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CSR SI È, NON SI FA (http://www.ilbarbieredistalin.

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“Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut


glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest. Caritas patiens est,
benigna est caritas, non aemulatur, non agit superbe, non inflatur”.

E se distribuissi tutti i miei soldi per vantarmene e non avessi l’amore, non mi gioverebbe
nulla. Amore vuol dire pensare al bene nelle cose. Non riesco a non ritornare a San Paolo
ogni volta che vien fuori la confusione tra CSR e filantropia. Adesso è il caso di Lehman e
compagni, in passato vedemmo in casa nostra Banca Popolare di Lodi col codice etico sotto
il braccio mentre in cucina le pietanze andavano a male.

Ancora una volta occorre tornare a distinguere la distribuzione dei soldi dalla azione di
rispetto per il business e i clienti. Disaccoppiamo una volta per tutte il giving dalla CSR. La
CSR è il tentativo di andare a catturare in un ambiente organizzato lo spirito dell’amore. Più
laico: è la genuinità delle intenzioni, l’onestà verso il prossimo. Meno enfatico: visto che
tutte le aziende e le amministrazioni pubbliche vivono ai margini della legalità e del buon
management, cioè della sostenibilità del business nel lungo termine, CSR è prendere
consapevolezza di ciò e fare uno sforzo almeno per raccontarlo, se non proprio correggerlo.
Come l’apostolo tende a qualcosa di intimo al modo di essere dell’individuo anche CSR è
una cosa che si è nel fare business, non è una cosa che si fa di aggiuntivo al business.
Come tutte le frasi corte anche questa è vera e falsa allo stesso tempo. Svisceriamo.

La frase è vera: CSR non è filantropia, non è il volontariato aziendale, non è il ‘volontariato
manageriale’, inventato da Anima, l’associazione dell’unione industriali del Lazio che
affumica gli occhi del centritalia. La filantropia è una cosa che si fa. Va benissimo, ma non
ha bisogno dell’armamentario della CSR per sostenersi. Peggio: agganciata alla CSR, corre
il rischio di spubblicarsi ogni volta che il mariolo viene colto con le mani nel sacco.

Facciamo un caso reale, se no finisce come le esortazioni del papa, tanto generali che
ognuno se le rigira come gli pare (Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera). Se
un’azienda petrolifera fa delle azioni di sostegno alle comunità locali nei territori dove
effettua attività estrattive e produttive, questo è buono, senz’altro necessario ed agevola il
business. Lo vedemmo già nel 2003 con il ClubMed di Total (pagina 57, Il barbiere di Stalin
– Critica del lavoro (ir)responsabile). Si sente tuttavia il sapore dell’optional, della cosa
aggiuntiva e non intrinseca al core business dell’impresa. Nocciolo non difficile da
individuare perché è vivo nella impresa petrolifera lo spirito che riporta la sostenibilità del
business alla ripartizione dei proventi tra azienda petrolifera e paese proprietario del
giacimento. Diventa allora centrale il momento in cui l’impresa – prendiamo il caso ENI - ci
racconta a che punto sta oggi il fifty fifty di mitica memoria. Quando ci arrivano queste
informazioni allora sentiamo che la casa è in ordine. È a questo punto che si sente lo
scantinato del profitto in contatto con l’attico della comunicazione, i dipartimenti della
multinazionale che si parlano l’un l’altro e una certa genuinità nel portare la memoria del
fondatore. È chiaro a questo punto che la ‘cosa che ero’ cioè il comportamento che avevo
(il fifty fifty) diventa una ‘cosa che faccio’ nel momento in cui ne prendo consapevolezza e
mi impegno a comunicarla. È a questo punto che l’aforisma di partenza diventa falso: CSR
è una cosa che si fa.

Paolo D’Anselmi

Il barbiere di Stalin
Critica del lavoro (ir)responsabile
Università bocconi editore, 2008

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