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VIAGGIO NELLE AMERICHE

(1966)

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È da pazzi disputare sul pugilato al Madison Square Gar-
den di Nuova York mentre si assiste a un combattimento
mondiale fra bianco e negro. Eppure Sam Gibbon m’induce
a simile follia. Sam è un barbuto scrittore americano, famoso
umorista. Barba alla Hemingway, ma bionda. Avrà trenta-
cinque anni, forse meno. Lavora per un giornale e il direttore
lo spedisce qua e là: deve far sorridere i lettori da ogni dove.
Se ne lagna:
- Come sorridere di due che si pestano?
Parla un po’ l’italiano, un italiano che colma il mio inglese
e così mi trascina a disputare sul pugilato. Dice:
- Due omaccioni che si prendono a pugni in faccia stoma-
co fegato, testate rompizigomi e sovraccigli, sangue da naso
bocca orecchie, speranza che l’altro cada svenuto e ogni tanto
muore.
Ho trasvolato l’Atlantico per veder combattere due spac-
camascelle e dovrei darti ragione, Sam? Mi piace il pugilato,
ho diretto un quindicinale di pugilato, né intendo giustificar-
mi, benché facile. Sam, tutti ci diamo botte, anche tu com-
batti col direttore. Chi non combatte non campa. Sei mai
stato sul ring, Sam? In pugno i guantoni e l’avversario di
fronte? Se non hai animo, se non hai coraggio e acume, sei
perduto. È la lotta antica, la prima, quella che ci ha fatto. Se
la neghi, non capisci l’uomo.
- Guarda, guarda. Urla, indicando un paradenti scappato
dalla bocca del negro e finito a terra. Ha creduto che la chio-
stra fosse uscita intera intera. Mi soffia all’orecchio, mentre
suona il gong:
- Venti secoli di cristianesimo...
Sbuffo. Venti secoli di cristianesimo, venticinque d’ebrai-
smo, dodici d’islamismo, trenta di buddismo, quaranta d’in-

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duismo. E poi? Noi cristiani siamo quelli che meglio si tru-
cidano da due millenni. Abbiamo il primato. Anzi, siccome
un cristiano solo, con la spada, si stancava a sbudellare uomi-
ni donne bambini e arrivato a trenta era sfinito, abbiamo as-
sai migliorato il sistema e adesso, con l’atomica, non si fa più
fatica: si preme un pulsante e se ne ammazza un milione.
- Sai Sam, che ti dico? Non solo mi piace il pugilato, ma
gusto anche la lotta dei galli. Ricordo, alle Canarie...
- Oh, no!
Mi fissa e l’orrore gli s’allarga in faccia, un orrore che lo
spinge a guardare altrove, magari agli spaventi del quadrato.
Non fare quella faccia, Sam. Hai domandato l’opinione
del gallo? Sai come hanno ammazzato il pollastro che stai di-
gerendo? Gli hanno torto lungamente il collo (altro che le no-
stre artrosi cervicali), poi col coltello gli hanno reciso la vena,
dissanguandolo moribondo stilla a stilla. Beato il gallo com-
battente che, rapito dalla lotta, d’un sol colpo è ucciso dal ri-
vale. Senza guardarmi, mormora disgustato:
- Tu, tu che scrivi di santi e di saggezza...
O Sam, gallofago, mi distrai dal combattimento e me ne
rovini il sapore. Altro gong. Scrivo spesso di saggi e santi, è
vero. Chi più di loro combatte? I santi contro le potenze ma-
ligne, i saggi contro le stupidità umane. Le mie, certo, ma
anche le tue: diciamo le nostre stupidità.
Ride e mi dà una pacca sulla spalla. Atletico com’è, per
poco non la sloga. Finisco addosso alla vicina e Sam me la
presenta: è Essy Mills, redattrice mondana, sa tutto di tutti.
Capelli neri, lunghi, lisci. Viso un po’ strano. Un antenato di
colore? Pelle abbronzata, bocca grande ma nasino delizioso.
Mi saluta in francese. Alta, esile, incantata.
A questo punto chi avrebbe detto che proprio lì avrebbe
trovato giustificazione il mio impulso di venire in America,

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che proprio lì, sotto al ring, cominciava la ricerca? La ricer-
ca e gli incontri. Chi l’avrebbe detto, mentre il bianco e il ne-
gro si davano botte da orbi, la folla gridava da matta, Sam
guardava mite da un’altra parte ed Essy lanciava gridolini
d’incitamento?
Il futuro è sempre davanti a noi, invisibile. Getta la sua
ombra ai nostri piedi, inavvertita.
Perché non vediamo il futuro? Vediamo tutto: con gli in-
frarossi vediamo nel buio pesto, con i telescopi vediamo la
galassia Andromeda, con i satelliti il video ci mostra ciò che
adesso accade nell’altra parte del globo. Invece il futuro no:
sta lì, ad un centimetro dal nostro naso, ad un millimetro, ma
non vediamo niente, niente di niente. Tutto dietro il velo,
nero.
Stanotte potrebbe però capitarmi il prodigio di rompere il
muro dell’avvenire e di conoscere il futuro mezz’ora prima:
non tutto il domani, né tutta la settimana prossima, né il mese
o l’anno venturo. Soltanto mezz’ora prima: sapere ciò che
accadrà nei prossimi trenta minuti, saperlo mentre tutti lo
ignorano.
Sapere che Sam invano progetta di prendere a mezzanotte
l’aereo per la California: fra mezz’ora vi rinuncerà. Sapere
che invano il collega argentino invita Essy a seguirlo in un lo-
cale notturno: Essy verrà a cena con noi. Sapere come si
concluderà l’incontro, sapere che all’ottava ripresa il negro fi-
nisce a gambe levate.
Allora tutto diventa buffo. Buffo l’affannarsi all’angolo
del negro, buffo il dargli consigli, il massaggiarlo, l’esortarlo.
Tanto, all’ottava ripresa casca. Buffa la disperazione all’an-
golo del bianco scivolato al tappeto e sembra non farcela più.
Tanto, all’ottava ripresa vince.

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E buffo io: so il nome del nuovo campione e sto stupida-
mente a ridacchiare, invece di cavare tutti i dollari dalle ta-
sche, farmene prestare da Sam, da Essy, magari dal collega
argentino, anzi correre all’albergo e prendere il resto, tornare
precipitosamente al Madison, domandare a destra e sinistra
dove sono gli allibratori, finisce la settima ripresa, dov’è un
allibratore, nessuno lo sa, maledizione, è cominciata l’ottava,
accidenti, mi rivolgo a un poliziotto:
- Un allibratore, bookmaker, bookmaker!
- Bookmaker? stupisce il poliziotto, indignandosi, L’arbi-
tro sta contando fino a dieci e la guardia mi porta dentro: ne-
gli Stati Uniti scommettere è reato. È scoccato il trentunesi-
mo minuto.

Dopo il combattimento, Sam ha davvero rinunciato all’ae-


reo, Essy all’argentino, facili previsioni. Invece ha vinto il
negro, ai punti. A notte alta ci troviamo a mangiare le enormi
bistecche di Broadway. Fra i bocconi e i sorsi di birra, si
parla, Essy in francese, Sam in italiano. Li ascolto tacendo.
Non solo per l’inadeguatezza del mio inglese, soprattutto per-
ché, deluso dalla sconfitta del mio preferito, volgo alla non
violenza, che è poi l’innocenza: non nuocere.
Mi ritrovo in India, patria di Gandhi, maestro d’innocen-
za. In India, nel 1965. E da allora quell’innocenza mi segue,
ombra, ritornello, nostalgia. L’India e gli entronauti. Mi tor-
na alla mente il luogo e la condizione in cui mi sono inventato
questa parola: entronauti.
- Sam, hai ragione. Guardiamo ai saggi, non ai pugili.
Guardiamo agli entronauti.

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Non capisce e mi fissa interrogativamente, inghiottendo il
boccone con la birra e un po’ di schiuma gli resta fra la barba
e i baffi.
- Entronauti?
Spiego, alla meglio. Comincio dal principio, dalla faccen-
da del morire. Insomma (dico) muoiono tutti, tutti sono sem-
pre morti e nessuno s’è salvato mai. Ha voglia, Barnard, a
trapiantare cuori. Insomma, stai qui, ti dai un gran da fare,
hai pochi piaceri, un sacco di guai e alla fine crepi, come tuo
padre, tuo nonno, bisnonno e tutti gli altri. Tutti. Anche tu
Essy, fanciulla esile, un poco di colore, incantata. Anche tu
Sam, mite e garbato, atletico, cristiano. Io prima di voi, che
son più vecchio.
Essy, gentile: - Vecchio tu? Nooo, Quand on est jeunes,
on l’est pour la vie.
Gentile, ma inutile. Inutile la contestazione dei giovani.
In tanti millenni a che è servita contro la morte la lunga prote-
sta dell’uomo?
Ma ecco l’entronautica. Sapete cos’è l’entronautica?
L’ho scoperta in India, ma sta anche altrove. Voglio andare
da per tutto, dove vivono entronauti. Ho notizie da Parigi,
dal Libano, dalla Persia e da altri luoghi in India, nel Tibet, in
Giappone, in Cina, al Monte Athos. Voglio andare da per tut-
to. V’è una tecnica, capite? Una tecnica dell’immortalità. E
in America? Forse anche in America...
Tacciono. Essy, fredda:
- Non morire mai? Avere cinquant’anni, ottant’anni, cen-
t’anni e ancora di più? Decrepiti? Oh, nooo. Grazie.
Quant’è difficile spiegarsi, a notte alta, dopo il pugilato,
bevendo birra e mangiando le enormi bistecche di Broadway.
Ma debbo spiegarmi, non per loro, per me stesso. Per non re-
stare orfano della mia certezza.

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Sam, forbendosi la barba:
- Cos’è la certezza?
No, Sam: qui ti batto. La certezza è l’esperienza. Sei cer-
to dello zucchero, quando lo stai gustando.

Cosmonautica, entronautica: dalla prima parola nasce la


seconda.
Cosmonautica, piena di misteri. Anzitutto, la gravitazio-
ne. Dopo due secoli da Newton, non ne sappiamo niente.
Cos’è la gravitazione universale? Quale ne è la natura? Del-
la luce conosciamo la velocità, sappiamo che i corpi opachi
l’arrestano, che il prisma la decompone, la lente la devia. Ma
la gravitazione è indipendente da ogni circostanza, sfugge alle
condizioni fisiche e chimiche dei corpi, che pur domina. Invi-
sibile inaudibile intangibile. La sentiamo come peso ed è tut-
to. Eppure regge il moto degli astri e il volgere dei cieli. Mi-
stero.
Cosmonautica, piena di fantasie. Forse un cosmonauta
alla velocità della luce, sbarcherà ad Andromeda e tornerà.
Avrà impiegato cinquant’anni. Sulla Terra saranno trascorsi
quattro milioni di anni. Fantasia.
Entronautica, piena di misteri. Non guarda fuori, guarda
dentro di noi, come siamo fatti. Oltre il corpo, abbiamo una
psiche e la sentiamo continuamente accendersi e colorarsi in
simpatie antipatie, desideri, gioia noia, commozioni, amori
orrori, voglia di potere, voglia d’avere, voglia di fuggire, vo-
glia di morire. Oltre al corpo, abbiamo una mente densa di
pensieri, continuo ideare, passato avvenire, perpetuo scorrere,
parole e parole, talvolta moti o illuminazioni. Mistero.

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Entronautica, piena di fantasie. Oltre la psiche, oltre la
mente sta un luogo celato, beato, ove si giunge dopo gran
viaggio, un’Andromeda interiore. Là gli anni non passano
più, né più si muore. Fantasia.
Avete notato che le cose importanti sono invisibili? L’ani-
ma umana e la gravitazione universale.
Essy, mettendosi il rossetto:
- Non mi piacciono i discorsi sull’anima. Finiscono sem-
pre con Dio. Non siete stanchi di questa vecchia parola?
Sam, accendendo la pipa:
Siamo stanchi. Andiamo a dormire.

Andiamo a dormire: facile per loro, non per me. A causa


dei fusi orari. Non m’è chiaro dove stanno, ma qualcuno in
me lo sa benissimo. Lo sa tanto, che non vuol dormire, per-
ché ieri ero ancora in Europa, in un altro fuso. Qualcuno in
me non s’è accorto della trasvolata atlantica. Si crede a
Roma. Pare succeda anche ai fiori. Sono ridotto all’ottusità
vegetale.
Ricorro alla televisione, che qui è in ogni camera d’alber-
go e non cessa mai. A Milano o Zurigo, il video è per me ip-
notico. Mi metto in poltrona, lo guardo e, nolente, m’appiso-
lo. Qui, steso nel letto, volente, non mi riesce, a onta del vec-
chio film di Mrs. Minniver, di continuo interrotto da intro-
missioni pubblicitarie. Stracco e ingrugnito, fisso le scene
note: stanno per baciarsi (pubblicità), stanno per lasciarsi
(pubblicità), stanno per morire (pubblicità). Dalla finestra è
entrato il mattino.

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Sam viene all’albergo:
- I tuoi entronauti debbono essere matti. Matti come te.
Dove li hai scoperti?
L’ho detto stanotte: in India, alle foci del Gange, a Pondi-
chéry, alla Montagna Rossa. Ho saputo di altri. Li troverò.
A Parigi v’è un gruppo di cercatori extracorporei, presso Ma-
dràs una città d’entronauti. E poi mi dicono di certi monaste-
ri del Giappone e del Monte Athos. E in America? Forse an-
che in America... Son venuto per questo.
Si tira un pelo della barba bionda:
- Conosci i nostri monasteri? Americani, laici. Ve n’è uno
con venti saggi. Ti ci porto. Vieni con me in California?
- Saggi?
- Saggi.
Trascorro il pomeriggio a Manhattan, il luogo ove più è
evidente la potenza dell’uomo occidentale. Molti americani
trovano insopportabile Manhattan, continuo crescere di grat-
tacieli dalla vita breve, Edmund Wilson ha scritto che non ne
rimpiangerebbe la distruzione atomica, contemporanea a
quella di Mosca, dai tristi edifici di burocrati. Invece amo
Manhattan. Qui c’è tutto, ci siamo tutti, campionario del
ventesimo secolo. Qui è oggi, quando altrove è ancora ieri.
Eppure l’uomo di Manhattan sembra infelice.
Facce cupe, bianche o negre. Molti parlano da soli: quan-
do si parla da soli, si parla sempre in due e si è inquieti con
l’altro. Forse l’uomo di Manhattan sa d’essere l’ostaggio del-
l’atomica russa, come l’uomo di Mosca sa d’essere l’ostaggio
dell’atomica americana.
Gli storici hanno contato in cinquemila anni, quindicimila
guerre. Tuttavia si dice che l’uomo vuole la pace. Finché ri-

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mane quello che è, la guerra gli è indispensabile. Solo subli-
mandosi, la guerra gli diverrà inutile.
L’odierna infelicità dell’uomo è assai vasta, non limitata a
Nuova York, è l’infelicità del secolo, di Mosca, Praga, Parigi,
Londra, Roma, un’infelicità contro la quale i giovani prote-
stano, i migliori. Dicono «No, no», offrendoti un fiore. Li
guardi e non li capisci.
Ma ti capisci? Non ci capiamo, non capiamo i nostri avi,
eppure ne siamo i figli, tanto diversi. Abbiamo perduto la
loro alternanza fra il giorno e la notte, ignoriamo l’aurora,
ignoriamo il tramonto. Abbiamo perduto l’alternanza delle
stagioni, viviamo in serre di temperature condizionate. Ab-
biamo inquinato i cibi, l’acqua, l’aria, abbiamo moltiplicato
le malattie e le ansie. Impediamo le nascite o le provochiamo
artificialmente. Abbiamo perduto le distanze umane fra i luo-
ghi della Terra. Il guadagno, ch’era il mezzo per salvarsi dal
bisogno, è diventato lo scopo. Così abbiamo perduto anche
la gioia del lavoro, spinti all’aumento della paga. Ma a che
serve la paga maggiore, se c’incatena al montaggio e alla bu-
rocrazia? Con una paga, ci prendono la vita e ci lasciano
vuoti e soli, soli e pigiati.
Sam sorride fra la barba e i baffi, mentre voliamo verso
Los Angeles:
- Non ti basta il benessere? A me sì.
Benessere, quasi fossimo mandrie di bestiame.

In aereo ti danno continuamente da mangiare: colazione,


aperitivo, pranzo, merenda, beveraggio, cena, caramelle alla
partenza e all’arrivo. Non è ospitalità, né signorilità, nemme-
no concorrenza. È per farci star buoni.

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Si sono accorti che il mangiare scaccia la paura. Poco o
molto, la gente ha paura, in aeroplano. Anche chi non l’ha, è
pronto ad averla alla minima incertezza di volo. La paura è
tensione, il nutrirsi distende. Se hai paura non mangi: se
mangi non hai paura.
Guai se la gente comincia a spaventarsi, ad alzarsi, a gri-
dare. Perciò, quando non c’ingozzano, ci legano. Appena
l’apparecchio balla, s’accende la scritta, si ode la voce:
- Legatevi le cinture, grazie.
Le cinture non servono a niente, lanciati a mille chilometri
l’ora. Lasse e ventrali come sono, non servirebbero a niente
neanche in automobile. Ma tengono fermi, ognuno al proprio
posto. Fermi e dignitosi, anche nel peggio ed è giusto, poiché
la dignità è sempre necessaria, specialmente al morire.
Questo mi va dicendo Sam, arrivati nel cielo di Los Ange-
les, Sam umorista macabro. Se la ride di cuore e mi doman-
do che faccia avrebbe senza barba e baffi.
Sono in California, ahimè, con nuovi fusi orari.

Sam guida l’automobile che da Los Angeles ci porterà al


monastero laico. Traversiamo la città, senza incontrarla: non
c’è. Il centro è un nodo d’autostrade, di parcheggi, di rimes-
se. Tutto il resto è periferia che s’estende per centinaia di
chilometri: villini, villette, chioschi, verande, torri, torrette,
casini, casette. In tanto spazio ci starebbe tutta la Lombar-
dia.
Sam illustra Los Angeles. La città è abitata da uomauti (il
neologismo è suo, non bello ma pertinente), creature recentis-
sime ma qui già sono arrivate a sette milioni e aumentano.
L’uomauto è analogo a quello che, al tempo del cavallo, fu il

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centauro: un uomo attaccato a un equino. Qui l’uomo è at-
taccato a una macchina e viceversa. V’è qualche auto isolata
e qualche isolato pedone: aborigeni in via d’estinguimento.
L’uomauto è una creatura a quattro ruote, con una carroz-
zeria esterna che funge da vestito per il prestigio e da abita-
zione permanente. Contiene infatti aria condizionata, telefo-
no, registratore, video, radio, mangiadischi, frigo con ghiac-
cio cibi bevande, macchine per scrivere e per radersi, piccole
docce a getto mobile, cassetti col necessario per la pulizia,
per il pronto soccorso, per i medicinali, poltrone da cui esco-
no tavolini, seggiolini, biancheria, coperte, poltrone che si tra-
sformano in letti per il riposo e per l’amore, insomma una
abitazione come pochi uomini sulla terra hanno, un’abitazio-
ne per la vita e, secondo le statistiche, talora anche un sepol-
cro per la morte.
In tanta perfezione, l’unico difetto dell’uomauto è di ema-
nare da dietro un gas generalmente silenzioso, talora detonan-
te, sempre pestilenziale. Questo smog (leggero, azzurrino) è
mortifero per le erbe e le piante, per uccelli gatti cagnolini,
anche per gli uomini, che tuttavia resistono, pur ammalandosi
d’emicranie, anemie, ulceri e tumori. Perciò Los Angeles ha
magnifici ospedali.
Nell’attraversare il centro, nodo d’autostrade, dobbiamo
ripararci, portando il fazzoletto al naso. I rari pedoni recano
mascherine da chirurghi. Los Angeles sarà fra dieci anni la
maggiore città del mondo, anzi il modello.

Siamo vicini al monastero laico. Ve ne sono altri, in giro.


Sam ha preferito il più piccolo, con solo venti saggi.
- Saggi?

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- Saggi. Certo non matti come i tuoi entronauti. Eccoci
arrivati.
A prima vista, questi saggi non mi piacciono e mi doman-
do se valeva la pena di venire fino in America. Uno balbetta,
il secondo si rode le unghie, il terzo ha il tic nervoso, il quarto
la faccia disgustata, il quinto le mossette femminee, il sesto
gongola di sé. Sam, ma quali saggi?
Colti, enciclopedici, molte lingue, molto interessanti, qual-
cuno simpatico, ma niente saggezza, Sam. La saggezza è
un’altra cosa. Non è sapere, è conoscere. La saggezza è
un’esplorazione interiore, un modo di vita, una sublimazione.
Sam, non confondiamo la lana con la seta. La lana cresce ad-
dosso alle pecore, invece il baco estrae la seta da sé e così di-
venta farfalla.
Comunque il monastero c’è, laico, scientifico, igienico e
non è il solo in California. Saranno una dozzina, in luoghi
splendidi, dai bei nomi spagnoli: Palo Alto, La Jolla, Santa
Barbara, Santa Monica. Ville bianche, moresche o classi-
cheggianti o avveniristiche, tutte comode, perfino opulente.
Portici ombrosi, aranceti, litorali. Ville che ospitano pensato-
ri, perciò vengono dette serbatoi di pensiero.
Gli americani sono espliciti, quando si raccontano: esplici-
ti e numerici. Sam sa, illustra, insuperbisce. Gli americani
sono nazionalisti, come tutti: russi, cinesi, cechi, arabi, perfi-
no gli svizzeri. Suppongo l’esistenza di anime collettive, po-
tenti, che son formate dagli abitatori della stessa plaga e che
alla lor volta li formano, li legano, talora li esaltano, li fanno
piangere insieme, ridere o indignarsi. Anime collettive che in-
grandiscono, rimpiccioliscono e anche muoiono, ma finché in
vita capaci di dominare gli abitanti, ridotti a corpuscoli. Qui,
duecento milioni di corpuscoli, pervasi dalla vasta anima
americana.

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Sam inorgoglisce per i serbatoi di pensiero e butta cifre,
ignaro che nulla è meno espressivo d’una cifra. Un serbatoio
ha 593 specialisti (o 1593?), un altro costa tutti gli anni 55
milioni di dollari (o 155?). Infine v’è il monastero laico in cui
ci troviamo: venti fra psicologi (o psichiatri?), matematici (o
fisici?), sociologi (o chimici?). Non ho capito bene.
Insomma, sapete quelle cose che vi dicono e voi rispondete
sì, vi atteggiate a meraviglia e ammirazione, ma solo per al-
truismo, per dar piacere a chi ve le racconta? Arrivo sino a
porre una domanda:
- E cosa studiano?
- Le incognite dell’uomo futuro.
Beh, è interessante. Uno dei sei, quello che balbetta un
po’, mi dice:
- Siamo i soli eretici.
- Perché eretici?
- Perché non applaudiamo.
Ha infatti lo sguardo dell’eretico.: un po’ canzonatorio,
piccole rughe sagaci intorno agli occhi chiari. Ma non ha l’e-
spressione eretica, non è un convinto anzi un dubitoso, non è
battagliero anzi staccato. Un tipo da conoscere.
Inaspettatamente, quello che si rode le unghie ci dice, cor-
diale:
- Perché non venite qui da noi un paio di giorni? Abbiamo
una foresteria. Andate a prendere le valigie.
Da lontano Sam ammicca. Credo d’aver capito come mai
questo Sam, che appena mi conosce, si dà tanto da fare. Da
ragazzo era certo boy-scout, con l’obbligo della quotidiana
opera di bene. Ha l’indole del missionario. L’indole di chi
vuol cambiare la testa agli altri, magari decapitandoli. La
faccenda degli entronauti lo infastidisce e s’è messo di punti-
glio per levarmela dalla mente.

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Non so come gli altri se la cavano con le valigie: per me è
un guaio, già prima della partenza, al momento d’empirle.
V’è chi me le prepara, perfette. Ma, se le colma, diventano
scatole di meccano: tratti i pezzi, non v’è più modo di rimet-
terveli. Dunque flosce, ma anche così hanno la tendenza a
gonfiarsi in viaggio, pur senz’aggiungervi niente, non si sa né
come né perché.
Al primo arrivo, le apro e le trovo ordinatissime. Mi sfor-
zo di conservarle tali, estraendo pian piano il pigiama, le pan-
tofole, la borsa dei saponi eccetera. Va bene il primo giorno,
anche il secondo. Ma la fretta d’un mattino, la stanchezza
d’una sera, la partenza per un’altra città, tutto concorre al di-
sordine. Cerco i calzini e non li trovo, i fazzoletti e sono
scomparsi. Ho premura e ciò dà nascita al caos. Ormai la
battaglia è perduta e quando nel radermi mi taglio, l’emostati-
co è introvabile, salvo presentarsi beffardo mentre scavo nelle
valige alla ricerca del passaporto sparito.
Ma v’è un guaio anche maggiore: il trasporto. Gli è che
non reggo ai pesi. Non mi riusciva nemmeno a vent’anni, re-
cluta di fanteria in un umido fortilizio del Gottardo. Cedevo
sotto al sacco, smarrivo il tascapane, mi cadeva il moschetto.
Mai avuta capacità guerriera. Oggi, con due valigie, mi per-
do. In Italia trovi sempre chi te le porta, in Germania meno,
in America mai. Negli Stati Uniti gli inservienti d’albergo,
alti e grossi, stanno a chiacchierare vicino all’uscita. Ti guar-
dano passare sotto il peso delle valigie, della borsa, dell’om-
brello e ti seguono con occhio attento. Forse credono ad un
tentativo di primato. O forse bisognerebbe chiamarli, ma
sono timido e loro imponenti. Arrivo al tassì (l’autista legge

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il fumetto) e con le ultime forze isso il carico nella vettura, in-
ciampo nell’ombrello e cado sul sedile.
Ecco Sam, con una valigetta da niente, la camicia intatta e
il fazzoletto candido.

Al monastero laico non ho potuto visitare lo splendido


giardino. Subito m’hanno interrogato sull’entronautica. Cer-
to Sam è stato il delatore. Per non parlare a vanvera e non
trovarci alla fine senz’esserci intesi, li prego d’ascoltare la
mia opinione sul pensiero, sui pensatori e sui pensatoi. Con-
sentono, incuriositi. Sono cinque. Quello con la faccia di-
sgustata se n’è andato. Ci sediamo intorno a un tavolo, nella
veranda. Un inserviente distribuisce bevande. Sam, in piedi,
guarda il mare, turchino come l’Egeo, ma ha la lunga onda
oceanica.
Dunque comincio. Il pensiero serve a capire, no? Tutti
abbiamo bisogno di capire, altrimenti stiamo male. Ma que-
sto bisogno ci fa capire davvero? È una fame della nostra
mente che esige d’essere nutrita da una spiegazione. Se la ri-
ceve ed è persuasiva, la trova commestibile e la fame le pas-
sa.
Il contadino cinese è convinto che d’inverno le rondini
vanno nelle tane e si mutano in talpe. Ciò gli va bene e se ne
sta contento. L’antropologo britannico è convinto che dieci
ossa fossili, sistemate in una sua materia, mutano l’antropoi-
de in uomo. Ciò gli sta bene e se ne sta contento. Tanto con-
tenti entrambi, da stizzirsi se contraddetti. Chi s’è nutrito,
non vuole emetici. Chi s’è persuaso, non vuole dubitare da
capo. Il pensiero s’appaga di persuasioni e le crede verità. In
buona fede, il che è peggio.

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Voi pensatori, in questo magnifico pensatoio, perdete il
tempo se vi fidate del pensiero. Bisogna sempre controllarlo.
Galileo: provare e riprovare. Se controlla, il contadino cinese
s’accorge che le rondini non diventano talpe e rinuncia alla
sua fantasia. Come vi rinuncia l’antropologo inglese se, non
potendo tornare a un milione d’anni fa e così controllare le
proprie ipotesi, le considera per quel che sono: fantasie.
La verità è sperimentale. Sam, ricordi quel che dicevamo
dello zucchero? Ne hai certezza quando lo stai gustando. La
cosmonautica è sperimentale: a chiacchiere, la Luna non si
tocca. L’entronautica è sperimentale: l’universo interiore si
raggiunge soltanto provando e riprovando.
Ho finito, saggi. Adesso ridete di me.

Sono un po’ impaurito. Simile al contadino cinese e al-


l’antropologo britannico, anch’io ho le mie persuasioni e mi
sono care e ho impiegato una vita a raccoglierle, una vita a
controllarle.
Pur dichiarando di tenere in poco conto le scienze e gli
scienziati, in fondo ne ho il rispetto oscuro dei miei contem-
poranei. Il rispetto che gli antichi riservavano ai saggi e ai
santi. Temo che questi cinque, pagati per star qui a pensare,
in una bella villa, davanti al litorale della California, siano
capaci con due frasi d’espropriarmi delle mie persuasioni, pur
controllate. Perciò sono impaurito. Rideranno? Sam certo
ride di me e mi stima matto.
Non ridono, anzi consentono e ciò mi alza ad un luminoso
sollievo. Sùbito mi diventano simpatici: siamo uniti dalla so-
lidarietà del cercatori.

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Il balbuziente dagli occhi grigi è un fisico. Avrà quaran-
t’anni e la sua autorità è tanta, da presto farti dimenticare che
balbetta: anzi, se gli replichi, balbetti tu. Dice:
- L’esperienza deve guidare il pensiero e non il pensiero
l’esperienza. Un esempio? L’elettrone. V’è uno schermo con
due forellini. Incredibilmente un elettrone passa dall’altra
parte traversando insieme i due forellini. Capito? Non si di-
vide in due, metà da un foro metà dall’altra. No, resta unico.
Resta unico e passa da due parti. Per il pensiero ciò è impos-
sibile, per l’esperienza è vero. Come se noi potessimo entrare
contemporaneamente da due porte. Ma no, dice la mente, ma
no. Lasciamola protestare, lasciamola digiuna, se non abbia-
mo spiegazione. Non l’abbiamo.
Un solo elettrone traversa contemporaneamente i due fo-
rellini, ci piaccia o no.
Interviene quello che si rode le unghie, matematico di tren-
t’anni:
- Il pensiero è infido, perché abitudinario. Un esempio?
La simmetria. Abbiamo l’abitudine a due occhi, due orec-
chie, naso e bocca in mezzo, due braccia, due gambe, al cen-
tro del ventre l’ombelico. Per millenni siamo stati convinti
che legge dell’universo è la simmetria. Non è vero. La vita
biologica è mancina, la vita nucleare è asimmetrica. Il nucleo
dell’atomo è un inesauribile fabbricatore di particelle, che
appaiono per un miliardesimo di secondo. Ve ne sono di tutti
i tipi se ne scoprono ogni giorno e, quando non si scoprono,
s’immaginano. Si è dovuto rinunciare a ordinare questa anar-
chia. Il pensiero non ce la fa. Abbiamo dato un nome al sub-
buglio. L’abbiamo chiamato «nube di probabilità» e ci basta.
Domando:
- Questo disordine nucleare, non sarà la proiezione del no-
stro disordine interiore?

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Mi guardano, aggrottati. Non ho saputo spiegarmi. Vole-
vo dire che l’oggettivo non esiste: è sempre un soggetto che lo
guarda. Ma se il soggetto è disordinato?
Non insisto. Il discorso finisce all’antimateria. In seno
all’universo sensibile, si sospetta un altro universo, popolato
da altre forze, abitato da altri esseri, coi quali conviviamo,
ignari. Forse gli entronauti, nel loro scendere e nel loro levar-
si, toccano i continenti dell’antimateria e li esplorano.
Il giorno dopo ci lasciamo. Nel giardino li guardo per
l’ultima volta. Mi salutano dalla veranda. Mi par di capire
la ragione delle loro balbuzie, delle nervosità, delle titubanze.
Tutto in loro è incerto e anzitutto l’avvenire. Domani l’ereti-
co dagli occhi grigi potrà ricevere un premio Nobel o essere
rapito dai cinesi. Domani il giovanotto che si rode le unghie
potrà trovare la formula che garantisce la pace o quella che fa
esplodere il globo. Gli scienziati sono fragili: la loro scoperta
di oggi frantuma quella di ieri. Inseguono un sogno che indie-
treggia.

Domenica in California, alla vigilia di tornare a Nuova


York. Sam propone un pomeriggio al mare, sulla spiaggia
nudista.
- Nudista?
- Sei contrario?
Contrario? No. Sbalordito. Non si capisce un uomo, fin-
ché non si capisce chi è il suo Dio. Sam nudista? Ti credevo
cristiano. Contrario? Perché mai? Piuttosto sono inadatto:
operato tre volte, i chirurghi m’hanno assai sdrucito. Non si
va a una festa con l’abito rotto. Me ne vergogno. Sam nudi-
sta. Ti credevo cristiano.

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- Cristiano, cristiano. Certo, sono cristiano, per il Vange-
lo, non per ingrassare i notabili. Voi cattolici non leggete le
Scritture. Nelle vostre valigie non v’è mai la Bibbia. Gesù e
l’adultera. Ha impedito che la lapidassero e le ha detto: nem-
meno io ti condanno. Tutti siamo complici di un’adultera.
Tutti, salvo lui. Lui era impeccabile. Era il solo che poteva
lanciare la pietra. E l’ha assolta.
Sam accalorato: non più l’umorista che conoscevo, un po’
malinconico. È uscito fuori il suo punto debole o forte, non
so. Come mai nudista? Protesta o liberazione o purificazio-
ne? In ogni caso è convinto. Dice:
- Ho pensato molto ai tuoi entronauti. I saggi di Santa
Barbara non ti sono piaciuti. Progetti viaggi in Asia. Credi
che in America non c’è niente. Invece proprio qui da noi si
prepara la più grande rivoluzione che mai sia stata fatta. La
rivoluzione dell’amore. Vieni alla spiaggia nudista e vedrai.
Oh no, Sam, no. Chiami amore il sesso. La rivoluzione
del sesso, grazie, no. Conosco queste teorie: so tutto. No.
Confondete l’uomo con il sesso. È l’errore di tanti filosofi
che hanno confuso l’uomo col pensiero, di tanti politici che
l’hanno confuso col lavoro e con la paga. Non smembrate
l’uomo: lasciatelo finalmente intero. La rivoluzione per il
sesso: ma tanto vale la rivoluzione per i glutei. E il resto? E
tutto il resto dell’uomo, lo amputate?
Sam insorge:
- Ho detto amore, non sesso. Entronauti, parli d’entronau-
ti e non hai capito che tutti gli innamorati sono entronauti.
È vero, ha ragione. Ogni innamorato è entronauta e forse
ogni entronauta è innamorato. Va bene, Sam, non t’agitare.
Mi spoglierò anch’io, pur sdrucito.

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Ho accettato il pomeriggio nudista, ma sono pieno d’im-
pacci e di pentimenti. Guarda un po’ cosa bisogna fare, per
poi scrivere. Pugilato, monastero, adesso nudo come un ver-
me e come un verme bianco, perché quest’anno non ho ancora
preso sole e abbronzati si è meno nudi. Sam poi lo è ben
poco, nascosto dietro la sua barba. A me mancano perfino i
baffi: nuda anche la faccia. Spoglio, bianco e sdrucito, lungo
un viale che porta al mare, accanto a Sam atletico, bruno e
barbuto. Abbiamo lasciato gli abiti all’ingresso. Qui sono
ammesse solo le coppie: uomo e donna, uomo e uomo, donna
e donna. In nessun caso i singoli e le famiglie.
Cerco di non guardarmi intorno, cerco di pensare in fretta.
Il racconto biblico di Adamo ed Eva diede principio al nudo
cristiano. L’universalità dell’arte greca è dovuta alle sue sta-
tue nude: il nudo era l’abito degli Dei. Oggi, che tutti si sve-
stono, l’arte dispregia il nudo o lo rende mostruoso. Le tristi
carni delle leve militari e, degli ospedali civici. Ma l’amore
riscatta la nudità: l’esige e l’abbellisce.
Pur cercando di pensare in fretta, debbo almeno vedere
dove metto i piedi. Abituato alle scarpe, il piede nudo è iner-
me: teme i sassolini pungenti, paventa la sabbia calda, urta
nel gradino e si spella. Nel guardare ove vanno i piedi, l’oc-
chio incontra gli altri. Perbacco, sono proprio nudi. Nudi e
indifferenti.
Mi dico che non ho né la pancia né la gobba e dopo un
momento sono indifferente anch’io. Passa un gobbo, indiffe-
rentissimo. Fra sguardi indifferenti, dal trampolino si lancia-
no splendide fanciulle.

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Sam mi conduce sotto un ombrellone, ove trova amici e
amiche. Mi presenta come ostile. Europeo, meridionale, cat-
tolico e ostile: m’hanno messo l’etichetta. Mi considerano un
toro a cui infilare le banderiglie. Sono almeno dieci, maschi e
femmine, giovani, belli e loquaci, ridenti: tutti contro di me.
Quando non capisco o non m’esprimo, Sam implacabile tra-
duce.
Sam, perché mi fai perdere tempo: tempo e soldi? Cerco
entronauti e non giovinette e giovinotti. Prima gli scienziati,
adesso i nudisti. Perché?
Diventa serio, indugia e poi sbotta:
- Perché questa faccenda degli entronauti mi sembra una
pazzia. Speravo che al monastero te ne dissuadessero. Non
l’hanno fatto e allora ti ho portato qui. I tuoi entronauti sono
soltanto degli inibiti sessuali che inconsciamente cercano
compensi. Non t’indignare. Ascoltami. Forse in America ti
risparmieremo una delusione asiatica.
Alzo le spalle. Sam, tu non eri in India con me, nel ‘65.
Parli d’entronauti come un analfabeta parlerebbe d’elettroni-
ca. Comunque, fatevi sotto con le banderiglie.
Il primo ad aggredire è un marcantonio alto e bruno, gros-
so come un cane terranova, sarebbe un bel peso massimo, in-
vece è ingegnere: porta attaccata al braccio una biondina che
se lo contempla. Aggredisce con la tecnica socratica: pone le
domande, sperando d’invischiare con le risposte. Per sgon-
fiarlo, basta tacere. Tenere le repliche per sé e trarle fuori
alla fine, quand’è ormai avvizzito. Attacca:
- Sei stato bambino anche tu, no? Ricordi le repressioni?
In famiglia non si parla d’amore: menzogne o schiaffi. No?
Però nel silenzio della notte, quando ti svegli di soprassalto e
il buio t’inorridisce, ascolti i genitori che mugolano. E le
grandi vergogne, guardando il petto d’una donna? I rossori,

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gli sgomenti, la ricerca sui vocabolari: genitori, genitali. Ri-
cordi, ipocrita? Tutto questo deforma e lo si paga poi. Lo si
paga e lo si fa pagare. Quanti uomini ha massacrato Stalin?
Quanti Hitler? Stalin crebbe in un seminario, Hitler era un
inibito. Anche i tuoi entronauti...
Adesso taci, marcantonio aggressivo, taci. Hai figli? Ri-
sponde la biondina: per ora non ne vogliamo. Bene. Quando
ne avrete due o tre, li porterete a letto con voi, tutto in comu-
ne. Parteciperanno al mugolio. O marcantonio o biondina:
non avete capito che l’educazione sessuale non conta, non ca-
pite che l’amore è irrazionale, non capirete mai che l’amore è
sacro. Siete giovani carnivori, succhiatori di mammelle e
quando non dan più latte le mordete. A trent’anni sarete delu-
si, a quaranta disperati, sotto i morsi dei figli. Ho finito con
te, marcantonio: venga un altro.
È un’altra: una ragazza di pelo rosso. Non pel di carota,
ma un rosso intenso, il colore del setter irlandese. Bei capelli,
bel viso. Non è aggressiva e così m’ammansisce.

Sto notando una verità che mai avrei supposto. Quando si


è nudi, nudi di tutto, presto non si guardano più i corpi. L’oc-
chio cerca i visi. Il corpo diventa un’aggiunta impersonale,
senza diletti. Nella nudità v’è davvero un’innocenza adamiti-
ca. Il nudismo ha ragione. Non lo si crede, finché non lo si
prova. Nell’entrare al bar della spiaggia, le donne indossano
un esile gonnellino, gli uomini un esile pantaloncino. Basta
quel minimo, basta una foglia di fico a rendere i corpi diversi,
personali: attraenti le donne, aitanti gli uomini. Fuori, nudi,
non te n’accorgevi. Eva non s’è coperta per pudore, ma per
civetteria.

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Con voce mite, la bella rossa comincia il suo attacco:
- No, non do morsi a mia mamma: la capisco, Appartiene
all’ultima generazione delle ragazze che tremavano al rischio
di divenire madri, mentre io appartengo alla prima generazio-
ne che non trema più. Il mondo è cambiato, dopo la bomba e
la pillola. Entrambe hanno cancellato le frontiere. Frontiere
fra i paesi, frontiere fra i sessi. Forse fra dieci anni la cosmo-
nautica si sarà mostrata inutile e abbandonata. L’entronauti-
ca? Non so. Invece l’avanzata femminile è irreversibile. La
libertà della donna non è cominciata con il voto: comincia
adesso. La donna diventa quel che è sempre stata: un uomo
femmina. Cosi l’amore muta, ossia muta tutto. La coppia
sarà pari, la famiglia diversa soprattutto in un punto: nasce-
ranno solo figli voluti e amati. La prostituzione svanirà: è
quasi sempre una ragazza con un figlio inatteso, da tirar
grande. Scompare la fanciulla timida e casalinga, scompare
l’ipermaschio lavoratore, ucciso dall’infarto. Noi giovani lo
sappiamo: ormai ci vestiamo egualmente. La donna entra
nella storia e tutto cambia. Mia mamma non lo può capire e
nemmeno tu.
Invece lo capisco, anzi lo sapevo: hai ragione pelo rosso,
setter irlandese. Tutto cambierà, alla vigilia come siamo del
Duemila. La gente presto non lavorerà quasi più, la lotta di
classe apparirà antidiluviana, i popoli affamati saranno messi
all’ingrasso, una piccola macchina elettronica sostituirà l’in-
tera burocrazia di uno Stato. Le donne si sceglieranno aper-
tamente gli uomini, come finora gli uomini le donne. Nei pae-
si islamici non vi sarà più l’harem, nei paesi cristiani cesserà

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lo scambio delle mogli. I divorzi seguiranno e precederanno i
matrimoni. Ma si continuerà a morire.
Continueremo a vivere brevissimamente e ad essere lun-
ghissimamente morti. Capisci? Verrà un giorno in cui tutti
sapranno che sono morto, tutti, salvo io. E allora, a che vale?
A che vale chi fa la storia, chi invece di lavorare s’annoia, chi
prende l’iniziativa dell’amore? A che vale adornare un luogo
dove restiamo un istante appena?
Le carezzo i capelli, bella setter irlandese. Le dico in ita-
liano e non capisce:
- Vedi, ragazzina, Sam mi crede matto. Sono un matto
che non vuol morire. Non perché questa pelle mi stia tanto
cara, sdrucita com’è. Ma perché voglio dare uno scopo alla
vita. Voglio giocare tutte le carte, anche le improbabili.
Qualcuno afferma che, invece di morire. come tutti. si può
passare dall’altra parte, indenni. Puoi scegliere fra essere
un’animula che porta un cadavere o divenire un’anima che
porta l’immortalità. Lo dicono gli entronauti. Nel 1965, in
India, accanto a uno di loro, la morte m’è apparsa una impos-
sibilità. Perciò debbo cercarli. Forse tua mamma capirebbe:
tu no.
Sam, me ne vado. Ti sei dato molta pena per me: grazie.
Avrei voluto conoscerti meglio: non so niente, salvo la barba,
il nudismo e un po’ di Vangelo. M’è mancato il tempo e me
ne debbo andare. Non ho quasi più dollari, in America non vi
sono entronauti e ho trasvolato l’Atlantico invano.

In America vi sono gli entronauti. L’ho saputo inaspetta-


tamente a Nuova York, telefonando a Essy Mills per salutar-
la. Domani volo in Europa. M’ha detto:

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- Oggi vieni a trovarmi
L’ho trovata in una casetta del Nuovo Jersey, a un’ora di
sotterranea da Manhattan. Ha un giardino magro e minusco-
lo, tutto occupato da un gatto eunuco e voluttuoso che quan-
do non cerca carezze, s’addormenta.
Essy, pur alta ed esile, non è più la stessa del Madison.
Senza parrucca, ha i capelli cortissimi e il collo lungo. Sem-
bra ancora più giovane: vent’anni. Privi di trucco, i suoi oc-
chi diventano dolci, da cerbiatta. Ritrovo la bocca grande, il
nasino delizioso, la pelle bronzea, l’espressione incantata, il
modo gentile, la voce tintinnante.
Pochi mobili nelle due stanzette, mobili qualsiasi: è la pe-
nuria dei giovani giornalisti di tutto il mondo, mestiere da po-
chi soldi e quando ti hanno spremuto ti buttano via. Giovani
giornalisti: quanti ne ho conosciuti, sempre convinti che pre-
sto scriveranno un libro. Dentro ogni giornalista, v’è la ma-
linconia d’un libro non nato.
Mi offre whisky, preferisco il tè. È chiaro che vorrebbe
cominciare un discorso, ma non osa. Domanda:
È andato bene il tuo viaggio in California?
Non rispondo. Sto con l’animo aperto e amico, lasciando-
la continuare la marcia d’avvicinamento. Dice:
- Devi essere un tipo contento della propria vita. Une vie
reussie est un réve d’adolescent, realisé dans l’áge múr.
Le piacciono le citazioni francesi. Perché dirle quanto
sono insoddisfatto di me? Continuo a tacere, affettuosamen-
te. Versa il tè e tocca l’argomento:
- Sai che ho un nonno amerindo?
Qui dicono amerindo invece di pellirossa ed è la parola
giusta.
Avevo sospettato un antenato di colore. La esorto alla
confidenza:

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- Parlami di tuo nonno.
- Sì, un nonno amerindo. Sposò una francese. Come sarà
accaduto? Da giovane mio nonno era bellissimo. Lo era an-
che da vecchio. È morto sei mesi fa. Ebbero una figlia, mia
madre. Fu portata in Francia, s’innamorò d’un americano e
tornò qui. La gente fa all’amore e poi tu nasci, nipote d’un
amerindo del sudovest.
- Ti pesa?
- Oh, no. Era un uomo importante. Di tutti i miei, il solo
importante. Sei cattolico?
Cerca di cambiar discorso. L’aiuto:
- Invece tu sei protestante?
- Mio padre è pastore metodista. Ho dovuto imparare la
Bibbia a memoria. Quanta paura, quanti pianti da bambina
per le urla, le maledizioni, la ferocia, le vendette sanguinose
di Geova contro gli ebrei, che poi sono il popolo prediletto.
Beati voi cattolici che non la leggete. Detesto tutti quelli che
predicano, pretendono di conoscere i pensieri di Dio, i deside-
ri, le intenzioni, la sua volontà, i suoi precetti, come se ne fos-
sero i confidenti e ne conoscessero gli umori. Ricordi a
Broadway? Ti ho domandato se non sei stanco anche tu di
questa vecchia parola. Sai cos’è il peyote? Sai chi è Tsa
Toke?

Tsa Toke, il pittore kiowa e Black Elk, l’asceta sioux.


Due nomi che ho appaiati nella mente. Adesso capisco. Essy
ha un nonno pellirossa, Tsa Toke ebbe una nonna bianca. Tsa
Toke, un grande pittore, il più grande fra tutti gli amerindi,
oggi celebre. La sua breve vita è trascorsa oscura, un’ombra.

27
Nasce nel 1904, presso Forte Sill, in Oklahoma, di stirpe
kiowa, bella razza, gente robusta, cacciatori nomadi delle
praterie, scesi nei secoli dalle fonti del Missouri al fiume Ar-
kansas, seguendo la selvaggina. Tsa Toke significa cacciato-
re di cavalli.
La nonna bianca era stata presa fanciulla verso il 1870,
durante l’accanita resistenza all’invasore. I kiowa hanno uc-
ciso più occupanti, che non tutti gli altri, più dei comanche e
degli apache. Ma hanno lasciato vivere una ragazza bionda e
un kiowa l’ha sposata e ne ha avuto figli e nipoti, kiowa.
Nasce in una riserva, ossia domicilio coatto: ex nomadi in
serraglio, ex dominatori in catene, ex popolo ridotto a mille
superstiti. Depredati di tutto: terra, nutrimento, idioma, reli-
gione, tradizione. In cambio, Bibbia e alcool.
Nasce col genio pittorico proprio dei Kiowa, famosi per
gli ideogrammi coi quali scrissero la propria storia, sino al
1892. Poi non dipinsero più. Or ecco che fra di loro nasce
Tsa Toke e fin da bambino la sua mano disegna. Ancora ra-
gazzo, già è ammesso intorno al fuoco tribale, ove gli anziani
tengono consiglio, ripetono i miti primordiali, celebrano il
culto del peyote, più antico degli aztechi. Il peyote era l’uni-
ca eredità rimasta: vi ritrovavano se stessi, un potere interio-
re, una strada da seguire, una ragione per sopravvivere.
Tsa Toke ci rivela un po’ del mistero amerindo. Mistero
di volti che ci sembrano inespressivi e dietro i quali invece v’è
un’anima sensibile: se incompresa si chiude, fiera e stoica.
Un’anima che nella natura avverte il grande spirito divino e
vuol raggiungerlo nel culto del peyote.
I grandi pittori colgono realtà, prima di loro inavvertite.
Solo dopo Velàsquez, Madrid ha avuto i cieli che tutti ammi-
rano. Solo dopo Monet, Londra ha avuto le nebbie come oggi

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le vediamo. Solo dopo Tsa Toke, il peyote e il suo culto ci
sono diventati intelleggibili.
Tsa Toke è uscito rare volte dalla segregazione. La prima
a quattordici anni e già diceva di voler dipingere cose che
l’uomo bianco ignora. Fu rimandato nella riserva. Intorno al
‘30 a Gallup vennero esposti due suoi quadri. Qualcuno li
vide e si cominciò a parlare di lui a San Francisco. Ne parlò
molto Susanna Peters, ma ottenne poco. Nessuno s’interessa-
va allora a dipinti di pellirosse. Egli tuttavia andava prepa-
rando la sua serie sul culto del peyote e ne scriveva il com-
mento.
Un giorno del 1936, Susanna Peters, rientrando in casa,
trovò fuori dalla porta, legati, i dipinti e i manoscritti. V’era
un biglietto della moglie di Tsa Toke: «Egli voleva che queste
cose vi fossero date». Era morto.

Il peyote è un cactus. Le sostanze sacre, da cibarsene o


da aspirare: il soma dei Veda, la canapa zoroastriana, il vino
dionisiaco, il tè dello zen, il fungo messicano, il peyote degli
amerindi, l’incenso cristiano eccetera.
Essy si alza, va all’armadietto, ne prende una coppa anti-
ca, piena di boccioli:
- I boccioli del peyote.
Ha posto la coppa fra di noi. Restiamo in silenzio. Le
domando:
- Cosa ti turba?
- Volevo sapere da te... Mio nonno m’ha insegnato il rito.
Quando andavo a trovarlo, al villaggio, tutto era naturale.
Adesso è morto. Non so se posso ancora, se è bene per me

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continuare. Sono tanto sola. Tu hai parlato d’entronauti e
così pensavo... un consiglio...
Piange, inaspettatamente. Le prendo la mano e il gesto af-
fettuoso la fa singhiozzare. Dice:
- Sono così perduta, dopo la sua morte. Naufraga.
Si riprende, si asciuga gli occhi, si pulisce il naso, si scu-
sa, mi versa dell’altro tè. Conclude:
- Non confondermi con i drogati, per favore.
No, certo. I drogati sono le vittime della chimica. Una
goccia di LSD è cinquantamila volte più forte del fungo mes-
sicano da cui è tratta. La chimica è diabolica: prende una so-
stanza sacra e la converte in droga. Saprebbe tanto trasfor-
mare l’incenso, da far impazzire tutti i fedeli di una cattedra-
le.
- Quante volte hai compiuto il rito?
- Tre volte, una all’anno: l’ultima, un anno fa.
- Raccontami la prima.
- Come raccontarla? Il villaggio, i giorni di purificazione,
le parole chiarificatrici, la notte, la serenità, il fuoco, il rito.
Poi il mistero e l’incontro. Come chiamarlo? Non mi piace
mistico né cosmico né trascendente. Come chiamarlo? Hai
letto Tsa Toke?
- Chiamalo sacro, incontro sacro.
- Sì, sacro. Una pace incredibile, i pensieri se ne vanno,
gli ultimi escono lentamente, uccelli lontani che passano nel
cielo. Silenzio inaudito.
Poi la felicità, Come dire? Infinitamente amata, infinita-
mente amante. No, no, non v’è parola. Nemmeno Tsa
Toke...
- E dopo?
- Dopo? Una vita nuova, che ha cambiato i significati.

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Tace, colta da un improvviso imbarazzo. Tenta di voltar
discorso:
- Tu sei cattolico e forse non capisci. Non ti infastidisco-
no i notabili del Vangelo?
- Tanti notabili e tanti bonifaci. Ma anche tanti santi.
Mi guarda, giovane, occhi di cerbiatta, di nuovo impauri-
ta:
- È morto da sei mesi. Che debbo fare?
Vorrei dirle: Essy, esile entronauta americana, hai avuto l’in-
contro, ora devi rendere sacra la vita. Lo scopo è di far emer-
gere le nostre latenze.

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