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Sfoglio, a volte, gli album con le foto del tempo già vissuto.

Ad aprirli ci vuole la frazione di secondo, ma poi è come entrare nella macchina del
tempo e volerci rimanere.
Guardo le immagini e mi arrivano pensieri, come una musica con parole a lungo
sedimentate che continuano a parlare di cambiamento. Una canzone.

Il tempo cambia molte cose nella vita


il senso le amicizie le opinioni
che voglia di cambiare che c'è in me
si sente il bisogno di una propria evoluzione
sganciata dalle regole comuni
da questa falsa personalità.

L’effetto è quello di guardarsi allo specchio in modo diverso e riconoscersi in


quell’immagine, o forma, ritrovando se stessi come si è dentro, e non come qualcosa
da esporre agli altri.
Una nostra comune immagine riflessa (dove, come diceva un vecchio film, non c’è
mai la verità perché quel che è destra è sinistra e quel che è sinistra è destra) non
sempre ci appaga.
Invece, se scrutassimo nello specchio degli occhi dell’animo, io credo che quello che
vediamo potrebbe piacerci.
No, non si tratta di rimpianti o nostalgia.
Si tratta di voler bene ciò che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati.
Per questo non cerco mai nessun surrogato del paradiso, per questo non voglio
dimenticare nulla.
Il tempo, è vero, cancella e cambia molte cose, ma solo ciò che non abbiamo davvero
vissuto a cuore aperto, mentre ci fa anche amare di più tutto ciò che, come naufraghi
senza tempesta, vogliamo ostinatamente portare con noi.
Guardo, adesso, immagini scattare negli anni
settanta, lo stesso periodo in cui sono nate le
mie figlie, tuttavia io le vedo e sento simili a
quelle della mia infanzia; mi convinco che non
sarebbero troppo diverse e penso che sarebbe
bello se in tanti si cominciasse ad aprire i nostri
cassetti per mettere in circolazione tutte le
vecchie foto riposte tra ricordi e sentimenti.

Ci sono stati anni in cui tutto cambiava e il


modo progrediva velocemente, ma il fondo
dell’animo delle persone conservava un
patrimonio di memorie e cultura, sentimenti e
tradizioni.
Ci sono stati anni in cui non siamo stati anime
invase e sopraffatte o indifferenti.
In quegli anni lo specchio era un oggetto ma era anche vanitas e un ragazzino si
vestiva e metteva in ordine perché e come le mamme volevano fosse in ordine, e non
come lo voleva la nike o un'altra marca qualsiasi e televisivamente permeante.
E certamente non ci si vestiva o metteva in ordine per videizzarsi col telefonino.
No, ripeto: Non si tratta di rimpianti o nostalgia.
Si tratta di amare quello che siamo e, in buona coscienza, ciò che siamo stati e siamo
rimasti senza tradimenti.
Si tratta di lasciar parlare immagini da cui c’è ancora tanto da imparare su noi stessi.
E’ con questo stato d’animo che mi sono ritrovata a guardar quelle ed altre immagini
e ho chiesto di conoscere le storie che racchiudevano. Alcune me le hanno raccontate.

Un racconto o una narrazione sono come un filo che si svolge meticolosamente da un


gomitolo ben ordinato per diventare trama e tessuto artigianale o una maglia lavorata
punto per punto.
Ognuno ha una mano diversa e il tessuto o la maglia che sto costruendo io non potrà
essere uguale ad un’altra.
Ma in questo modo abbiamo già spezzato, senza rumore e definitivamente, un anello
della catena dell’omologazione che ci ha portato dal mondo del sentimento e della
ragione a quello della vanitas e del vuoto, che prima rifuggivamo.
La storia che mi racconta, ad esempio da Giuseppe Comitini, insegnante, è uno di
quei fili di gomitolo che diventa una narrazione o tessuto. Sarà uguale e diversa? Non
nella sostanza.

Parla di Ettore, undici anni, che partecipa, nel dicembre del 1976, un dicembre
palermitano mite, commenta il suo insegnante. alla Corsa delle tre contrade
organizzata dalla Scuola Sportiva DEPA di Palermo.
Nella foto, bellissima, si vedono tre ragazzini ed Ettore è il più alto. Ha un fisico
asciutto e non sorride, ha i capelli un po’ arruffati e sembra affannato a differenza dei
suoi compagni che sembrano tranquilli pur se presi dalla situazione.
Il filo del gomitolo si dipana, e l’insegnante, perché questa storia dobbiamo narrarla
insieme, mi racconta.

“Ettore è nato in una famiglia che per tradizione ha lavorato con gli animali. Negli
anni sessanta e settanta in seguito alla grande cementificazione del nostro quartiere
che si estende dalle falde del Monte Pellegrino sino al mare, molti dei gruppi
familiari che vivevano di allevamento del bestiame, continuarono questo lavoro non
più in zone adibite a pascolo ma in stalla. Ettore ha aiutato la famiglia in questa
fase. Lo ha fatto abbeverando le mucche, dando loro il fieno ed altri vegetali,
aiutando il padre a trasportare l'erba raccolta alle pendici del monte, pulendo la
stalla, distribuendo il latte munto presso le famiglie che lo richiedevano.”

Dunque quel bambino quindi frequenta la scuola elementare e segue le lezioni; per lui
sedersi al banco è come tirare un sospiro di sollievo e riposare il corpo per dare aria
alla mente.

“Nei periodi scolastici Ettore doveva svolgere parte di questi lavori durante la
giornata, cercando di seguire anche le lezioni e di fare anche i compiti.”
Ettore cresceva sano e robusto e, come è naturale che sia, provava un po’ d'invidia
per gli altri ragazzini che non avevano di queste incombenze di lavoro.”

Afferro quel filo e vedo Ettore correre verso la scuola sportiva e materializzarsi al
fianco dei suoi insegnanti. Lo vedo sbrigarsi a finire con il bestiame, incombenza
faticosa e che richiede accuratezza e precisione, per non perdere la possibilità di far
parte di un gruppo e di seguire i suoi maestri.
Per lui questi contatti sono ossigeno ed entrare nel campetto per presentarsi ai maestri
è come spiccare finalmente il volo.
Parallelamente penso che ragionare sulla sua condizione di bambino che aiuta la
famiglia nel lavoro quotidiano e forse lasciarsi andare a giudizi anacronistici e
moralistici parlando di lavoro minorile non abbia, oggi, nessun senso. La nostra
presunzione moralista, dopotutto, si ferma sulla soglia di casa nostra e comunque
lasciamo che il mondo vada come va.
La condizione della vita quotidiana di Ettore era quella e non per scelta o
accanimento, ma per ragioni storiche che dobbiamo accettare come tali.
L’infanzia di oggi appare più tutelata ed ha garanzie formalmente diverse. Ma sulla
probabilità che sia realmente più felice e fiduciosa sul senso dell’esistenza o che
cresca genericamente meglio, abbiamo semplicemente staccato il tagliando di una
scommessa che è tutta da verificare.
Ora capisco quell’aria spettinata e lo sguardo che interroga e non dà nulla per
scontato.
Ogni attimo di scuola che per gli altri è un impegno per lui è invece un premio.

“Alla DEPA “ mi dice ancora l’insegnante, “assieme alle attività proprie dei corsi
della Scuola Sportiva abbiamo proposto gare di corsa, meeting di atletica leggera,
tornei di calcio, etc con la partecipazione aperta a tutti i ragazzini del quartiere.
Ettore, grazie a queste attività che hanno avuto sempre una valenza educativa, ha
trovato l'ambito dove essere alla pari con gli altri ragazzini. Nei suoi periodi "liberi"
ce lo ritrovavamo accanto sempre pronto ad accogliere il nostro assenso ad
includersi nelle attività dei corsi.”

Mi spiego anche le spalle e del ragazzo, nella foto leggermente curve, come se stesse
per assumere la posizione di partenza e al tempo stesso si rilassasse in attesa
dell’impegno di una competizione attesa e anelata. Mi spiego lo sguardo consapevole,
da adulto.
Le parole del suo insegnante documentano i fatti.
“Ettore quando ha partecipato alla gara aveva 11 anni e frequentava la quinta
elementare. La distanza della corsa era di circa 2 Km ed Ettore si è classificato tra i
primi. Il percorso della gara lo abbiamo modificato per farla passare davanti la
stalla di Ettore.

Lui aspetta dunque solo il via per lasciar correre gambe e cuore, per slanciarsi a
perdifiato gareggiando lungo le strade delle tre contrade, per confrontarsi con i
compagni e magari accelerare al massimo negli istanti in cui passa davanti alla stalla
della famiglia orgogliosa della sua partecipazione.
Un passero, con il cuore grande, da uomo.
Dopo la corsa tornerà a casa felice e continuerà il lavoro, finirà i compiti e si
preparerà al riposo con la mente rivolta al suo domani che, lui spera, sarà diverso da
quello di tutti gli altri.

Segnali di vita nei cortili


e nelle case all'imbrunire
…..
“Inutile dire che noi insegnanti della DEPA tifavamo in modo un po’ velato per la
vittoria di Ettore.”
Tifiamo anche noi, seppure a distanza perché ora il tempo si è annullato e negli occhi
di tutti c’è solo il numero 34 sulla maglia di Ettore, quel ragazzino asciutto che
“dialogava con gli sguardi, con il sorriso maturo e intelligente, con la sua presenza
sempre composta e che esprimeva fiducia, dialogava con la sua ricca e forte
motricità”.
La mattina della Corsa delle tre contrade Ettore svegliandosi non poteva sapere che
dopo tanti anni si sarebbe ancora parlato della sua partecipazione alla gara. Ma anche
se lo avesse saputo avrebbe probabilmente scrollato le spalle e pensato solo che si
doveva sbrigare il più possibile per anticipare il lavoro.
Ettore, un nome di famiglia, ma anche dell’eroe omerico che rappresenta insieme il
mito della pietas famigliare e del coraggio ardito; Ettore 11 anni e tanti sogni a lui
stesso indistinti.
Ma l’impresa lo attende e non c’era tempo per pensare perchè uno dei suoi sogni è
ora a portata di mano.
Dunque si alza dal letto alla svelta peressere puntuale, alle nove nsieme agli altri
ragazzi. Si veste: scarpe, calzoni lunghi, una maglietta su cui era già stato attaccato
quel numero che è solo suo.
Non era tempo di divise quello, né di maglie con lo sponsor o di marche con grandi
firme: per tutti bastava la solita semplice maglietta e la determinazione ad esserci. I
ragazzi di quegli anni sono ancora solo ragazzi, simili a quelli della via Pál.

Non posso impedirmi di pensare ad una qualsiasi corsa di ragazzini oggi: denari e
tempo da spendere per scegliere il look, la famiglia mobilitata, una colazione da
campione del mondo in trasferta di lusso, le videocamere e telefonini in azione,
parenti disposti lungo il percorso (in alcuni casi predisposti alla competizione o ad un
tifo esagerato essi stessi).
E poi? Poi nulla, si spengono le luci e molti non si chiedono

“ti accorgi di come vola bassa la mia mente?


E colpa dei pensieri associativi
se non riesco a stare adesso qui.”

Corri dunque Ettore!


Siamo stati, e vogliamo ancora essere, simili a te; non certo migliori.
Corri ancora Ettore perché la tua corsa è passione per la vita e le nostre anime non
temeranno di specchiarsi nel vuoto.

(Fine anni cinquanta, ero ragazzina, e giocavo a campana o correvo dietro a un


palla. Ma prima di poter andare a giocare dovevo lavare i piatti e fare tutti i compiti.
Appena era possibile scendevo subito sotto casa dove si giocava tutti all’Iliade.
Sì perchè in prima media si studiava Omero, e nei cortili e nei campi della periferia
della città dove vivevo allora noi passavamo i pomeriggi formando bande di Achei e
Troiani. Io ero un guerriero acheo e avrei voluto essere Achille, ma quel ruolo
spettava a Sergio, un ragazzino che si era procurato uno scudo di cartone (fatto con
un piatto di quelli su cui appoggiare le torte di pasticceria) con relativa spada.
Battaglie, scontri, duelli: corse e sassate. Il ruolo di Ettore era, ovviamente, di un
ragazzino della banda opposta. Oggi vorrei essere nella sua.)

Segnali di vita nel cortile


e negli spazi all’imbrunire
le luci fanno ricordare
le meccaniche celesti.
fine

Ringrazio il Prof. Giuseppe Comitini che mi ha raccontato la storia di Ettore, e la Scuola Sportiva
DEPA di Palermo a cui appartiene la fotografia.

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