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E’ uno spasso osservare G. in una delle sue attività preferite: fare merenda.
E’ divertente perché, nel soddisfare un bisogno primario - la nutrizione - G.
esprime un mondo interiore, un caleidoscopio di sentimenti ed umane
predilezioni. Non c’è intervallo o ricreazione, infatti, senza che il Nostro non
afferri sotto braccio qualche suo protetto per condividere - per così dire - i piaceri
della libagione. In genere, il prescelto è S., docente specializzato di lungo corso e
“uomo di fiducia” che G. ha promosso, con merito, sul campo.
Il privilegio conferito è quello di sollevare il suo braccio. Il rito assume i
contorni di un’investitura medievale: egli tende l’arto al vassallo come fosse in
effetti un signore feudale.
Promozione
E’ bene specificare che fino ad ora la mia attività di tirocinio ha patito di una sorta di
insanabile bi-frontismo. Se da una parte essa ha rappresentato una validissima esperienza di
formazione professionale, dall’altra la mancanza di un contatto umano con il ragazzo (o meglio la
mia incapacità di percepire il suo codice comunicativo) mi ha procurato un senso di vacuità, come
se il tempo trascorso al suo fianco fosse in parte perduto. Il problema è la mancanza di punti di
riferimento. A livello esperienziale, intendo.
La relazione con un disabile autistico è quanto di più suscettibile a premature quanto fallaci
disamine: non ti senti guardato, voluto, riconosciuto; percepisci un senso di vuoto, così, senza
parole né pensieri. È il silenzio ad impressionare, il roboante silenzio che chi non parla o non
sembra osservare, di chi non condivide un codice comunicativo gestuale. Cerco di entrare nel suo
mondo, ma non riconosco i segnali, arranco nel vuoto, presumo che c’è un vuoto. Un’apnea di
sofferenza che non riesco a capire. Rivedo l’angoscia di Heidegger in “Essere e Tempo”, che
produce il disconoscimento della situazione emotiva. Quella situazione che ci sprofonda nella
solitudine, nel distacco da tutto e da tutti. Di fronte all’angosci,a il mondo perde di significato: non
più il mondo, non le cose del mondo, neanche noi stessi ma il nulla. Ecco, nella relazione con G.
vivo un profondo disagio, egli nega alla base qualsiasi contatto diretto o indiretto. Ma l’isolamento
prodotto dall’angoscia, permette di aprirmi al mio non-essere, di guardarmi in modo diverso, per
comprendermi e comprendere.
Entrare in gioco
A questo punto scende in campo il tirocinante, cioè gioco io. Si potrebbe chiedere in quale
maniera, vista l’indisponibilità manifesta di G. a prendere umanamente in considerazione soggetti
che preludano a fastidiose novità.
Ebbene, proprio durante i fatidici dieci minuti di intervallo, mentre osservo in disparte il duo
inseparabile G. + S., noto un gesto del docente che mi chiama all’adunata, con il chiaro intento di
estendere il banchetto ad un terzo invitato. Almeno questo è ciò che penso, mentre goffamente
viaggio in direzione del ragazzo, con un fare tra perplesso e lusingato.
Oh grazie - ho detto - ma ho appena fatto colazione!
Il prof. è scoppia in una risata piena di allusioni (ingenuo, avrà pensato!!) dicendo:
Non è per te! G. vuole che gli sollevi il braccio...
Impacciato ma con professorale sussiego, tendo allo spasimo il bicipite quasi a sollevare chissà quale
macigno. Tuttavia da subito, qualcosa inizia a modellare una forma. Quel muro marmoreo,
irriducibile, che separava di netto due realtà estranee, è crollato con un solo contatto. E poi un fugace
sguardo. E la conferma di S. che suona da elogio:
Di solito non lo fa con nessuno...Si vede che gli sei simpatico!
Dunque una semplice, epidermica esperienza mi ha iniziato ad una nuova dimensione. Fuori dalla
freddezza della sterile osservazione. Partecipando a indecifrabili emozioni.
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