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su Non ti muovere (regia di S. Castellitto, con S. Castellitto e P.

Cruz)
di stefania ruggeri

Ritorno
L’uomo che si allontana dalle proprie radici è confinato a vivere una vita
che non gli apparterrà mai. Sembra questo il messaggio più pregnante di
Non ti muovere, un messaggio mai esplicitato, mai insistito, ma che si pone,
all’interno del narrato del film, come nucleo fondamentale da cui origina e
si sviluppa l’intera poetica dell’opera.
Già nella scena che descrive il suo primo contatto con la periferia
degradata della capitale, all’interno del piccolo bar in cui Timoteo è
costretto da una panne dell’auto a prendere rifugio, la sua appartenenza e
familiarità a quel mondo in cui sembrerebbe ritrovarsi per caso emerge tra le
righe: allorché il proprietario del bar apprende che Timoteo fa il dottore,
approfitta subito dell’occasione per chiedergli un consiglio sulle macchie
che gli sono spuntate sul viso e riceve, anziché lo sguardo di infastidito
sussiego accompagnato da un freddo parere professionale con cui qualunque
medico ‘estraneo’ avrebbe reagito alla sua presa d’assalto tutta popolare,
una risposta confidenziale, piana e addirittura un po’ profana, più da
stregone di tribù o da guaritore rionale che da chirurgo ospedaliero (“Hai
provato con…?”, un invito all’automedicamento attraverso una sostanza
benefica).
Anche l’interno della casa di Italia – in cui il regista ci ‘accompagna’
con un lento movimento a scoprire della macchina da presa – sembra
esercitare sul protagonista una forma di fascinazione sensuale: in camera da
letto, ad esempio, pur essendo disponibile una poltrona, la stessa su cui
poggia il telefono (un apparecchio antico, che certamente ha anch’esso
ricondotto Timoteo a ricordi ed atmosfere lontani), egli decide di sedersi sul
letto, un gesto intimo, di chi senta di essere tornato a casa, di chi si muova in
un ambiente familiare, un gesto confidenziale e senz’altro inopportuno da
parte di un estraneo, come certamente altrove non sarebbe sfuggito al
protagonista.
Sembrerebbe quindi proprio che quella scena, quel primo contatto,
abbiano la valenza di un vero e proprio ritorno, un ritorno casuale quanto
inconsapevole, che bruscamente riconduce il protagonista alle radici,
facendolo riappropriare di elementi perduti, dimenticati, cancellati,
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sottoponendolo a un repentino quanto travagliato risveglio che viene
connotato in chiave sensuale (non si spiegherebbe altrimenti tutto quel suo
sudare, quello stato di sottile agitazione che muove i suoi muscoli facciali,
la sua espressione sofferente), un risveglio delle origini, dei primordi, che
sembrerebbe predisporlo insomma a quella animalesca attrazione verso
Italia che genererà – forse proprio in forza della inconsapevolezza del
processo – il suo gesto ‘folle’ (“Ho violentato una donna” scriverà qualche
ora più tardi Timoteo sulla sabbia: una vera e propria, abilissima didascalia
destinata a favorire la lettura che la coscienza ‘evoluta’ del protagonista,
come pure del pubblico, fa del suo comportamento appunto primordiale).
A rafforzare e anzi a confermare questa interpretazione viene l’unico
flashback sull’infanzia del protagonista, in cui Timoteo vive un momento
drammatico, quello della fuga del padre dalla famiglia e dalla vita sociale
(“Sono stanco di tutta questa miseria!”, dice mentre la telecamera inquadra
durante l’intera scena soltanto le mani dei genitori, forse a fare concentrare
lo spettatore sulle parole o comunque a significare che furono quelle a
colpire il bambino). Subito dopo, Timoteo raggiunge i compagni in istrada e
stavolta la connotazione sociale, negata alla scena precedente, tutta in
penombra, coi protagonisti senza volto né corpo, e forse resa ambigua da
quel riferimento a una “miseria” che potrebbe anche essere letta
nell’accezione astratta o etica piuttosto che materiale del termine, emerge
con chiarezza: Timoteo è stato a sua volta un ‘ragazzo di quartiere’ e il
regista compone e colloca la scena-chiave del film, che ha anche la portata
di un vero e proprio svelamento, con magistrale sobrietà e delicatezza, un
tratto che indubbiamente lo contraddistingue.
Ma la conferma della lettura che qui si tenta di dare della vicenda del
protagonista viene anche da alcune scene del film che sembrano avere
funzione di mero contrappunto, parendo mirate esclusivamente a creare nel
pubblico la sensazione della estraneità di Timoteo al ‘suo’ ambiente, una
estraneità ed uno scollamento chiari ad esempio nella scena della festa a cui
si reca con la moglie, dove ci appare ai margini, assente, indifferente,
controfigura di se stesso.
La scena della festa è, nel senso che si è detto, rafforzata, con funzione
contrastiva, da quella del calcetto balilla, che si svolge ancora una volta
all’interno del piccolo bar del quartiere in cui vive Italia. Timoteo, che
indossa una anonima t-shirt bianca con delle vistose scritte rosse, è
impegnatissimo a manovrare le stecche del calcetto ed esulta come un
bambino quando va in goal, in una atmosfera di gioiosa goliardia con i suoi
compagni di gioco.
Pregevolissima, comunque, la scelta da parte dell’autore di descrivere
due ambienti completamente diversi senza esprimere giudizi di valore:
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Timoteo è estraneo all’ambiente a cui ha finito per appartenere, ma (con
l’unica eccezione forse della pedata mollata sotto il tavolo al cagnolino della
suocera, probabilmente anche per un irrefrenabile moto di ribellione verso
l’insulsa leziosità tutta borghese della donna), quell’ambiente viene descritto
per quello che è, legittimato ad esistere così com’è, senza cedere a facili
demonizzazioni o screditamenti.
Il ritorno di Timoteo non rappresenta, dunque, una scelta consapevole
da parte del protagonista, un abbandono ideologico dei canoni e dei valori
borghesi, ma una svolta sentimentale che ha luogo nella sua esistenza a
causa del contatto casuale, e si direbbe forse meglio dell’impatto, con un
mondo dal quale egli si era irrimediabilmente allontanato, il mondo della
sua infanzia e delle sue origini.

A m o r e , a m o r e. . .
È nell’ambito di questo recupero delle radici e della propria autenticità che
il sentimento verso Italia, a partire da una relazione basata su un’attrazione
tutta fisica e tutta virile, cui Timoteo unilateralmente attribuisce le
caratteristiche di un mercimonio, diventa amore.
Se il milieu costituisce il nucleo poetico del film, l’amore ne è infatti il
tema fondamentale, un tema trattato con una sincerità, un candore, e per ciò
stesso una audacia, ormai rari in un’epoca in cui la trappola della retorica
intimidisce, irrigidisce e spaventa (va da sé che anche le doti attoriali dei
protagonisti contribuiscono alla riuscita dell’opera in tal senso: come non
percepire la sincerità e l’autenticità dei sentimenti dei due amanti negli
sguardi, nei gesti, negli sfoghi interpretati con pari maestria dalla Cruz e da
Castellitto?).
Bellissimo il gioco linguistico operato dalla sceneggiatura con l’utilizzo
della parola “amore”, la quale subisce nel corso del film una radicale
trasformazione semantica, pur rimanendo uguale a se stessa. Il termine
viene infatti usato, soprattutto nelle scene iniziali, come vicendevole ed
esclusivo vocativo da parte di Timoteo e della moglie (“Sì, amore”, “Ciao,
amore”, “Va bene, amore”…) e sarà soltanto l’uso della stessa parola, con la
medesima funzione, da parte di Timoteo ed Italia a mettere in luce la natura
meramente formulare e convenzionale di quell’abitudine linguistica tra i due
coniugi.
Il processo culmina nella scena, di grande efficacia, in cui i due amanti,
sul letto di morte di lei, duettano indirizzandosi vicendevolmente quel
vocativo, quasi bisbigliato sulla pelle, vaporizzato attraverso il fiato sulla
pelle, in un serrato quanto incantato gioco di botta e risposta nel quale trova
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appunto compimento un vero e proprio rovesciamento, una vera e propria
rivoluzione linguistica che si fa specchio e metafora della radicale
rivoluzione interiore del protagonista e del suo mondo nella direzione del
recupero dell’autenticità e dei contenuti.
Il senso di tale rovesciamento è, d’altronde, veicolato, quasi anticipato,
anche dalla ‘bruttezza’ di Italia, che riteniamo elemento meramente
strumentale, scelta ‘tecnica’ più che sostanziale (che senso avrebbe
conferire un qualunque valore discriminante alla bellezza estetica
nell’ambito di un discorso sull’amore che tende ad esaltarne la natura
autentica, indipendente ed incondizionata? In tale contesto, bello vale brutto
e viceversa), con funzione estremizzante e dunque emblematizzante di una
diversità che ha ben altre basi e ben altri contenuti.
Italia e Timoteo sono diversi, apparentemente diversi, per molti aspetti
sostanzialmente diversi, eppure tra loro scocca una scintilla che assai poco
ha a che fare con le apparenze e che ha radici molto, molto profonde.
Il loro rapporto si trasforma, si direbbe loro malgrado, spontaneamente
ed autonomamente, parallelamente ai loro sentimenti che gradualmente si
svelano a se stessi e all’altro, senza intervento alcuno della parola, del
discorso, dell’esplicitazione o del lavoro verbale. Italia appare sin dall’inizio
la più consapevole dei due, se è vero che regge a Timoteo il gioco della
prostituzione, accettando il suo denaro ma rifiutandosi di utilizzarlo e perciò
accantonandolo dentro un barattolo casualmente scoperto dal suo amante su
uno stipo della cucina.
Certo, verrebbe facile ipotizzare che l’atteggiamento in tal senso supino
di Italia scaturisca dalla sua debolezza sociale, dalla sua emarginazione, dal
suo isolamento. Ma questa lettura sarebbe colpevolmente riduttiva, oltre che
poi sconfessata dalla fermezza di carattere e dalla assoluta discrezione
rivelate dalla donna, che nulla vuole dal suo amante che lui non decida di
darle spontaneamente o che addirittura vada contro di lui, contro la sua vita.
«Tu devi pensare per te», gli dice quando ormai la natura amorosa della
loro relazione è evidente ma gli eventi della vita rischiano di allontanarli per
sempre.
È la scena nella quale Timoteo ed Italia, che ormai da diversi mesi si
sono allontanati, si incontrano per strada e si ritrovano poi seduti al tavolo di
un bar. Per strada, con Timoteo, c’era anche la moglie, ormai vistosamente
incinta, sicché Italia ha appena impattato brutalmente con una realtà di cui
non era a conoscenza (“Dirò tutto a mia moglie, tutto”, erano state le parole
che Timoteo le aveva detto durante il loro ultimo incontro) e che fa da
amaro contrappunto alla sua analoga vicenda parallela, conclusasi con un
violento aborto (rievocativo, come d’altronde l’intera vicenda di Italia, del
tema della sorte che continua a infierire sui più deboli, tipico ad esempio del
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Ciclo dei vinti verghiano o di tanta letteratura ottocentesca, da Balzac a
Dickens).
Come la moglie allorché apprende della propria gravidanza, anche Italia
adesso, intenerita dall’abitino bianco per neonati che casualmente fuoriesce
dalla busta dello shopping di Timoteo (una presenza ingombrante nella
scena, di contenuto abilmente simbolico), gli chiede: “Sei felice?”. E qui,
ancora una volta, assistiamo a un prodigio linguistico della sceneggiatura: la
stessa domanda, infatti, articolata con esattamente le stesse parole, sortisce
pronunciata da Italia un effetto totalmente diverso. “Sì”, aveva risposto
Timoteo alla moglie con aria assai poco convincente (ma la moglie si era
accontentata del contenuto formale della sua risposta, non aveva
approfondito, si era guardata bene dall’andare oltre la forma ed è proprio
questo il senso della inautenticità del loro rapporto). “Come potrei essere
felice?”, risponde invece singhiozzando Timoteo alla sua amante, non solo e
non tanto perché Italia condivide il suo segreto e a lei egli può confessare
tutta la propria infelicità (potrebbe avere ragioni di opportunità uguali e
forse anche più solide per mentire anche con lei), quanto – e a noi pare
soprattutto – perché Italia gli rivolge quella domanda con sincerità, con
slancio, pronta a condividere eventualmente la sua gioia, mentre la moglie
gliel’aveva rivolta col tono indagatore di chi ricerca, nella risposta,
unicamente la riconferma di un patto divenuto ormai di natura squisitamente
sociale.
La risposta di Timoteo non rappresenta, comunque, un mero sfogo
vittimistico dell’uomo travolto dalla forza del destino, ma si pone quasi
come presa di coscienza da parte del protagonista di una condizione tragica
e dilemmatica che impone una scelta forte e traumatica.
Rivelando infine appieno e portando alle sue estreme conseguenze la
natura del suo amore per Italia, un amore che è sentimento totale,
irrinunciabile, aggregante, Timoteo decide di abbandonare la famiglia per
continuare la propria esistenza a fianco della donna che ama.

La rivoluzione negata
Ma Italia morirà la stessa notte, a seguito di un secondo aborto procuratosi
all’insaputa di Timoteo. Un epilogo non certo casuale ed anzi emblematico,
nel quale si esprime l’esito tragico di quella lotta, che fa da sfondo all’intera
vicenda del film, tra socialità e sentimento, tra convenzione e autenticità, tra
moralità borghese e ragioni del cuore. Italia muore perché è l’elemento
debole della catena sociale, non ha, a differenza della moglie di Timoteo, un
ginecologo che la segua durante la gravidanza, non può addirittura
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permettersi di avere una gravidanza e portarla a termine, ricorre alle
pericolose pratiche degli zingari per abortire e ne muore. Eppure è lei la
donna che Timoteo ama, da cui Timoteo non vorrebbe mai separarsi, con
cui Timoteo ha infine deciso di vivere, ma la forza del sistema sociale e
convenzionale ha la meglio sul loro sentimento e, nonostante l’‘eroica’
ribellione tentata da Timoteo, stritola il destino dei due amanti tra gli
ingranaggi dei suoi meccanismi ciechi e violenti, ‘battendoli sul tempo’,
approfittando delle loro incertezze e debolezze per fare trionfare il suo
schiacciante sistema di valori.
Ben consapevole di tutto questo, cioè del suo ‘ritardo’, del prezzo
pagato a causa delle sue esitazioni e della sua scarsa incisività nella vicenda
di Italia, cioè nella lotta tra sentimento e socialità che era lotta all’ultimo
sangue, tra la vita e la morte, Timoteo, che nella sala di attesa dell’ospedale
in cui 15 anni più tardi sua figlia sta subendo un delicatissimo intervento
chirurgico ha appunto rievocato la sua dolorosa vicenda amorosa, forse
finalmente illuminato proprio da questa, nel momento in cui apprende che la
ragazza rischia di andarsene, reagisce accantonando gli strumenti della
logica e del mestiere e agisce soltanto col cuore, come un qualunque padre
disperato, operando quel miracolo che riscatta il suo precedente fallimento e
salvaguarda il senso della sua esistenza nella forza del suo amore paterno.
Di grande efficacia, dunque, la struttura circolare del film, con la
sovrapposizione degli epiloghi delle due storie che esso racconta, separate
da uno scarto temporale di parecchi anni ma assolutamente coeve nella
coscienza del protagonista, che non ha mai smesso e probabilmente non
smetterà mai di ‘perdere’ Italia ogni giorno, ogni ora, ogni istante della sua
vita, come abilmente suggerisce non tanto la sua rievocazione attraverso i
flashback, quanto l’immagine, di maestosa bellezza poetica, di Italia seduta
al centro del suo orizzonte visivo, nonostante la pioggia scrosciante tenti,
ancora una volta, di separarli.
“Non ti muovere”, si sarebbe tentati di dirle…

25 marzo 2004

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