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Mauro Carbone (Universit degli Studi di Milano) LABITUDINE ALLIDENTIT Proust et la philosophie aujourdhui il titolo di un convegno che, alcuni

i mesi or sono, ho organizzato insieme ad alcuni colleghi della nostra Facolt. Il suo intento era quello di sollecitare letterati e filosofi al confronto con quanto di filosoficamente impensato la Recherche non smette di offrire. Nessuna sollecitazione in proposito mi pare per pi efficace dei primi, folgoranti paragrafi del Proust di Samuel Beckett e di altri che, nel corso di questo piccolo libro, ne sviluppano lispirazione1. Pubblicato da un autore venticinquenne, a quattro anni dalla laurea in letteratura francese e italiana ed altrettanti dalla uscita postuma di Le temps retrouv, lultimo dei sette volumi della Recherche, immediatamente il saggio di Beckett sorprende infatti il lettore per il suo straordinario acume filosofico, tale da rendere subito ragione delle interrogazioni che la filosofia non smetter di rivolgere allopera beckettiana non meno che a quella proustiana. Filosofico, nellapproccio di Beckett, il taglio termine quanto mai opportuno per uno scritto che riesce a essere tanto profondo quanto succinto assunto nelle problematiche affrontate cos come nel linguaggio utilizzato e nei riferimenti esplicitamente o implicitamente operati: da Kant a Schopenhauer e Nietzsche, tanto per fare qualche nome. Ma, quel che pi importa rimarcare settantasei anni dopo, filosofica la rigorosa radicalit con cui le questioni indagate vengono seguite nelle loro conseguenze: una radicalit filosofica tale da trovare la filosofia stessa a tuttoggi impreparata. Se infatti in ambito filosofico da varie parti oggi si auspica o, a seconda dei punti di vista, si teme un sorta di ritorno del soggetto, di questultimo il saggio di Beckett descrive con lucida consequenzialit lirreversibile esplosione provocata dalla prospettiva stessa con cui il romanzo proustiano si apre e si chiude: quella che ne colloca la ricerca dans le Temps. Beckett spiega infatti: Noi non siamo semplicemente pi affaticati a causa di ieri; noi siamo altri, non siamo pi ci che eravamo prima della calamit di questo ieri. [] Le aspirazioni di ieri erano valide per lio di ieri, non per quello di oggi.2 Di quella che Beckett chiama la dimostrazione proustiana3 circa il Tempo, la prima conseguenza dunque la moltiplicazione dellio, da cui non pu che derivarne una seconda: la moltiplicazione del desiderio, la cui unit affermata da una tradizione di pensiero che da Platone
1 SAMUEL BECKETT,

Proust, London, Chatto and Windus, 1931, cura e tr. it. di Piero Pagliano, con uno scritto di Margherita S. Frankel, Milano, SE, 2004. 2 Ibidem, p. 14. 3 Ibidem, p. 13.

arriva alla psicoanalisi risulta inevitabilmente infranta una volta esplosa quella del soggetto che ne animato. Se infatti, come abbiamo appena sentito, le aspirazioni di ieri erano valide per lio di ieri, non per quello di oggi, per questultimo spiega ancora Beckett ossia [p]er il soggetto B, essere deluso dalla banalit di un oggetto scelto dal soggetto A [sc.: lio di ieri] illogico come aspettarsi che a un tale passi la fame guardando pranzare suo zio.4 Ecco allora queste conseguenze abbattersi su quella stessa tradizione di pensiero, detta anche metafisica, che si rif a Platone e afferma il valore positivo di quanto permane, qualificandolo essere, nonch il negativo di quanto si trasforma secondo il tempo e il caso, definendolo divenire: [L]azione che esso [sc.: il Tempo] esercita sul soggetto [] determina [] unincessante modificazione della personalit, la cui realt permanente, ammesso che ci sia, pu soltanto essere percepita come unipotesi retrospettiva.5 E proprio in questo passo che lesplorazione filosofica condotta da Beckett nellopera di Proust mi pare trovare la sua formulazione pi radicale: la [] realt permanente [della personalit], ammesso che ci sia, pu soltanto essere percepita come unipotesi retrospettiva.

Andata in frantumi la pretesa unit dellente che il pensiero filosofico moderno aveva posto sotto tutti gli altri quale loro misura e verit, il sub-jectum, si pu ancora ammettere una qualche realt permanente della personalit umana? E se s, in che farla consistere? E quale che sia la sua eventuale consistenza, se quella realt permanente si profila come tale solo retrospettivamente, come descrivere e che valore riconoscere alla dinamica del tutto opposta alla legge dellirreversibilit temporale per cui quanto emerso dopo risignifica ci che lo ha preceduto? Una delle pi riconosciute specialiste italiane dellopera di Proust, Mariolina Bongiovanni Bertini, ha scritto che, rispetto a quella proposta da Walter Benjamin due anni prima, linterpretazione di Beckett ci offre una immagine della Recherche pi unilaterale ma altrettanto lontana, nella sua crudele lucidit, dai clich ancorati alla poesia della memoria o alla mistica dellarte. [] Gli stessi momenti privilegiati della memoria involontaria vi sono descritti senza gli accenti melensi e trionfalistici che contraddistinguono buona parte della critica proustiana sino alle soglie degli anni 606. Ci senzaltro vero anche per quanto riguarda il ct filosofico di tale critica: occorrer aspettare gli anni Sessanta per vedere finalmente messe a tema le questioni sollevate da Beckett che prima elencavo. Possiamo incontrarle, assunte con crescente consapevolezza, nelle due edizioni del libro su Proust che Gilles Deleuze, di Beckett lettore attento e consonante, pubblica rispettivamente
4 Ibidem, 5 Ibidem. 6 MARIOLINA BONGIOVANNI BERTINI,

p. 15. Guida a Proust, Milano, Mondadori 1981, pp. 395-396.

nel 1964 e nel 19707. Ma ci detto, occorre ribadire che in quelle questioni la filosofia si sta ancora oggi dibattendo. E ovviamente non solo rispetto allinterpretazione dellopera proustiana. Forse uno dei pi radicali tentativi operati da parte filosofica per consuonare con tali questioni quello concentrato nelle righe con cui, nel 1980, si apre Mille piani, il secondo volume scritto da Deleuze insieme con Flix Guattari: Abbiamo scritto Lanti-Edipo in due. Poich ciascuno di noi era parecchi, si trattava gi di molta gente. [] Perch abbiamo conservato i nostri nomi? Per abitudine, unicamente per abitudine. Per renderci a nostra volta irriconoscibili.8 Ecco dunque, riecheggiando Proust e Beckett, labitudine trovarsi opposta allincessante modificarsi, allo scoprirsi dividuo dellindividuo, termine che sappiamo significare, spavaldamente, indivisibile. Alla questione se si possa ancora ammettere una qualche realt permanente della personalit umana, il saggio di Beckett su Proust suggerisce infatti di cercare risposta indagando quanto nella Recherche si trova descritto appunto alla voce abitudine. Non lessere, insomma, ma proprio labitudine sembra a Beckett garantire alla personalit umana una qualche realt permanente: Abitudine allora il termine generico per indicare gli innumerevoli accordi conclusi tra gli innumerevoli soggetti che costituiscono lindividuo e gli innumerevoli oggetti a loro correlati.9 Pi in generale, Beckett suggerisce che la nostra stessa (presunta) identit, a rigore, non sia se non unabitudine dalla quale ciascuno di noi viene rassicurato, svegliandosi, che la sua personalit non si dissolta insieme con la sua stanchezza.10 Se insomma la nostra realt permanente, ammesso che ci sia, pu soltanto essere percepita come unipotesi retrospettiva cos lo abbiamo sentito avvertirci ci accade in quanto la nostra identit, sempre ricercata in quanto sempre evocata, risulta sempre trovata dallabitudine quando gi siamo mutati e divenuti altro. Certo, quellidentit ora riconoscibile, ma se nel frattempo, appunto, siamo mutati e divenuti altro, possiamo ammettere davvero che una nostra realt permanente ci sia? E la vertigine di questa domanda che Beckett ha scorto nella Recherche e mai pi dimenticato: il soggetto sempre al passato, un effetto, un risultato, proustianamente ritrovato come perduto. Per questo labitudine allidentit ci rende, nel bene o nel male, irriconoscibili.
7 GILLES DELEUZE, Marcel Proust et les signes, Paris, P.U.F., 1964, d. augmente, Proust et les signes, 1970, 1976, tr. it. di C. Lusignoli e D. De Agostini, Marcel Proust e i segni, Torino, Einaudi, 1967, ed. aumentata 1986 e 2001. 8 GILLES DELEUZE, FLIX GUATTARI, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrnie, Paris, Minuit, 1980, tr. it. di G. Passerone, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1987, 2 voll., poi Roma, Castelvecchi, 1996 (in 4 sezioni), 20032 (in volume unico), p. 35. 9 BECKETT, Proust, tr. it. cit., p. 18.10 Ibidem, p. 26.

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