di
inspiegabile, di terrificante, di ostile per eccellenza. Intendo qui parlare della musica tedesca, così come
noi dobbiamo comprenderla, nella possente traiettoria solare da Bach a Beethoven, da Beethoven a
Wagner» (L'origine della tragedia [versione originale Web]).

Dopo Wagner la musica tedesca, se è idolatrata dagli uni, è sempre più contestata nella sua
totalità da altri. La contestazione è dapprima indiretta, scaturente da un'avversione istintiva, le cui
ragioni restano all'inizio incoscienti. Modo maggiore e minore vengono disdegnosamente evitati, si fa
ritorno ai modi ecclesiastici, alla gamma pentatonica o esatonica (Debussy [alias]), ci si richiama a
folklori stranieri, iberici, slavi, orientali. Questa reazione «epidermica», che generalmente ha luogo
fuori dalla Germania, ha del resto qualche felice ricaduta, nel senso che arricchisce la produzione di
paesi che, da un secolo o magari più, avevano avuto una ben povera parte nella letteratura musicale del
grande periodo classico. Più tardi la capacità stessa di «significazione» della musica sarà contestata
(Strawinsky): proclamazioni ingenue che soltanto mirano a nascondere una verità sgradevole. Più
logicamente, Arnold Schönberg se la prenderà direttamente col sistema tonale, con l'armonia, e
costruirà, nel più artificioso e «astratto» dei modi, i suoi «sistemi» atonali. (Paradossalmente, in
tedesco, dove «suono» si dice Ton, la parola Atonalität evoca irresistibilmente l'idea di assenza, di
mancanza di «suono», elemento-base della musica, e insomma l’amusicalità...). Pretesto di questa
impresa è l'affermazione secondo cui Wagner avrebbe fatto «esplodere» le strutture del sistema tonale,
così divenuto impossibile. È una argomentazione assurda, di cui ho già parlato e che dissimula assai
probabilmente il rifiuto di un sistema veicolante un'«idea del mondo» giudicata «insopportabile» o
risentita come tale.

Tutte queste considerazioni, in verità, interessano soltanto in modo indiretto l'oggetto di questo
saggio, il cui fine è quello di mettere in piena luce l'eminente funzione «culturale» della musica in
Europa ed in Germania e la fatalità che, nel quadro dello sviluppo storico della musica europea,
presiede alla nascita dell'opera di Richard Wagner.

Wagner stesso era perfettamente cosciente - va notato - del significato e delle implicazioni della
sua opera. Nella rigenerazione del mito da lui operata, egli vedeva un compimento e, insieme, un nuovo
inizio. L'«anima» che con lui e grazie a lui dall'inconscio emerge verso la coscienza non è più
esattamente quella che si potrebbe credere. Non è più «pagana» e non è più, evidentemente, cristiana.
Essa ha operato la sintesi di ciò che essa stessa fu e di ciò che essa è divenuta. Ha - in termini dialettici
- superato il cristianesimo e, come Parsifal, ha «redento il redentore» (Erlösung dem Erlöser...). Non è
più quel che era prima, bensì quel che verrà dopo. È un'anima nuova, all'alba della sua esistenza.
Wagner stesso, nelle vesti di Hans Sachs, l'ascolta cantare e, pieno di meraviglia, affascinato, confida a
se stesso in un mormorio: «... es klang so alt und war doch so neu...» ("suonava sì antico eppure era
così nuovo...").
L'IDEA DELLA MUSICA E IL TEMPO DELLA STORIA
Musica, dramma, mito

«Nessuno s'avventuri a credere che l'anima tedesca abbia per sempre perduto la sua mitica
patria, visto che questa anima sa ancora intendere così distintamente la voce d'usignolo che di quella
patria le parla. Un giorno l'anima tedesca si desterà nella freschezza mattutina che succede ad un sonno
immenso: allora ucciderà il drago, annienterà i perfidi nani e neanche la lancia di Wotan potrà sbarrarle
il cammino». È Friedrich Nietzsche [alias, alias], il giovane Nietzsche autore dell'Origine della
tragedia dallo spirito della musica [versione originale Web], a proclamare nel 1871 questa sua fede.
Per lui, l'usignolo il cui canto evoca la mitica patria dell'anima tedesca è Richard Wagner [alias, alias] -
ed il canto è L'Anello del Nibelungo. Nel 1871 tra Wagner e Nietzsche la comunione di spirito è
perfetta, totale: Nietzsche, nella prefazione del suo saggio, confida di non aver cessato mai, durante la
redazione, di dialogare «in spirito» con Wagner, come se il suo «maestro» fosse presente in carne ed
ossa, e di non aver voluto scrivere «alcunché che non sia degno di questa presenza». È, per lo storico,
una certezza: quel che Nietzsche dice a proposito di Wagner nell'Origine della Tragedia, è Wagner
stesso a dircelo. Che più tardi Nietzsche abbia ritenuto di essersi ingannato sul conto di Wagner, che
abbia rinnegato in parte il suo libro (ma lo ha davvero fatto?), non ha rilievo alcuno ai fini di una
conoscenza delle «intenzioni» di Wagner.

A contare, qui, è il fatto che Wagner aderì totalmente alle tesi illustrate dal giovane filologo, il
fatto che egli «si riconobbe» perfettamente nell'Origine della Tragedia, al punto che nel 1873, -
profeticamente - poté scrivere a Nietzsche: «Recentemente m'è venuta in capo un'idea, di cui ho parlato
soltanto una volta ai miei, e brevemente: ho avuto il presentimento che un giorno dovrò difendere il
vostro libro contro voi stesso. L'ho riletto ancora una volta e giuro davanti a Dio di ritenervi il solo che
sappia ciò che io voglio». Del resto Wagner, nei suoi numerosi scritti teorici, non ha detto - sul proprio
progetto artistico - cosa diversa da quanto Nietzsche afferma nel suo saggio; ma con altro linguaggio,
più laborioso e talvolta oscuro, però altre volte più pertinente, più diretto e - anche - più «politico».

Sarebbe evidentemente impossibile, oltreché disonesto, intraprendere un'interpretazione del


Mito wagneriano senza tenere alcun conto delle «intenzioni» ed ambizioni dichiarate di Wagner e,
quando esista, della sua interpretazione autentica. Se Wagner è, più che mai, un artista «moderno», è
proprio perché in lui la parte di «ingenuità», di «soggettività» incapace di cernere la propria opera, è
ridotta quasi al minimo imposto dal principio di indeterminazione. Sul filo d'un'impresa artistica
colossale maturata lentemente in ben trent'anni, Richard Wagner ha anche sviluppato una riflessione
filosofica, estetica e critica, del resto non tanto sull'opera compiuta quanto sul progetto di quest'opera.
Senza dubbio nella folla di saggi, lettere, articoli del Wagner «filosofo» è facile riscontrare incertezze,
ambiguità, contraddizioni. Sul terreno «filosofico», abbordato per necessità, Wagner resta prigioniero
di un linguaggio inadeguato, che è quello del romanticismo tardivo, e si sforza di dare tuttavia
espressione alle sue idee, magari con ricorso ad accenti quasi esoterici, che oggi ci sembrano astrusi e
magari indecifrabili.

In realtà le incertezze e contraddizioni del pensiero filosofico ed estetico di Wagner sono una
pura apparenza, che proprio la logica della sua opera artistica - espressa, questa, con un suo nuovo,
adeguato linguaggio - può facilmente dissipare. Se qualche ultimo iato talvolta persiste tra gli scritti
teorici e l'opera artistica, si tratta di quello iato insopprimibile che sempre separa l'opera artistica
realizzata dal progetto, nonché dalla riflessione che ha condotto al progetto. Le pretese «ambiguità»,
poi, non sono tali che per una «ragione» che resti straniera al Mito rappresentato dall'opera di Wagner.
Il Mito realizza sempre l'unità dei contrari, ma questa unità è percepita ed accolta soltanto da chi per
sua natura partecipa al Mito e, ricreandolo in sé, lo perpetua. A chi resta fuori il Mito offre sempre
un'ultima ambiguità, che però può anche agire come una calamita, farsi suggestiva, affascinare,
«incantare».

In fondo la concezione di Wagner è assai chiara - o dovrebbe esserlo, se non intervenissero


elementi passionali. Agli occhi di Wagner Musica, Dramma (Tragedia), Mito sono intimamente
apparentati. La Musica è un'«idea del mondo e, più precisamente, un'idea del mondo che abbraccia
tutto». Dallo spirito della Musica, come da un grembo materno, nasce la Tragedia che «rappresenta» e
cioè «realizza sulla scena» l'«idea della Musica» - e lo fa rigenerando il Mito, unica forma che
permetta di ritrovare la purezza delle origini, il «puro umano» (Rein-Menschliches) nella sua pienezza e
totalità riconquistate. «Musica», «dramma», «mito», «Rein-Menschliches» non sono qui astrazioni,
concetti generici, ma termini designanti realtà concrete, rispettivamente: «la musica tedesca nella sua
corsa solare da Bach a Wagner», l'Anello del Nibelungo, il mito germanico degli dèi e degli eroi che il
dramma rigenera, e la «germanità» nel momento in cui essa ritrova la patria mitica delle origini. E tutto
ciò è sentito, concepito, voluto come una sfida senza pietà all'indirizzo della civilizzazione
(Zivilisation) in seno alla quale Wagner viveva - e noi tuttora viviamo.

Questo «germanesimo» di Wagner, che il giovane Nietzsche sottoscriveva, non è peraltro il


riflesso tedesco del nazionalismo «democratico» ovunque diffuso dalla rivoluzione francese. Esso
nasce anzi da motivi esattamente opposti: dall'intima certezza, maturata attraverso tutto un aspetto del
romanticismo, che all'«anima tedesca» incomba la missione di «guarire l'umanità», di guidarla verso
un'avventura nuova non più umana bensì, come dirà Nietzsche, "sovrumana". Questo «germanesimo»
non è dunque un nazionalismo che s'opponga ad altri nazionalismi, non è ripiego su di sé; il suo
avversario è tutta una civilizzazione che, in virtù delle sue radici, è «socratica», «giudeo-cristiana». E’
per l'appunto quanto Nietzsche proclama nel testo citato all'inizio: «Dagli abissi dionisiaci dell'anima
tedesca è riemersa una forza che non ha nulla in comune con le fondamenta della cultura socratica;
anzi: una forza in cui questa cultura avverte qualcosa di inspiegabile, di terrificante, di ostile per
eccellenza. Intendo qui parlare della musica tedesca...». Ciò che risuona e parla alle «anime» nella
musica tedesca è una germanità ideale, che pretende essere progetto d'avvenire e fa appello, certo, ai
Tedeschi, ma in ugual modo ad ogni uomo deciso a superare la decadenza attuale dell'umanità e
dell'umano. Così va compreso il grido di Novalis: «Ci son Tedeschi dappertutto!»; e Fichte [alias], nei
suoi Discorsi alla nazione tedesca [versione originale Web], subito aveva proclamato: «Chiunque
crede alla vita spirituale ed alla libertà di questa vita spirituale e vuole lo sviluppo eterno della
spiritualità in virtù della libertà, costui, qualunque sia il paese d'origine, qualunque sia la sua lingua, è
della razza nostra, ci appartiene e farà causa comune con noi. Ma chiunque crede all'immobilità o al
regresso, chiunque batte il passo o mette una natura morta al timone del mondo, costui, donde
provenga, qualunque sia la sua lingua, non è tedesco ed è straniero per noi; e c'è da augurarsi che si
distacchi da noi il prima possibile». La «Germania» diviene così una «idea», una patria mistica la cui
ambizione è di essere la «nuova Grecia» o la «nuova Roma» e di opporsi alla Gerusalemme, anch'essa
ideale, del giudeo-cristianesimo egalitaristico.

Questa «idealità» della Germania, più tardi resa tangibile e consacrata dal sangue di centinaia di
migliaia di europei d'ogni nazionalità indossanti l'uniforme dell'"idea tedesca", è stata avvertita, già col
fiorire del Romanticismo, dagli spiriti più sensibili d'Europa, sia pure con contrastanti reazioni. Citare a
questo proposito, in uno scritto dedicato a Richard Wagner, il nome di uno Houston Stewart
Chamberlain, è addirittura superfluo. Invece val la pena di ricordare e mettere in rilievo il
riconoscimento della «idealità» della Germania là dove uno lo attenderebbe meno, in filosofi e poeti
spesso considerati espressione del «nazionalismo» più avverso a quello tedesco, intendo dire il
francese. Ernest Renan [alias] scriveva nel 1845: «Ho studiato la Germania ed ho creduto di entrare in
un tempio. Tutto quel che ho trovato è puro, eccelso, morale, bello, commovente». Lo storico Michelet
si dice «il più tedesco dei tedeschi» e tuttavia, senza tema di contraddirsi, avverte: «Il mondo tedesco è
pericoloso... Vi cresce un fior di loto dotato d'un onnipotente potere, che fa dimenticare la sua patria
allo straniero». Più sorprendente ancora è di ritrovare questa professione di fede in bocca a Victor
Hugo: «Germania, nessuna nazione è più grande di Te. Un tempo la terra tutta fu luogo di spavento; tra
i popoli forti, Tu fosti il più giusto. Una tiara d'ombra è sulla tua augusta fronte! E purtuttavia, come
l'India dai favolosi aspetti, Tu brilli, o Paese degli uomini dagli occhi azzurri. Splendore altero nel
fondo tenebroso dell'Europa, una gloria aspra, informe, immensa t'avviluppa... No, nulla qui su terra Ti
ecclissa, o Germania. Il tuo Widukind tien testa al nostro Carlomagno ed anche Carlomagno è un po' il
Tuo soldato».

La gestazione «romantica»

Questa «idea tedesca» che conforma il «germanesimo» di Wagner circolava già da tempo nel
discorso romantico, «premitema» contrabbandato dalla «pre-tendenza» sovrumanista, e aveva trovato
la sua più forte espressione nella teoria sviluppata da Fichte [alias] nei suoi Discorsi. Il popolo tedesco
- sostiene Fichte - è il solo ad avere memoria e coscienza delle sue più lontane origini e, proprio per
questo, è il solo Volk, l'unico popolo autentico sopravvissuto in quanto tale in mezzo ad una umanità
ovunque privata di radici, disumanizzata; ed è al popolo tedesco, conseguentemente, che incombe la
missione di rigenerare la comunità umana. Ma Fichte è un filosofo il cui pensiero resta
fondamentalmente egalitaristico (e cioè, come direbbe Heidegger [alias, alias], espressione della
«,metafisica» occidentale): nel suo discorso questa teoria sul popolo tedesco si configura come uno di
quei lapsus che la riemergente «anima pagana» ovunque contrabbanda e che nessun nesso «logico»
riallaccia al «principio» su cui il discorso stesso si fonda.

La sostanza della teoria «tedesca» di Fichte non troverà la sua logica che in relazione ad un
«principio» nuovo, quello che per l'appunto si manifesta con l'opera di Richard Wagner [alias, alias].
Per quanto concerne immediatamente 1'«idea tedesca», che come detto circolava già da tempo,
l'originalità di Wagner, quando la fa sua, sta nell'intimo legame che egli stabilisce tra questa idea e la
«musica tedesca», che, secondo lui, è il terreno dove è stata meglio preservata la «memoria attiva»
delle radici del popolo tedesco e della sua «patria mistica». Questo ricollegamento fra idea tedesca e
musica ha luogo nel quadro ben più vasto in cui Wagner per la prima volta organizza e struttura
insieme, modificandoli, tutte le idee, tutte le immagini, tutti i «pre-mitemi», che erano emersi nel
discorso egalitaristico dell'epoca romantica, in esso contrabbandati come a forza dall'«altra anima»
abitante «il petto tedesco», la «pre-tendenza sovrumanista». Nel discorso romantico, quei «pre-mitemi»
sono come errori, lapsus rivelanti un traumatismo della coscienza e, come tali, costituiscono attentati al
logos di quel discorso. Essi scaturiscono da un altro «principio», le cui fondamenta restano
indiscernibili nel discorso parassitato, che non è il loro; e sono la manifestazione di un'ultima
agitazione, d'un'ultima convulsione di qualcosa che sta nascendo e vuole vivere. Con Wagner ed in
Wagner questo processo ha fine - e perviene al suo « fine »: la matrice di tutti questi «pre-mitemi»,
divenuta «tendenza epocale», appare in piena luce, nella luce del Mito che trasforma i pre-mitemi in
mitemi, strutturandoli insieme con il proprio logos, e così facendone anche dei simboli. L'opera
artistica di Wagner è già, pienamente, «Mito».

Sarebbe cosa superflua, nel quadro di questo saggio, l'analizzare dettagliatamente tutti questi
«pre-mitemi» che costellano il discorso romantico e, più o meno modificati, costituiranno gli elementi
strutturali - i mitemi - del mito. C'è innanzitutto, il Divenire, «scoperto» dalla filosofia idealista e dalla
poesia romantica, esaltato a spese dell'Essere. C'è, in un rapporto non ancora visibile, la visione
faustiana dell'uomo, prorompente nella «prima parte» del Faust [versione originale Web] di Goethe
(ma poi già compromessa dalla «seconda parte»). La volontà d'una rottura con la civiltà giudeo-
cristiana è ancora solo presentimento di uno Zeit-Umbruch, d'una frattura imminente del tempo della
storia, momento fatidico in cui s'inaugura la «possibilità» di una rigenerazione della storia e
dell'umanità. L'idea tedesca - come si è visto - precisa che la missione rigeneratrice è devoluta al Volk
(popolo) tedesco, la definizione di Volk essendo ritrovata proprio nella dimensione storica, cioè nella
memoria delle origini. Parallelamente, il rifiuto del presente - della società e della cultura date -, il
rifiuto dell'attuale «decadenza umana» si traducono in ripiego su un passato mitico e, insieme, in
slancio (utopico) verso l'avvenire, «ricerca del fiore azzurro». La scoperta kantiana dei limiti della
ragione pura aveva minato l'illusione «socratica», aveva rivelato che il linguaggio - sempre concettuale
- è incapace di dire l'ultima realtà delle cose, il Ding-an-sich, e soltanto sa descrivere il fenomeno, che è
puro presente ed «essere» fittizio (giacché ciò che è reale diviene). L'unica voce che possa dire e far
sentire l'indicibile è individuata nella Musica, che è allora esaltata come «il linguaggio dei linguaggi»,
«il misterioso sanscrito dell'anima», il «metalinguaggio» che esprime - dice Schopenhauer [alias] -
«l'intima essenza, 1'in-sé di tutti i fenomeni»: cosicché è dalla fusione di musica e poesia che ci si
attende la più autentica opera d'arte. Un altro «pre-mitema», dapprima puramente letterario ma ben
presto anche politico - è quello del Genio, incarnazione secondo Hegel dello Zeitgeist, dello «spirito del
Tempo». Sarà Wagner - sia subito avvertito - a sentire e mettere in evidenza l'intimo legame organico
tra Genio e Popolo: il popolo, che è «comunità» e «comunicazione» delle singole personalità, è fonte di
tutto, è la volontà oscura che si incarna negli uomini con le sue aspirazioni - ed il Genio ne è soltanto la
«voce», l'espressione più compiuta, colui attraverso il quale il popolo prende coscienza di sé.
(Nietzsche, quasi capovolgendo la proposizione, affermerà che il fine ultimo della società e la
giustificazione della «massa» è proprio di permettere la fioritura del Genio).

Tutti questi «pre-mitemi», anarchicamente emersi nel discorso romantico, s'ordinano e si


organizzano insieme nell'ammirevole unità e compiutezza del Mito wagneriano, così sottilmente e
quasi insensibilmente trasformati (in mitemi), con una struttura che è tipica della tendenza
sovrumanista e che potrà poi essere ritrovata in tutte le successive espressioni di questa tendenza. Forse
è proprio per questo che moltissimi, subito, hanno veduto nell'opera artistica di Richard Wagner il
trionfale coronamento di tutto un aspetto del Romanticismo, quello disegnato appunto dalla caotica
folla dei premitemi sovrumanisti, che uno sguardo poetico poteva cogliere insieme ed astrarre dal resto
del discorso romantico proprio perché ne intuiva la «stranezza». La sovrumana potenza di creazione e
di organizzazione che caratterizzano il genio artistico di Wagner trova la sua sorgente profonda.
nell'intuizione del «mitema» fondamentale del sovrumanismo che nessuno prima di lui aveva
intravisto, neanche in forma di pre-mitema, un «mitema» che non si confonde con la «Musica» bensì è,
al di là della musica, la «idea della Musica». Wagner intuisce cosa è la «idea della Musica» ed è nel più
completo abbandono a questa idea che egli trova la fonte miracolosa della sua ispirazione. Wagner non
dice, non spiega questa idea-del-mondo che è la Musica: egli la rappresenta e la realizza con il Wort-
Ton-Drama, con i suoi drammi in cui Suono e Parola si fondono. Nei suoi scritti teorici, il Wagner
«filosofo» soltanto afferma l'esistenza di questa idea, di cui proclama la «dimensione metafisica». Di
più non sa dire. E come potrebbe essere altrimenti, visto che 1'«idea della Musica» s'è impadronita di
lui, s'è incarnata in lui, si confonde con la sua soggettività creatrice di compositore-poeta? Per Wagner
1'«idea della Musica» resta ancora indicibile con la semplice parola, ma egli vede e afferma nei suoi
Wort-Ton-Dramen la «ersichtlich gewordene Tat der Musik», l'azione ed il fatto ormai compiuti e
visibili della Musica. Il linguaggio capace di dire 1'«idea della Musica» - o, più esattamente: lo statuto
storico di questa idea - dovrà essere lentamente elaborato, dopo Wagner, grazie alla riflessione per
l'appunto ispirata, direttamente o indirettamente, da questa Tat che è l'opera artistica di Richard Wagner
[alias, alias], ed oggi soltanto diviene infine possibile dire quale sia 1'«idea della Musica».
Il tempo tridimensionale

Presente ed operante ad ogni momento del Wort-Ton-Drama e della realizzazione del Mito,
1'«idea della Musica» può oggi essere compresa - intellettualmente - come un principio che organizza
in modo radicalmente nuovo lo spazio-tempo della rappresentazione così come costituisce in tragedia
il divenire storico dell'umanità. In virtù di questo principio la storia non è più lineare, non è più una
successione di momenti che l'un l'altro si escludono, non è più unidimensionale. Non ci sono più un
inizio ed una fine assoluti della storia. Ad ogni momento il Divenire è dato nella sua totalità; e soltanto
muta il suo centro, la prospettiva che esso istituisce. L'istante non è più un «punto», il presente non
separa più il passato ed il futuro e non è da essi separato. Il presente, prae-sens, è la sfera, di cui
«passato», «attualità», «avvenire» sono le tre dimensioni. Il tempo della storia non è unidimensionale;
ad essere unidimensionale, invece è lo spazio della storia, giacché lo spazio della storia, il solo luogo in
cui la storia abbia luogo, è la coscienza umana.

Il principio che fonda questa idea rivoluzionaria della storia e del mondo e insomma questo
Weltbild, Wagner certo non lo discerne e non saprebbe parlarne: esso è in lui. Ma la visione della storia
che da quel principio discende si impone a Wagner immediatamente, attraverso la Musica: ed egli ne è
perfettamente cosciente. Il sistema tonale, in effetti, immediatamente crea questo tempo
tridimensionale, che il dramma wagneriano rappresenta e realizza sulla scena e che simbolizza il tempo
stesso della storia. L'accordo perfetto, in cui insieme risuonano tonica, terza e quinta, fuse nell'armonia
più perfetta, questo accordo che fonda e nel quale si riassume la «tonalità» tutt'intera - e che comanda
lo sviluppo d'ogni melodia - è la immagine stessa ed il simbolo di questo «presente» del divenire
storico in cui passato, attualità e avvenire si fondono, dove confluisce e donde rifluisce la totalità del
Divenire, in una ripetizione apparente evocante l'idea d'un eterno ritorno. Ed è proprio con un accordo
perfetto, quello in mi bemolle maggiore spaziante su centotrentasei misure, che Richard Wagner [alias,
alias] - nell' Anello del Nibelungo - rappresenta musicalmente la nascita del mondo e del tempo della
storia. È questo accordo a dare vita al clima sonoro dell'immensa sinfonia del Ring, matrice donde
scaturiscono l'uno dopo l'altro tutti i temi dell'opera, fondamento sonoro della tragedia e del destino
degli dèi e degli eroi.

In virtù del suo sistema tonale, la Musica europea disegna così, nel modo più immediato, la
struttura del tempo della storia, struttura che non è più quella, lineare, del tempo proposta dalle visioni
del mondo egalitaristiche e cristiane, e del resto neanche quella proposta dalle visioni del paganesimo
antico, che è pur essa lineare (ciclica però, e non segmentaria come le «egalitaristiche»). Fin dalla
costituzione del sistema tonale, la Musica europea ha dunque potuto lentamente educare un sentimento
della tridimensionalità del tempo della storia; quando poi questo sentimento s'è definitivamente
affermato in un nuovo tipo umano, Wagner ha saputo infine rappresentare e realizzare coi suoi drammi
musicali questo tempo tridimensionale, nel quale - a partire dalla «riflessione» di Nietzsche - è
divenuto oggi possibile riconoscere il tempo stesso della storia. La misteriosa, sconcertante
«profondità» tedesca, spesso opposta alla «chiarezza» latina, nasce da questo Erlebniss, da questa
esperienza vissuta della Musica, che è anche un'inconscia esperienza della pluridimensionalità del
tempo della storia. «Il Divenire, simbolo vivente dell'eterna Germania - ha scritto il già più volte citato
Jean Matter - annoda con essa i vincoli più stretti e vivaci» (Wagner l'enchanteur, op. cit.); ma è
proprio la musica che ha educato l'anima «tedesca» alla percezione sempre più esatta del Divenire, che
ha. aperto allo spirito tedesco la via imperiale della filosofia del Divenire, da Hegel, Fichte [alias],
Schelling [alias] fino a Schopenhauer [alias], e Nietzsche. La cultura tedesca - con tutte le sue
ramificazioni europee - non può essere compresa se non si tiene conto della funzione che vi ha
occupato la Musica, funzione che la «prospettiva wagneriana» rivela determinante: nata da una
sensibilità repressa dalla cultura giudeo-cristiana e rifugiatasi nell'inconscio, la Musica tedesca è stata
lo strumento quasi invisibile d'una preservazione ostinata, il luogo segreto e privilegiato dove quella
sensibilità ha potuto lentamente incamminarsi verso la sua riaffermazione, in un clima trasformato, e
verso quell'«Io di più vaste dimensioni» (Jean Matter) al quale secondo Wagner deve corrispondere il
Wort-Ton-Drama.

Nella filosofia tedesca, il primo riferimento esplicito ad una «tridimensionalità» del tempo si
trova nella Filosofia della Natura di Hegel, il quale per l'appunto vi parla delle «tre dimensioni del
tempo, che sono il passato, il presente ed il futuro». Per Hegel - va sottolineato - la tridimensionalità
del tempo non è data che nella coscienza umana e per la coscienza: «Nella natura - egli spiega - dove il
tempo è sempre Adesso (Jetzt), non si perviene mai a costantemente distinguere queste [tre]
dimensioni. Esse non sono necessarie che nella rappresentazione soggettiva, nella memoria e nella
paura oppure nella speranza». La tridimensionalità appartiene insomma, secondo Hegel, ad un tempo
«psicologico», che egli non ricollega in alcun modo a quello della storia umana, bensì «naturalizza»
allo stesso modo in cui per converso «storicizza» la natura.

In tempi molto più vicini a noi, il matematico e fisico Hermann Friedmann ha ripreso quel
discorso hegeliano, con approccio scientifico e proprio a partire da una riflessione sulla musica tonale.
In Wissenschaft und Symbol (Biederstein, München, 1949), dopo aver introdotto una distinzione tra
contemporaneità (che, ad esempio, è la relazione temporale di due note, anche dissonanti, suonate
insieme) e simultaneità (che, invece, è la relazione istituentesi tra due note, sia pure suonate
successivamente, tra le quali esistono rapporti armonici), Friedmann dimostra che «l'idea della musica
occidentale consiste nella creazione di una simultaneità significativa». Nella musica tonale - egli
osserva - «è impossibile limitarsi alla concezione di un presente puntiforme. Consideriamo in effetti
quel che il linguaggio armonico definisce preparazione: vi constatiamo la coscienza di un ritardo
dell'armonia e, insieme, il sentimento (Erlebniss) che quell'armonia è già cominciata; il futuro
armonico, insomma, si proietta nel presente. Nella anticipazione avviene esattamente il contrario: qui
l'esperienza vissuta del presente armonico è associata alla coscienza di un troppo presto: il presente
anticipa sul futuro armonico. In nessun caso il presente si lascia ridurre alla dimensione di punto,
poiché presente e futuro, inizio e maturazione si compenetrano e si confondono reciprocamente nel
modo più caratteristico». «Ancora non ci rendiamo abbastanza conto - egli aggiunge - del fatto che
l'idea della musica occidentale, nel suo progresso storico dalla melodia alla polifonia ed all'armonia,
consiste nella elevazione di tutte le successioni - e non soltanto dell'occasionale dissonanza - alla
simultaneità».

Friedmann, che è anche autore di appassionanti studi sulla "ritmo-armonia", individua nel
«tempo» della musica tonale il simbolo della «piena realtà del tempo», in opposizione alla «triviale
concezione» del tempo propria della «scienza naturale meccanicista», concezione che sarebbe poi «il
riflesso delle nostre esperienze meccaniche, delle nostre rappresentazioni nel mondo dei corpi in
movimento». Con l'esperienza vissuta della musica armonica, l'uomo s'innalza secondo Friedmann «al
di sopra di quella sfera limitata di esperienza [meccanica] per giungere ad una sfera di rappresentazione
differente e più alta». Egli scrive ancora: «Secondo la nostra abituale concezione della successione,
tutti i momenti temporali sono per principio equivalenti, nessun momento è privilegiato in rapporto ad
altri. Al contrario, nella concezione acustico-musicale della successione, i momenti temporali non sono
equivalenti [...] I momenti non sono più atomi temporali autarchíci, sufficienti in se stessi, bensì
elementi strutturali (Bausteine) esistenti all'insegna dell'idea di simultaneità». Friedmann identifica
«tempo della musica» e «tempo della coscienza», oppone cioè un tempo psicologico al tempo
macrofisico, ma non mette il «tempo della coscienza» in relazione con la storia, intesa come livello di
realtà proprio dell'umano. Egli istituisce invece una sorta di gerarchia «antropocentrica» fra le diverse
esperienze vissute del tempo - e ciò proprio perché non opera una distinzione tra differenti livelli (o
aspetti) della realtà. Di fatto Friedmann concepisce il tempo come una «dimensione» qualitativamente
superiore, in un certo senso spirituale, opposta ad uno spazio qualitativamente inferiore, materiale. Una
riflessione intrapresa proprio a partire dall'opera artistica di Wagner e dell'opera filosofica di Nietzsche
nonché dal loro confronto con la moderna problematíca scientifica conduce ad una concezione
assolutamente diversa, secondo la quale spazio e tempo non sono assoluti bensì correlativi ed
inseparabili. Lo «spazio-tempo» è concepito come l'insieme strutturato delle relazioni che s'istituiscono
fra i «termini» della realtà, cosicché nella misura stessa in cui ci è impossibile ridurre ad unità aspetti
diversi della realtà anche si configurano per ciascun aspetto della realtà «spazio-tempi» diversi,
variamente strutturati.

Le rappresentazioni del tempo

Richard Wagner [alias, alias], come già è stato messo in rilievo, s'è limitato a rappresentare nei
suoi drammi 1'«idea della Musica», cioè la tridimensionalità del divenire storico. Egli non l'ha mai
esplicitata in termini filosofici e, se anche lo avesse voluto, ne sarebbe stato certo incapace. Dopo di lui
(e proprio grazie ad una riflessione avviata assumendo come oggetto il dramma wagneriano e ad esso
facente incessantemente ritorno), Friedrich Nietzsche [alias, alias] ha gettato le basi d'una concezione
della storia fondata intuitivamente sulla pluridimensionalità del tempo della storia. Nietzsche ha
tuttavia accuratamente cancellato tutte le tracce che ricollegano la sua concezione del mondo alla
rappresentazione drammatica wagneriana: «Nietzsche - osserva Jean Matter, che a questo proposito
parla di paradosso - vede in se stesso il portatore di una filosofia del Divenire e non riesce a sopportare
il fatto che Wagner, prima di lui, ci ha dato una musica del Divenire...». Per di più, l'autore di Also
sprach Zarathustra [versione originale Web] ha non meno volontariamente «cifrato» il suo messaggio,
dissimulando con cura entrate e uscite del proprio labirinto filosofico, offrendo - nei punti-chiave del
suo discorso - più spesso «enigmi» simbolici che concetti. La struttura logica del discorso è così
occultata.

Tanto per far un esempio, ma un esempio di taglia, l'intima, diretta relazione fra il mitema
dell'Eterno Ritorno ed il mitema della Tensione verso il Superuomo non è mai evidenziata. L'Eterno
Ritorno, d'altra parte, è presentato nell'Also sprach Zarathustra proprio come un «enigma» e spesso
assume l'apparenza ingannevole d'una semplice visione ciclica della storia, riesumante quella del
paganesimo greco-romano. Ed è tipico della maniera di procedere di Nietzsche anche l'ammonimento
sibillino col quale poi, una sola volta ma con enfasi, egli mette in guardia contro quell'apparenza
ingannevole. Al nano che, interrogato sul Tempo ai piedi del portico che ha nome Istante, aveva con
leggerezza risposto: «Tutto ciò che è diritto mente, ogni verità è curva, il tempo stesso è un cerchio!»,
Zaratustra replica con collera: «Spirito della Pesantezza, non renderti le cose più facili di quel che sono.
Altrimenti, sciancato, t'abbandono lì dove te ne stai accovacciato, io che ti ho portato fin sulle cime!».
Di fatto, l'immagine più adeguata dell'Eterno Ritorno è offerta dal canto degli uccelli di Zaratustra:
«Tutto va, tutto ritorna; eternamente volge la Ruota dell'Essere. Tutto muore, tutto di bel nuovo
fiorisce; eternamente scorre l'Anno dell'Essere. Tutto crolla, tutto nuovamente si ricompone;
eternamente si riedifica la stessa Casa dell'Essere. Tutto si separa, tutto di nuovo offre il suo saluto;
eternamente resta fedele a se stesso l'Anello dell'Essere. Ad ogni momento l'Essere ha inizio; intorno ad
ogni Qui s'avvolge la Sfera del Là. Il centro è ovunque. Curvo è il sentiero dell'Eternità».

La posterità nietzschana, filosofica o letteraria, ha sempre adottato l'immagine della sfera - e


non già quella del cerchio o del ciclo - per dare una conveniente rappresentazione di questa nuova
concezione del tempo della storia, opposta a quella «lineare» del cristianesimo e delle ideologie
egalitaristiche. L'immagine della sfera è stata poi ripresa anche da tutti gli esponenti della «Rivoluzione
conservatrice», il vasto e molteplice movimento artistico, letterario, filosofico e poi politico che ha
caratterizzato la prima metà del XX secolo in Germania.

Armin Mohler [alias], che alla Rivoluzione Conservatrice ha dedicato uno studio fondamentale
(Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1933, Ein Handbuch, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt, 1972, trad. italiana: La ricoluzione conservatrice, LedE-Akropolis, Roma
1990), ha d'altra parte anche sottolineato l'insormontabile difficoltà incontrata dal nostro linguaggio,
allorquando si sforza di concettualizzare il Weltbild dell'Eterno Ritorno e di esprimerne le molteplici
implicazioni ed il «significato». «I duemila anni di cristianesimo che son dietro di noi - scrive Mohler -
hanno forgiato la nostra lingua; i significati del Weltbild lineare si sono insinuati in ogni parola anche là
dove, originariamente, significavano forse altra cosa. Il nostro linguaggio attuale è lineare: esso agisce
su un'unica dimensione (temporale), s'interdice di accedere alla pluridimensionalità. Esso avanza
dall'uno all'altro, cancellando tutto sul proprio passaggio. Soltanto il linguaggio poetico conserva il
ricordo di un'altra possibilità. Proprio per questa ragione noi possiamo parlare del Weltbild dell'Eterno
Ritorno soltanto in modo poetico oppure facendo ricorso a metafore lineari». Mohler ha
sostanzialmente ragione per quanto concerne l'inadeguatezza del nostro linguaggio, ma sbaglia nel
ritenere che il linguaggio poetico conservi il ricordo d'una concezione pluridimensionale del tempo.
Questo «ricordo» non esiste, è anzi impossibile, per una ragione assai semplice: fino a Wagner e
Nietzsche, tutti i Weltbilder dell'umanità sono stati sempre lineari, strutturati da una concezione
unidimensionale del tempo. La concezione cristiano-egalitaristica del tempo della storia - già vi è stato
fatto cenno - è segmentaria; quella del paganesimo antico è ciclica; ma ciclo e segmento sono ambedue
unidimensionali, lineari. La concezione tridimensionale del tempo è assolutamente nuova, invece,
sicché il linguaggio di cui disponiamo ne può parlare soltanto facendo ricorso all'analogia con lo spazio
macrofisico tridimensionale, ricorso che, se si vuole, può essere considerato «poetico».

Una riflessione sul Weltbild dell'Eterno Ritorno e sulle «analogie» e «metafore» impiegate per
«significare» la tridimensionalità del tempo della storia diviene a questo punto assolutamente
necessaria. L'immagine della sfera, la cui virtù consiste nell'offrire una rappresentazione della
tridimensionalità del tempo, è evidentemente analogica; essa ci fa vedere come - nella «sfera»
temporale che è il Presente – passato, attualità e futuro press'a poco corrispondono a quel che, in un
volume spaziale, sono profondità, larghezza e altezza. Essa anche permette di comprendere che al
presente puntiforme del tempo lineare, corrisponde - nel tempo tridimensionale - la linea curva della
attualità, così chiamata a scanso d'ogni equivoco. Il presente del tempo tridimensionale è invece per
l'appunto sferico ed ogni presente è totalità del divenire data secondo la prospettiva che offre uno ed
uno soltanto degli infiniti centri del divenire storico. Evidentemente questa «sfera» altro non
rappresenta che un tempo «geometrizzato», arbitrariamente astratto dal contesto spazio-temporale
della realtà. Nel nostro sforzo di rappresentazione, in effetti, noi ci troviamo qui confrontati allo stesso
problema e alle stesse difficoltà tra cui si dibatte la fisica relativistica, allorquando tenta di parlare d'un
universo a quattro dimensioni. La difficoltà maggiore, nel discorso sull'Eterno Ritorno, scaturisce non
tanto dalla tridimensionalità del tempo della storia (della quale è sempre possibile parlare prendendo a
prestito la terminologia «spaziale») quanto dall'inevitabile, seppure implicito, riferimento alla
quadridimensionalità della realtà storica, nella quale la relazione spazio-tempo è per così dire
rovesciata rispetto alla realtà macrofisica.

Il fatto storico - ciò che finora non è stato mai ben compreso - s'iscrive in uno spazio-tempo
diverso da quello in cui si iscrive l'evento macrofisico. In quest'ultimo caso abbiamo un cronotopo a
spazio tridimensionale e tempo unidimensionale; nel primo caso, un topocrono a tempo tridimensionale
e spazio unidimensionale. Se della Sfera dell'Essere è lecito dire, con Nietzsche, che il suo centro è
dovunque, è proprio perché si tratta d'una sfera quadridimensionale, così come è quadridimensionale
l'universo macrofisico einsteiniano.
Ora, come ogni fisico sa, il quadridimensionale è «irrappresentabile», giacché la nostra
sensibilità, legata ai dati della nostra costituzione biologica, non è «relativista»: bensì necessariamente
fissa in un punto astratto del tempo uno spazio astratto a tre dimensioni, ed il nostro linguaggio, riflesso
immediato di questa sensibilità, non sa cogliere che un tempo fisico lineare ed uno spazio fisico
tridimensionale e, per di più li separa, assolutizzandoli. In altre parole, noi disponiamo biologicamente
di una facoltà di rappresentazione tridimensionale dello spazio ed unidimensionale del tempo.
Quand'anche oggi si vada affermando in noi la coscienza di una «quadridimensionalità» dei vari
«livelli» della realtà, noi restiamo tuttavia sempre prigionieri della nostra costituzione biologica e non
possiamo dunque rappresentarci questa realtà quadridimensionale che grazie a proiezioni nel
tridimensionale o nell'unidimensionale, così come fa da oltre mezzo secolo la fisica relativistica. Ciò,
del resto, non ha nulla di sorprendente, giacché quel che noi qui chiamiamo «rappresentazione» è per
l'appunto una rappresentazione spaziale, il tempo stesso è - ai fini della rappresentazione -
«geometrizzato», cioè rappresentato spazialmente, con una sola ed unica dimensione. Non va qui
dimenticato che, se l'universo (la realtà macrofisica) einsteiniano è quadridimensionale, anche in questo
universo lo spazio ha tre dimensioni ed il tempo, una.

Per la rappresentazione della realtà storica quadridimensionale, noi dobbiamo per di più
invertire i rapporti di dimensionalità e cioè far ricorso ad una rappresentazione tridimensionale del
tempo ed unidimensionale dello spazio; ma, come nella fisica einsteniana, queste proiezioni restano
inadeguate, anche se utili. D'altra parte, seppure possiamo in definitiva rappresentarci ad esempio - e lo
abbiamo fatto - il tempo della storia come una «sfera» tridimensionale (astraendo dalla dimensione
spaziale), resta che di fatto noi siamo inevitabilmente ricondotti dalla nostra sensibilità biologica a
riproiettarla nell'unidimensionale, non foss'altro perché è impossibile «narrare la storia» senza
proiettarla sulla linea (unidimensionale) del tempo biologico, descritta ipso fatto dal nostro stesso
linguaggio o, per meglio dire, dal nostro discorso. Il discorso-narrazione impone così inevitabilmente
una proiezione-traduzione della Sfera temporale in una immagine «lineare», quella per l'appunto
dell'«Eterno Ritorno», variamente geometrizzata. Così uomini e ambienti della Konservative
Revolution sempre finirono col dovere usare, in alternanza con l'immagine della Sfera, anche quella del
Kreis, del Cerchio, non senza peraltro risentirne malessere, coscienti com'erano della inadeguatezza
deformante di questa immagine del Cerchio, già avvertita e denunciata dallo stesso Nietzsche.

Alla immagine del Kreis, del cerchio, alcuni preferirono - a ragione - quella della «Spirale».
Nelle sue pur dubbie confidenze a Hermann Rauschning (Gespräche mit Hitler, Europa-Verlag,
Zürich-New York, 1940, ult. ed. italiana Colloqui con Hitler, Tre Editori), Adolf Hitler propose anche
lui esplicitamente questa immagine della Spirale: «Allo stesso modo in cui nella visione degli antichi
popoli nordici il mondo sempre doveva di nuovo ringiovanire, il vecchio tramontando insieme ai suoi
dèi, ed allo stesso modo in cui per quei popoli i punti solstiziali simboleggiavano il ritmo stesso della
vita non già seguendo la linea retta d'un eterno progresso bensì una spirale, così l'uomo apparentemente
ripiega sul passato per innalzarsi in realtà ad un superiore livello». Peraltro anche l'immagine della
Spirale, seppure più soddisfacente di quella del Cerchio, resta inevitabilmente inadeguata. Il «livello
più alto» di cui parla Hitler è tale solo nella proiezione - e nella realtà biologica dell'«evoluzione» - ma
non è tale nella sfera quadridimensionale della realtà storica, dove ogni «presente» afferma una sua
prospettiva conglobante tutte le altre possibili e costituisce così, nello spazio puntuale della coscienza
umana col quale si confonde, il centro stesso della totalità del divenire storico.

Senza dubbio, oltreché d'una sensibilità esterna, l'uomo anche dispone d'una sensibilità interna,
la quale non ha mai cessato di «suggerire» all'intuizione l'esistenza di un'altra realtà (o più esattamente
di un altro livello di realtà) diversa dalla realtà macrofisica e biologica. L'uomo ha sempre contrapposto
corpo e anima, umano e divino, materia e spirito, temporalità ed eternità e così via; ma la «scienza» ha
fin qui quasi sempre obbedito ad un pregiudizio materialistico (o più esattamente macrofisico) e
dunque non ha voluto ammettere che un unico spazio-tempo, anche quando per avventura si sia indotta
a postulare l'esistenza di livelli di realtà non riducibili l'uno all'altro (come nel caso del sistema
elaborato da Stéphane Lupasco).

Peraltro, ciò che oggi incita molti scienziati a postulare l'esistenza di livelli diversi di realtà è
proprio la resistenza opposta da certi fenomeni allo sforzo «riduzionista» inteso ad «inquadrarli» nello
spazio-tempo della realtà macrofisica. L'analisi attenta del dibattito scientifico provocato da queste
«resistenze» mette in chiara evidenza quattro tipi di «fenomeni», cioè quattro aspetti della realtà, tutti
irriducibili l'uno all'altro: il macrofisico, il biologico, il microfisico, lo storico (il propriamente umano).
Se per definizione lo spazio-tempo è inteso come il quadro e, insieme, l'ultima «astrazione» di tutte le
relazioni istituibili fra oggetti appartenenti ad un livello di realtà, diviene allora evidente che ogni
«aspetto» della realtà ha uno spazio-tempo diverso. Nello spazio-tempo biologico la freccia del tempo è
rovesciata rispetto a quella «entropica» del macrofisico; lo spazio-tempo microfisico è caratterizzato
dalla discontinuità, laddove il macrofisico lo è dalla continuità. Laddove poi nello spazio-tempo
macrofisico la totalità della materia appare sempre tutta data, secondo una configurazione diversa, in
ogni momento puntiforme del tempo (donde il principio di conservazione della «massa-energia»), nello
spazio-tempo storico è invece la totalità della storicità ad essere sempre data in ogni intimità
puntiforme della linea di spazio umano (della «tradizione» storica), cioè in ogni «io» della coscienza,
ed ogni volta secondo una configurazione temporale diversa, cioè diversamente ordinandosi in passato,
attualità e futuro sulle tre coordinate dalla coscienza personale che sono la memoria, l'azione ed il
progetto.

Non avanzerò oltre su questo terreno «metascientifico», forse ingrato a molti. La digressione
m'è tuttavia parsa necessaria al fine di mettere in luce le implicazioni più importanti e magari inattese
di questa nuova concezione del tempo della storia inerente all'«idea della Musica» ed al Weltbild
dell'Eterno Ritorno, concezione approfondita ed arricchita da una riflessione ormai secolare. Ciò
dovrebbe permettere di meglio afferrare il «significato» delle immagini cui si riferirà, nel suo ulteriore
sviluppo, questo discorso sulla «rappresentazione» wagneriana dell'Eterno Divenire e di meglio
misurare la portata rivoluzionaria delle intuizioni di Richard Wagner. Ed anche sarà possibile, adesso,
di comprendere con esattezza perché mai Wagner, allorquando parla della rappresentazione dei suoi
Wort-Ton-Dramen, tende istintivamente a confondere i termini «rap-presentazione»
(Vergegenwärtigung) e «realizzazione» (Verwirklichung): è che per l'appunto nel Divenire storico il
«presente» non è più questo o quel momento puntiforme d'un tempo lineare, bensì abbraccia la
movente tonalità del tempo secondo una sua specifica prospettiva ed è cioè, insieme, passato attualità
futuro. Ogni realtà storica è, nello «spazio unidimensionale» della coscienza umana, coestensione di
passato, attualità e futuro, presenza di tutto ciò che diviene storicamente, allo stesso modo in cui l'«Io»
è, insieme, memoria azione e progetto

Struttura del dramma wagneriano

Nel dramma wagneriano la «rappresentazione scenica» è una realizzazione scenica della


tridimensionalità del presente, cioè della presenza simultanea del passato, dell'attuale e dell'avvenire, e
realizzazione - anche - del mutamento di prospettiva che ogni presente istituisce sulla totalità del
divenire. Per una simile realizzazione, la musica sola non basta. La musica genera, sprigiona dal
proprio seno il Weltbild del Divenire storico, ma non potrebbe da sola rappresentarlo.

L'analisi della lunga riflessione teorica sulla musica fatta da Wagner conduce ad una
constatazione che Carl Dahlhaus (in Wagners Konzeption des musikalischen Dramas) ha perfettamente
riassunto: Wagner considera la musica da un doppio punto di vista, come matrice del dramma e poi
come un mezzo di rappresentazione fra tanti altri. In virtù della sua dimensione «metafisica», la musica
è una «idea del mondo» ed è da questa idea che nasce la tragedia. Ma, se è «una idea del mondo e più
precisamente un'idea che abbraccia tutto», la musica non può tuttavia rappresentare «le idee
[particolari] contenute nei fenomeni del mondo». Già in uno scritto di gioventù intitolato Eine
Pilgerfahrt zu Beethoven (trad. italiana Una visita a Beethoven, Passigli) Wagner sosteneva: «Gli
strumenti rappresentano gli organi originari della natura e della creazione; ciò che essi esprimono non
può mai essere definito e determinato chiaramente, giacché essi restituiscono i sentimenti stessi delle
origini così come germogliarono dal caos della prima creazione». Più tardi, egli preciserà che la musica
esprime «non già la passione, il desiderio nostalgico (Sehnsucht), l'amore di questo o quell'individuo in
tale o tal altra situazione, bensì la passione, il desiderio, l'amore in se stessi», che cioè la musica
esprime «quel che è eterno, infinito, ideale»; «l'in-sé di tutti i fenomeni». La rappresentazione
del1'«idea della Musica» esige dunque più della sola musica, può essere ottenuta soltanto grazie al
concorso di tutte le arti, grazie all'arte totale.

Questo postulato della necessità di un'«arte totale» e del resto direttamente legato alla visione
che Wagner, nella prospettiva istituita dal suo presente, aveva della storia, visione che è poi il
presupposto dell'ambizione suprema della sua opera drammatica. Alla decadenza estrema d'un'umanità
avvilita e imbastardita, Wagner oppone 1'«utopia» d'un Rein-Menschliches, di un «puro umano»
riconquistato; all'inevitabile «fine», lo slancio verso una «rigenerazione». Dotato d'uno spirito
profondamente religioso, Wagner riconosce «l'usura definitiva della religione» (la cui ultima forma
storica, per lui, è il cristianesimo) ed è dunque all'«arte totale» che egli attribuisce - in un avvenire
rigenerato - quella funzione di vincolo comunitario e sociale che in altri tempi era stata assunta dalla
religione. Questa «arte totale», peraltro, Wagner deve re-inventarla. Nella sua epoca di decadenza -
questo è il suo pensiero - tutto ciò che una volta era vivo è divenuto oramai convenzione pietrificata; la
specializzazione ha frantumato l'umano, ogni individuo non è più che «un frammento d'uomo»; e la
stessa cosa accade nel campo dell'arte, la cui originaria unità è andata perduta, talché non esistono più
che arti specifiche. La rigenerazione dell'arte totale perseguita da Wagner è ricostituzione dell'unità
originaria delle arti, abolizione delle convenzioni che imprigionano «la vera natura dell'uomo», dunque
riscoperta del Rein-Menschliches, cioè dell'unità e totalità dell'uomo al di là d'ogni specializzazione, e
prima realizzazione esemplare di questo Rein-Menschliches sulla scena drammatica. Soltanto il Mito,
secondo Wagner, può elevarsi all'altezza del Rein-Menschliches; soltanto la tragedia - il Dramma -
scaturente dallo spirito della Musica può evocare per 1'«anima» la pienezza del divenire storico in cui
l'uomo è immerso: il dramma trova dunque il suo vero oggetto nel mito e, per converso, solo il dramma
può rappresentare il mito.

Il Wort-Ton-Drama, così come Wagner lo concepisce e lo realizza, è arte totale, nella forma più
compiuta, più esemplare: tutte le arti specifiche vi confluiscono e vi si fondono in un insieme
armonioso che le trascende dialetticamente. La rappresentazione del dramma, rigeneratore del Mito,
assume così valore di Andacht, di celebrazione rituale della comunità. Poesia, mimica, arti plastiche,
musica sono i mezzi grazie ai quali il dramma si realizza; ma la musica anche è - non bisogna mai
dimenticarlo - l'origine stessa del dramma e il dramma altro non è che «l'azione divenuta manifesta
della musica».

Nel dramma musicale wagneriano, la trama dell'eterno Divenire è tessuta dalla melodia infinita,
discorso sinfonico senza soluzione di continuità. Là dove l'opera lirica convenzionale compartimenta il
discorso musicale (ammesso e non concesso che si possa qui parlare di «discorso») in una serie di
«numeri» di cui il libretto offre soltanto illustrazioni-pretesto quanto mai superficiali, la melodia
infinita è un poema sinfonico che obbedisce unicamente alle esigenze del dramma. Testo musicale e
testo poetico si compenetrano nel modo più intimo, talché sembrano scaturire l'uno dall'altro. Wagner,
come è noto, ha sempre scritto i suoi poemi drammatici molto prima di tracciare lo spartito musicale,
ma ogni volta la sua ispirazione poetica era fondata da una «idea musicale» ben precisa, quel famoso
Klang (idea sonora) che immediatamente crea e caratterizza l'atmosfera sonora dei suoi drammi. Così
Wagner, per esempio, un giorno che stava componendo il Tristan und Isolde, poté immediatamente
scartare un'idea musicale venutagli in mente, giacché subito, istintivamente, seppe che quell'idea
«apparteneva» al Siegfried [alias]. Curt von Westernhagen ha giustamente affermato: «le leggi
musicali, secondo cui questi motivi in germe evolvono nello spirito di Wagner, erano le stesse che
comandavano e guidavano la nascita e l'evoluzione del testo poetico» (Wagner). Wagner stesso, in una
lettera al critico berlinese Karl Gaillard, ha rivelato: «Un soggetto non mi attira che allorquando
racchiude in sé, insieme, un significato poetico e musicale. Prima ancora di metter giù il primo verso,
di schizzare la prima scena, già sono inebriato dal profumo musicale della mia opera; ho già in testa
tutte le note e tutti i temi caratteristici, di modo che, una volta che ho redatto i versi e messo a punto le
scene, l'opera è praticamente terminata».

La melodia infinita fa corpo col poema (e col gesto scenico, con le immagini della scena) e,
grazie a questa fusione, «tutto è espresso». Quel che versi, parole, gesti, immagini plastiche non
possono dire, è la melodia infinita ad esprimerlo. Ding-an-sich («in-sé del fenomeno») e fenomeno
oggettivo, Wille («volontà») e Vorstellung («rappresentazione») si raggiungono e ritrovano la loro unità
nel sentimento (Empfindung) dello spettatore-ascoltatore: il velo di Maia, di cui parla Schopenhauer
[alias], è lacerato, distrutto (se l'intelletto di Wagner fu, per un certo tempo, affascinato dalla filosofia
di Schopenhauer, la sua «anima» non accettò mai il pessimismo metafisico dell'autore di Die Welt als
Wille und Vorstellung [trad. italiana Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza]: il
pessimismo di Wagner è un pessimismo attivo che sfocia sull'amor fati). Grazie alla musica, i limiti
dell'espressione verbale sono superati, giacché il linguaggio, sposando la musica, ritrova la «magia»
originaria in virtù della quale il nome crea e diviene la cosa. Liberato della strettezza univoca del
concetto, il Wort-Ton (la parola-musica) diviene simbolo mitico, un simbolo che può sembrare ambiguo
e che effettivamente lo è e deve essere, giacché ricrea l'unità degli opposti, riconduce gli opposti
all'«in-sé» che li riconcilia: ed è proprio così che il Mito ritrova e riconquista il Rein-Menschliches, la
totalità dell'umano.

La libertà della melodia infinita non risiede peraltro nell'abolizione delle servitù e convenzioni
dell'opera lirica, in una semplice «effusione senza pastoie». La sua libertà è la libertà stessa del
dramma, che anche abolisce le convenzioni della sinfonia classica, le regole che impongono - in una
rappresentazione del tempo che resta necessariamente lineare - sviluppo, trasformazioni, eclissi e
ritorni d'un tema dato. Nel Wort-Ton-Drama i temi scaturiscono dal dramma stesso, partecipando
intimamente, sovranamente alla strutturazione di tutti i presenti del dramma, cui conferiscono una
pluralità di dimensioni che è quella stessa del tempo della storia. Questi temi sono i Leitmotive.
Lavignac ha detto che il Leitmotiv è «la dimensione musicale d'un'idea», che esso dà «un corpo
chiaramente riconoscibile e percepibile a un personaggio, ad un fatto, ad una impressione determinata».
In realtà un Leitmotiv può ugualmente ricollegarsi ad un oggetto, ad uno stato d'animo, ad un tipo di
situazione, ad un avvenimento, e così via. In quanto elemento musicale, il Leitmotiv esprime un "in-sé"
che soltanto può essere sentito. La sua determinazione semantica gli viene dall'esterno, dagli elementi
del testo poetico o dall'azione scenica che esso sposa quando appare nel discorso musicale. Ma questa
determinazione semantica non è mai assoluta, il Leitmotiv è un simbolo e come è tale è lui, in ultima
analisi, a creare i «significati» e ad imporne l'evoluzione. Un Leitmotiv è divenire, non è mai
prigioniero del suo oggetto; al contrario ricollega, apparenta, confonde questo oggetto con altri
apparentemente distinti. Beninteso, l'oggetto scenico contribuisce alla chiarificazione del valore
simbolico del Leitmotiv e ci permette di «applicarlo»; ma il Leitmotiv non è mai legato all'attualità
scenica dell'oggetto che esso assume in questo o quel momento del dramma; anzi un Leitmotiv è, per
antonomasia, ricordo (Erinnerung) e premonizione (Ahnung) dei suoi «oggetti» e proprio come tale
conferisce al presente drammatico, in più della dimensione «scenica» dell'attualità, le dimensioni del
passato e dell'avvenire.

Il Leitmotiv della spada di Siegfried, uno dei più importanti del Ring, risuona per la prima volta
verso la fine dell'Oro del Reno [alias], allorquando la spada è soltanto un «progetto» nella mente di
Wotan. Il suo risuonare ci fa presentire che Wotan ha concepito un suo «gran disegno», ma quale sia
questo gran disegno lo si potrà sapere soltanto quando poi, nella Walchiria [alias] il Leitmotiv risuonato
per la prima volta nell'Oro del Reno sposerà il suo oggetto sensibile, la spada che, infitta nella quercia,
attende l'eroe che saprà strapparla alla sua prigione.

Nel tessuto della melodia infinita, la movente e sempre diversa polifonia dei Leitmotive realizza
- per il sentimento dello spettatore-ascoltatore - la tridimensionalità del tempo della storia.

Certamente, anche il testo poetico può suggerire questa presenza simultanea di passato, attualità
e avvenire, che è pienezza del tempo della coscienza e della storia: è anzi tratto caratteristico del
dramma wagneriano la ricorrenza in ogni atto (o, per il Ring, in almeno ogni giornata) di una scena-
chiave imperniata sul «racconto retrospettivo» o sulla «predizione». Il testo poetico, peraltro, soltanto
suggerisce dall'esterno, indirettamente, la tridimensionalità del tempo; il Leitmotiv, invece, la concreta
in modo immediato ed assume dunque a questo riguardo la funzione, fondamentale, del solo elemento
indispensabile. Per contro il testo poetico permette di percepire con esattezza il mutamento di
prospettiva istituito da ogni «presente», mutamento che la melodia infinita disegna per il sentimento ma
non potrebbe precisare all'intelletto. Di fatto, in ogni «presente» dell'avventura scenica, non soltanto
l'attualità bensì anche il passato e l'avvenire si configurano in modo sempre differente, cosicché le
«cause» del dramma e, conseguentemente, i loro «effetti» prevedibili ogni volta si trasformano e
trasfigurano, rivelando la ricchezza e la molteplicità del Divenire. E’ un dato, questo, cui non è mai
stata prestata sufficiente attenzione, sebbene sia un dato essenziale: nel Ring la «causa» del crepuscolo
degli dèi, che, all'inizio dell'Oro del Reno, ci sembra ricollegarsi nel modo più chiaro e senza alcun
possibile equivoco al furto dell'oro da parte di Alberich, si rivelerà poi, nella prospettiva di altri
«momenti», di volta in volta diversa ed il furto di Alberich, «effetto» di una fatalità anteriore, presente
già prima dell'«inizio» della vicenda.

(Nell'Oro del Reno, il declino del mondo sembra scaturire, in quanto destino, dal furto dell'oro
perpetrato da Alberich e, congiuntamente, dal sogno di potenza smisurata che ha indotto Wotan a
rischiare con troppa leggerezza il cibo che assicura agli dèi eterna giovinezza. In realtà furto di
Alberich e sogno di Wotan sono soltanto il segno della maturazione di un destino iscritto nel principio
stesso dal quale l'ordine cosmico ha tratto origine. Nel Crepuscolo degli Dèi, infatti, le Norne - le
Parche germaniche, figlie di Erda, la dea-madre - rivelano che la fine del mondo trova in realtà la sua
causa prima nella ferita inferta - nei primordi - da Wotan a Yggdrasill, il frassino che sorregge il
mondo. Per acquistare la scienza, che è potenza, Wotan aveva voluto bere l'acqua della sorgente sita ai
piedi di Yggdrasill ed aveva sacrificato il proprio occhio; istruito dalla sua nuova scienza e per
imprimere un ordine cosmico al mondo, Wotan aveva poi spezzato un ramo di Yggdrasill, per farsene
una lancia destinata, nelle sue mani, a divenire la garanzia dei contratti istituenti l'ordine cosmico. Ma
Wotan non ha desiderato scienza e potenza per se stesse, bensì per amore di Fricka, per ottenere
l'amore di Fricka, come egli stesso rivela nella Walkiria. L'amore, che è il solo mezzo con cui pervenire
alla ri-generazione del mondo, è anche il principio-causa, in cui già è iscritta la fine. Amore e morte
sono indissolubilmente associati nella loro apparente opposizione; l'amore è vita, ma «tutto ciò che è
vita, muore», così è e così deve essere, perché la vita sempre si rinnovi e sempre «ancora una volta
giovane» possa essere. La dimensione tragica dell'uomo, cioè la storicità umana, risiede in ciò, in
questo heideggeriano Sein zum Tode ("Essere-per-la-morte"), tanto frainteso da teologi ed
esistenzialisti.)

Questo mutamento di prospettiva legato ad ogni «presente», l'uomo l'ha sempre saputo, senza
peraltro riconoscerlo. Non hanno forse ogni epoca, anzi ogni uomo sempre visto e considerato in modo
differente il passato e l'avvenire e la stessa attualità? E non si sono forse sempre raccontata la «storia»
ciascuno in modo diverso, secondo una propria prospettiva? Noi parliamo qui di «prospettiva»: ma -
dobbiamo interrogarci ancora - è la prospettiva a cambiare in relazione ad una immutabile realtà o non
è piuttosto la stessa realtà storica - passato, attualità e avvenire insieme - a divenire perpetuamente?

Arte e critica

Se il mutamento di prospettiva legato ad ogni presente del dramma wagneriano è stato assai raramente
percepito, la tecnica del Leitmotiv e la funzione fondamentale che nel dramma assumono «ricordo» e
«premonizione» non hanno invece cessato, da oltre un secolo, di costituire l'oggetto di analisi e giudizi
quanto mai discordanti. Quel che colpisce in queste analisi, anche allorquando conducono ad
un'adesione entusiastica, è lo stupore suscitato dalla struttura temporale del dramma wagneriano. Nel
suo saggio sulla concezione wagneriana del dramma musicale (Wagners Konzeption des musikalischen
Dramas, op.cit.), Carl Dahlhaus non nasconde questo suo stupore: «Si sarebbe potuto pensare - scrive -
che la tecnica del Leitmotiv fatalmente conduca ad una sospensione del corso del tempo o quanto meno
faccia apparire inappropriata questa nozione, giacché mette in luce quel che, al di là del mutamento,
resta identico e, insieme, i ritorni che s'effettuano all'interno del movimento. Ora, nel Ring, avviene
esattamente il contrario. La congiunzione, il confondersi di passato e presente contribuisce invece a
farci divenire coscienti del tempo. Che le reminiscenze sonore si ricolleghino ad un avvenimento
scenico non significa che i modi temporali rifluiscono l'uno nell'altro. La distanza temporale resta
preservata: anzi è accentuata. Tuttavia il Leitmotiv dal momento in cui si lega ad un avvenimento,
subito anche rivela, dietro questo avvenimento, una profondità temporale che gli conferisce un
significato ed una portata che da solo non avrebbe mai ottenuto. In verità, è il tempo stesso, e non
questo o quell'avvenimento passato che agisce nel presente, a costituire il momento effettivo» (op. cit.).

Dahlhaus (che, sia detto fra parentesi, non presta sufficiente attenzione all'idea di
«premonizione») si rende perfettamente conto del fatto che il Leitmotiv desta «la coscienza del tempo»
ed anzi perfino parla della «profondità temporale» conferita all'avvenimento scenico, del «momento
effettivo» che è il tempo stesso. Ma - qui sta il punto - tutto ciò lo stupisce. Obnubilato dalla sua
concezione lineare del tempo, egli dava logicamente per scontato un risultato inverso. Per lui il
«presente» esclude per definizione passato ed avvenire, i modi temporali non possono «rifluire l'uno
nell'altro». Stupito, ma sincero ed onesto, egli riconosce tuttavia il fatto fondamentale, cioè il «risveglio
della coscienza del tempo» causato dalla tecnica del Leitmotiv. In molti altri critici lo «stupore» cede
invece il passo ad una vera e propria repulsione ideologica, che comporta una condanna senza appello:
e la «confusione dei modi temporali» nel Wort-Ton-Drama viene denunciata allora come una
«falsificazione» deliberata, come una «mistificazione».

Nelle sue Anmerkungen zu Richard Wagner, Hans Mayer parla ad esempio di «forma
ambivalente [che nasce] da uno strano miscuglio di tradizione conservatrice e di veemente sovversione
(heftiger Umkehr)», con involontario riferimento al linguaggio della discendenza politica di Wagner (e
Nietzsche), cioè - per l'appunto - al linguaggio della Konservative Revolution. Secondo Mayer, Wagner
s'abbandonerebbe da una parte ad una sorta di «utopia del tempo primordiale» (Utopie der Vorzeit) -
ciò che lo riavvicinerebbe alla «tradizione regressiva del romanticismo tedesco da Novalis fino a
Hoffmann»: «attaccamento esclusivo alla tradizione, al mondo-che-non-c'è-più, desiderio di far ritorno
nella patria perduta, regno dell'infanzia e insieme regno dei morti». Ma, d'altra parte e nello stesso
tempo, il dramma wagneriano anche pretenderebbe di «avere un rapporto con l'avvenire» e sfocierebbe
su «un'autentica utopia di ciò-che-ancora-non-esiste». Ne risulterebbe una «associazione
profondamente problematica e sospetta (fragwürdig)». La critica di Hans Mayer, infeodata alla
Bayreuth di Wieland Wagner, non è esente da ipocrisia, con considerazioni che prudentemente sempre
oscillano fra il riverente omaggio all'artista e la denuncia, la sottile condanna dell'«ideologo». Non è
certo il caso di Theodor W. Adorno, uno dei capofila della scuola di Francoforte [alias], il quale non ha
peli sulla lingua, visto che con Wagner ha da regolare un conto, quello di Beckmesser, personificazione
della «critica ebrea» messa in berlina nei Maestri Cantori di Norimberga.

Secondo Adorno il Wort-Ton-Drama, con la sua «deprimente» confusione dei modi temporali,
altro non sarebbe che una «fantasmagoria», una mistificazione pura e semplice. Wagner,
«rivoluzionario rinnegato», vorrebbe ingannare se stesso e, nello stesso tempo, ingannare il pubblico.
Poiché il senso della storia - sempre secondo Adorno - è «progresso» (così come Marx ha stabilito una
volta per tutte) e poiché la marcia del tempo condurrà infallibilmente alla fine di quel «mondo
borghese» cui Wagner, rinnegandosi, s'è legato, il Wort-ton-Drama non potrebbe avere altro fine che
quello, reazionario ed illusorio, di «sospendere il tempo», di negarlo, nel «fantasmagorico» happy end
del Ring e del Parsifal [alias]. Ciò ammesso, tutto diventa semplice: nonostante il suo innegabile genio,
Wagner in quanto musicista resta «sospeso» fra il passato e l'avvenire, giacché «non osa fare la
rivoluzione». Senza temere il ridicolo, Adorno trova una «prova abbagliante» di questa «sospensione»
nella constatazione che la «prassi armonica» di Wagner non è più quella di Beethoven senza però già
essere quella di Schönberg (l'atonale). La «moralità» della favola adorniana è la seguente, che ha
trovato adepti fin nella Bayreuth del povero Wolfang Wagner, succesore di Wieland: la messa in scena
del dramma wagneriano dovrebbe tendere ormai a evidenziare il «sistema di fabbricazione» (il cui fine
sarebbe l'inganno), le «crepe» (Brüche) disseminate in un'opera omogenea e perfetta soltanto in
apparenza, insomma a smontare la «fantasmagoria» wagneriana.

Per Adorno, che è una sorta di zelota della morale egalitaristica, l'opera d'arte è un «prodotto
fabbricato» e la «fantasmagoria» wagneriana avrebbe per l'appunto il fine precipuo di farcelo
dimenticare, di farci credere che essa «procederebbe dallo spirito». «Le opere d'arte - egli scrive nel suo
saggio su Wagner (Versuch über Wagner) debbono la loro esistenza alla divisione del lavoro, alla
separazione del lavoro intellettuale e del lavoro manuale. Ciò nondimeno esse presentano se stesse
come un essere-là; il loro medium non è lo spirito puro che è per sé, bensì quello che ritorna
nell'esistenza e, in virtù di questo movimento, afferma unito ciò che è separato. Questa contraddizione
costringe le opere d'arte a far dimenticare che esse sono fabbricate: la pretesa di un loro essere-là e
dunque la pretesa di essere-là in quanto essere-là ricco di significato riesce in modo tanto più
convincente se in esse un minimo di cose ricorda che sono state fabbricate, che cioè debbono l'esistenza
allo spirito in quanto spirito ad esse esterno. L'arte che non ha più buona coscienza nel commettere
questa sua fumisteria (che è il suo stesso principio) ha già dissolto l'elemento nel quale soltanto può
realizzarsi». Questo macchinoso discorso, proprio dello stile adorniano, sta a significare che Richard
Wagner, in quanto originariamente «rivoluzionario», avrebbe riconosciuto la vera natura dell'opera
d'arte, che è quella di «prodotto fabbricato», e cosìavrebbe perduto la «buona coscienza» dell'artista
«ingenuo»; ma che poi, divenuto «rinnegato», avrebbe fabbricato con perfetta malafede le sue opere,
sforzandosi di farle passare per quel che non sono. Laddove insomma un artista «ingenuo»
ingannerebbe incoscientemente - ciò che conferirebbe alla sua opera quanto meno una sorta di «grazia»
-, Wagner ingannerebbe invece scientemente - ciò che, a dispetto della «fantasmagoria» destinata ad
occultare il procedimento di fabbricazione, priverebbe di ogni «grazia» tutta la sua opera artistica.
La critica mossa da Adorno all'opera di Wagner (ma bisognerebbe poter dire: contro l'opera di
Wagner) è una critica radicale, che fa ricorso agli ultimi sviluppi di una filosofia ega litaristica ripiegata
dolorosamente su se stessa. Strettamente fedele alla «antropologia negativa» del suo autore e della
scuola di Francoforte [alias], questa critica innalza a principio assoluto - e principio assoluto di ogni
verità - il punto di visita «negativo» del critico, opponendolo ideologicamente al punto di vista
«affermativo» dell'artista, che essa dichiara fondato da - e su un «inganno». Ma proprio per questo,
l'accanimento particolare di cui fa mostra Adorno nel «denunciare» Wagner finisce con l'assumere il
più inatteso dei significati: che cioè, per lo stesso Adorno, Wagner esprime meglio di chiunque altro il
punto di vista dell'artista creatore ed è e resta il più grande genio artistico dei nostri tempi. Dopo le
analisi di Marx, dopo la scoperta delle realtà della lotta di classe, l'arte secondo Adorno non può più - e
non deve più - avere buona coscienza, giacché è ormai cosciente (o comunque dovrebbe essere
cosciente) di essere «inganno», di «non procedere dallo spirito puro». L'arte dovrebbe dunque negare
se stessa, in una nonopera che riveli in modo immediato la propria natura di «prodotto fabbricato»,
nato dalla «alienazione» umana, e continuare a così denunciarsi, in attesa del giorno in cui l'abolizione
della lotta di classe anche si risolverà in abolizione delle condizioni stesse che hanno reso possibile
l'esistenza delle opere d'arte. In questa prospettiva, l'inammissibile colpa di Wagner è di aver voluto
continuare a darsi la buona coscienza che aveva perduto, di aver voluto continuare ad «ingannare»,
dissímulando - con l'invenzione d'un nuovo procedimento, la «fantasmagoria» - il fatto che l'opera
d'arte è un «prodotto fabbricato». Nel giudizio di Adorno, ciò costituirebbe il «fascismo originale» -
originale come il peccato d'Adamo - dell'opera di Richard Wagner.

Il Saggio su Wagner di Adorno assume molto spesso le apparenze di un giudizio estetico


concernente la riuscita dell'opera artistica in relazione alle intenzioni dell'autore. Ma in realtà Adorno
se la prende proprio con le intenzioni stesse di Wagner. Se Adorno insiste sul preteso «fallimento»
delle ambizioni e dell'impresa di Wagner, è perché egli intende dimostrare che le intenzioni di Wagner,
«moralmente inammissibili», sono anche irrealizzabili. Quel che da più d'un secolo la folla dei
«pellegrini di Bayreuth» ha sempre sentito, quel che la maggior parte della critica sempre ha
riconosciuto, Michel Hoffmann lo ha riassunto in queste righe: «Musicalmente parlando, Anello del
Nibelungo è una riuscita totale, una realizzazione totale di tutte le concezioni di Wagner: non c'è più
alcuna concessione all'opera [lirica], bensì un'architettura rigorosa, sistematica, conforme a tutti i
principi del dramma musicale. La traduzione scenica, la traduzione poetica, la traduzione musicale si
completano e si interpenetrano...». Adorno, lui, vorrebbe dimostrare il contrario: che Wagner avrebbe
mancato il segno, sarebbe fallito nel suo intento; che i suoi Wort-Ton-Dramen sarebbero esattamvente
quel che egli non voleva che fossero, cioè delle opere liriche, con in meno la spontaneità e la grazia
ingenue delle opere; che dovunque nell'opera artistica di Wagner il «prodotto fabbricato» sarebbe
denunciato da «crepe» evidenti e la «cattiva coscienza» del fabbricante dall'evidenza del «trucco». Di
più: Adorno sostiene che non potrebbe essere altrimenti, giacché secondo lui la «ragione» e una e
indissolubilmente legata alla segmentarietà del divenire storico, all'unidimensíonalità del tempo.
L'artificiosità, l'assurdità di questa tesi è così patente che i «registi» adepti di Adorno non hanno trovato
e non trovano di meglio, per dimostrarla, che una gigantesca falsificazione dei drammi musicali di
Wagner ottenuta con lo stratagemma assai ridicolo consistente nel fare esattamente l'inverso di ciò che
Wagner ha espressamente voluto e meticolosamente indicato.

Due opposte visioni del mondo

L'opposizione tra Wagner e Adorno scaturisce in realtà da un conflitto da tra due opposte
visioni del mondo, tra due «miti». Parlare di «mito» a proposito di Adorno, apostolo dei «lumi» e
difensore ex cathedra della «ragione», può sembrare forse paradossale: ma il paradosso esiste qui
soltanto per chi ignori le conclusioni cui è giunta la «riflessione critica» di Adorno e di tutta la prima
scuola di Francoforte [alias]. Al suo inizio, negli anni '20, la scuola di Francoforte si riproponeva di
approfondire ed esplicitare l'antropologia e la sociologia implicite del marxismo, con la speranza di
accelerare così la «presa di coscienza» del proletariato e, con ciò stesso, il «movimento rivoluzionario».
Peraltro, a mano a mano che s'andava sviluppando la sua riflessione sull'attualità, la scuola di
Francoforte fu indotta prima a mettere in dubbio, poi a ripudiare la teoria del marxismo (nonché la
prassi che ne deriva) - e proprio in nome del fine perseguito da Marx, la rivoluzione egalitaristica. La
scuola di Francoforte ha così abbandonato la visione della storia propria (sotto apparenze diverse) delle
correnti «classiche» dell'egalitarismo (dal cristianesimo al marxismo), visione escatologica, secondo
cui la «storia» è una parentesi dolorosa ed umiliante, alienante, situata tra l'Alfa della perdita del
paradiso edenico (o della fine dell'«orda primitiva comunista») e l'Omega rappresentato dalla definitiva
instaurazione del Regno dei Cieli (o dalla definitiva instaurazione su terra del «regno della libertà»).

I maestri della scuola di Francoforte [alias] - in particolare Horkheimer e Adorno - hanno finito
con l'adottare una concezione del destino storico dell'umanità che ricorda da vicino quella del loro
correligionario Siegmund Freud [alias, alias], imperniata sul concetto di un inevitabile e insopprimibile
«malessere della civiltà». Horkheimer e Adorno, come anche Marcuse, non credono più alla funzione
storica del proletariato (o di chiunque altro), cioè alla sua capacità di condurre a termine l'impresa
escatologica che Marx e Engels gli avevano assegnato; e dunque non attendono più la fine della storia,
l'instaurazione del «regno della libertà»: il «malessere della civiltà», 1'«infelicità» umana non può non
riprodursi. Tuttavia questo loro pessimismo va di pari passo con un «attivismo contestatore»: attivismo
critico, negativo, rifiuto sempre rinnovato delle «affermazioni» che «producono l'infelicità».

Questa concezione «negativa» della scuola di Francoforte [alias] si fonda su una considerazione
gnoseologica, che è alla base dell'«antropologia negativa»: cioè sulla constatazione che ogni scienza
(«positiva») istituisce una tecnica specifica grazie alla quale 1'«oggetto» è reso disponibile per il
«soggetto», cioè per l'uomo. La scuola di Francoforte ne deduce che non può esistere o, meglio, non
deve esistere una scienza positiva dell'uomo, giacché una simile scienza creerebbe tecniche specifiche
grazie alle quali uomini arbitrariamente costituentisi in soggetto potrebbero «manipolare» altri uomini
degradati ad «oggetto». Ogni «affermazione» concernente l'uomo - qui comprese le «affermazioni»
esplicite o implicite del cristianesimo e del marxismo - deve dunque essere ricusata e combattuta,
giacché soltanto questo rifiuto - pensano Horkheimer e Adorno - potrà forse «produrre» una sorta di
lento «progresso asintotico» verso il pur inaccessibile Omega egalitaristico d'una «emancipazione»
universale. Così stando le cose, non stupirà che la riflessione della scuola di Francoforte sia sfociata
infine e si sia confusa con un'adesione pressoché totale agli insegnamenti della Bibbia giudaica,
atteggiamento ripreso e adottato recentemente anche da certi pretesi "nuovi filosofi" Parigini, in
particolare da André Glucksmann con I padroni del pensiero (versione originale: Les maîtres penseurs)
e da Bernard-Henri Lévy [alias] con Il testamento di Dio (versione originale: Le testament de Dieu).

Poco prima di morire, in un'intervista concessa al settimanale tedesco Der Spiegel, Horkheimer
aveva espressamente raccomandato il «ritorno a Geova» e «l'eterna attesa» di un messia che non verrà
mai e di cui si sa che non può venire. Naturalmente i marxisti ortodossi accusano di «tradimento» la
scuola di Francoforte, la rigettano nel purgatorio del riformismo: ma è una disputa in famiglia, funzione
di caratteri e temperamenti opposti, che lascia cadere una luce singolare su un'altra disputa secolare,
quella fra cristiani ed israeliti, e permette di meglio comprendere perché gli ebrei hanno rifiutato di
vedere in Gesù il messia. Goethe diceva che un'idea, spinta alle sue ultime conseguenze, si dissolve.
Senza dubbio la scuola di Francoforte [alias] deve essersi accorta che stava spingendo alle sue ultime
conseguenze il discorso egalitaristico. Per evitare la «dissoluzione» di questa idea, le restava un solo
mezzo: sospendere la fine della storia in una «attesa senza fine», confortata da un atteggiamento di pura
critica, di pura negazione. Ed è certo per la stessa ragione che Horkheimer ha messo in guardia contro
qualsiasi rivoluzione, giacché - ha affermato - «la rivoluzione non può essere che fascista».

Così, in modo che a taluno parrà sorprendente, la visione della storia della scuola di Francoforte
[alias] finisce con l'assomigliare stranamente ad una «proiezione lineare» - ma presa alla lettera e col
segno inverso - del Weltbild dell'Eterno Divenire, dell'Eterno Ritorno. L'apparenza è qui ingannevole,
poiché il tempo dell'Eterno Ritorno non è lineare e, dato totalmente in ogni suo momento, non conosce
progressi o regressi, asintotici o no che siano; ma l'apparenza sembra aver ingannato Adorno, che ha
dunque visto nell'opera di Wagner il frutto di una «conoscenza» uguale alla sua, ma rinnegata, in cui
1'«affermazione ostinata» prende il posto dell'«incessante negazione». Adorno mente - certo in buona
fede - allorquando, come già faceva Lukàcs [alias, alias], pretende opporre la (sua) «ragione» alla non-
ragione, all'«irrazionale» di Wagner. In realtà egli oppone ragione a ragione, anzi - più esattamente -
volontà a volontà, progetto a progetto e - lo abbiamo visto con le ultime raccomandazioni di
Horkheimer - origine a origine, passato a passato. La debolezza della sua posizione sta proprio in
questa sua cieca convinzione di «aver ragione», là dove non può esserci né torto né ragione; e la sua
esasperazione proviene forse proprio dall'oscuro sentimento che l'opera di Wagner storicamente supera
la concezione egalitaristica della «ragione».

Adorno non ammette che la situazione storica dell'uomo possa essere rigenerata, nella sua
originalità, da una coscienza storicamente nuova. Ai suoi occhi l'opera d'arte, divenuta «cosciente della
sua condizione», non potrebbe sopravvivere che grazie alla negazione di sé, fosse solo per «auto-
distanziazione». Wagner, al contrario, vuol rigenerare con l'opera d'arte totale tutte le potenze originali:
il Rein-Menschliches del Mito, il carmen del verbo nascente e della tragedia greca; e propone - al di là
della decadenza e del declino - la pienezza esaltante d'un nuovo inizio, nella coscienza tragica che una
volta di più ciò comporterà ad ogni istante, conquiste e sconfitte, lutti e gioie, vita e morte. Affondando
le sue radici nella terra che è la sua, l'istinto di Adorno non sbaglia quando si sforza di non vedere
l'«idea della Musica» così come Wagner la «rappresenta», e con ciò stesso di negarle esistenza. Di
fatto, già la sola «rappresentazione» di questa idea costituisce l'inizio possibile d'un nuovo eone di
storia e la distruzione possibile del «progresso» verso l'Omega egalitaristico. E che 1'«idea della
Musica» si sia rappresentata nel e col mito germanico non è un caso, bensì una necessità conforme alla
logica dell'istinto in cui Wagner ha trovato la propria ispirazione: giacché non esiste altra mitologia in
cui una memoria ancorata nel nostro presente possa trovare, descritti così chiaramente, dèi destinati
alla morte e ciclo di storia divina la cui conclusione sia anche, nello stesso tempo, inizio di un altro
ciclo. In fondo proprio l'avversione di Adorno per Wagner chiarifica il problema, se problema c'è mai
stato: il Mito wagneriano s'oppone deliberatamente e in modo irriducibile a quel mito ed a quella
«ragione» in cui Wagner stesso individuava la causa fondamentale della degenerazione dell'europeità,
cioè al mito giudeo-cristiano ed alla «ragione» egalitaristica.
IL MITO. INTRODUZIONE AL RING SECONDO WAGNER
L'antico e il nuovo

In una «veglia» (L'Oro del Reno [versione cartacea con traduzione a fronte]) e tre «giornate»
(La Walchiria [versione cartacea con traduzione a fronte], Sigfrido [versione cartacea con traduzione a
fronte], Il Crepuscolo degli Dèi [versione cartacea con traduzione a fronte]), l'Anello del Nibelungo
apparentemente è una rappresentazione drammatica del mito antico del destino degli dèi e degli eroi,
mito del quale le saghe dell'Edda scandinava e più d'un poema tedesco medievale hanno perpetuato il
ricordo. In realtà L'Anello è molto di più, offre ben altra cosa. L'immaginazione di Wagner trasfigura
quel che non era ormai più che un insieme di «fossili» letterari: il passato che essa sceglie e
liberamente ricostituisce, l'avvenire che essa progetta, l'attualità conferita all'antiquato racconto
strutturano un nuovo presente della coscienza umana. Dalla nascita del mondo ad una fine che è
concepita anche come rinascita, rigenerazione, tutta una storia dell'umanità viene prodigiosamente
evocata: una storia che al tempo stesso è storia passata, storia in corso, storia futura - e che è
sostenuta da una concezione antropologica - imperniata sull'idea del Rein-Menschliches, implicante un
rovesciamento radicale dei valori. Richiamato a vita dalla sua tomba millenaria, il vecchio mito
germanico (che è una forma particolare del mito indoeuropeo come Georges Dumézil ha
esaurientemente dimostrato) acquisisce dimensioni che non aveva mai avuto e, insieme, ritrova
l'inebriante giovinezza della «barbarie». Come il Lied di Walter von Stolzing alle orecchie di Hans
Sachs nei Maestri Cantori, il mito trasfigurato da Wagner «risuona tanto antico» pur essendo «così
nuovo». [Per una discussione delle edizioni su CD e DVD della Tetralogia, con relativi link per
acquistarli, vedi qui].

Non è certamente a caso che Wagner scelse il materiale mitico dell'Edda per rappresentare la
sua «idea del mondo». La scelta gli si è imposta come una necessità, nella misura stessa in cui era
anche scelta d'un passato contro un altro passato: scelta di un passato più profondo, riconquista delle
vere origini e; con ciò stesso, promessa di un avvenire "più lungo", più lontano. L'idea fichtiana
secondo la quale il Volk (popolo) tedesco sarebbe il solo «popolo», perché sarebbe il solo ad aver
conservato il ricordo della propria origine e delle proprie radici, si confonde in Wagner con la
convinzione che la «dinastia imperiale» tedesca sia l'erede legittima del «tesoro dei Nibelunghi», tesoro
che sarebbe poi il pegno della dominazione del mondo esercitata «in nome e per la felicità di tutti i
popoli», giacché anche sarebbe il simbolo «della terra stessa in tutto il suo splendore» offerta in
godimento all'umanità. Il ripiego sul passato, che nel discorso egalitaristico e cristiano del
romanticismo soltanto poteva configurarsi come un lapsus apparentemente «reazionario», trova nel
discorso di Wagner la sua vera logica e, pertanto, il suo volto autentico: strutturato dall'«idea della
musica» ed intorno ad essa, esso si precisa ripiego sull'origine più lontana, ripiego su un'origine e su
un passato scelti contro altre possibili origini ed altri possibili passati, mitema ricollegato adesso nel
modo più intimo a tutti gli altri elementi del mito (ciò che per l'appunto ne precisa il significato).
D'altra parte, se la scelta del mito germanico dell' Edda materializza la scelta dell'origine più lontana in
stretta dipendenza dall'«idea tedesca», la rielaborazione e ristrutturazione che Wagner fa dei racconti
dell'Edda è la manifestazione di una superiore coscienza che apre un'epoca nuova all'umanità e
costituisce in se stessa un. progetto rivoluzionario animato da quello slancio verso l'avvenire più
lontano che è l'immediata contropartita del ripiego sull'origine più lontana. Così recupero (ma è invalso
il termine di conservazione, sebbene inadeguato) e rivoluzione si confondono, si fondono in un unico
intento, rispetto ad una cultura ed a una società che - nei fatti - si richiamano ad un'altra tradizione,
quella giudeocristiana, e nutrono un progetto soltanto «progressista», quello egalitaristico.

È impossibile comprendere Wagner a fondo, se non ci si rende conto che, nel tempo
pluridimensionale della sua visione della storia, passato, attualità ed avvenire sono dimensioni
costitutive del presente, dunque inseparabili e perfino - col mutar del presente e della prospettiva -
intercambiabili, press'a poco nel modo in cui lo sono, nello spazio, le dimensioni di lunghezza,
larghezza e altezza (o profondità). Voler fare di Wagner un rivoluzionario di tipo socialista, vedere nel
Ring una parabola dell'interpretazione marxista o quasi-marxista della storia, è il risultato d'una
caparbia cecità filosofica - quando semplicemente non è frutto di malafede e volontà deliberata di
ingannare. Troppi e troppo essenziali elementi del Ring sono in contraddizione con l'interpretazione
marxista della storia oppure a questa assolutamente estranei per non rendere ridicola, insostenibile una
lettura marxista del capolavoro di Wagner. Ma quand'anche, a prezzo d'una deliberata ignoranza degli
elementi troppo scomodi e non-inquadrabili, una lettura marxista fosse possibile, tanto più dovrebbe
colpire le intelligenze e le immaginazioni l'opposizione patente che esiste fra il sistema di valori
egalitaristico-socialista ed il sistema di valori che ispira, all'interno del Ring, i giudizi e le «prese di
posizione» di Wagner nei confronti di personaggi ed avvenimenti: ché allora Wagner, pur avendo una
visione «marxista» della storia, sempre si schiererebbe dalla parte dei «cattivi» e lascerebbe battere il
suo cuore all'unisono con quegli dèi del Valhalla che un regista tedesco ha recentemente avuto
l'ineffabile stupidità di vestire col frac e cappello a cilindro del «capitalista» da caricatura. L'origine di
questa favola risale, credo, a George Bernard Shaw, il quale finì peraltro, nonostante un'asineria
filosofica tipica di certi inglesi e nonostante il suo desiderio di far passare il Ring per una allegoria
dell'impresa socialista, con l'ammettere che la «conclusione» e la «morale» dell'opera «tradiscono
decisamente il socialismo ed il suo ideale». Ciò non ha impedito punto la ricezione sempre più larga
dell'interpretazione di G. B. Shaw, almeno nei suoi tratti fondamentali, e soprattutto in questo
dopoguerra, da parte di una critica rappresentante una vasta coalizione di interessi politici, ideologici e
«culturali» ben decisa, più che a mettere in luce e «sfruttare» un preteso socialismo di Wagner, e
rendere illeggibile un'opera, il cui vero significato la spaventa.

Agli occhi di questa critica, Shaw ha avuto il merito immenso di dare credito alle due grandi
leggende già messe in circolazione, ma sottovoce, allorquando Wagner viveva ancora, leggende
secondo le quali l'autore del Ring sarebbe un «socialista rinnegato» passato nel campo della «grande
borghesia imperialista» della Germania guglielmina, ed il Ring, originariamente concepito in uno
spirito socialista e rivoluzionario, poi maldestramente «corretto» in funzione del nuovo orientamento
politico, opera piena di contraddizioni e, tutto sommato, abortita. (Ancora rispettati - aggiunge questa
critica - nell'Oro del Reno, nella Walchiria e nella prima parte del Sigfrido, i principi del Wort-Ton-
Drama sarebbero stati traditi e abbandonati, insieme al socialismo, nell'ultimo atto del Sigfrido e
soprattutto nel Crepuscolo degli Dèi...).

Queste due leggende riposano davvero sul nulla, a meno che non si voglia riconoscere qualche
consistenza alla confusione dei linguaggi. I marxisti d'ogni stampo, è fatto noto, hanno la grottesca
pretesa di voler accaparrare la «rivoluzione», l'avversione per la «borghesia», la lotta contro il
«capitalismo». Wagner non poteva e non può non imbarazzarli, allo stesso modo in cui li ha
imbarazzati e li imbarazza il fenomeno rappresentato dai vari «fascismi». Wagner è di fatto un
autentico rivoluzionario, perché associa ripiego sull'origine e slancio verso l'avvenire in una storia
rigenerata, anziché essere soltanto un «progressista» come socialisti, comunisti e, oramai,
«democratici» tutti. E non ha mai cessato di esecrare, denunciare e combattere l'ordinamento politico,
sociale ed economico - ai suoi occhi un tutto - che i marxisti chiamano «sistema capitalistico», giacché
non ne vedono e sanno considerare che un solo aspetto, di per sé non determinante. Ma Wagner non è
mai stato socialista (come poteva esserlo?) e lo ha proclamato. L'equivoco, accuratamente mantenuto
da biografi disonesti, d'un preteso «socialismo» di Wagner, ha sempre cercato appigli
nell'atteggiamento assunto da Wagner all'epoca in cui egli era direttore all'Opera di Dresda, concepì il
progetto d'un dramma elaborante il materiale del mito germanico e scrisse il testo della Morte di
Sigfriedo. C'è poi tutta una falsificazione deliberata della natura, dei motivi e perfino della cronologia
delle modificazioni che, più tardi, Wagner apportò al suo progetto iniziale, falsificazione destinata
anch'essa a sostenere un'argomentazione speciosa.

Cominciamo dall'«equivoco». A Dresda Wagner andò esprimendo in modo sempre più


spettacolare le sue intenzioni, manifestò la sua simpatia per il movimento rivoluzionario democratico-
liberale dell'epoca, si legò d'amicizia personale con Roeckel, che era un socialista (ma non marxista,
ché Marx ancora non s'era affermato), frequentò Bakunin senza troppo comprenderlo e senza esserne
compreso, e infine partecipò, in veste di spettatore entusiasta più che combattente, all'insurrezione del
1848, ragione per cui fu subito bandito dalla Sassonia e dall'intera Germania. Wagner s'era in effetti
convinto che fosse possibile far causa comune con tutti coloro che volevano la «rivoluzione», socialisti,
demoliberali, anarchici. Ma ciò non gli impediva di opporre sempre, e con gran fracasso, le proprie idee
a quelle dei socialisti e dei demo-liberali, i cui obiettivi gli sembravano perfettamente «assurdi» ed ai
quali, non senza ingenuità, illustrò con un discorso famoso l'imperiosa necessità d'un ordinamento
«monarchico», come espressione e guida della volontà popolare. In realtà Wagner non aveva alcuna
idea precisa di ciò che era il socialismo, fatto tanto più comprensibile giacché a quell'epoca il
socialismo stesso non l'aveva e andava ancora cercandosi, in attesa di Marx.

Ben presto deluso, Wagner non tardò a riconoscere di «essersi ingannato sul conto dei
socialisti» e non cessò di ripeterlo. E’ divertente, del resto, rilevare che Wagner si è rimproverato di
«aver creduto un momento nel movimento dei lavoratori», contro il quale fa uso, con un secolo di
anticipo, di quegli stessi argomenti cui faranno ricorso Herbert Marcuse e la scuola di Francoforte
[alias] al fine di negare al proletariato (contro la teoria marxista «ortodossa») qualsiasi funzione
autenticamente rivoluzionaria e, come essi dicono, «emancipatrice». «Oggi debbo pagare
dolorosamente - scrive Wagner all'amico Kietz nel 1853 - il fatto di aver puntato sui lavoratori.
Nonostante tutto il chiasso che fanno, costoro sono soltanto schiavi tra i più meschini, che chiunque
può mettersi in tasca promettendo loro lavoro a sazietà». Come osserverà, non a torto, il citato
Marcuse: il «proletario» aspira a diventare «borghese» anche lui, ad essere sempre più e sempre meglio
«integrato» nella società «capitalistica», democratica e liberale.

Wagner è sempre restato fedele alle proprie idee ed al «rifiuto della situazione attuale» che
nutriva il suo slancio rivoluzionario, anzi «animato - come egli dichiara nella già citata lettera a Kietz -
dall'odio più sanguinario per tutta la nostra civiltà». Dopo l'insurrezione abortita del '49, quel che in
Wagner cambia è il giudizio sul «movimento dei lavoratori». L'idèa d'una possibile contingente
alleanza col socialismo è abbandonata per sempre, proprio perché il socialismo s'è rivelato ai suoi occhi
anch'esso ispirato e dominato dal «principio» che, raccolto dal «cristianesimo storico», ha corrotto la
civiltà europea. Questo principio, che Wagner definisce «giudaico», è da lui opposto in modo radicale
allo «spirito tedesco», considerato come l'ultima sopravvivenza dello spirito originale dei popoli
europei «che un giorno abitarono il Caucaso», cioè - secondo la credenza di quell'epoca - dei popoli
indoeuropei. Nello scritto Conosci te stesso, le ideologie «conservatrici, liberali, liberal-conservatrici,
socialiste, progressiste» sono tutte ricondotte da Wagner a quel principio «straniero all'anima tedesca»
e, come tali, rigettate in blocco. Alla società ed alla cultura esistenti Wagner oppone il progetto di una
«comunità del popolo» (Volksgemeinschaft), d'una comunità popolare «organica», ispirata dai «valori
eroici», la quale - sul piano politico e sociale - dovrebbe strutturarsi in aristocrazia non ereditaria.
Wagner oppone il Volk alla plebaglia (Pöbel), alla massa. La massa, per lui, è come fuori dalla storia,
giacché essa non vive che nella attualità immediata, in un presente puntiforme, unidimensionale. Il
«popolo» invece è tale, perché affonda le sue radici nel passato (grazie alla «memoria delle origini») e,
nella esperienza attuale di una «gemeinsame Not», d'una comune necessità e d'una comune sofferenza,
concepisce un suo «sogno» col quale si proietta nell'avvenire.
La «visione» politica di Richard Wagner [alias, alias], elaborata in stretta relazione con la
problematica del suo tempo, scaturisce direttamente dalla visione della storia e dalla concezione
antropologica che anche ispirano l'Anello del Nibelungo e, nel modo più netto, si oppongono a qualsiasi
visione e concezione egalitaristiche: visione, questa di Wagner, che - sia ricordato ancora una volta -
trovò un prolungamento diretto nei movimenti völkisch del XX secolo e poi una prima affermazione
con quel movimento che Jean-Pierre Faye (Langages Totalitaires, Edit. Hermann, Parigi, 1972)
definisce come il «centro» (in cui s'opera una sintesi) di tutte le varie correnti della «ideologia
germanica», cioè della Konservative Revolution.

Storia di un progetto

Questa «posizione» di Wagner è nota a tutti, innegabile. Ma - si pretende - sarebbe quella del
«secondo» Wagner, del «rinnegato» che per ragioni più o meno basse ed inconfessabili, avrebbe tradito
le convinzioni e gli ideali socialisti della sua gioventù. È un'affermazione totalmente falsa ed anzi il
fatto che essa continui ancor oggi a circolare con l'evidenza d'un luogo comune, la dice lunga su quella
«falsità» e capacità di «falsificazione» che Wagner stesso denunciava a proposito della società e della
civiltà in cui viviamo. Di fatto, la menzogna in questo caso non è imbastita sulla base di qualche
equivoco esistente o magari approfittando di un «vuoto» costituito da un silenzio di Wagner sulle sue
proprie idee all'epoca del suo preteso socialismo. No. Chiunque può prendere esatta conoscenza di quel
che Wagner davvero pensava in politicis allorquando viveva a Dresda, frequentava ambienti demo-
liberali o socialisti, s'infiammava per il pensiero di Feuerbach [alias] e concepiva il progetto di un
Wort-Ton-Drama destinato a divenire poi il Ring. La documentazione autentica del pensiero di questo
Wagner, che resterà quello di sempre, è costituita da tutta una serie di scritti, la cui importanza è
oltretutto fondamentale: I Wibelunghi o la storia universale attraverso il Mito, poi Il mito dei
Nibelunghi (come progetto per un dramma), infine il poema drammatico Siegfrieds Tod (La morte di
Siegfried), che è una prima versione del Crepuscolo degli Dèi ancora concepito come dramma unico a
se stante. Basta leggere questi testi per convincersi della già raggiunta compiutezza del pensiero di
Wagner, della natura delle sue idee, della perfetta corrispondenza esistente fra il progetto iniziale e quel
che sarà, trent'anni dopo, l'opera infine condotta a termine.

Secondo un'altra leggenda intesa sempre ad affermare che il Ring fu inizialmente concepito in
chiave «socialista», Wagner, dopo aver pensato ad un dramma unico per rappresentare il mito dei
Nibelunghi, si sarebbe più tardi orientato progressivamente verso la stesura in quattro drammi - la
Tetralogia - proprio perché la sua «conversione» ideologica lo avrebbe posto allora dinanzi alla
necessità di ripensare tutto il «materiale» del mito in funzione di nuove, differenti intenzioni. È una
interpretazione assolutamente falsa dei fatti reali. Nel suo «progetto per un dramma» Wagner disegna -
in prosa - la totalità dell'azione della futura Tetralogia e proprio secondo il filo cronologico di quella
che sarà l'opera compiuta. Ma, a quell'epoca, il 1848, Wagner riteneva ancora possibile di condensare
l'immensa materia del mito in un solo dramma cosicché immediatamente si mise al lavoro e, nel corso
dello stesso anno, portò a termine il Siegfrieds Tod. In questo poema drammatico, tutta l'azione che,
nella Tetralogia, sarà rappresentata con le «giornate» dell'Oro del Reno, della Valchiria, e del
Siegfried, è invece soltanto narrata coi racconti restrospettivi dei vari personaggi e, in particolare, fin
dalla prima scena, con il dialogo fra le Norne. Wagner, dopo aver maturato la concezione del Wort-
Ton-Drama (quella di Dresda è per lui ancora, sul piano musicale, l'epoca del Rienzi [versione cartacea
con traduzione a fronte], del grand-opéra alla francese...), scoprirà molto rapidamente la necessità
imprescindibile di confidare all'azione drammatica, unica forma capace di realizzare il mito,
l'integralità del racconto che costituiva la «trama» del suo «progetto di dramma». Il passaggio dal
«dramma unico» alla Tetralogia é stato unicamente imposto da considerazioni artistiche, quanto mai
evidenti.
Rispetto al progetto del 1848, L'Anello (terminato nel 1876) presenta una sola variante, assai
significativa. Nel racconto in prosa Il mito dei Nibelunghi, il dio Wotan, ritrovava grazie al sacrificio di
Brunilde la piena «dominazione» del mondo; al contrario nel Crepuscolo degli Dèi, il mondo crolla, gli
dèi muoiono, ma l'alba d'un mondo rigenerato, di una nuova storia s'annuncia. Wagner è stato
tormentato a lungo dal problema che gli poneva la «conclusione» del dramma e, del resto, prima di
giungere ad una decisione, ha scritto per Il Crepuscolo degli Dèi, numerose versioni della scena finale.

La «traduzione lineare» che egli era costretto a darsi della propria visione della storia, lo
spingeva verso la «forma pseudo-ciclica», con un ristabilimento «reazionario» della situazione
«ottimale» esistente prima del ratto dell'oro e della «colpa» del dio. Ma, ogni volta, la sua intuizione e
la sua «sensibilità» - sorrette dall'«idea della Musica» - lo hanno indotto a rigettare quella tentazione,
nonché il disegno di «spiegare» gli avvenimenti della fine e di esplicitarne il senso grazie al testo
poetico, cioè con le «parole». Wagner decise dunque infine che la «conclusione» del Ring doveva
essere confidata alla «sola musica» e rivestire il carattere di un "mistero" (così come anche Nietzsche
conferirà un carattere di «enigma» al mitema dell'Eterno Ritorno dell'Identico...). Il 24 febbraio 1869,
mentre sta componendo la musica dell'ultimo atto del Siegfried, Wagner scrive a Luigi II di Baviera:
«Noi ci troviamo qui, come gli Elleni dinanzi ai fumi che salgono dalla caverna di Delfi, al centro della
grande tragedia universale. Una fine del mondo è imminente; il dio assume la cura di una rigenerazione
del mondo (Wiedergeburt der Welt) poiché egli è la volontà stessa del divenire universale. Qui tutto è
sublime terrore, che soltanto enigmi possono dire».

Questa visione d'una storia che non può finire ma deve essere rigenerata, Wagner l'aveva da
sempre e l'aveva già chiaramente espressa verso la fine degli anni Quaranta, nell'articolo Das
Künstlertum der Zukunft, e proprio in polemica coi «comunisti», la cui visione gli sembra
(giustamente) sfociare su una «fine della storia». Wagner, che nello scritto - va notato - ancora dà il
nome di «comunismo» alla sua concezione della Volksgemeinschaft (in tedesco Gemeinschaft traduce
esattamente communitas), si indirizza ai comunisti con queste parole: «Voi credete che la rovina delle
nostre attuali condizioni e l'inizio d'un nuovo ordine universale comunista comporterà la cessazione
della storia e con essa della vita storica dell'uomo. È esattamente il contrario che accadrà». Così, una
volta di più, appare chiaramente come all'epoca delle sue «simpatie per il movimento dei lavoratori»
Wagner tuttavia opponesse quanto mai chiaramente alle concezioni escatologiche ed egalitaristiche dei
socialisti le proprie concezioni, radicalmente diverse. Scritti come Das Künstlertum der Zukunft
offrono poi l'occasione di notare che termini come «socialismo» e «comunismo» sono spesso impiegati
da Wagner per designare un'ideologia ed un progetto politici «sovrumanisti», agli antipodi di quelli
egalitaristici, abitudine che si ritrova nei suoi eredi della Konservative Revolution, i cui movimenti più
importanti hanno designato la propria concezione politica con termini come «socialismo»,
«comunismo» e perfino «bolscevismo», accoppiandoli però ed anzi fondendoli con altri termini che,
nel linguaggio «democratico», suonano antitetici, come ad esempio «aristocratico», «conservatore»,
«nazional(ista)».

L'insegnamento de I Wibelunghi

Nel 1848, quando per la prima volta concepisce l'idea d'un dramma sul mito dei Nibelunghi,
Wagner - ripeto - è già pienamente se stesso. Dopo essersi lungamente cercato sul piano musicale, dopo
aver errato su sentieri battuti prima di lui e da altri da lui, egli ha trovato il proprio cammino. Su questo
suo cammino Wagner s'è già avanzato arditamente, non senza tuttavia gettare ancora qualche sguardo
indietro ed a lato: ed ha composto così Il Vascello Fantasma (o L'Olandese volante [versione cartacea
con traduzione a fronte], il Tannhäuser [versione cartacea con traduzione a fronte], il Lohengrin
[versione cartacea con traduzione a fronte]. Oramai però Wagner non guarderà più che diritto dinnanzi
a sé, verso gli orizzonti che s'è lui stesso tracciato. Nel suo spirito già è presente, in germe, tutta l'opera
futura autenticamente «wagneriana»: I Maestri Cantori [versione cartacea con traduzione a fronte], il
Tristano [versione cartacea con traduzione a fronte], il ciclo dell'Anello del Nibelungo, il Parsifal
[alias]. Com'è sua abitudine, subito illustra e spiega il Weltbild, l'immagine-del-mondo, che sostiene
l'edificio dell'opera drammatica progettata, con un saggio su I Wibelunghi o la storia universale
attraverso il mito, saggio che ha una fondamentale importanza ai fini della comprensione del Ring e fa
crollare di colpo tutte le leggende messe in circolazione sulle idee del Wagner di Dresda - e che,
proprio per questo, è stato ed è accuratamente ignorato da certi critici ed esegeti.

A prima vista il saggio sui Wibelunghi può spaesare il lettore moderno, sembrargli quasi una
divagazione fantascientifica che confonda storia reale e favola. Ciò è dovuto ad un costante ricorso a
immagini-simbolo e allegorie poetiche e soprattutto al fatto che Wagner compie qui, con un secolo
d'anticipo e i mezzi limitati della filologia del suo tempo, un autentico lavoro di «etno-sociologia»,
all'espressione dei cui risultati mal si prestava il linguaggio allora corrente. Egli stesso è perfettamente
cosciente dell'assoluta novità di certe sue concezioni. «Quanto deve sembrarci significativo - egli
afferma - il fatto storicamente attestato che i Franchi abbiano preteso anch'essi, come i Romani, di
essere i discendenti dei Troiani! Lo storico specializzato sorride con pietà dinanzi ad un'invenzione
tanto assurda, nella quale non può esserci neanche un filo di verità. Ma quando si tratta di riconoscere e
comprendere le gesta degli uomini e delle razze a partire dai loro istinti e dalle loro concezioni più
intime, allora quel che soprattutto conta è di prestare somma attenzione a quel che essi credettero di
essere ed a quel che di se stessi vollero far credere». Qui sta per l'appunto la concezione antropologica,
se si vuole implicita, che è alla base della concezione wagneriana della storia: l'uomo diviene ed è
l'idea che egli si fa di se stesso.

I Wibelunghi permettono di comprendere perfettamente la visione tragica della storia, le idee


politiche e sociali, il progetto rivoluzionario di Richard Wagner [alias, alias]. Nel «mito primordiale», il
«tesoro dei Nibelunghi» è il simbolo concreto (Inbegriff) di ogni potenza sulla terra: «esso è la terra
stessa in tutto il suo splendore, che noi riconosciamo come nostra proprietà e di cui godiamo dopo il
levarsi del giorno, nella luce gioiosa del sole, dopo che è stata fugata la notte che, simile ad uno spettro
terribile, aveva disteso le sue nere ali di drago sui ricchi tesori del mondo ». Ma il « tesoro », nel suo
aspetto di prodotto fabbricato dai Nibelunghi, è anche « armi, anello del potere, oro, cioè mezzo di
ottenere il dominio della terra». I Nibelunghi che lo forgiano nelle viscere della terra sono potenze della
notte, ostili all'umanità. L'«eroe divino», uccisore del drago, che conquista il tesoro a beneficio
dell'umanità, è l'eterna reincarnazione del Naturgott, del «dio naturale» che è il Sole. A sua volta questo
eroe è fatalmente ucciso (ciò che fa anche di lui un Nibelungo), giacché - sempre - la notte deve
succedere al giorno; tuttavia, morendo, egli lascia «in eredità alla propria razza il diritto di rivendicare
il tesoro»: e la volontà di «vendicare l'antenato ucciso e di impadronirsi nuovamente del tesoro formerà
l'anima di tutta la sua razza». Si disegna così il primo aspetto della tragedia dell'eterno divenire storico:
«Così come il giorno deve finalmente cedere alla notte, e l'estate all'inverno, Siegfried deve essere
anche lui infine abbattuto; così il dio s'è fatto uomo e, come uomo morto, riempie la nostra anima d'una
partecipazione nuova e più intensa [al suo destino tragico] nella misura stessa in cui, vittima d'una sua
impresa che ci colma di felicità, eccita in noi la motivazione etica della vendetta, cioè il desiderio di far
duramente pagare la sua morte agli assassini e, insieme, di rinnovarne le imprese. La vecchia guerra
delle origini si perpetua dunque grazie a noi e la sua vicenda mutevole è esattamente identica all'eterno
ritorno della notte e del giorno, dell'estate e dell'inverno».

Questa visione ciclica, caratteristica del «mito primordiale», cioè del «primo» mito
dell'umanità, non è il «mito wotanico» della religione germanica, così come Wagner la interpreta.
Secondo Wagner il «mito wotanico» sussume e supera il «mito primordiale». Le idee di Wagner a
questo proposito ricordano curiosamente - o per meglio dire: anticipano - certi aspetti della teoria
moderna di Pestalozzi, che vede nelle religioni del Neolitico trasformazioni e superamenti del culto
mesolitico di un Essere Supremo «naturale». Secondo Wagner l'alternanza eterna del giorno e della
notte, della vita e della morte, della gioia e del lutto, della vittoria e della disfatta fini col produrre la
coscienza del «perpetuo ringiovanimento dell'essenza eterna dell'uomo e della natura». « Il simbolo di
questo eterno divenire, dunque della vita - egli aggiunge - trovò finalmente la sua espressione in Wotan
(Zeus), in quanto dio supremo, padre ed ispiratore dell'universo (...) e, come tale, padre anche di tutti
gli altri dèi». «Rispetto al Naturgott solare reincarnatosi in Siegfried - precisa Wagner - Wotan non è in
nessun modo un dio storicamente più antico, ma tutto al contrario la sua esistenza nacque
spontaneamente nell'uomo da una coscienza nuova e superiore di se stesso».

Si tratta d'un'idea fondamentale, la cui ricezione è indispensabile se davvero si vuole


comprendere la visione wagneriana della storia, con la relativa «antropologia», ed il significato più
profondo dell'Anello del Nibelungo. Il Naturgott solare delle origini è relativo ad una coscienza umana
che ancora si trova ad un primo grado di potenza, cioè ad una semplice vita cosciente (il «giorno») che
si distingue e s'oppone a tutto ciò che è incosciente (la «notte»). Il ciclo descrive il tempo lineare del
«livello biologico» del reale, livello cui l'uomo «primordiale» immediatamente si identifica nella sua
«prima» religione. Il dio-padre universale del Valhalla, che Wagner (anticipando di quasi un secolo la
conclusione degli studi «comparativi» di Georges Dumézil) identifica con il dio dell'Olimpo e lo
Jupiter latino, è al contrario la proiezione religiosa di una coscienza pervenuta ad un grado superiore di
potenza: egli è la personificazione dell'idea che l'uomo si fa di se stesso quando diviene cosciente di
essere più che la sola « vita », giacché è il solo essere dotato di « coscienza », il solo essere storico.

Wagner non aveva saputo trarre immediatamente tutte le conseguenze logiche di questa
concezione, pur chiaramente enunciata: ed è proprio a causa di ciò che la «conclusione» dell'Anello del
Nibelungo gli pose per molto tempo un difficile problema. Egli non riuscì a trovare la soluzione che
allorquando si rese conto che il vero protagonista del mito non era - e non poteva essere - Sigfrido,
eterna restituzione «sociale» del "primo uomo", che il protagonista era e doveva essere il dio-padre,
Wotan, personificazione del «secondo uomo» e della sua superiore coscienza - e, come tale, il solo ad
essere cosciente del destino tragico degli «dèi» e degli «eroi». Un altro dettaglio va messo in rilievo:
nella visione wagneriana della storia, il dio più antico diviene - nell'eone storico istituito dalla nuova
religione - il figlio (il «discendente» diretto) del dio più recente: rovesciamento apparente del rapporto
temporale di successione, ma rovesciamento che non è più tale nella realtà del tempo tridimensionale
della storia. Di fatto, la coscienza storicamente superiore sussume e ri-genera in sé la coscienza
storicamente inferiore, nel tempo stesso in cui la supera.

Socio-politicamente il mito del Nibelungo costituisce secondo Wagner la più antica eredità di
tutti i popoli «europei». Seguendo gli insegnamenti delle teorie allora in voga, dovute agli indo-
germanisti, Wagner colloca nella regione del Caucaso la patria degli Indoeuropei all'era glaciale.
Anticipando una volta di più le conclusioni di Dumézil, Wagner riconosce il carattere patriarcale delle
prime società indoeuropee e distingue i due aspetti fondamentali della «funzione sovrana» esercitata
dal re-padre, cioè l'aspetto «religioso» e 1'«aspetto politico». Ai suoi occhi il «tesoro dei Nibelunghi»
simbolizza il potere benefico del padre e, insieme, il diritto del padre a questo potere. L'evoluzione
progressiva dalla «grande famiglia» (Sippe, gens) verso l'aggregazione in «popolo» comporta - constata
Wagner - una prima separazione dei due aspetti della funzione sovrana: la «discendenza primogenita»
dell'avo-fondatore, sublimato in eroe mitico «uccisore del drago», esercita il potere regale in seno
all'assemblea dei padri, cioè il potere politico; la funzione religiosa, invece, si distribuisce fra tutti i
padri, ciascuno di essi esercitandola in seno alla propria gens (Sippe). I sacra dei Romani, il palladio
troiano sarebbero secondo Wagner metamorfosi specifiche del tesoro dei Nibelunghi, pegno della
potenza del popolo e della città. La «decadenza» d'un popolo interviene quando il «contenuto ideale»
del simbolo che è il tesoro viene completamente dimenticato a beneficio del solo "contenuto materiale",
che finisce col cadere nelle mani di uomini e stirpi che non hanno diritto di detenerlo. I popoli cessano
allora di essere «popoli», divengono plebaglia, massa.

In un'epoca in cui la decadenza imperava dovunque e l'antica potenza dei popoli indoeuropei,
avviliti e corrotti, non era più che l'ombra di se stessa, soltanto i popoli germanici e soprattutto i
Franchi - afferma Wagner - conservarono il ricordo della loro più lontana origine; soltanto in seno alla
loro cultura il mito dei Nibelunghi restava vivo, con tutto il suo contenuto ideale e materiale. Più tardi,
all'epoca di Federico Barbarossa - prosegue Wagner - è «nel popolo tedesco [che] si è conservata la più
antica stirpe regale del mondo, legittima in virtù delle sue origini; questa stirpe discende da un figlio di
dio che, per quelli della sua razza, ha nome Siegfried e che gli altri popoli della terra chiamano il
Cristo». La stirpe regale è appunto quella dei «Wibelunghi» (Ghibellini, per noi italiani), un nome in
cui Wagner vede (a torto) una deformazione di «Nibelunghi» provocata dalla allitterazione frequente
con «Welfen» (Guelfi, la stirpe nemica). In Barbarossa, Wagner vede l'ultimo grande Wibelungo, che
tentò di riunificare l'aspetto politico e l'aspetto religioso della sovranità indoeuropea e di restituire così
al mito germanico tutto il suo significato. Wagner riferisce del resto che il saggio sui Wibelunghi è il
risultato di studi intrapresi proprio su Federico Barbarossa, nel quale egli aveva individuato il
protagonista possibile d'un dramma riassumente l'intero destino storico dell'umanità. Egli aggiunge,
nella prefazione al saggio, che in seguito «abbandonò il piano di questo dramma (su Federico
Barbarossa) per ragioni che il lettore attento potrà facilmente indovinare»: di fatto la rappresentazione
drammatica del destino storico dell'umanità può essere soltanto - Wagner se n'è oramai convinto -
quella del mito stesso nella sua versione più autentica, in cui i personaggi, spogliati di tutte le
contingenze legate ad un'epoca particolare, possano apparire nella loro totale verità, la verità del Rein-
Menschliches.

L'«odio» manifestato da Wagner per «l'intera attuale civiltà» nasce dalla constatazione che il
«tesoro», caduto in mani "illegittime", ha perduto ogni significato «ideale» ed è soltanto concepito
come simbolo della potenza materiale del1'«oro», cioè d'una «proprietà» materiale ingiustamente
distribuita. Le idee sociali sono chiaramente illustrate alla fine del saggio su I Wibelunghi, quand'egli
condanna le innovazioni d'un feudalismo già decadente. «Nell'istituzione feudale - scrive Wagner - noi
riconosciamo, finché essa conserva la sua purezza originale, questo principio eroicamente umano
ancora chiaramente enunciato: l'attribuzione d'un godimento vale soltanto per un uomo determinato del
presente, che vi ha diritto in virtù d'una qualche impresa, d'un qualche importante servizio [reso alla
comunità intera]. Ma, dal momento in cui il feudo diviene ereditario, l'uomo, il suo personale valore, le
sue azioni e le sue gesta persero il loro valore, che fu attribuito alla proprietà; la proprietà ereditata, non
più la personale virtù, conferì agli eredi la loro importanza sociale: e il deprezzamento sempre più
grande dell'uomo che ne conseguì, in confronto ad una valorizzazione sempre più spinta della
proprietà, finì con l'incarnarsi in istituzioni inumane come il diritto di primogenitura, dal quale più tardi
la nobiltà volle trarre, in modo perfettamente assurdo, il suo orgoglio e la sua superbia, senza rendersi
conto che, proprio con questo riporre il proprio valore soltanto in una proprietà familiare divenuta fissa,
essa negava e calpestava agli occhi di tutti la vera nobiltà umana».

Wagner si pronuncia dunque senza ambiguità contro la «proprietà familiare», ereditaria, che gli
sembra degradare l'uomo a profitto di valori materiali; ma la condanna non è certo pronunciata in nome
d'un principio egalitaristico. Anzi egli rivendica nello stesso tempo, in nome della disuguaglianza degli
uomini, quanto mai apertamente la «proprietà del merito» spettante alla «aristocrazia» (Adel) dei
migliori: concezione socio-aristocratica (passata, anche col nome, a varie correnti della Konservative
Revolution), che evidentemente non ha nulla in comune con le varie forme del socialismo e comunismo
egalitaristici. Richard Wagner esprime poi, a conclusione del suo saggio, la convinzione che il popolo
tedesco non ha mai cessato di credere al «tesoro dei Nibelunghi» pur sapendo che questo tesoro « non è
ormai più di questo mondo ed è seppellito nel cuore d'un'antica montagna che un tempo fu quella degli
dèi, d'una montagna simile a quella dove Siegfried lo aveva strappato ai Nibelunghi». Ed aggiunge: «In
questa montagna, è il grande imperatore in persona ad aver ricondotto il tesoro, al fine di salvarlo per
tempi migliori. Là, nel Kyffhäuser, il vecchio Federico Barbarossa siede oramai con le ricchezze dei
Nibelunghi tutt'intorno a sé e, al suo fianco, la spada affilata che un giorno lontano abbatté il terribile
drago».

Wagner e la religione

I Wibelunghi non soltanto distruggono la leggenda d'un Wagner socialista e paramarxista


all'epoca della prima concezione dell'Anello; bensì ridicolizzano anche un'altra leggenda, accreditata
questa dalle insinuazioni di Nietzsche, quella di un Wagner «cristiano» ed anzi (sempre "Nietzsche
dixit") «cristiano cattolico». In realtà Wagner è uomo che neanche pone, a se stesso ed agli altri, le
«ultime questioni» e, in particolare, la questione dell'esistenza di «dio»; egli sa che a tali questioni è
impossibile dare risposta. Ma egli attribuisce una fondamentale importanza umana al problema della
"religione" considerato storicamente e socialmente. Per lui, la «religiosità» è connaturata nell'uomo ed
il «bisogno» d'una religione oggettiva sarebbe ineliminabile nel «popolo» in quanto comunità.

Riprendendo a suo modo un'idea di Ludwig Feuerbach [alias], filosofo molto più profondo di
Marx e influenzato largamente dalla «pre-tendenza» sovrumanista, Richard Wagner [alias, alias]
afferma nei Wibelungen che la religione trova ovunque il suo fondamento nella «impressione» che
l'uomo, fin dalle origini, riceve dalla «natura»; e poiché questa «impressione» varia secondo il
«carattere specifico» dei popoli, necessariamente esistono più religioni. Gli «dèi» o «dio» altro non
sono che «la rappresentazione più alta» che i popoli si fanno dei loro avi, dei loro «eroi civilizzatori», e
sono insomma la rappresentazione dell'«idea più alta» che gli uomini si fanno di sé. Il Rein-
Menschliches (il «puro umano»), questa idea che conforma la profonda religiosità di Wagner è per
l'appunto questa più alta idea di sé e dell'uomo che Wagner recava in sé e che il «progetto» wotanico
intende realizzare. Il mitema nietzschiano del Superuomo è soltanto una formulazione terminologica
diversa del mitema wagneriano del Rein-Menschliches, fatto che Nietzsche - come sempre - ha cercato
di occultare in tutti i modi possibili.

Secondo il Wagner dei Wibelungen, il dio «cristiano» non differisce essenzialmente dal
supremo dio degli Indoeuropei, Zeus-Jupiter-Wotan, né Gesù dall'«eroe solare redentore» ugualmente
incarnato da Sigfrido e da Federico Barbarossa (un'idea, questa, che già da sola la dice lunga sul
preteso cristianesimo di Wagner). L'autore dei Wibelungen, tuttavia, istituisce una opposizione
fondamentale fra il «vero messaggio» di Gesù Emmanuele e i «dogmi» delle chiese, tra il «cristinesimo
primitivo» (o «autentico») ed il «cristianesimo storico giudaizzato». Egli, peraltro, non precisa mai
quando si sarebbe prodotto il passaggio dal «cristianesimo primitivo» al «cristianesimo storico». Non è
improbabile che nella sua concezione si tratti non tanto di una evoluzione storica da una forma pura ad
una forma bastardizzata di cristianesimo quanto di modi opposti di ricevere e vivere il «messaggio» di
Gesù, di cui soltanto uno - il «primitivo» - sarebbe conforme alle intenzioni di un Cristo che Wagner
concepisce, paradossalmente, come 1'«avversario determinato della religione giudaica» e della «legge
mosaica». Il fatto che d'altra parte Wagner parli, a proposito del cristianesimo che rigetta, di
«cristianesimo storico», dovrebbe significare che per lui ad essere storicamente ricevuto, sul piano
delle concrezioni sociali, sia stato soltanto il «cristianesimo giudaizzato» e che una diversa ricezione
del cristianesimo abbia avuto luogo solo sporadicamente, indivualmente da parte di mistici. Il Parsifal
[alias], dramma sacro in cui le idee di Wagner sulla «religione» trovano la loro più compiuta, ultima
forma, precisa del resto in modo non equivoco che 1'«infezione giudaica» era presente già nel
messaggio stesso di Gesù, considerato sempre come un'incarnazione dell'«eroe solare redentore», ma
incarnazione viziata da una tara, e dunque degenerata.

Prima ancora di analizzare brevemente il Parsifal [alias], conviene esaminare più da vicino
l'interpretazione che I Wibelunghi danno della storia della religione in Europa e, parallelamente,
interrogarsi sulle motivazioni profonde di una volontà di «redimere il redentore» (Parsifal), che
appunto, tra l'altro, ha indotto Wagner ad attribuire un valore positivo alla figura storica di Gesù
Emmanuele. Di fatto, questa interpretazione e le sue motivazioni profonde - Wagner stesso lo rivela,
seppure in modo implicito - hanno un'intima relazione strutturale, all'interno della rappresentazione
wagneriana del «mito» sovrumanista, con il mitema dell'«idea della Musica» e con il mitema della
«missione del popolo tedesco» (già preannunciato da Fichte [alias]). La relazione è, del resto, quanto
mai evidente.

Se, effettivamente, il popolo (Volk) tedesco ha missione di «redimere» il mondo e l'umanità


proprio perché sarebbe il solo a conservare una chiara coscienza delle sue radici ed a restare loro fedele
(e pertanto anche solo popolo «autentico» ancora esistente), come spiegare allora, come interpretare, di
questo popolo, l'abbandono dell'ancestrale religione pagana e la conversione al cristianesimo? L'onta di
questa conversione, l'umiliazione profonda che essa comporta, Richard Wagner [alias, alias] nel suo
attaccamento alle radici germaniche ed indoeuropee e nel suo sentirsi erede di tutta la storia del suo
popolo, deve averla profondamente risentita e, confessatamente, se ne è fatto un problema. Ma, dal
dilemma posto, egli sa poi liberarsi in modo assai semplice e risponde: «Che le antiche idee risalenti
alle origini (n.d.a.: la religione pagana) non avessero alcun bisogno di essere sacrificate al momento
della conversione al cristianesimo, ciò non soltanto è provato dai fatti, ma ugualmente si spiega senza
fatica col riferimento al contenuto essenziale delle antiche tradizioni. Il dio supremo astratto dei
tedeschi, Wotan, non fu punto costretto a lasciare il proprio posto al dio dei cristiani; può essere
identificato con lui completamente, sol che lo si liberi degli attributi sensibili di cui le differenti
popolazioni l'avevano rivestito a secondo del loro carattere, della latitudine e del clima delle loro patrie.
Le qualità generali attribuite a Wotan corrispondevano del resto perfettamente a quelle attribuite al dio
dei cristiani. Gli dèi naturali (Naturgötter) locali o elementari, il cristianesimo ancor oggi non è riuscito
a farli scomparire fra di noi; le più recenti leggende popolari (Volksagen) e la superstizione popolare,
così resistente e florida, stanno a testimoniarlo in pieno XIX secolo».

Lo stesso si può dire, sempre secondo Wagner, per quanto concerne Gesù Cristo, «giacché si
ritrova in lui questa decisa rassomiglianza col dio tribale (Stammgott) familiare (...), dal quale i popoli
germanici facevano discendere la loro esistenza sulla terra». Se il «cristianesimo storico» non può più
essere identificato all'antica religione ancestrale dei popoli indoeuropei. ed anzi s'oppone ad essa in
modo diretto, non è certo colpa dei Tedeschi, che avrebbero fatto di tutto per tentar di preservare la
purezza dell'autentico messaggio evangelico. Per ricondurre il cristianesimo alla sua primitiva purezza -
indicherà poi più tardi Wagner in Religione ed arte (Il Nuovo Melangolo, Genova 1987) - «ci basterà di
constatare che la corruzione e la depravazione della religione cristiana traggono origine dal ricorso che
fu fatto, per stabilirne i dogmi, al giudaismo». Basterebbe insomma - suggerisce Wagner - di
«degiudaizzare» a fondo il cristianesimo per ritrovare la religione ancestrale; basterebbe sbarazzare il
dio cristiano della sua maschera di «Geova dal rovo in fiamme» per ritrovare col suo vero volto il «dio
padre» ancestrale dei popoli indoeuropei. Robert W. Gutman (Richard Wagner, The Man, His Mind,
and His Music, Harcourt, Brace and World, Inc., New York) ha preso spunto proprio da Religione ed
arte per denunciare more solito nel Parsifal [alias] una parabola perorante, oltreché la
«degiudaizzazione del cristianesimo», anche un «rinnovamento razziale della Germania» in senso
antisemita. Ma è che Gutman davvero interpreta a suo modo e distorce il pensiero di Wagner, non tanto
perché voglia ridicolizzare un'opera da lui considerata «antisemitica» quanto perché, visibilmente,
neanche arriva a comprendere cosa Wagner davvero pensi e cosa mai significhi e simbolizzi il Parsifal
nella sua ambizione di essere il coronamento sacro di tutta un'opera artistica consacrata alla
«rigenerazione del mito».

Le connessioni tra Ring e Parsifal

Parsifal [alias, versione cartacea con traduzione a fronte] e L'Anello del Nibelungo sono
intimamente correlati proprio in virtù della interpretazione wagneriana della storia della religione
europea e non cessano di rinviare l'uno all'altro. Sull'uno e sull'altro è stato infinitamente detto e scritto
dai più vari autori ed anche sul loro rapporto; ma quasi sempre si ha l'impressione penosa che quasi
nessuno in questa folla innumere di esegeti abbia davvero avuto l'onestà e, prima ancora, l'intelligenza
di leggere tutto, e attentamente, dell'opera di Wagner.

Per certi aspetti, d'importanza rilevante ma non fondamentale, il Parsifal è anche una parziale
parafrasi dell'Anello del Nibelungo in una immagine scenica che è quella d'un Medio Evo leggendario
ancora tutto impregnato, sotto l'abito cristiano, di paganesimo celto-germanico. Dal punto di vista del
cristianesimo delle concrezioni storiche, delle Chiese cristiane e dei loro dogmi, l'intenzione stessa del
Parsifal è puramente blasfema. La necessità di «redimere il Redentore» vi è proclamata e la
«redenzione del Redentore» costituisce la Handlung, l'azione stessa del dramma, che per Wagner è una
vera e propria «azione sacra per la scena», un Bühnenweihfestspiel. Colui che deve essere redento (e
sarà redento) è un Amfortas, che simbolizza il cristianesimo avvelenato dai «dogmi giudaici», un
Amfortas che soffre i tormenti più atroci che uomo abbia mai sofferto e che non «riesce a morire». Ma
questo Amfortas, per il quale la «redenzione» sarà infine «morte», simboleggia anche nel modo più
evidente, con la piaga sempre aperta nel costato, il «redentore» stesso e cioè Cristo. Titurel, il padre di
Amfortas, è immensamente vecchio ed è come morto e non morto al tempo stesso; si trova in uno stato
di «sospensione di vita» che non lo fa soffrire, dal quale esce periodicamente ed assai brevemente, per
soffrire allora della propria «inutilità». Ora - si noti - Titurel, padre di Amfortas e dunque del redentore
«depravato», è il «dio padre» della concezione wagneriana; Wagner avverte espressamente che Titurel
nel Parsifal simbolizza Wotan e che il Graal, la coppa dove è conservato il sangue del «redentore»,
simbolizza il contenuto ideale dell'«anello del Nibelungo», del «tesoro ancestrale della stirpe».

Queste precise indicazioni di Wagner offrono una «chiave» di più per comprendere non soltanto
i «simboli» del Parsifal [alias], ma anche quelli dell'Anello del Nibelungo. La Tetralogia dell'Anello del
Nibelungo è rappresentazione di un «mito», che è «mito della storia», visione della storia universale e,
insieme, della storia dei popoli indoeuropei, cioè visione che dalle più lontani origini rimonta ai nostri
tempi e prospetta poi una fine-rigenerazione. L'Anello del Nibelungo ha molteplici aspetti ed ha anche
un aspetto «religioso», perché anche la «religione» fa parte della storia. Sotto questo ultimo particolare
profilo il destino di Wotan è quanto mai significativo. Il Wotan dell'Oro del Reno e della Walchiria è
l'ancestrale «dio padre» dei popoli indoeuropei nella sua patria germanica: il «ratto dell'oro» gli fa
apparire la necessità d'una nuova incarnazione dell'«eroe redentore» che sappia «uccidere il drago» e
riconquistare il «tesoro», ma poi si vedrà costretto a impedire all'eroe reincarnato di compiere la sua
missione. Nel Sigfrido, Wotan è un dio che non ha più cura di regnare, è un dio «viandante» che
percorre il mondo e si interroga sul destino, in attesa dei «segni»; ha dovuto rinunciare alla «sua più
intima volontà» e l'ha relegata, nella persona di Brunilde, nel sonno profondo dell'inconscio da cui
potrà ridestarla soltanto un «libero» eroe; ed è così divenuto ormai il «dio dei cristiani».

Il Wotan del Crepuscolo degli Dèi, è il «dio» dei nostri tempi, il dio che in altro senso e da un
altro punto di vista Nietzsche dirà «morto»: ritiratosi da gran tempo nella grande sala del Walhalla,
immobile, muto, come in «sospensione di vita», egli attende che il «libero» eroe provochi quella fine
degli dèi e del mondo che egli stesso, Wotan, ha «voluto», perché è la condizione d'una «rigenerazione
del mondo» e della storia (così come Nietzsche, parafrasando questa visione wotanica, auspicherà per
l'Europa un'ultima catastrofica decadenza, affinché essa possa rinascere «dominatrice del mondo» e
cioè «dal caos nasca una nuova stella»).

Se il Titurel simbolizzante 1'«ultimo» Wotan così offre la «chiave» dell'aspetto storico-religioso


dell'Anello, la simbolica presenza di Wotan nel Parsifal [alias] precisa - e, se si vuole, integra e
perfeziona - la visione della storia della religione in Europa offerta dai Wibelungbi e da Religione ed
Arte. La precisazione apportata è questa: secondo Wagner l'avvento del cristianesimo in Germania e
nell'Europa non aveva - è vero - concretato un abbandono dell'intima essenza della religione ancestrale
indoeuropea, non aveva sostituito un altro dio all'atavico «dio-padre» Zeus-Jupiter-Wotan, sovrano
della «comunità divina» degli dèi, però l'avrebbe comunque messo come «in stato di sospensione di
vita» e, insieme, condannato - lui e la sua religione antica e nuova - a morire un giorno. È che Gesù
(simbolizzato da Amfortas) è, sì, una reincarnazione del primitivo Naturgott e dell'«eroe solare
redentore», ma un «redentore» avvelenato da una piaga mortale e che, proprio per questo, è incapace di
assolvere la sua «missione». La piaga è, sempre, 1'«infezione giudaica», ma una «infezione» cui
Amfortas era destinato dalla sua stessa natura, dalla sua incapacità di resistere alla seduzione di Kundry
(il «giudaismo»), al contrario di Parsifal che, lui, resisterà grazie alla sua "memoria della madre", cioè
delle «radici».

La «necessità storica» che agli occhi di Wagner scaturisce da questa «situazione storica della
religione» non è - ed in ogni caso non è più - la semplice «degiudaizzazione del cristianesimo».
Necessità storica della religione è che il cristianesimo sia redento e di questa sua redenzione muoia e
che anche, con esso, muoia il paganesimo, che il cristianesimo aveva non già abolito bensì «sospeso».
Il Parsifal [alias] vuole essere realizzazione mistica sulla scena della redenzione e abolizione del
cristianesimo, che anche si traduce in abolizione del residuo paganesimo e realizzazione del
superamento di paganesimo e cristianesimo in una «più alta religione», nella quale - così sembra aver
personalmente pensato Wagner - la «religiosità» dell'uomo dovrebbe essere soddisfatta da un'Arte
sacralizzata. Il Parsifal intende parlare a tutti gli uomini in cui è vivo il bisogno di religione, in un
mondo in cui le forme della religione, storicamente depravate, non possono più realmente soddisfarli ed
anzi contribuiscono al loro avvilimento.

Realizzazione mistica sulla scena di una «redenzione-abolizione» delle vecchie religioni e come
tale rito sacro d'una «comunità» avvenire, il Parsifal [alias] anche costituisce al tempo stesso,
implicitamente ma con evidenza, il «progetto esemplare» dell'azione storica che, sul piano sociale,
dovrebbe produrre l'avvento di una nuova «più alta religione», azione storica ovviamente inquadrata
nel «progetto storico totale» che il mito nel suo complesso esprime, così come al tempo stesso offre una
visione della storia. Il Parsifal costituisce così in sé, una vera e propria impresa di «produzione della
storia», intesa a far regredire le (pseudo-)cristallizzazioni mitiche (religiose) di una tendenza storica,
antinomica della propria ed entrata in fase di espressione anti-ideologica, al di là del «soglio
memoriale» dell'origine del mito, così da trasformarla in involuzione ciclica parastorica asservita al
divenire storico di un'altra, nuova tendenza. Per una nuova tendenza epocale in fase di espressione
mitica, come lo è quella sovrumanista, questo asservimento dei residui mitici, sempre dati, della
tendenza antinomica, nella fattispecie la tendenza egalitarista, è sempre storicamente necessaria, parte
integrante della lotta ingaggiata.

Parallelamente, il recupero delle proprie cristallizzazioni mitiche ed ideologiche è, anche per la


tendenza in fase di elaborazione anti-ideologica, una condizione sine qua non dell'effettivo
raggiungimento della «ultima sintesi anti-ideologica» sul piano «ideale» e «materiale» e, dunque, della
propria definitiva affermazione.

La tendenza in fase di autocreazione mitica - va qui notato - non "elabora" il suo mito, che - per
definizione - è fondato e creato nella sua compiutezza fin dal suo primo manifestarsi; ma il «mito» (e
con esso la tendenza che lo esprime) non deve cessare di autocrearsi, di ripetere il mito. La tendenza
nuova è sempre nascente, estremamente fragile nel suo confronto con la opposta vecchia tendenza,
dominante; sicché, ad ogni colpo ricevuto, rischia di estinguersi e proprio per questo deve autoricrearsi
(ciò che, sul concreto piano sociale, vuol dire che la sua esistenza resta sempre affidata a pochissimi
fedeli, fino al giorno - possibile ma non necessario - in cui riuscirà ad esplodere socialmente e ad
affermare la propria dominazione, così annullando allora l'altra tendenza, che eventualmente potrebbe
tutt'al più trasformarsi in « residuo preepocale »).

Ai fini della tendenza sovrumanista, la rilevanza del Parsifal [alias] è - come quella del Ring -
davvero storica; così come, ai fini di questa tendenza, costituisce un pericolo grave l'errore commesso
dal suo altro massimo rappresentante, che è Friedrich Nietzsche [alias, alias], nel giudicare il
significato della posizione assunta da Wagner sul problema del cristianesimo, errore di giudizio forse
da lui più o meno incoscientemente voluto per farne il pretesto d'una denigrazione di Wagner e
convincersi - e proclamare con violenza - di essere lui, Nietzsche, il creatore del «nuovo mito» e del
«movimento» storico (cioè della «tendenza») opposto al cristianesimo ed all'egalitarismo. Proprio per
questo, il rapporto fra Wagner e Nietzsche e fra le loro opere rispettive non può non essere fatto
oggetto d'un esame nel quadro d'un saggio pur dedicato particolarmente alla rappresentazione
wagneriana del mito sovrumanista. Tuttavia, prima di passare in un nuovo capitolo a questo esame,
conviene qui ricordare ancora - a proposito della visione della storia di Richard Wagner [alias, alias] -
che nella sua tarda età l'autore dell'Anello e del Parsifal [alias] fu vivamente impressionato dall'Essai
sur l'inégalité des races humaines (trad. italiana Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane, Rizzoli,
Milano 1997) del conte Arthur de Gobineau [alias] col quale anche ebbe rapporti di intima amicizia.

Come sempre allorquando qualcosa toccava la sua sensibilità o nutriva la sua immaginazione,
Wagner credette di ritrovare nel saggio dell'illustre amico francese certe sue proprie idee.
Particolarmente lo colpì il pessimismo della visione gobiniana della storia, che nel miscuglio della
«nobile razza ariana» creatrice di civiltà con le «razze inferiori» individua la causa di una irrimediabile
decadenza e depravazione dell'Europa e dell'intera umanità. Le visioni pessimistiche del mondo e della
storia hanno sempre fatto vibrare in Wagner una fibra profonda, messo a nudo la sua sensibilità,
esaltato la sua immaginazione. Ma così come, nutrendosene, aveva poi saputo superare il pessimismo
«metafisico» di Schopenhauer [alias], Wagner anche lasciò rapidamente dietro di sé il pessimismo
storico di de Gobineau, della cui visione soltanto ritenne infine, perché collimava con aspetti della sua
convinzione di sempre, la spiegazione della decadenza e depravazione dell'Europa, attribuite
all'imbastardimento razziale, e l'incriminazione del «giudaismo», reso responsabile di tutte le «nefaste
invenzioni» che, dal parlamentarismo alla democrazia, starebbero avvelenando ancor più l'Europa.
Wagner non ritenne tuttavia in alcun modo il «catastrofismo» di de Gobineau.

Se anche evocò con spavento - e magari, durante un breve momento, considerò quasi fatale -
l'«ordine non estetico» di un mondo condannato «alla uguaglianza di tutti» dal «miscuglio di razze
divenute già ormai simili», egli riaffermò poi nel Parsifal [alias] la sua fede in una futura
«purificazione» del «sangue profanato» e nella «rigenerazione del mondo». E, in un piccolo saggio che
figura tra i suoi ultimi scritti (A cosa mai ci serve questa conoscenza?), Richard Wagner [alias, alias]
ancora una volta, lapidariamente, disse la sua convinzione e la sua fede: «Noi conosciamo la causa del
declino e della decadenza dell'umanità, come anche conosciamo la necessità della sua rigenerazione;
noi crediamo alla possibilità di questa rigenerazione e ad essa, in tutti i possibili campi, ci
consacriamo».
IL CASO NIETZSCHE
Una gelosia «metafisica»

Il giovane Friedrich Nietzsche [alias, alias] s'era prosternato ai piedi dell'altare del «dio
Wagner» deponendovi L'origine della tragedia [versione originale Web], poi l'Inattuale su Bayreuth.
[versione originale Web]. Ma le «giornate meravigliose di Tribschen» furono soltanto una breve
primavera. Ben presto Nietzsche s'allontanò da Wagner; a poco a poco il discepolo fervente si mutò in
apostata, l'apologeta in denigratore, il complice in avversario accanito. Le ultime opere di Nietzsche - Il
caso Wagner, [versione originale Web], Nietzsche contro Wagner [versione originale Web] - hanno il
piglio d'un atto d'accusa velenoso nei confronti del «maestro» d'un tempo. Wagner non è più che un
«seduttore», un «corruttore», un «pericoloso serpente a sonagli», che pretende di essere il contrario di
ciò che è. «Schopenhaueriano», «nemico della Vita», Wagner sarebbe «il nec plus ultra della
decadenza»; peggio ancora, sarebbe «ricaduto nel cristianesimo».

Nietzsche se la prende oramai direttamente con la musica di Wagner (pur con eccezioni e
ripensamenti) e, poiché la musica tedesca conduce fatalmente a Wagner, con tutta la musica tedesca,
«arte decadente per eccellenza». Contro 1'«armonia», nordica e nebbiosa, egli esalta la «melodia pura»,
che sarebbe «mediterranea». Spesso la «dimostrazione» nietzschana si trasforma in vera e propria
caricatura, come quando - per esempio - egli riassume gli «intrighi» dei drammi wagneriani. Il piglio
del discorso può divenire francamente odioso: «Non c'è nel campo dello spirito nessuna stanchezza,
nessuna decrepitudine, nessuna negazione del mondo che non siano protette dalla sua arte (NdA: di
Wagner). È il più nero degli oscurantisti, nascosto tra le pieghe luminose dell'ideale...». Spesso, nella
sua critica, Nietzsche rasenta l'assurdità e,. per non alienarsi la stima degli amici, s'affretta in privato a
fare ammenda onorevole delle proprie intemperanze. Così, dopo aver portato alle stelle (nel Caso
Wagner) la Carmen di Bizet come antitesi «mediterrane» del Wort-Ton-Drama wagneriano, Nietzsche
subito scrive a Fuchs per precisargli che l'antitesi in questione è puramente «ironica», campata per
ricerca dell'«effetto» sul lettore, e non deve dunque essere «presa sul serio», giacché «naturalmente
Bizet nei confronti di Wagner non fa il peso neanche moltiplicato per cento...».

Per Nietzsche, l'opposizione a Wagner costituisce senza dubbio una tragedia personale. Questa
è cosa che tutti sanno. Nietzsche ha immensamente sofferto di essersi «dovuto allontanare» dal «solo
uomo che mai abbia amato»; ma questa sofferenza gli è stata imposta da una sorta di gelosia dalle
dimensioni metafisiche. Nietzsche avrebbe voluto occupare nella storia anche quel posto che
legittimamente spetta e sempre spetterà a Wagner. Egli si è dunque sforzato di «dimostrare» che
Wagner non era quel che si credeva, che Wagner non era il creatore d'un mito nuovo, rigeneratore della
storia - e che non poteva esserlo, oltretutto, proprio perché la musica sarebbe «un'arte della fine», che
fiorisce e si sviluppa nei periodi di decadenza, e non sarebbe mai «arte degli inizi», delle «origini».

A questo fine Nietzsche ha dovuto innanzitutto rinnegarsi in quanto autore dell'Origine della
tragedia [versione originale Web]: rinnegamento che gli è stato tanto più facile in quanto che era anche
un mezzo di affermare con sicumera che «il vero Wagner» sarebbe lui, Nietzsche: «... io vedevo
[allora] nella musica di Wagner l'espressione d'una potenza dionisiaca dell'anima, credevo udire in essa
il terremoto con il quale una forza primordiale, troppo a lungo repressa, esplode infine, indifferente al
fatto che tutto ciò che oggi ha nome di cultura potrebbe mettersi a vacillare. Ben si vede in cosa ho
sbagliato, ben si vede di cosa ho fatto credito a Wagner e a Shopenhauer: ho fatto loro credito di me
stesso!».

Wagner aveva preteso di fondare, con la sua opera, un nuovo «inizio», d'avviare l'umanità verso
la «rigenerazione». Nietzsche proclama che non è vero, che si tratta d'una impostura. Ecce homo
[versione originale Web] è quanto mai esplicito: Nietzsche e soltanto Nietzsche è «la dinamite della
storia»; Nietzsche è il primo ed il solo ad aver concepito un mito del divenire eterno, del Superuomo,
dell'Eterno Ritorno; solo Nietzsche, avendo toccato il fondo dell'abisso della decadenza, ha tuttavia
saputo andare al di là, soltanto in lui, Nietzsche il «momento della fine» si confonde «col momento
dell'inizio», così rovesciando il movimento della storia. Il vero Dioniso è lui, Nietzsche; Wagner non è
che Teseo. Ma, per l'appunto, qui sta il nodo della tragedia inconcepibile: il «pubblico tedesco» s'è
lasciato fuorviare dal «seduttore»; Arianna ha creduto di riconoscere il dio in Teseo e, così ingannata, si
è sposata con lui. Oramai la follia batte alle porte. Allorché essa varca la soglia, Nietzsche indirizza ad
«Arianna» l'ultimo messaggio: «Arianna, io t'amo! Firmato: Dioniso» - e questa Arianna è Cosima
Wagner, donna-simbolo, e simbolo, anche, di quel «pubblico tedesco» che Wagner ha «rubato» a
Nietzsche e che Nietzsche, per vendetta, ha coperto di insulti.

In fondo tutto è semplice, come pacatamente constata Jean Matter: «Nietzsche, che si considera
portatore d'una filosofia del divenire, non può sopportare che Wagner ci dia una musica del divenire».
Stefan George [alias], più crudamente, rimprovera a Nietzsche di aver «tradito e bassamente
ingiuriato» Wagner e postilla: «Senza Wagner, niente Origine della Tragedia; senza il risveglio
provocato da Wagner, niente Nietzsche (...) Il caso Wagner è in realtà il caso Nietzsche». Nietzsche ha
disegnato in termini filosofici la struttura del mito sovrumanista e, con linguaggio nuovo, ha conferito
una prima evidenza alle implicazioni di questo mito. Ma questo mito già esisteva, rappresentato da e
nel dramma wagneriano: Nietzsche non ha fatto altro che dargli un «nome» e una «formulazione»
filosofica.

Identita’ di struttura

Struttura ed elementi del mito formulato da Friedrich Nietzsche con espressione poetico-
filosofica sono già tutti presenti nel mito creato da Wagner con espressione poetico-musicale (Wort-
Ton-Drama). Nei due casi una stessa visione intuitiva della storia, una stessa «idea dell'uomo» sono
affermate e proposte, insieme ad un identico «progetto storico» globale. Alla "volontà di rigenerazione
dell'umanità" di Wotan corrisponde la "volontà che il superuomo sia" di Zarathustra; alla volontà della
fine che la prima implica corrisponde l'amor fati zarathustriano, segno della nuova coscienza dell'uomo
superiore, alter ego nietzschano di Wotan, che per Wagner è il dio di «una coscienza nuova e superiore
che l'uomo ha di se stesso»: l'uomo superiore nietzschiano - va ricordato - è colui che «vuole perire»,
«non vuole conservare se stesso», «vuole la propria distruzione (zugrunde gehen)» «affinché il
Superuomo sia».

Il Superuomo di Nietzsche, d'altra parte, si identifica perfettamente col Rein-Menschliches di


Wagner: l'uno e l'altro sono la (futura) realizzazione storica della più alta idea di se stesso che l'uomo
può farsi in un «presente storico» determinato. Eterno ritorno dell'identico e tensione verso il
superuomo, rinviando l'uno all'altra, tentano di configurare poetico-filosoficamente quella
«rappresentazione» del tempo tridimensionale della storia che struttura il Wort-Ton-Drama e che la
musica tonale, massimamente in Wagner, ci fa sentire. In sé e per sé, il mitema dell'eterno ritorno
dell'identico è in linguaggio lineare la proiezione della «sfera del Divenire storico»
nell'unidimensionalità dell'evoluzione biologica, eterno ritorno configurato - come Wagner spiega nei
Wibelunghi - dalle successive reincarnazioni dell'«eroe solare redentore» e, nell'Anello, dal reincarnarsi
di Siegmund in Sigfrido. Il grande meriggio zaratustriano è poi quello stesso Zeit-Umbruch, quella
frattura del tempo della storia che evoca nell'Anello del Nibelungo il sublime Leitmotiv annunciante la
nascita di Sigfrido e destinato a ritornare, non già con le apparizioni sceniche di Sigfrido, bensì soltanto
con il crollo finale del mondo per annunciare la rigenerazione. Il ripiego sulle origini, altro elemento
essenziale del mito wotanico e presente anche nel Parsifal [alias] (come «ricordo della madre», con
funzione catartica), si ritrova in Nietzsche sotto il doppio aspetto di nostalgia ed esaltazione della
«belva bionda» indoeuropea opposta all'uomo avvilito e decaduto del presente e poi anche, sul piano
puramente artistico e culturale, dell'Ellade omerica e presocratica, «belva» e «Ellade» per sempre
perdute, «irriconducibili» storicamente, ma che però, proprio per questo, animano e nutrono lo slancio
verso l'avvenire, verso il superuomo (Rein-menschliches).

Questa sostanziale identità della «rappresentazione» wagneriana e della «formulazione»


nietzschana del mito sovrumanista è stata raramente compresa. Uomini appartenenti alla tendenza
sovrumanista l'hanno, sì, sentita, magari anche affermata, ma sono stati sempre incapaci di evidenziarla
concettualmente. Gli altri di opposta tendenza hanno tutt'al più, accomunato Wagner e Nietzsche
soltanto come rappresentanti di un «irrazionalismo» latamente inteso, inclini dunque ad esprimersi con
«miti» per l'appunto denunciati come «irrazionali»; ma poi hanno sempre postulato nell'uno e nell'altro
una diversa irrazionalità, una diversità fondamentale di intenti e di giudizi, spesso usando a fini
polemici dell'opera dell'uno contro l'opera dell'altro. Da oltre un secolo ormai il «Mito» circola nel
generale «dibattito» in cui si affrontano i due rispettivi «discorsi» della tendenza egalitarista e di quella
sovrumanista e, poiché il dibattito ha per protagonisti filosofi ed intellettuali, vi circola soprattutto nella
sua formulazione nietzschana, che è poetico-filosofica. Formule (o termini) come Eterno Ritorno,
Superuomo si sono così imposte ed hanno dato al mito ed alla tendenza che esso esprime il suo nome:
sovrumanismo. In Richard Wagner [alias, alias] le «formule», la designazione concettuali dei
«mitemi», non sono neanche esplicitate o, se lo sono, lo sono nelle opere teoriche, raramente lette da
chi dovrebbe leggerle. Nei Wort-Ton-Dramen i mitemi sono presenti ed attivi sentimentalmente come
Leitmotive ed il «wagneriano», una volta che i «mitemi» gli siano stati evidenziati concettualmente, sa
facilmente ritrovarli, identificarli. Ma c'è di più: in Wagner i mitemi non sono soltanto dati come
Leitmotive musicali che sposano determinati elementi del testo poetico o dell'azione scenica e
divengono così simboli sentimentalmente attivi e pregnanti; essi anche conformano aprioristicamente
1'«ispirazione» stessa di Wagner e, nel loro insieme e singolarmente, determinano il Wort-Ton-Drama
e lo fanno quel che è.

Il ripiego sul passato, ad esempio, è presente nell' Anello e nel Parsifal [alias] non soltanto
come Leitmotive rispettivi del ricordo che Siegfried e Parsifal hanno della madre o, ancora nell'Anello,
come comune nostalgia del padre in Sieglinde e Siegmund; questo ripiego sul passato che è memoria
delle radici anche fa sì che Sieglinde e Siegmund al primo sguardo debbano amarsi, riconoscendosi
l'uno nell'altro, amore apparentemente incestuoso che Wotan sa comprendere ed anzi esaltare (e nel
quale s'è poi voluto vedere un tratto «razzista»); ma soprattutto anche fa sì che Wagner stesso, per
rappresentare il nuovo «mito sovrumanista», abbia fatto ricorso ad una rappresentazione
dell'antichissimo mito germanico, reinterpretato e ricreato. Così in Wagner il «mito» è presente su due
piani, potremmo dire soggettivamente ed oggettivamente: esso è la «rappresentazione» ed è ciò che
crea questa rappresentazione, rappresentante e rappresentato ad un tempo, doppio aspetto che poi è
ricreato, con la sua duplice attività ed in virtù del carmen che è la Musica, ad ogni rappresentazione. È
nei Wort-Ton-Dramen di Wagner che la tendenza sovrumanista crea storicamente se stessa ed il nuovo
mito, ed è nella rappresentazione del Wort-Ton-Drama che di volta in volta essa torna a crearsi ed a
creare il proprio mito, suscitando nello spettatore il «sentimento» della pluridimensionalità del tempo
della storia, instillando segretamente in lui 1'«idea della musica» e subito traducendogliela in una
immagine-discorso del mondo, della storia e dell'uomo e così, a poco a poco, conformandolo a sé.

La Musica, questa musica, continua a parlare all'inconscio: a chi, per sua natura, quel
«sentimento» del tempo è impossibile e quell'«idea» ripugna, l'inconscio detterà un rifiuto, che magari
apparirà inspiegabile alla coscienza e la turberà: e non stupisce allora che un Thomas Mann, pure
affascinato ma insieme colto da indicibile malessere, abbia suggerito di «proibire Wagner» e tutta la
«musica tedesca» e che, di fatto, Wagner sia stato un tempo proibito in certi Paesi, ed in uno lo sia
ancora. Ma è anche inconsciamente che il «mito» può essere ricevuto e nel modo più totale: e questo
spiega che Nietzsche abbia potuto a suo modo ricrearlo ed esprimerlo con un'altra formulazione,
puramente verbale e «intellettuale», non rendersi conto di averlo ricevuto, questo mito, e illudersi di
averlo creato lui.

Ma, con Nietzsche, il problema è appunto questo. Davvero non ha avuto coscienza di ricevere il
mito sovrumanista da Wagner, davvero si è illuso di averlo creato, questo mito, lui personalmente?
Oppure, invece, era cosciente di andar «esplicitando» Wagner e, spinto da cieca e - si potrebbe
ironicamente dire - «sovrumana» gelosia, ha voluto occultarlo alla posterità? Il dubbio che a dover
ricevere una risposta affermativa sia il secondo interrogativo, è quasi dissipato dalla folla di argomenti
che, succintamente, abbiamo già enumerato ed ai quali potrebbe essere aggiunta un'altra folla. Ma la
questione è in fondo secondaria; una volta appurata la sostanziale identità del mito rappresentato
nell'opera di Wagner e di quello «formulato» dall'opera di Nietzsche, essa non interessa più che i valets
de chambre, cui nulla e nessuno impedirà mai di spiare attraverso il buco della serratura intimità
«umane, troppo umane».

Nella sua rappresentazione wagneriana e nella sua formulazione nietzschana il «mito»


sovrumanista è identico a se stesso, strutturalmente e sostanzialmente. Questa sua identità di sé con sé
non va confusa con la identità soltanto strutturale (e non anche sostanziale) che si afferma nelle
espressioni successive di una tendenza storica e le rende proprio così riconoscibili come espressioni
d'una stessa tendenza: è ad esempio l'identica comune struttura delle «visioni» che permette di parlare
di una appartenenza del «marxismo» e del «cristianesimo» alla medesima tendenza egalitarista, e di
appartenenza a questa stessa tendenza anche di «ideologie antitetiche» che, nel loro confronto,
riproducono insieme quella stessa struttura (ad esempio, l'ideologia ottimista dell'american way of live
e del progresso infinito verso il «meglio», comune anche al demoliberalismo, e l'ideologia pessimista
del «malessere ineliminabile della civiltà» alla Freud [alias], o della inevitabile «riproduzione del
male» alla Horkheimer-Adorno, ricostituiscono insieme «algebricamente» la struttura dell'espressione
egalitarista). Mito, ideologie antitetiche nel loro produttivo confronto, anti-ideologia nella sua sempre
ripresa auto-elaborazione hanno però in comune, quando appartengono ad una stessa «tendenza»,
oltreché la struttura delle loro espressioni anche un ultimo fondamento della loro sostanza, che è
1'«ultimo fine» storico, perseguito o istintivamente (mito) o coscientemente (ideologie) o con
aspirazione cosciente all'autocoscienza (anti-ideologia).

Una tendenza epocale in fase di espressione mitica, come quella «sovrumanistica» oggi,
persegue il proprio «fine» istintivamente e cioè non può prenderne davvero coscienza. Poiché però
dispone di quella «coscienza storica» che è «coscienza del contenuto oggettivo della contemporaneità»,
quella stessa che il suo istinto potenzialmente supera, la tendenza in fase di espressione mitica è
cosciente del «fine» dell'avversario e, concretamente negandolo, fa di questa negazione il proprio
concreto fine immediato: così la tendenza sovrumanista rigetta 1'egalitarismo ed il fine riconosciuto
dell'egalitarismo, che è la «fine della storia», e riconosce dunque il proprio concreto immediato fine
nella «rigenerazione della storia». Il suo vero «ultimo fine», la tendenza in fase mitica può però
soltanto rappresentarselo miticamente, con proiezione mitica in una dimensione immaginaria che
trascende quella su cui sono perseguiti il « fine ultimo » della tendenza antinomica ed il proprio
opposto «fine immediato». In fase di espressione mitica, la tendenza egalitaria aveva proiettato il
proprio fine nel «metafisico», nell'aldilà come «regno dei cieli», cioè in una dimensione che
trascendeva il «fisicismo» o «naturalismo» dell'anti-ideologia greco-romana fondata col «zoon
politikon» di Aristotele; ed oggi la tendenza sovrumanista proietta il suo «ultimo fine» nella
dimensione della «metastoria», col mitema del Rein-menschliches o Superuomo. Rigenerazione o
Grande Meriggio come Zeit-Umbruch non si confondono col Rein-Menschliches e il Superuomo, bensì
ne costituiscono - se realizzati, in virtù di un annullamento della tendenza storica antinomica - la
condizione pregiudiziale, la possibilizzazione.

Accuse false

Che il «mito sovrumanista» sia nato come rappresentazione cui è seguita una formulazione
nietzschana, è ciò che permette alla «tendenza» sovrumanista di essere concretamente entrata nella
storia (quand'anche dovesse poi «abortire») e cioè di esservisi costituita come «campo mitico». Con la
sola rappresentazione del proprio mito una tendenza epocale non può infatti costituire il proprio
«campo mitico», di cui la rappresentazione è il «polo eccitante»; anche è necessario il "polo incitante",
cioè la formulazione che poi permetterà, magari sempre più affinandosi, la «predicazione».

Il mito cristiano nacque come vita di Gesù, vita che è sacrificio di sé; Gesù non soltanto si
rappresenta a sé, e a chi crede in lui, come «figlio di dio che si sacrifica per l'umanità» ma anche
istituisce la rappresentazione, attiva carismaticamente e ripetibile, di questo sacrificio nella «cena-
comunione». Il «campo del mito» cristiano si costituisce però soltanto con una formulazione teologica
e già ecclesiastica, che è essenzialmente opera di Paolo di Tarso, senza il quale, e senza la formula (da
lui coniata contro Giovanni apostolo) della «universalità della redenzione cristica», il cristianesimo
sarebbe restato una setta giudaica circolante nella sinagoga come tante altre e non ne sarebbe mai uscito
per affermarsi «campo mitico» d'una nuova tendenza epocale così, ipso facto, concretamente introdotta
nella storia. Il fatto che Wagner e Nietzsche, l'uno con la rappresentazione e l'altro con la formulazione
di un identico mito, creino il «campo mitico» del sovrumanismo e lo inseriscano concretamente nella
storia, non significa peraltro che, al di qua della rispettiva rappresentazione e formulazione dello stesso
mito, non abbiano divergenti «riflessioni» sulla retrospettiva aperta dal mito e poi sulla strategia con la
quale perseguire il «fine» della tendenza sovrumanistica. L'uno e l'altro hanno analizzato la situazione
del loro tempo, interrogandosi sul «che fare?», ciascuno con le sue particolari «capacità». I loro
rispettivi linguaggi filosofici sono diversi, ciò che spesso impediva loro di comprendersi; certamente
Nietzsche sapeva meglio analizzare finemente il dettaglio storico, anche perché era miglior psicologo;
ma la sua capacità d'intuizione - il suo istinto - era molto meno sicura di quella di Wagner. Le
divergenze delle loro rispettive «riflessioni critiche» riguardano essenzialmente il giudizio portato sul
cristianesimo, sulla Germania dei loro tempi, sul «popolo tedesco» o sul «carattere tedesco» e poi
soprattutto sull'antisemitismo.

Che Nietzsche abbia accusato Wagner di essere ridivenuto cristiano ed anzi «cristiano
cattolico», lo abbiamo veduto. Anche abbiamo visto come questa accusa sia assurda, assolutamente
infondata. Ma ci si può domandare perché mai Nietzsche non abbia compreso l'atteggiamento di
Wagner a proposito del cristianesimo o - se non si crede alla buona fede di Nietzsche - quali
«apparenze» gli abbiano dato appiglio per lanciare la sua accusa e sostenerla. È noto che Nietzsche
trovò il pretesto della rottura nel Parsifal [alias], più esattamente nell'invio che gli aveva fatto Wagner
della prima edizione del testo poetico del Parsifal. Ma, per l'appunto si tratta di un «pretesto», che -
oramai è fatto appurato - Nietzsche creò di sana pianta grazie ad una sottile falsificazione cronologica.
Nietzsche voleva far credere di aver improvvisamente scoperto, con la lettura del Parsifal, che Wagner
«s'era fatto cristiano» e dunque scrisse subito ad amici e poi versò nella sua autobiografia una patente
menzogna, affermando di aver conosciuto il Parsifal soltanto con la lettura di quella prima edizione e
di essere così caduto dalle nuvole.

La verità accertata è che invece Nietzsche conosceva il Parsifal già da anni ed anni; Wagner gli
aveva letto il «grande progetto» in prosa del Parsifal (dal quale il testo poetico non s'allontana in alcun
modo) a Tribschen nel periodo natalizio del 1869, ben due anni prima che Nietzsche stesso concepisse
e scrivesse L'origine della Tragedia, il suo scritto più wagneriano. Ed il 10 ottobre del 1877 Nietzsche
ancora scriveva a Cosima Wagner una lettera, pubblicata per la prima volta nel 1964, nella quale è
detto: «La promessa magnifica del Parsifal può recarci consolazione ogni volta che abbiamo di
consolazione bisogno». Naturalmente Nietzsche potrebbe essersi sinceramente ricreduto più tardi sul
proprio primo giudizio. Ma perché, allora, la falsificazione cronologica e la volontà di farla passare alla
storia?

Comunque, se Nietzsche si è ricreduto, bisogna ammettere allora che, nonostante il suo genio e
la sua sensibilità, non ha compreso nulla del Parsifal, giacché, oltretutto, in fondo il Parsifal dice e
vuole cose che Nietzsche stesso ha finito col dire e volere. Senza dubbio, a proposito del cristianesimo,
Nietzsche proclama con furore: «Ecrasez l'infâme!», ma negli scritti postumi si interroga invece, in un
aforisma celebre, sulla opportunità di conservare per le masse un cristianesimo purificato, e risponde
affermativamente. Anch'egli, poi, opera come Wagner una distinzione fra il «cristianesimo,
conseguenza stessa dell'istinto giudaico», inventato secondo lui da Paolo di Tarso, ed il messaggio di
Gesù, considerato come «un puro idiota» (nel senso etimologico della parola greca) così come Wagner
dice del giovane Parsifal che è un «puro folle». Anzi L'anticristo [versione italiana Web, versione
originale Web] è tutto dedicato - si può dire - a mettere in evidenza la «giudeità» del «cristianesimo
storico» e la falsificazione del «vero messaggio» di Gesù, che soltanto avrebbe predicato una pura
«religione del cuore», per così dire vuota di ogni contenuto che non sia quello che ciascun uomo trova,
sempre diverso, nella propria singolare personalità, e, come tale, intima religione «sempre possibile»,
però senza concrezioni sociali. Non solo: Nietzsche - vi è stato accennato - ha anche pensato
all'opportunità di «conservare» il cristianesimo vero e proprio come «religione per le masse», ma non
ha mai, neanche lontanamente, pensato alla «produzione d'una regressione» del cristianesimo al di là
del suo «soglio memoriale», produzione genialmente intuita e realizzata sulla scena e per la scena da
Richard Wagner [alias, alias] con il Parsifal [alias]. Nietzsche è a questo proposito rimasto prigioniero
delle «idee del secolo» e, in un altro aforisma dei suoi ultimi scritti, prospetta indirettamente come
soluzione futura, una sorta di sintesi del cristianesimo e della sua «antitesi», ipotizzando che il
«superuomo» possa per l'appunto essere «Cristo e Cesare insieme».

Anche le divergenze a proposito di ciò che è tedesco e delle speranze da riporre sulla Germania
sono pretestuose e, all'analisi, si rivelano irrilevanti dal punto di vista che qui interessa. La loro
importanza storica sta nel fatto che, laddove a Wagner - nel quadro di polemiche politiche ancora
attuali - è stato rimproverato di essere una sorta di campione del «pangermanesimo», Friedrich
Nietzsche è invece spesso chiamato a testimoniare contro il «pangermanesimo» e le ambizioni politiche
di una Germania che magari vorrebbe richiamarsi a lui. In realtà, dei due, colui che dovrebbe essere
definito - nel gergo d'oggi - «imperialista» è proprio Nietzsche, più che Wagner. Il risentimento contro
la Germania, dopo la fondazione del Reich bismarckiano, nasce in Nietzsche dalla profonda delusione
delle ambizioni egemoniche e imperialistiche che Nietzsche stesso nutriva per la Germania. Nel
Tentativo d'autocritica premesso nell'agosto del 1886 ad una nuova edizione dell'Origine della
Tragedia, vecchia ormai di circa quindici anni, Nietzsche espressamente confessa questa delusione: «E
pensare - scrive - che io avevo riposto speranze dove non c'era nulla da sperare, dove tutto nel modo
più chiaro annunciava una fine! E pensare che io, fondandomi sull'ultima musica tedesca (NdA: cioè
quella di Wagner), cominciai a fantasticare di essenza tedesca [deutsches Wesen] come se questa fosse
in procinto di scoprire se stessa e ritrovarsi - e questo proprio nel momento in cui lo spirito tedesco, che
poc'anzi ancora aveva posseduto la volontà di dominare l'Europa e la forza di assumerne la guida
[Führung], rinunciava invece definitivamente e una volta per sempre e, col pomposo pretesto d'una
fondazione di Reich, si convertiva alla mediocrità, alla democrazia ed alle idee moderne!».
Questa convinzione che le possibilità racchiuse nell'«anima tedesca» e le speranze che su di
essa era possibile fondare fossero definitivamente andate perdute con quel passaggio della Germania
bismarckiana alle «idee moderne» s'è sempre più profondamente radicata in Nietzsche, sebbene
continuasse a pensare che «l'onore di divenire il primo popolo anticristiano d'Europa» non potesse
comunque andare un giorno che proprio al popolo tedesco. Il risentimento antitedesco di Nietzsche fu
d'altra parte incessantemente nutrito tanto dall'insuccesso delle sue opere (egli si illudeva di trovare i
suoi pochi lettori fuori di Germania), quanto dal successo dell'opera di Wagner, che egli giudicava
dovuto alla «mediocrità» dei Tedeschi, del pubblico tedesco (laddove, in realtà, il successo di Wagner
fu, rapidamente, un successo europeo ed anzi «occidentale»).

Nietzsche aveva perfettamente veduto la necessità d'una unificazione dell'Europa per


fronteggiare la minaccia scaturente dall'imminente «planetarizzazione» e dalla emergenza, da lui
prevista, di due grandi potenze continentali in America ed in Russia (e Nietzsche aveva anche
preveduto, con sorprendente sicurezza, che l'unificazione dell'Europa avrebbe preso inizio sul terreno
economico, imposta da impellenti interessi...). Egli aveva visto nel «popolo tedesco» l'unificatore
dell'Europa e, dopo la sua «delusione», proiettò - come è noto - 1'«essenza tedesca» nel «buon europeo
dell'avvenire». Ma che egli avesse bisogno di operare questa proiezione sta proprio, per assurdo, a
dimostrare che dell'«essenza tedesca» egli aveva avuto una concezione molto più ristretta e
«nazionalistica» di un Wagner, di un Fichte [alias] e di tanti altri portatori dell'«idea tedesca». Cosa
pensasse Fichte della «germanità», lo abbiamo già visto (cfr. capitolo terzo) citando la sua definizione
di «tedesco» nei Discorsi alla nazione tedesca [versione originale Web]. Paul de Lagard diceva che «la
germanità è nell'anima», Novalis che «ci son Tedeschi ovunque» e Ernst Bertram, reinterpretando
Nietzsche ha affermato: «Divenire più tedesco anche significa sgermanizzarsi in un senso superiore,
superare in sé ciò che è tedesco così da pervenire allora e soltanto allora alla perfezione tedesca».
Wagner stesso scriveva a Liszt: «Credimi, noi non abbiamo patria e, se io sono tedesco, certamente
porto la mia Germania in me stesso». E altrove, in uno dei tentativi di precisare intellettualmente «cosa
è tedesco», afferma che «è tedesco ogni uomo che agisce strettamente secondo le sue convinzioni».
Senza dubbio Richard Wagner considera a suo modo « sacro » il Reich della nazione germanica, ma -
come egli afferma nella scena finale dei Maestri Cantori - più in alto ancora sta «la sacra arte tedesca»,
perché è in essa che vive e si afferma nel modo più puro «ciò che è tedesco ed autentico».

L'antigiudaismo di Nietzsche

La sola, vera ed importante divergenza di vedute tra Wagner e Nietzsche concerne un aspetto
rilevante di ciò che potremmo chiamare la strategia della tendenza sovrumanista in relazione non già al
suo «fine ultimo» bensì al suo fine «immediato». Tanto per Wagner come per Nietzsche l'origine e la
causa della «decadenza» e della «depravazione» dell'Europa e dell'umanità vanno ritrovate nel
«principio giudaico», nel «giudaismo», sicché il problema immediato sarebbe, sul piano politico e
culturale, costituito dagli imperativi di una indispensabile «degiudeizzazione totale» dell'Europa.

Ma da questo comune «antigiudaismo» Richard Wagner [alias, alias] e Friedrich Nietzsche


[alias, alias] deducono giudizi diametralmente opposti sul «movimento antisemita», giacché analizzano
differentemente il processo di giudaizzazione dell'Europa (o quel che essi giudicano tale) e l'influenza
dell'elemento israelita in seno alle società europee dei loro tempi. Come si ricorderà, Wagner denuncia
nel «giudaismo» il pervertitore del «cristianesimo» e poi anche degli istituti politici e della cultura
europee. Secondo lui quest'ultimo fenomeno di una invasione delle forme culturali, politiche e sociali
europee da parte del «principio giudaico» sarebbe un fenomeno piuttosto recente. Egli lo attribuisce,
non senza ingenuità, alla «ascensione sociale» dell'elemento ebraico in Europa grazie all'atmosfera
liberale creata dalla rivoluzione francese. Gli ebrei avrebbero così rapidamente ottenuto una «influenza
predominante» nel mondo politico, artistico, culturale e tutti i mali dell'Europa - democrazia,
parlamentarismo, socialismo egalitaristico - sarebbero loro imputabili. Agli occhi di Wagner,
conseguentemente, le diverse «forme» della cultura europea e tedesca, a cominciare , dalla «forma
religiosa» che è il cristianesimo, hanno un valore negativo soltanto nella misura in cui sono state invase
e snaturate dal principio giudaico. Wagner vuole combattere ovunque questo principio giudaico,
«rigermanizzare» le forme sociali e culturali e, a questo fine, eliminare pregiudizialmente qualsiasi
influenza sociale degli ebrei: così, fatalmente, 1'antigiudaismo di Wagner sfocia sull'antisemitismo
politico e sociale, quand'anche non in maniera virulenta, giacché Wagner è convinto che l'ebreo possa
cessare di essere ebreo, «guarire», a condizione di convertirsi al «wagnerismo»... (E il bello è che
Wagner riuscì a circondarsi sempre d'una piccola corte di ebrei, «convertiti al wagnerismo» al punto
che uno di essi, dopo la morte di Wagner, si tolse la vita, disperando della propria «redenzione» in
assenza del Maestro).

Con Nietzsche le cose vanno ben altrimenti. L'antigiudaismo di Nietzsche è ancora più violento,
più radicale - e più argomentato - di quello di Wagner. Anche Nietzsche afferma che è stato il
«principio giudaico» a provocare l'avvilimento dell'uomo, «la falsificazione radicale d'ogni natura,
d'ogni naturalezza, d'ogni realtà»; è con gli ebrei - sostiene Nietzsche - che ha avuto inizio la «rivolta
degli schiavi» ed è perché «Dio s'è fatto giudeo» che l'Occidente è in declino. Di questo «principio
giudaico», inteso come «un no opposto a tutto ciò che è movimento ascendente della vita, riuscita,
potenza, bellezza, affermazione di sé sulla terra», Nietzsche dà una definizione socio-politica che lo
identifica al «principio egalitaristico» e con esso lo confonde. La «giudaizzazione» dell'Occidente non
è però secondo Nietzsche un fenomeno recente; essa ha inizio con la cristianizzazione, giacché il
cristianesimo «non può essere compreso che sul terreno dove si è sviluppato» ed è «non già una
reazione contro l'istinto ebraico, bensì la conseguenza stessa di questo istinto, un passo avanti nella
logica spaventosa di questo istinto». Se oggi «il cristiano può ancora nutrire sentimenti antiebraici
senza accorgersi di essere lui stesso l'ultima conseguenza ebraica», rileva Nietzsche, è proprio perché il
principio giudaico «ha totalmente falsificato l'umanità».

L'antisemitismo socio-politico appare pertanto a Nietzsche come una forma di ipocrisia e


perfettamente ingiustificato in un'Europa «cristiana». Per di più l'analisi che egli fa delle forze sociali
del suo tempo induce Nietzsche a denunciare nel movimento antisemita un pericolo estremo per
l'avvenire dell'Europa, anche e soprattutto dal punto di vista «antisemita». L'autore di Zarathustra fa
propria l'apocalittica visione di de Gobineau [alias]: in Europa non esisterebbero più razze pure, essa
sarebbe divenuta un Völkerchaos, un caos razziale, e ciò la condannerebbe inevitabilmente al declino.
Per contro proprio gli ebrei, secondo Nietzsche, sarebbero ancora una «razza», l'unica vera razza
ancora esistente in Europa, senza peraltro costituire un «popolo». Nietzsche si afferma convinto che gli
ebrei d'Europa non avrebbero altra aspirazione che quella di «cessare di essere ebrei», d'essere
totalmente assimilati. Anzi proprio per facilitare questa assimilazione, egli sottoscrive pienamente
quell'«imperativo dell'istinto tedesco che comanda di proibire l'immigrazione ulteriore di ebrei, in
particolare dall'oriente europeo», «affinché la disgustosa e spregevole bruttezza degli ebrei di Russia e
Polonia, Galizia ed Ungheria non renda impossibile l'evoluzione dell'ebreo tedesco verso un tipo più
tedesco nell'espressione, nell'apparenza e, infine nell'anima». Per contro il rivolgersi dell'antisemitismo
contro gli ebrei d'Europa in via d'assimilazione sarebbe «estremarimente pericoloso», perché gli ebrei,
minacciati e dunque costretti a difendersi, non avrebbero allora altra via d'uscita che di impadronirsi di
tutte le leve del potere, un'impresa che - sempre secondo Nietzsche - sarebbe inevitabilmente destinata
al successo, in virtù della tenacia della loro «razza», temprata da secoli e secoli di isolamento e
persecuzione, e dotata di qualità che ormai farebbero difetto a tutti gli altri europei.

Per Friedrich Nietzsche - è noto a tutti - l'Europa è destinata a morire ed anzi deve morire, per
poter rinascere - totalmente diversa - dalle proprie ceneri. La «strategia», la «Grande Politica»
nietzschana è ispirata da un «nihilismo positivo» e comanda dunque di accelerare, con ogni mezzo
possibile, il processo fatale di disintegrazione delle società europee cristiano-egalitaristiche: soltanto
allorquando gli europei saranno divenuti una massa di schiavi docili e rassegnati (che 1'«ultimo uomo»
di Così parlò Zarathustra [versione italiana Web, versione originale Web] prefigura mirabilmente),
potrà sorgere infine, come chiamata dal vuoto, la «razza dei signori» che saprà edificare un'Europa
«aristocratica» e fare della massa lo strumento capace di assicurarle la «dominazione della terra», per il
bene dell'umanità intera, innalzata verso un «tipo più alto e più nobile».

L'eredità di una polemica

Dovrebbe ormai essere chiaro che in ultima analisi soltanto considerazioni «strategiche»
oppongono Wagner e Nietzsche (o, più esattamente: Nietzsche a Wagner) e proprio perché l'uno e
l'altro si battono per la stessa causa: ed è questa devozione ad una stessa causa a fare del pensiero di
Nietzsche un perpetuo confronto con l'opera di Wagner. L'apologia entusiastica degli inizi, la
riflessione che segui, infine la critica esacerbata dell'ultimo periodo non sono state concepite e non si
spiegano che all'interno del campo del mito sovrumanista, all'interno di una dialettica creata dell'opera
di Wagner, con esclusione di qualsiasi altra. Di ciò, in fondo, Nietzsche è stato quanto mai cosciente,
anche allorquando tentava di convincersi del contrario, si immaginava centro d'un'altra costellazione e
parlava di Sternenfreundschaft, di una «amicizia di stelle» condannate a non incontrarsi mai nelle loro
corse senza fine. Così, all'atto d'accusa velenoso steso col Caso Wagner, [versione originale Web],
Nietzsche anche aggiunge questo ammonimento rivelatore: «Io ho amato Wagner e nessun altro. [...]
Ed è evidente che non riconosco a nessuno il diritto di appropriarsi del mio giudizio attuale su Wagner.
Non deve essere permesso in alcun modo alla irriverente canaglia formicolante come pidocchi sul
corpo della società presente di mettersi sulle labbra un nome così grande come quello di Wagner, che
sia per lodarlo oppure per opporsi a lui».

Il profeta dell'Eterno Ritorno e del Superuomo sa quanto mai bene che il suo diverbio con
Wagner è un affare di famiglia, in cui nessun altro ha da interferire: la sua polemica anti-wagneriana
può concernere soltanto coloro il cui sentimento e il cui pensiero già aderiscono al mito sovrumanista
wotanico. Nietzsche può bene opporsi a Wagner; nei confronti altrui, nei confronti del mondo che li
circonda, egli è e resta, quasi suo malgrado, solidale con Wagner, «il solo uomo alla stregua del [suo]
cuore».

Ma, proprio perché è cosciente del carattere «familiare» della polemica, Nietzsche, a dispetto
dei suoi sforzi, sempre si sentirà in qualche modo «traditore» e ne soffrirà terribiltente. Il suo celebre
aforisma sul Bruto di Shakespeare è una involontaria confessione e, insieme, un tentativo di
autogiustificazione: «Il più bell'elogio - scrive - che io possa pronunciare alla gloria di Shakespeare è
questo: egli ha creduto in Bruto e non ha gettato sulla sua virtù neanche il più piccolo grano di polvere.
Gli ha dedicato la sua migliore tragedia, [...] Indipendenza dell'anima, ecco quel che qui importa!
Nessun sacrificio è qui troppo grande: si deve poter sacrificare l'amico più caro, l'ornamento del
mondo, il genio senza pari. [...] Tale ha dovuto essere il sentimento di Shakespeare! Le altezze sulle
quali egli pone Cesare sono nello stesso tempo l'onore più sottile che poteva rendere a Bruto: giacché
soltanto con questo mezzo egli eleva il dramma intimo di Bruto, e la forza che gli fu necessaria per
recidere il nodo gordiano, ad una dimensione immensa!». Ma questa giustificazione - ricercata, lo si
noti, non già negli atti di Cesare bensì soltanto nella necessità in cui è Bruto di difendere la sua
"indipendenza dell'anima" - non è ancora sufficiente all'anima torturata di Nietzsche. Del proprio
atteggiamento nei confronti di Richard Wagner, egli fa nell'Also sprach Zarathustra la regola di
condotta, l'imperativo etico di ogni uomo superiore; di ogni anima aristocratica. Il profeta ordina
pertanto ai propri discepoli: «Allontanatevi da me! E difendetevi da Zarathustra! Meglio ancora:
abbiate vergogna di lui! Egli vi ha forse ingannato. Colui che cerca la verità deve poter amare i suoi
nemici, ma anche odiare i suoi amici. È mal ricompensare il proprio maestro, il restarne per sempre
discepoli. Voi non vi eravate cercati, allorquando avete trovato me. Così fanno tutti i credenti - ed è per
questo che ogni fede ha poca importanza. Adesso io vi ingiungo di perdermi e di trovare voi stessi. E
quando tutti mi avete rinnegato, allora soltanto farò ritorno tra di voi!».

Forse un simile atteggiamento è, a suo modo, conforme ad una certa «logica» sovrumanista.
Forse la vera ragione, la necessità di questo «tradimento del maestro» va ricercata quanto meno in parte
nel comando apollineo che ingiunge ad ogni anima nobile, ad ogni «uomo superiore» di cercare se
stesso per «divenire quel che egli è». Là dove il principio egalitarista impone la ricerca di una verità
«universale» e universale anche nella sua espressione e, con essa, l'adattamento di tutti ad un unico
«modello», il principio opposto vota fatalmente ciascuno alla ricerca di una sua personale verità ed alla
solitudine dell'aquila. Il «campo» della tendenza sovrumanista sembra così manifestare, fin dal suo
primo costituirsi, una sua propria dinamica, in cui si è tentati di vedere il riflesso di un aristocratico
agonismo. La tensione tra polo wagneriano e polo nietzschano non ha del resto mai cessato di animare
il campo sovrumanista, al quale più che mai, anche per questo verso, si addice l'immagine di un sistema
planetario ordinatosi intorno ad una doppia stella. Il vasto movimento filosofico, artistico, letterario e
finalmente politico generato dal mito sovrumanista, movimento al quale - con riguardo alle sue
espressioni politiche - Armin Mohler [alias] ha dato il nome di Konservative Revolution, ne offre la
prova più evidente: è proprio sui temi dove già si erano opposte strategia wagneriana e strategia
nietzschana che si affrontano tra 1919 e 1933 le sue molteplici correnti, dai «nazional-bolscevichi» ai
«Jung-Konservative» passando per i «nazional-socialisti».

Il saggio di Mohler sulla Konservative Revolution in Deutschland (op. cit.; trad. italiana: La
ricoluzione conservatrice) - va qui avvertito - rischia peraltro di mettere in ombra proprio l'origine delle
tensioni prodottesi fra correnti della Rivoluzione Conservatrice. A causa della sua discendenza
jüngeriana e, più ancora, delle sue inclinazioni letterarie, Mohler ha saputo discernere e mettere in
evidenza soltanto il «filone» nietzschano del complesso movimento spirituale e politico, talché la sua
pur pregevole analisi presenta numerosi «vuoti», che la impoveriscono e possono disorientare. In
particolare le varie correnti dei Völkische, sulle quali l'influenza di Wagner fu determinante, non
ottengono il meritato risalto ed i loro atteggiamenti sono assai male compresi, spesso interpretati in
modo distorto. Mohler, particolarmente attento alle manifestazioni poetico-filosofico-letterarie della
Konservative Revolution, illustra magistralmente i Leitbilder (immagini conduttrici, da me dette
«mitemi») che strutturano la visione-del-mondo dei conservator-rivoluzionari, quando può ricollegarli
alla predicazione dello Zarathustra nietzschiano: e si tratta quasi sempre di Leitbilder «temporali», cioè
concernenti il «movimento della storia». Per contro i Leitbilder «spaziali», cioè quelli sui quali
s'impernia la concezione della «comunità» nazionale restano, nella presentazione che ne dà Mohler,
come campati in aria, venuti non si sa bene da dove, giacché manca il riferimento a Wagner, qui più
che mai necessario ed anzi indispensabile.

Nel suo progetto «sociale» la Rivoluzione Conservatrice poteva trovare ispirazione soltanto nel
filone wagneriano, giacché la situazione della Germania nel primo dopoguerra prolungava ed
esasperava quella che Wagner si era preoccupato di affrontare direttamente, cioè una situazione di
trionfante «nihilismo» (nel senso che al termine «nihilismo» dà la Rivoluzione Conservatrice). Vero è
che Mohler, per ragioni ben comprensibili all'epoca in cui il suo saggio fu dato alle stampe, ha
espressamente voluto mettere tra parentesi - nella sua analisi - proprio il filone politicamente più
importante della Rivoluzione Conservatrice, quello che dette vita al «centro» in cui finirono col rifluire
o l'essere ricondotte un po' tutte le altre correnti, che rispetto ad esso - come lo stesso Mohler indica - si
configuravano come altrettanti «trotzkismi». Ma proprio questo «centro», il movimento nazional-
socialista, seppe tradurre in azione politica le idee della Konservative Revolution ed assicurarne un
temporaneo trionfo e, se lo poté, fu anche perché in larga parte riuscì a prolungare il «progetto
wagneriano» nel contesto della Repubblica weimariana. Rispetto a questo contesto, la Grosse Politik
schizzata da Nietzsche appariva invece eccessivamente «astratta», giacché investiva un «futuro»
ipotetico e troppo lontano, cioè l'epoca succedente al trionfo definitivo del «nihilismo negativo» ed al
consumato decadimento e avvilimento di un'Europa ormai «livellata».

Da questo punto di vista, quella « teatralità demagogica » che Nietzsche rimproverava al


dramma wagneriano si è rivelata positivamente produttiva, nella misura in cui ha permesso al mito di
estendere il proprio campo anche là dove il suo significato più profondo non poteva essere ancora
immediatamente percepito. La «teatralità» wagneriana (che in realtà esiste solo in virtù d'una lettura
superficiale del dramma) altro non è che la dimensione essoterica del mito, l'accentuazione
intenzionale di ciò che è accessibile alla massa. Questa qualità subalterna dell'opera è del resto
anch'essa conforme alla logica del mito sovrumanista: là dove non c'è uguaglianza né delle sensibilità
né delle intelligenze, una «informazione» che voglia essere «comunitaria» ed anzi «costitutiva di
comunità» deve poter agire a tutti i livelli di comunicazione, e dotarsi d'un linguaggio
pluridimensionale. Creato all'alba del1'«epoca delle masse», il dramma wagneriano è Kunstwerk der
Zukunft, opera d'arte dell'avvenire: e, fra tante altre cose, lo è anche grazie alla pluralità gerarchica della
sua «informazione», al tempo stesso «propagandistica» e «iniziatica».

La «propaganda», che, troppi ostentatamente fingono di condannare e sprezzare, altro non è in


effetti che il solo mezzo adeguato per toccare le masse ed informarle nella più ampia misura possibile.
Del resto nessuno - è facile constatarlo - si priva di far ad essa ricorso, in tutti i campi delle relazioni
sociali. Il male delle nostre società, per quanto concerne l'informazione, non risiede nel ricorso alla
propaganda, bensì nella unidimensionalità del «discorso» sociale che è divenuto unicamente
propaganda, senza uno strato interno veicolante un'informazione più profonda, cosicché la propaganda
è divenuta a poco a poco, e per tutti, la sola informazione. Nel campo dell'arte questo «impoverimento»
ha condotto sia ai miserabili prodotti destinati al corrente consumo di massa sia agli sterili esercizi di
tecnici che rappresentano a se stessi un loro inutile «saper fare». Anche da questo punto di vista, l'opera
artistica di Wagner costituisce, con la sua pluridimensionalità «informativa» l'esempio di ciò cui
dovrebbe tendere l'opera d'arte del nostro tempo.

Una strategia per l'Interregnum

Il campo della Rivoluzione Conservatrice non ha mai cessato di ritrovarsi confrontato al


problema "politico" che gli pone la sua visione-della-storia, fondata sull'intuizione immediata della
tridimensionalità del tempo-della-storia, e cioè di ritrovarsi confrontato alla scelta tra "strategia
nietzschana" e "strategia wagneriana". Nella visione-della-storia sovrumanista, l'attualità epocale
oggettiva appare dominata dal «nihilismo» europeo; questo nihilismo ha peraltro un duplice aspetto,
nella misura stessa in cui alla dominante tendenza egalitarista si oppone l'emergente tendenza
sovrumanista. Friedrich Nietzsche aveva così drasticamente opposto il «nihilismo negativo»
dell'egalitarismo, volto alla produzione dell'"ultimo uomo" e cioè della «fine della storia», al «nihilismo
positivo» del «suo movimento» sovrumanista, deciso a far tabula rasa, al fine di creare così invece le
condizioni secondo lui indispensabili dell'«avvento del superuomo» e della «rigenerazione» della
storia. Il Ring di Richard Wagner [alias, alias] propone una visione identica: Wotan - lo abbiamo già
rilevato - incarna il «nihilismo positivo», vuole la fine affinché un nuovo inizio possa avere luogo.

L'attesa della fine sembra divenire in tal modo, per chi aderisce alla visione sovrumanista, il
solo atteggiamento logico. Il problema che si pone è di sapere se questa «attesa» debba essere
«passiva» oppure «attiva». Tanto Nietzsche, con il suo nihilismo positivo, quanto Wagner, con il
progetto di azione illustrato dal Parsifal [alias], impongono all'attesa un carattere nettamente attivistico.
I rappresentanti più autorevoli del pensiero conservator-rivoluzionario, da Jünger a Heidegger [alias,
alias], hanno chiamato «Interregnum» (Zwischenreich) questo periodo dell'attesa, destinato a trovare la
sua conclusione o nel trionfo della tendenza egalitarista e nella «fine della storia» oppure nella «ri-
generazione della storia» e nell'affermazione europea del sovrumanismo. Là, dove si è cercata in
Nietzsche l'ispirazione di una strategia con la quale affrontare il periodo di Interregnum e, nel suo
quadro, agire positivamente, quasi sempre c'è stato abbandono alla tentazione di far come se
1'Interregnum già avesse trovato fine, come se le circostanze attuali non sussistessero. Non è - si badi -
che Nietzsche abbia suggerito un simile atteggiamento; ma il fatto è che Nietzsche ha ignorato il
problema pratico posto dall'Interregnum: il suo «progetto» d'avvenire, là dove si articola e nella misura
in cui si articola, concerne unicamente il Post-Interregnum. Wagner per contro non ha mai cessato, con
la sua opera artistica e con i suoi scritti politici, di affrontare proprio la situazione di Interregnum. Il
Parsifal [alias] - lo abbiamo visto - è a questo proposito esemplare.

La «strategia wagneriana», prolungata nella prima metà del XX secolo dal movimento politico
centrale della Konservative Revolution ha condotto ad una catastrofe - a ciò che apparentemente è una
catastrofe. Chi, aderendo al mito, fa proprio il punto di vista sovrumanista deve peraltro chiedersi se
questa catastrofe non abbia iscritto nella realtà storica il destino di Siegmund e Sieglinde, chiedersi cioè
se in periodo di Interregnum la prima azione positivamente nihilista non sia necessariamente -
fatalmente - votata alla catastrofe come all'inevitabile passaggio sul quale riconoscersi, - e chiedersi,
infine, se questa azione non debba purtuttavia, in sempre rinnovata originarietà, essere ripresa alla nera
insegna dell'amor fati...

Non è forse proprio sotto questa nera insegna dell'amor fati, comune a Wotan e a Zaratustra,
che il fatale dissidio in cui Nietzsche volle opporsi a Wagner si dissolve di colpo come ombra sotto il
bagliore della folgore, la folgore del destino storico dell'uomo?

Giorgio Locchi

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