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Aula III, ore 11.

40 di Martedì 10 novembre 2009,

E’ uno spasso osservare G. in una delle sue attività preferite: fare merenda.
E’ divertente perché, nel soddisfare un bisogno primario - la nutrizione - G.
esprime un mondo interiore, un caleidoscopio di sentimenti ed umane
predilezioni. Non c’è intervallo o ricreazione, infatti, senza che il Nostro non
afferri sotto braccio qualche suo protetto per condividere - per così dire - i piaceri
della libagione. In genere, il prescelto è S., docente specializzato di lungo corso e
“uomo di fiducia” che G. ha promosso, con merito, sul campo.
Il privilegio conferito è quello di sollevare il suo braccio. Il rito assume i
contorni di un’investitura medievale: egli tende l’arto al vassallo come fosse in
effetti un signore feudale.

Promozione

Si alludeva, dunque, ad una promozione. E’ proprio l’idea di avanzamento


che rende meglio la descrizione di un processo di convergenza tra un mondo
nascosto e una realtà più facilmente sondabile. Occorre spiegarsi.
Normalmente è sempre gratificante quando altri dispensano empatia. La
percezione di una prossimità emozionale, il sentirsi parte di universo altrui sono
davvero una degna ricompensa in cambio della nostra disponibilità ad aprirci. Ed
aumenta di valore, se questa forma di concessione emana da un ragazzo autistico,
le cui affezioni sono per definizione racchiuse in un guscio incrollabile.
Pertanto, l’offerta di una mano da brandire o di un dolcetto da assaggiare -
che ad occhi profani parrebbero irrilevanti - assumono un significato dirompente:

FIDUCIA, APERTURA, CONDIVISIONE.

Naturalmente, per un docente di sostegno, ciò non può essere considerato


un traguardo, ma una tappa intermedia verso ulteriori conquiste, in ambito
cognitivo o relazionale.
Un passo indietro

E’ bene specificare che fino ad ora la mia attività di tirocinio ha patito di una sorta di
insanabile bi-frontismo. Se da una parte essa ha rappresentato una validissima esperienza di
formazione professionale, dall’altra la mancanza di un contatto umano con il ragazzo (o meglio la
mia incapacità di percepire il suo codice comunicativo) mi ha procurato un senso di vacuità, come
se il tempo trascorso al suo fianco fosse in parte perduto. Il problema è la mancanza di punti di
riferimento. A livello esperienziale, intendo.
La relazione con un disabile autistico è quanto di più suscettibile a premature quanto fallaci
disamine: non ti senti guardato, voluto, riconosciuto; percepisci un senso di vuoto, così, senza
parole né pensieri. È il silenzio ad impressionare, il roboante silenzio che chi non parla o non
sembra osservare, di chi non condivide un codice comunicativo gestuale. Cerco di entrare nel suo
mondo, ma non riconosco i segnali, arranco nel vuoto, presumo che c’è un vuoto. Un’apnea di
sofferenza che non riesco a capire. Rivedo l’angoscia di Heidegger in “Essere e Tempo”, che
produce il disconoscimento della situazione emotiva. Quella situazione che ci sprofonda nella
solitudine, nel distacco da tutto e da tutti. Di fronte all’angosci,a il mondo perde di significato: non
più il mondo, non le cose del mondo, neanche noi stessi ma il nulla. Ecco, nella relazione con G.
vivo un profondo disagio, egli nega alla base qualsiasi contatto diretto o indiretto. Ma l’isolamento
prodotto dall’angoscia, permette di aprirmi al mio non-essere, di guardarmi in modo diverso, per
comprendermi e comprendere.

Entrare in gioco

A questo punto scende in campo il tirocinante, cioè gioco io. Si potrebbe chiedere in quale
maniera, vista l’indisponibilità manifesta di G. a prendere umanamente in considerazione soggetti
che preludano a fastidiose novità.
Ebbene, proprio durante i fatidici dieci minuti di intervallo, mentre osservo in disparte il duo
inseparabile G. + S., noto un gesto del docente che mi chiama all’adunata, con il chiaro intento di
estendere il banchetto ad un terzo invitato. Almeno questo è ciò che penso, mentre goffamente
viaggio in direzione del ragazzo, con un fare tra perplesso e lusingato.
Oh grazie - ho detto - ma ho appena fatto colazione!
Il prof. è scoppia in una risata piena di allusioni (ingenuo, avrà pensato!!) dicendo:
Non è per te! G. vuole che gli sollevi il braccio...
Impacciato ma con professorale sussiego, tendo allo spasimo il bicipite quasi a sollevare chissà quale
macigno. Tuttavia da subito, qualcosa inizia a modellare una forma. Quel muro marmoreo,
irriducibile, che separava di netto due realtà estranee, è crollato con un solo contatto. E poi un fugace
sguardo. E la conferma di S. che suona da elogio:
Di solito non lo fa con nessuno...Si vede che gli sei simpatico!
Dunque una semplice, epidermica esperienza mi ha iniziato ad una nuova dimensione. Fuori dalla
freddezza della sterile osservazione. Partecipando a indecifrabili emozioni.

Descrivere

La descrizione di una disabilità passa necessariamente attraverso un’esperienza comune, un


vissuto che si sovrappone. Narrare, rivelare quegli istanti è sufficiente ad innescare un processo di
allontanamento da ciò che è stato e un’epifania di ciò che sarà: un rapporto ravvicinato, lo scambio
profondo o superficiale attraverso la realtà emozionale, danno un nuovo senso alla vita.
L’elaborazione scritta di un vissuto così intenso di emozioni (di ogni tipo di emozione) è uno
strumento in grado di innovare se stessi e di trasformare la propria realtà, circoscrivendo con parole
un nuovo percorso esistenziale.
A proposito, scrive Mariangela Giusti: “il senso che ciascuno di noi dà alle proprie azioni, ai
propri sentimenti, alle parole, ai concetti, alle frasi, ai discorsi, non risiede in qualcosa d’esterno a
noi, ma fa riferimento ad un vissuto interiore irripetibile, che è nostro del tutto, anche se può essere
condiviso con gli altri”.

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