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23/03/2011

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CAFFE' EUROPA UNIVERSALISMO E DIFFERENZA


Giacomo Marramao con Pierpaolo Ciccarelli

Questa intervista fa parte dellEnciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, unopera realizzata da Rai-educational in collaborazione con lIstituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dellUnesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio dEuropa. L'obbiettivo quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme despressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea. Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: http://www.emsf.rai.it/ Professor Marramao, la nostra epoca stata definita l'epoca globale: essa caratterizzata dall'unificazione indotta dal mercato, dall'infittirsi della rete delle comunicazioni tra le diverse culture, dalla moltiplicazione dei fattori di interdipendenza tra i popoli della Terra. Tutti questi fenomeni sembrano confermare la tesi secondo cui appunto la nostra epoca segnata dalla omologazione universale, dal livellamento delle differenze e delle particolarit. D'altra parte per, soprattutto in epoca pi recente, non mancano pensatori che scorgono, quali tratti caratteristici della nostra epoca, la proliferazione delle differenze, la fuga dall'universalismo, il sentimento di appartenenza alla comunit. Qual la sua posizione a riguardo? Ritengo che le due diagnosi da lei indicate, l'omologazione universale e la differenziazione, in altri termini universalismo e differenzialismo, non siano tali da configurare un'alternativa; essi tendono piuttosto a delineare due lati di un'unica medaglia. Mi spiego: sono convinto che nella nostra et globale si sia in presenza di un fortissimo processo di unificazione, di omologazione del mondo, ma sotto il segno della unificazione tecnica, sotto il segno della tecnica. Indubbiamente le tecniche della comunicazione hanno reso improvvisamente sincronici modi di vita e forme culturali fino ad oggi ritenuti asincroni, ma questo soltanto uno dei due lati della medaglia, la met della verit; l'altro lato del problema, l'altra faccia della medaglia, rappresentato invece da un processo di differenziazione. Questo processo di differenziazione lo potremmo individuare nella forma di un paradossale corto circuito di globale-locale, di processi di globalizzazione e processi di localizzazione, cio quanto pi la tecnica tende ad uniformare per alcuni aspetti gli standard di vita, tanto pi sembrano approfondirsi le differenze culturali o perlomeno la domanda di un trattamento differenziato, la riscoperta delle piccole patrie, delle piccole comunit. Da questo punto di vista, la linea che vede l'et globale come segnata dalla tecnica e da una ragione onni-omologante una linea che non pu essere accettata e soprattutto non pu essere accettata nelle sue due versioni estreme, che sono quella apocalittica che vedrebbe in questa omologazione un fatto negativo, un forzoso compattamento dell'umanit sotto un unico codice, sotto un unico imperativo, sotto un'unica legge, e quella apologetica che saluta in questo evento la fine della storia, cio l'unificazione finale del mondo sotto la legge dell'individualismo di mercato, come per esempio ha sottolineato nel suo fin troppo fortunato libro Francis Fukuyama. Io credo, invece, che i due processi vadano assunti contestualmente: occorre cercare di vedere il processo di localizzazione, cio l'emergere di spinte alla rivendicazione della propria specificit culturale, spinte addirittura che vanno nella direzione della domanda di una autoctonia culturale. Io credo che tutto ci vada visto come una risposta al modo in cui una serie di criteri, di codici dell'universalismo si sono affermati o meglio ancora sono stati imposti al mondo, a tutte le culture. Qui forse varrebbe la pena ricordare che uno dei limiti della concezione progressiva illuministica della storia consistito nel modellare la propria idea del divenire storico sulla immagine di una ragione scientifica, di una razionalit, che gradualmente e progressivamente, appunto, si estende a tutti gli ambiti di vita, all'intero globo. I pi critici, diciamo, tra i pensatori razionalisti contemporanei, penso per esempio ad Ernest Gellner, ma anche ad altri, hanno messo in evidenza come la diffusione degli stessi standard razionali di vita e della tecnica, lungi dal produrre una semplificazione degli ambiti della vita stessa, appunto induce una nuova forma di complicazione di questi ambiti, una nuova forma di differenziazione, crescenti difficolt di

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Il ritorno della comunit, che si produce non soltanto attraverso la ribellione di culture altre alla cultura occidentale, ma si genera addirittura all'interno di cosmopoli, cio all'interno delle realt metropolitane dell'Occidente e all'interno del principale paese dell'Occidente, gli Stati Uniti d'America, ecco questa reazione, questo ritorno della comunit si traduce in una denuncia delle istituzioni democratiche occidentali, che sarebbero ormai divenute le istituzioni del grande freddo, delle istituzioni puramente procedurali, puramente tecnicoprocedurali, incapaci di motivare gli individui, i gruppi sociali, gli aggregati sociali e che quindi sarebbero le istituzioni istituzioni fredde, insensibili, indifferenti al calore comunitario. Di conseguenza, l'aspetto pi vistoso di questa critica risulta essere quello della rivendicazione di una democrazia che cominci ad essere declinata a partire dai bisogni, dalle domande di queste forme di vita e di queste forme di associazione, che appunto in qualche modo rivendicano i diritti della corrente calda contro la corrente fredda della procedura democratica. Tra i sostenitori del ritorno alla comunit e critici nel contempo delle istituzioni fredde, che non riescono a garantire i nessi comunitari, ci sono appunto i cosiddetti comunitaristi. Pu spiegarci meglio di che cosa si tratta e soprattutto quale provenienza culturale hanno costoro? Per individuare la provenienza culturale del comunitarismo contemporaneo, che ha le sue voci pi importanti soprattutto nel mondo angloamericano dobbiamo ricordare che il comunitarismo oggi non ripropone meccanicamente o passivamente la classica distinzione, che risale com' noto a Ferdinand Tnnies, nell'ultimo scorcio del secolo scorso, tra comunit e societ, cio la comunit intesa come una relazione organica fondata su vincoli personali, su vincoli privati, su vincoli affettivi o parentali, e invece la societ, che sarebbe caratterizzata da legami di tipo appunto sociale, elettivo e contrattuale. Direi che il comunitarismo odierno, piuttosto, tende a riproporre il tema della comunit dopo la societ, cio dopo che abbiamo fatto esperienza degli effetti del processo di razionalizzazione. Indubbiamente, all'interno del comunitarismo, che non un ambito omogeneo, vi sono posizioni differenziate: si va da posizioni pi fondamentaliste, come per esempio quella di Alasdair MacIntyre, che riprende le tematiche aristoteliche, addirittura riprende il filone di un aristotelismo di tipo tomista contro il contrattualismo e quindi contro tutte le teorie del contratto tipicamente moderne, alla posizione invece pi avvertita, anche se si rif ad Aristotele, ma non all'aristotelismo medioevale, di una personalit che io ritengo tra le pi significative e stimolanti della filosofia morale e politica contemporanea, Martha Nussbaum, alla posizione intermedia di un Charles Taylor, al liberal-comunitarismo di un Michael Walzer o di un Richard Rorty. Quindi, come si pu notare, siamo in presenza di un ventaglio estremamente sfaccettato e variegato di posizioni, le quali hanno tuttavia un denominatore comune nella diagnosi per cui la democrazia contemporanea, la democrazia, diciamo, dell'era postmoderna, con la sua ossessione delle procedure e delle regole formali, in qualche modo non in grado di dar conto del bisogno di identificazione simbolica dei suoi membri. In altri termini, il fattore, l'elemento dell'appartenenza, nella critica dei comunitaristi, non pu essere interamente risolto nella logica della cittadinanza, gli individui non possono trovare una identificazione simbolica semplicemente nel fatto di essere cittadini, eguali davanti alla legge, aventi il diritto al voto e ai diritti fondamentali, devono in qualche modo essere considerati anche dei soggetti socialmente e culturalmente specifici, quindi dei soggetti che vivono una vita reale e per i quali necessario sentirsi parte di un contesto culturale. Quindi questo elemento dell'identificazione simbolica, ripeto, questo elemento dell'appartenenza come una dinamica mai interamente assolvibile nella logica della pura cittadinanza, rappresenta il comune denominatore di una tendenza di pensiero oggi quanto mai agguerrita, ma internamente differenziata. Professor Marramao, potrebbe approfondire quali sono i nodi fondamentali della critica che i comunitaristi esercitano nei confronti del pensiero liberal-democratico e soprattutto nei confronti dei neo-contrattualisti e dei neo-utilitaristi? I conceti cardine dei comunitaristi hanno rilevanza anche nel campo della filosofia teoretica? Per individuare il carattere della critica teorica, anzi della critica filosofica, rivolta dal comunitarismo alle istituzioni liberal-democratiche e alla teoria liberal-democratica, occorre ricordare che l'ondata comunitarista nasce, a partire dall'inizio degli anni Ottanta, soprattutto come critica a un famoso libro del 1971 di John Rawls, uno dei maggiori esponenti della teoria liberal-democratica, un libro dal titolo Una teoria della giustizia. In questa critica i comunitaristi tendono ad evidenziare che il postulato della teoria rawlsiana, come di ogni teoria del contratto, come di ogni teoria moderna del contratto e dell'associazione politica, era dato dalla priorit della giustizia sul bene, quindi della priorit della giustizia distributiva, dell'equit su ogni altro valore. Nel contestare questa priorit, i comunitaristi ripropongono un tema classico, classico nel senso proprio di un tema attinto alla filosofia politica antica, un tema che la modernit aveva sempre relegato sullo sfondo, cio il tema del bene. Ora, proporre la questione del bene nel contesto moderno significa contestare l'idea che una societ si possa reggere soltanto su criteri di equa distribuzione delle risorse; accanto a questo criterio occorre in qualche modo attivare il criterio della motivazione dei singoli e dei gruppi sociali, ma l'elemento della motivazione dei singoli e dei gruppi sociali non pu prescindere dall'idea di una comunit politica che faccia degli individui e dei gruppi non soltanto i protagonisti, ma anche il fine, lo scopo dell'associazione politica stessa. A questo punto le carte

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si confondono molto, perch anche in un certo senso per il contrattualismo l'individuo, e non la societ, il fine dell'associazione; allora qui emerge un complesso di questioni, che essenzialmente si potrebbero ridurre a questo interrogativo: in che misura possibile rendere attuale l'antico problema del bene come immagine sostanziale della comunit in un mondo come quello moderno, che ha distrutto ogni idea di sostanzialit del soggetto, ogni idea di soggetto collettivo che sia al di sopra dell'individuo? La critica comunitarista in un certo senso coinvolge direttamente uno dei presupposti filosofici di ogni teoria moderna del politico, che quello che potremmo chiamare la priorit dell'individuo, cio l'individualismo metodologico. Nel problematizzare gli assunti dell'individualismo metodologico i comunitaristi compiono sicuramente un'opera salutare, che quella di un approfondimento delle due categorie che in qualche modo stanno al centro della riflessione attuale, cio la categoria di individuo da un lato e quella di comunit dall'altro. L'aspetto pi squisitamente filosofico della critica comunitarista al liberalismo e in generale alla dottrina filosofico-politica moderna dato dalla rimessa in discussione radicale dell'idea dell'individuo-atomo. L'autore che ha approfondito pi di ogni altro questo tema all'interno del comunitarismo sicuramente Charles Taylor. Taylor sostiene che la premessa della teoria liberale, per cui gli individui sono i mattoni della societ, cio gli individui sono gli atomi, gli indivisibili appunto - individuo in latino non altro che la trasposizione del termine greco tomos - tomon - e per cui questo elemento indivisibile poi la base dell'intero edificio sociale, ecco questo per Taylor un presupposto che non pu pi reggere, che non si regge pi. Taylor nei suoi lavori ha appunto evidenziato come quello che noi chiamiamo individuo, lungi dall'essere un gi costituito, va spiegato a sua volta con una complessit di referenti che noi troviamo all'interno della societ, all'interno di una cultura, all'interno cio di una configurazione collettiva storicamente determinata, storicamente specifica. In altri termini, la tesi di Taylor che ogni individuo ha delle sue fonti, ha delle sue radici e che di conseguenza in ogni individuo riecheggiano le voci della societ che lo ha costituito. Potremmo affiancare questo tipo di critica ad un altro versante filosofico che in qualche modo ha strettamente a che fare con il postmoderno, cio all'idea che il soggetto, il cogito, non pu essere pi assunto come il punto di partenza della filosofia, il cogito stesso va rimesso in discussione; in un certo senso quindi vi un lato del comunitarismo che interdipende strettamente con la critica postmoderna del soggetto. questa, se vogliamo, una conferma ulteriore che per fronteggiare la sfida comunitarista occorra cogliere che qui abbiamo a che fare non tanto con un concetto di comunit nel senso tradizionale della parola, anche se nella versione di Taylor indubbiamente sono tutt'altro che assenti delle coloriture di tipo romantico, neoromantico, per nonostante questi retaggi neoromantici, noi indubbiamente abbiamo a che fare con un concetto di comunit che si ripropone al di l dell'orizzonte che il moderno aveva dato alla propria riflessione sulla politica. In che modo, con il concetto di cultura elaborato da questi pensatori, si riesce a proporre un modello di pluralismo etico-politico che si mantenga critico nei confronti dell'universalismo, come lei ha delineato, e nel contempo non scada nel relativismo culturale? Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto esaminare in che modo il termine pluralismo si venuto trasformando nel corso di questo secolo. Il pluralismo, che era un termine che racchiudeva in s gli elementi del pluralismo appunto politico o sociale oppure economico, divenuto oggi un concetto inclusivo del pluralismo culturale. Da questo punto di vista il riferimento essenziale per potere affrontare la tematica pluralistica nel mondo contemporaneo rappresentato da un autore che si colloca al di fuori del ventaglio di posizioni proprie del comunitarismo e che per in sintonia con alcuni temi del comunitarismo, nella critica per esempio a quelli che sono i due modelli influenti della filosofia politica contemporanea, il neoutilitarismo e il neocontrattualismo. Questo autore Isaiah Berlin, che nei suoi lavori ha cercato proprio di sfuggire ai due estremi, alla polarit costituita dall'universalismo egemonico e dal relativismo. Secondo appunto Isaiah Berlin, dobbiamo renderci conto che la sfida che oggi assilla le democrazie contemporanee la sfida delle culture; dobbiamo abbandonare, nella filosofia politica, un'idea che per Berlin un'idea nefasta e cio l'idea di una natura umana unica ed omogenea, a partire dalla quale sono stati progettati i diversi contratti e anche le diverse utopie politiche moderne. Secondo Berlin, dobbiamo abbracciare l'idea di una natura umana come una variabile che si trasforma a seconda del suo distendersi nel tempo, del suo distendersi diacronico nel tempo, quindi della sua trasformazione storica, ma si trasforma anche a seconda della diversa latitudine in cui opera; quindi dobbiamo abituarci all'idea di una natura umana che si estrinseca in una pluralit di forme culturali, in molteplici differenze culturali. Qual la maniera attraverso la quale Berlin ritiene che si possa superare questa falsa alternativa, questa Scilla e queste Cariddi dell'universalismo egemonico, omologante e del relativismo? Crede che sia una concezione del pluralismo in grado di includere in s la dimensione conflittuale, la dimensione del conflitto fra le culture. Soltanto una democrazia in grado di introiettare e rendere produttivo il conflitto tra le culture, e di conseguenza anche il confronto fecondo fra i diversi punti di vista culturali, in grado di sopravvivere alla sfida del nostro tempo; non pu farlo una democrazia che presupponga, come natura umana, come contratto, come utopia politica, un parametro unico di razionalit a cui commisurare tutte le manifestazioni della vita sociale. Quando, nel pensiero occidentale, la diversit delle culture assume un rilievo filosofico? Lo assume soprattutto con autori cari alla riflessione di Isaiah Berlin come per esempio Herder e, un po' prima di Herder, Giambattista Vico, questo grande pensatore italiano che secondo Berlin

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ha anticipato i temi del nostro tempo. Dobbiamo probabilmente abituarci a riflettere sulla condizione spirituale del nostro tempo, pensando che noi non viviamo oggi pi il momento Hegel e da questo punto di vista forse sono inesorabilmente datate tutte quante le ricostruzioni della condizione spirituale dell'Europa che ripropongono in qualche modo, anche se con assonanze nuove, risvolti nuovi, la grande diagnosi hegeliana, il grande disegno hegeliano; dobbiamo abituarci a pensare alla condizione spirituale del nostro tempo come a una condizione che segnata sempre pi dal momento Herder, cio dall'idea delle differenze culturali. Secondo Herder la caratteristica della storia data da questa virtualit della specie umana di differenziarsi culturalmente; essenziale in questo processo di differenziazione era per Herder per esempio la differenza linguistica, cio in altri termini vero quello che dice Kant, che tutti gli individui umani sono dei soggetti etico-trascendentali universali da questo punto di vista, e purtuttavia non indifferente la maniera in cui ciascuna cultura, e ciascun individuo all'interno di una cultura, fa esperienza di certe categorie universali, di certi valori universali. Ogni cultura, in altri termini, elabora linguisticamente, e di conseguenza con un'esperienza sua autonoma specifica, l'universalit dei valori e la gerarchia di valori che si viene a configurare in ciascuna cultura incommensurabile alle altre, cio non disponiamo di un criterio unico per poter stabilire quale di queste gerarchie dei valori sia superiore alle altre, o perlomeno non lo conosciamo preliminarmente, ex ante, lo possiamo conoscere unicamente ex post, quando avremo fatto l'esperienza di un effettivo confronto tra le culture. Per fare un esempio molto banale, vero che ciascun individuo umano, donna o uomo che sia, fa un'esperienza universale della libert, della giustizia, ha una sua innata vocazione, in qualche modo, in quanto interazionale, che lo porta verso questi valori universali, e purtuttavia il fatto stesso che in ogni contesto culturale si diano diverse parole per dire quella stessa cosa, oppure che vengano usate le stesse parole per intendere esperienze diverse, questo in qualche modo significa che dobbiamo tener conto anche di questo processo di differenziazione. Quindi i due poli dell'universalit e della differenza devono sempre restare in costante tensione fra di loro. Nella prospettiva teorica multiculturalista e pluralista che lei andato delineando, in che modo possono venire ridefinite le categorie politiche classiche, quali ad esempio diritto, democrazia? Qui bisogna dire che il nocciolo razionale della posizione comunitarista, se legittimo parlare di una posizione comunitarista, dato dalla critica alla democrazia puramente procedurale e quindi dalla critica del diritto come mera regola, mera tecnica, mera proceduralit. Io credo che il prototipo di questa critica, all'interno della temperie comunitarista e, qui uso un termine che ha avuto una notevole fortuna nel dibattito di questi anni, della temperie multiculturalista, sia dato dalla critica che il pensiero femminile e anche in buona parte la filosofia femminista, la filosofia della differenza, ha svolto nei confronti del diritto come una forma neutra, come una forma neutrale. Il nocciolo razionale di questa sfida consiste nel dire che non si pu prescindere dall'esperienza decisiva di una societ sessuata, cio di una societ che innanzitutto divisa longitudinalmente tra un sesso maschile e un sesso femminile e che trattare - era questo un po' il senso, l'obiettivo, nella sua prima espressione, della filosofia della differenza sessuale - in maniera indifferente, in maniera neutra, dei soggetti differenti, significava in qualche modo produrre nuove disparit, oppure approfondire la disparit originaria. Quindi, per questa via, la tematica della differenza finiva per revocare in questione l'intera orbita concettuale della filosofia politica occidentale e anche della filosofia teoretica occidentale, veniva qui rimesso in discussione proprio lo stesso logos occidentale in quanto costituito su questa presunzione di neutralit. Che cosa accaduto nella temperie comunitarista e multiculturalista dei nostri giorni? accaduto che quasi per contagio tutte le altre differenze, tutte le altre differenze culturali, hanno applicato a se stesse il dispositivo della differenza sessuale per legittimare le proprie rivendicazioni. Qui sorge un problema dovuto al fatto che, tra la differenza sessuale, tra questa divisione, questa frattura longitudinale del genere umano in quanto specie per l'appunto sessuata e gli altri tipi di differenze, c' un abisso e che in un certo senso la trasmissione del dispositivo della politica della differenza dal movimento femminile per esempio ad altri tipi di movimenti, per esempio alle differenze etniche o alle differenze confessionali, ha determinato una sorta di stravolgimento del concetto iniziale di differenza, anche se naturalmente ha prodotto una radicale rimessa in discussione degli orizzonti liberal-democratici classici. Io credo che di qui si debba partire, perch forse qui si annida anche un altro rischio, che secondo il movimento proprio del feed-back, della retroazione, una volta che tutte le altre differenze hanno fatto propria la politica della differenza, costituendosi in gruppi che rivendicavano obiettivi specifici funzionali alla propria identit di gruppo, alle proprie esigenze di gruppo - appunto differenze confessionali, oppure la differenza gay, oppure altre differenze di ordine etnico -, ecco, una volta che questo avvenuto, si creato una sorta di feed-back, una sorta di retroazione sullo stesso movimento femminile, nel senso che anche le donne probabilmente, soprattutto nella societ nordamericana, Stati Uniti e Canada, hanno iniziato ad atteggiarsi, a comportarsi come una lobby, come una differenza fra le altre. Ma un interrogativo molto serio, che ormai diciamo entrato con forza nel dibattito interno alla cultura femminile e anche alla stessa filosofia femminile, proprio un dibattito molto forte quello fino a che punto questa forma di organizzazione della politica della differenza appunto rappresenti una differenziazione o non piuttosto una profonda alterazione del principio, del criterio della differenza in senso originale. Rimanendo ancora su queste ultime questioni che lei ha trattato, non le sembra che la ridefinizione in senso pluralista della democrazia, l'accentuazione del ruolo delle differenze,

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delle particolarit culturali, rischia di travolgere insieme all'universalismo astratto anche quanto di positivo e di irrinunciabile stato espresso dalla tradizione liberal-democratica, come ad esempio la difesa dei diritti umani, il principio dell'uguaglianza, della parit di condizioni? Indubbiamente questo rischio sussiste nel momento in cui tutte le differenze, ad onta del nome che assumono, di differenza appunto, si atteggiano come differenze blindate, interessate unicamente a demarcare nettamente i propri ambiti di competenza e di appartenenza, con clausole pi o meno rigide di esclusione e di inclusione, e di conseguenza pi che in qualche modo dinamicizzare la democrazia contemporanea nella direzione di nuove esperienze di attraversamento, tendono a configurarsi come delle identit in sedicesimo, come monadi senza porte n finestre, come delle autoconsistenze insulari, che demarcando i confini determinano anche i codici di relazionamento reciproco; il politically correct non altro che il braccio secolare di questa concezione e il politically correct negli Stati Uniti e in Canada addirittura segnato da una vera e propria ossessione per la purezza linguistica; ci che interessa a queste differenze blindate che i rispettivi confini non vengano mai violati, nemmeno dal punto di vista linguistico, anche la parola pu costituire una violazione della propria autoconsistenza insulare. Ecco, io credo che qui indubbiamente si annidi un pericolo, che sicuramente quello di una crescente richiesta di trattamento giuridico e amministrativo differenziale, in cui alla fine prevarranno inevitabilmente le ragioni della gruppo, della lobby, che in quel momento pi forte, e quindi uno stravolgimento, un'alterazione molto forte di quella idea del diritto eguale che rappresenta una importantissima conquista evolutiva della societ occidentale, quell'idea della universalit della legge. Vi tuttavia in queste rivendicazioni del politically correct e della politica della differenza a mio avviso un elemento importante, che si potrebbe riassumere nell'esigenza di spostare la battaglia per i diritti dall'ambito della vecchia lotta per la tolleranza, che poi era una lotta che presupponeva un potere gerarchico assoluto al quale occorreva strappare una serie di prerogative, di garanzie, alla battaglia invece, alla lotta, per il rispetto. Io credo che questo transito dalla dimensione della tolleranza alla dimensione del rispetto sia qualcosa di potenzialmente nuovo e positivo, cio i soggetti non chiedono pi di essere tollerati, per la semplice ragione che la tolleranza, proprio come idea, presuppone, sin nella sua logica di costituzione oserei dire, la possibilit o il potere di non tollerare, di quel potere che tollera. Questo un elemento che era gi chiaro, che era gi chiaro addirittura negli ultimi anni del Settecento agli stessi rivoluzionari francesi, questi diciamo limiti dell'idea di tolleranza, che in qualche modo un'idea che implica anche che chi tollera potrebbe non tollerare, mentre la lotta per il rispetto, una politica che abbia come obiettivo il rispetto, il rispetto di ogni cultura di essere riconosciuta come tale, cio il rispetto di ogni cultura che richiede di essere riconosciuta in quanto tale, il rispetto di ogni soggetto sociale che vuole essere accettato non in quanto eguale all'altro ma anche nella sua differenza e specificit, questo credo che sia un fatto molto importante. Il limite e il pericolo, il pericolo vero, sta nel fatto che all'interno della concezione multiculturalista, e soprattutto in certe versioni del comunitarismo, sembra che i diritti siano appannaggio pressoch esclusivo delle comunit, siano appannaggio esclusivo del gruppo, inteso come entit omogenea, come il vero interlocutore e soggetto della dinamica democratica e non si fa quasi mai parola dei diritti dei singoli, degli individui all'interno di questo stesso gruppo; in altri termini, un individuo un singolo donna o uomo che sia, il quale non si senta a casa propria, non si senta appartenente a nessuna delle lobbies, ha ben poche chances di vedere appunto riconosciuti i propri diritti in quanto singolo cittadino o singola cittadina. Ecco, questo a mio parere il vero rischio che corre la democrazia occidentale nella temperie attuale. Tra le proposte teoriche pi rilevanti e dibattute della filosofia contemporanea troviamo da un lato la cosiddetta comunit illimitata della comunicazione, propugnata da Apel e da Habermas e caratterizzata da unistanza di fondazione forte, trascendentale dell'etica e dell'agire umano. Dall'altro lato invece c' il pensiero, ad esempio, di Derrida, il quale persuaso della necessit di abbandonare ogni sorta di fondazione metafisica forte e si fa sostenitore di una comunit senza fondamenti. Come vede, Professor Marramao, lo scontro tra coloro che sollevano l'esigenza di una razionalit fondativa e coloro che invece intendono rinunciarvi? Io non mi identifico in nessuna delle posizioni che lei ha chiamato in causa adesso, pur rispettandole tutte evidentemente. Ha fatto bene ad evocare la posizione di Apel e di Habermas, perch Apel e Habermas pongono un problema molto serio e cio dicono in sostanza che il limite delle filosofie comunitariste, il limite comune a tutte le versioni del comunitarismo, consiste nel partire dalla comunit come un dato di fatto, per usare un'espressione filosofica pi tecnica da un a priori fattuale: la comunit si d, la comunit c'; il limite, potremmo dire, di tutte le varianti del comunitarismo anglo-americano consiste nel dire che la comunit c', si d, un fatto. Sia Apel che Habermas ritengono che su un tale a priori fattuale non si possa costruire una vera e propria posizione filosofica e che la fattualit non sia un argomento, che occorra fondare filosoficamente, quindi attraverso un procedimento argomentativo, l'esigenza della comunit. Ma qual il procedimento argomentativo che essi adottano? il procedimento argomentativo che in qualche modo si rif, pur nelle notevoli differenze tra la versione di Apel e quella di Habermas, al grande disegno kantiano, al disegno di Kant e di conseguenza all'a priori fattuale viene contrapposto un a priori trascendentale. Io ritengo che neanche questa posizione sia una posizione valida, come ritengo anche scarsamente persuasiva, anche se sicuramente suggestiva, la soluzione data da altri filosofi in Francia, come per esempio Jacques Derrida o alcuni altri intellettuali variamente legati a Derrida stesso, come Jean-Luc Nancy o Philippe Lacoue-Labarthe. Non mi identifico in queste posizioni perch credo che tra la posizione che pone la comunit come a priori fattuale e la posizione che

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pone la comunit come un a priori trascendentale oppure come una sorta di reimpostazione antimetafisica, antifondamentalistica del tema comunitario, rimanga sostanzialmente eluso un nodo, che il nodo del simbolico, e cio qual il luogo simbolico dell'essere in comune, dell'esistenza in quanto essere in comune; e qui io credo che una effettiva reimpostazione del tema della comunit rispetto all'intero dibattito non possa evitare di confrontarsi con l'inadeguatezza delle teorie sociali e politiche del simbolico che fino ad ora sono state sviluppate. Io credo che una sfida potrebbe essere quella di opporsi all'idea corrente del simbolismo culturale come un fattore di mera differenziazione e specificazione, cio come dire: nel dibattito culturale contemporaneo, forse per influenza dell'antropologia, ogni qual volta entra in campo il simbolico, entra in campo per operare una netta differenziazione tra una cultura e l'altra. Come ho scritto in alcuni miei lavori, da un certo punto di vista l'antropologia forse la pi etnocentrica delle discipline occidentali ed etnocentrica non soltanto perch si costituita come sapere di una societ che vissuta attraverso il colonialismo per tanto tempo, ma soprattutto etnocentrica quando non fa altro che rovesciare la prospettiva dell'universalismo, e la rovescia in un relativismo che in qualche modo si manifesta nell'idea della incommensurabilit delle culture; nell'affermare il simbolismo culturale nei termini di una irriducibilit delle singole culture e dunque di una loro incommensurabilit, l'antropologia culturale non fa che rovesciare il guanto dell'universalismo egemonico. Credo che bisognerebbe cominciare a riflettere, invece, sullo spazio del simbolico come uno spazio che non separa le culture le une dalle altre, ma come uno spazio di possibile transito tra le culture. Siamo realmente certi che il simbolico si manifesti soltanto nella differenziazione? Non possiamo cominciare a pensare al simbolico invece come quella dimensione in cui le culture ritrovano fra di loro quei punti in comune che non possono essere dati dalla pura logica della comunicazione razionale, dalla pura logica del confronto fra argomenti razionali - che poi il limite di Apel e di Habermas. Nell'idea del confronto tra modelli argomentativi in qualche modo l'Occidente rischia di riproporre la propria volont egemonica, questa volta tramite un dispositivo di persuasione, certamente non pi con velieri e cannoni, tramite una nobile volont di persuasione che il nostro universalismo migliore delle altre culture. Ora io credo che non si debba rinunciare all'universalismo, anzi non rinuncio, mi colloco all'interno dell'universalismo, ma ritengo che l'universalismo non possa sopravvivere se non diviene un fattore, un veicolo di confronto fra esperienze culturali diverse. Se a confrontarsi non sono pi, appunto, modelli persuasivi argomentativi, ma sono viceversa esperienze reali, di donne e uomini concreti che vivono in diversi contesti culturali, e se attraverso questo confronto emergono i nodi simbolici comuni a tutte le culture, se si far questo, forse il grande sogno di una umanit che sia capace di comunicare nel senso della libert e dell'emancipazione non sar soltanto un sogno; altrimenti avremo l'incubo ad occhi aperti che ci viene promesso da una idea di differenze blindate, regolate unicamente da criteri draconiani di correttezza politica.

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