Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
TIZIANO.
La Venere di Urbino è un dipinto ad olio su tela, conservato alla Galleria degli Uffizi a Firenze, di cm 119 x 165
realizzato nel 1538 dal pittore italiano Tiziano Vecellio. In esso vi è
rappresentata una giovane donna nuda, identificata con la dea Venere,
sdraiata su un divano o un letto nell'ambiente sontuoso rinascimentale.
La posa della figura è basata sulla Venere dormiente di Giorgione
(1510 circa); tuttavia la Venere del Tiziano è caratterizzata da una
maggiore sensibilità rispetto all'indifferenza di quella giorgioniana.
Priva com'è di qualsiasi decorazione classica o allegorica (la Venere
non presenta nessuno degli attributi della dea che dovrebbe
rappresentare), il dipinto è senza scuse erotico. La schiettezza
dell'espressione della Venere viene spesso sottolineata; fissa in modo
deciso l'osservatore, noncurante della sua nudità. Nella sua mano destra tiene un piccolo mazzo di fiori, mentre con la
sinistra si copre la vulva, provocatoriomente posta al centro della composizione. Sul primo sfondo un cane è
addormentato; l'immagine di un cane solitamente simboleggia la fedeltà e il fatto che sia addormentato suggerisce che
la donna raffigurata sia infedele. Il dipinto fu commissionato da Guidobaldo II della Rovere, Duca di Urbino.
Inizialmente avrebbe dovuto decorare un cassone nuziale. Le fantesche sullo sfondo vengono rappresentate mentre
frugano in un cassone simile, apparentemente in cerca dei vestiti della Venere. Curiosamente, dato il suo manifesto
contenuto erotico, il dipinto era inteso come modello educativo per Giulia Varano, la moglie estremamente giovane del
duca. La discussione per il didattismo del dipinto fu intrapresa dalla storica d'arte Rona Goffen nel libro “Sex, Space,
and Social History in Titian’s Venus of Urbino" ("Sesso, Spazio, e Storia Sociale nella Venere di Urbino di Tiziano")
del 1997. In A Tramp Abroad del 1880, Mark Twain definì la Venere di Urbino "il quadro più indecente, il più vile, il
più osceno che il mondo possiede". Egli propose che "venne dipinta per un bagnio (bagno) e che probabilmente venne
respinta poiché era una sciocchezza troppo forte", aggiungendo umoristicamente che "in verità, è una sciocchezza
troppo forte per qualsiasi posto se non per una galleria d'arte pubblica". La Venere di Urbino ispirò la più recente
Olympia di Édouard Manet, nella quale la figura della Venere venne sostituita da una prostituta. Quest'opera d'arte fu
d'ispirazione per il personaggio di Fiammetta Bianchini nel libro "La Cortigiana" ("In the Company of the Courtesan")
del 2006 di Sarah Dunant. È citata anche nel racconto Naked Nude di Bernard Malamud, in cui il personaggio
principale viene ricattato a eseguire un falso del dipinto. Tiziano in questo quadro fece buon uso dell'innovazione e
della prospettiva, che presenta un punto di fuga verso destra, che è sottolineata dalle fantesche e dai toni sempre più
freddi, che fanno risaltare la donna, posta su una linea obliqua. Il colore chiaro e caldo del corpo della Venere la risalta
ulteriormente, ponendola in contrasto con lo sfondo e con i cuscini scuri.
Ecco ad esempio quattro letture differenti date da quattro studiosi del XX secolo su quest'opera:
Edgard Wind sostenne che la Tempesta sia un grande collage dove la figura maschile rappresenterebbe un soldato,
simbolo di forza, mentre la figura femminile andrebbe letta come la carità, dato che, nella tradizione romana, la carità
era rappresentata da una donna che allatta. Forza e carità che devono convivere con i rovesci della natura (il fulmine);
Gustav Friedrich Hartlaub ipotizzò invece che l'opera potesse avere significati alchemici (trasformazione del vile
metallo in oro) per la presenza dei quattro elementi: terra, fuoco, acqua e aria; Maurizio Calvesi pensò ad un'unione tra
cielo e terra di un scrittore neoplatonico; mentre Salvatore Settis ritiene che le figure si possano interpretare come
Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Paradiso. Le due figure, anche se possono essere interpretate simbolicamente, sono
secondarie analizzando più attentamente il titolo dell opera. L'ipotesi è che la scena si svolga di notte, al buio, ed il
Giorgione abbia cercato di rappresentala alla luce d'un lampo. Questo spiegherebbe anche l'insolito volgersi delle
ombre, oltre a riconfermare la weltanschauung Giorgiana del "carpe diem".
DAVID MICHELANGELO.
Il soggetto del David, fortemente radicato nella tradizione figurativa fiorentina, venne rielaborato evitando gli schemi
compositivi consolidati, scegliendo di rappresentare il momento di concentrazione prima della battaglia. I muscoli del
corpo sono poderosi ma ancora a riposo, tuttavia capaci di trasmettere il senso di una straordinaria potenza fisica[3].
L'espressione accigliata e lo sguardo penetrante rivelano la forte concentrazione mentale,
manifestando quindi la potenza intellettuale che va a sommarsi a quella fisica. L'eroe biblico è
rappresentato nel momento in cui si appresta ad affrontare Golia, il gigante filisteo; nella mano
destra, infatti, stringe il sasso con il quale sconfiggerà il nemico da lì a poco. Lo sguardo fiero e
concentrato è rivolto al nemico, con le sopracciglia aggrottate, le narici dilatate e una leggera
smorfia sulle labbra che forse tradisce un sentimento di disprezzo verso Golia. Nella
realizzazione degli occhi Michelangelo perfezionò la tecnica di perforare le pupille affinché
potessero evitare la luce e creare un gioco di ombre che rende gli occhi molto più penetranti. Per
evitare di porre il peso della statua sulla parte sinistra del blocco, più debole, Michelangelo
appoggiò tutto il peso sulla gamba destra, rafforzata da un piccolo tronco che ha una funzione
essenzialmente statica. La posa è quella tipica del contrapposto, che, tramandata anche nel
medioevo, derivava dal canone di Policleto. Il corpo atletico, al culmine della forza giovanile, si
manifesta tramite un accuratissimo studio dei particolari anatomici, dalla torsione del collo attraversato da una vena e
alla struttura dei tendini, dalle venature su mani e piedi, alla tensione muscolare delle gambe, fino alla perfetta
muscolatura del torso. Per dare maggiore espressività e risalto Michelangelo ingrandì leggermente la testa e le mani,
nodi cruciali, perfezionati armonicamente con la veduta privilegiata dal basso. Questo effetto si è attenuato in seguito al
suo trasferimento nel museo dove la statua è stata collocata su un piedistallo più basso di 63 centimetri. In queste
variazioni di proporzionamento si possono leggere anche motivazioni di carattere filosofico: la testa rappresenta la
ragione, quindi il mezzo che permette all'uomo di pensare e di distinguersi dalle bestie; le mani sono invece lo
strumento di cui la ragione si serve per operare. La forza del David non proviene dalla fede religiosa in Dio, come altre
versioni artistiche dell'eroe, gracile e quasi femmineo, sembrano avallare: la sua forza è assolutamente autogenerata ed
autosufficiente. Tra i riferimenti a statue precedenti gli storici colsero analogia coi Dioscuri di Montecavallo[14], con le
rappresentazioni di Ercole su sarcofagi romani o sul pulpito del Battistero di Pisa di Nicola Pisano[15]; per quanto
riguarda l'opera michelangiolesca, precedenti legati al trattamento della capigliatura e all'espressione concentrata e fiera
sono ravvisabili, sebbene in piccolo, nel San Procolo dell'Arca di San Domenico a Bologna o nel San Paolo dell'Altare
Piccolomini a Siena.
DAVID BERNINI.
Il David di Gian Lorenzo Bernini (marmo, 170 cm Roma, Galleria Borghese) che riprende il mito biblico di Davide e
Golia - il quale vede Davide (David) affrontare il gigante Golia armato di una fionda (altri scultori lo raffigurano con
una spada) - è stato scolpito tra il 1623 e il 1624, dopo che l'opera fu commissionata all'artista dal cardinale Scipione
Borghese. Bernini, seguendo gli schemi del barocco, raffigura il David un momento prima che quest'ultimo scagli la
pietra che ucciderà il gigante Golia, cogliendolo in una torsione e in una espressione di sforzo con una massima
tensione fisica ed emotiva. A differenza della visione rinascimentale (anche Donatello,
Verrocchio e Michelangelo rappresentano il David), la visione barocca del Bernini è elaborata nel
movimento, coglie tutte le espressioni corporee che manifestano lo sforzo riportando anche il
minimo particolare, in una posa sinuosa e plastica. Il viso del David sembra essere un autoritratto
del Bernini stesso alle prese con la durezza del marmo. Da notare, la fronte corrugata e gli occhi
rivolti verso il bersaglio, le labbra rientrate a testimonianza del grande sforzo effettuato nello
scatto e i capelli ondulati (o ricci) che riportano nuovamente alla rappresentazione del movimento.
Ai piedi del David vi è la corazza (secondo il mito prestata dal re Saul), lasciata cadere perché
troppo pesante, sotto alla quale è possibile scorgere una testa d'aquila (innestata nell'arpa che
David suonerà dopo la vittoria) in riferimento alla casa Borghese. Bernini ha volutamente
rappresentato il David in modo da dare la possibilità allo spettatore di osservarlo da tre diverse
angolazioni, dalle quali è possibile cogliere altrettanti diversi aspetti della scultura e del suo movimento.
L'Apollo e Dafne è un gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini eseguito tra il 1622 e il 1625 e si trova nella Galleria
Borghese a Roma. Era ospitato nella stessa stanza dell'Enea e Anchise seguendo il progetto ambizioso di Scipione
Borghese di dare forma moderna ai miti del passato antico, offrendo l'opportunità ad uno
scultore dalle doti eccezionali come Bernini di confrontarsi con la letteratura e con la
rappresentazione del difficile tema della metamorfosi. Il soggetto del gruppo è tratto dalle
Metamorfosi di Ovidio, testo diffusissimo nel XVI secolo, soprattutto tramite stampe e
fonte d'ispirazione per artisti e poeti che amavano rappresentare e cimentarsi nei temi delle
trasformazioni, la storia era stata il soggetto di un libretto del Rinuccini musicato da Jacopo
Peri nel 1598. Nel testo di Ovidio, Apollo si era vantato di saper usare come nessun altro
l'arco e le frecce, per la sua presunzione Cupido lo punisce colpendolo e facendolo
innamorare della bella ninfa Dafne, la quale però aveva consacrato la sua vita a Diana e alla
caccia. L'amore di Apollo è irrefrenabile, Dafne chiede aiuto al padre Penéo, dio dei fiumi,
il quale per impedire ai due di congiungersi la trasforma in un albero, il lauro, che da quel
momento diventerà sacro per Apollo, questo è in breve l'episodio che Bernini rappresenta
fedelmente proprio nel momento della trasformazione della ninfa in pianta. La scena è
spettacolare e terribile al tempo stesso. Rincorsa da Apollo Dafne si protende in avanti, la
sua metamorfosi si compie ed è visibile nelle mani che prendono la forma di rami e di
foglie, i capelli e le gambe si trasformano in tronco e i piedi in radici; Apollo la guarda
incredulo, ma trattandosi di un Dio Apollineo rimane impassibile, invece lo sguardo della Ninfa è al contempo
sbigottito e pieno di terrore. Il confronto con il testo letterario e con il valore evocativo della parola scritta costringeva
Bernini ad inventare una figurazione inedita per creare un effetto di spettacolarità e verosimiglianza, una prova che
supera brillantemente. Il Mito ha naturalmente un risvolto moraleggiante, interpretabile anche in chiave cristiana, è per
questo motivo che poteva tranquillamente essere esposto nella casa di un cardinale, l'interpretazione allegorica, non è
particolarmente difficile, ma per comprenderlo meglio si possono usare le parole del distico di Maffeo Barberini scritto
per essere esposto sul basamento: "Il Piacer doppo il quale corriamo o non si giunge mai, o quando si giunga ci riesce
amaro nel gustarlo" Nell'ottica cristiana il significato è quello della difesa della virtù della donna che sfugge alle insidie
del piacere fino alle estreme conseguenze e la delusione amara per l'amante che ha inseguito un piacere effimero. La
drammaticità dell'episodio mitologico è però ingentilito dalla grazia ellenistica, quello della Galleria Borghese è infatti
ispirato all'Apollo del Belvedere dei Musei Vaticani del IV secolo e anche al contemporaneo Atalanta e Ippomene di
Guido Reni del Capodimonte a Napoli dove i personaggi sono Bloccati nel momento culminante e drammatico ma
sempre con una grazia formale e una posa elegante assolutamente calibrata. L'immagine ha una sua sequenza temporale,
si percepisce il movimento, la provenienza dei protagonisti e nel caso di Dafne, il suo aspetto prima e dopo l'attimo
raffigurato, ma aveva anche una sequenza che l'artista con una soluzione da regista teatrale aveva previsto per
l'osservatore, che entrando nella stanza dal lato sinistro, incontrava con lo sguardo prima Apollo, notandone il
movimento, poi ponendosi frontalmente veniva posto davanti allo spettacolo raccapricciante della trasformazione con
tutti i suoi particolari. Infine scorrendo verso destra scorgeva le espressioni drammatiche dei due "attori", completando
la sua immersione nella storia. Il principio dell'ut pictura poesis era rispettato pienamente. L'arte di Bernini sapeva
accontentare in pieno i gusti dei committenti che da lui si aspettavano quell'invenzione e quello scatto di genio che
potesse dar corpo alle loro attese, in questo caso creare delle forme che, nate da un contesto letterario mantenevano,
anzi, amplificavano il valore evocativo della parola. La spettacolarità dell'immagine tramite i molti particolari
verosimili come la carne che si trasforma in legno o le dita che prendono la forma di sottilissime foglie, è uno dei
principi di base dell'estetica Barocca. Il significato morale cristiano venne dato a questo gruppo marmoreo di tema
pagano ed erotico, dallo stesso committente, che dettò il seguente distico latino "Quisquis amans sequitur fugitivae
gaudia formae/ fronde manus implet, baccas seu carpit amaras" (ogni amante che insegua i piaceri della bellezza
fuggente/ afferra con le mani la fronda, o meglio gusta bacche amare).
Con il nome di Camera della badessa o La camera di San Paolo si indica un locale di piccole dimensioni facente parte
dell'ex Monastero di San Paolo a Parma, celebre per essere stato affrescato nel secondo decennio del Cinquecento dal
pittore emiliano Correggio, in un maturo stile rinascimentale. L'affresco misura cm 697 x 645 e fu realizzato tra il 1519
e il 1520. Fu commissionato dalla badessa del monastero Giovanna da Piacenza. L'intero ciclo pittorico è legato
tematicamente al mito di Diana. La camera faceva originariamente parte di un complesso di sei ambienti, ridotti oggi a
due, che costituiva l'appartamento personale della badessa Giovanna da Piacenza. Quest'ultima, donna di vastissima
cultura e di notevole apertura d'orizzonti, attraverso scelte che, visto il suo ruolo e visto il periodo storico, possono a
ragione ritenersi singolari, decise di abbellire tutti gli interni degli ambienti a lei assegnati, trasformandoli in un trionfo
dell'espressione artistica che in quegli anni giungeva a piena maturazione. In un primo momento, ella chiamò
Alessandro Araldi a dipingere il soffitto e le pareti della stanza adiacente a quella discussa in questa sede. Araldi ideò
un articolato disegno di grottesche monocrome su sfondo blu, mentre alle pareti dipinse delle scenografie classiche.
Altrove tali scelte stilistiche non avrebbero colpito l'attenzione in modo particolare, ma dal momento che qui, invece,
venivano a trovarsi all'interno di un edificio con funzioni strettamente religiose, ancora più riservato di una chiesa,
ovverosia un monastero, esse prendevano un valore e un significato molto diverso. Per lo stesso motivo risultarono,
oltre che stupende, profondamente significative, le pitture che Correggio realizzò
nella camera successiva, quella oggi nota come propria della badessa. In realtà,
proprio basandosi su alcuni particolari delle pitture, è probabile che l'ambiente non
fosse destinato a camera personale, ma a sala da pranzo, dove la badessa,
vivacissima intellettualmente, organizzava pranzi e cene con personaggi di rilievo.
Correggio ideò per la stanza una decorazione pittorica ispirata ad un pergolato, che
con una raggiera di canne di bambù ripercorreva le linee portanti della muratura del
soffitto. Tra esse, dipinse una folta vegetazione, con festoni di frutta, forata
sistematicamente al centro, in modo da far spuntare dalle aperture puttini giocosi.
Subito sotto questi spicchi di verde, una cornice di lunette, che corre su tutti i lati
della stanza e per tutta la loro lunghezza, fu dedicata a pitture mitologiche monocrome, di altissima qualità, come d'altra
parte l'intero insieme. Sulla cappa del camino, infine, Correggio dipinse la dea Artemide, la latina Diana, su un cocchio
tirato da cavalli (esclusi dal dipinto ad eccezione di alcune zampe) ed armata di arco e frecce. Questa figura è, in fondo,
l'unica ad avere una connessione con la committente, cioè la badessa Giovanna, poiché, essendo la prima divina e
vergine e la seconda casta per ecclesiastica necessità, il collegamento tra le due figure risulta ideale. Ancora sotto le
lunette, Correggio si espresse in un armonico ed elegante insieme di particolari, oggettuali ed animali: dipinse una serie
di teli di lino tenuti lievemente tesi dalle bocche di alcuni arieti, dei quali raffigurò le sole teste. Quindi, riempì ognuno
di questi teli con stoviglie da pranzo, dimostrando una grande abilità tecnica cromatica e prospettica. Questi sono i
particolari che lasciano supporre l'uso della sala di cui sopra. Sull'architrave del camino si trova incisa una frase latina:
IGNEM GLADIO NE FODIAS, ovverosia NON DISTURBARE LA FIAMMA CON LA SPADA. L'insieme degli
affreschi dell'ex monastero di San Paolo ha un enorme valore che va al di là del pregio esecutivo e della bellezza del
lavoro; è infatti la testimonianza di un'ampia diffusione e assimilazione di concetti e cultura classica da parte di una
fetta di società dell'epoca, che non corrispondeva necessariamente ai gruppi di studiosi intellettuali. Giovanna da
Piacenza era senz'altro una intellettuale, ma era soprattutto, in primo luogo, una badessa, ed il suo spiccato e prepotente
interesse per un tipo di arte che rielaborava originalmente i gusti, i contenuti e i personaggi classici, preferendo questi ai
consueti soggetti religiosi, più idonei ad un convento, non poteva che distinguersi nel panorama dell'epoca.
La Camera degli Sposi, chiamata nelle cronache antiche Camera picta ("camera dipinta"), è una stanza collocata nel
torrione nord-est del Castello di San Giorgio di Mantova. È celebre per il ciclo di affreschi che ricopre le sue pareti,
capolavoro di Andrea Mantegna, realizzato tra il 1465 e il 1474. Mantegna studiò una decorazione ad affresco che
investisse tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi ai limiti architettonici
dell'ambiente, ma al tempo stesso sfondando illusionisticamente le pareti con la
pittura, come se lo spazio fosse dilatato ben oltre i limiti fisici della stanza. Il tema
generale è una celebrazione politico-dinastica dell'intera famiglia Gonzaga, con
l'occasione dell'elezione a cardinale di Francesco Gonzaga. Nella stanza pressoché
cubica (8,05 m circa di lato, con due finestre, due porte e un camino), Mantegna
studiò una decorazione che investiva tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi
ai limiti architettonici dell'ambiente, ma al tempo stesso sfondando
illusionisticamente le pareti con la pittura, come se ci si trovasse al centro di un
loggiato o di un padiglione aperto verso l'esterno[6]. Motivo di raccordo tra le scene
sulle pareti è il finto zoccolo marmoreo che gira tutt'intorno nella fascia inferiore, sul
quale poggiano i pilastri che suddividono le scene in tre aperture. La volta è
affrescata suggerendo una forma sferoidale e presenta centralmente un oculo, da cui si sporgono personaggi e animali
stagliati sul cielo azzurro. Attorno all'oculo alcuni costoloni dipinti dividono lo spazio in losanghe e pennacchi. I
costoloni vanno a terminare in finti capitelli, a loro volta poggianti sui reali peducci delle volte, gli unici elementi a
rilievo di tutta la decorazione, assieme alle cornici delle porte e al camino. Ciascun peduccio (esclusi solo quelli in
angolo) appoggia in corrispondenza di uno dei pilastri dipinti[7]. Il registro superiore delle pareti è occupato da dodici
lunette, decorate da festoni e imprese dei Gonzaga. Alla base delle lunette, tra peduccio e peduccio, corrono
figuratamente le aste che fanno da cursore ai tendaggi, che sono raffigurati come scostati per permettere la visione delle
scene principali[8]. Questi drappi, che realmente coprivano i muri delle stanze del castello[9], simulano il broccato o il
cuoio impresso a oro e foderato d'azzurro, e sono abbassati sulle pareti sud ed est, mentre sono aperti sulla parete nord
(la Corte) e ovest (l'Incontro)[10]. Il tema generale è la celebrazione politico-dinastica dell'intera famiglia Gonzaga,
anche se decenni di studi non sono riusciti a chiarire univocamente un'interpretazione accettata da tutti gli studiosi[11].
Probabilmente l'ideazione del complesso programma iconografico richiese varie consulenze, tra cui sicuramente quella
del marchese stesso. Numerosissimi sono i ritratti, estremamente curati nella fisionomia e, talvolta, nella psicologia.
Sebbene un'identificazione certa di ognuno di essi è impossibile a causa della mancanza di testimonianze, taluni sono
tra le opere più intense di Mantegna in questo genere.
La volta è composta da un soffitto ribassato, che è illusionisticamente diviso in vele e pennacchi dipinti. Alcuni finti
costoloni dividono lo spazio in figure regolari, con sfondo dorato e pitture a monocromo. L'abile articolarsi degli
elementi architettonici dipinti simulano una volta profonda, quasi sferica, che in realtà è una leggera curva di tipo
"unghiato". Al centro si trova il famoso oculo, il brano più stupefacente dell'intero ciclo, dove sono portati alle estreme
conseguenze gli esperimenti illusionistici della Cappella Ovetari di Padova. Si tratta di un tondo aperto
illusionisticamente verso il cielo, che doveva ricordare il celebre oculo del Pantheon, il monumento antico per
eccellenza celebrato dagli umanisti. Nell'oculo, scorciati secondo la prospettiva da "sott'in su", si vede una balaustra
dalla quale si sporgono una dama di corte, accompagnata dalla serva di colore, un gruppo di domestiche, una dozzina di
putti, un pavone (riferimento agli animali esotici presenti a corte, piuttosto che simbolo cristologico) e un vaso, sullo
sfondo di un cielo azzurro. Per rafforzare l'impressione dell'oculo aperto, Mantegna dipinse alcuni putti pericolosamente
in bilico aggrappati al lato interno della cornice, con vertiginosi scorci dei corpicini paffuti: uno è anche raffigurato
mentre fa pipì. La varietà delle pose è estremamente ricca, improntata ad una totale libertà di movimento dei corpi nello
spazio: alcuni putti arrivano a infilare il capo negli anelli della balaustra, oppure sono visibili solo da una manina che
spunta. Se non è chiara l'eventuale identificazione delle fanciulle con personaggi reali gravitanti attorno alla corte
gonzaghesca (un volto muliebre è acconciato come la marchesa Barbara), esse sono colte in atteggiamenti diversi (una
addirittura ha in mano un pettine) e le loro espressioni giocose sembrano suggerire la preparazione di uno scherzo, un
episodio tratto dalla quotidianità nel solco della lezione di Donatello. Il pesante vaso di agrumi è infatti appoggiato a un
bastone e le ragazze attorno, con volti sorridenti e complici, sembrano in procinto di farlo cadere nella stanza. Nella
nuvola vicino al vaso si trova nascosto un profilo umano, probabile autoritratto dell'artista abilmente
mascherato[12].L'oculo è racchiuso da una ghirlanda circolare, a sua volta racchiusa in un quadrato di finti costoloni,
che sono dipinti con un motivo intrecciato che ricorda le palmette dei bassorilievi all'antica. Nei punti di incontro tra si
trovano medaglioni dorati. Attorno al quadrato sono disposte otto losanghe con sfondo dorato, ciascuna contenente una
ghirlanda circolare che racchiude un ritratto di uno dei primi otto imperatori romani, dipinto a grisaglia, sorretto da un
putto e circondato da nastri svolazzanti. Tale rappresentazione suggella la concezione fortemente antiquaria dell'intero
ambiente[13]. I cesari sono ritratti in senso antiorario con il nome entro il medaglione
(dove conservato) e le loro pose sono variate per evitare uno schematismo.
CARAVAGGIO.
BACCHINO MALATO
CANESTRO DI FRUTTA
Martirio di San Matteo è un dipinto ad olio su tela di cm 323 x 343 realizzato tra il 1600 ed il 1601 dal pittore italiano
Caravaggio.È conservato nella Cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Dalla radiografia
sappiamo che Caravaggio compose tre diverse versioni del quadro: nella prima, una composizione più classica e con il
fondo chiuso dalla mole di un tempio, ricordo della Maniera, al centro si trovava un soldato che irrompeva nella scena
coprendo quasi San Matteo. Tra l'altro pare che il soldato avesse la stessa posa dell'angelo del Riposo durante la fuga in
Egitto. Nella seconda versione i gesti dei personaggi acquistavano maggior vigore. Nella terza versione, invece,
Caravaggio ambienta la scena in uno spazio profondo, con al centro il martirio del santo, riverso a terra, con ai lati una
corona di astanti che fuggono inorriditi. La scena è rappresentata all'interno di una struttura architettonica che ricorda
quella di una chiesa (ciò si deduce dalla presenza di un altare con la croce e di un fonte battesimale) e quindi si
atterrebbe alla Legenda Aurea per cui S. Matteo sarebbe stato assassinato dopo una messa. I personaggi sono stati
disposti su una sorta di piattaforma inclinata, alla maniera teatrale, che ha l'effetto di
avvicinarli allo spettatore e aumentare il pathos della raffigurazione. Al centro del
quadro vi è San Matteo che giace a terra dopo essere stato colpito dal suo carnefice, il
personaggio seminudo (probabilmente il falso neofita) che gli blocca il braccio; il
corpo di quest'ultimo è tornito, a ricordo dell'Adamo della Sistina di Michelangelo.
La posizione delle braccia di San Matteo, aperte, richiama la croce, tuttavia egli non
è illuminato totalmente quanto lo è il carnefice, perché egli è già in Grazia Divina. Il
vero protagonista-peccatore è dunque il sicario, è su di lui che deve agire la luce
salvifica di Dio. In alto a destra un angelo di ispirazione tardo-manierista,
elegantissimo e raffinato anche nella postura sinuosa, si sporge da una nuvola per
tendere a San Matteo la palma del martirio. Attorno, in tutto lo spazio figurativo disponibile, Caravaggio inserisce i
fedeli presenti alla messa: due personaggi di fronte, uno volto in avanti e l'altro presentato con uno scorcio ardito, un
bimbo che scappa, altri uomini scomposti in gesti e posture dalle quali traspare tutto l'orrore e la tensione per essere
testimoni di una scena simile. È da notare un autoritratto di Caravaggio in fondo a sinistra, nel personaggio che osserva.
Come spesso è accaduto anche in quest'opera, nella quale Caravaggio decide di rappresentare il martirio del santo come
se si trattasse di un assassinio brutale lungo una strada, vi è la testimonianza della sua inventiva per l'aver trasferito un
episodio della storia sacra nella vita di ogni giorno, per conferire realtà, veridicità e una forte componente emotiva.
Vocazione di san Matteo è un dipinto ad olio su tela di cm 322 x 340 realizzato nel 1599 dal pittore italiano
Michelangelo Merisi detto Caravaggio È conservato alla Cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi a
Roma. Il dipinto è realizzato su due piani paralleli, quello più alto vuoto, occupato solo dalla finestra, mentre quello in
basso raffigura il momento preciso in cui Cristo indicando san Matteo lo chiama all'apostolato. Il santo è seduto ad un
tavolo con un gruppo di persone, vestite come i contemporanei del Caravaggio, come in una scena da osteria. È la prima
grande tela nella quale Caravaggio, per accentuare la tensione drammatica dell'immagine e focalizzare sul gruppo dei
protagonisti l'attenzione di chi guarda, ricorre all'espediente di immergere la scena in una fitta penombra tagliata da
squarci di luce bianca, che fa emergere visi, mani (per evidenziare e guidare lo sguardo dello spettatore sull'intenso
dialogo di gesti ed espressioni) o parti dell'abbigliamento e rende quasi invisibile tutto il resto. La tela, inoltre, è densa
di significati allegorici. In primo luogo proprio la luce, grande protagonista della raffigurazione pittorica, assurge a
simbolo della Grazia divina (non a caso non proviene dalla finestra dipinta in alto a destra che, anzi, resta del tutto priva
di luminosità, ma dalle spalle di Cristo), Grazia che investe tutti gli uomini pur lasciandoli liberi di aderire o meno al
Mistero della Rivelazione; non bisogna dimenticare, poi, che la chiesa di S.
Luigi rappresentava la nazione francese, e l'allora Re di Francia, Enrico IV, s'era
appena convertito al Cattolicesimo, scegliendo così la Salvezza. E così, solo
alcuni dei personaggi investiti dalla luce (i destinatari della "vocazione" insieme
a Matteo il Pubblicano) volgono lo sguardo verso Gesù, mentre gli altri
preferiscono restare a capo chino, distratti dalle proprie solite occupazioni.
Forse non è casuale che uno dei compagni di Matteo porti gli occhiali, quasi che
fosse accecato dal denaro. La luce inoltre ha la funzione di dare direzione di
lettura alla scena, che va da destra a sinistra e torna indietro quando incontra
l'umanissima espressione sbigottita ed il gesto di San Matteo che punta il dito
contro se stesso al fine di ricevere una conferma, come se chiedesse a Cristo e a
San Pietro "State chiamando proprio me?". L'opera prende vita, movimento
dalla luce ed i personaggi si muovono sulla tela come attori su un palco grazie ad essa. Il fatto, poi, che essi siano vestiti
alla moda dell'epoca del Pittore ed abbiano il viso di modelli scelti tra la gente comune e raffigurati senza alcuna
idealizzazione, con il realismo esasperato che ha sempre caratterizzato l'opera di Caravaggio, trasmette la percezione
dell'artista dell'attualità della scena (il quale vuole comunicarci che la chiamata di Dio è universale e senza precisa
collocazione nel tempo: ognuno di noi sarà chiamato), la sua intima partecipazione all'evento raffigurato, mentre su un
piano altro, totalmente metastorico, si pongono giustamente il Cristo e lo stesso Pietro, avvolti in una tunica senza
tempo. La gestualità dei personaggi dipinti dal Caravaggio (già di sicuro visti dal pittore nell'Ultima cena di Leonardo
Da Vinci) danno un movimento e un coinvolgimento dei personaggi unico nel suo genere e fanno notare come il Merisi
sia stato un frequentatore di locande dei "bassi fondi" romani del periodo e sia stato in grado di riprodurre
atteggiamenti, espressioni e azioni (come nelle Scene di Genere da lui dipinte) di sicuro appresi da esso nella sua vita.
Tale partecipazione viene espressa in modo ancor più efficace, se possibile, nell'altra tela di grandi dimensioni,
raffigurante il Martirio del Santo, nella quale da una colonna sulla sinistra sbuca timido e pregno di compassione, volto
che non è altro se non l'autoritratto di Caravaggio stesso, che pare riaffermare la propria personale partecipazione
all'evento narrato. Di grande intensità e valenza simbolica, nella Vocazione, è il dialogo dei gesti che si svolge tra
Cristo, Pietro e Matteo. Il gesto di Cristo (che altro non è che l'immagine speculare della mano protesa nella
famosissima scena della Creazione di Adamo – Cristo è il "nuovo Adamo"! – della Cappella Sistina michelangiolesca,
che Caravaggio avrà certo avuto modo di studiare ed apprezzare) viene ripetuto da Pietro, simbolo della Chiesa
Cattolica Romana che media tra il mondo divino e quello umano (siamo in periodo di Controriforma) ed a sua volta
ripetuto da Matteo. È la rappresentazione simbolica della Salvezza, che passa attraverso la ripetizione dei gesti istituiti
da Cristo (i sacramenti) e ribaditi, nel tempo, dalla Chiesa. Grazie alla radiografia, sappiamo che nella prima versione,
non era presente la figura di San Pietro, aggiunta successivamente. Questa è una delle
prime pitture sacre, esposte al pubblico, in cui compaiono notazioni realistiche.
Morte della Vergine è un dipinto ad olio su tela di cm 369 x 245 realizzato nel 1604
dal pittore italiano Caravaggio. È conservato al Musée du Louvre di Parigi. Il dipinto
fu commissionato per decorare la sua cappella privata della famiglia Lelmi, nella
chiesa di Santa Maria della Scala a Roma. Il quadro fu però prontamente rifiutato,
perché la Madonna non rispettava la sua iconografia classica: era anzi priva di
qualsiasi tributo mistico, con la faccia terrea, un braccio abbandonato e il ventre
gonfio. Addirittura si dice che Caravaggio scelse una prostituta trovata morta vicino a
un fiume, per ritrarre la Vergine. Molto scandalo, in particolare, fecero i piedi ritratti
nudi fino alla caviglia. La scena è inserita in un ambiente umile con al centro il corpo
morto della Vergine, in primo piano la Maddalena, seduta su una semplice sedia, che
piange con la testa tra le mani, intorno gli Apostoli addolorati, l'intonazione cromatica
molto scura è illuminata dal rosso della veste della morta e della tenda, elemento di una scenografia povera. Stupenda
inoltre, oltre all'illuminazione, è la composizione: gli apostoli, allineati davanti al feretro, formano, in linea col corpo e
col braccio di Maria, una croce perfetta. Per comprendere il quadro dobbiamo tener presente che Caravaggio era vicino
alle posizioni pauperistiche di molti movimenti religiosi contemporanei, come gli Oratorini o il Cardinale Federico
Borromeo, il quale predicava l'assoluta povertà del clero, e viveva egli stesso in una casa molto misera, avente appena
una Bibbia e le mobilia necessarie, e a cui rassomiglia molto l'ambientazione del quadro; le sue varianti iconografiche
vennero realizzate tenendo presenti le esigenze devozionali di questi movimenti: la Vergine è ritratta come una giovane,
perché rappresente allegoricamente la Chiesa immortale, mentre il ventre gonfio, rappresenta la grazia divina di cui è
"gravida". Da quest'ultimo particolare, ritenuto sconveniente dai più, nacque la leggenda che vuole l'artista essersi
ispirato ad una prostituta annegata nel Tevere. Il rifiuto di questo capolavoro e, di lì a poco, l'omicidio di Ranuccio
Tommasoni in una rissa, costringeranno Caravaggio a lasciare Roma. L'opera venne poi acquistata dal Duca di
Mantova, su segnalazione di Rubens.
Riposo durante la fuga in Egitto è un dipinto ad olio su tela di cm 135,5 x 166,5 realizzato tra il 1595 ed il 1596 dal
pittore italiano Caravaggio. È conservato alla Galleria Doria Pamphilij di
Roma. Non si conosce il committente del dipinto, ma vista l'importanza data
al tema della musica, si è ipotizzato l'ambiente degli Oratoriani di San
Filippo Neri. Molti inserti di natura morta sono dipinti con l'abilità tipica di
Caravaggio, e dimostrano l'assimilazione della cultura pittorica lombarda e
veneta. In particolare, alcuni musicologi hanno decifrato lo spartito, e
v'hanno riconosciuto un mottetto del musicista fiammingo Noel Bauldewijn,
basato sul testo del Cantico dei Cantici, ove lo sposo e la sposa sono
identificati con Giuseppe e Maria, ed il cui testo recita: "Io dormo, ma il mio
cuore veglia" (ovvio riferimento al sonno di Maria).Tutta la scena è
permeata dalla pace e dalla serenità di un meritato riposo, pienamente
intuibili grazie all'azzeccata scelta dei colori caldi, che cantano una vera e
propria ninnananna. Di notevole bellezza è la postura dell'angelo musicista, che sembra dividere la scena in due parti
distinte: a sinistra la vita attiva (Giuseppe che regge lo spartito), a destra la vita contemplativa (il sonno della Vergine e
del Bambino). Mirabile è anche il piccolo paesaggio sullo sfondo a destra, unicum nella pittura caravaggesca insieme a
quello del Sacrificio di Isacco.