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ANASTASIO Bibliotecario, antipapa

Enciclopedia dei Papi (2000)

di Girolamo Arnaldi
Anastasio Bibliotecario, antipapa
Trascorse a Roma la prima giovinezza (Epistolae, p. 440, 7-9) e sua lingua materna fu
certamente il latino (ibid., pp. 423, 11-12 e 426, 6-8), non il greco. Per la data di nascita
ci si muove fra l'800 e l'817 e, riducendo la forbice, fra l'800 e l'812 (cfr. E. Perels, pp.
186-88).
A. era imparentato con Arsenio, vescovo di Orte, che, se non fu addirittura suo padre,
come attesta indirettamente Incmaro, arcivescovo di Reims (Annales de Saint-Bertin, a
cura di F. Grat-J. Vieilliard-S. Clmencet-L. Levillain, Paris 1964, p. 144), fu suo zio da
parte di madre ("avunculus"), come afferma chiaramente egli stesso in una lettera ad
Adone di Vienne (Epistolae, p. 401, 17-8). Il manoscritto che ce l'ha conservata
presenta per a questo punto il margine destro eroso (B.A.V., Reg. lat. 566, c. 63), ci
che ha consentito di presupporre una lacuna, che si tentato variamente di integrare.
Ma da un esame del manoscritto risulta che, almeno fino alla dodicesima riga, si
riscontra ancora solo la presenza di parole incomplete, non l'assenza di intere parole
cadute, mentre la riga che ci interessa l'ottava. Qualche difficolt presenta anche
un'ipotesi conciliativa che stata avanzata per recuperare la testimonianza di Incmaro,
pur tenendo fermo a ci che asserisce Anastasio.
Molto presto (Epistolae, p. 440, 7-9), A. si procur quella padronanza del greco che,
eccezionale allora per Roma e, in genere, per l'Occidente, rest sempre il suo principale
titolo d'onore (cfr. Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, p. 222) e fu
cagione essenziale dei suoi successi, rendendo le sue prestazioni nel "palatium
Lateranense" praticamente insostituibili, attraverso tre pontificati (Niccol I, Adriano II,
Giovanni VIII). L'esistenza in Roma di chiese e monasteri greci, che ospitavano i
numerosi profughi (soprattutto monaci) che avevano abbandonato le loro sedi in seguito
alla contesa iconoclastica, pi che sufficiente a spiegare come A. abbia avuto
occasione di acquistare familiarit con la lingua e la cultura bizantine. Quanto alla
caratterizzazione dei Greci, cui A. ha creduto di poter pervenire, stato osservato come

i difetti che egli afferma essere loro connaturali (in particolare, l'eccessiva furberia e una
certa inclinazione alla frode: cfr. Epistolae, p. 415, 6-11, 19-21) sono proprio gli stessi
che di solito vengono rinfacciati anche a lui (E. Perels, p. 194).
Da papa Leone IV, probabilmente nell'847 (al pi tardi nell'848), A. fu creato cardinale
prete del titolo di S. Marcello. Ma, pochi mesi dopo la nomina, il neocardinale,
all'insaputa del pontefice, abbandon Roma e la chiesa che gli era stata affidata. La
tenacia con cui, da allora in poi, Leone IV ha perseguitato A., fa pensare che,
improvvisamente, per qualche motivo che non si conosce, sia intervenuta fra i due una
rottura, che si subito cristallizza- ta in una irriducibile avversione di carattere
personale. L'unico vero indizio di cui si dispone sono due accenni di Leone alle
ambizioni nutrite da Anastasio. Il primo nel decreto del concilio tenuto a Roma il 19
giugno 853: "omnes, qui ei sive in electione, quod absit, aut pontificatus honore
adiutorium prestare vel solatium quodcumque voluerint, simili anathemate subiaceant"
(cfr. M.G.H., Concilia, III, 1984, p. 299, 11-13); l'altro nella lettera che il papa indirizz
ad A., nell'estate dello stesso anno, per invitarlo a presentarsi innanzi a un concilio
convocato per il 15 novembre: "salutis [...] incedere summopere callem procura, te ne
vana spes decipiat caduceque adulationes subvertant" (ibid., p. 333, 29-30). La
possibilit che A., almeno nei primi tempi dopo la fuga, abbia avuto contatti con
ambienti filo-imperiali (cfr. A. Laptre, De Anastasio, p. 300) non impedisce che Lotario
e Ludovico abbiano accolto la richiesta del papa di assisterlo nei suoi affannosi tentativi
di mettere le mani sul fuggiasco e che abbiano anche manifestato il loro assenso alle
varie sentenze di condanna. Anche se non da pensare che A. fosse il capo del partito
"imperiale" a Roma, avverso a Leone IV perch eletto papa senza il beneplacito
dell'imperatore, certo che egli ambiva al pontificato e che, per raggiungere il suo
scopo, avrebbe cercato appoggi anzitutto in quella direzione; e Leone, che tent con
tutte le sue forze di sbarrargliene la strada anche per il futuro, fece appunto in modo
che Lotario e Ludovico prendessero pubblicamente posizione contro di lui (cfr. E.
Perels, pp. 201-02 e T. Hirschfeld, Das Gerichtswesen der Stadt Rom vom 8. bis 12.
Jahrhundert

wesentlich

nach

stadtrmischen

Urkundenforschung", 4, 1912, pp. 426 s.).

Urkunden,

"Archiv

fr

Nei cinque anni successivi alla fuga da Roma, A. abit in varie localit della diocesi
di Aquileia (cfr. M.G.H., Concilia, III, p. 332, 1-2); nella primavera dell'853 era a Chiusi
(ibid., 31-32). Dopo due inviti a comparire in giudizio, rimasti senza risposta, A. venne
scomunicato da un concilio tenutosi a Roma il 16 dicembre 850 (ibid., pp. 230 s.).
A Ravenna, in S. Vitale, il 29 maggio 853, e a Roma, in S. Pietro, il 19 giugno seguente,
fu decretata e ribadita una pi severa condanna ("sit ille a sanctis patribus et a nobis
anathema"), automaticamente estensibile - come si visto - a coloro i quali avessero
osato appoggiarlo nella realizzazione dei suoi progetti (ibid., pp. 298 s.). Nel corso
dell'estate, Leone si rivolse direttamente ad A., intimandogli di presentarsi il 15
novembre (la lettera indirizzata "Anastasio presbitero excommunicato"; cfr. ibid., pp.
333, 24-334, 8). Ma anche questa intimazione rest senza esito. Il concilio si tenne l'8
dicembre, in S. Pietro, alla presenza dei legati imperiali: A. fu deposto dall'ufficio
sacerdotale, senza possibilit di esservi mai pi restituito (ibid., pp. 331-39; Le Liber
pontificalis, II, p. 129).
Alla morte di Leone IV (17 luglio 855), il clero romano unanime ed in perfetto accordo
con la nobilt ed il popolo, si affrett ad eleggere papa il cardinale di S.
Callisto, Benedetto. Ma la consacrazione dell'eletto pot avere luogo solo il 29
settembre, dopo che fu fallito il tentativo di contrapporgli un antipapa nella persona di
Anastasio.
La Vita di Benedetto III nel Liber pontificalis (II, pp. 141-44) d un resoconto degli
avvenimenti che, se non si segnala per obiettivit e serenit di giudizio, ha per il merito
di essere esteso e denso di particolari: l'inizio della congiura si ebbe a Gubbio, quando
Arsenio convinse i legati Niccol, vescovo di Anagni, e il "magister militum" Mercurio,
che erano partiti da Roma per recare all'imperatore il decreto d'elezione, a non serbare
fedelt all'eletto, e ad eleggere, al suo posto, A.; l'iniziativa si concret poi ad Orte, dove
convennero intorno ad A. i legati mandati nel frattempo dall'imperatore e quanti, a
Roma, primo fra tutti Radoaldo, vescovo di Porto, si erano lasciati trascinare dall'abile
propaganda svolta dal vescovo Niccol e dal suo compagno, dopo il loro rientro dalla
missione presso Ludovico II; da questo momento saranno i legati imperiali a guidare
l'impresa. La marcia di avvicinamento a Roma; l'imprigionamento dei legati spediti

incontro ai sopravvenienti da Benedetto III, quando si fu reso conto di ci che si stava


preparando; l'assalto a S. Pietro, dove A. ebbe cura di distruggere le pitture che Leone
IV aveva fatto fare sulle porte, a ricordo del sinodo dell'853, e che recavano in riassunto
le sentenze di condanna pronunciate contro il contumace cardinale di S. Marcello;
l'entrata in citt e l'irruzione a mano armata nel patriarchio lateranense ("saeculari
potentia multisque telorum generibus", ibid., p. 142; per "saeculari potentia", cfr. anche
Annales de Saint-Bertin, p. 148); la deposizione di Benedetto III e l'intronizzazione di A.:
tutto avvenne in modo da fare impallidire il ricordo dell'incursione saracena dell'846 (cfr.
Le Liber pontificalis, II, p. 142). Ma l'uso della violenza non ebbe la virt di generare fra i
Romani i consensi necessari al consolidamento del successo; il clero, nell'insieme,
tenne fermo alla propria scelta iniziale, e la cittadinanza si schier compatta dietro di
esso. D'altra parte, ai legati manc la decisione che si sarebbe richiesta per insistere
con la forza, se pure, come osserva il Perels (p. 206), non fu questa forza stessa che, a
un certo punto, si rivel insufficiente. La partita era perduta: il 29 settembre, Benedetto
III, reintegrato nella sua dignit, fu consacrato alla presenza dei legati imperiali. A. era
stato papa in Roma per soli tre giorni (21-24 settembre 855).
L'appoggio che i legati imperiali avevano dato al tentativo di Arsenio e di A. sort, per,
l'effetto di indurre i vincitori alla moderazione nei riguardi di quanti avevano avuto parte
nella congiura. Benedetto III non ispir certo la propria condotta all'accanimento del suo
predecessore. Nel frattempo, le persistenti ambizioni di A. erano assurte ad ingrediente
di un disegno politico in cui era impegnato il prestigio dell'imperatore e, forse proprio in
considerazione di ci, la sua condanna non solo non venne aggravata, ma fu anzi
alleggerita: Benedetto riammise il cardinale di S. Marcello alla comunione dei laici
(M.G.H., Concilia, IV, 1998, p. 317, 20-23). Il nuovo papa provvide per a far restaurare
in S. Pietro le pitture che raffiguravano il sinodo dell'853 (Annales de Saint-Bertin, p.
148).
Gli eventi del luglio-settembre 855 hanno segnato una specie di svolta nella vita di
Anastasio. Tanto che, per un equivoco, che ebbe probabilmente un'origine casuale, ma
che certo si afferm e perdur in quanto conveniva all'intento apologetico (da parte
cattolica) di distinguere con nettezza la fisionomia dell'A., "bibliothecarius sedis

apostolicae", servitore fedele di tre papi (J. Mabillon, Annales 0.S.B., III, Lutetiae Paris
1706, p. 35; v. anche l'epigrafe elogiativa che gli fu dedicata in S. Maria in Trastevere,
nel 1869) ed avversario intransigente di Fozio, dall'A. cardinale di S. Marcello, deposto
da Leone IV, antipapa sotto Benedetto III, che - come si vedr - fu riammesso al
sacerdozio e poi, nuovamente, deposto da Adriano II; si ritenne a lungo che l'A.
cardinale e l'A. bibliotecario fossero due persone diverse. Alla fine dell'Ottocento,
un'enciclopedia protestante di storia ecclesiastica recava ancora due voci distinte,
dedicate

rispettivamente

ad

"A.,

Gegenpapst"

ad

"A.

Bibliothecarius"

(Realencyklopdie fr protestantische Theologie und Kirche, I, Leipzig 1896, pp. 489 s.


e 492 s.). Ma gi J. Hergenrther (pp. 230-40) e pi estesamente Laptre (De
Anastasio, pp. 8-32) avevano dimostrato l'identit esistente fra i due personaggi con
una tale ricchezza di argomenti che il Perels (pp. 317-22), venuto dopo di loro, non
trover gran che da aggiungere.
Eppure, prevenendo, si direbbe, le perplessit dei suoi biografi, A. stesso d notizia di
un suo deciso mutamento d'indirizzo. Nella dedica a Niccol I della traduzione dal greco
della biografia di Giovanni l'Elemosiniere, A. confessa di essersi reso conto che, in
passato, aveva troppo presunto delle sue forze, di essersi quindi domandato a che cosa
di utile poteva attendere nella casa del Signore una volta che avesse rinunciato a
perseguire obiettivi sproporzionati alle proprie capacit ed alla propria condizione, e di
aver fatto buona accoglienza, in questo stato d'animo, all'invito, che gli veniva rivolto, di
intraprendere la traduzione della vita del patriarca di Alessandria (Epistolae, p. 396, 2530; cfr. G. Laehr, pp. 417 s.: la lettera-prefazione a Niccol I va collocata negli anni 858862). Anche se ci sono molti punti di contatto fra il nuovo A. e quello che si conosciuto
fin qui, ed il tono complessivo della lettera a Niccol troppo insinuante ed adulatorio
perch si possano prendere sul serio i propositi che vi trovano espressi all'inizio, certo
che, dopo l'855, A. deve avere capito che la conoscenza del greco gli avrebbe aperta la
via del reinserimento e della riabilitazione, salvo a rivelarsi col tempo un'arma da porre
al servizio delle proprie antiche ambizioni. L'accesso al pontificato gli era ormai del tutto
precluso, ma il potere, cui egli ambiva, e che il colpo di mano dell'855 non era stato in
grado di assicurargli, lo avrebbe avuto lo stesso, anche se rimanendo nell'ombra.

Lentamente, ma con progressi costanti, A. ottenne che la sentenza dell'853 fosse


mutata: Niccol I promise di restituirlo al sacerdozio, a patto che si mantenesse fedele
alla Chiesa (cfr. M.G.H., Concilia, IV, p. 317, 24-25), e Adriano II, il giorno stesso in cui
fu consacrato pontefice, adempir la promessa del suo predecessore (Le Liber
pontificalis, II, p. 175). Frattanto, forse gi ai tempi di Benedetto III, ma certamente con
Niccol I, A. aveva ottenuto la dignit abbaziale nel monastero di S. Maria in Trastevere
(Epistolae, p. 399, 7-8): non una fuga dal mondo, bens la soluzione con cui (come era
accaduto anche in altri casi) si provvedeva ad assicurare la sussistenza di un
ecclesiastico rimosso dal suo ufficio.
Nelle more di questa graduale riabilitazione, A. divenne il prezioso ed insostituibile
collaboratore di Niccol I. Per induzione, il punto di partenza delle sue fortune stato
segnato alla fine dell'861 o, pi verosimilmente, all'inizio dell'anno successivo (E.
Perels, pp. 215-17). Nel momento in cui, dopo il sinodo costantinopolitano del maggio
dell'861, la questione di Fozio entrava nella sua seconda fase, e Roma, rotti gli indugi
iniziali, si disponeva a passare alla controffensiva, ci si dovette accorgere che non era il
caso di lasciare A. nel suo monastero trasteverino alle prese con traduzioni di vite di
santi, quando invece la sua conoscenza del greco poteva essere utilmente impiegata
nella battaglia in corso.
Ma la prima sicura testimonianza sulla presenza di A. accanto a Niccol I dell'autunno
dell'863; ha la forma di una sdegnata protesta contro la fiducia accordata dal papa a un
presbitero ch'era stato scomunicato e deposto, e si riferisce a una vicenda in cui A.
aveva evidentemente avuto una parte di primo piano, bench in questo caso i rapporti
con l'Oriente greco non ci entrassero affatto. L'accenno ad A. contenuto nel capitolo
terzo del memoriale inviato a Niccol I dai vescovi lorenesi Guntero e Tilgaldo dopo la
loro condanna nel sinodo romano dell'863: "[...] assistente lateri tuo Anastasio, olim
presbytero ambitus damnato et deposito et anathematizato, cuius scelerato magisterio
tuus praecipitabatur furor" (M.G.H., Concilia, IV, p. 157, 14-18). In nemmeno due anni,
l'esperto di cose orientali aveva fatto la sua strada: senza ancora ricoprire alcuna
carica, A. svolgeva le funzioni di segretario particolare, segreto, di Niccol I, ed in tale

veste dava il suo consiglio e - soprattutto - aveva parte nella redazione delle lettere
papali (E. Perels, p. 243).
Nel novembre dell'867, proprio alla fine del pontificato di Niccol I, Incmaro arcivescovo
di Reims, volendo assicurare un efficiente appoggio sul posto al suo inviato, Attardo
di Nantes, che doveva trasmettere al papa gli atti del sinodo di Troyes (25 ottobre) e
prendere contatto con i dignitari del "palatium Lateranense", primo fra tutti Arsenio, si
rivolse personalmente ad A.; il quale, dato che Incmaro, nel luogo donde scriveva, non
disponeva di doni adeguati per il papa, per Arsenio e per lui stesso, veniva pregato di
accettare per l'intanto, "pro nostrae [di Incmaro] exiguitatis memoria", una pelliccia ed
un panno "coloribus vario" (cfr. Epistolae Karolini aevi tom. VI, in M.G.H., Epistolae, VIII,
1, a cura di E. Perels, 1939, pp. 223-25). Il vescovo di Nantes arriv a Roma quando
Niccol I era gi morto (Annales de Saint-Bertin, p. 140), ma anche col nuovo papa A.
non tralasci di esercitare la sua influenza nel senso desiderato da Incmaro, riuscendo
benissimo nell'intento (cfr. la lettera di Adriano II all'arcivescovo di Reims, 8 marzo 868,
in Epistolae Karolini aevi tom. IV, in M.G.H., Epistolae, VI, 2, a cura di E. Perels, 190225, pp. 710 s.; Incmaro scrisse ad A. una lettera di ringraziamento, accompagnandola
questa volta col dono di alcuni suoi opuscoli: cfr. il regesto della lettera in Flodoardus,
Historia ecclesiae Remensis, a cura di M. Stratmann, ibid., Scriptores, XXXVI, 1993, p.
323).
Con Adriano II, la situazione di A. si era infatti ancora rafforzata, se non altro nel senso
che aveva subito avuto un riconoscimento ufficiale. Riammesso al sacerdozio il giorno
della consacrazione di Adriano (14 dicembre 867), A. immediatamente dopo fu
nominato dal papa "bibliothecarius Romanae ecclesiae" (M.G.H., Concilia, IV, p. 317,
10-11), il funzionario che, oltre ad attendere al lavoro di cancelleria, era responsabile
della conservazione degli atti dei concili, dei registri delle lettere e, in genere, dei libri
che costituivano la biblioteca del papa. Nel protocollo della lettera in cui annunciava ad
Adone di Vienne la morte di Niccol e l'avvento di Adriano II, A. appare gi investito
della nuova carica (Epistolae, p. 400, 27), che, sia detto per inciso, era di norma
riservata ai vescovi. Il titolo di questa lettera riflette esattamente la posizione di A.
all'inizio dell'868: "Epistola reverendi Anestasii [sic] presbiteri et abbatis ac bibliothecarii

sacrae Romanae ecclesiae". Scrivendo ad Adone, A. si mostra preoccupato delle


intenzioni del papa circa le grosse questioni rimaste sul tappeto dopo la morte di
Niccol I: tutti i colpiti si preparavano a rialzare la testa e, "falso, ut credimus", si dice
che l'imperatore sia schierato con loro; di certo, si sa che l'animo di Adriano pende da
quello di Arsenio e che quest'ultimo ha dei motivi di risentimento verso il papa defunto.
In conclusione, A. invitava Adone a vegliare dalla periferia sul rispetto delle decisioni
adottate da Niccol I, prospettando tale esigenza come una questione di principio che
riguardava tutta la Chiesa: "nam si tanti pontificisacta cassantur, vestra, quaeso, ubi
parebunt?" (Epistolae, pp. 400 s.; cfr. G. Laehr, pp. 421-25; E. Perels, p. 252, cita alcuni
passi di lettere di Niccol, presumibilmente redatte da A., in cui ritorna lo stesso motivo).
Tra le materie giudicate, se non da Niccol, dai suoi immediati predecessori, c'era per
anche la condanna pi volte ribadita contro il cardinale di S. Marcello. E, in questo caso,
sembra che A. abbia fatto un'eccezione alla regola da lui enunciata, provvedendo a far
scomparire, subito dopo la morte di Niccol I, nel momento di confusione che seguiva
immancabilmente alla scomparsa di ogni pontefice, il dossier relativo al suo burrascoso
passato, in modo di accelerare i tempi della propria riabilitazione. Tale , per lo meno,
una delle accuse collaterali che gli saranno contestate quando si trover coinvolto nella
vicenda che ebbe per protagonista suo cugino Eleuterio (M.G.H., Concilia, IV, p. 317,
25-28). L'accusa, data la spregiudicatezza di A., non affatto inverosimile. E se si pu
sostenere che, nell'economia generale della vita della Chiesa, l'episodio del cardinale di
S. Marcello aveva avuto, ed aveva un'importanza molto minore della questione - per
esempio - del divorzio di Lotario II, si deve per ammettere che, a parte altre
considerazioni fin troppo ovvie sui doveri di un funzionario, era la questione di principio
a venire in tal modo sacrificata, e proprio ad opera di chi aveva avuto il merito di
impostarla con tanta nettezza.
Durante i primissimi tempi del pontificato di Adriano, A., in nome di una intransigente
difesa delle direttive che erano state proprie del predecessore, si sarebbe dunque
mantenuto su di una posizione di attesa o addirittura di diffidenza nei confronti del
nuovo papa, di Arsenio e del cosiddetto partito imperiale. Ma tale diffidenza, ch'egli ha
forse artificialmente accentuata nella lettera ad Adone, non si precis mai in un

contrasto vero e proprio. Menzionati entrambi nella lettera di Adriano II ad Incmaro,


dell'8 marzo, come suoi fidatissimi consiglieri (cfr. Epistolae Karolini aevi tom. IV, pp.
710 s.), Arsenio ed A., insieme, avevano aiutato Costantino e Metodio, gli apostoli (o
dottori) degli Slavi, e i loro compagni, a predisporre il primo ciclo di ufficiature in lingua
slava in alcune chiese di Roma (Vita di Costantino, 17: cfr. F. Dvornik, Les lgendes, p.
378 e F. Grivec, p. 79).
Fra la fine dell'867 e l'inizio dell'anno seguente, la venuta a Roma di Costantino e di
Metodio - un successo di Niccol I, i cui frutti venivano colti da Adriano - aveva certo
rappresentato un'altra delle occasioni nelle quali la familiarit acquisita col mondo
bizantino consent ad A. di mettersi in luce. Ma, a parte il nuovo aumento di prestigio,
l'incontro soprattutto con Costantino il Filosofo, che, un tempo, a Costantinopoli, aveva
ricoperto presso il patriarcato le stesse funzioni che ora A. ricopriva a Roma, lasci una
traccia profonda nel suo animo: a distanza di anni, giudizi pronunciati allora da
Costantino e interi brani della sua conversazione saranno riportati testualmente da A.,
con il riguardo che si usa alle autorit indiscusse (Epistolae, p. 407, 11-25: a. 871; p.
433, 17-26: a. 875; pp. 436, 21 e 437, 5: a. 875; cfr. F. Dvornik, Les Slaves, Byzance et
Rome au IXe sicle, Paris 1926, pp. 198 s.).
Il giorno 10 marzo 868, due giorni dopo la lettera di Adriano ad Incmaro, Eleuterio, figlio
di Arsenio, d'accordo col padre, rap con l'inganno la figlia del papa, ch'era stata gi
promessa ad un altro, e la spos. Adriano non volle accettare il fatto compiuto. Di fronte
alla sua intransigenza, Arsenio si allontan da Roma, diretto a Benevento, per
sollecitare l'intervento dell'imperatore: ma mor subito dopo l'arrivo.
Privato dell'appoggio paterno, Eleuterio dovette allora vedersi perduto e, mentre
Adriano premeva su Ludovico II perch trascinasse in giudizio il colpevole, non trov di
meglio che ammazzare la sposa rapita e, insieme con lei, sua madre Stefania, finendo
a sua volta ucciso dai legati dell'imperatore. Ma questa spiegazione, psicologicamente
abbastanza plausibile, dell'epilogo della vicenda, soltanto nostra: gli Annales
Bertiniani, che riferiscono i fatti (M.G.H., Concilia, IV, p. 317, 2-13), addossano ad A.
tutta la responsabilit dell'accaduto: "isdem vero Eleutherius, consilio, ut fertur, fratris
sui Anastasii, [...] Stephaniam, uxorem ipsius pontificis, et eius filiam, quam sibi rapuit,

interfecit". Incmaro, del resto, non fa che riportare - cautelandosi dietro un "ut fertur" - la
versione prevalsa al sinodo riunito da Adriano II, il 12 ottobre, a S. Prassede, dopo che
un tale presbitero Adone, ch'era anche parente di A., ebbe esplicitamente dichiarato che
A. aveva esortato Eleuterio al duplice delitto per mezzo di un suo messo ("hominem ad
Eleutherium misit").
Sulla base di questa gravissima accusa e di altre accuse, anche non lievi, che erano
quelle di aver preso parte al saccheggio del "palatium Lateranense" dopo la morte di
Niccol I, di avere seminato la zizzania "inter piissimos principes et ecclesiam Dei" - si
pensi, per questo, alla lettera ad Adone - e di aver ordinato di cavare gli occhi e tagliare
la lingua ad un certo Adalgrimo che aveva chiesto asilo alla Chiesa, Adriano ribad
contro il bibliotecario della Sede apostolica la sentenza di deposizione che Leone IV
aveva pronunciata contro il cardinale di S. Marcello, sia pure nella forma pi attenuata
di Benedetto III, che lo aveva riammesso alla comunione dei laici. A., ch'era presente al
sinodo, si impegn con giuramento a non allontanarsi da Roma pi di quaranta miglia
(M.G.H., Concilia, IV, pp. 317, 19 - 318, 29). Ma, all'incirca un anno pi tardi, forse gi
reintegrato nelle sue funzioni di bibliotecario, egli partiva per Costantinopoli, nella
qualit di legato imperiale, con un incarico anche da parte del pontefice. Almeno per
quanto riguarda il reato di istigazione a delinquere, ch'era poi il principale capo
d'accusa, A. deve essere riuscito a provare la propria innocenza. infatti da escludersi
che, in questo caso, abbia giocato a suo favore soltanto la considerazione dei ben noti
meriti professionali: Adriano era stato colpito in maniera troppo dura e personale perch
potesse accettare di vedersi sempre intorno, nelle vesti di collaboratore e consigliere,
colui al quale si faceva risalire la responsabilit di quanto era accaduto (cfr. E. Perels, p.
234).
Ma, accanto alla discolpa - che non dovette mancare - sul punto dell'istigazione, l'altro
elemento di cui si valse A. per riguadagnare terreno fu l'appoggio dell'imperatore.
Messe evidentemente da parte le riserve che erano emerse nella lettera ad Adone di
Vienne, A. si rivolse allora a Ludovico II, sicuro di trovare buon ascolto presso di lui: ora
che Arsenio non c'era pi, l'imperatore aveva bisogno di poter disporre a Roma di

un'altra persona che, come Arsenio, godesse al tempo stesso della fiducia sua e di
quella del papa. Singolarmente favorito dalle circostanze, A. fece in modo che la propria
candidatura ad occupare la posizione ch'era stata di Arsenio maturasse dalle cose
stesse, senza bisogno di forzare la situazione. E ci che era prematuro per Roma, dove
il ricordo degli avvenimenti del marzo dell'868 e delle accuse che ne erano seguite, non
poteva certo essere spento, fu attuato dapprima a Costantinopoli, su di un terreno che
univa i vantaggi della lontananza al rischioso privilegio di costituire, in quello scorcio
dell'869, una specie di linea avanzata dove la posta in gioco era il riconoscimento del
primato universale della Chiesa di Roma. La missione a Costantinopoli fu il capolavoro
della vita di Anastasio. A. part per Costantinopoli verso la fine dell'869, a capo di una
delegazione cui Ludovico II aveva affidato l'incarico di riallacciare le trattative per il
matrimonio di sua figlia Ermengarda con il primogenito del "basileus"; insieme con lui
partirono il conte Suppone, cugino della moglie dell'imperatore, e il siniscalco Everardo
(Epistolae, p. 410, 15-9; Interpretatio synodi VIII generalis, col. 148; Le Liber pontificalis,
II, p. 181).
Molto incerta si presenta l'identificazione (cfr. E. Perels, p. 235) fra il nostro A. e
l'"Anastasius quidam didiscalus" che istru la principessa imperiale nella letteratura
sacra (cfr. Flodoardus, Historia ecclesiae Remensis, pp. 351, 26 - 352, 2), fondata sul
presupposto di un soggiorno di A. alla corte di Ludovico II nell'868. Da pi luoghi della
Vita Hadriani (Le Liber pontificalis, II, pp. 181, 182, 185), da una delle note che lo
stesso A. appose alla sua traduzione degli atti del concilio dell'869-870 (C.
Leonardi, Anastasio Bibliotecario e l'ottavo concilio, p. 171) e dall'elenco dei partecipanti
alla decima sessione del concilio (Interpretatio synodi VIII generalis, col. 39) parrebbe
attestato che A., durante la missione, e quindi anche prima di partire dall'Italia, era gi di
nuovo bibliotecario della Chiesa romana. Se la redazione delle due lettere che il 10
giugno 869 Adriano II indirizz, rispettivamente, al patriarca Ignazio e al "basileus"
(Epistolae Karolini aevi tom. IV, pp. 750-58), va davvero attribuita, come pare
dimostrato, ad A., a quella data la sua restituzione era ormai cosa fatta. E si potrebbe
risalire ancora pi indietro, solo che si voglia ammettere che A., come probabile, fosse
uno degli "utriusque linguae periti", cui Adriano affid la revisione degli atti del concilio

costantinopolitano dell'867, che gli erano stati recapitati da una legazione giunta a
Roma alla fine di febbraio o ai primi di marzo dell'869 (Le Liber pontificalis, II, p. 179;
per la data, cfr. F. Dvornik, The Photian Schism, pp. 140 s.). Per ritrovare A. menzionato
come "bibliothecarius" in un documento, bisogna per attendere addirittura l'"intitulatio"
della sua lettera ad Adriano II, dell'871: "famulus vester Anastasius peccator abbas et
summae ac Apostolicae vestrae sedis bibliothecarius" (cfr. L. Santifaller, pp. 55 s.). Al
periodo intercorso fra il rientro nelle sue funzioni al Laterano e la partenza per
Costantinopoli, risale inoltre una lettera di Adriano II ai principi slavi, redatta anch'essa
da A., che autorizzava l'uso della lingua slava nella liturgia: una questione, questa, che
attendeva di essere definita dall'inizio dell'868 e che probabilmente era rimasta sospesa
anche in seguito alla morte di Arsenio, uno dei principali zelatori della causa della
liturgia slava, ed alla disgrazia in cui era provvisoriamente caduto A. (cfr. F. Grivec, pp.
81 s. e 87; per l'autenticit della lettera di Adriano e per l'intervento di A. nella sua
redazione, ibid., pp. 257-61).

I tre legati di Ludovico II giunsero a Costantinopoli in tempo per assistere alla decima ed
ultima sessione (28 febbraio 870) dell'ottavo concilio ecumenico, che aveva iniziato i
suoi lavori nell'ottobre dell'anno precedente e si sarebbe infine concluso con la
condanna di Fozio e dei suoi seguaci.
Nella lettera dedicatoria ad Adriano II della sua traduzione degli atti conciliari (cfr. G.
Laehr, pp. 427-29), A. preciser che, oltre al mandato dell'imperatore, ne aveva ricevuto
un altro dal papa ("ferentem etiam legationem a [...] praesulatu vestro"). Ma si trattava
sempre di un mandato relativo alle trattative per il matrimonio fra i figli dei due sovrani
(v., contra, E. Perels, pp. 235 s.), ch'era materia per la quale si richiedeva
segnatamente l'assenso del papa: "in tam enim pio negotio et quod ad utriusque imperii
unitatem, immo totius Christi ecclesiae libertatem pertinere procul dubio credebatur,
praecipue summi pontificii vestri quaerebatur assensus". Eppure, anche se la duplice
missione di A. era limitata al solo "negotium" del matrimonio, "Dei [...] nutu actum est, ut
tanti negotii [ma qui negotium il concilio!] cum loci servatoribus apostolicae sedis et

ipse fine gauderem [...], qui per septennium ferme pro eo indefesse laboraveram et per
totum orbem verborum semina sedule scribendo disperseram" (Epistolae, p. 410, 1525; cfr. anche p. 437, 6-7).
C'era insomma voluta quella fortunata coincidenza in cui A. non esita a riconoscere il
segno della mano di Dio, perch il frutto di sette anni di fatiche (862-869) non venisse
raccolto interamente da altri. Delle cinque lettere di Niccol I e delle quattro di Adriano
II, che vennero lette ed acclamate durante le sessioni del concilio, A. doveva averne
dettata la maggior parte, se non addirittura tutte o quasi tutte, come egli stesso afferma
con orgoglio, e non si pu non prestargli fede, dato che assurdo pensare che abbia
cercato di ingannare su questo punto proprio Adriano II, al quale la lettera dedicatoria
era diretta: "pene omnia, quae ad praesens negotium pertinent quaeque a sede
apostolica Latino sermone prolata sunt [...], ego summis pontificibus obsecundans,
decessori scilicet vestro ac vobis, exposui" (Epistolae, p. 410, 25-8; cfr. A. Laptre, De
Anastasio, p. 246). Ma A. non si limit a presenziare, da spettatore, al trionfo di una
causa alla quale aveva dedicato tante energie. "Constantinopoli pro praedicta causa [le
trattative matrimoniali] reppertus non pauca in his vestris loci servatoribus, ut ipsi
quoque testantur, solatia prestiti" (Epistolae, p. 410, 28-9): senza averne avuto mandato
ufficiale, A. ebbe occasione di collaborare con la delegazione romana al concilio.
Incmaro, che guardava le cose da lontano, ne parla come di un esperto (una specie di
interprete ad alto livello), aggiunto alla delegazione ufficiale (Annales de Saint-Bertin, p.
187).
I legati ufficiali della Chiesa di Roma (i vescovi Donato, di Ostia, e Stefano, di Nepi, e il
diacono Marino) non erano in grado di comprendere il greco e dipendevano, perci, da
un interprete (Epistolae, p. 413, 22-5). A concilio terminato, ma quando non avevano
ancora apposto le loro firme, i legati sottoposero gli atti all'esame di A., il quale, "quia in
utriusque linguis eloquentissimus existebat", e poich conosceva benissimo il testo in
questione per averlo redatto lui stesso, non manc di accorgersi che dalla traduzione
greca di una lettera gi predisposta da Niccol I erano scomparsi alcuni cenni "ad
laudem serenissimi nostri Caesaris", che Adriano II vi aveva inseriti prima di spedirla,

"Arsenio episcopo imminente". (Mette conto di osservare come il contenuto del rilievo si
addicesse alla presente situazione di A., legato ad un tempo imperiale e papale, e
convenisse al suo progetto di porsi a Roma come erede delle fortune di Arsenio). Dopo
tale constatazione, parve per un momento che tutto fosse rimesso in discussione. Di
fronte al rifiuto dei Greci di ristabilire il testo integrale, i legati romani minacciarono infatti
di non sottoscrivere gli atti del concilio. E il compromesso fu raggiunto soltanto col
modificare la formula di sottoscrizione, nel senso che i legati accettarono di firmare, ma
sub condicione: l'ultima parola la riservavano al papa (Le Liber pontificalis, II, pp. 181
s.).
Preoccupati

per

la

svalutazione

dell'autorit

del

concilio

ch'era

implicita

nell'approvazione con riserva degli atti conciliari ("dubietate subscriptionum": ibid., p.


182), i vescovi greci passarono alla controffensiva e indussero il "basileus" a far
sottrarre furtivamente dalle abitazioni dei legati romani le copie, autografe di mano di
ciascuno dei vescovi presenti in assemblea, del Libellus satisfactionis, che, redatto sulla
falsariga della Regula fidei di papa Ormisda, conteneva una solenne riaffermazione del
primato di Roma, oltre che una violenta condanna di Fozio e dei suoi: la firma del
Libellus era stata posta dal papa come una condizione sine qua non per l'ammissione al
concilio (Interpretatio synodi VIII generalis, coll. 36 s.: testo del Libellus, e C. Leonardi,
Anastasio Bibliotecario e l'ottavo concilio, p. 170: nota di A.; per tutta la questione, v. F.
Dvornik, The Photian Schism, pp. 143-47).
Quando si furono accorti della sparizione di una parte dei chirografi - non tutti erano
stati asportati, perch quelli dei vescovi pi importanti erano stati messi al sicuro -, i
legati romani ricorsero disperati all'aiuto di A. e di Suppone, i quali intervennero
prontamente presso il "basileus", ottenendo la restituzione dei "libelli" (Le Liber
pontificalis, II, p. 182; C. Leonardi, Anastasio Bibliotecario e l'ottavo concilio, p. 171).
Secondo il Liber pontificalis questo risultato sarebbe stato conseguito "non sine magno
laboris periculo" e a prezzo dell'ira di Basilio, mentre A. sostiene di avere convinto il
"basileus" con la sola forza del ragionamento. Se, scrivendo poco tempo dopo a
Ludovico II, Basilio, fra i numerosi motivi che avevano portato alla rottura delle trattative
fra i due Imperi, accenner anche al deplorevole contegno tenuto a Costantinopoli dai

legati dell'Impero di Occidente (cfr. Ludovici II. imperatoris epistola, pp. 392, 32 e 393,
2), probabile che nell'evidente esagerazione dell'accusa qualcosa di vero ci fosse e
riguardasse anche l'impresa del recupero dei "libelli", nella quale furono forse impiegati
mezzi diversi da quello della pura persuasione.
Ma per A. non tutto poteva ridursi alla politica, soprattutto a Costantinopoli. Egli trov il
tempo anche per i codici, dato che non pensabile che solo per caso gli sia capitato di
vedere gli scolii a Dionigi l'Areopagita, che in seguito riuscir a procurarsi a Roma, forse
proprio per averne allora commissionata una copia (Epistolae, p. 432, 13-4). E
collaborando, anche su questo piano, con i legati papali, si diede da fare per raccogliere
dalla viva voce di Metrofane, vescovo di Smirne, ch'era stato esiliato da Fozio
a Cherson, una testimonianza sul ritrovamento, che vi aveva avuto luogo, delle reliquie
di s. Clemente (Epistolae, p. 437, 6-11). Sulla stessa linea, qualche anno dopo (874 o
875), quando una missione di Giovanni VIII "apud augustos" lo port a Mantova, A. ne
approfitt per tradurre dal greco la "translatio" di s. Stefano, cedendo anche a una
pressante richiesta dei Mantovani (Epistolae, p. 428, 1-8; cfr. G. Laehr, pp. 443-45).
Partite insieme da Costantinopoli (marzo 870), le due delegazioni occidentali si
separarono a Durazzo, al momento dell'imbarco: diretti ad Ancona i legati papali, e
a Siponto gli altri, fra cui A., che dovevano anzitutto recarsi a Benevento, per riferire
all'imperatore. Ma ancora all'inizio della traversata, i primi subirono l'assalto dei
pirati narentani, che li spogliarono di quanto portavano con loro, ivi compresa la copia
originale degli atti dell'ottavo concilio destinata a Roma, trattenendoli poi prigionieri per
otto mesi circa (per i rimandi alle fonti, cfr. Epistolae Karolini aevi tom. IV, p. 759, 7). Al
danno assai grave della perdita dei documenti port rimedio il solito A. che, arrivato per
l'altra via a primavera inoltrata, consegn puntualmente al papa una copia degli atti
conciliari che s'era fatta fare per suo uso personale; con lui arriv a Roma anche una
parte dei chirografi (forse proprio quelli ch'erano stati rubati e poi restituiti a
Costantinopoli), che i legati papali avevano lasciata affidata alle sue cure. In
quest'ultimo caso, la parte avuta da A. non fu per cos meritoria ed essenziale come
egli vorrebbe far credere: anche i restanti chirografi - ed erano, a quanto pare, gli
"excellentiorum episcoporum libelli", tenuti separati dal primo momento - non andarono

perduti; i legati ne ottennero infatti la restituzione dai Narentani e li portarono senza altri
inconvenienti fino a Roma.
Ma A. tralascia questo particolare, per meglio contrapporre la propria efficienza
all'assoluta incapacit di cui avrebbero dato prova in quell'occasione i rappresentanti
ufficiali della Chiesa di Roma: "ac per hoc factum est ut sedes apostolica Deo auctore
codicem synodi per nos susciperet, et libellos missis quidem a nobis redditos sed per
nos servatos haberet, quos nimirum, si missi penes se retinuissent, ut codicem synodi
et caetera scripta hos procul dubio perderent" (C. Leonardi, Anastasio Bibliotecario e
l'ottavo concilio, p. 171). L'intera tradizione occidentale del concilio dell'869-870 dipende
dal testo portato a Roma da A. o, pi precisamente, dalla traduzione che egli ne
appront per incarico di Adriano II. Quando gli atti conciliari furono tradotti, il papa pot
rendersi personalmente conto di come erano andate le cose: e solo allora scrisse a
Basilio una lettera che suonava implicita approvazione dei risultati del concilio (la lettera
del 10 novembre 871: cfr. J. Hergenrther, p. 161).
Entro un anno dal ritorno da Costantinopoli, A. ebbe un nuovo incarico di carattere
diplomatico. La meta, questa volta, era Napoli, dove una parte del clero, nonostante la
scomunica impartita dal papa, continuava a rimanere schierata con il duca Sergio II nel
conflitto che l'opponeva allo zio, l'esiliato vescovo Atanasio I. Insieme ad A., "vir
eloquentissimus et ad exortandum idoneus", fu designato per tale missione l'abate
di Montecassino, Bertario (v. G. Arnaldi, Anastasio Bibliotecario a Napoli). I due legati
non riuscirono nell'intento di ridurre all'obbedienza i sacerdoti ribelli, ma A. - come
risulta anche dal brano di una sua conversazione con un sacerdote napoletano,
riportato nella Vita Athanasii - lasci un'impressione di grande fermezza e di capacit
dialettica (v., contra, A. Laptre, L'Europe et le Saint-Sige, pp. 225 s., che interpreta il
passo

come

se

rivelasse

un'intenzione

ironica

nei

confronti

dell'"erudizione

ecclesiastica" di A.). Secondo il Laptre (ibid., p. 225 n. 3), che ammette per di non
avere a disposizione alcuna testimonianza diretta, A., sempre in missione diplomatica,
si sarebbe allora recato anche a Gaeta, presso il vescovo (o duca) Docibile.
A. e Bertario erano andati a Napoli con un duplice mandato, papale e imperiale ("vice
apostolici et augusti"): per il primo dei due si ripeteva cos la situazione in cui s'era gi

trovato a Costantinopoli. E nel quadro di un'attivit che ormai si svolgeva,


contemporaneamente, al servizio del papa e dell'imperatore, del tutto normale che,
almeno in un caso, A. abbia fornito a Ludovico II anche quel particolare tipo di
prestazione, che era poi quanto di meglio egli fosse in grado di dare: la redazione di
lettere e documenti ufficiali. Per i dettagliati riferimenti al contenuto delle trattative
condotte da A. a Costantinopoli e a Napoli, e al comportamento tenuto nel primo caso
dai legati imperiali, la lettera che Ludovico II, "imperator augustus Romanorum",
indirizz dopo la presa di Bari (2 febbraio 871; il termine ante quem il 13 agosto dello
stesso anno) a Basilio, "imperatori novae Romae" - e che viene generalmente attribuita
ad A. stesso -, si presenta in parte come un corollario polemico di quelle trattative, una
messa a punto per scritto delle posizioni assunte nei contatti diretti (cfr. Ludovici II.
imperatoris epistola, p. 390, 23-33, per le trattative matrimoniali; pp. 392, 6 e 393, 12,
per la mancata assistenza ai legati papali di ritorno dal concilio dell'869-870 e per false
le accuse ai legati imperiali a Costantinopoli; p. 393, 13-33, per i rapporti di Ludovico II
con Napoli).
Maturata ai margini e in proseguimento della sua attivit di diplomatico, la lettera che A.
scrisse a nome di Ludovico II va per molto oltre la congiuntura politico-diplomatica e si
pone come uno dei testi basilari nella storia dell'idea d'impero in Occidente. La lettera,
che pure si chiude con una proposta molto concreta per un'azione combinata terramare contro i Saraceni nell'Italia meridionale e in Sicilia ("per sicca", l'esercito di
Ludovico II; "per aequora", la flotta bizantina), infatti soprattutto un'appassionata
rivendicazione di titoli dell'Impero restaurato da Carlomagno, di fronte al rifiuto, opposto
ancora una volta da Basilio, di riconoscerne la legittimit: titoli che significativamente
vengono fatti consistere, per un verso, nella consacrazione papale e, per l'altro, in un
diretto rapporto con la "vecchia" Roma e la sua antica tradizione. A Basilio, che s'era
dichiarato disposto a riconoscere il titolo imperiale del suo collega d'Occidente, dopo
che avessero avuto luogo le progettate nozze fra il suo primogenito e la figlia di
Ludovico, A. risponde che "da noi la gloria non viene dai figli al padre, ma discende
piuttosto dai padri ai figli": una orgogliosa precisazione, ch'egli pone a suggello del
fallimento della missione di un anno prima a Costantinopoli.

Dopo l'articolo di W. Henze, l'autenticit della lettera di Ludovico II a Basilio I, riportata


nel Chronicon Salernitanum, non viene per lo pi contestata (cfr., per es., E. Perels, p.
238 e, soprattutto, N. Ertl, pp. 128-32). Comunque, tale questione va tenuta distinta da
quella della sua paternit. Il Kleinclausz, che stato il principale sostenitore della tesi
della falsificazione posteriore (il documento sarebbe stato redatto per incarico di
Giovanni VIII, nell'879), fu anche uno dei primi a pensare ad A. come all'autore: e
questo l'unico punto della sua costruzione rimasto saldo (cfr. W. Henze, p. 670).
Col successore di Adriano II, Giovanni VIII (14 dicembre 872), A. continu ad esercitare
le funzioni di bibliotecario, anche se probabile che, soprattutto rispetto agli ultimi tempi
di Adriano, il suo potere effettivo sia allora alquanto diminuito: il nuovo papa si dimostr
subito pieno di energie e deciso, quindi, a fare da s.
Probabilmente, proprio in correlazione con i diminuiti impegni nel "palatium
Lateranense", A. ebbe pi tempo da dedicare allo studio e alla sua attivit di traduttore:
risalgono infatti a quest'ultimo periodo della sua vita la traduzione degli atti del settimo
concilio ecumenico (Nicea, 787), dedicata a Giovanni VIII forse gi nel primo anno del
suo pontificato (Epistolae, pp. 416-18; cfr. G. Laehr, pp. 429-32); la Chronographia
tripertita (compilata con brani tradotti da Niceforo, Giorgio Sincello e Teofane, e
chiamata cos in riferimento alla Historia tripartita di Cassiodoro) e i Collectanea (una
silloge di scritti attinenti al monotelismo), opere composte entrambe fra l'871 e l'874 e
destinate a fornire materiale al diacono Giovanni Immonide per la sua grande
enciclopedia storico-ecclesiastica (Epistolae, pp. 419-21 e 423-26; cfr. G. Laehr, pp.
432-35 e 437-41); e, di seguito, molte altre versioni di testi greci, in gran parte di
carattere agiografico (cfr. H. Goll, Die Vita Gregorii des Johannes Diaconus [...],
Freiburg i. B. 1940, pp. 6-12). A s, per l'importanza anche politica che assunse, sta la
traduzione delle glosse di Massimo il Confessore e di Giovanni Scolastico a Dionigi
l'Areopagita.
Le glosse a Dionigi, con annessa revisione del testo nella traduzione che ne aveva data
Giovanni Scoto; una raccolta di excerpta dalla Mystagogia di Massimo il Confessore e il
trattato - pure De Mystagogia - attribuito al patriarca di Costantinopoli, Germano; le

passioni di s. Demetrio e di s. Dionigi, A. volle infatti dedicarli a Carlo il Calvo, celebrato


come protettore ed animatore degli studi, perch uomo di cultura egli stesso (Epistolae,
pp. 431-34, ma 431, 1-7; v. anche pp. 434 s., 439, 440 s.; cfr. G. Laehr, pp. 448-51, 452
s., 457 s., 458-63 e G. Arnaldi, Natale 875, pp. 91-106). L'attivit di traduttore di A.,
anche se cronologicamente la si trova concentrata in anni che segnano forse una
contrazione dei suoi impegni politico-diplomatici (del resto, si gi visto come egli fosse
capace di sfruttare le sue missioni per fini di studio), non va considerata separatamente
da quelli, come se fosse stata un'attivit di studio disinteressato, che completerebbe
solo esternamente il profilo della sua personalit. La sua opera rappresenta invece lo
sforzo consapevole di mettere la Chiesa di Roma in grado di sostenere la "concorrenza
con i pi affermati centri transalpini della rinascita carolingia" e di proporre il vecchio
caput orbis "come il luogo ideale e fisico, sul quale occorreva far centro, se si volevano
preservare e ravvivare i contatti, cos necessari e stimolanti, con le culture mediterranee
tardoantiche, a cominciare della greco-bizantina" (G. Arnaldi, 'Giovanni Immonide [...]',
p. 177). La via prescelta, che era quella di attingere al patrimonio culturale bizantino per
mezzo di traduzioni, era certo la pi sbrigativa. E, in qualche caso, come A. ben sapeva
(sia pure sbagliando in riferimento al testo in questione), non si trattava neppure di
versioni vere e proprie, bens di retroversioni di testi originariamente latini, andati poi
perduti, e conservatisi soltanto nella traduzione greca (Epistolae, p. 426, 3-8). A. ebbe
sempre la netta consapevolezza della propria funzione di tramite culturale (ibid., pp.
398, 3-4; 427, 15-6; 442, 20-2); egli afferma che gli eventuali disconoscimenti che
sarebbero potuti venire al suo lavoro non avrebbero assolutamente infirmato la sua
certezza di attendere a qualcosa di molto utile: era preparato ad affrontare le amarezze
che, in altri tempi, "ille caelestis bibliothecae cultor [s. Girolamo] a suis aemulis pertulit"
(ibid., p. 442, 16-7). E di s. Girolamo A. condivideva appieno la concezione secondo cui,
nel tradurre, non si deve rispettare, parola per parola, il testo originario, ma badare
piuttosto a renderne compiutamente il senso (cfr. E. Perels, pp. 245-47; per un giudizio
analitico su A. traduttore, cfr. Chronographia tripertita, pp. 401-21; v. anche A.
Siegmund, p. 275 e passim).

Non mancano poi i casi nei quali, fra le traduzioni di A. e le contingenze della politica,
risultano esserci nessi anche pi immediati. Cos, nelle lettere dedicatorie della
traduzione del settimo concilio e dei Collectanea appare evidente la tendenza a far
consistere in semplici fraintendimenti linguistici alcune delle grandi questioni dottrinali
che avevano diviso Roma daBisanzio, come se si fosse voluto sgombrare il terreno dai
vecchi malintesi, in vista del nuovo indirizzo, pi conciliante, che Giovanni VIII si
apprestava ad imprimere alla politica papale (cfr. G. Laehr, pp. 431 s. e 440).
Analogamente, le quattro dediche a Carlo il Calvo - dapprima candidato alla
successione imperiale, e, dal Natale dell'875, imperatore - corrispondono troppo bene
alla scelta operata allora da Giovanni VIII, perch si possa rinunciare a considerarle in
tale prospettiva; soprattutto la traduzione della passione di Dionigi, che si credeva
portasse nuovi elementi all'identificazione dell'Areopagita coll'omonimo vescovo e
martire parigino, era fatta per compiacere, su di un punto che stava loro particolarmente
a cuore, i dirigenti laici ed ecclesiastici del Regno occidentale: tanto che valse ad A.
l'elogio ambito di Incmaro di Reims (Epistolae, in P.L., CXXVI, col. 153).
In questo stesso periodo, A. indirizz una lettera di tono amichevole all'ex patriarca
Fozio, il suo avversario numero uno negli anni 862-869. Ma si ha notizia della lettera
solo attraverso la risposta (Photii Patriarchae Constantinopolitani Epistulae et
Amphilochia, a cura di B. Laourdas-L.G. Westerink, II, Leipzig 1984, pp. 45 s., nr. 170)
e, perci, non possibile farsi un'idea precisa del suo contenuto. Fozio vi vide una
profferta di amicizia e di solidariet, come tale molto gradita, anche se, e qui sta il punto
essenziale della risposta, giunta purtroppo in ritardo. La breve lettera di Fozio, che un
saggio di finezza intellettuale, gira intorno al motivo dell'occasione mancata, che come
una fronte capelluta cui faccia riscontro una nuca sprovvista di capelli, onde
impossibile afferrarla per di dietro, una volta che sia passata: ma l'amicizia, in ogni
caso, non va misurata sul metro dell'utilit... Alla stessa stregua della posizione assunta
nelle lettere dedicatorie degli atti del settimo concilio e dei Collectanea, il
ravvicinamento di A. a Fozio va considerato nel quadro della nuova politica che
Giovanni VIII si proponeva di inaugurare nei confronti del patriarcato bizantino, dopo
che Ignazio, il patriarca deposto nell'858 dal "basileus" Michele III e sostituito con Fozio,

che Roma aveva difeso a spada tratta, si era dimostrato ostile a Roma nella questione
della Chiesa bulgara (cfr. J. Hergenrther, pp. 228-30 e 240 s.; F. Dvornik, Les
lgendes, p. 316; G. Arnaldi, La Chiesa romana secondo Giovanni VIII, pp. 134-54).
Resta la difficolt di datare con precisione la lettera di A.: il Laptre (De Anastasio, pp.
281-85) propone senz'altro la primavera dell'878, quando a Roma non si sapeva ancora
della morte di Ignazio (23 ottobre 877) e della avvenuta restituzione di Fozio al
patriarcato, ma solo del ritorno di Fozio dall'esilio e della sua rappacificazione con
l'imperatore; lo Dvornik ritiene invece che A., che seguiva gli avvenimenti molto da
presso, si sia rivolto a Fozio subito dopo il suo ritorno dall'esilio, che lo stesso studioso
pone nell'873 (F. Dvornik, The Photian Schism, pp. 163 s. e 172 s.). Date intermedie
sono anche possibili, se si tiene conto del fatto che la riabilitazione di Fozio avvenne per
stadi successivi, e che ogni stadio pu aver fornito l'occasione alla risposta in cui si
rinfaccia ad A. di avere atteso troppo prima di farsi vivo. La risposta di Fozio, sempre
secondo il Laptre (p. 286), non sarebbe arrivata a Roma prima della primavera
dell'879, e forse a quell'epoca A. era gi morto. In un documento del 29 marzo appare
infatti come "bibliothecarius apostolicae sedis" il vescovo Zaccaria di Anagni; e l'ultima
menzione di A. in un documento risale addirittura al 29 maggio 877 (cfr. L. Santifaller,
pp. 55 e 60). Nella lettera-prefazione alla Chronographia tripertita A. accennava
all'eventualit della sua morte prima di avere finito e, pi di una volta, negli anni
seguenti, dava notizia delle sue cattive condizioni di salute (cfr. Epistolae, pp. 421, 9-10;
426, 34; 440, 11).
Contro la datazione tradizionale della morte di A., stata per avanzata una seria
obiezione: le lettere di Giovanni VIII dopo l'879 risultano, ad un attento esame, redatte
dallo stesso autore che ha composte le precedenti; e, dato che queste ultime sono in
grandissima parte opera di A., bisogna concludere che la comparsa di un nuovo
bibliotecario non implica necessariamente un allontanamento di A. dalle sue funzioni di
"dictator", n - tanto meno - la sua morte (N. Ertl, pp. 121-26). Un ragionamento
ineccepibile, quando si accettino le premesse metodologiche sulle quali fondato (ma
cfr. P. Devos, Anastase le Bibliothcaire).

Per lungo tempo A. stato ritenuto l'autore di tutto il Liber pontificalis fino alla biografia
di Niccol I inclusa (G. Arnaldi, Come nacque l'attribuzione). Tale attribuzione fu
consacrata nel titolo dell'editio princeps (Magonza 1602) e poi conservata, per una
sorta di inerzia, quando ci si era ormai accorti che Beda - per esempio - conosceva il
Liber pontificalis, e quindi A. non poteva davvero essere chiamato in causa. Ancora
nell'edizione romana (1718-35) di Francesco Bianchini, A. indicato come l'autore. Solo
G. Vignoli, che, quasi contemporaneamente al Bianchini, cur un'altra edizione del Liber
pontificalis (Roma 1724-55), ruppe con la tradizione, ed il nome di A. scomparve
finalmente dal suo frontespizio. Ma il Muratori, che, per l'edizione del Liber nella prima
parte del tomo terzo dei R.I.S. (1723), utilizz il testo datone dal Bianchini nel 1718,
tuttora fermo nella vecchia credenza (cfr. Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I,
Paris 1886, p. XXXV; II, pp. LVI-LX).
Per una sezione del Liber l'attribuzione tradizionale stata per convalidata anche dalla
critica pi recente. La biografia di Niccol I (ibid., II, pp. 151-72) infatti generalmente
ritenuta opera di A., almeno in parte. L'inizio, o pi probabilmente una prima stesura molto pi scarna - di tutta la Vita, sarebbe dello stesso autore che ha redatto la biografia
di Benedetto III, ma ci sono molte ragioni per assegnare ad A. tutto il resto, ovvero la
redazione pi ampia e definitiva che giunta fino a noi. Con l'intervento di una seconda
mano nella Vita di Niccol I, la narrazione cambia radicalmente di tono; gli argomenti ai
quali si interessa il rifacitore sono proprio quelli che finora erano stati trascurati: le
grandi questioni ecclesiastiche, le relazioni con gli episcopati d'Oriente, d'Italia,
dell'Impero carolingio e con i sovrani greci, latini, bulgari; "le Liber Pontificalis devient,
sous cette plume, un vrai livre d'histoire". Da notare i frequenti rinvii a documenti
conservati "in bibliotheca [oppure in scrinio] huius sedis", che A., date le sue funzioni,
doveva avere ben familiari (ibid., pp. V s.). Incerta e contestata rimane l'attribuzione ad
A. della Vita di Adriano II (ibid., pp. 173-90), che, del resto, non gli era riconosciuta
neanche da coloro i quali lo ritenevano autore di tutto il Liber pontificalis, ma solo fino a
Niccol I. Il modo con cui vengono narrate le vicende dell'ottavo concilio ecumenico
indurrebbe ad escludere che l'autore sia A.; d'altra parte, il completo silenzio
sull'episodio delittuoso dell'868, oltre che le molte lodi rivolte ad A., fanno pensare che

chi l'ha scritta appartenesse alla cerchia dei suoi amici (ibid., pp. VI s.). Non senza
fondamento, per questa biografia stato fatto il nome di Giovanni Immonide.
Una seconda fase della storia della fortuna di A. ha inizio con il libro del Laptre, nel
1885. Accertato definitivamente che A. non era l'autore del Liber pontificalis, l'interesse
intorno alla sua persona poteva sembrare esaurito (cfr. A. Laptre, De Anastasio, p. 4).
Ma, a parte la confermata identificazione fra il cardinale di S. Marcello e il bibliotecario,
che faceva apparire quest'ultimo in una luce del tutto nuova, le conclusioni cui il Laptre
giunse soprattutto nel cap. IV, Anastasius Nicolai I litteras et composuit et dictavit,
aprirono una nuova via alla ricerca. Il dotto gesuita, non si sa con quanta sincerit,
riconosceva alle sue conclusioni un valore apologetico: tutto quello che nelle lettere di
un papa santo, come era Niccol, non mancava di sconcertare un lettore pio, per l'uso e
l'abuso, che vi si fa (e che il Laptre mette abbondantemente in rilievo), di artifizi
dialettici e talvolta anche di volgari furberie, non andava infatti pi ascritto al papa, bens
a chi aveva dettato le lettere in nome suo (p. 105). Ancora trentacinque anni dopo, il
Perels, nel suo Papst Nikolaus I. und Anastasius Bibliothecarius, non pot prescindere
dall'impostazione del Laptre.
A differenza del predecessore, che aveva addotto l'intento apologetico solo per
attenuare la portata delle sue conclusioni, il Perels prende l'avvio proprio da una
precauzione siffatta: se le lettere di Niccol, che erano poi la fonte di gran lunga pi
importante per ricostruire la sua azione di pontefice (o che, per meglio dire, costituivano
il mezzo forse principale attraverso cui tale azione venne di fatto esercitata), se quelle
lettere non erano di Niccol, come si poteva continuare a parlare di lui come di un
grande papa (cfr. E. Perels, pp. 299-300)? Dopo avere messo a confronto le opere di A.
con le lettere di Niccol (pp. 245-65) ed avere individuato quello che, in tali lettere,
risale sicuramente ad A. (pp. 265-78), il Perels ha dimostrato che gli interventi diretti del
papa sono molto frequenti e che Niccol, anche quando lasciava ad altri il compito di
redigere il testo delle lettere, aveva sempre la possibilit di rivederle, prima della
spedizione (pp. 280-93). Le cose starebbero invece diversamente per il periodo di
Adriano II, quando A., almeno a tratti, fu del tutto abbandonato a se stesso.

In ogni modo, il problema non tanto di stabilire chi, materialmente, redigeva le lettere,
quanto di precisare volta per volta se l'eventuale "dictator" agiva di sua iniziativa o su
preciso mandato del papa. A questo fine risultano di grande importanza alcuni passi di
lettere di corrispondenti, nei quali si accenna esplicitamente alla figura un po'
enigmatica e misteriosa del "dictator" pontificio. Ma n il Laptre, n il Perels hanno
osservato che questi accenni, sempre di tono polemico, a un presunto autore, diverso
dal papa, delle lettere papali, il quale si sarebbe arrogato il diritto di leggere, in vece
sua, le lettere in arrivo e di disporre per la risposta, potevano essere benissimo fatti ad
arte: il chiamare in causa il "dictator" era anche un modo di suggerire discretamente al
papa la via per ritornare su di una decisione gi presa, dandogli il destro di far finta di
non essersi mai pronunciato su di un determinato punto, senza costringerlo a smentirsi,
ch'era un passo da cui Roma, per tradizione ed istinto, cercava sempre di rifuggire; e,
d'altra parte, al "dictator" si potevano rivolgere liberamente accuse di malafede o anche
solo di ignoranza, che non tutti avrebbero osato indirizzare al papa in persona (v. G.
Arnaldi, Natale 875, pp. 47-86). A. stesso, forte della sua esperienza in materia, volendo
scagionare Onorio I dall'accusa di essersi accostato al monotelismo, avanza la
compiacente ipotesi che la lettera, meglio, le lettere, su cui si fondava l'accusa, non
fossero state scritte da lui, ma da un certo abate Giovanni (Epistolae, p. 424, 2-6).
Da ultimo, va citata una coincidenza che lascia trasparire un qualche rapporto fra A. e la
formulazione definitiva della leggenda della papessa Giovanna. Il primo testimone di
questa leggenda, che, dopo le primissime attestazioni, dal 1260 in poi, nelle quali
variamente e imprecisamente datata (fine sec. XI, sec. IX), provvede a darle una
collocazione precisa, destinata ad affermarsi, fu, verso il 1277, il cronista
domenicano Martino Polono, nella sua diffusissima Chronica de Romanis pontificibus et
imperatoribus. Martino, o la fonte cui attingeva, situ la papessa subito dopo la notizia
concernente Leone IV, l dove siamo soliti incontrare A. antipapa per tre giorni in
contrapposizione all'eletto, ma non ancora consacrato, Benedetto III. (Al pontificato di
Giovanna, Martino assegna due anni, sette mesi e quattro giorni, mentre la vacanza fra
Leone IV e Benedetto III dur solo due mesi e dodici giorni). Martino, inoltre, o chi per
lui, attribuisce la fama che circondava a Roma Giovanni, cio Giovanna, travestita da

uomo, alla "scienza" di cui costui/costei era entrato/a in possesso durante un soggiorno
in Grecia, ad Atene, dove s'era recato/a con un suo amante. La sua specialit erano le
arti del trivio. Sembra, dunque, probabile che, una volta scelto quell'intervallo, ritenuto
pi lungo di quanto non fosse stato effettivamente, per collocarvi il pontificato della
papessa, a spese di A. antipapa, si sia arricchita la leggenda con qualche tratto (la
cultura greca) ricavato dalla figura dello spodestato. Il fatto che Martino introduca il
protagonista della leggenda come "Iohannes Anglicus nacione Maguntinus", cio a dire
come un appartenente alla "natio Anglorum" dello Studio parigino, nato a Magonza,
nonch il riferimento alle arti del trivio, rimandano a un ambiente universitario come
luogo di origine di questa versione della leggenda.
Per quel che riguarda le opere di A. vanno ricordate anzitutto le Epistolae sive
praefationes, in M.G.H., Epistolae, VII, a cura di G. Laehr-E. Perels, 1912-28, pp. 395442 (qui di sopra citate come Epistolae); la lettera nr. 10, ivi riportata in forma
frammentaria, pubblicata in forma completa da W. Berschin, Bonifatius Consiliarius, in
Lateinische Kultur im VIII. Jahrhundert, St. Ottilien 1989, pp. 39 s. Le pi importanti
traduzioni e compilazioni di storia ecclesiastica sono: Interpretatio synodi VIII generalis,
in P.L., CXXIX, coll. 9-196 (per l'Actio V e per le glosse di Anastasio, cfr. ora C.
Leonardi, Anastasio Bibliotecario e l'ottavo concilio, pp. 153-62 e 169-82); Interpretatio
synodi VII generalis, ibid., CXXXIX, coll. 195-512; Chronographia tripertita, a cura di C.
de Boor, in Theophanis Chronographia, II, Lipsiae 1885, pp. 31-346 (v. anche pp. 40135); Collectanea, in P.L., CXXIX, coll. 557-690. Perch dettata quasi sicuramente da A.,
si cita qui anche la Ludovici II. imperatoris epistola ad Basilium I. imperatorem
Constantinopolitanum missa, in M.G.H., Epistolae, VII, a cura di W. Henze, 1912-28, pp.
386-94. Un elenco delle opere di A. in A. Laptre, De Anastasio, pp. 329-38; cfr.
anche E. Perels, p. 194 n. 5; G. Arnaldi, Giovanni Immonide e la cultura a Roma al
tempo di Giovanni VIII, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo", 68,
1956, p. 41 n. 2; e, dello stesso autore, Il papato della seconda met del sec. IX
nell'opera di P. Laptre SJ, in "La Cultura", 16, 1978. Ma v. soprattutto A. Siegmund, Die
Ueberlieferung der griechischen christlichen Literatur in der lateinischen Kirche bis zum
zwlften Jahrhundert, Mnchen-Pasing 1949, pp. 110, 159, 186 s., 189-92, 224, 246,

256-62, 268, e W. Berschin, Medioevo greco-latino. Da Gerolamo a Niccol Chiusano,


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