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GIUGNO 2010 METRORACCONTO # 6

L’ULTIMO ATTO
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Apro gli occhi e mi guardo intorno, non capisco dove sono. Non è il mio letto,
non è casa mia. Mi alzo per andare in direzione della luce che viene da sotto la
porta. La apro e nel toccarla mi accorgo che è tutta sudata, deve avere fatto un
brutto sogno penso. La guardo per cercare di carpire qualcosa dal suo sguardo
ma lei rimane lì immobile, blindata... non ha segni di violenza, le mie carezze
non sono sufficienti, provo a preparare un decotto di olio cotto, di solito
funziona, è che glielo dico sempre di non stare al sole dopo le 11 e fino alle 17,
ma lei no, è testarda come un rovere e vanitosa come un carpino, riprovo a
parlarci, cerco di farla uscire dal suo g-uscio, ma non c'è verso, anzi sì, cambio
verso, torno dentro e mi pare già un’altra.
Resto con i piedi nudi in quella lama di luce. So che, se uscirò dai confini e
calpesterò l'ombra, qualcosa di buio arriverà a ghermirmi.
Aspetto un attimo che gli occhi si riabituino alle tenebre ma il buio rimane nero
e fitto. Che fare? Forse dovrei tornare a tentoni a letto e rimettermi sotto le
coperte per dormire. Ma mi faccio coraggio, scivolo sul muro e cerco
l'interruttore. Spero solo sia all'altezza giusta. Eccolo! Click... click...
clickclickclick!!! Porca merda è saltata la luce. Ma solo nella stanza in cui mi
trovo a quanto pare.
Oltre la soglia il bagliore si fa sempre più forte e intenso. Buio dentro, luce fuori.
Spingo la porta ma a quel punto mi risulta impossibile capire cosa c’è oltre,
troppa luce artificiale. Indietreggio verso il centro dell’enorme stanza in cui mi
trovo. E’ come se non riuscissi ad uscirne. Aveva ragione il buon vecchio
Aureliano che dovevo insistere con gli esercizi perché mi vedeva ottimamente
predisposto: avrei potuto attraversare la parete e penetrare nella casa vicina.
Invece resto lì, in quella camera da letto che non mi appartiene. La porta è
spalancata ma la luce adesso è così forte che non riesco a vedere cosa ci sia
d’altro.
Camminando a piedi nudi sento il pavimento freddo e piacevole sotto di me,
man mano che mi avvicino aumentano i rumori provenienti da fuori, sembrano
grida, sono parole, ma il sonno ancora pesante che mi ha portato via da me
stesso non mi permette di capire chiaramente cosa sia.

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Un passo ed un altro ancora. Copro con la mano destra gli occhi, cercando
riparo da quella luce sempre più forte che non mi permette di vedere, intanto
riesco a capire cosa sentono le mie orecchie.
Una voce mi chiama.
O forse è solo una mia impressione.
Sembra più un brusio crescente di parole e pensieri e sorrisi di gente che sta
oltre la soglia.
Grida.
Mi danno conforto. Capisco di non essere solo e quasi sorrido.
- La volete spegnere 'sta luce! – sento urlare.
- Chi è lo stronzo che ha lasciato la finestra del corridoio spalancata? – dice
qualcun altro.
Affascinato dal mondo che sembra esserci lì dietro, sempre con la mano sugli
occhi, mi lascio rapire dalla luce e dalle voci. Non ho paura. Non ho fretta.
Resto confuso. Non so nemmeno che ore siano e non riesco a capire se sia
giorno o notte.
Finalmente oltrepasso la porta e mi ritrovo sul palcoscenico di un teatro senza
mura immerso nel cielo azzurro, dove sta andando in scena la
rappresentazione della mia vita. Le voci sono quelle del pubblico che,
nonostante la confusione e la particolarità del luogo, segue con attenzione.
Mi accorgo di essere morto. Dinanzi a me una infinita distesa di nuvolette
bianche inondate da una luce calda, intensa. Su di esse, uomini e donne, vestiti
di bianco, si muovono leggeri.
E’ il mio teatro, sono i miei ricordi.
Tranquillità, serenità. Vinco l’iniziale paura e dico a me stesso: “si sta bene qui,
si sta veramente bene.” Mi guardo intorno e vedo una grande folla su una
nuvoletta poco distante. Curioso, decido di avvicinarmi.
Lei era lì, nuda, distesa sul divano, una sigaretta tra le dita di una mano
penzoloni. Sbuffava cerchietti di fumo canticchiando una canzone degli anni
’50. Il mio primo amore. Rivivo la prima volta, quando la immaginavo a
profumarsi con due gocce di Chanel n. 5, dubbiosa se infilare o meno quella
sua camicia da notte di seta color carne che l’avrebbe coperta in modo
elegante ed avrebbe esaltato le sue forme. In fondo sapeva già la fine che
avrebbe fatto, quanti secondi appena sarebbe rimasta su a far parte della

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rappresentazione. Sì, l’avrebbe messa, certo, è un elemento importante nel


gioco delle parti e nella seduzione. Chissà cosa lei immaginava e quanto era
studiata tutta quella attesa. Nessun sogno ad occhi aperti poteva
immaginarsela così bella.
Le scene della mia vita si susseguono rapidamente su quel parquet di nuvole. Il
protagonista resto io.
Vedo la mia vita, altro che spiragli di luce, solo risvegli bui come il sonno privo
di bei sogni, solo il risvegliarsi di giorni uguali ai precedenti. Stordito da una vita
che si fa carico di mille altre, nella vana speranza di raddrizzare queste senza
badare alla propria. Strana mattina a risvegliarsi egoista, alcune cose in questo
modo di fare potrebbero anche darmi soddisfazione, ma poi al momento del
sonno, tutto questo mi porterebbe all'insonnia.
Continuo a vagare per questa sorta di paradiso. I miei occhi si sono abituati alla
luce. Il pubblico osserva, chi qua chi là, le scene più significative del mio
passato. Mi muovo tra i vari ambienti del grande teatro.
Vedendo tutti quei me sparsi che recitano i momenti salienti dei miei anni
vissuti, finirò per perdere quel po' di identità che mi resta.
Al di là di un’altra porta socchiusa mi sembra di sentire due voci femminili che si
assomigliano in maniera inquietante. Cercando di non far rumore mi avvicino
alla porta e provo a spiare: nel soggiorno, illuminato da due faretti paralleli, ci
sono due gemelle che si fronteggiano a muso duro. Non riesco a capire il senso
di quello che dicono, ma non ci avrei fatto caso comunque, attirato da quella
nuova stanza calda, accogliente, con i muri dipinti di giallo e quattro grandi
finestre che lasciano intuire la presenza di un bel giardino curato.
Nel mezzo una tavola apparecchiata finemente, la colazione pronta. Mi siedo e
il cuscino della sedia mi accoglie come un abbraccio. Aspiro il profumo del
caffè, prendo una tazza bianca, la giro: Limonge. Lo sapevo, pensai, si
riconoscono lontano un miglio. Verso il caffè, due cucchiai di zucchero che giro
con un cucchiaino che si scalda all'istante, rivelando così la lega preziosa che
lo compone.

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Mi sento vivo. Eppure so che non è così. Non ricordo più come mi chiamo. E
cazzo, mi sembra di essere nel racconto di aprile di quella rivista di
fantascienza che ho letto fino a ieri. Almeno credo fosse ieri.
Bevo il caffè ma la mente si allontana sempre più dal corpo. Forse mi trovo in
quella fase di transizione immediatamente successiva alla morte descritta in
tanti libri, in cui i ricordi, i deliri e la fantasia vanno pian piano sovrapponendosi
fino ad annullarsi e cancellare la mia essenza.
Cerco di mantenermi lucido con l’ironia che da sempre mi contraddistingue.
Poggio i gomiti sulla tavola e la testa sembra girarmi sulle mani unite.
Mi accorgo che c'è un alieno che guarda nel frigo. Il mondo al di là solitamente
conservato potrebbe ora venir contaminato, tutto sbagliato, tutto sprecato ed
io… ho pagato! I mostri batterici aeriformi condurranno verso la marcescenza
ogni cosa su cui poseranno il loro fetido alito e noi, noi dovremo trovare un’altra
maniera di nutrirci, poiché quella è ormai andata, dimenticata, persa.
“E dai caro, smetti di fissare il frigorifero aperto, ti ho già chiesto scusa, lo so
che la porta va spinta bene altrimenti non si chiude, ma non l’ho fatto apposta…
non essere afflitto, non ti arrabbiare.”
Mi volto e vedo lei venire verso di me con la colazione mentre mi chiede di
tornare a letto, anche se l'orologio sulla parete segna mezzogiorno passato. Lei
la ricordo: conosciuta per caso, c'è stata subito attrazione. Ma non era
attrazione. Era colmare un vuoto reciproco, lasciatoci ad entrambi da due
stronzi. Sì… quella era l'unica cosa che sapevamo di entrambi: il vuoto, il vuoto
profondo che due esseri umani ci avevano lasciato di punto in bianco, con i
soliti motivi banali e scontati.
Un altro flash della mia vita. Molto recente stavolta. Fuori avverto ancora il
mormorio della gente ben vestita che guarda gli ultimi miei ricordi. Dalla finestra
della stanza in cui mi trovo vedo che le nuvolette vanno pian piano diradandosi
e che le rappresentazioni diminuiscono. Che mi stia avvicinando all’ultimo atto?
Vorrei vedere gli sceneggiatori di questo finale legati ad una sedia, imbavagliati
e col viso tumefatto, tenuti sotto tiro da uno squilibrato vestito come John Locke
e armato fino ai denti.
Vorrei fiamme in tutta la stanza. Così, solo per aver esagerato col flambé.

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Vorrei tornare bambino e ridere con mia madre quando, giocando prima di farmi
dormire, mi raccontava di quello strano mostro che si nascondeva al di là della
porta e dalla luce numerosi tentacoli erano pronti a catturarmi per succhiare il
mio cervello.
“Oh! … ma che spavento!” – terminava sempre così la storia, con una risata
argentina e incontrollabile di uno scricciolo che saltava e saltellava, incerto sulle
zampette infagottate nella tutina per la notte. Ah, quanto mi manca mia madre!
Ma sto per raggiungerla.
Mi alzo dalla sedia e vado verso il corridoio. I rumori fuori sono quasi cessati.
Non vedo più le nuvole. Il palcoscenico fantastico si sta dissolvendo. Anche la
luce è meno accecante di prima.
Scendo le scale per andare al piano di sotto e lì tutte le luci sono accese. Devo
essere proprio rincoglionito perché sento un rumore provenire dal bagno, mi
affaccio e vedo Gesù che, scocciato, mi chiede di richiudere la porta invocando
il rispetto della privacy. Sta leggendo un libro con il mio nome sulla copertina. Il
mio nome, quello che fino a quel momento non ricordavo.
Mi giro e trovo la camera da letto da cui tutto questo è cominciato.
Vedo me stesso rannicchiato nel mio letto di bambino. Mi riconosco dai capelli
biondi sparsi sul cuscino. Dal respiro profondo e regolare ed il viso piccino di
me stesso profondamente addormentato. Ed io, oggi, di che materia sono
fatto? Guardo le stesse mani che accanto a me sono piccine, e poi le mie dalle
dita lunghe e nervose. Mi avvicino a me bambino e con un soffio di vento bacio
me che dormo. Ti prometto che ti vorrò bene, che avrò rispetto della tua vita e
della tua gioia.
La mia prima vita è finita ma quella nuova è già iniziata.

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SI RINGRAZIANO (in ordine di apparizione)

Fracatz che beato lui riesce a passare attraverso i muri senza sbattere il muso;
Patè d’animo e il suo flambé esagerato; Kitkat e la sua sensualità anni ’50;
nic e le sue due lei a confronto; laura canta che sa voler bene al suo passato
di bambina; l’Anonimo con i piedi nella lama di luce e il buio in agguato;
Fruttacandita e le sue eleganti tazze di Limonge; la saliva del flauto che
farebbe bene a prenotare un ombrellone per la stagione; Gians che speriamo
non si svegli mai egoista; sblog che ora questa luce gliela spegniamo; Ubi,
trasversale nei racconti dei diversi mesi; Mau e le strane sorprese notturne in
cucina; Ilanio, i suoi bizzarri pensieri nel buio e le sue zampe viscide nel buio;
Fiorettolo e i suoi sogni ad occhi aperti profumati di Chanel; Fiorettolo di
nuovo con i suoi orrendi mostri batterici aeriformi; e sempre Fiorettolo con i
suoi mostri succhia cervello; chiaramt a piedi nudi sul pavimento fresco a
osservare la sé stessa di un tempo; Breddy e il suo scappare dalle nuvolette
dell’inferno; essere disgustoso* e i suoi bagni affollati di personaggi illustri (ma
chiudere a chiave no?); Emix e il suo desiderio di torturare gli sceneggiatori di
Lost; disicurorido e la sua fortuna di avere uno sconosciuto che le porta la
colazione a letto (e chi se ne importa chi è?!); Alberto e il suo ingresso in
palcoscenico; Arci che chissà se ha trovato quello stronzo; pupottina che si fa
fregare il frigo dagli alieni; Aly e quel noto modo di riempire i vuoti lasciati dagli
altri.
Ma sopra tutti, un ringraziamento speciale a Topper, prestigiatore dei nostri
sogni più strani, dei nostri ricordi, delle nostre paure.

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