Sei sulla pagina 1di 238

Il libro

C «aro Epicuro,
è di felicità che oggi vorrei parlarti...»
Esordisce così Diego Fusaro nella prima di quasi 90 lettere a Epicuro,
l’interlocutore immaginario al quale si rivolge per affrontare altrettanti temi che
riguardano il nostro stare al mondo: Amicizia, Amore, Felicità, Anima, Dono,
Comunità, Tempo, Lavoro, Dialogo, Ideologia, Volontà...
Perché proprio Epicuro?, si chiederà chi legge. Perché rappresenta la filosofia
nella piena aderenza alla vita reale e ai suoi problemi. Non c’è un’età ideale per fare
filosofia. Tutti possiamo avere a un certo punto la curiosità – o la necessità – di
interrogarci sulla nostra esistenza, sui sentimenti che ci animano e il mondo che ci
circonda.
Ecco dunque la vera sfida che l’autore ha raccolto scrivendo questo libro:
avvicinare alla filosofia i lettori di qualsiasi età in modo chiaro, accessibile, non
dottrinale, amichevole. Perché, scrive, «tutti noi disponiamo – talvolta, senza
neppure saperlo – di una nostra “filosofia primitiva”, un quadro complessivo di senso
mediante il quale interpretiamo l’accadere e la nostra esistenza, il rapporto con gli
altri e con il reale».
L’autore

Diego Fusaro (Torino, 1983) è una delle voci più critiche e indipendenti della
riflessione filosofica contemporanea. Specialista di Filosofia della storia e interprete
eterodosso di Hegel e Marx, insegna Storia della filosofia presso lo IASSP, Istituto
Alti Studi Strategici e Politici di Milano.
All’insegnamento e alla ricerca affianca la divulgazione, anche attraverso
collaborazioni giornalistiche con testate quali «La Stampa» e «il Fatto Quotidiano».
Tra i suoi libri: Bentornato Marx! (Milano, 2009), Pensare altrimenti (Torino, 2017),
Storia e coscienza del precariato (Milano, 2018), Il nuovo ordine erotico (Milano,
2018), Glebalizzazione (Milano, 2019).
Diego Fusaro

CARO EPICURO
Lettere sui grandi temi della vita e della filosofia
CARO EPICURO
Ad Allegra, perché possa sempre essere felice.
“Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A
qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima. Chi sostiene che non è ancora
giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è
come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è
passata l’età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la
felicità.”

EPICURO , Lettera a Meneceo sulla felicità


Introduzione

Questo libro è rivolto anzitutto a coloro i quali mai prima d’ora, per le
ragioni più diverse, si sono avvicinati alla filosofia. Ed è, di conseguenza,
stato scritto in modo da poter essere capito, meditato e discusso da
chiunque, in generale, sia in grado di leggere un libro.
Tra questi, è principalmente per i più giovani che è stato concepito. Ciò
non vuol dire che esso non possa essere letto e meditato anche da chi si
trova in altre “stagioni” dell’esistenza: anche l’adulto e l’anziano, infatti,
potranno trovarvi auspicabilmente spunti di riflessione e, qualora non
l’abbiano fatto in precedenza, approssimarsi ai temi della filosofia e al suo
modo specifico di procedere, ossia al domandare su tutto nel tentativo di
pervenire, senza nulla presupporre, alla verità.
L’obiettivo non è di fornire ai lettori un quadro completo ed esaustivo
dei temi e dei problemi della filosofia. Non lo pretendiamo, né, d’altro
canto, sarebbe possibile in così breve spazio e nella forma narrativa che qui
si è scelta. Più modestamente, il testo aspira ad avviare il lettore alla
problematizzazione propria della filosofia, sollevando questioni che, oltre a
essere quelle (meglio, alcune di quelle) più peculiari del canone
occidentale, possano indurlo alla passione per la filosofia in quanto tale: e,
dunque, a quell’approfondimento che richiede la lettura e la meditazione dei
testi fondamentali della tradizione filosofica occidentale e, in aggiunta a
ciò, un vero e proprio apprendistato riflessivo, tale da comportare la “fatica
del concetto”.
Per queste ragioni, il presente libro muove da un presupposto socratico:
che è quello di non dare nulla per scontato, quando ci si relaziona con il
proprio interlocutore, affrontando ogni questione nella maniera più
semplice e comprensibile; e questo senza mai, però, rinunziare al rigore e
alla radicalità che la filosofia vocazionalmente richiede e senza la quale,
semplicemente, non sarebbe.
Si è scelto di percorrere la via della approssimazione – necessariamente
impressionistica e tutto fuorché esaustiva – ad alcune questioni
fondamentali della filosofia occidentale, immaginando che ciascuna di esse
venga affrontata mediante una breve lettera inviata a Epicuro.
Ogni lettera, pertanto, racchiude un’analisi problematizzante di un
grande nucleo tematico della filosofia occidentale (verità, metafisica,
divenire, responsabilità, causa ecc.). Esso viene esposto nei suoi tratti
fondamentali, talvolta – ove necessario – richiamando espressamente gli
autori della tradizione e sempre sollevando questioni e problemi, in modo
da permettere al lettore di interrogarsi a propria volta su quei dilemmi,
senza porlo dinanzi a soluzioni interpretative che appaiano, in qualche
modo, definitive e preordinate.
I problemi fondamentali non sono né affrontati nella loro completezza
né, a maggior ragione, “risolti”, posto che tale espressione abbia senso nel
procedimento di quella scienza a sé stante che è il filosofare:
semplicemente, sono evocati e accennati in forma epistolare, con l’intento
di stimolare il lettore alla riflessione intorno a temi e problemi che sono
centrali.
La scelta dell’interlocutore immaginario è presto svelata. La figura di
Epicuro è l’emblema di una filosofia pensata, praticata e vissuta nella sua
piena aderenza alla vita reale e ai suoi problemi: cioè in quella dimensione
massimamente concreta, dalla quale la filosofia stessa, anche nei suoi più
alti (e, forse, più astratti) voli teoretici, trae origine. Che altro è, in fondo, la
filosofia se non il tentativo della vita di comprendere se stessa, nel suo
movimento incessante e nelle sue contraddizioni, nella sua evoluzione e
nella sua condizione generale?
Epicuro, insomma, è l’interlocutore ideale, se si desidera praticare la
filosofia in forma “amicale” più che “dottrinaria”, procedendo per spunti
liberi e per riflessioni spontanee: le lettere qui presentate figurano, in effetti,
come esercizi di una riflessione immaginata nella forma di un dialogo con
un amico che, come noi, ha pensato e praticato la filosofia come
pharmakon, come “medicina” in grado di recare sollievo alla vita
quotidiana e ai dilemmi che senza posa la turbano.
Epicuro stesso, come sappiamo, non ha disdegnato la forma epistolare e
“amicale” del fare filosofia. Alla luce dell’importanza assegnata alla philia,
all’“amicizia”, egli ha filosofeggiato dialogando non solo, in concreto, con
gli amici vicini, che con lui condividevano gli spazi extraurbani del
“Giardino” (Kèpos) che aveva scelto come sede della sua scuola, ma anche
con quelli lontani nello spazio: ai quali, appunto, indirizzava le sue epistole,
dialogando a distanza sui punti salienti della propria elaborazione filosofica
e svolgendo senza soluzione di continuità il ruolo di maestro e amico.
Si è, dunque, scelto di immaginare una possibile prosecuzione a distanza
(nel tempo, oltre che nello spazio) di questa forma epistolare del dialogo,
indirizzando lettere a Epicuro sulla filosofia e sui suoi temi fondamentali.
In conformità con lo spirito delle lettere a suo tempo scritte da Epicuro,
anche le nostre mantengono, nel loro piccolo, uno spirito essenzialmente
confidenziale e colloquiale, al riparo dal rigore che caratterizza i trattati e le
dissertazioni filosofiche: è superfluo rammentare che a un amico non si
scrive per insegnare con distacco, né per trasmettere – per così dire – dalla
cattedra nozioni e soluzioni, ma per confrontarsi, per sollevare dubbi e
perplessità, oltre che per esporre le proprie prospettive, in attesa di
apprendere le sue. La dottrina fredda e astratta cede, così, il passo al dialogo
concreto, su questioni connesse alla vita quotidiana e ai suoi dilemmi, che
non di rado, certo, si spingono a toccare questioni metafisiche di ampio
respiro (Dio, l’Intero, il divenire ecc.).
Con l’amico, in altri termini, non si “teorizza” astrattamente, ma
concretamente si “vive” la filosofia: la quale in fondo – come ricordava
Benedetto Croce, secoli dopo Epicuro – altro non è se non la vita stessa,
colta nel suo senso generale e nei problemi che essa viene senza sosta
sollevando nel suo scorrere continuo.
Vi è un ulteriore motivo per cui si è scelto di individuare in Epicuro il
destinatario ideale di queste lettere sulla filosofia. Nella sua Lettera a
Meneceo, centrata sul tema del raggiungimento della felicità, il filosofo
greco fornisce un’indicazione preziosa, che abbiamo fatto nostra: non
devono esitare ad avvicinarsi alla filosofia né il giovane né l’anziano.
Ogni età, infatti, è buona per fare filosofia, perché non vi è un’età che
più di un’altra sia idonea alla felicità. L’uomo, l’animale non stabilizzato
per eccellenza, è il solo che aspiri alla felicità, provando a conseguirla e,
insieme, a definire la sua essenza e le vie che possano a essa condurre.
La nostra raccolta di lettere è anch’essa rivolta a tutti, senza esclusioni:
più precisamente, a tutti coloro i quali vogliano aprirsi a quel domandare
senza preclusioni che è la sostanza stessa di ogni vero filosofare.
Prerequisito fondamentale è, di conseguenza, la disponibilità a
interrogare la realtà circostante e se stessi, sottoponendo a discussione
critica anche le proprie credenze più collaudate e più radicate, quelle che,
per semplice inerzia o per tenace convinzione, solitamente costituiscono il
più solido fondamento del nostro essere e del nostro pensare.
Tale atteggiamento è, da Socrate in poi, l’essenza stessa della filosofia
come interrogazione radicale di sé, degli altri e, in generale, di tutto ciò che
è, senza nulla presupporre e senza nulla dare per acquisito e indiscutibile.
Questo è, in effetti, il fondamento primo della filosofia: la disponibilità
alla problematizzazione dell’ovvio e, insieme, alla messa in discussione
critica dei saperi e delle condizioni date; messa in discussione che, a sua
volta, non è fine a se stessa, ma mira al raggiungimento della verità.
Quest’ultima costituisce l’oggetto specifico della filosofia come “amore per
il sapere”.
Alla base della nostra visione è l’idea secondo cui, a livello potenziale,
ogni essere umano sia filosofo. Non è, forse, vero che tutti – anche quanti
mai abbiano letto un solo rigo di filosofia – si pongono domande
fondamentali sul senso della realtà, sul proprio essere al mondo, sul senso
della morte e del vivere e, ancora, sulla possibile esistenza di Dio?
Tutti noi, a rigore, disponiamo – talvolta, senza neppure saperlo – di una
nostra “filosofia primitiva”, un quadro complessivo di senso mediante il
quale interpretiamo l’accadere e la nostra esistenza, il rapporto con gli altri
e con il reale.
Scopo non secondario delle presenti lettere a Epicuro è anche una
discussione critica di questa “filosofia primitiva”: e questo affinché – per
esprimerci con grammatiche liberamente mutuate da Aristotele – l’essere
filosofi “in potenza” proprio di tutti noi passi – o prepari gradualmente a
passare – alla condizione dell’essere filosofi “in atto” per alcuni, magari
anche per quanti, leggendo queste pagine, vorranno approfondire lo studio
della filosofia e assecondare l’amore per la ricerca della verità.
1
Felicità

Caro Epicuro,
è di felicità che oggi vorrei parlarti. Concetto che, più di altri, tutti
credono di avere ben chiaro nel proprio immaginario. Tutti, anche quelli
che non si sono mai avvicinati alla filosofia, pensano infatti di sapere cosa
voglia dire essere felici. E, soprattutto, cercano concretamente di esserlo. La
tua stessa filosofia, Epicuro, che altro è, in fondo, se non un grandioso
tentativo di descrivere la via che può portare noi tutti a essere felici? Ma
che cosa vuol dire, davvero, essere felici? E, posto che sia possibile dare
una definizione della felicità, può essa bastare per essere, poi, realmente
felici? Prima di te, era stato Aristotele a sottolineare la difficoltà di ogni
possibile definizione della felicità. È, forse, facile inquadrare che cosa
concretamente ci faccia felici: un viaggio o un regalo, un incontro o un
successo. Ma quando poi, interrogati, dobbiamo spiegare che cosa davvero
sia la felicità che con quei mezzi abbiamo raggiunto, ecco, allora iniziano le
difficoltà. Sta in ciò, forse, il paradosso della felicità: possiamo più o meno
facilmente identificare i mezzi che ci portano a essa, intesa come un fine.
Ma non riusciamo mai a spiegare che cosa sia quel fine, quale sia la sua
natura.
Vorrei, Epicuro, partire da una tua indicazione, che mi pare preziosa: tu
dici che il fine ultimo a cui tutti – filosofi e non – tendiamo è la felicità.
Addirittura, molto tempo dopo di te, nel 1776, la “Dichiarazione
d’Indipendenza americana” sancirà un diritto, inesistente prima d’allora,
alla felicità.

«Tutti gli uomini sono stati creati uguali, sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti
inalienabili, fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità.»
T. JEFFERSON

Seguendo la tua filosofia, la felicità consisterebbe nel piacere.


Quest’ultimo, però, non deve essere inteso – come troppo spesso oggi si fa
– nel senso di un godimento smisurato e trasgressivo. Tutto il contrario. Il
vero piacere, quello che procura la felicità, è il piacere misurato, che nasce
da una condizione di assenza di dolore. Così concepito, il piacere che porta
alla felicità non è – per fare alcuni esempi concreti – bere senza misura o
mangiare fino all’eccesso: è, invece, bere e mangiare quel tanto che basta,
per rimuovere quei dolori specifici che sono, appunto, la sete e la fame. La
felicità, dunque, dovrebbe coincidere con un piacere in negativo, tale cioè
da corrispondere con l’assenza di dolore.
Mi trova molto d’accordo questa tua concezione, per così dire, misurata
del piacere. Non sono, tuttavia, sicuro che sia di per sé sufficiente a chiarire
cosa in concreto sia la felicità. Mi spiego. È chiaro che, per essere felici,
dobbiamo trovarci in una stabile condizione di assenza di dolore. Ma questo
davvero basta per essere felici? Forse, potremmo dire che è condizione
necessaria, ma non sufficiente.
A questa condizione di assenza di dolore, mi sentirei di aggiungerne
un’altra, forse meno facilmente definibile: siamo felici quando
raggiungiamo la nostra pienezza d’essere; ossia quando sentiamo che
abbiamo raggiunto, anche con l’assenza di dolore di cui dici, uno stato di
equilibrio con noi stessi, con gli altri e con il mondo in generale. Per essere
felici, dunque, non basta non provare dolore, proprio come non è sufficiente
vivere: occorre vivere bene, con un’intensità che noi stessi avvertiamo
come piena e, dunque, tale da non farci desiderare nulla di più e nulla di
meno di ciò che effettivamente abbiamo, di ciò che realmente siamo. In
effetti, la felicità è un concetto davvero particolare: sfugge necessariamente
a una definizione universale, che cioè sia valida per tutti allo stesso modo. E
questo non solo perché, come dicevo, la felicità c’è quando sentiamo di
essere felici (non potremmo, in altri termini, essere oggettivamente felici
senza sentire soggettivamente di esserlo). Accanto a questo motivo, ve n’è
un altro: ciò che fa sì che io mi senta realizzato appieno non vale
necessariamente anche per te.
La felicità implica, quindi, una sua specifica componente soggettiva: che
fa sì che ciascuno possa essere felice a suo modo, diversamente dagli altri.
Per questo, infatti, ciascuno cerca di essere felice inseguendo i propri sogni
e i propri progetti, che sono, per l’appunto, i suoi.
2
Amore

Caro Epicuro,
vorrei oggi trattare di un argomento che, da sempre, allieta il cuore degli
uomini, pur essendo anche, non di rado, fonte di sofferenza. Intendo
l’amore, a cui tu, con la tua teoria, non mi pare – permettimi – abbia
attribuito il giusto peso. A tuo giudizio, infatti, l’amore coinciderebbe con
una passione capace di generare turbamento nel nostro animo. L’innamorato
– tu sostieni – si strugge e soffre, rivelandosi decisamente più vulnerabile di
quanto non sia usualmente.
V’è del vero in ciò che dici, certo. E, tuttavia, mi pare che il tuo
argomento, così attento alle conseguenze negative, trascuri le gioie
dell’amore. Non è forse vero che, da innamorati, raggiungiamo uno stato di
grazia che normalmente ci è sconosciuto? Quando amiamo, siamo certo più
vulnerabili, come tu dici: ma, oltre a ciò, conquistiamo un grado di felicità e
di pienezza d’essere in nome del quale siamo disposti a sopportare di buon
grado anche i turbamenti e le cosiddette “pene d’amore”.
Che cos’è, dunque, l’amore?
Credo lo si potrebbe anzitutto definire come desiderio di totalità: o, più
precisamente, come desiderio di superare la parzialità e la non completezza
che ciascuno di noi, da solo, è. L’amore è, allora, la verità del due: è quel
sentimento mediante il quale facciamo esperienza dal punto di vista del due
di quelle cose a cui, fino a quel momento, eravamo abituati dalla
prospettiva dell’uno. Amando, ci apriamo e ci lasciamo attraversare
dall’altro: con lui instauriamo una relazione che colma la nostra mancanza
d’essere. Contro quel che oggi così spesso si ripete, ciascuno di noi non
basta a se stesso: solo mediante l’altro si completa e raggiunge la pienezza
d’essere che mai potrebbe conquistare, se rimanesse solo. La nostra vita, in
effetti, non acquista senso compiuto solo quando ci completiamo con
l’“altra metà” che, da sempre, cercavamo?
Platone, prima di te, l’ha espresso magnificamente con un mito: un
tempo l’essere umano era un intero completo, perché si era due in uno.
Invidiosi di tanta perfezione, gli dèi dell’Olimpo spezzarono in due
quell’unità. Da quel momento, ciascuno, avvertendo con nostalgia la
mancanza dell’altra metà con cui un tempo formava un intero perfetto, la
cerca disperatamente. E, se è così fortunato da trovarla, non se ne stacca
più: le sta tanto vicino, notte e giorno, perché vuole ricostituire l’unità duale
che un tempo si era.

«Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la
distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due:
da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna
all’antica perfezione[...]»

PLATONE

L’amore, Epicuro, è una potenza straordinaria o, come dice Platone, è un


dio che merita i massimi onori: quando c’è, siamo disposti a compiere le
imprese più eccezionali. Non solo perché, amando, siamo spinti ad andare
oltre noi stessi, a tendere in ogni modo verso l’amato, con cui desideriamo
unirci e, così, completarci. Ma anche perché è, di tutte, la sola realtà che ci
permetta di sopravvivere oltre la morte. A tal punto che, forse, la parola
latina amor, da cui deriva il nostro “amore”, rimanda ad a-mors, “togliere la
morte”: amando, gli umani diventano come gli dèi, immortali e sempre
uguali a se stessi.
Noi umani, che siamo mortali, possiamo imitare gli dèi con l’amore.
Come? Amandoci e generando nell’amore, procreando e lasciando un
essere ogni volta nuovo – frutto del nostro amore – che prenda il posto di
noi, che invecchiamo e moriamo. Tale e tanta è la potenza dell’amore.
3
Morte

Caro Epicuro,
ci hai insegnato che essa non deve essere temuta. Perché, in fondo,
quando c’è lei non ci siamo noi, e fintantoché ci siamo noi, lei non c’è.
Alludo alla morte, che potremmo anche intendere come l’inappellabile fine
di tutte le cose. Morendo, infatti, finisce ogni nostra possibile esperienza del
mondo. E cessiamo d’essere. Non so fino a che punto il tuo argomento sia
persuasivo, anche se capisco bene i motivi etici che ti hanno indotto a
elaborarlo: la morte è la realtà che più ci spaventa. E pensare, come fai tu,
che in verità mai la incontriamo, può essere di grande conforto.
Ma che cos’è, davvero, la morte?
Nel suo senso più generale, penso la si possa concepire come il punto
finale di quella lunga frase che, con le sue virgole e le sue parentesi, con i
suoi punti esclamativi e i suoi interrogativi, è la nostra vita. È il viaggio
finale e senza ritorno, un salto nell’abisso da cui nessun viaggiatore è
tornato per raccontarci cosa realmente accada quando non siamo più. Per
chi, come te, ritenga che non vi siano altre realtà oltre quelle materiali del
mondo, essa è davvero la fine di tutto. Diversamente, per chi, come i
cristiani, crede in un aldilà, essa è un passaggio: non fine di tutte le cose,
dunque, ma inizio di una nuova vita, ancora più piena e più autentica di
quella trascorsa su questa terra.
In effetti, una cosa è certa: dell’intero creato, siamo i soli viventi che
abbiano coscienza della morte. E, con essa, del nostro stesso stato di
condannati, che solo ignorano il giorno dell’esecuzione. Trascorriamo
l’intera nostra vita come una più o meno lunga preparazione alla morte,
della quale siamo consapevoli. Sembrerebbe, a un primo sguardo, una vera
e propria condanna: non solo moriamo, ma addirittura sappiamo che quello
è, inaggirabilmente, il nostro destino.
Ma il sapere di dover morire ci pone, davvero, in una condizione
peggiore rispetto agli altri viventi, che pure, come noi, muoiono, ma non
vivono con la coscienza di questo inevitabile evento? A me pare che, forse,
il sapere di dover morire sia ciò che determina la nostra condizione
privilegiata: non è, forse, solo la piena coscienza del fatto che disponiamo
di un tempo limitato, dai confini precisi e invalicabili, a fare sì che
possiamo progettare la nostra vita, attribuendole un senso compiuto? Se noi
possiamo attribuire un senso preciso all’esistenza, ciò dipende, in fondo,
proprio dal fatto che essa figura come un segmento delimitato, con un inizio
e con una fine: al quale, per ciò stesso, possiamo assegnare quel senso
compiuto (denso di progetti e aspettative, di sogni e di speranze), che,
invece, sarebbe impossibile ove non vi fosse, ben chiara nel nostro
immaginario, l’idea della fine. È per questa ragione, in effetti, che, prima di
te, Omero, nei suoi poemi, rappresenta perfino gli dèi dell’Olimpo come
invidiosi della condizione umana. L’immortalità dei divini impedisce loro di
assegnare un senso compiuto al loro esistere: ciò che, invece, possono fare i
mortali.
La morte, dunque, non deve essere temuta: e non dovrebbe esserlo
nemmeno qualora, dopo di essa, come tu ritieni, non vi fosse più nulla. Al
suo cospetto, conviene assumere – impiego l’immagine del poeta Lucrezio
– il contegno di chi, dopo un lauto banchetto, si alza pienamente appagato o
del tutto insoddisfatto: in ogni caso, può ben dirsi contento di prendere
congedo dalla tavola.
4
Amicizia

Caro Epicuro,
tra i valori massimi che hai elogiato nei tuoi scritti occupa senz’altro un
posto di primo piano l’amicizia. E come non darti ragione? Chi trova un
amico trova un tesoro: così il lessico comune sintetizza l’importanza di
questa esperienza. Ma che cos’è l’amicizia?

«Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande
è l’amicizia.»

EPICURO

La tua lingua greca usa una bella espressione per definirla, chiamandola
philia, che usualmente traduciamo in italiano con “amicizia”, ma che mi
pare dica qualcosa in più, qualcosa di più intenso. Philein, il verbo greco da
cui deriva la philia, vuol letteralmente dire “volere bene”, “amare”: da esso
deriva anche il venerando nome della filosofia, che è, appunto, l’“amore per
il sapere”.
In prima approssimazione, potremmo dire che l’amicizia è un rapporto
mediante il quale “vogliamo bene” e “amiamo qualcuno”, perché lo
sentiamo affine a noi, vicino per interessi e sensibilità: con lui stiamo bene,
condividendo esperienze e stati d’animo.
Il “voler bene” dell’amicizia è, certo, differente da quello proprio
dell’“amore”, e per più ragioni. Anzitutto, l’amore si rivolge
esclusivamente a una persona. Si possono, invece, avere più amici: il
rapporto amicale non pretende l’esclusività, né, se è puro, ospita in sé la
gelosia.
In secondo luogo, l’amore richiede continuità nel tempo e nello spazio:
si ama quotidianamente e un amore intermittente, inframmezzato da pause –
supponiamo – di mesi e settimane non sarebbe propriamente tale.
L’amicizia, invece, si conserva nel tempo e può esistere anche a distanza:
quante volte ci capita, Epicuro, di rivedere anche dopo molti anni un amico
e di avvertire immediatamente la stessa carica affettiva con cui ci eravamo,
a suo tempo, lasciati? Ci ritroviamo e, non di meno, sentiamo che non è
cambiato nulla: e che, come si usa dire, siamo amici come prima.
Certo, con questo non voglio dire che il rapporto amicale non vada
alimentato: l’amicizia, quella vera, cresce giorno per giorno e si nutre di
esperienze condivise, di dialogo e di un sentire comune che fa sì che
l’amico, in fondo, ci appaia come un altro noi. A tal punto che, forse, ha
ragione Aristotele quando scrive che l’amicizia è una sola anima, che vive
in due corpi. Per questo, il vero amico è quello di cui, come solitamente si
dice, possiamo fidarci come di noi stessi.
Come l’amore, però, l’amicizia è disinteressata e gratuita: vive nella
forma di un rapporto in cui ci apriamo gratuitamente, senza tornaconto,
all’altro, che a sua volta si apre analogamente a noi. E lo facciamo per il
piacere stesso di quel rapporto, non in vista d’altro. Proprio in ciò sta il
criterio per discernere tra l’amicizia vera, che è disinteressata, e quella
falsa, che solo superficialmente può essere classificata come amicizia: in
questo secondo caso, il rapporto è interessato. Non è fine a se stesso, ma
rivolto a un utile che può essere di entrambi o di uno soltanto e che, in ogni
caso, fa sì che non vi sia una vera relazione amicale.
Ma se questo è il vero rapporto di amicizia, occorre distinguerlo
attentamente da altre forme di relazione, che pure a un primo sguardo
parrebbero rientrare anch’esse nell’orizzonte di quella che abbiamo
chiamato amicizia. Lo dico soprattutto in riferimento all’epoca presente, in
cui il concetto di amicizia sembra essersi a tal punto dilatato da significare,
alla fine, tutto e il suo contrario: che ne è, insomma, dell’amicizia al tempo
dei social network, dove basta premere un pulsante per moltiplicare le
cosiddette “amicizie”? Ma si tratta, davvero, di relazioni che possiamo
intendere come amicizie, quelle con “profili” digitali che, magari realmente
situati dall’altra parte del mondo, mai incontreremo? Si tratta, per di più, di
“amicizie” che, moltiplicandosi pressoché senza limiti, finiscono per
svuotare il concetto stesso di amicizia: ci si può dire fortunati se, nella
propria vita, si ha un numero di amici veri – su cui veramente si può fare
affidamento – che si contano sulle dita di una mano. Le migliaia di
“amicizie” promesse dai social network esulano, com’è evidente, da questa
prospettiva. E, di più, finiscono per distrarci inutilmente dagli amici veri, in
carne e ossa, con i quali possiamo intrattenere un vero rapporto di
prossimità nello spazio, nel tempo e con l’anima.
Dobbiamo, dunque, come anche tu dici, Epicuro, dedicarci all’amicizia,
coltivarla, aprendoci all’amico e donandoci a lui, certi che anch’egli, se è un
vero amico, farà altrettanto.
5
Speranza

Caro Epicuro,
grande e potente mi pare, tra tutte le passioni dell’anima, soprattutto la
speranza. Quando c’è, siamo disposti ad affrontare anche le situazioni più
difficili. E lo facciamo perché il presente in cui siamo, pur con le sue
difficoltà, ci pare aperto a un futuro migliore, a cui guarda la nostra
speranza. La speranza è, in effetti, la passione rivolta al futuro per
eccellenza. Che altro significa sperare, Epicuro, se non guardare
all’avvenire con animo pieno di aspettative e di attese, di sogni e di
progetti? In estrema sintesi, la speranza è quel senso che avvertiamo dentro
di noi quando pensiamo, anche se in assenza di certezze, che il futuro ci
riserverà qualcosa di migliore.
Così le difficoltà che costellano il nostro presente ci appaiono meglio
sopportabili: le viviamo, infatti, come una sorta di “ponte mobile” che serve
a condurci verso uno stato migliore, che già precorriamo nella nostra
coscienza. Sperando è come se ci proiettassimo, dal presente che c’è e in
cui siamo, al futuro, che ancora non c’è e in cui ancora non siamo: e, in tale
proiettarci, pregustassimo già i frutti positivi di cui godremo quando il
futuro diverrà, a sua volta, il nuovo presente.
Nel vostro immaginario greco, vi è un mito che condensa in modo
suggestivo il senso della speranza. Alludo al mito del “vaso di Pandora”,
che Zeus, il re dell’Olimpo, volle donare a questa graziosa fanciulla, per
prendersi una rivincita su Prometeo, che l’aveva indegnamente ingannato.
Zeus si era raccomandato: Pandora non avrebbe in alcun caso dovuto aprire
quel vaso prezioso. E nonostante quella raccomandazione, e anzi forse
proprio per quella, ella lo aprì: una volta scoperchiato, da esso si
sprigionarono, diffondendosi per il mondo, tutti i mali peggiori, dalla pazzia
alla sofferenza, dalla gelosia al vizio. Pandora provò a richiuderlo, ma era
troppo tardi: nel vaso era rimasta solo la speranza, che, da quel giorno, è la
nostra risorsa principale per fronteggiare le sofferenze di cui il mondo è
pieno.
Senza speranza, non avremmo la forza di affrontare il presente, denso
com’è dei mali fuoriusciti dal vaso di Pandora. È solo la speranza che,
permettendoci di guardare fiduciosi al di là dei confini di ciò che c’è, ci
dona la forza di non arrenderci e di agire, quand’anche la situazione possa
apparire difficile e, talvolta, senza vie d’uscita.
La potenza proiettiva della speranza è tale per cui essa pone sempre
dinanzi a noi l’immagine di un futuro diverso e migliore, che ci permette,
così, di agire con forza nelle difficoltà del presente, tenendo sempre a mente
quella visione incoraggiante. La quale finisce, in questo modo, per
diventare uno stimolo all’azione progettuale: è una sorta di sogno desto che
ci conferisce la forza e la passione necessarie per non cedere alla
rassegnazione e al più cupo pessimismo, nei quali inevitabilmente
precipiteremmo in assenza dell’idea di una possibile soluzione.
A questo proposito, Epicuro, ritengo esistano due diversi usi della
speranza, uno positivo e degno di essere seguito, l’altro negativo e tale da
dover essere evitato quanto più possibile. Il primo, che chiamerò il buon
uso della speranza, è quello a cui ho già fatto cenno: la “speranza buona” è
quella che, delineando un’immagine entusiasmante del futuro, ci stimola ad
agire, nel presente, in nome di quella visione. Essa, per così dire, risveglia
in noi una sorta di ottimismo militante, che ci porta a uscire dall’indolenza e
dalla pigrizia. L’uso della speranza che, per contrasto, chiamerei “cattivo” è,
in altri termini, l’impiego della speranza in un futuro migliore come alibi
per non agire; e questo nell’illusione che le difficoltà del presente si
toglieranno da sé e che l’avvenire, a prescindere dal nostro impegno
concreto, sarà automaticamente destinato a cambiare in positivo. Come
vedi, Epicuro, questo secondo uso della speranza procede nella direzione
opposta rispetto al primo e sortisce effetti antitetici: se la speranza buona
stimola all’azione, quella cattiva la paralizza. La prima ci induce ad agire
perché possa realizzarsi il futuro migliore di cui siamo in cerca. La seconda
ci spinge a restare inerti, come se tutto potesse risolversi da sé.
È al primo impiego della speranza, dunque, che dobbiamo rivolgerci,
avendo cura di non cedere mai al secondo.
6
Esistenza

Caro Epicuro,
troppo spesso confondiamo la vita con l’esistenza. La vita è,
genericamente, ciò che riguarda il vivente nella sua determinazione più
ampia: vivono, oltre agli umani, anche le piante e gli animali, ossia gli altri
enti che sperimentano quel ciclo di nascita, crescita e morte al quale
assegniamo, propriamente, il nome di vita. Ma solo gli esseri umani,
propriamente, esistono. Noi umani siamo i soli animali dotati del “logos”,
per usare l’espressione della tua lingua greca, Epicuro: “logos” vuol dire
“ragione” e “linguaggio” e, dunque, rimanda a quelle realtà che ci
distinguono, per differenza specifica, da tutti gli altri animali che popolano
il creato. Ma siamo anche, e senza contrasti con la precedente affermazione,
i soli animali che, oltre a vivere, propriamente esistono.
Cosa significa esistere, allora? Vorrei provare a spiegarlo
richiamandomi, ancora, alla differenza che ci separa dagli altri enti che
popolano il mondo. Le pietre e, in generale, gli enti inanimati “sono”: non
“vivono” e, a maggior ragione, non “esistono”. Le piante e gli animali, pur
nella loro diversità, “sono” e, insieme, “vivono”. Solo noi umani “siamo”,
“viviamo” ed “esistiamo”. I nostri stessi essere e vivere trovano
compimento nella forma specifica dell’esistere. L’esistenza è una vita
progettuale, consapevole, che ha in sé un senso di cui il soggetto è
consapevole. Non è, forse, vero che ciascuno di noi vive progettandosi,
sognando e inseguendo aspettative e desideri che contribuiscono a fare sì
che la sua vita, appunto, acquisti un senso compiuto? Il nostro vivere non si
esaurisce nelle funzioni elementari che fanno sì che i viventi vivano, come
mangiare, bere e dormire. Accanto a queste funzioni, che condividiamo con
gli altri viventi, noi umani esistiamo: attribuiamo al nostro essere al mondo
un senso superiore, che non può certo esaurirsi nelle funzioni elementari di
cui dicevo.
Ciascuno di noi esiste nella misura in cui, per così dire, “oltrepassa” il
proprio puro essere così com’è: esistere significa, in questo senso, sporgere
oltre se stessi, oltre la condizione data, per aprirsi con aspettative e progetti
verso un domani che anticipiamo nella nostra coscienza. Ancora, esistere
vuol dire sapersi mortali e trovare in questo fatto del sapersi mortali la
possibilità più alta della realizzazione di sé. Come? Assegnando un senso
compiuto a quel segmento limitato di tempo che ci è dato occupare con la
nostra vita. Perché ciò avvenga, ciascuno è chiamato a darsi dei fini, a
seguire dei progetti e degli obiettivi, facendo della propria vita una sorta di
continua attività in vista del loro raggiungimento. A differenza degli enti
inanimati, noi umani, proprio perché esistiamo, ne siamo ricchi: a tal punto
da essere a pieno titolo dei “formatori di mondo”. In che senso? Il mondo
non è mai solo ciò che c’è: è anche, insieme, la ricca rete dei significati e
dei valori che gli attribuiamo. Il mondo è, insomma, anche l’immagine che
di esso ci facciamo, ora rispecchiandolo così com’è, ora progettandolo in
vista di condizioni che ancora non ci sono.
Tra le prerogative più importanti dell’esistenza mi pare che rientri la
categoria di possibilità. Esistere significa poter scegliere o, se preferiamo,
poter determinare se stessi nella scelta, optando per certe direzioni e per
certe decisioni anziché per altre. Nelle scelte che facciamo nella nostra
esistenza ne va di noi stessi, del nostro essere. Se tutto fosse preordinato, e
non avessimo la possibilità di scegliere, non esisteremmo, semplicemente
vivremmo come tutti gli altri viventi. Invece l’esistere è la serie ininterrotta
delle scelte che, quotidianamente, compiamo: le quali comportano non solo
che si opti per qualcosa, ma che, in pari tempo, si scarti qualcos’altro. Ogni
scelta comporta sempre, inevitabilmente, un non scelto.
L’uomo contemporaneo, Epicuro, sembra sempre più distante dal valore
proprio dell’esistere, che, come ho detto, è scelta individuale con la quale ci
si progetta e si assegna un senso al proprio essere al mondo. L’uomo in
balia della tecnica e dei consumi, dello spettacolo mediatico e
dell’omologazione generalizzata, all’esistere preferisce il semplice essere:
in ciò, egli diventa simile alle cose, alle pietre o, peggio ancora, alle merci
che invadono i nostri templi contemporanei, che sono, Epicuro, i centri
commerciali. Anziché determinare liberamente se stesso nella scelta,
l’uomo della civiltà dei consumi lascia che a determinarlo siano,
dall’esterno, la pubblicità e le mode, i messaggi mediatici martellanti e gli
stili di vita uniformati su scala planetaria. È questo il dramma, Epicuro.
Pochi, ormai, esistono in senso pieno. I più preferiscono irresponsabilmente
essere soltanto, omologandosi al modo generale di stare al mondo.
7
Verità

Caro Epicuro,
di tutti i concetti della filosofia, “verità” è il più difficile e, insieme, il più
importante. La filosofia stessa, in quanto “amore per il sapere”, è per sua
essenza un amore per la verità: della quale è in cerca come – l’immagine è
di Platone – l’innamorato lo è dell’amata. Ma che cos’è la verità? Questa
domanda va presa sul serio, e non, come fece Ponzio Pilato, per “lavarsene
le mani” e per disinteressarsene. Il filosofo si misura, in effetti, per
l’intensità e per la costanza con cui è in grado di misurarsi con la questione
della verità.
La tua lingua, Epicuro, chiama la “verità” con il nome di “aletheia”, che
letteralmente vuol dire “disvelamento”: è vero ciò che non è occultato, ciò
che appare per quello che realmente è.
Ho richiamato questo punto per mostrare come la concezione della verità
sia storicamente andata incontro a trasformazioni storiche. Nel presente
storico da cui io ti scrivo, ad esempio, prevale un’immagine di verità che
sarebbe più opportuno chiamare “certezza”. Essa è pensata in coerenza con
i procedimenti della scienza. La verità – è questo il tacito presupposto –
sarebbe una sorta di corretto, certo ed esatto rispecchiamento della realtà:
lo scienziato è nel “vero” quando rispecchia in forma esatta parti di realtà.
È, questa, una concezione profondamente radicata nella storia occidentale:
si pensa che il vero coincida con l’adeguamento del soggetto all’oggetto,
della mente alla realtà. Si è nel vero, e non nell’errore, quando la nostra
soggettività conoscente (il nostro io) si adegua all’oggettività esterna del
mondo, rispecchiandola fedelmente e senza stravolgerla.
Ma siamo davvero sicuri che questa sia la verità? O non dovremmo, in
modo più appropriato, chiamarla “correttezza”? Troppo spesso, Epicuro,
continuiamo a confondere la verità con altro, che pure a un primo sguardo
può somigliarle. Lo scienziato che rispecchia fedelmente l’oggetto è nella
“certezza”, non nella verità. L’innamorato che si dichiara all’amata è nella
“sincerità”, non nella verità. Ancora, il paesano che indica la strada giusta al
viandante è nella “veridicità”, non nella “verità”. In sintesi, ritengo che il
concetto di verità presenti un campo più limitato e, insieme,
paradossalmente, più ampio di quello che siamo soliti attribuirle: più
limitato, perché occorre distinguerlo con cura dai campi, anch’essi
pienamente legittimi, delle scienze; più ampio, in quanto la verità non si
lascia esaurire nel semplice rispecchiamento che noi, come soggetti,
operiamo del mondo oggettivo.
Se dovessi prospettare una definizione generale della verità, che è
l’oggetto della filosofia, direi che essa coincide con la conoscenza, con la
valutazione e con la trasformazione della totalità. La totalità, dal canto suo,
è l’orizzonte complessivo del nostro mondo: è l’insieme delle cose che
sono. La verità filosofica riguarda la conoscenza di questa totalità, che deve
essere valutata dal soggetto che la conosce, cioè da noi umani, e
trasformata, affinché diventi sempre più corrispondente all’immagine della
nostra ragione.
In questo senso, la verità filosofica si distingue e, insieme, presenta punti
in comune sia con la scienza, sia con la religione: come avviene per la
scienza, la verità della filosofia si conosce mediante la ragione; come
accade con la religione, l’oggetto della verità filosofica non è una faccia
limitata del reale, ma è la realtà nella sua totalità.
Vi sarebbe molto altro da dire, Epicuro, sul nobile concetto di verità, a
cui qui io ho, per forza di cose, solo accennato. E ciò a maggior ragione, se
si considera l’essenza della nostra epoca: la quale, seguendo Ponzio Pilato,
pare aver complessivamente voltato le spalle al problema della verità,
ritenendolo ora inessenziale, ora perfino dannoso. La verità – si dice
talvolta – è pericolosa, perché chi pretende di averla si sente legittimato ad
agire in suo nome e a costringere gli altri ad adattarsi a essa. Eppure, mi
pare rientri appieno nel concetto di verità ciò che la saggezza del tuo
popolo, Epicuro, ci ha tramandato: la verità non si impone con la violenza,
ma si raggiunge dialogando insieme.
8
Relativismo

Caro Epicuro,
è della questione del relativismo che oggi desidero scriverti. Nella sua
definizione più generale, il relativismo coincide con quella prospettiva in
nome della quale non vi sarebbe una verità, ma solo un’indefinita serie di
punti di vista e di prospettive, di ordini valoriali e visioni del mondo. Tutti
sarebbero, in egual misura, relativi e non definitivi. Essi, per di più,
muterebbero a seconda del momento storico e del contesto considerati: e,
così, ciò che in un’area del mondo, in un dato momento storico, può
apparire giusto e vero, risulta, invece, malvagio e falso in un’altra area e in
un’altra congiuntura storica. Spesso, addirittura, nella stessa epoca – è, in
effetti, capitato – ciò che veniva concepito e praticato al di qua di un corso
d’acqua era, poi, severamente proibito al di là di esso.
Secondo la celebre tesi dell’antico Protagora, che potrebbe leggersi come
il manifesto del relativismo, l’uomo sarebbe misura di tutte le cose: il fatto
che ciò che a me pare dolce risulti per te amaro ne sarebbe una prova
difficilmente confutabile. Per questo, il relativismo si accompagna spesso
allo scetticismo, che è il dubbio generale circa l’esistenza stessa di una
verità: lo scettico esercita il dubbio più radicale, fino a mettere in
discussione la questione stessa del vero. Per questo, lo scetticismo pare, in
effetti, compatibile con il relativismo, del quale condivide la pluralità dei
punti di vista e delle concezioni del mondo.
Chi dice “verità”, per gli scettici e per i relativisti, vuole soltanto imporre
universalmente il proprio relativo punto di vista, costringendo anche gli altri
ad adottarlo abbandonando il proprio. Però anche il relativismo, non solo
nella sua forma più radicale (quella dello scetticismo), deve in qualche
modo, per affermare se stesso, avvalersi di un riferimento alla verità: infatti,
negando l’esistenza della verità, esso già avanza una sua proposta
veritativa, quella, appunto, secondo la quale la verità non esiste.
Ora, io sono convinto che il relativismo, anche nella sua variante
apertamente scettica, sia, insieme, nel vero e nel falso. È nel vero quando
rileva la pluralità delle culture e delle usanze dei popoli, insistendo sulla
loro irriducibilità a un modello unico. Come negare, in effetti, che gli usi e i
costumi mutano, e non poco, a seconda dell’epoca storica e a seconda
dell’area geografica considerate? Con che diritto, di conseguenza, possiamo
giudicare le altrui culture e le altrui usanze, sul fondamento della nostra?
Ma il relativismo pecca di falsità quando, da questa giusta considerazione
della pluralità dei punti di vista, ricava per estensione l’inesistenza della
verità in quanto tale. Rovesciando il punto di vista relativistico, la pluralità
dei costumi e delle lingue, delle tradizioni e delle usanze, lungi dal negare
l’idea di verità, non potrebbe essere la prova a sostegno della verità che dice
che il genere umano esiste nella ricchezza molteplice delle caratteristiche
che abbiamo citato?
Il fatto poi che vi sia una verità non toglie che, in concreto, essa possa
determinarsi in modo vario, secondo differenze culturali, linguistiche e
storiche. La pluralità delle culture e dei costumi coesiste, così, con l’unità
del genere umano: di più, presuppone che vi siano dei valori universali,
riferiti al genere umano complessivamente considerato e, dunque, a ogni
suo membro, quale che sia la sua area geografica di provenienza.
Voglio qui, a sostegno di questa tesi, portare un solo esempio, che mi
pare particolarmente efficace. La pratica della tortura è abominevole in
quanto tale e, dunque, a prescindere dalla cultura di riferimento. Essa
offende quel concetto di natura umana, valido in ogni momento e in ogni
contesto storico, che si determina nella concreta ricchezza delle lingue e
delle storie, delle culture e delle usanze.
Per questo, Epicuro, credo che occorra maneggiare con cura il
relativismo: facendo nostra la sua positiva funzione di relativizzazione
dell’assolutezza del nostro punto di vista; e, insieme, rifiutando la sua
accezione più scettica, che ci porterebbe ad abbandonare l’idea stessa di
verità.
Se il relativismo avesse ragione sarebbe impossibile dire cosa è ingiusto
e falso: e la tortura stessa, secondo il nostro esempio, dovrebbe essere
considerata in sé né vera né falsa, né giusta né ingiusta.
9
Scetticismo

Caro Epicuro,
che cosa significa, davvero, essere scettici? Nella lingua comune,
l’espressione rinvia a un modo d’essere sospettoso e, più in generale, a una
posizione contraddistinta dal dubbio e dalla indisponibilità a credere in ciò
in cui i più credono. Nella lingua specifica della filosofia, lo scetticismo è
una corrente di pensiero che ha per principio fondamentale la radicale
messa in discussione delle certezze che i sensi continuamente ci offrono. Lo
scettico, in sostanza, è amico del dubbio. E lo è in forma radicale: a tal
punto da chiedersi se tutto ciò che percepiamo con i sensi non sia, in realtà,
un grande inganno.
Un’immagine classica che ogni vero scettico porta a sostegno del proprio
dubbio radicale e del suo allontanamento da quelle verità che ai più
appaiono inattaccabili è quella del remo immerso nell’acqua. Ciascuno di
noi può facilmente ripetere l’esperimento scettico: è sufficiente immergere
in mare un remo o un qualsivoglia bastone. Esso, grazie all’effetto ottico
causato dall’acqua apparirà spezzato in due alla vista, pur rimanendo in
realtà integro. Da questa esperienza lo scettico prende spunto per sollevare
il dubbio più radicale: che cosa ci vieta di pensare che i sensi ci ingannino
sempre, proprio come nel caso del remo immerso nell’acqua?
Ne deriva, dal punto di vista dello scetticismo coerente con se stesso, una
conseguenza degna di nota: noi non conosciamo mai la verità. E il nostro
sapere, dunque, può sempre di nuovo essere messo in discussione.
Non intendo soffermarmi oltre sugli argomenti scettici, che sono
molteplici e, a tratti, molto convincenti. Vorrei, invece, mettere in luce
alcuni nodi problematici legati allo scetticismo. Mi pare, in generale, che
esso tenda a tradire se stesso. In che senso? Lo scettico, come si è visto, fa
valere un atteggiamento contraddistinto dal dubbio. Egli procede evitando
con attenzione di accettare verità indimostrate. Di più, perviene alla
conclusione per cui non vi sono verità e, quand’anche vi fossero, non
potremmo conoscerle. Proprio in questa conclusione mi pare stia il primo
errore, di ordine teorico, dello scetticismo. Lo scetticismo, che dichiara che
la verità non esiste (e che in ogni caso non ci è dato conoscerla), non sta
già, forse, proponendo una verità a tutti gli effetti? Alludo alla verità per cui
non vi sono verità: tale tesi è anch’essa posta nella forma di una verità
incrollabile, di un sapere certo.
Vi è, poi, un secondo problema, in questo caso di ordine etico, connesso
con la prospettiva scettica. La quale, negando l’esistenza e la conoscibilità
del vero, finisce per rendere impossibile ogni condotta morale e, più in
generale, ogni vita pratica. In base ai suoi stessi assunti, infatti, lo scettico
non è nelle condizioni di dirci né che cosa sia giusto o sbagliato né,
conseguentemente, come dobbiamo comportarci. Se nulla è vero o se,
comunque, non possiamo sapere cosa lo sia, non vi è allora differenza tra
l’agire che consideriamo virtuoso e quello del brigante, che siamo propensi
a giudicare corrotto. Si narra, a tal riguardo, che uno degli antichi teorici
dello scetticismo – Pirrone di Elide – portasse alle conseguenze più estreme
questa indifferenza morale: e, non potendo stabilire se fosse un bene o un
male, si lasciasse investire per strada dai carri.
In sostanza, mi pare sia impossibile vivere bene e, forse, vivere, in
accordo con la logica dello scetticismo. Al quale, tuttavia, vorrei
riconoscere almeno un merito. Pericoloso se trasformato in filosofia di vita,
lo scetticismo può, invece, svolgere una funzione positiva se utilizzato
come temporaneo atteggiamento al cospetto delle presunte verità del senso
comune. Metterle in discussione, dubitando della loro consistenza, alla
maniera scettica, può essere il primo passo per una vera ricerca filosofica,
che voglia scoprire che cosa le cose realmente sono o, come amano dire i
filosofi, “conoscerne le essenze”.
Insomma, anche lo scetticismo, se non interpretato in modo assoluto,
può svolgere una sua funzione: può attivare la ricerca filosofica della verità;
ricerca il cui primo presupposto è la messa in discussione, la
problematizzazione, delle cosiddette verità del senso comune.
10
Religione

Caro Epicuro,
è il tema della religione che oggi vorrei affrontare. Tra tutti, è uno dei più
ardui, lo so bene. Anche in ragione del fatto che tratta di realtà che, per loro
essenza, non sono visibili con gli occhi. In termini generali, mi pare che la
religione possa definirsi come ciò che “lega” l’uomo al divino, gli umani a
una più generale dimensione superiore che essi chiamano “Dio”. Il termine
stesso “religione” sembra richiamare questa connessione, perché rimanda al
latino religare, che indica, appunto, il “legare insieme”. Si tratta di un
“legare insieme” in forza del quale gli uomini pensano, sia pure in modi
vari, di potersi relazionare a un piano superiore, divino, alla cui luce anche
quello del mondo terreno acquista un senso compiuto.
Vi è, nella religione, un importante elemento comune con la filosofia:
tutte e due cercano di spiegare il tutto, la totalità. Non si accontentano di
spiegazioni parziali e limitate, quali sono, ad esempio, quelle fornite dalla
scienza. E, tuttavia, si dà anche una differenza imprescindibile: la filosofia
tenta di spiegare la totalità con il concetto, con la ragione, senza dare nulla
per presupposto. La religione prova invece a spiegare il tutto usando la
rappresentazione e non il concetto, il racconto quasi mitologico e non la
ragione.
L’oggetto, ripeto, è il medesimo: la totalità, ossia tutto quel che c’è.
Diverso, però, è il metodo: la filosofia spiega, la religione racconta. La
prima non accetta nulla come indimostrato. La seconda presuppone alcune
verità indimostrabili. Esse non sono oggetto di ragione, ma di fede: che è,
appunto, la forma di conoscenza, se così possiamo definirla, più tipica della
religione. La filosofia può, e storicamente l’ha fatto, dimostrare
razionalmente l’esistenza di Dio. La religione, dal canto suo, ci dice perché
dobbiamo credere in Dio, con la fede, abbandonando il modo di procedere
della ragione: quest’ultima, dal punto di vista della religione, è troppo
modesta, troppo debole, per fare luce su tutto. E, come dirà sant’Agostino,
pensare di poter spiegare Dio con la ragione è un’assurdità pari a quella di
chi volesse svuotare il mare con l’ausilio di un secchiello.
Sostanzialmente, l’uomo ha pensato il divino in forme molteplici, tra le
quali voglio qui richiamare la distinzione tra una religione politeistica,
come quella tua e dei greci, Epicuro, e una religione monoteistica, quale è
quella dei cristiani, dei musulmani e degli ebrei. Politeistica è la religione
che ammette l’esistenza di più divinità, come accade con il pantheon degli
dèi dell’Olimpo. Monoteistica, al contrario, è quella che riconosce
l’esistenza di un solo Dio. Per quale ragione gli uomini sentirebbero
l’esigenza di credere nel divino e di sentirsi, in qualche modo, a esso
connessi?
Storicamente, si sono prospettate diverse risposte al quesito. Vi è chi ha
sostenuto che tutto ciò che esiste nel nostro mondo deve avere avuto una
causa e che, dunque, occorre ipotizzare l’esistenza di una causa prima,
all’origine di tutto il resto: tale sarebbe, appunto, Dio. Altri, invece, hanno
affermato che noi avvertiamo l’imperfezione di tutto ciò che ci circonda e
che dunque, per avvertirla, dobbiamo in qualche modo avere in noi l’idea di
perfezione, che ad altro rimanda: tale sarebbe, ancora una volta, Dio. Altri
ancora hanno ammesso che l’esistenza di Dio è una necessità fondamentale
del nostro pensiero: se Dio, per definizione, è ciò di cui non possiamo
pensare nulla di maggiore, allora Dio deve necessariamente esistere e non
può essere solo un pensiero. Perché? Perché se noi pensassimo Dio come un
semplice pensiero non dotato di esistenza reale, allora non sarebbe ciò di
cui non possiamo pensare nulla di maggiore: basterebbe, infatti, pensare il
medesimo, ma come esistente, per avere qualcosa di maggiore. Per questo,
Dio non può non esistere.
Al di là dei molteplici modi – qui ne ho richiamati solo alcuni – in cui i
filosofi e i teologi hanno preteso di dimostrare l’esistenza di Dio, mi sembra
importante sottolineare la novità introdotta dalla religione cristiana. La sua
novità sta nel riconoscere che il mondo sensibile nel quale viviamo non è il
vero mondo. Esso è, per così dire, un passaggio verso il mondo vero, che
verrà dopo la morte e che coincide con il “regno di Dio”: il mondo terreno
(immanente) acquista, così, un senso compiuto solo se posto in connessione
con il mondo celeste (trascendente), il solo vero. In questo nuovo modo di
pensare, taluni hanno visto un’infinita valorizzazione dell’uomo: che, per la
prima volta, è ora concepito come destinato a una vita eterna, tale da
superare anche le barriere del finito connesso con la morte. Altri invece vi
leggono un depotenziamento del mondo terreno e della vita stessa: che
perderebbero il loro senso pieno al cospetto del superiore mondo celeste. Vi
sarebbe ancora molto da dire in tema di religione, Epicuro. Ma mi accorgo
di essermi già troppo dilungato in questa lettera.
11
Critica

Caro Epicuro,
stavo tra me e me riflettendo su quanto sia importante, in generale e oggi
più che mai, il concetto di critica. E questo vale non solo per la filosofia,
che in quel concetto trova una delle sue figure fondamentali, ma per la
nostra vita in generale. Vivere senza “spirito critico”, come anche il lessico
comune lo chiama, significa in fondo vivere senza consapevolezza, senza
saggiare costantemente la consistenza di ciò che ci sta intorno. La parola
“critica” deriva dal greco “krino”, che alla lettera significa “io giudico”.
L’atteggiamento della critica è, dunque, quello di chi giudica, senza
accettare passivamente l’oggetto che gli sta dinanzi: oggetto che, in verità,
può essere variamente inteso ora come una condizione (sociale, politica,
economica ecc.), ora come una presunta verità esposta in una tesi.
La critica non si accontenta che le cose siano: vuole indagarne l’essenza
e la ragione. Per questo, come dicevo, non esiste filosofia in assenza di
critica. La filosofia è, per sua vocazione, critica. E tale era l’atteggiamento
più tipico di Socrate: del quale si narra che fosse solito trascorrere le sue
giornate nella piazza ateniese dialogando filosoficamente con i suoi
concittadini, quale che fosse il loro mestiere e il loro orientamento di vita.
Come una torpedine, Socrate era solito “elettrizzarli” con il suo domandare,
che era, appunto, un domandare critico. “Che cos’è l’arte militare?”,
chiedeva Socrate ai generali. “Che cos’è la poesia?”, domandava invece ai
poeti.
Al cospetto delle domande socratiche, l’interrogato rispondeva senza
esitazioni, certo di possedere la risposta. Ma Socrate, puntualmente,
criticava le definizioni che i suoi interlocutori gli fornivano, mostrandone
l’inconsistenza. E, in questo modo, li costringeva a cercare definizioni
migliori, che resistessero al fuoco della sua critica.
«O Socrate, io stesso sentivo dire, anche prima di frequentarti, che tu non fai altro che
dubitare o far dubitare gli altri [...]. E mi sembri molto simile, tanto nell’aspetto quanto
nelle altre caratteristiche, a una piatta torpedine di mare; difatti costei di volta in volta
fa diventare torpido chi le si avvicini e la tocchi, e mi pare che tu abbia provocato un
effetto del genere sulla mia persona; tant’è che io stesso, sinceramente, mi sento
intorpidito nella mente e nella parola, e non so che cosa risponderti.»

PLATONE

In ciò sta, appunto, la differenza tra l’atteggiamento critico del filosofare


socratico e l’atteggiamento opposto, che potremmo definire “dogmatico”,
dei suoi interlocutori, immediatamente certi del loro sapere. Il dogmatico è
colui che fonda le proprie conoscenze e i propri stili di vita su presupposti
che non ha discusso e che, non di meno, ritiene immediatamente veri, a
prescindere da ogni investigazione filosofica. Il critico, invece, è colui che
opera in maniera inversa: non accetta nulla per presupposto, ma tutto
sottopone a un’investigazione radicale, senza dare alcunché per scontato. E,
alla fine, accetta solo ciò che ha resistito alla critica stessa. Insomma, il
dogmatico si muove secondo certezze indimostrate, che egli neppure
avverte l’esigenza di discutere e di dimostrare. Il critico si orienta sempre
da capo mettendo in discussione le apparenti verità immediate, anche quelle
che appaiono più evidenti e meno questionabili.
Vi è un tratto in comune tra il critico e lo scettico: entrambi respingono
l’immediatezza delle verità che i più accolgono in modo incondizionato. La
differenza, però, sta nel fatto che lo scettico, come abbiamo mostrato,
prende da ciò lo spunto per negare l’esistenza della verità in quanto tale: il
dubbio è il suo stato privilegiato, il suo approdo ultimo. Al contrario, il
critico usa il dubbio come strumento per mettere in discussione le verità
immediate, accettate per pregiudizio o per inerzia. Per il critico, infatti, il
dubbio è un mezzo, non un fine: il suo fine è, invece, la ricerca della verità.
Se lo scettico si ferma alla dimensione del dubbio, il critico si avventura
oltre: persevera nella ricerca della verità o, più precisamente, di una verità
che sia dimostrata e, dunque, tale da resistere al dubbio della critica.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, la critica non presenta,
dunque, una valenza necessariamente negativa. La vera critica, anzi, è in sé
positiva: smaschera il falso e l’inconsistente in vista di un’ulteriore ricerca
che finalmente sia in grado di approdare al vero e al consistente. Kant, in
età illuministica, si spinse a sostenere che la sua era l’epoca della critica, a
cui nulla – nemmeno il potere e la religione – poteva più sottrarsi.

«La nostra epoca è la vera e propria epoca della critica, cui tutto deve sottomettersi. La
religione mediante la sua santità e la legislazione mediante la sua maestà vogliono di
solito sottrarsi alla critica. Ma in tal caso esse suscitano contro di sé un giusto sospetto
e non possono pretendere un rispetto senza finzione, che la ragione concede soltanto a
ciò che ha potuto superare il suo esame libero e pubblico.»

I. KANT

Ma che ne è della critica, oggi? La nostra epoca, Epicuro, a differenza di


quella di Kant, sembra averle voltato le spalle. Ovunque prevale il
dogmatismo di chi accetta le opinioni e le condizioni date come se fossero
in sé automaticamente ovvie, fondate e indiscutibili. O, alternativamente,
domina uno scetticismo dell’indifferenza, che non si cura della verità e della
denuncia del falso. Per questo, ancora una volta, se vogliamo fare filosofia,
dobbiamo restituire dignità alla critica superando il dogmatismo e lo
scetticismo in una concezione critica della verità.
12
Giustizia

Caro Epicuro,
è di un tema molto difficile che oggi vorrei scriverti. Che cos’è la
giustizia? E secondo quali criteri e su quali basi possiamo definire “giuste”
le cose che avvengono, le leggi, le istituzioni e, in sostanza, tutto ciò che sta
quotidianamente intorno a noi?
In termini generali, secondo una formula resa nota dai latini, giusto
sarebbe, in ultima istanza, “dare a ciascuno il suo”. Questa definizione, che
pure coglie senz’altro una parte del senso generale della giustizia, mi pare
limitata e solo in parte soddisfacente. E questo soprattutto perché finisce, a
ben vedere, per ricondurre la giustizia a una questione individuale: come se,
in fondo, esistessero sempre e solo individui isolati e per sé stanti. Ma non
bisogna, forse, sollevare la domanda intorno alla giustizia intesa in
generale, e quindi in riferimento alla società tutta? Quando, in altri termini,
una società può dirsi giusta?
Mi pare che, in termini generalissimi, si possa dire che giusta è quella
società in cui prevale il bene comune e in cui, quindi, tutti sono egualmente
liberi, senza che una parte prevalga sulle altre e senza che l’interesse di
pochi si imponga su quello della comunità. Questo potrebbe essere inteso
come il “giusto secondo natura” o, se preferiamo, come il “giusto secondo
ragione”. Esso è connesso con una giusta proporzione sociale, in forza della
quale, come ricordato, ciascuno ha ciò che gli spetta, ma, oltre a ciò,
prevale una giustizia riferita alla società complessivamente intesa, quasi
fosse un organismo vivente.
Voi greci, rivelando ancora una volta grande saggezza, chiamate le
“leggi”, che sono il modo in cui la giustizia si determina concretamente,
con un nome decisivo: “nomoi”. Nomoi deriva dal greco “nemein”, che
significa “dividere”, “ripartire”. La legge in cui la giustizia si determina è,
di conseguenza, quella che opera una giusta divisione, facendo sì che la
società sussista come un organismo in cui ogni parte è egualmente libera
secondo ciò che per natura le spetta.
Se questa è la nostra prospettiva, ne segue una importante conseguenza:
la legge è “posta” dall’uomo nel tentativo di far sì che ciò che è giusto per
natura venga rispettato, pena l’incorrere nelle sanzioni corrispondenti. Ciò
vuol dire, allora, che la legge può essere giusta, valida ed efficace. È giusta,
quando corrisponde al giusto secondo natura. È valida, quando la forza
della legge la ufficializza e la rende legge ufficiale di una città o di uno
Stato. Ed è, infine, efficace, quando è effettivamente rispettata dai cittadini,
che ne riconoscono la giustezza. Ora, se tutto questo è vero, ne segue che
non ogni legge è automaticamente giusta: vi sono leggi che possono
rispecchiare il giusto secondo natura, e per ciò sono esse stesse giuste. Ma
vi sono state, e tuttora vi sono, leggi che non solo non rispecchiano il giusto
secondo natura, ma che a esso si oppongono: esse potranno, così, essere
valide ed efficaci, ma non giuste. Sorge, allora, un nuovo e non meno
rilevante interrogativo: come agire al cospetto di una legge ingiusta?
L’antico Socrate ci ha insegnato che la via migliore sta nel battersi per
modificarla, affinché essa diventi giusta.

«Non dobbiamo curarci tanto di quel che dirà la gente, ma del parere di chi si intende
di giustizia e di ingiustizia, di colui che è la verità stessa. Tu non fai dunque un
ragionamento corretto quando affermi che dobbiamo preoccuparci del parere della
gente su ciò che è bello o buono e viceversa [...]. Importante non è vivere, ma vivere
rettamente.»

PLATONE

E, tuttavia, fino a che non viene modificata, dobbiamo davvero seguirla?


Le leggi che imponevano la deportazione degli ebrei nella Germania di
Hitler erano valide ed efficienti, ma certamente ingiuste. Con la
conseguenza per cui giusto, a quel tempo, fu chi non rispettò le leggi
ingiuste, a esse ribellandosi.
Vi sono, dunque, casi in cui, per essere giusti, cioè per far valere il giusto
secondo natura o secondo ragione, occorre opporsi alla legge che a esso non
si ispira o che, di più, palesemente lo viola. Quante volte la legge maschera,
in realtà, l’interesse dei più forti, presentandolo appunto come giusto?
Per questo, mi pare così importante ragionare sulla giustizia, senza la
quale non può esservi vita buona tra gli uomini. Occorre sempre
distinguere, allora, quando una legge è giusta, e va rispettata, e quando non
è giusta, e allora va cambiata, come dice Socrate, o talvolta apertamente
trasgredita.
13
Esperienza

Caro Epicuro,
la mia epoca non è più in grado di fare esperienza e, dunque, fatica
notevolmente a intendere che cosa l’esperienza sia. Il tempo del real time e
del digitale, di internet e della connessione costante ci ha, in fondo, privati
della capacità di fare, sedimentare e trasmettere esperienze. Il virtuale
attutisce il reale e, di più, lo sostituisce. Tutto ci succede sempre più
rapidamente e, come si usa dire, le notizie invecchiano all’istante. Con la
conseguenza che si eclissa il tratto più specifico dell’esperienza, ossia la
lenta e graduale acquisizione di consapevolezza che scaturisce dal nostro
contatto con la realtà.
I tedeschi, per dire “esperienza”, usano un termine che, forse, ci può
aiutare a svelare l’essenza del concetto: la chiamano Erfahrung; termine
che ha in sé il richiamo al “viaggiare” (fahren). L’esperienza, in effetti, si
presenta come una sorta di viaggio che si compie nel tempo e nello spazio e
che, anche mediante momenti negativi e laceranti, ci porta, alla fine, a
essere più consapevoli e più saggi di quanto non fossimo all’inizio, prima
che il viaggio cominciasse.
Nell’odierna società sempre connessa del real time pare che, davvero,
non vi sia più tempo per alcuna esperienza, spesso nemmeno per dormire o
per amare. Oltre che con l’avventura del viaggio, la dimensione
dell’esperienza è connessa a quella del mettersi alla prova o, più
precisamente, di un “provare” che è, insieme, un “essere provati”: lo
suggerisce chiaramente il verbo latino experiri, che rinvia a un’esposizione
al reale e a una reazione riflessiva che il soggetto opera. Fare esperienza
significa, dunque, mettere alla prova se stessi e le proprie conoscenze,
esponendosi alla realtà del mondo, cioè saggiandola e saggiandosi.
Per comprendere la dimensione del “viaggio” propria dell’esperienza ci
aveva aiutato la lingua tedesca: ora, per decifrare questa seconda accezione
– legata allo sperimentare – ci vengono in aiuto i greci. I quali chiamano
l’esperienza con il nome di empeiria, che letteralmente vuol dire “prova”
(peira) “interna” (en). E, in epoche successive, prenderanno il nome di
“empiristi” quanti, tra i filosofi, riterranno che l’empiria, ossia l’esperienza,
costituisca la base ineludibile di ogni conoscenza. Il nostro sapere, infatti, si
verrebbe costituendo sulla base dei dati che derivano dal nostro fare
esperienza del mondo esterno: il quale, per così dire, lascia sulla nostra
mente, attraverso i sensi, i segni che determinano il conoscere. Per
comprendere al meglio questo punto, v’è un paragone efficace del quale
possiamo avvalerci: la nostra mente è come un foglio bianco, su cui
l’esperienza scrive le proprie tracce, determinando così il nostro conoscere.
Uno dei motti prediletti dagli empiristi è quello per cui non vi è nulla
nella nostra testa che prima non sia passato per i nostri sensi. Mediante
questo presupposto, che ha sempre come tratto comune l’assunzione
dell’esperienza come fondamento della conoscenza, gli empiristi si
contrappongono a quelli che vengono definiti “innatisti”, i quali ritengono
che le conoscenze non derivino interamente dall’esperienza che facciamo
del mondo sensibile. Pensano, invece, che idee e rappresentazioni, lungi
dall’essere acquisite per esperienza, esistano in noi fin dalla nascita e che,
appunto, sono dette “innate”. Se per gli empiristi conoscere è fare
esperienza, per gli innatisti – penso qui specialmente a Platone – la
conoscenza si risolve nel ricordare: ossia nel richiamare alla memoria
quelle idee e quei saperi che sono innati e che, dunque, senza saperlo già
abbiamo in noi. Si tratta solo di richiamarli alla memoria. Forse vi è del
vero anche nel discorso degli innatisti, almeno per quel che concerne
l’impossibilità di risolvere per intero la conoscenza nell’esperienza. E,
tuttavia, anche gli empiristi hanno, nel loro argomentare, una parte di
ragione: conoscere del tutto astraendo dall’esperienza è impossibile. Anche
su questo dovremmo tornare a riflettere, nel nostro tempo virtuale, di
quanto manchino le esperienze.
14
Bellezza

Caro Epicuro,
della bellezza forse più di ogni altro concetto pare difficile dare una
definizione. Prova ne è, oltretutto, che il modo comune di pensare risolve in
modo semplicistico e pragmatico la questione: bello – si dice – è ciò che
piace. In tal modo, però, si rinuncia a definire la bellezza: e ci si accontenta,
senza troppe pretese, di risolvere il bello nel gusto soggettivo, per sua
natura tale da mutare a seconda dell’individuo considerato. La conseguenza
è, così, il già citato relativismo: ognuno è misura del bello, che diventa per
ciò stesso indefinibile. Definire non significa, infatti, proporre un
inquadramento generale e potenzialmente valido universalmente
dell’oggetto definito?
In effetti, la bellezza dovrebbe riguardare una dimensione almeno entro
certi limiti universale: rovesciando il luogo comune che ricordavo poc’anzi,
non è bello ciò che piace, ma piace ciò che è bello. E che, dunque,
dovrebbe, in linea di massima, piacere a tutti.
Il bello ha a che fare con la percezione estetica, secondo una duplice
accezione dell’“estetico”: è “estetico” ciò che è bello – e la scienza che si
occupa della teoria del bello, in filosofia, si chiama appunto “estetica”; ma
è, allo stesso modo, “estetico” ciò che riguarda la percezione sensibile, che
voi greci appellate “aisthesis”. Il bello è ciò che appare ai nostri sensi tale
da generare piacere e da essere amato in sé e per sé, senza fini svincolati dal
gusto estetico.
Adduco un solo esempio, che mi sembra di una certa efficacia: dinanzi a
un quadro che raffigura splendidamente della frutta, proviamo un
godimento estetico, un libero piacere dei nostri sensi, non perché possiamo
mangiare quella frutta (che, infatti, è solo raffigurata e non realmente
presente). Al contrario, il nostro piacere è, per così dire, sciolto dal gesto
materiale del mangiare e si risolve, invece, in un piacere fine a se stesso,
scaturente dalla contemplazione del bello in quanto tale.
Per la cultura greca, lo so bene, Epicuro, il bello era inscindibile dalla
verità e dalla bontà: con la conseguenza per cui ciò che era bello doveva, in
pari tempo, essere anche vero e buono. Nella modernità, invece, si produce,
a torto o a ragione, una proliferazione dei valori: e, in forza di essa, il bello
rimanda a un altro campo rispetto al vero e al buono. Ciò che appare bello –
così per i moderni – può anche essere falso e cattivo.
Abbiamo chiarito che il bello fa necessariamente valere una finalità in se
stesso e che tale finalità aspira a valere universalmente, per tutti. Ma è
davvero così? Sembra che, a questo punto, ci imbattiamo in quella che voi
greci chiamate una “aporia”, letteralmente una “strada senza uscita”. In che
senso?
Ciò che in un’epoca è considerato bello, in un’altra può apparire perfino
brutto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, il corpo femminile
più “in carne”, come si usa dire, era considerato massimamente bello. Oggi,
al contrario, apparirebbe imperfetto e, dunque, non bello. È cambiato il
canone estetico. Eppure, accanto a questo mutare storicamente determinato,
pare che esista anche una bellezza che non muta, che resta stabilmente
oggetto di contemplazione estetica. Penso, ad esempio, alle statue
dell’antica Grecia, Epicuro, che anche per l’uomo contemporaneo
continuano a essere una delle supreme forme della bellezza. Siamo,
davvero, di fronte a una strada senza uscita, che non ci permette di capire
fino in fondo se il bello sia immutabile o se, in maniera opposta, vari
storicamente e a seconda del contesto.
Ma qual è, in definitiva, il fondamento ultimo della bellezza? Cos’è che
determina che un dato oggetto, quale che sia, ci piaccia esteticamente?
Credo che la misura e la proporzione siano la chiave di volta. Bello – così
mi avventuro a sostenere – è sempre ciò che presenta un equilibrio, una
forma, una proporzione: in altri termini, ciò in cui le parti stanno in un
rapporto equilibrato tra loro, senza che una sovrasti le altre. Al contrario,
brutto risulta tutto ciò che sia squilibrato, sproporzionato, informe.
15
Conflitto

Caro Epicuro,
non solo di cose belle e gradevoli si occupa la filosofia. Essa, al
contrario, come già abbiamo detto, ha per oggetto la totalità, ossia tutto ciò
che c’è. E in tutto ciò che c’è vi è spazio anche per le realtà che, forse,
potendo scegliere, preferiremmo non esistessero. Tra queste potrebbe
annoverarsi il conflitto. Esso, sul piano della storia umana, si manifesta
talvolta in quella forma estrema che è la guerra: ossia il conflitto che si fa
scontro frontale, aperto, consapevole e che coinvolge parti che, anziché
armonizzarsi e trovare una conciliazione, si affrontano con uno scontro in
cui sarà la forza a decidere quale abbia ragione.
Da sempre gli uomini combattono: ed è anche per questo che a taluni è
parso possibile sostenere che il conflitto, anche nella sua forma estrema
della guerra, sia una realtà ineliminabile dalla storia del mondo. Finché vi
sarà l’uomo, vi sarà la guerra: così si potrebbe condensare la posizione di
questi teorici – un nome su tutti: Hegel – dell’ineliminabilità della guerra.
Altri, in modo opposto, hanno ritenuto possibile una definitiva risoluzione
dei conflitti e il conseguente trionfo della pace, che è appunto la condizione
in cui non si guerreggia. Ad avviso di costoro (tra i quali voglio richiamare
il nome di Kant), se solo gli uomini si accordassero e dessero vita a
un’unione o a una “confederazione” tanto grande da includere l’intero
genere umano, si potrebbe porre fine, per sempre, a ogni guerra. Guerra e
pace, come titola anche il fortunato libro di Tolstoj, formano così una
polarità oppositiva: ciascuno dei due termini è la negazione del secondo.
Per i romani, come sempre portatori di un sapere pragmatico, il solo modo
per creare la pace o, per lo meno, le sue condizioni, è di allestire sempre la
guerra, facendosi sempre trovare armati.
Ma il conflitto può anche essere inteso su un altro piano, che definirò
“ontologico”, cioè legato all’essere stesso, alla realtà nelle sue strutture
fondamentali. Tale era, ad esempio, la posizione dell’antico Eraclito: a
giudizio del quale il “polemos”, ossia il nome greco del “conflitto”, sarebbe
il padre di ogni realtà.

«Il conflitto è padre di tutte le cose.»

ERACLITO

Eraclito, con questa sua posizione, ci costringe così a congedarci da una


concezione ingenua della realtà, pensata come una semplice, tranquilla e,
appunto, pacifica presenza delle cose che popolano il mondo. Al contrario,
la realtà è, a dire di Eraclito, conflitto o, se si preferisce, contraddizione: le
cose stesse guerreggiano tra loro, perché si oppongono in forme
inconciliabili, proprio come la strada che sale è, insieme, il proprio opposto,
ossia la strada che scende.
Le realtà, dunque, non sono pacificamente presenti a se stesse, in una
quieta compostezza che le fa stare immobili e, per così dire, tranquille. Al
contrario, sono immerse in un fluire incessante, in virtù del quale sono e,
insieme, non sono. Perché? Perché divengono. E che altro è, Epicuro, il
divenire, se non il conflitto costante, interno alle cose, tra l’essere e il non
essere se stesse? Divenendo, le cose sono e, insieme, non sono se stesse.
“Panta rei”, che tradotto dal greco all’italiano vuol dire “tutto scorre”: così
diceva Eraclito o, se non lui in persona, qualche suo discepolo fedele. La
realtà, senza eccezioni, è in conflitto permanente, perché senza posa
diviene: basta provare a immergerci in un fiume per farne esperienza. Le
acque con cui ci bagniamo non sono mai le stesse. E, a voler essere rigorosi,
nemmeno noi stessi, che siamo scesi nel fiume, siamo mai gli stessi: tale e
tanta è la potenza del divenire, a cui nulla di ciò che è si sottrae.
Ora, da Eraclito stesso apprendiamo, credo, un altro insegnamento della
massima importanza. Se, forse, quello di un mondo senza conflitti resta un
sogno irrealizzabile, è però possibile opporsi all’idea contraria, quella di
una realtà in cui la guerra sia sempre combattuta, con tutti i terribili esiti che
ne scaturirebbero. Si può, in altri termini, se non eliminare la guerra,
almeno limitarla. E ciò in ogni ambito: nel rapporto tra gli Stati, come in
quello tra gli uomini all’interno di una data società. Per capirlo, dobbiamo,
con Eraclito, pensare a un fuoco che si accende, si spegne e arde secondo
misura: e, in tal modo, garantisce quel calore che, in assenza del limite e
della misura, diverrebbe funesto e distruttivo per tutti, senza eccezioni.
16
Limite

Caro Epicuro,
vi è un concetto tipico della Grecia classica che più di ogni altro mi ha
sempre affascinato e che mi pare essere per voi greci il più importante. È il
concetto di limite o, se si preferisce, di giusta misura. Quanto questo
concetto fosse fondamentale per voi greci è provato, oltretutto, dal fatto che
sull’antico tempio di Delfi era inciso, a caratteri cubitali, nulla di troppo.
Era un invito, rivolto a ogni essere umano, a osservare la regola della giusta
misura nella propria condotta di vita. Addirittura, voi greci chiamavate gli
uomini con l’espressione “i mortali”, a sottolinearne la finitudine e il
carattere limitato nel tempo. Le stesse pene che, nell’immaginario greco, gli
dèi infliggono ai mortali che si sono comportati in modo sconveniente sono
concepite come punizioni all’insegna dell’assenza del limite: penso a Sisifo,
che illimitatamente deve ricondurre il suo macigno in cima alla montagna;
penso, ancora, a Prometeo, che, per aver ingannato gli dèi, è condannato a
vedersi divorare all’infinito il fegato dalle aquile. E, infine, la mia mente
corre a Tantalo, il cui supplizio inflittogli dagli dèi consiste nel bere e nel
mangiare senza poter mai estinguere la sete e placare la fame.
Che cos’è il limite? In termini generali, esso coincide con ciò che è a
distanza di sicurezza dall’eccesso e dal difetto e, dunque, che si trova nella
giusta via di mezzo. È, per così dire, la giusta proporzione che fa sì che le
cose siano nella loro pienezza d’essere, nella loro perfezione. Così, ad
esempio, il coraggio è ciò che si colloca nel giusto mezzo rispetto
all’eccesso dell’ardimento e al difetto della viltà. E la generosità,
similmente, è una via di mezzo rispetto all’eccesso della dilapidazione dei
propri beni e del difetto dell’avarizia. La giusta misura e il limite sono
fondamentali non solo per l’etica, come ho appena mostrato, ma anche per
l’estetica e per la politica. Non è forse vero che il bello è sempre legato a
un’idea di proporzione, in forza della quale – supponiamo – una statua ci
piace proprio perché le parti sono armoniche e con forme ben delimitate? E,
ancora, non è forse inconfutabile che una città o uno Stato giusti sono quelli
in cui non vi sono cittadini né troppo ricchi né troppo poveri? Insomma,
volendo riassumere quanto detto, potremmo sostenere che il bello, il buono
e il giusto sono sempre connessi con l’idea del limite e della giusta misura,
mentre, al contrario, il brutto, il cattivo e l’ingiusto sono sempre correlati
con l’illimitatezza e con l’assenza di misura.
Tu stesso, Epicuro, ci insegni che i veri piaceri sono quelli misurati, che
non comportano l’eccesso. La mia epoca, tuttavia, sembra aver voltato le
spalle all’idea del limite, per aderire all’opposta dimensione
dell’illimitatezza. “Tutto senza limiti”, promettono le suadenti retoriche
della pubblicità. E, in effetti, l’uomo contemporaneo ha trasformato in stile
di vita ordinario e degno di essere perseguito quello che, per voi greci,
corrispondeva con il carattere tipico delle punizioni divine. Soprattutto, i
contemporanei sono in balia della spasmodica ricerca illimitata del piacere
e della ricchezza. Quest’ultima, soprattutto, non conosce limiti: per sua
natura, tende all’infinito e attiva una funesta linearità, per cui ogni
guadagno è inteso come una tappa provvisoria in vista di nuovi e maggiori
guadagni. Se, invece, ci atteniamo all’immagine greca della giusta misura,
la vera ricchezza consiste nel disporre di quanto non eccede il limite, e
dunque di quanto basta a vivere dignitosamente: né troppo, né troppo poco.
Tu stesso, Epicuro, ci hai magnificamente insegnato, con la tua condotta
di vita e con la tua lezione filosofica, che il vero povero non è chi non ha
tanto, ma chi vuole sempre di più.
17
Dono

Caro Epicuro,
è della questione del dono che oggi vorrei parlarti. Qual è la logica del
dono? E che cosa, in generale, vuol dire donare?
In termini tecnici, il dono è un passaggio di proprietà che avviene in
forma gratuita, senza dunque la tipica forma propria dello scambio
commerciale. Quest’ultima prevede che, per ogni cosa data, ve ne sia in
cambio una ricevuta. Il dono spezza questa logica e introduce una forma di
cessione a cui non fa seguito alcuna contropartita: se, nello scambio
commerciale, si dà per avere, nel dono si dà in forma gratuita e fine a se
stessa, cioè appunto senza avere nulla in cambio. Il panettiere e il macellaio
ti danno pane e carne non come dono, ma come merce, secondo una logica
di scambio in virtù della quale loro ti danno qualcosa, per avere da te in
cambio qualcos’altro. Al tuo amico, a tua madre o a tuo figlio offri, invece,
un dono, perché ciò che a loro regali non ha altro fine se non il gesto stesso,
senza pretendere di averne un vantaggio come corrispettivo.
Ne emerge un’ulteriore differenza rispetto allo scambio di tipo
commerciale: in quest’ultimo il soggetto stesso è il vero fine ultimo. Egli dà
per avere in cambio, secondo un movimento circolare che parte dal soggetto
e al soggetto ritorna. Nel dono, invece, il vero fine ultimo è l’altro, ossia il
beneficiario di quel dare senza contropartita che è il dono: ti faccio, infatti,
un regalo non già per averne qualcosa in cambio, ma per farti felice, perché
tengo a te, perché voglio in forma disinteressata privarmi di qualcosa che
sarebbe mio e che ora, senza alcun vincolo costrittivo, diventa tuo mediante
la mia libera cessione.
Per inciso, il perdono – che ha il dono nel suo nome (per-dono) – è
anch’esso una figura del dono: il perdono è un dono che facciamo a chi ci
ha fatto un torto, spezzando la logica di quello scambio specifico che è la
giustizia.
Sorge, tuttavia, un problema connesso alla figura del dono. Accade
veramente che, donando, si spezzi la logica dello scambio mercantile? O
non succede, invece, che essa talvolta ritorni sotto mutate sembianze?
Pensiamo, ad esempio, alla tradizione dello scambio dei doni che avviene a
Natale. Non è forse vero che, nell’atto stesso con cui doniamo, ci
attendiamo che il beneficiario ci doni qualcosa in cambio? Ma in questo
modo, Epicuro, si riprecipita nello schema dello scambio, sia pure
mascherato dietro la forma del dono. Più precisamente, quello che in questo
caso impropriamente chiamiamo dono coincide, in verità, con uno scambio:
del quale condivide la formula più tipica del “dare qualcosa per avere altro
in cambio”. Doni di questo genere dovrebbero, più propriamente, essere
chiamati scambi, poiché del dono non conservano l’essenza, che è quella,
come dicevo, di un dare disinteressato e senza contropartita.
Sembra realmente arduo sottrarsi all’ombra dello scambio anche
nell’atto del donare. Soprattutto in un’epoca come la mia, Epicuro, che ha
innalzato il do ut des, il “ti do perché tu mi dia”, a norma generale di una
compravendita universale a cui più nulla si sottrae. E sempre più spesso
accade, così, che si doni qualcosa per legare a noi il beneficiario del regalo:
che, in questo modo, da disinteressato e gratuito, diventa un vincolo che
cattura chi lo riceve. Questi diviene inconfessabilmente prigioniero di una
relazione, in virtù della quale egli, volente o nolente, dipende da colui dal
quale ha ricevuto il dono. Che diventa così – come il lessico comune usa
dire – un “dono avvelenato”.
Se ne potrebbe forse concludere, Epicuro, che il vero dono è,
paradossalmente, quello in cui il donatore resta anonimo: il fatto che il
mittente del dono resti sconosciuto è, infatti, ciò che rende impossibile
l’attivazione della logica dello scambio. Come si potrebbe, infatti, restituire
qualcosa a qualcuno di cui ignoriamo l’identità?
18
Linguaggio

Caro Epicuro,
particolarmente difficile mi pare ogni tentativo di definire il linguaggio e
la sua essenza. Eppure noi umani possiamo con diritto definirci gli animali
che parlano, ossia i soli a disporre, propriamente, di ciò che siamo soliti
chiamare linguaggio. Con i versi del poeta Hölderlin, potremmo dire che
noi siamo un colloquio. E che morire significa porre irreversibilmente fine
ai colloqui che abbiamo attivato in vita. Addirittura, voi greci impiegate la
medesima parola – logos – per definire la “ragione” e il “linguaggio”. Ma
che cos’è, dunque, il linguaggio? In una sua prima definizione, lo
potremmo intendere come la coscienza dell’individuo resa intersoggettiva,
cioè messa in comune con altri, a disposizione della comunità. Non è, forse,
vero che, parlando, i nostri pensieri vengono trasmessi ad altri e si fanno, in
tal maniera, pubblici? La linguistica, ossia la scienza che ha per oggetto il
linguaggio, ci aiuta: e ci spiega che esso coincide con il complesso definito
di suoni, gesti e movimenti attraverso il quale si attiva un processo di
comunicazione. Il linguaggio, dunque, è il pensiero comunicato, reso
espressione che viene trasmessa ad altri.
Ma, al di là di questa pur importante determinazione, qual è il rapporto
tra il linguaggio e le cose? Secondo alcuni, il linguaggio sarebbe puramente
convenzionale: del tutto arbitrariamente, cioè, gli uomini avrebbero stabilito
di chiamare le cose con i nomi a cui corrispondono. Secondo altri, invece, il
linguaggio dovrebbe essere inteso come qualcosa di naturale: quasi come
se, per il suo tramite, fosse la realtà stessa a parlarci. In questa seconda
accezione, se noi chiamiamo le cose in un certo modo dipende dal fatto che
l’espressione linguistica stessa che le esprime non è frutto di una
convenzione ma dice l’essenza stessa di quella cosa in modo naturale. Le
cosiddette espressioni onomatopeiche sembrerebbero suffragare questa
ipotesi, Epicuro: queste riproducono, attraverso i suoni linguistici del
linguaggio, il rumore o il suono proprio dell’oggetto nominato.
Contribuiscono a svelarne l’essenza. Pensiamo, ad esempio, a verbi come
gracchiare, strisciare e rimbombare: non v’è, forse, nella parola stessa un
richiamo quasi naturale alla realtà che essa nomina?
Al di là di questa diatriba intorno al carattere naturale o convenzionale
del linguaggio, quel che è certo è che esso, comunque lo intendiamo, è la
prova del fatto che l’essere umano è un animale comunitario: che vive con i
suoi simili e che ha esigenza di comunicare con loro, facendo del suo stesso
pensare un gesto relazionale e comunitario. Non è forse vero, Epicuro, che
il linguaggio implica sempre una relazione tra soggetti che, mediante segni,
si scambiano pensieri, emozioni, idee e stati d’animo?
Oltre a questo, dobbiamo anche considerare la pluralità delle lingue
specifiche che caratterizzano l’umanità. Il linguaggio, infatti, non è uno per
tutti, in ogni tempo e in ogni luogo. Esiste, al contrario, nella concreta
pluralità delle lingue parlate: le quali variano di luogo in luogo e, se
storicamente considerate nella loro evoluzione, anche nello stesso luogo.
L’italiano che parliamo oggi è diverso non soltanto dal francese, dal russo e
dal giapponese, ma anche dall’italiano che, negli stessi luoghi, parlavano i
nostri nonni e, prima di loro, i nostri avi più lontani. Questo aspetto ci deve
indurre a riflettere sul fatto che la lingua è una realtà viva e in continua
evoluzione: è, per così dire, l’orizzonte in movimento in cui si incontra il
passato con il presente, in cui, cioè, la lingua parlata un tempo muta, ora
conservando alcune sue espressioni, ora abbandonandone alcune, ora
acquistandone di nuove.
Questa pluralità, che è tale nel tempo e nello spazio, chiede di essere
considerata come una ricchezza, come la prova più splendida della varietà e
della pluralità a cui sa dare vita il genere umano. Per questo, Epicuro,
dobbiamo opporci con forza all’idea di sostituire la pluralità delle lingue,
come pure alcuni vorrebbero, con un’unica lingua valida in tutto il pianeta:
per l’umanità intera si tratterebbe di un impoverimento, non di un
arricchimento.
19
Politica

Caro Epicuro,
hai scritto, nelle tue lettere, che di politica è meglio non occuparsi,
perché essa infiamma gli animi e, in nome della ricerca del potere, genera
turbamento. Su questo punto della tua dottrina, però, mi permetto di
dissentire. Ritengo che la politica sia, se rettamente intesa, fondamentale e,
di più, ineludibile: l’essere umano è, per sua essenza, un animale politico,
cioè destinato a vivere nella polis, come la chiamate voi greci, ossia nella
città, tra gli esseri umani. E la politica che altro è se non l’arte – l’“arte
regia”, diceva Platone – che ci permette di amministrare adeguatamente,
cioè secondo il bene, quello spazio del vivere insieme che, a seconda dei
casi, prende il nome di città, regione, o Stato? Il fatto che la politica generi
turbamenti non credo possa essere un argomento per non praticarla.
Occorre, al contrario, adoperarsi perché filosofia e politica si incontrino e i
politici, ossia quanti conducono e amministrano lo Stato, siano anche
filosofi, ossia amanti del vero, del buono e del giusto. Quando si produce
questo incontro, allora ne scaturisce uno Stato felice. Molto più spesso,
purtroppo, alla guida degli Stati non troviamo i filosofi, come pure sognava
Platone: troviamo, invece, individui che, in modo del tutto opposto, lungi
dall’essere amanti del sapere, amano soltanto l’interesse personale, il
profitto e il potere come strumento di potenziamento del proprio io
individuale. In questi casi, lo Stato è amministrato malamente e regna
ovunque l’infelicità.
Ma che cos’è, dunque, la politica? Se dovessi prospettarne una
definizione, mi avventurerei a sostenere che la politica è la difficile arte
mediante la quale si riannodano, per così dire, l’ideale e il reale, ciò che
dovrebbe essere e ciò che effettivamente è. Il compito primario del politico,
sotto questo profilo, è fare sì che l’idea dello Stato giusto o, se si preferisce,
il concetto ideale della buona amministrazione, si realizzi concretamente,
per quanto più è possibile, nelle strutture della realtà. Per questo, il politico
degno di questo nome cerca il più possibile di conformare la realtà esistente
con l’idea del buono, del giusto e del vero. Ed è, ancora, per questa ragione
che, come suggeriva Platone, la città giusta potrà sorgere solo quando ad
amministarla saranno i filosofi, ossia coloro i quali, per vocazione, amano il
buono, il giusto e il vero.
Nella mia epoca, anche in tema di politica siamo assai distanti dalla
rappresentazione propria di voi greci, Epicuro. Ciò vale per molti aspetti,
dei quali vorrei qui richiamarne rapidamente due. In primo luogo, è oggi
pratica più che mai diffusa la tutela, dei politici, del proprio esclusivo
interesse come individui e come parti separate dal tutto. Al contrario,
l’oggetto principale della politica deve essere la comunità e, quindi, il bene
comune, l’interesse generale dello Stato. In secondo luogo, è idea ormai
diffusa quella in coerenza con la quale il politico deve essere un semplice
“tecnico”, ossia un esecutore di procedure già impostate: quasi come se lo
Stato fosse una macchina che procede da sé, e il politico dovesse solo farla
partire o controllarne il retto funzionamento.
Contro questa visione, ribadisco con Platone l’esigenza vitale di una
politica che si fondi sull’educazione filosofica: che è altra cosa rispetto alla
tecnica come efficienza pratica immediata e come sapere produttivo. La
tecnica, sia chiaro, ha una sua piena legittimità, se riferita ai suoi ambiti
peculiari: se dobbiamo procurarci un vaso, ci rivolgeremo indubbiamente al
vasaio, ossia a colui il quale detiene la tecnica della produzione dei vasi. Ma
la politica, ossia l’amministrazione dello Stato, non è affatto una tecnica: è,
semmai, l’esito dell’educazione filosofica, perché implica che il politico
applichi alla realtà sociale la filosofia, vale a dire lo studio del buono, del
giusto e del vero. Per questo, l’argomento che oggi così spesso si usa per
giustificare i politici può valere, tutt’al più, se riferito ai tecnici: si dice,
infatti, che un politico può essere disonesto e corrotto, purché sia efficiente
nel risultato. Ora, alla luce di quanto s’è detto, ciò non può essere valido: il
politico, infatti, deve ispirarsi al bene, al giusto e al vero e deve farlo,
anzitutto, rispettandoli in prima persona.
20
Etica e morale

Caro Epicuro,
mi capita spesso di riflettere su cosa sia l’etica e su quali siano i suoi
tratti essenziali. Per questo ho deciso oggi di scriverti intorno a questo tema
così importante tanto per il lessico filosofico, quanto per la vita di ognuno
di noi. Come molti altri lemmi della filosofia, anche la parola etica rimanda
al lessico di voi greci. In particolare, deriva da ethos, che letteralmente
significa “carattere”, “temperamento”. Nella sua determinazione più
generale, l’etica coincide con quella branca della filosofia che studia la
condotta degli esseri umani e i criteri in base ai quali si valutano i
comportamenti e le scelte. Grazie a questo studio, diventa possibile
assegnare a specifici comportamenti umani un valore e ritenerli buoni,
giusti e leciti, contrapponendoli a comportamenti di segno opposto, ossia
ingiusti, illeciti, sconvenienti e cattivi. Specificamente, l’etica allude a un
comportamento collettivo e sociale, legato alla concreta vita del popolo di
cui ciascuno di noi è parte.
È, se così vogliamo dire, una sorta di morale del popolo più che
dell’individuo, dei comportamenti esteriori più che del sentimento interiore.
Proprio in ciò sta la differenza tra la morale e l’etica, almeno così come le
hanno tematizzate i moderni. La prima è un codice comportamentale legato
all’individuo, che avverte in sé, quasi fosse una voce interiore, la necessità
di agire in un certo modo, convinto che, così facendo, agirà bene. La
seconda, invece, ossia l’etica in senso proprio, coincide con i costumi, le
usanze, i princìpi che obiettivamente esistono, e come tali sono
pubblicamente riconosciuti, all’interno di una comunità concreta e nel
quadro di un popolo storicamente esistente.
Questa distinzione non deve, tuttavia, indurre a ritenere che l’etica sia
una realtà puramente esteriore, legata a usanze esterne rispetto al sentire
dell’individuo. Se così fosse, si potrebbe anzi produrre un conflitto,
nell’individuo stesso, tra l’agire etico riconosciuto pubblicamente come
giusto e l’agire che egli, individualmente, in cuor suo, ritiene coerente con
la giustizia. Al contrario, nella dimensione etica si coniugano
armonicamente le due dimensioni: l’individuo aderisce al modo generale di
agire pubblicamente riconosciuto come giusto, perché egli avverte
individualmente, dentro di sé, che si tratta di un modo conforme alla
giustizia. L’individuale e il collettivo si accordano, così, in forma compiuta:
ciò dà vita a un’etica condivisa, che esiste esteriormente, negli usi e nei
costumi di un popolo, ma alla quale, contemporaneamente, i singoli
individui aderiscono, perché in essa si riconoscono appieno.
In questo senso, l’etica, se correttamente intesa, non annulla la morale,
ma la supera e, insieme, la conserva in una dimensione superiore: in forza
della quale la morale si fa sociale e pubblica, valida appunto come l’etica di
un popolo o, se preferiamo, come una morale che non vive solo nella
coscienza dell’individuo, ma che, come si diceva, è pubblicamente
riconosciuta nella sua piena validità.
Nel mio presente, Epicuro, sembra assai ridotto lo spazio per l’etica. Ciò
si spiega anche in relazione al fatto che, come si è sottolineato, l’etica è
connessa a un agire collocato in una comunità e in riferimento ai costumi
pubblici di quest’ultima. Ora, nell’epoca contemporanea tende a spezzarsi il
legame sociale e, con esso, il senso della comunità coesa. Prevalgono
invece inedite figure dell’individualità sciolta dalla comunità, secondo
quella patologia che chiamiamo individualismo. Perché possa risorgere
l’etica, in tutta la sua maestà, mi pare quindi imprescindibile che torni a
fiorire, in antitesi con l’individualismo dominante, una nuova comunità.
Solo in futuro scopriremo, Epicuro, se e in che forme questo sarà possibile.
21
Tempo

Caro Epicuro,
oggi ho deciso di scriverti di uno dei concetti su cui da sempre si affatica
maggiormente la riflessione filosofica. Mi riferisco al problema del tempo,
la cui difficoltà di definizione è stata magnificamente evidenziata da
sant’Agostino: “finché non mi chiedi che cosa sia il tempo, in cuor mio ne
conosco l’essenza. Ma se mi inviti a definirlo, allora mi trovo davvero in
difficoltà [...]”.
Nella sua definizione più generale, e trascurando le diversissime
dimensioni del tempo su cui gli studiosi hanno portato l’attenzione,
potremmo sostenere che il tempo è il divenire così come lo intuiamo. È, in
altri termini, la dimensione nella quale noi concepiamo e misuriamo il
trascorrere degli eventi, in forza del quale operiamo la distinzione tra il
passato, il presente e il futuro, che del tempo sono le tre dimensioni
essenziali.
Nella Fisica, Aristotele ha scritto che il tempo è “il numero del
movimento secondo il prima e il poi”: con questa definizione, che a una
prima lettura può apparire bizzarra, egli intende sostenere che il fondamento
stesso del tempo è il movimento e, dunque, il divenire. Il tempo, allora, è
l’ordine misurabile del movimento degli oggetti colti nel loro divenire
secondo il prima e secondo il poi, ossia secondo la successione temporale.

«Quando percepiamo il prima e il poi, allora diciamo che il tempo c’è. Questo, in
realtà, è il tempo: il numero del movimento secondo il prima e il poi.»

ARISTOTELE
A ben vedere, Epicuro, pare che vi sia nel tempo qualcosa di
paradossale. Per un verso, infatti, sembra che a esistere sia solo il presente.
Il passato è ciò che non è più, e il futuro è ciò che non è ancora: di
conseguenza, solo il presente è in senso proprio. Le altre due dimensioni
temporali, invece, esisterebbero solo come ricordo delle cose che sono state
e che ora non sono più (il passato) e come attesa delle cose che potranno
essere e che adesso non sono ancora (il futuro). La nostra anima, allora,
agirebbe come una sorta di spago, che si protende ora all’indietro,
ricordando le cose che furono, ora in avanti, anticipando con l’aspettativa le
cose che saranno.
Eppure, per un altro verso, pare che le cose stiano in maniera
diametralmente opposta e che, in senso proprio, il presente non esista.
Pensaci bene, Epicuro: in fondo che altro è il presente, se non l’istante, che
immediatamente sopprime se stesso, del continuo passaggio del futuro al
passato? Non è forse vero che il presente è solo il punto del continuo
incontro tra le cose che ancora non sono e quelle che non sono più? Il
presente come tempo dell’accadere, in effetti, sembra avere questa
caratteristica: è il luogo in cui l’evento che ancora non è (e che, dunque, è
futuro) si compie e subito passa alla dimensione delle cose che non sono
più, ossia al passato.
Voi greci, Epicuro, raffigurate mitologicamente il tempo come un dio dal
nome Cronos, che è, appunto, la parola greca che indica il tempo (da cui il
nostro cronometro, il “misuratore del tempo”): Cronos ha il brutto vizio,
nella mitologia, di divorare i suoi figli. Esso rappresenta, così, il movimento
più tipico del tempo: che letteralmente divora i suoi figli, ossia gli istanti
che si succedono e che, nel loro accadere, si spengono immediatamente nel
passato.
Tra i tanti paradossi che contraddistinguono la questione del tempo, ve
n’è ancora uno che vorrei brevemente prendere in esame. Riguarda la
distinzione tra il tempo quantitativo e il tempo qualitativo. In prima
approssimazione, parrebbe che di tempo ve ne sia uno soltanto, uguale per
tutti e calcolato con precisione scientifica dagli orologi che portiamo ai
polsi o dai dispositivi elettronici che abbiamo sempre con noi. Eppure, per
quanto ciò possa apparire strano, il tempo non scorre sempre allo stesso
modo, anche se, in termini meramente quantitativi, esso è sempre lo stesso.
Per esprimere il concetto in forma immediatamente chiara: non è forse vero
che un’ora trascorsa nella gioia è, sul piano qualitativo, completamente
diversa da un’ora passata nella sofferenza? Eppure, sul piano quantitativo,
si tratta della stessa unità temporale!
Proprio in ciò risiede il paradosso: la stessa unità di tempo, ossia –
supponiamo – un’ora, può sembrare più lunga o più breve sul piano
qualitativo, cioè nella dimensione percepita, a prescindere dall’oggettiva
misurazione scientifica. L’odierna società dei consumi, che tutto riduce a
quantità omogenea e scambiabile, è per ciò stesso incapace di cogliere
l’aspetto qualitativo del tempo. Lo riduce a semplice successione di istanti
seriali e intercambiabili, tutti uguali tra loro. Queste e molte altre sono le
questioni, non di rado paradossali, connesse al problema del tempo. Ma
poiché del tempo non bisogna abusare, concludo questa lettera e ti saluto
caramente.
22
Storia

Caro Epicuro,
vi sono, talvolta, concetti che nel corso dell’evoluzione storica mutano a
tal punto di significato, da diventare irriconoscibili da un’epoca all’altra.
Tale mi pare, tra gli altri, la nozione di storia. Per voi greci essa esprimeva
una realtà ben diversa da quella odierna, di noi uomini moderni. La parola
“storia” è una vostra invenzione: e allude anzitutto all’“ispezione visiva”
(dal greco historìa) che lo storico di professione fa, raccontando fatti ed
eventi con lo scopo di tramandarli, come un testimone, alle generazioni
future. Dopo di voi i latini distingueranno tra la historia rerum gestarum (la
narrazione delle cose accadute) e le res gestae (gli accadimenti storici): al
singolare è la narrazione operata dallo storico, mentre rigorosamente al
plurale sono le storie intese come gli accadimenti che si svolgono nel
tempo. Essi sono al plurale perché, dal punto di vista di voi antichi, non
esiste una storia al singolare: esistono, semmai, la storia delle Gallie e
quella di Alcibiade, la storia di Roma e quella di Tebe. Con i moderni,
invece, il concetto di storia muta notevolmente. Al singolare è, ora, tanto la
storia come narrazione, quanto la storia come accadere. Comincia, cioè, a
maturare la concezione per cui tutti gli accadimenti nel tempo siano parti di
un’unica storia, di un solo processo che si dispiega nel tempo secondo
l’ordine che dal passato porta al futuro.
La storia cessa, allora, di essere pensata come un accadere al plurale,
caotico e senza un senso, al di là di quello che può essere raccontato dallo
storico di professione. Si comincia, invece, a ritenere che la storia sia
portatrice di un senso profondo: e che tutto ciò che accade sia parte di un
processo che si svolge e che è destinato a portare a un compimento ultimo,
rinviato al futuro.
Per questo, si comincia anche a parlare di progresso, concetto anch’esso
per lo più sconosciuto, nella sua forma moderna, all’immaginario di voi
antichi: il semplice procedere lineare dal passato verso il futuro viene,
adesso, inteso come un progresso, ossia come un miglioramento. La
conseguenza è un radicale mutamento della prospettiva: per voi antichi, la
più importante dimensione del tempo storico corrispondeva con il passato.
Esso era, per così dire, una miniera di esempi da cui trarre ispirazione: il
futuro, in fondo, non poteva essere troppo distante dal passato, né poteva
mai prodursi un evento tale da scombinare del tutto la continuità temporale.
Per i moderni, invece, è il futuro la dimensione del tempo più rilevante:
esso viene ora inteso come portatore di novità e di trasformazioni tali da
conferire un senso pieno anche al presente e al passato.
Di più, si attribuiscono al futuro le caratteristiche che le religioni
tradizionali assegnavano al mondo celeste: salvezza, felicità, redenzione. La
storia cessa così di essere intesa come un semplice accadere che si svolge
nel tempo: indica, invece, un processo che, dispiegandosi nel tempo, porta a
una mèta finale che darà senso pieno all’intero processo, che a sua volta
non era altro che una lunga e faticosa corsa verso quella stazione finale.
La mia epoca, Epicuro, pare aver abbandonato questa concezione
tipicamente moderna della storia, senza però aver recuperato quella propria
di voi greci. L’uomo contemporaneo, infatti, ha smesso di credere al futuro
come luogo di salvezza e come promessa di felicità: ma neppure è tornato a
volgersi al passato, come miniera inesauribile di esempi grandiosi da cui
trarre ispirazione. Semplicemente, vive troppo spesso nella pura dimensione
di un presente pensato come eterno e, dunque, come privo tanto del passato,
quanto dell’avvenire. Non ha memoria, né progettualità: vive come se non
vi fosse alcun domani e come se non provenisse da un tempo ormai
trascorso. È, per così dire, senza tempo e senza storia: si affretta e corre,
con ritmi elettrizzanti, ma non lo fa più in nome di un futuro migliore, per
cui valga la pena accelerare il passo. Al contrario, come in un eterno tapis
roulant, egli corre per rimanere immobile nello stesso punto, in un presente
che va sempre più di fretta e, insieme, non trapassa mai in futuri migliori.
23
Possibilità

Caro Epicuro,
che cosa significa sostenere che una cosa è “possibile”? E che cos’è,
nella sua essenza, la possibilità? Essa esiste o non dobbiamo, al contrario,
ammettere che tutto è retto dalla più rigida necessità? Mi paiono domande
della massima importanza, alle quali dobbiamo provare a dare risposta.
In prima approssimazione, potremmo sostenere che il possibile, nella sua
determinazione più generale, si colloca a metà strada tra il reale e l’irreale,
tra ciò che è e ciò che non è. Il possibile, infatti, non è reale, perché ancora
non è giunto alla pienezza d’essere che contraddistingue le realtà che
realmente esistono. Ma non è neppure irreale, poiché al possibile non è
negata la possibilità di raggiungere lo statuto proprio delle cose che
realmente sono.
Insomma, per sua essenza, il possibile ha a che fare con un essere che
non è ancora in senso pieno, ma che potrebbe diventare tale, senza che vi
sia nulla di necessario in tale passaggio. In ciò si misura la differenza
specifica tra la possibilità e il suo opposto, la necessità: nella sua accezione
più larga, è necessario ciò che non può non essere o ciò che non può essere
(e in questo senso il necessario coincide, paradossalmente, con
l’impossibile). Dunque, a differenza della necessità, per la quale le cose
sono in una maniera e non potrebbero essere altrimenti, la possibilità si
fonda su un modo d’essere che rovescia ogni rigido determinismo: il
possibile, infatti, non è necessario, ma neppure impossibile.
Ora, nel suo senso più generale, Epicuro, ritengo che la possibilità sia il
vero fondamento della realtà o, per lo meno, della realtà legata al mondo
umano, cioè alla società, all’economia, alla politica. Forse nell’ambito della
natura prevale la necessità, come molti filosofi hanno sostenuto: la pietra
lasciata cadere precipita necessariamente verso il suolo. Ma nell’ambito
umano credo che il modo d’essere fondamentale sia il possibile. In
particolare, la realtà non è data, semplicemente, dalle cose che sono, ma
dalla somma di queste più le cose che, a partire da loro, potrebbero essere.
Le cose come le vediamo, in effetti, non sono realtà immobili, che stanno
ferme: al proprio interno, ospitano possibilità di sviluppo che, in molti casi,
nemmeno riusciamo a immaginare. Questo non vuol dire che, da quelle
cose, debbano necessariamente seguirne altre. Vuol semplicemente dire che,
in quelle cose, vi sono tutte le condizioni fondamentali perché possano
scaturirne sviluppi che, proprio in quanto possibili e non necessari, non
possono essere previsti.
Se ci pensi bene, Epicuro, è solo la prospettiva fondata sul possibile più
che sul necessario a dare un senso compiuto alla nostra esistenza, alle nostre
azioni quotidiane, grandi o piccole che siano. Che senso avrebbe, infatti,
agire, soffrire, battersi, impegnarsi se tutto procedesse in modo necessario?
Se, cioè, tutto fosse già scritto – in natura o chissà dove – e se noi non
fossimo altro che marionette inconsapevoli, programmate per agire secondo
il destino della necessità? Insomma, è solo alla luce della possibilità che la
nostra esistenza acquista un senso compiuto: la realtà ha al suo interno tutta
una serie di possibilità che sta al nostro agire, al nostro impegno e alla
nostra volontà tradurre in atto, facendo sì che da possibili diventino,
appunto, reali in senso pieno. Dove prevale una visione del mondo centrata
sull’idea di necessità, crolla ogni possibile agire morale, si spegne ogni
volontà creatrice e tramonta ogni responsabilità: se tutto avviene secondo
necessità, infatti, non resta alcuno spazio per la libertà d’azione del
soggetto. Il mondo diventa, effettivamente, intrasformabile, quando ci
convinciamo che sia impossibile trasformarlo. È il nostro fatalismo di
spettatori inerti, Epicuro, che rende fatale la realtà esistente.
24
Comunità

Caro Epicuro,
mi trovo in imbarazzo nello scriverti in merito a un concetto nel quale, a
rigore, vi riconoscete voi greci ben più che noi moderni. A ogni modo,
proverò a farlo, facendo tesoro di quanto tu e il tuo popolo mi avete
insegnato. È infatti di comunità che desidero parlarti.
Per noi uomini moderni, si tratta di un concetto pressoché vuoto, che
poco o nulla trasmette soprattutto alle nuove generazioni; per le quali la
sola comunità esistente è la community digitale dei social network, dove, in
realtà, l’aggregazione sociale è solo fittizia. Si sta, infatti, seduti davanti al
proprio computer, imprigionati nella propria solitudine e, insieme, convinti
di essere all’interno di una comunità estesa quanto il pianeta. Per l’uomo
contemporaneo, in effetti, che in ciò incarna una logica tutta moderna,
l’individuo viene prima di tutto: e la comunità sociale, ove venga ammessa,
è intesa come unione di più individui già formati; i quali si incontrano e si
relazionano unicamente in vista delle proprie specifiche esigenze, come
facciamo quando andiamo dal panettiere o dal macellaio.
Per voi greci, tuttavia, le cose stanno in modo diametralmente opposto. Il
fondamento primo è la comunità: e solo al suo interno può svilupparsi
quello che i moderni chiamano “individuo”. Quest’ultimo, lungi dall’essere
una sorta di atomo isolato, è invece un individuo sociale o, come lo chiama
Aristotele, un animale politico, “socievole” e “comunitario”: letteralmente,
un animale fatto su misura per la polis, ossia per la vita nello spazio
comunitario della città e dello Stato.

«L’uomo è per natura un animale politico e chi vive fuori dalla comunità civile, per sua
natura e non per qualche caso, o è un abietto o è superiore all’uomo.»
ARISTOTELE

Questo non vuol dire, naturalmente, che l’individuo non abbia


importanza. Tutto il contrario! L’individuo è chiamato a realizzarsi appieno
come individuo, ma può farlo solo all’interno della comunità, ossia nei
legami che la strutturano e in forza dei quali egli diventa pienamente se
stesso come parte di una collettività. Mi piace, a tal riguardo, ricordare che
voi greci, per dire la parola “comunità”, usate il termine koinonia, che
letteralmente significa “ciò che è comune”: in effetti, in antitesi con le
odierne logiche individualistiche la comunità è uno spazio comune; uno
spazio nel quale sul “mio” e sul “tuo” prevale il “nostro”, ossia, appunto,
ciò che è comune a noi tutti, in quanto membri della comunità.
Alla luce di quanto ho sostenuto, non vorrei che tu mi fraintendessi.
Anche oggi esistono forme del vivere sociale: semplicemente, esse sono
strutturalmente diverse dalle figure della comunità che avete teorizzato e
praticato voi greci. Sintetizzando, potremmo dire che alla vostra idea di
comunità come dimensione pubblica in cui il fine ultimo è la vita stessa
della comunità, i moderni hanno sostituito quella che definisco “società”:
che è, per così dire, una comunità non comunitaria, che nasce dall’unione
interessata di individui che si relazionano tra loro al solo fine di tutelare al
meglio i propri interessi individuali. Se, per voi greci, la comunità era il
fine, per noi moderni essa, nella forma indebolita della società, è solo un
mezzo: più precisamente, è il mezzo attraverso il quale ciascuno,
relazionandosi in modo competitivo e antagonistico con gli altri, tutela solo
il proprio interesse personale, quali che siano le conseguenze che da ciò
scaturiscono per gli altri.
È questo, ovviamente, il funzionamento dell’odierna società, in cui il
profitto individuale e l’interesse privato paiono essere le sole molle da cui
scaturisce uno stare insieme non fine a se stesso. In cui si è parti di una folla
solitaria e anonima di persone che stanno accanto le una alle altre e,
paradossalmente, sono sempre sole. Per questo, Epicuro, ritengo di
fondamentale importanza riapprendere da voi greci il senso vero della
comunità come luogo delle libere individualità che si sanno parti di un
legame solidale. Se rettamente intesa, Epicuro, la comunità non si oppone
all’individuo, ma è il solo spazio reale in cui esso possa realizzarsi
pienamente.
25
Lavoro

Caro Epicuro,
in questa lettera vorrei affrontare la questione del lavoro. Che cosa
significa lavorare? E qual è il rapporto dell’uomo con questa dimensione?
Con una prima approssimazione, mi avventuro a sostenere che il lavoro è
una attività intenzionale, con la quale modifichiamo la realtà che ci sta
intorno. Pensiamo, ad esempio, al lavoro del fabbro: egli, con la sua azione,
trasforma il metallo che ha davanti. Lo modella, assegnandogli una forma
che era già presente nella sua mente e che adesso, mediante l’atto del
lavoro, diventa realmente esistente nell’oggetto lavorato.
Componente fondamentale del lavoro è, dunque, un’azione
trasformatrice finalizzata e tale da produrre effetti pratici. Non ogni azione,
dunque, è lavoro in quanto tale: lo è, soprattutto, l’azione che muta la realtà
e che lo fa secondo un fine. Specifico del lavoro è, dunque, un rapporto che
si viene a instaurare tra il soggetto umano e l’oggetto esterno: rapporto in
forza del quale il primo opera sul secondo, modificandolo secondo obiettivi.
In filosofia, vi è chi ha sostenuto – e, mi pare, con buone ragioni – che il
lavoro, non meno della ragione, è ciò che distingue gli uomini dagli
animali. Anche questi ultimi operano sulla realtà, come fa il castoro che
produce la diga o l’ape che costruisce le sue celle. E, non di meno, l’agire
animale è per istinto, non è mosso da un fine: il lavoro umano, invece,
anche quello meno perfetto, si fonda sempre su un agire mosso da finalità.

«Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per
tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché
cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza [...]. Producendo i loro mezzi di
sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.»
K. MARX

Il lavoro è talmente importante, Epicuro, che la stessa storia dell’umanità


potrebbe anche essere riletta, interamente, come storia dei diversi modi in
cui, a seconda dell’epoca, gli uomini hanno inteso e organizzato il loro
lavoro. Se letta in questa chiave, la storia ci mostra una verità inquietante:
in ogni epoca, sia pure in forme differenti, vi sono sempre stati schiavi e
padroni, ossia individui che erano costretti a lavorare e altri che, senza farlo
a propria volta, beneficiavano dell’altrui operato. Non è forse vero che le
piramidi, in Egitto, furono prodotte dal lavoro schiavile di coloro i quali
trascinarono i blocchi? E, ancora, nel Medioevo non erano forse i servi a
lavorare e, così facendo, a mantenere in vita anche i loro signori?
Anche nella mia epoca, Epicuro, sopravvivono forme di schiavitù
mascherata, forse meno evidente rispetto a quelle passate: penso ai bambini
che in varie parti del pianeta sono costretti a lavorare per produrre beni di
consumo. E penso, ancora, a quanti, pur con un libero contratto, lavorano
per ore e ore, come schiavi contemporanei, nei call center dell’Occidente
che si proclama libero. Certo, questi ultimi, a differenza degli schiavi
antichi, firmano liberamente un contratto: ma sono davvero liberi di farlo?...
Se non lo firmassero, resterebbero senza lavoro e non avrebbero, dunque, di
che vivere.
In che senso, Epicuro, il lavoro ci distingue dagli animali ed è, in
qualche modo, connesso con la ragione? In parte l’ho già sottolineato: solo
l’uomo agisce secondo finalità, modificando il reale in vista dei propri
bisogni e dei propri ideali. E, tuttavia, il lavoro è antropogenico, che
significa “formatore dell’uomo”, perché è solo per il suo tramite che
acquistiamo piena coscienza del mondo in cui siamo: chi lavora, infatti,
raggiunge una piena consapevolezza di sé e del proprio rapporto nel mondo.
Chi, invece, non lavora, è come se non pervenisse mai a una completa
coscienza di sé.
Da ciò segue un paradosso: nel rapporto tra lo schiavo costretto a
lavorare e il padrone che ne beneficia, il vero individuo libero è lo schiavo.
Egli soltanto ha coscienza di sé e del mondo, perché lavora e, così,
raggiunge la vera autonomia. Per assurdo che possa sembrare, è il padrone a
non essere autonomo: è lui ad avere bisogno dello schiavo, e non viceversa.
In verità, la mia epoca, Epicuro, ha finito per fare del lavoro una sorta di
religione: ha perso di vista il fatto che lavorare è una parte decisiva, ma non
esclusiva della nostra esistenza. Accanto al lavoro, infatti, deve esservi lo
spazio per l’ozio e per il tempo libero: che sono, poi, come sappiamo, le
condizioni fondamentali per fare filosofia. Ancora una volta, la verità –
come voi greci ci mostrate – sta nel mezzo. Libero non è chi solo lavora, nè
chi passa la vita a oziare. Libero è, invece, l’uomo che lavora, senza che
però il lavoro occupi l’intero tempo della sua esistenza.
26
Causa

Caro Epicuro,
con ogni probabilità non vi è concetto più caro ai filosofi di quello di
causa. A tal punto che, come sosterranno gli autori medievali, “il vero
sapere è il sapere mediante cause”. Insomma, la filosofia sarebbe nella sua
essenza una conoscenza causale.
Anche Aristotele lo sostiene, quando mostra che proprio in ciò consiste
la differenza specifica tra filosofia e mito: se quest’ultimo si ferma al “che”
(“il mito racconta che...”), la filosofia procede oltre. Non le basta il “che”,
ma vuole sapere anche il “perché”, ossia quello che potremmo, appunto,
definire causa, causalità, nesso causale. Nella sua determinazione più
generale la causa indica una particolare relazione tra due fenomeni: il primo
fenomeno, chiamato “causa”, è motivo di esistenza del secondo, che invece
è denominato “effetto”. Per questo, la causa è ciò che spiega e rende
possibile l’effetto, che da essa deriva.
Ne facciamo spesso esperienza nella nostra esistenza quotidiana.
Quando, ad esempio, sul tavolo da biliardo la palla A urta la palla B,
quest’ultima si mette in movimento: e, allora, possiamo dire che A ha
causato il moto di B. Ogni ente che popola il nostro mondo è dunque effetto
di una causa e può, a sua volta, essere causa di nuovi effetti. Sorge allora
una domanda necessaria, che da subito i filosofi hanno sollevato: se tutto è
effetto di una causa precedente, qual è la causa prima, da cui tutto deriva in
quanto effetto? Il paradosso sta nel fatto che se ogni causa è stata, a sua
volta, causata ed è effetto di qualcosa che l’ha preceduta, occorre trovare
una causa primissima: una causa che non sia stata a sua volta causata, ma
che sia all’origine di tutti gli effetti. Deve essere una causa che, a differenza
delle altre (che sempre sono causate), sia causa di se stessa. Se non si
ammettesse una causa di questo tipo si sarebbe costretti a regredire
all’infinito nella ricerca della causa: ogni causa, infatti, avrebbe dietro di sé
una causa precedente, e così via, all’infinito.
Supporre una causa prima è, allora, una necessità per il pensiero
filosofico: a tale causa i teologi assegnano il nome di Dio. Anche Dio, in
effetti, si potrebbe intendere, in termini puramente filosofici, come la causa
da cui tutto deriva, senza che essa, a propria volta, derivi da altro.
Aristotele ha fornito un contributo fondamentale alla filosofia
occidentale nella riflessione sulla causalità: egli ha distinto quattro diversi
tipi di causa. Vi è a) la causa materiale, che rimanda alla materia di cui è
composto l’effetto (il marmo è causa materiale della statua). Esiste, poi, b)
la causa formale, che rimanda alla forma o all’essenza dell’effetto (la forma
umana è causa formale della statua). Vi è, ancora, c) la causa efficiente, che
si riferisce a ciò che ha prodotto l’effetto (lo scultore ha realizzato la statua).
Infine, abbiamo d) la causa finale, in cui si esprime lo scopo per cui
l’effetto è stato prodotto (la statua è stata realizzata con lo scopo di venerare
gli dèi).
In età moderna, il filosofo scozzese David Hume solleverà un dubbio
radicale sulla teoria della causalità e, più in generale, sul concetto stesso di
causa. Immaginiamo ancora il tavolo da biliardo: vediamo la palla A che si
muove e si avvicina alla palla B, fino a toccarla. A questo punto, A si ferma
e B si mette in movimento. E noi diciamo, senza esitazioni, che il moto di A
ha causato il moto di B. Hume muove a questo punto la sua obiezione: noi
non abbiamo visto la causa, di cui siamo però certi. Semplicemente,
abbiamo visto che dopo il moto di A c’è stato quello di B; che quando A è
entrata in contatto con B, quest’ultima si è mossa e, ancora, che tutte le
volte che ciò avviene, si ripete la stessa dinamica. Ma dov’è la causa,
domanda Hume? Non la vediamo mai: è – egli spiega – semplicemente il
nome che attribuiamo alla nostra abitudine a vedere che, ogni qual volta A
entra in contatto con B, B si muove.

«Non è dunque la ragione la guida della vita, ma l’abitudine. Essa soltanto muove la
mente, in tutti i casi, a supporre il futuro conforme al passato.»

D. HUME
Dunque, è la causa solo un’abitudine? O ha una sua reale esistenza,
come credeva Aristotele? Con questo dubbio decisivo ti lascio, caro
Epicuro, e ti saluto.
27
Nichilismo

Caro Epicuro,
oggi vorrei raccontarti di un concetto estraneo a voi greci, in grado di
spiegare molti aspetti del presente in cui vivo. Il concetto in questione è il
nichilismo, la sua origine è del tutto moderna, anche se nel nome risuona
l’antica parola latina che significa “nulla”, nihil. In termini generali, il
nichilismo è quel processo che, attraversando la nostra storia occidentale,
culmina in un epilogo sconfortante: tutti i valori che avevano dato un senso
all’esistenza, i riferimenti e le coordinate attorno alle quali l’Occidente
aveva costruito se stesso (vero, giusto, buono, bello ecc.), alla fine
precipitano nel nulla, si consumano fino a sparire e noi smettiamo di
credervi.
Insomma, il nichilismo è un processo di logoramento e di declino dei
valori fondamentali in cui si era creduto e che, alla fine, perdono valore: è il
processo della svalorizzazione dei valori, che lascia spazio a un senso
disincantato e rassegnato di vuoto. Nichilismo vuol dire appunto questo:
nulla resta dei valori fondamentali e dei punti di riferimento decisivi della
nostra storia.
In questo senso, il nichilismo è essenzialmente un processo, un accadere
graduale, una storia che si sviluppa nel tempo: e riguarda tanto l’oggetto,
cioè i valori fondamentali in cui si credeva, che si indeboliscono e si
logorano; quanto il soggetto, l’uomo, che gradualmente perde interesse per
quei valori e smette di credere in essi.
Friedrich Nietzsche, il filosofo tedesco che ha teorizzato più di ogni altro
il nichilismo nel XIX secolo, ne ha riassunto l’essenza nella formula “Dio è
morto”. Con questa espressione, egli non dice, semplicemente, “Dio non
esiste”. La questione è più sottile. Dire che “Dio è morto” significa
riconoscere che il Dio in cui gli uomini un tempo credevano, e grazie al
quale attribuivano senso alla propria esistenza, è morto, non è più, o, se
preferiamo, si è consumato fino a sparire.

«Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo
spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?
[...] Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi,
gli assassini di tutti gli assassini?»

F. NIETZSCHE

Per chi come te, Epicuro, è greco, immagino sia molto difficile
comprendere cosa realmente sia il nichilismo: esso, infatti, è quanto di più
lontano possa esservi dal vostro universo, popolato da dèi e da valori forti,
da virtù e da ideali. Eppure nella mia epoca il nichilismo è ovunque:
nell’assenza di sogni e di progetti, nella rassegnazione e nella perdita di
fede, nella mancanza di valori e nel disinteresse per la verità. La società in
cui vivo, Epicuro, è quella per cui ha valore solo ciò che ha un prezzo e,
insieme, conta solo ciò che può essere contato: tutti i valori si sono
svalorizzati, è sopravvissuto solo il valore del guadagno. Per un verso, il
nichilista è chi non crede più in alcun valore e in alcun progetto. Per un
altro verso, è chi dalla morte di Dio trae la conseguenza che non vi sono più
valori e norme: e che, dunque, l’individuo può fare indistintamente tutto ciò
che vuole. È questo il volto più seducente e ingannevole del nichilismo
della civiltà dei consumi e della sua deregolamentazione assoluta.
Che fare per reagire al nichilismo? I più oggi lo subiscono passivamente,
in una solitaria tristezza che sconfina in disperazione e angoscia e che
culmina nel contegno depressivo e aprospettico di chi non crede più in nulla
e non nutre più speranze. Io credo, invece, che sia compito fondamentale
della filosofia indagare possibili vie di fuga. Una di queste potrebbe essere
il recupero dei valori mai tramontati dell’Occidente, i valori che hanno
fondato la nostra storia, a partire dal concetto stesso di verità come l’ha
teorizzato la filosofia greca. Un altro sentiero possibile potrebbe essere, se
guardiamo alla filosofia di Nietzsche, quello di un nichilismo “attivo”: di un
nichilismo, cioè, che a differenza di quello “passivo” oggi dominante,
diventasse creativo e dal nulla sapesse creare qualcosa di realmente nuovo,
ammettendo inediti valori e impensate prospettive. Su questi temi, pur così
importanti, ti lascio, Epicuro, salutandoti caramente.
28
Preghiera

Caro Epicuro,
abbiamo già affrontato il tema, pur così articolato, della religione. Vorrei,
adesso, soffermarmi su una questione che è legata a esso, ma conserva una
sua specificità e una sua autonomia. Intendo la preghiera. Perché gli uomini
pregano? E, in concreto, quali sono il significato e il contenuto propri della
preghiera? Nel suo significato più generale e, insieme, più generico, pregare
vuol dire rivolgersi alla divinità: è, cioè, il modo specifico mediante il quale
gli umani entrano in relazione con la dimensione del divino.
In sostanza, la tradizione filosofica ha individuato due dimensioni della
preghiera, diverse e, forse, addirittura opposte. Vi è, per un verso, quella
che potremmo definire come la “preghiera di richiesta”: in accordo con la
quale, gli uomini si rivolgono alla divinità per chiederle qualcosa
(solitamente un beneficio). È di questo tipo la preghiera della madre che
chiede al dio la guarigione del figlio, per portare un esempio tra i tanti
possibili. Di altra natura è la “preghiera di relazione”. Con quest’ultima,
non ci rivolgiamo alla divinità affinché essa, ascoltandoci, ci dia quel che
chiediamo. In modo totalmente differente, invochiamo il dio con il semplice
scopo di relazionarci a lui, ossia di entrare, in qualche modo, in contatto con
la sua grandezza.
Qual è, allora, la differenza tra i due tipi di preghiera? Con il primo,
abbiamo un movimento che parte dal soggetto che prega e a lui ritorna: egli
si rivolge alla divinità, per averne qualcosa in cambio. Con il secondo il
soggetto invoca il dio non per ottenere qualcosa in cambio, bensì,
semplicemente, per entrare in contatto con lui, per stabilire un dialogo. Da
questa differenza ne scaturisce una ulteriore: la preghiera di relazione è fine
a se stessa, quella di richiesta invece è funzionale ad altro, cioè al beneficio
che si spera di ottenere.
Alla luce di questa distinzione, mi pare evidente come la vera preghiera
sia la preghiera di relazione. L’altra andrebbe più giustamente intesa come
una semplice richiesta soggettiva, che muove dal soggetto ed è finalizzata ai
suoi interessi. Tra le sue forme vi è il sacrificio: attraverso il quale gli
uomini invocano il dio per chiedere benefici specifici e, addirittura, sperano
di assicurarsi la benevolenza offrendo sacrifici. Così la preghiera, Epicuro,
mi pare scadere e diventare uno scambio del tutto analogo a quello
commerciale: dove si dà qualcosa per avere altro in cambio. La gratuità che
anima la preghiera di relazione, al contrario, è per sua definizione
lontanissima dalle logiche dello scambio di mercato.
La domanda che, a questo punto, si pone, Epicuro, è la seguente: il
filosofo ha diritto di pregare? O non deve egli, invece, limitarsi alla sfera
della razionalità? La tua soluzione, Epicuro, è la seconda, lo so bene: gli
dèi, a tuo giudizio, sarebbero indifferenti alle umane sorti e i mortali
dovrebbero, a loro volta, preoccuparsi solo delle proprie questioni, guidati
dalla ragione pensante.
Azzardo un’ipotesi che, forse, può armonizzare le due diverse soluzioni:
il filosofo deve onorare il divino e con esso relazionarsi esercitando appieno
il pensiero, che è appunto la parte più divina che è in noi. È pensando,
infatti, che più ci avviciniamo a ciò che è divino. Ed è, forse, questo il modo
più compiuto con cui i pensatori ringraziano gli dèi. A tal riguardo, i
tedeschi usano un’espressione davvero efficace: Denken ist Danken,
“pensare è ringraziare”.
29
Dialogo

Caro Epicuro,
desidero oggi scriverti di un tema che è fondativo della stessa filosofia.
Alludo al dialogo, che è, o dovrebbe essere, l’essenza stessa del metodo
filosofico, almeno così come l’hanno teorizzato Socrate e il suo allievo
Platone.
La filosofia, infatti, muove dal dialogo tra interlocutori che si
confrontano, guidati dal desiderio di raggiungere la verità: a tale desiderio
diamo, appunto, il nome di “filosofia”, ossia di “amore per il sapere”.
Condizioni primarie del fare filosofia sono, dunque, la disponibilità a
mettere in gioco se stessi (le proprie certezze e il proprio generale modo
d’essere), il desiderio di raggiungere la verità e il confronto dialogico con
altri soggetti che abbiano anch’essi le precedenti caratteristiche.
“Dialogo” è una parola che deriva dalla lingua greca: rinvia a un logos, a
una “ragione” che (mediante il linguaggio) si muove dià (che significa
“attraverso”) le posizioni degli interlocutori. Nel dialogo, ciascuno espone
le proprie ragioni e, attraverso il confronto, trionfa la ragione che
sopravvive, per sua forza, alle obiezioni e alle critiche mosse dalle ragioni
degli altri interlocutori. Per questo, nel dialogo filosofico non vince chi è
più facoltoso, chi è di stirpe più nobile o chi è più potente: semplicemente,
vince la ragione migliore, quella che più si avvicina al vero.
A ben vedere, proprio in ciò risiede anche quello che potremmo
etichettare come il paradosso del dialogo filosofico: in esso, non vi sono
vinti, ma solo vincitori. Anche chi viene contestato, infatti, è egualmente
vincitore: anch’egli, partecipando al dialogo, si avvicina alla verità. Per
questo motivo, il dialogo filosofico si presenta come una “lotta
amichevole”, come lo qualificherà Martin Heidegger nel Novecento: è una
lotta, sì, perché ciascuno difende le proprie ragioni, delle quali è convinto;
ma è amichevole, giacché l’obiettivo è quel raggiungimento collettivo, con
il dialogo, della verità, in forza del quale nessuno è escluso. La filosofia non
può dunque essere intesa come un insieme di nozioni individuali o come
una ricerca solitaria del vero: è, al contrario, un esercizio di dialogo alla
ricerca del vero, il cui presupposto fondamentale è il confronto con gli altri
e con le loro prospettive.
Insomma, nel suo senso più ampio, il fatto che la filosofia sia, per sua
essenza, dialogo rivela come essa sia anche una pratica comunitaria, legata
alla socialità dello stare insieme degli uomini. Il dialogo filosofico assume,
allora, la forma della ricerca della verità di una intera comunità mediante la
partecipazione al dialogo dei concittadini.
L’epoca dalla quale ti scrivo, Epicuro, è poco propensa alla filosofia e al
dialogo: la forma dominante è quella del monologo di massa di individui
isolati, che hanno rinunciato al confronto e alla ricerca sociale del vero. Per
averne prova, è sufficiente salire sulla metropolitana in una delle numerose
megalopoli del nostro tempo: troveremo masse di individui che, pur
costretti a stare l’uno accanto all’altro, non dialogano. Addirittura hanno
paura a incontrare lo sguardo altrui. Con auricolari nelle orecchie e
telefonini in mano fanno di tutto per evitare il dialogo e rimanere
imprigionati nella propria individualità. La vostra civiltà del dialogo è,
dunque, stata completamente rovesciata dalla nostra contemporanea
“civiltà” del silenzio di massa o delle urla scomposte dei programmi
televisivi. In questi ultimi, che vorrebbero imitare il dialogo nella sua forma
più pura, gli interlocutori non cercano di arrivare insieme alla verità: al
contrario, ciascuno aspira a imporre urlando il proprio punto di vista, senza
neanche ascoltare quello degli altri. Il dialogo filosofico, invece,
presuppone la volontà di porsi in relazione con l’altro, senza annullarlo. La
parola “dia-logo” bene adombra il movimento della ragione che, mediante
la parola, non annulla con la violenza la distanza tra gli interlocutori: li
pone in relazione amichevole, nel rispetto dell’alterità che ciascuno è, e in
nome della comune ricerca del vero a cui i dialoganti prendono parte.
30
Opinione

Caro Epicuro,
che cos’è un’“opinione”? E per quali motivi e su che basi si differenzia,
per statuto, dal sapere in senso proprio? Ti scrivo di questo tema perché mi
pare della massima importanza: oggi molti pensano di sapere, quando in
realtà semplicemente opinano. Potremmo sostenere che in ciò sta la
differenza: il sapere è, nel suo senso più ampio, una conoscenza fondata,
poggiante su basi certe in grado di resistere a eventuali tentativi di critica e
di confutazione. Al contrario, l’opinione è un sapere apparente: in quanto
tale, crolla o, se preferiamo, si scioglie, non appena lo si sottopone al fuoco
della critica.
La vostra lingua greca, Epicuro, esprime con efficacia la distinzione tra
queste due forme di sapere: chiama infatti “episteme” il “sapere solido” e
“doxa” il “sapere insicuro” proprio dell’opinione. Episteme significa
“sapere solido”, stabile, che può dirsi scienza. Doxa, invece, deriva dal
verbo greco dokeo che significa “io appaio”: esprime un “sapere apparente”
e non fondato.
Platone meglio di ogni altro pensatore ha spiegato la differenza tra
opinione e sapere mediante una famosissima analogia: immaginiamo una
caverna, al cui interno, nell’ombra, sono incatenati degli uomini. Essi non
sanno di essere là sotto e dunque pensano che ciò che vedono, nella
penombra, sia la sola realtà e, di più, il solo modo possibile di osservarla.
Fuori dalla caverna, però, splende il sole e le cose si mostrano nella loro
piena luminosità: se solo uno dei prigionieri riuscisse a evadere, scoprirebbe
la differenza tra verità e opinione. La prima, com’è evidente, coincide con il
sapere “solare” con cui si vedono in forma chiara e distinta le cose fuori
dalla caverna. La seconda, invece, corrisponde al sapere instabile e sfocato
che regna nello spazio chiuso della grotta.
Senza esagerazioni, Epicuro, potremmo dire che compito fondamentale
della filosofia è anche la discussione critica dei saperi che si presentano
come tali in senso pieno e che, a una più attenta analisi, si rivelano essere
solo opinioni.
Era questo, peraltro, il modo di procedere di Socrate: il filosofo
discuteva criticamente i saperi dei suoi concittadini, invitandoli a rivedere
quelle presunte certezze solide che, a uno sguardo approfondito, mancavano
del fondamento proprio del sapere “epistemico”, cioè proprio della
episteme, della scienza. A seconda del suo interlocutore, Socrate sollevava
la domanda sull’essenza delle cose: “che cos’è il coraggio?”, domandava ai
militari. E quando essi, nel rispondergli, ritenevano di essersi appellati al
loro sapere certo, Socrate interveniva per mostrare l’infondatezza delle loro
risposte e, dunque, dei loro saperi. Il dialogo poteva così proseguire alla
ricerca di nuove e più solide risposte alla domanda: e gli interlocutori,
dialogando, si liberavano dalle opinioni, per giungere insieme al sapere
stabile.
Per queste ragioni, Epicuro, mi pare plausibile definire la filosofia anche
come una ricerca del sapere certo sul bene, sul vero e sul giusto: una ricerca
che, attraverso il dialogo, libera da quei saperi apparenti che sono le
opinioni, per produrre il sapere certo, stabile e solido connesso alla verità.
La mia epoca sembra aver voltato le spalle a quest’ultima: preferisce la
penombra delle opinioni, lo spazio chiuso e senza luce della caverna.
Questo è, non a caso, il tempo in cui gli “opinionisti” televisivi hanno
occupato il posto vacante dei filosofi: a discapito della ricerca del sapere
incrollabile, ci si accontenta della chiacchiera superficiale, dell’opinione
infondata, della notizia evanescente. Si opina senza tregua su tutto, senza in
realtà sapere nulla.
31
Conoscenza

Caro Epicuro,
vorrei oggi affrontare una questione che mi pare della massima rilevanza
e che, di fatto, costituisce uno dei punti nodali su cui da sempre si affaticano
i filosofi, con prospettive e soluzioni assai differenziate. In che modo
avviene la nostra conoscenza, ossia il processo con cui diveniamo coscienti
del mondo obiettivo e delle sue leggi, dei suoi processi e delle sue strutture?
Credo che, riducendo la questione ai suoi elementi fondamentali, due siano
state le soluzioni delineate fin dall’antichità. Vi è, per un verso, la posizione
che potremmo genericamente definire “empiristica”: la quale ritiene che
ogni nostra conoscenza derivi dall’esperienza esterna, che voi greci
chiamate “empeirìa”. Secondo questa visione, la nostra mente, quando
nasciamo, sarebbe una sorta di foglio bianco: e gradualmente l’esperienza
vi traccerebbe i propri segni, compilandolo e rendendolo sempre più ricco.
Dall’osservazione dei fenomeni esterni apprenderemmo, così, che dove vi è
la cenere, lì deve esserci stato un fuoco o che, quando il cielo è coperto
dalle nuvole, lì potrà piovere. La tesi fondamentale dell’empirismo sostiene
che non vi è nulla nella nostra mente, che prima non sia stato nei nostri
sensi.
Per un altro verso, vi è l’opposta posizione degli “innatisti”, ossia di
coloro i quali sostengono che, quando veniamo al mondo, la nostra mente è
già corredata di alcune strutture, di alcune idee e di alcuni presupposti
fondamentali: questi ultimi sarebbero, appunto, “innati”, cioè preesistenti in
noi rispetto a ogni esperienza. Quest’ultima, ad avviso degli innatisti, non
farebbe altro che risvegliare in noi il ricordo di quelle conoscenze che, già
dentro di noi, ci permettono di conoscere la realtà: se noi conosciamo la
legge della causalità, ciò dipende dal fatto che l’esperienza del fuoco che,
ardendo, genera la cenere, risveglia in noi il ricordo della legge della
causalità, che è innata nella nostra mente.
Per questo, come scrive Platone, conoscere non sarebbe altro che
ricordare. La tesi fondamentale dell’innatismo può, allora, condensarsi nelle
parole di Leibniz:

«Non vi è nulla nell’intelletto che non sia stato nel senso, [...] se non l’intelletto stesso.»

G. LEIBNIZ

Nulla allora è nella mente, che non sia stato precedentemente nei sensi,
se non la mente stessa. Empirismo e innatismo, nella loro opposizione
inconciliabile, presentano punti di forza e di debolezza: ciascuno permette
di criticare l’altro e, insieme, può per mezzo dell’altro essere criticato.
L’innatismo, ad esempio, può agevolmente sollevare all’empirismo questo
genere di obiezione: nel piano dell’esperienza, che per l’empirismo
dovrebbe essere la sola fonte della conoscenza, non rinveniamo mai la
causalità. Vediamo, appunto, il fuoco che arde e, in successione temporale,
la cenere che si deposita. Da dove traiamo, allora, la conoscenza della
causalità? Essa deve già, di necessità, esistere in forma innata nella nostra
mente: l’esperienza del fuoco e della legna non fa altro che risvegliarne in
noi il ricordo sopito. L’empirismo, dal canto suo, può muovere
un’obiezione di questo tipo all’innatismo: se è vero che esistono idee
innate, allora esse debbono, per ciò stesso, essere presenti universalmente in
ogni membro del genere umano. Ma l’esperienza ci mostra una realtà del
tutto contrastante con tale presupposto: ad avviso degli empiristi, infatti,
non vi sono idee universalmente valide. E usanze che presso un popolo
hanno il valore di legge sacra, presso altri corrispondono a riprovevoli
trasgressioni.
A me pare, Epicuro, che innatismo ed empirismo finiscano per
estremizzare in forma unilaterale posizioni che, forse, possono essere
conciliate, come tra gli altri intuì Leibniz in epoca moderna e, dopo di lui,
anche se diversamente, Kant. È bensì vero che l’esperienza svolge un ruolo
ineludibile nei processi della conoscenza, come troppo spesso gli innatisti
non hanno voluto riconoscere. E, non di meno, essa non è di per sé
sufficiente: per trasformarsi in conoscenza effettiva, necessita di strutture
che, almeno potenzialmente, siano innate. A questa forma specifica, che
attinge a empirismo e innatismo, Kant darà il nome di “trascendentale”: che
è una conoscenza le cui strutture fondative sono innate, ma la cui
applicabilità è legittimamente rivolta solo al piano dell’esperienza.
32
Azione

Caro Epicuro,
che cosa significa agire? E che cos’è, in senso proprio, un’azione? Penso
che, in prima approssimazione, non sia fuorviante sostenere che l’azione è
un intervenire razionale del soggetto sull’oggetto in vista della
modificazione di quest’ultimo e, insieme, in vista del suo accordo con la
volontà del soggetto. La chiamiamo “atto”, se la consideriamo nel suo
accadere singolare, ossia come azione in sé e per sé compiuta. La
appelliamo, invece, “attività”, quando la concepiamo nella sua durata
temporale. L’azione è sempre connessa con il divenire o, meglio, con la
modificazione dell’oggetto sul quale l’azione si dirige. Vale la pena di
soffermare l’attenzione su un’antica contrapposizione, centrale nella storia
occidentale: la contrapposizione tra pensiero e azione, determinazioni tra
loro irriducibili. Anche proverbialmente, si dice che chi pensa troppo,
agisce poco. Eppure, Epicuro, a una analisi più attenta, la contrapposizione
crolla: e le due determinazioni del pensare e dell’agire appaiono più vicine
tra loro di quanto non si sia disposti ad ammettere.
Riflettiamoci: non è forse vero che le nostre azioni, anche quelle più
semplici e immediate, sono esse stesse il frutto di un pensare, da cui
scaturiscono e con il quale sono in rapporto strettissimo? Supponiamo, ad
esempio, che io agisca, camminando lungo il tragitto che da casa mi
conduce in piazza. In questo caso, com’è evidente, la dimensione dell’agire
è connessa e, di più, è il frutto di un pensiero: ho scelto di recarmi in quel
luogo e di intraprendere quell’azione, perché ho pensato – supponiamo –
che fosse bello incontrare gli amici. Ma se è vero che non esiste azione
senza pensiero, è altrettanto vero anche l’inverso: non esiste un pensiero
che non sia azione. Anche in questo caso, riflettiamoci: cosa avviene
quando pensiamo? Non è, forse, il pensare un’attività, per quanto specifica?
Se, supponiamo, pensiamo a noi stessi, o a un amico, o a un luogo amato,
non stiamo forse compiendo un’azione? Da queste pur semplicissime
considerazioni, credo che dobbiamo sottoporre a una revisione radicale la
nostra abituale concezione del pensiero e dell’azione. Non siamo, come
pure talvolta si è indotti a pensare, soggetti che ora pensano, ora agiscono.
Al contrario, siamo ineludibilmente pensiero e azione: il nostro “io” è un
agire ininterrotto. Di più, è la serie delle azioni che compiamo: e anche
quando siamo immobili, già stiamo agendo, nella misura in cui pensiamo.
Queste considerazioni, Epicuro, mi aiutano a porre in evidenza alcune
contraddizioni specifiche della mia epoca: nella quale, in effetti, sembra che
pensiero e azione procedano separati e senza reali punti di tangenza. Per un
verso, il sistema della produzione e dei consumi vorrebbe che agissimo
senza pensare: alla stregua di automi, dovremmo cioè compiere, in maniera
irriflessa e, appunto, senza pensarci, le azioni che il sistema stesso richiede,
come l’acquisto di beni di consumo e l’adozione di comportamenti
omologati. Per un altro verso lo stesso sistema della produzione e dei
consumi vorrebbe che noi ci rinchiudessimo in una dimensione di pensiero
astratto e sciolto dalla sfera dell’agire: e questo affinché il mondo così
com’è non potesse concretamente essere cambiato in meglio attraverso un
agire adeguatamente pensato.
Per questo, Epicuro, credo sia di vitale importanza tornare a saldare tra
loro le due sfere del pensare e dell’agire: solo grazie a quella unione, del
resto, possiamo essere noi stessi in senso pieno, nella forma di un io attivo e
pensante. E solo grazie a quella unione possiamo aspirare a un pensiero che
si realizzi nel mondo oggettivo, trasformandolo perché quest’ultimo si
accordi sempre più con il pensiero e con i suoi progetti ispirati al vero, al
bene e al giusto.
33
Volontà

Caro Epicuro,
vorrei trattare ora la questione della volontà. Che cos’è, nella sua
essenza, la volontà? E abbiamo diritto di pensare che essa sia libera? In
estrema sintesi, la definirei così: la volontà è la determinazione del soggetto
a intraprendere un’azione in vista di uno scopo preciso. Così si spiega, ad
esempio, la definizione che ne diede Cicerone, quando la classificò come un
desiderio razionale, cioè non fine a se stesso, ma pensato in vista di uno
scopo.
Supponiamo, ad esempio, che io voglia acquistare una casa dove
trascorrere del tempo di svago. La volontà riguarda una determinazione del
soggetto, che sceglie un certo agire e lo fa perché, attraverso di essa, aspira
a raggiungere un determinato obiettivo.
In epoca moderna, Schopenhauer si spingerà a sostenere che la volontà è
l’essenza ultima di ogni cosa.

«[...] L’essenza in sé di ogni cosa nel mondo e la sostanza unica di tutti i fenomeni.»

A. SCHOPENHAUER

Ora, la domanda che a questo punto si pone, e che è da sempre al centro


del dibattito filosofico, è se la volontà sia o non sia libera: il mio volere
acquistare la casa per trascorrervi del tempo di svago è libero, cioè scelto
realmente da me, o è determinato da condizionamenti esterni che, in un
modo o nell’altro, impediscono di riconoscerlo come pienamente libero? A
questo proposito, soprattutto in ambito cristiano, diventa decisiva la
questione del “peccato originale”: dopo quell’evento come può la nostra
volontà essere ancora libera? Non è, forse, necessariamente al servizio del
male?
In epoca moderna, ad esempio, Lutero negherà la libera volontà e
tematizzerà il “servo arbitrio”, mentre Erasmo da Rotterdam, in modo
opposto, valorizzerà il “libero arbitrio” e, con esso, la nostra possibilità di
determinarci secondo il nostro volere.
Socrate, dal canto suo, era convinto che noi non vogliamo mai
deliberatamente il male: se lo compiamo, ciò accade per un errore
intellettuale, di conoscenza. Vogliamo fare il bene, ma lo confondiamo, per
nostro errore, con il male.
Ritengo che la soluzione di Socrate non sia fino in fondo convincente e
riponga fin troppa fiducia nella natura umana. Quand’anche possa risultare
arduo ammetterlo, in molti casi vogliamo il male: e lo scegliamo
liberamente, pur sapendo perfettamente che esso è l’opposto del bene.
Rientra appieno nella volontà libera anche la possibilità di volere ciò che è
malvagio.
Sotto questo profilo, credo che le argomentazioni di quanti sostengono,
talvolta con argomenti solidi, che la nostra volontà non è libera, ma è
determinata alla maniera di un meccanismo, in cui tutto procede in forma
necessaria, debbano essere respinte, in primo luogo da un punto di vista
etico. Perché? Se, come costoro sostengono, la nostra volontà (che pure può
credersi libera) è in realtà condizionata in forma deterministica da altro (e
finisce, dunque, per essere il necessario effetto di una causa da cui dipende),
allora ne segue una conseguenza molto pericolosa: non esiste la
responsabilità. Come suggerisce la parola stessa, essere responsabili vuol
dire “rispondere” delle proprie azioni, buone o cattive che siano. Ma perché
ciò sia possibile, occorre che esse siano compiute liberamente e non per
costrizione. Non si potrebbe, infatti, addossare al soggetto la responsabilità
per azioni che egli ha compiuto in maniera non libera, senza cioè la
possibilità di agire in altro modo. Se così fosse, nessuno sarebbe
responsabile e perfino gli assassini non potrebbero essere condannati per le
loro terribili azioni.
Certo, è innegabile, Epicuro, che la nostra volontà, che pure è libera, sia
influenzata e condizionata da una ricca gamma di fattori esterni. Pensiamo
anche solo ai meccanismi della pubblicità, che vuole convincere il soggetto
ad acquistare certi oggetti (che senza la pubblicità probabilmente non
avrebbe mai voluto avere).
Credo dunque che sia di fondamentale importanza educare la nostra
volontà, liberandola il più possibile dai condizionamenti esterni e
indirizzandola, secondo ragione, al bene.
34
Tecnica

Caro Epicuro,
oggi vorrei scriverti di un concetto ben noto a voi greci, sia pure con una
diversa accezione. È il concetto di tecnica, che deriva dalla parola greca
techne. Nel nostro immaginario, “tecnica” rimanda immediatamente a
dispositivi sofisticati e a prodotti complessi, come i computer o i navigatori
satellitari. Per voi greci, invece, la techne alludeva, in generale, a un sapere
dagli effetti pratici: poteva essere quella che oggi noi definiremmo
“tecnica”, ma anche quella che, più correttamente, chiameremmo “arte”.
Entrambe sono, infatti, racchiuse nel vostro termine techne, in quel
sapere pratico i cui fini non stanno nell’azione stessa, ma nel prodotto a cui
l’azione dà vita. Per l’agire del vasaio, ad esempio, lo scopo è la produzione
del vaso. A differenza della teoria, che è un sapere fine a se stesso, e della
pratica, il cui scopo è l’azione in sé considerata, la tecnica riguarda prodotti
specifici, creati grazie al sapere corrispondente.
Sulla base di questa concezione possiamo davvero sostenere, in
compagnia con molti filosofi del nostro tempo, che la nostra è l’epoca della
tecnica: che tende, così, a diventare un modo d’essere fondamentale o, se
preferiamo, l’essenziale maniera mediante cui ogni ente si svela, si
presenta.
Oggi pare che il nostro rapporto con il reale sia ormai solo quello proprio
della tecnica: ci rapportiamo a tutto, infatti, secondo il modo specifico della
tecnica, intenta a produrre oggetti concreti, utili, che ci fanno sentire
potenti. Il reale nella sua totalità pare, così, ridefinirsi come un unico,
immenso apparato tecnico, a noi disponibile per il nostro agire.
Quest’ultimo, a sua volta, non ha altro fine se non il potenziamento
illimitato della nostra stessa potenza, che è poi la nostra capacità di
controllare il reale piegandolo ai nostri fini.
Vi è stato chi ha sostenuto che il progetto stesso della scienza e del
sapere occidentali, fin dagli antichi greci, raccoglie in sé l’essenza della
tecnica: mira, cioè, a controllare la realtà, disponendone in vista degli scopi
del soggetto.
Non sono così sicuro che già presso voi greci fosse così. Ma so che oggi
il nostro mondo è dominato dalla tecnica e dalla sua visione essenziale
dell’ente come prodotto di cui possiamo disporre in vista della nostra
potenza. Quante volte, in effetti, delle cose che ci circondano ci chiediamo:
che cosa posso farne? Quale utilità può avere per me? Pensare in questo
modo racchiude in sé il fondamento del pensare tecnico di cui dicevamo.
Se, con l’attenzione che compete al filosofo, ci guardiamo intorno e
osserviamo la realtà circostante, non è difficile scorgere il dominio della
tecnica e del suo pensiero corrispondente: ovunque vediamo dispositivi
tecnologici e apparati sofisticati.
La natura nel suo complesso, e perfino noi stessi, siamo ogni giorno più
“tecnicizzati”, più sottomessi alla potenza della tecnica. A tal punto che
sorge una domanda fondamentale: ma siamo davvero noi a dominare la
tecnica? O non siamo, invece, divenuti “giocattoli” nelle sue mani?
In definitiva, chi è il vero soggetto del mondo contemporaneo? Noi, che
ci destreggiamo con gli apparati tecnici? O, al contrario, gli apparati tecnici,
che ci utilizzano mentre ci illudiamo di essere noi a utilizzarli? In effetti, tra
i paradossi della tecnica vi è anche quello per cui oggi noi umani appariamo
“antiquati” rispetto ai prodotti tecnici, sempre più evoluti e sofisticati, a cui
abbiamo dato vita.
Che fare, dunque? Credo, Epicuro, che sia fondamentale riscoprire il
concetto di limite e applicarlo anche al mondo della tecnica, per evitare che
alla fine non diveniamo del tutto schiavi, come in parte già siamo, dei suoi
prodotti. È sufficiente uscire di casa per prenderne atto: le persone
camminano seguendo i loro cellulari stretti in mano, come se fossero
misteriose divinità che meritano rispetto. Occorre, dicevo, porre dei limiti
alla naturale smisuratezza della tecnica. E, per farlo, è bene anzitutto
ricordare che l’uomo deve sempre essere fine, mai mezzo.
35
Natura

Caro Epicuro,
desidero oggi scriverti del tema della natura, al quale tu stesso, nei tuoi
scritti, hai dedicato non poche attenzioni. Che cosa dobbiamo davvero
intendere con l’espressione “natura”, che quotidianamente impieghiamo nel
nostro lessico senza, tuttavia, sottoporla all’attenzione filosofica che
merita? Nel suo significato più ampio, la natura indica l’insieme
complessivo e indistinto delle cose che sono: è, in altri termini, la totalità
degli enti in sé considerata, l’universo inteso nei suoi fenomeni e nelle sue
attività, nel suo ordine e nelle sue leggi. La natura è, allora, tutto ciò che
esiste nello spazio: lo è tanto la tartaruga che si trascina stancamente,
quanto le rocce spigolose della montagna.
Certo, all’interno dell’ampio spazio della natura, possiamo distinguere i
tre regni che la caratterizzano e che coincidono con il regno minerale, il
regno vegetale e il regno animale, il più complesso. In quest’ultimo,
ovviamente, rientra anche l’uomo, che è un essere veramente speciale: è
unione di cultura e di natura, di biologia e di storia. Vi sono, infatti, in noi
determinazioni che sono del tutto naturali, come ad esempio il mangiare e il
bere, e altre che, invece, presentano caratteristiche storiche e culturali,
come, ad esempio, bere vino e mangiare cibi cotti o preparati in modi
particolari. E proprio perché siamo, insieme, natura e cultura, sarebbe un
errore pensare di poter sacrificare una di queste due componenti essenziali a
beneficio dell’altra: siamo il risultato di entrambe, e non potrebbe essere
altrimenti.
La filosofia, fin dall’antichità, ha ipotizzato due diversi ordini di
interpretazione della natura. Alcuni filosofi, come hai fatto tu stesso,
Epicuro, l’hanno intesa meccanicisticamente: come un immenso
meccanismo funzionante secondo un sistema complesso di cause ed effetti,
composto da atomi che si aggregano e si separano, dando luogo ai processi
di nascita, crescita e morte. Altri, come Platone, hanno invece concepito la
natura come un organismo vivente, addirittura dotato di una sua anima
(Platone la chiama espressamente “anima del mondo”): di questo organismo
ogni parte sarebbe un membro vivente, e così accade anche a noi umani.

«Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo nacque come un
essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie alla provvidenza divina.»

PLATONE

Da queste diverse posizioni nascono domande degne della massima


attenzione, che qui mi limito a ricordare: la natura è orientata a uno scopo?
O in essa tutto procede unicamente in virtù di cause meccaniche? E, ancora,
qual è la differenza tra natura e spirito?
Per alcuni, tra i quali annovero anche te, Epicuro, tutto quel che accade è
effetto di qualcos’altro e non ha alcun fine in sé. Per altri, invece, la natura è
un organismo teleologico, cioè un organismo orientato a un fine preciso.
Altri ancora sostengono che lo spirito è una semplice manifestazione
secondaria della natura; e c’è chi afferma, in modo diametralmente opposto,
che la natura è una forma di spirito addormentato e cristallizzato in
quell’elemento della spazialità e della materialità che, a rigore, è quanto di
più distante possa esservi dallo spirito.
Vi è, poi, stato chi ha dichiarato che la natura è stata creata da Dio ed è,
dunque, una sua produzione; e chi, invece, come Spinoza, ha sostenuto che
Dio è la natura stessa. Quest’ultima posizione prende il nome di
“panteismo”, letteralmente “il tutto divino”, perché finisce per riconoscere
Dio nel piano stesso delle cose della natura.

«Tutto ciò che è, è in Dio e niente può essere né essere concepito senza Dio.»

B. SPINOZA
Una cosa è certa, Epicuro: la natura chiede di essere rispettata. La mia
epoca, invece, ha scelto la via opposta, quella del suo maltrattamento
costante. Essa non viene considerata come la nostra casa più preziosa, ma
come un fondo disponibile, come una realtà completamente manipolabile
dal nostro agire: quest’ultimo mira al profitto e alla potenza e piega a sé la
natura, oltraggiandola e maltrattandola ogni giorno. Occorre, invece,
acquisire coscienza che essa deve essere rispettata: senza di lei, neppure noi
potremmo esistere.
36
Memoria

Caro Epicuro,
oggi vorrei parlarti del tema della memoria. Che cos’è la memoria e
quali sono le sue determinazioni essenziali? Nel suo senso più generale, la
memoria è la capacità della nostra mente di conservare informazioni, saperi
e conoscenze apprese in passato e che riaffiorano nella forma del ricordo. In
effetti, se non ci fosse la memoria, non potrebbe neppure esserci la
conoscenza: la conoscenza, infatti, si fonda sull’accumulo graduale del
sapere e, dunque, sul suo sedimentarsi nella forma del ricordo, che può
essere riattivato mediante la memoria.
Contrariamente a ciò che in molti hanno pensato, anche gli altri animali
dispongono di memoria. Quella dell’uomo, tuttavia, è molto più complessa
e differenziata. A tal punto che la psicologia ci ha insegnato che, nell’essere
umano, si contano tre differenti modalità “mnestiche”, cioè legate alla
memoria: vi è una memoria sensoriale, una a breve termine (che trattiene
solo per pochi minuti le informazioni acquisite) e, infine, una a lungo
termine. Solo quest’ultima permette di richiamare i ricordi anche dopo anni.
Nell’antichità, Platone ha sostenuto che ogni conoscere avviene nella
forma di un ricordare. In che senso? Ciascuno di noi viene al mondo con
alcune verità che sono, per così dire, scritte nella sua anima, che ha fatto
sue in un’altra vita e che, ora, ha dimenticato: un po’ alla volta, nel corso
della sua vita, le scopre o, meglio, le ricorda. Per chiarirlo, Platone
immagina la scena di uno schiavo che, se opportunamente guidato dalle
nostre domande, può perfino giungere a dimostrare il teorema di Pitagora.
Come può riuscirvi, se non l’ha mai studiato? Perché già lo sapeva, pur
senza ricordarlo.
«L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, non c’è nulla che non abbia
appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima
conosceva della virtù e di tutto il resto [...]. Nulla impedisce che l’anima, ricordando
una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella
ricerca.»

PLATONE

Per come l’abbiamo definita, la memoria è essenzialmente connessa con


la dimensione del passato. Il ricordo, che è la forma specifica della
memoria, ha sempre a che fare con saperi e informazioni acquisiti in
passato e richiamati nel presente.
Sul piano della nostra esistenza, la memoria è allora di fondamentale
importanza per l’avanzamento delle conoscenze: se non custodissimo la
memoria delle conoscenze conquistate in passato da chi ci ha preceduto,
ogni generazione dovrebbe ogni volta ricominciare da capo il processo e
non vi sarebbe mai vera evoluzione. Inoltre, in assenza della memoria,
saremmo costantemente condannati a ripetere gli errori del passato, non
ricordando i meccanismi che li hanno prodotti.
Sta in questa determinazione l’importanza di quella che viene definita la
“memoria storica”, ossia il ricordo condiviso del passato, delle sue gesta e
delle sue sciagure: e questo perché ricordando le gesta, esse rimangano un
esempio sempre vivo per il nostro agire; e, richiamando alla mente le
tragedie, esse diventino un monito per chi vive nel presente, perché non
torni a commettere errori funesti.
In questa prospettiva, Epicuro, si può ben dire che l’uomo non è soltanto
l’“animale dotato della ragione”: è anche l’animale dotato della memoria, il
solo in grado di organizzare le proprie conoscenze ed esperienze nella
forma di un sapere trasmesso ogni volta in eredità alle nuove generazioni,
che sono chiamate a custodirlo, a conservarne la memoria.
Credo, in conclusione, che il nostro giusto rapporto con la memoria
debba tenersi a distanza di sicurezza da due atteggiamenti opposti ma
unilaterali. Il primo è quello di chi vive nell’oblio e nell’assenza di
memoria, che non coltiva cioè un rapporto vivo con il passato e con ciò che
esso ci trasmette, se solo sappiamo ascoltarlo. Il secondo è, invece, l’errore
di chi lascia che la propria vita sia soffocata dalla memoria: è questo il caso
di chi, anziché trarre ispirazione dalla memoria per un agire da essa
informato, precipita in quella paralisi dell’azione, che scaturisce da un
eccesso di memoria. In questo caso, ricordando il passato ci si paralizza e
non si agisce nel presente. Nietzsche sosteneva giustamente che abbiamo
bisogno di quel tanto di memoria che potenzia e intensifica la nostra vita.
37
Passione

Caro Epicuro,
vorrei oggi affrontare, per sommi capi, il problema delle passioni.
Ciascuno, nella nostra vita, è continuamente attraversato da passioni, molto
diverse tra loro. Esse lo pongono, per così dire, in una condizione di
dipendenza da fattori esterni e ne impediscono, almeno in parte, il pieno
controllo di sé. Dal turbamento all’ira, dall’odio all’impeto, le passioni
presentano tutte un tratto comune: la capacità di prevaricare la nostra
soggettività e di porci in una condizione di sudditanza da fattori esterni, che
non abbiamo scelto liberamente e che, anzi, ci troviamo a subire.
La stessa parola “passione” deriva dal latino passio, che trova la sua più
antica radice nel greco pathos, da cui deriva il nostro termine italiano
“patimento”: “patire” – da qui il vocabolo “passione”– non allude, forse, a
una condizione di passività, in forza della quale al soggetto capita qualcosa
che subisce senza averlo decretato volontariamente?
D’altro canto, il termine passione si contrappone direttamente ad
“azione”, che invece indica una condizione di piena attività del soggetto.
Con la passione si allude invece a una condizione di passività da parte del
soggetto, sottoposto a un’azione, una pressione esterna. Di questa subisce
l’effetto nel fisico e nell’animo.
La tua filosofia, Epicuro, è, nel suo complesso, un tentativo di
disciplinare le passioni, facendo in modo che prevalga la atarassia, ossia,
letteralmente, la “imperturbabilità”: termine che potremmo anche rendere,
con diritto, come “assenza di passioni”. Mi pare, tuttavia, che questo
obiettivo non sia concretamente realizzabile e che, quand’anche lo fosse,
non sarebbe in sé positivo. Le passioni sono, in effetti, costitutive del nostro
essere al mondo: la nostra vita è animata da passioni, sia negative (come
l’odio e la paura) sia positive (come la brama e il desiderio), e sarebbe del
tutto utopico pensare di poterle, in un modo o nell’altro, rimuovere. Senza
di esse la nostra vita sbiadirebbe e diverrebbe, se mi concedi la metafora,
priva di colori. Più sensato mi pare, invece, provare a disciplinarle, nella
piena consapevolezza tanto della loro ineliminabilità, quanto della loro
importanza per la nostra esistenza.
Platone impiega, a tal riguardo, un’immagine significativa. Sostiene che
la nostra anima è come un carro alato: l’auriga è la ragione, che deve
procedere lasciandosi trainare da due cavalli. Quello bianco simboleggia la
parte spirituale della nostra anima e quello nero simboleggia la parte
passionale. L’auriga non può certo fare a meno del cavallo nero: se lo
facesse, la biga resterebbe ferma o, peggio, deraglierebbe. Deve, allora,
disciplinarlo, operando affinché esso non si ribelli e non prenda il
sopravvento: anche in questo caso, infatti, ne scaturirebbero conseguenze
pericolose per la biga e per la sua corsa.

«Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga
[...]. L’auriga conduce la pariglia; poi dei due cavalli uno è nobile e buono, e di buona
razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che il
compito di tal guida è davvero difficile e penoso.»

PLATONE

Fuor di metafora, non si può vivere senza passioni, né affidarsi soltanto a


esse. Occorre disciplinarle e mantenerle sotto il controllo della ragione, in
modo che non prendano il sopravvento e non conducano la nostra esistenza
nei precipizi in cui inevitabilmente finirebbe, qualora la ragione fosse
spodestata dalla passione.
Per questo motivo, con una immagine che attingo da Aristotele, noi
dobbiamo produrre una “catarsi”, ossia una purificazione, “delle” passioni e
non “dalle” passioni.
In definitiva, la vita virtuosa, Epicuro, mi pare fondata su un giusto
equilibrio tra le ragioni e le passioni, proprio come nella metafora della biga
impiegata da Platone: solo quando il cavallo nero opera sotto la
sorveglianza dell’auriga, e quindi della ragione, la biga della nostra vita
procede sicura e in direzioni certe. Senza ragione, la passione è distruttiva.
Ma, senza passione, la ragione è inerte. Ed è in questa prospettiva che si
spiega l’affermazione di Hegel: al mondo nulla di grande è stato fatto senza
passione.
38
Libertà

Caro Epicuro,
quanto sono lontani dal vero coloro i quali si ostinano a criticare la
filosofia perché troppo astratta! Essa, in realtà, è la scienza più concreta: il
suo oggetto è la vita stessa, nel suo scorrere incessante. I problemi della
filosofia sono, di conseguenza, i problemi sollevati dalla vita. Tra questi, la
libertà ha un ruolo di primaria importanza. Che cos’è la libertà? E che cosa
vuol dire essere liberi? Nella sua determinazione più generale e astratta, la
libertà corrisponde con la facoltà di pensare, scegliere e agire in modo
autonomo, senza impedimenti.
Kant, nel Settecento, ne ha proposto una definizione convergente: la
libertà è la facoltà di iniziare da sé un nuovo stato. Questa definizione, mi
rendo conto, non è affatto esaustiva e chiede di essere approfondita.
Occorre innanzitutto dire che vi sono due diverse determinazioni della
libertà, che riassumerei così: vi è la libertà “da”, cioè la libertà in negativo,
che coincide semplicemente con l’assenza di impedimenti, che possono
essere di tipo esterno (come le catene) o di tipo interno (come le passioni).
E vi è, poi, la libertà “di”, ossia quella in positivo, che corrisponde con la
possibilità concreta di determinarsi scegliendo e agendo in modi specifici.
Essere senza catene, ad esempio, è una forma di libertà “da”: non vi sono
vincoli materiali che ci impediscano di spostarci. Ma essere senza catene
non è ancora, di per sé, una libertà “di”: la libertà “di” subentra quando, ad
esempio, decidiamo di recarci a Parigi per una esperienza di studio. Resa
possibile dalla libertà in negativo, la libertà in positivo diventa effettiva
nelle scelte che facciamo. Si potrebbe obiettare – come in molti hanno fatto
– che anche nel compiere scelte che riteniamo libere siamo in realtà
vincolati alla necessità.
Ad esempio, Spinoza sosterrà, in epoca moderna, che la nostra libertà è
simile a quella di una pietra che sta cadendo: coincide, dunque, con la
necessità assoluta.

«Se la pietra che cade dalla rupe potesse pensare, potrebbe figurarsi di cadere di
propria volontà, a proprio piacimento. La nostra presunta libertà non è diversa dalla
libertà di questa pietra.»

B. SPINOZA

Non pretendo di risolvere questo dilemma fondamentale: mi limito a


ricordare, Epicuro, come il concetto di libertà presenti anche una rilevanza
politica. Che cosa vuol dire per il soggetto essere libero? Quali forme
sociali, politiche ed economiche – quale forma di governo, avrebbe chiesto
un greco – possono realizzare appieno la libertà dell’uomo?
Questa è la domanda fondamentale della filosofia politica, a cui i filosofi
hanno risposto nei modi più diversi. Desidero qui evidenziare un punto che
mi pare importante: siamo nel falso, Epicuro, quando immaginiamo che la
libertà sia una sorta di “cosa” che possediamo in quanto individui.
Oggi questa è la concezione dominante: siamo possessori della libertà
come lo siamo di qualsiasi altra merce disponibile nella civiltà dei consumi.
E questa concezione genera un duplice errore. Da una parte risolve in forma
individualistica una questione che riguarda la società. Dall’altra snatura
l’idea stessa di libertà, equiparandola a una merce: la libertà è, invece, una
relazione e, più precisamente, una relazione tra individui egualmente liberi.
Libera è, appunto, quella società in cui gli individui sono portatori di
eguale libertà e possono relazionarsi secondo rapporti che hanno pari
dignità. Per questa ragione, come acutamente osservò Hegel, nelle società
dispotiche dell’antico Oriente, dove solo uno – il despota, appunto – era
libero, nessuno era libero: mancava quella relazione tra liberi che è il
fondamento della libertà.
In maniera egualmente erronea, la mia epoca tende a confondere la
libertà con la licenza, cioè con la possibilità di fare senza impedimenti e
senza regole tutto ciò che desidera. Questa, però, non è libertà: o, se lo è, lo
è nella sua forma più bassa e indeterminata. Tipica della libertà è infatti la
scelta di ciò che è bene sia per il soggetto sia per la sua comunità, e non
solo per l’uno o solo per l’altra.
39
Economia

Caro Epicuro,
sono stato a lungo indeciso se scriverti o meno questa lettera
sull’economia. Apparentemente, in effetti, non sembrerebbe una questione
filosofica, ma una questione di cui dovrebbero occuparsi gli economisti.
Eppure, alla fine mi sono deciso a scriverti. Essenzialmente, per due
ragioni: in primo luogo, perché l’economia è nata in Grecia e i filosofi sono
stati i primi a teorizzarla. In secondo luogo, perché nell’epoca in cui scrivo
l’economia ha valenza di un sapere quasi religioso: si presenta come
indubitabile e salvifica, trattando del mercato nello stesso modo in cui le
religioni si rapportano a Dio.
La parola stessa “economia” è squisitamente greca: vuol dire, alla lettera,
nomos-oikos, la “legge” della “casa”. Economia è, dunque, anzitutto il
modo in cui si amministra la microcomunità domestica che è la propria
casa, soddisfacendo i suoi bisogni fondamentali. Per estensione, poi, indica
l’amministrazione dei beni di quella casa più grande che è la società.
L’economia riguarda allora un ciclo di scambi e di produzione, il cui fine
ultimo è soddisfare i bisogni concreti della famiglia e della società.
Sempre i greci distinguevano attentamente l’economia così concepita da
quella che chiamavano “crematistica”. La crematistica è, letteralmente,
l’arte di produrre le ricchezze: dal greco tà chremata, che significa,
appunto, “le ricchezze”. Scopo di questa economia non è soddisfare i
bisogni della famiglia ma solo produrre ricchezze.
L’economia si muove, dunque, nell’ambito del finito, perché finiti sono i
bisogni umani. Al contrario, la crematistica si orienta nello spazio
dell’illimitato: la ricchezza, infatti, non ha confini. A differenza dei bisogni,
che sono sempre finiti, il processo di arricchimento considera ogni
guadagno come provvisorio, spera sempre in nuovi e maggiori guadagni. Il
suo scopo non è il ciclo comunitario della soddisfazione dei bisogni, che è
proprio dell’economia, ma l’infinito rigenerarsi del profitto a beneficio
dell’individuo e del suo arricchimento privato.
Secondo la saggezza greca, l’economia era un’arte nobile e degna di
essere praticata, e la crematistica era al contrario “contro natura” e
pericolosa, destinata a dissolvere la comunità a favore degli individui in
cerca del proprio profitto smisurato. Aristotele su questo tema non lascia
spazio a dubbi.
Probabilmente in nessun altro ambito, Epicuro, possiamo riscontrare una
discontinuità tanto marcata tra i greci e i miei contemporanei. Prova ne è,
oltretutto, che oggi noi chiamiamo “economia” quella che voi chiamavate (e
condannavate come) “crematistica”: non la ricerca dei bisogni fondamentali
della comunità ma il profitto individuale.
Per noi dunque la crematistica ha cambiato di segno ed è divenuta
positiva e ha addirittura “rubato” il nome all’economia: con la conseguenza,
del tutto paradossale, per cui oggi non vi è più spazio, in generale, per
quella che voi chiamavate economia. Oggi sopravvive soltanto la
crematistica: che altro è la nostra “economia di mercato” se non una
crematistica perfettamente realizzata, dove ciascuno mira soltanto al proprio
interesse e alla sua crescita, quand’anche essa avvenga a scapito degli altri e
della comunità nel suo complesso?
Ne sono fermamente convinto, Epicuro: è ancora una volta dalla
saggezza dei greci che dobbiamo ripartire, liberandoci dalla furia della
crescita infinita della crematistica e ponendo di nuovo al centro il giusto
valore dell’economia.
40
Realtà

Caro Epicuro,
il compito primario della filosofia è problematizzare l’ovvio. E che cosa
vi è di apparentemente più ovvio e scontato del concetto di realtà? Realtà –
dice il pensiero comune – è tutto ciò che esiste. O, a voler essere più precisi,
è ciò che esiste effettivamente, in contrapposizione con ciò che, invece, è
illusorio, immaginario o fittizio. Ma è davvero questo il reale? Se così
fosse, esso coinciderebbe in tutto e per tutto con l’esistente. La filosofia ci
insegna, invece, a distinguere con attenzione e a fare chiarezza nei concetti
che troppo spesso impieghiamo disinvoltamente e senza le dovute
attenzioni. Propongo, allora, sulle orme di Hegel, una correzione di questo
tipo al comune modo di intendere le cose: realtà è ciò che, esistendo
effettivamente, esprime una razionalità. Non tutto ciò che esiste, dunque, è
in quanto tale reale.

«Ciò che è razionale, è reale; e ciò che è reale, è razionale.»

G.W.F. HEGEL

Hegel si spinge a sostenere, e non senza buone ragioni, che possono


esservi cose esistenti e, non di meno, irreali, perché prive di razionalità:
pensiamo, ad esempio, ai luoghi in cui ancora oggi gli esseri umani sono
torturati e oppressi. In termini hegeliani, sono esistenti, ma non reali. Ed è
così che si spiega una delle più note ed equivoche sentenze di Hegel, da
sempre oggetto di fraintendimento: “ciò che è reale è razionale”. Ciò che è
reale, appunto: e non tutto ciò che è esistente.
In generale, vi sono due possibili concezioni generali del reale, di cui qui
vorrei dare conto. Vi è, per un verso, la prospettiva – che è, poi, la più
diffusa – secondo cui la realtà è una sorta di presenza data, un’oggettività
che sta dinanzi a noi e che chiede di essere osservata da parte del soggetto
conoscente. È quella che propongo di appellare la “realtà come presenza”.
Per un altro verso, vi è la realtà intesa come processo storico e come
divenire: il reale non è, ma diviene, e coincide con lo sviluppo nel quale già
da sempre tutto, noi compresi, è immerso. Secondo la prima concezione, la
realtà è presenza e, insieme, è il presente: ossia ciò che semplicemente,
come dicevo, è dinanzi a noi. In accordo con la seconda concezione, la
realtà è processo, quindi aperta ai suoi sviluppi futuri: reale non è solo ciò
che c’è, ma anche ciò che, a partire da quel che c’è, potrà esservi.
Questa seconda prospettiva mi pare più pertinente e, per così dire, più
“ospitale”: non include solo il presente come mera presenza, ma “ospita” al
proprio interno anche il futuro possibile (che nel presente è imbozzolato) e
il passato, da cui il presente stesso è scaturito. Questa seconda concezione,
di conseguenza, intende il reale come processualità, come possibilità e
come storia: e non ci attribuisce il compito di semplici contemplatori,
chiamati a conoscere, rispecchiandolo, ciò che v’è di razionale
nell’esistente. Al contrario, fa di noi degli attori attivi e responsabili, che
nel reale sono chiamati a intervenire secondo il binomio di teoria e prassi:
occorre, infatti, conoscere il reale e agire su di esso, contemplarlo e
modificarlo. Il reale, infatti, non è qualcosa di dato, di presente e di
indipendente dal soggetto conoscente. È, invece, un processo nel quale il
soggetto è già da sempre parte attiva: il reale è anche, e in modo non
secondario, ciò che di esso facciamo con il nostro attivo operare.
La mia epoca, Epicuro, ha preferito la prima concezione di realtà: grazie
alla quale si è liberata dalla responsabilità di agire, limitandosi al ruolo di
spettatrice inerte di un mondo che, in qualunque modo lo si voglia
intendere, resterebbe comunque indipendente da noi. Anche per questo mi
pare di imprescindibile importanza tornare a una concezione del reale come
processo e come storia: ne va del nostro stesso ruolo di soggetti
responsabili. Come dirà Fichte, con un lessico che a una prima impressione
può suonare bizzarro, l’Io si pone come determinante il non-Io: detto
altrimenti, il soggetto deve pensarsi come agente sul reale, venendo da esso
determinato e, insieme, determinandolo.
41
Soggetto

Caro Epicuro,
nessun termine del vocabolario filosofico più del lemma “soggetto” ha
subito una trasformazione radicale! Presso voi greci e, soprattutto, presso
Aristotele, il soggetto – contrariamente a come noi oggi lo intendiamo –
indicava, letteralmente, “ciò che sta sotto” (dal greco hypokeimenon): ossia
ciò che è, per così dire, nascosto nella cosa sensibile e ne costituisce il
fondamento ontologico. Da questa accezione deriverebbe il termine
equivalente dei romani, subiectus, “sottostante”: il soggetto sarebbe, allora,
ciò che fa sì che una cosa sia quella che sia, nella sua insostituibile
individualità. Esso coinciderebbe, allora, con la “sostanza”, termine che di
fatto esprime il medesimo contenuto, ossia lo “stare sotto” (substantia). ll
soggetto è, così, la sostanza che sta sotto, ossia che tiene insieme e fa sì che
siano a essa riferibili i suoi attributi e i suoi accidenti. Essi, in assenza del
soggetto, non potrebbero essere: gli attributi di “canuto” o di “intelligente”
si danno solo in riferimento, supponiamo, a Socrate, ossia al soggetto cui
vengono attribuiti. E questa struttura ontologica trova un corrispettivo nella
struttura logica del giudizio: il soggetto è ciò di cui si predica qualcosa, ma
esso, in quanto soggetto, non può mai essere predicato in riferimento ad
altro. Posso, così, dire che Socrate è canuto, ma non posso mai affermare,
supponiamo, che il mare è Socrate o che il verde è Socrate. Dunque il
soggetto è – sul piano logico – ciò che permane alla base di ogni possibile
predicazione: è, se vogliamo dire così, il soggetto a cui possiamo riferire
attributi. E, allo stesso modo, accade sul piano ontologico, ove il soggetto
esiste come ciò che sta sotto ai singoli suoi attributi, che esistono in
riferimento a esso.
Con l’avvento della modernità, il concetto di soggetto muta
profondamente. A partire soprattutto da Cartesio, prende a indicare
essenzialmente l’attività della coscienza e a contrapporsi all’oggetto: il
soggetto come “cosa pensante” (res cogitans) è, ora, contrapposto
all’oggetto come “cosa estesa” (res extensa). Il soggetto diventa il
fondamento stesso del reale: sulle orme di Cartesio, possiamo dubitare di
tutto, ma non del fatto di esistere come soggetti dubitanti. Il fatto di
pensare, dubitando, ci rivela in forma immediata il fatto che siamo, che
esistiamo: “penso, dunque sono”. Ed è sulla solida base di questa certezza
che possiamo, per Cartesio, rifondare l’edificio del sapere.

«Bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che
questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto
l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare
senza scrupolo come il primo principio della filosofia.»

R. CARTESIO

Se, prima della modernità, l’oggetto appariva come prioritario rispetto al


soggetto, ora, con il moderno, si pongono le basi per un rovesciamento del
rapporto: non v’è oggetto senza il soggetto che lo pensi. E quand’anche si
ammetta un oggetto a sé stante, indipendente dal pensare del soggetto,
ebbene già lo si sta pensando: ed è, dunque, posto nell’attività del soggetto.
Ogni coscienza dell’oggetto è, dunque, sempre anzitutto una autocoscienza,
ossia una coscienza che il soggetto ha di se stesso: non posso pensare
alcunché senza pensare, in pari tempo, me stesso come pensante. In questo
senso, come sosterrà Kant, l’“Io penso”, l’attività in atto del soggetto
pensante, accompagna ogni mia rappresentazione e, più in generale, ogni
mio rapporto con il mondo.
In effetti, Epicuro, possiamo provare a svolgere un esperimento:
qualsiasi cosa noi pensiamo, essa esiste sempre mediata dall’attività del
pensare. Non vi è, dunque, soggetto senza l’oggetto o, se preferiamo, non vi
è essere senza il pensare. Proprio in ciò sta l’importanza della moderna
scoperta del soggetto, che, proprio come Atlante nella mitologia greca,
sorregge sulle proprie spalle il mondo intero. Potremmo anche esprimerci
così: ogni realtà con cui entriamo in contatto, è pensata, perché mediata,
appunto, dal pensiero. Ma non è lecito presupporre un “pensato” al
“pensare”: di conseguenza, tutto ciò che c’è, apparendo come pensato,
presuppone il pensare del soggetto. Il reale è sempre un pensato, che
dipende dall’attività del soggetto pensante. Pare, tuttavia, che il mio tempo
abbia abbandonato questa concezione, che definiremo “soggettivistica”, per
aderire a una opposta visione, di tipo “oggettivistico”: quest’ultima,
assegnando il primato all’oggetto, tende a soffocare la libertà del soggetto
come fondatore del suo mondo. La sacrifica sull’altare dell’accettazione
passiva di un mondo oggettivo che si riconosce esistente a prescindere dal
soggetto e, dunque, tale da dover essere subito, quale che sia la sua
configurazione. Il realismo antisoggettivistico diventa oggi il pensiero
alleato della conservazione del mondo così com’è. Quest’ultimo è
ideologicamente trasformato in oggettività data e inemendabile, che solo
chiede di essere accertata e accettata dal soggetto, a sua volta abbassato al
rango di mero spettatore passivo.
42
Crisi

Caro Epicuro,
il paradosso della filosofia sta nel fatto che la pratichiamo anche quando
non lo sappiamo. E finiamo, così, per filosofeggiare anche al di là delle
nostre intenzioni. Ciò emerge nitidamente dal linguaggio che
quotidianamente impieghiamo. Esso è costellato da espressioni che rinviano
alla filosofia e che, di fatto, ci impongono di entrare, volenti oppure no, nei
suoi confini. Tra le espressioni di questo genere si annovera indubbiamente
anche la parola “crisi”. Chi non parla oggi, anche più volte al giorno, di
“crisi”? Del mercato, della società, dei valori, della politica e della morale.
Ma che cos’è, per sua essenza, la crisi? Se procediamo per via etimologica,
scopriamo che la parola è di derivazione greca: e rimanda direttamente
all’ambito dei medici, che, a quel tempo, erano anche filosofi (un nome su
tutti: Ippocrate). “Crisi” deriva dal greco krino, “io giudico”: e alludeva,
nella medicina antica, al momento decisivo in cui il medico stabiliva se il
paziente sarebbe sopravvissuto. Il medico e filosofo Galeno, ad esempio,
chiamava “crisi” il momento decisivo: quello in cui, in qualità di medico,
doveva pronunziare la diagnosi, lasciando così affiorare la propria
soggettività risolutiva. Per estensione, al di là del campo medico, la crisi
indicava, presso gli antichi, la decisione che disambiguava, in un senso o
nell’altro, la situazione.
Così, ad esempio, la concepisce Aristotele, allorché scrive, nella
Politica, che la crisi è la determinazione di ciò che è giusto. Dalla “crisi”
deriva anche la parola italiana “critica”, che è, in effetti, un giudizio
mediante il quale si prende di mira ciò che è sbagliato affinché possa
emergere, per contrasto, ciò che è giusto.
Nella mia epoca, Epicuro, la parola “crisi” ha radicalmente mutato
significato. Non dice più il momento decisivo, quello in cui si decide in
forma risolutiva: rimanda, invece, a una situazione di permanenza nel
tempo, caratterizzata da incertezza e, di più, da insicurezza. Quale che sia
l’ambito specifico al quale la riferiamo, la crisi allude, così, nel mio tempo,
a uno stato di incertezza e di pericolo, ossia a uno stato anomalo, il cui
tratto fondamentale coincide con la mancanza di stabilità. Il momento
“critico” cessa di essere istantaneo, com’era per i medici greci: e assume i
tratti inquietanti di una condizione di stabilizzata instabilità e di precarietà
duratura, che viene avvertita e vissuta dai soggetti come pericolosa e
dolorosa. Il nostro – si dice – è un tempo di crisi. E, forse, potrebbe a questo
riguardo essere recuperato anche l’antico significato, quello dei medici
greci: non è forse la crisi, come fase del pericolo e dell’instabilità, anche il
momento in cui è più urgente la decisione risolutiva, in grado di superare la
condizione insicura nella quale ci si trova? Di qui deriva, forse, la posizione
di quanti, nella crisi, scorgono anche un’opportunità in vista di progressi e
miglioramenti impensati. Certo, non è sempre così. E, forse, la crisi –
almeno quella che stiamo attraversando nel mio presente, Epicuro –
potrebbe anche essere un metodo per governare il popolo. In che senso?
Il filosofo francese Foucault disse, una volta, che la massima del nostro
mondo è “vivere pericolosamente”, cioè senza certezze e punti fermi,
fluttuando nella più radicale instabilità: ciò sarebbe funzionale a quanti
detengono il potere. Essi, utilizzando l’instabilità della crisi come un
metodo a proprio vantaggio, potrebbero agevolmente far passare le loro
decisioni come necessarie, appunto, per superare la crisi: per tornare alla
metafora medica, se il corpo è in fin di vita e occorre una terapia
d’emergenza, la si applica senza discuterla e senza pensare ad alternative. E
che cosa accade se la stessa situazione è – si dice – quella della società nel
suo complesso, e quindi intesa nella sua vita politica ed economica?
Avviene, così, che certe scelte, vantaggiose per alcuni, possono essere fatte
ingannevolmente passare per unica terapia per salvare tutti dal pericolo
della crisi. Pensi sia plausibile, Epicuro? Con questa considerazione – mi
rendo conto – sono già passato, quasi senza accorgermene, dal campo
specifico della crisi a quello, che pure da esso deriva, della critica.
43
Tradizione

Caro Epicuro,
oggi ti scrivo perché vorrei esporti ciò che penso di una questione che
più volte è stata sollevata dai filosofi e che, in verità, riguarda la vita di tutti
noi, anche di quanti non abbiano alcun interesse per i problemi filosofici.
Desidero, infatti, discutere con te della tradizione. Che cos’è la tradizione e
in che modo dobbiamo rettamente rapportarci a essa? Mai come in questo
caso, l’etimologia delle parole ci è di giovamento. “Tradizione” deriva dal
verbo latino tràdere, che letteralmente rinvia al gesto del “consegnare” e del
“trasmettere”. La tradizione è, dunque, una particolare forma di
“trasmissione”: e, come in ogni trasmissione degna di questo nome, devono
esservi un mittente, un destinatario e un oggetto – quale che sia – che passa
dal primo al secondo, al quale viene, appunto, consegnato. Nel nostro caso
specifico, chi trasmette? Chi riceve? E qual è l’oggetto consegnato? Mi pare
di poter affermare, Epicuro, che la tradizione è quella più o meno articolata
gamma di contenuti, valori, esperienze e conoscenze che il passato
consegna al futuro o, se preferiamo, che le generazioni venute prima
trasmettono a quelle venute dopo.
Questa è, nella sua essenza fondamentale, la tradizione come insieme dei
contenuti simbolici che ereditiamo dal passato e ai quali seguitiamo a
riferirci, ritenendoli degni di essere valorizzati nel presente e, insieme, di
essere successivamente consegnati alle generazioni che verranno dopo la
nostra. Così intesa, la tradizione non deve essere pensata come una statua di
marmo, sempre uguale a se stessa e, dunque, tale da sfidare immutabile lo
scorrere del tempo. Una concezione di questo tipo sarebbe assai distante dal
vero, perché la tradizione chiede di essere concepita – sempre con una
metafora – come un fiume in piena. Esso scorre, dalle regioni del passato, e
non sta mai fermo, né è sempre eguale a se stesso: al contrario, man mano
che si allontana dalla sorgente, si fa più grande e ricco di maggiori quantità
di acqua. Viene, in altri termini, senza posa arricchendosi di nuovi
contenuti: essi non cancellano quelli vecchi ma li integrano.
Così, Epicuro, ritengo debba essere pensata la tradizione, in maniera
dinamica e non statica, evitando due opposte ed egualmente unilaterali
concezioni in cui non di rado ci imbattiamo. La prima è quella che
irrigidisce la tradizione, facendone l’equivalente della marmorea statua alla
quale accennavo poco fa. In tal maniera, la tradizione si trasforma
indebitamente in una sorta di sostanza rigida e immutabile: alla quale noi,
dal presente in cui siamo, dovremmo ispirarci in modo dogmatico, quasi
come se si trattasse dell’autorità dell’eterno ieri. La seconda prospettiva
fuorviante mira, invece, ad annullare la rilevanza della tradizione:
commette l’errore opposto rispetto alla posizione precedente, che invece la
valorizzava a tal punto da trasformarla in un immutabile punto di
riferimento per ogni tempo. Per quanti cadono in questo secondo errore,
occorrerebbe annullare e, come si usa dire, fare tabula rasa della tradizione:
essa non sarebbe altro che una galleria di superstizioni e di usanze arcaiche,
da abbandonare in nome del progresso e del presente, unico punto di
riferimento. Mediante l’annullamento della tradizione e del passato che ce
la consegna, resterebbero, allora, solo il presente in cui siamo e il futuro
come spazio aperto: i quali verrebbero così a poggiare solo su se stessi,
nell’abbandono della nostra provenienza e delle nostre radici.
Credo, Epicuro, che il giusto rapporto con la tradizione debba
posizionarsi a metà strada rispetto ai due eccessi che ho appena richiamato:
non dobbiamo né intendere la tradizione come un’essenza immutabile, né
dobbiamo pensarla come un impaccio da cui prendere congedo. La
tradizione è quella provenienza – fatta di radici e di valori, di conoscenze e
di esperienze accumulate – che non ci impedisce di crescere e di svilupparci
appieno nel presente e in vista del futuro: al contrario, favorisce tutto ciò,
proprio come avviene – se mi è consentita la metafora – con le radici degli
alberi, dalle quali essi traggono nutrimento per la loro crescita. La fedeltà
alla tradizione deve, dunque, essere una fedeltà creatrice. Che non venera le
ceneri, ma opera affinché la fiamma non si spenga.
44
Responsabilità

Caro Epicuro,
che cosa vuol dire essere responsabili? E perché è tanto importante
questa determinazione concettuale per la nostra vita? Nella sua definizione
più generale, la “responsabilità” è connessa con il “rispondere”: allude alla
facoltà di prevedere le conseguenze future del proprio agire o non agire nel
presente, correggendolo sul fondamento di tale previsione. Di conseguenza,
la responsabilità rimanda al rispondere, da parte del soggetto, del proprio
comportamento e delle conseguenze che da esso scaturiscono. Il
fondamento dell’agire responsabile è, allora, la sua capacità di guardare al
di là del semplice orizzonte del presente: chi agisce responsabilmente,
infatti, opera nel presente, ma con lo sguardo rivolto al domani, ben
sapendo che l’agire non si misura solo nel suo estrinsecarsi immediato, ma
anche nei suoi esiti a venire, ossia, appunto, nelle conseguenze che, presto o
tardi, ne deriveranno.
A questo proposito, è possibile operare una distinzione tra la
responsabilità giuridica e quella morale: nel primo caso, il soggetto compie
determinate azioni (o si esime dal compierle) semplicemente in ragione del
fatto che, in caso contrario, dovrebbe risponderne davanti alla legge in
termini di sanzioni. Nel caso della responsabilità morale, invece, il soggetto
agisce in accordo ai suoi dettati non perché vincolato da una legge che, in
cuor suo, egli potrebbe anche avvertire come ingiusta, pur dovendola
egualmente rispettare. Al contario, la responsabilità morale prevede che il
soggetto scelga un determinato comportamento perché lo sente in sé come
giusto, quand’anche non sia la forza della legge a vincolarlo. In molti casi,
vi è corrispondenza tra la responsabilità morale e quella giuridica: e
rispettiamo la legge non solo per evitare le sanzioni, ma anche perché la
riteniamo giusta in sé. In casi estremi, può, tuttavia, anche darsi il caso di
una responsabilità morale che entra in conflitto con la responsabilità
giuridica: la storia è costellata di esempi di uomini che hanno violato una
legge che, ad esempio, imponeva di uccidere, e l’hanno fatto sulla base
della responsabilità non giuridica, bensì morale. Pensiamo a chi nella
Seconda Guerra Mondiale si è opposto alla legge che prescriveva di
deportare esseri umani nei campi di sterminio: la responsabilità morale
prevaleva su quella giuridica.
Vi è un aspetto della responsabilità, nel suo senso più ampio, su cui
vorrei brevemente soffermare l’attenzione. Riguarda quello che vorrei
definire come il suo carattere inaggirabilmente individuale o, se
preferiamo, personale. La responsabilità è sempre del singolo soggetto, che
deve in prima persona rispondere del proprio comportamento. Dobbiamo
stare in guardia, Epicuro, rispetto alla possibile attribuzione di
responsabilità ai gruppi, ai popoli, alle generazioni: un simile modo di
operare finisce, troppo spesso, per essere deresponsabilizzante o per
attribuire la responsabilità a chi, in verità, ne è esente. In entrambi i casi,
evidentemente, si precipita nell’errore e nell’ingiustizia. Infatti, sostenere
che la responsabilità è di tutti (dell’intero popolo, di tutta la nazione o,
addirittura, del genere umano nel suo complesso) vuol dire, di fatto,
ammettere che nessuno è realmente responsabile. Ma vuol anche dire,
troppo spesso, attribuire la responsabilità a soggetti a cui non è corretto
attribuirla: dire, ad esempio, che i tedeschi in quanto tali sono responsabili
per i campi di concentramento, i russi per i gulag e gli americani per le
bombe atomiche, significa, com’è evidente, ammettere che lo è anche chi –
tra i tedeschi, tra i russi e tra gli americani – non ha accettato quelle atrocità,
o addirittura si è opposto a esse. Vuol dire, di più, rinunciare a individuare i
veri responsabili, che hanno sempre un nome e un cognome.
In tempi più recenti, il filosofo Hans Jonas ha teorizzato un’etica della
responsabilità: il nostro agire, a suo giudizio, deve determinarsi sul
fondamento della responsabilità verso le generazioni a venire.

«Agisci in modo tale che le conseguenze delle tue azioni possano essere compatibili con
la sopravvivenza della vita umana sulla terra.»

H. JONAS
Che mondo vogliamo lasciare loro in eredità? Questa dev’essere – spiega
Jonas – la domanda fondamentale in base alla quale orientare i nostri
comportamenti nel presente. Credo che sia un’ottima pista da seguire. E
sono certo, Epicuro, che tu sia d’accordo.
45
Individuo

Caro Epicuro,
vorrei sottoporti le brevi considerazioni che seguono intorno al concetto
di individuo. La mia epoca continuamente magnifica la figura
dell’individuo: addirittura si spinge a sostenere che la società non esiste e
che a essere dotato di esistenza in senso pieno è, appunto, soltanto
l’individuo. Ma che cos’è, per sua essenza, quest’ultimo? Lo definirei con
termini presi in prestito dalla fisica: come l’atomo è la porzione più piccola
in cui può essere scomposta la materia, così l’individuo è l’atomo della
società, l’elemento non ulteriormente divisibile a cui si perviene
scomponendo la “materia” sociale. L’analogia credo non ti sembrerà
infondata: in effetti, il latino individuum, dal quale deriva il nostro vocabolo
di “individuo”, è un calco del greco atomon. Dice, appunto, il “non
ulteriormente divisibile”, l’“indiviso”. Eppure voi greci, Epicuro, non
definite mai il soggetto umano nei termini di un “atomo”: preferite – e come
non darvi ragione? – l’espressione psyché, “anima”. È solo la modernità che
introduce il concetto di individuo, che sempre più va a sostituire quello di
“anima”. Qual è la differenza?
La psyché è qualitativamente diversa a seconda del singolo uomo ed è
oggetto privilegiato del dialogo socratico, che è sempre un dialogo che da
un’anima si dirige a un’altra anima. L’individuo, invece, è un’unità
anzitutto materiale e indifferenziata, seriale e oggetto non già del dialogo
socratico, bensì del calcolo matematico e scientifico propri dei moderni
Galileo e Newton. Se l’anima è unica e irripetibile, gli individui sono, nella
loro pura materialità, interscambiabili.
Come vedi, Epicuro, non è affatto neutro il moderno concetto di
individuo! Rinvia a una ridefinizione della soggettività umana che ci
conduce in terreni distanti da quelli della Grecia classica, anticipando, forse,
l’odierna omologazione in cui è sospesa la mia epoca: in cui si è individui,
appunto, atomi sociali isolati e interscambiabili, ciascuno dei quali è come
gli altri, senza mai essere se stesso.
Con questo, Epicuro, non intendo certo negare il valore assoluto e, starei
per dire, sacro della persona umana nella sua unicità irripetibile: è, anzi,
esattamente ciò che intendo difendere, opponendomi all’odierno culto
dell’individuo. Il quale, di fatto, finisce per annientare il valore unico della
persona o, per dirla con i greci, della psyché. Proprio in ciò mi sembra che
risieda una delle contraddizioni maggiori del mio tempo. Per un verso, esso
promette la libertà degli individui come soggetti liberi e al riparo da ogni
livellamento violento in nome dell’uguaglianza, della comunità o del
popolo. E, per un altro verso, tende a produrre l’esito opposto, ossia la
neutralizzazione dell’individualità umana. Come? La dissolve
nell’omologazione della società di massa, dove ciascuno è un atomo
interscambiabile e conformistico. Egli annulla il proprio reale essere se
stesso adattandosi a mode e costumi che lo rendono perfettamente identico
a tutti gli altri. È questo, in fondo, il segreto della moda: promette a
ciascuno di noi di essere unico e inimitabile. Ma rivolge questa seducente
promessa a tutti, indistintamente: con l’ovvia conseguenza per cui, alla fine,
tutti, cercando di differenziarsi e di essere unici, sono indistinguibili tra
loro.
L’odierna dissoluzione dell’individuo, Epicuro, avviene anche grazie
all’oggi dilagante individualismo, che è poi la religione del nostro tempo:
essa ci chiede di pensare solo a noi stessi senza curarci degli altri e del
mondo circostante. Ma in questo modo, ancora una volta, l’individuo non si
realizza: si perde e si nega. Infatti, il pieno sviluppo del soggetto libero può
avvenire solo nella forma di una comunità di soggetti egualmente liberi, che
si relazionano tra loro in forme libere. Tutto il contrario, ancora una volta,
dell’odierno individualismo cinico ed egoistico. Propongo, dunque, di
ripartire dalla psyché e dalla sua naturale apertura all’altro, mediante il
dialogo e le forme della vita comunitaria che sola ci fa essere persone in
senso pieno.
46
Scopo

Caro Epicuro,
ti propongo oggi alcune considerazioni sul concetto di scopo. Come
sempre in queste mie lettere non intendo fornire soluzioni definitive, ma
indicare strade possibili per riflessioni su alcuni nodi teorici fondamentali
della filosofia. Che cos’è lo scopo? E quali sono le sue determinazioni
essenziali? Nella lingua greca, dalla quale la nostra parola italiana deriva,
skopòs significa, se tradotto alla lettera, “bersaglio”: termine che, a sua
volta, deriva dal verbo skopèo, che vuol dire “fissare con lo sguardo”,
“guardare”. Lo scopo è, dunque, nel suo senso più immediato, il fine ultimo
o, se preferiamo, il bersaglio al quale tende il nostro agire. È, ancora,
l’orientamento in nome del quale operiamo. “Mirando” a esso, ciò che
facciamo acquista un senso pieno: che, appunto, si compie nel momento in
cui raggiunge il fine che ci eravamo proposti. Lo scopo, dunque, allude a un
fine dell’agire che è, insieme, la sua fine, ossia il risultato ultimo, attraverso
il quale l’operare che avevamo intrapreso si compie e viene portato a
termine.
Il vocabolo “fine” esprime efficamente la compresenza di questi due
significati: dice, per l’appunto, “un fine” che è anche “una” fine, ossia uno
scopo che è, in pari tempo, il termine dell’azione. Nella Metafisica,
Aristotele individua nel concetto di fine una delle quattro figure
fondamentali del concetto di causalità: la causa finale della statua costruita
in marmo dallo scultore è, ad esempio, la venerazione degli dèi. A questo
proposito, non è difficile riconoscere, Epicuro, come il nostro agire sia
sempre finalisticamente orientato a uno scopo o, come dicevate voi greci,
“teleologico”, cioè indirizzato a un telos, a un “obiettivo”. A tal punto che,
forse, senza esagerazioni, potremmo anche affermare che vivere significa
dare a se stessi degli obiettivi e agire in vista del loro raggiungimento.
Se inteso in questa dimensione propriamente esistenziale, legata alla vita
del soggetto, lo scopo può più propriamente definirsi progetto: il progetto,
come suggerisce la parola stessa, è un “gettare avanti”, ossia appunto uno
sporgere senza tregua al di là di ciò che si è ora, nel presente, in vista di ciò
che si potrà essere domani, realizzando gli obiettivi che ci siamo assegnati.
Più difficile, invece, è stabilire se la natura e, in generale, il mondo
oggettivo abbiano anch’essi un fine. O se, invece, attribuirglieli significa
proiettare indebitamente le nostre aspirazioni soggettive su una realtà che,
di per sé, non ha fini, scopi e obiettivi. Il tema della finalità del mondo
oggettivo può, a questo proposito, riguardare sia la natura sia la storia. Il
mondo naturale è retto dal principio della causalità finale o procede, invece,
unicamente sul fondamento delle cause meccaniche?
È una questione su cui, da sempre, la filosofia si affatica, con esiti e
prospettive assai differenti. Voglio solo, a tal riguardo, rievocare la disputa a
distanza tra Aristotele e Anassagora. Il secondo sosteneva che l’uomo è
l’animale più intelligente, perché è dotato delle mani. Il primo, in modo
opposto, obiettava che se l’uomo è stato equipaggiato delle mani dalla
natura, ciò dipende dal fatto che egli è il più intelligente tra i viventi. La
prospettiva di Anassagora si fonda sulla causalità meccanica, e riconosce
nella mano la causa che determina la maggiore intelligenza dell’uomo. La
visione di Aristotele, invece, è incentrata sulla causa finale: e mostra come
la natura abbia dotato l’uomo della mano affinché egli potesse essere il più
intelligente tra gli animali.
Per quel che riguarda il fine nella realtà storica, Epicuro, è soprattutto a
partire dalla modernità che si comincia a pensare che gli eventi che
accadono nel corso storico non siano accidentali, né scaturenti soltanto da
cause meccaniche: essi deriverebbero, invece, da un fine in sé e per sé della
storia, nella quale tutto accadrebbe in vista di uno scopo finale, che può
essere ora la libertà di tutti, ora l’umanità redenta, e così via. Il guaio del
mio tempo, Epicuro, non è tanto la rinuncia alla finalità della natura e della
storia. È, invece, la rinuncia allo scopo soggettivo: è come se i miei
contemporanei avessero abbandonato l’idea di un fine progettuale in nome
del quale vivere e si fossero consegnati all’insensatezza, al vuoto di
significato. In una parola, al nichilismo.
47
Educazione

Caro Epicuro,
è sull’educazione che vorrei oggi comunicarti quel che penso. Per farlo,
vorrei partire dal più grande mito che su questo tema sia mai stato elaborato
e al quale già ho fatto cenno in una precedente lettera. È il “mito della
caverna” di Platone, che per sua stessa ammissione ha per oggetto la
contrapposizione tra “educazione” (paideia) e “non-educazione”
(apaideusia). Dobbiamo immaginare uomini incatenati fin dalla nascita sul
fondo di una caverna: lì vedono solo ombre proiettate sulla parete
dell’antro. Non sanno dell’esistenza di un mondo esterno, né, di
conseguenza, di essere prigionieri di una caverna. Immagina che, per caso,
uno di loro si liberi e risalga verso la luce del sole: costui ora sa distinguere
tra luce e ombra, tra libertà e prigionia. Egli ridiscende nella caverna dai
suoi antichi compagni: e lo fa con lo scopo di educarli, trasmettendo loro le
verità che ha conquistato uscendo dalla spelonca. Non svelo come il mito si
conclude, mi limito a dire che esso esemplifica magnificamente cosa
l’educazione sia: un “tirare fuori” (il verbo latino educere, da cui il nostro
“educare”, significa esattamente questo) mediante il sapere. L’educazione è
il processo mediante il quale ci formiamo alla verità e alla libertà, uscendo
dalla condizione di inferiorità in cui, in origine, siamo. Per questo, educarsi
è, nel suo significato più profondo, uscire dalla caverna a rivedere la luce
del vero, del giusto e, soprattutto, del buono, che è come il sole che tutto
rischiara e alimenta.
L’“educatore”, o come vogliamo chiamarlo, è colui che “forma” (ossia
che, letteralmente, assegna una forma specifica) i suoi discenti, affinché si
educhino e maturino, acquistando consapevolezza di sé e del loro mondo,
della propria provenienza e della propria progettualità. Ora, come anche il
mito della caverna insegna, l’educare non coincide mai con uno sterile
dispensare, in forma meccanica, nozioni bell’e pronte e dottrine da
assumere passivamente, quasi fossero pastiglie da ingerire. Una concezione
di questo tipo finirebbe per intendere il discente come un “serbatoio” da
riempire in modo meccanico e il docente come un automa, che “eroga”
nozioni preordinate.
L’educazione, quella vera, procede in maniera decisamente diversa. È un
processo e, insieme, una relazione tra persone: una relazione processuale,
potremmo anche dire, nella quale il docente si adopera affinché il discente
sviluppi le proprie potenzialità, maturando e crescendo, guadagnando la
giusta autonomia del pensare e del valutare la realtà. Il discente apprende e
si forma, perché il docente lo indirizza e lo supporta, aiutandolo a portare a
un pieno sviluppo le potenzialità che ha in sé: Socrate, a tal riguardo, si
definiva un “maieuta”. Come le ostetriche aiutano i corpi a partorire, così
egli supportava le anime nel loro processo di formazione e nel loro
partorire la verità.

«La mia arte di maieutico in tutto è simile a quella delle levatrici, ma ne differisce in
questo, che essa aiuta a far partorire uomini e non donne, e provvede alle anime
generanti e non ai corpi. [...]. E proprio questo io ho in comune colle levatrici: anche io
sono sterile, sterile in sapienza [...]. Io stesso, dunque, non sono affatto sapiente, né si è
generata in me alcuna scoperta che sia frutto dell’anima mia. Quelli che entrano in
relazione con me, seguitando a vivere in intima relazione con me, meravigliosamente
progrediscono. Ed è chiaro che da me non hanno mai appreso nulla, ma che essi, da sé,
molte e belle cose hanno trovato e generato.»

PLATONE

Per tornare alla metafora della grotta di Platone, l’educatore non trascina
fuori i prigionieri, né li costringe a uscire, minacciandoli qualora non lo
seguissero. Al contrario, egli dialoga con loro: li aiuta a pervenire da soli,
con la propria testa, alla consapevolezza dell’esigenza di uscire dalla
caverna, di salire verso la luce del sole. Si limita a mostrare loro la via.
Il vero maestro non è quello che ti trascina fuori dalle tenebre della
spelonca. È, invece, colui il quale accende in te il desiderio di sapere e di
formarti: il desiderio, cioè, di intraprendere con le tue forze l’arduo
cammino che conduce alla conoscenza.
Non è un caso se la strada che conduce all’aria aperta è in salita: arduo e
faticoso è percorrerla, perché – fuor di metafora – l’educazione richiede
disciplina e lavoro su se stessi, sforzo e attenzione. E, non di meno, a
ripagare per la fatica svolta è la condizione a cui si approda percorrendo
quella strada, uscendo dunque alla luce del sole.
L’epoca in cui vivo, Epicuro, ha nel suo complesso preferito vivere nella
caverna, tra ombre rassicuranti, senza compiere la fatica della risalita verso
la luce. Per questo, regna ovunque, in forme ostentate, la “maleducazione”,
come è chiamata nel linguaggio comune. La si dovrebbe, forse, in modo più
appropriato, definire “ineducazione” o, con la parola di Platone, apaideusia.
È, credo, la prima epoca storica in cui l’essere privi di educazione diventa
un vanto generalizzato.
48
Corpo

Caro Epicuro,
desidero oggi scriverti intorno alla questione del corpo. Che cos’è nella
sua essenza? In prima approssimazione, propongo una definizione di questo
tipo: il corpo è una entità estesa nello spazio e percepibile attraverso i sensi.
Sue ulteriori prerogative essenziali sono la divisibilità, la solidità e
l’impenetrabilità. Per questo, può definirsi “corpo” ogni ente che sia
divisibile, occupi uno spazio, sia impenetrabile e risulti solido. Dal punto di
vista della filosofia atomistica da te professata, Epicuro, ogni corpo può
essere scomposto negli elementi che lo compongono, secondo una divisione
che culmina negli elementi primi che vanno sotto il nome di “atomi”:
l’atomo è, per così dire, il “corpo” più piccolo, non ulteriormente divisibile,
che aggregandosi ad altri dà luogo ai corpi che costantemente percepiamo
nel tempo e nello spazio. Anche noi abbiamo un corpo, che esiste come
totalità materiale e organizzata di elementi, cioè come organismo. Ma, a
questo riguardo, sorge una domanda fondamentale, che subito formulo:
Epicuro, noi “abbiamo” un corpo o “siamo” un corpo?
Sembra una questione puramente nominale, legata al linguaggio, e
invece da essa dipendono concezioni del mondo del tutto differenti. Se
“siamo” un corpo, allora la nostra essenza specifica è essa stessa corporea: e
il nostro essere si risolve interamente nel corpo che siamo. Tale è la visione
propria del materialismo, ad avviso del quale non v’è nulla al di là della
realtà materiale, corporea, di cui constiamo. Se, invece, “abbiamo” un
corpo, ciò vuol dire che la nostra essenza più profonda non coincide con
esso, senza il quale pure non potremmo esistere. Già Platone, e prima di lui
gli Orfici, avevano sviluppato una prospettiva di questo genere,
estremizzandola: il corpo sarebbe una sorta di “carcere” che imprigiona la
parte di noi con cui realmente ci identifichiamo, l’anima, che coincide
anche con il principio spirituale. Con l’ovvia conseguenza per cui, per
essere davvero liberi, dobbiamo attendere che l’anima si stacchi dal carcere
del corpo.

«Dicono alcuni che il corpo è séma (segno, tomba) dell’anima, quasi che ella vi sia
sepolta durante la vita presente. Però mi sembra assai più probabile che [...] l’anima
paghi la pena delle colpe che deve pagare, e perciò abbia intorno a sé questa cintura
corporea a immagine di una prigione; e così il corpo è séma (custodia) dell’anima
finché essa non abbia pagato compiutamente ciò che deve pagare.»

PLATONE

Al di là della soluzione di Platone, è importante rilevare come la


prospettiva dell’“avere un corpo” introduca un dualismo fondamentale: noi
siamo un’anima dentro un corpo, e partecipiamo quindi di due diverse
sostanze. Da un lato, vi è la “sostanza estesa” del corpo (Cartesio la
appellerà res extensa) e, dall’altro, c’è la “sostanza pensante” dell’anima
(che lo stesso Cartesio qualificherà come res cogitans). La prospettiva
dell’“essere un corpo” semplifica le cose e pecca di riduzionismo, perché si
trova, di fatto, in difficoltà a spiegare fenomeni spirituali come il pensare e
l’immaginare. Per parte sua, la posizione dell’“avere un corpo”, che è più
complessa e articolata, si trova nella difficoltà di dover spiegare quale tipo
di rapporto esista tra il corpo e l’anima, tra l’estensione e il pensiero.
Larga parte della filosofia moderna si è, in effetti, soffermata su questo
problema, con soluzioni molto diverse. Il problema, se vogliamo chiarirlo
con un esempio, potrebbe essere formulato così: com’è possibile che se
decido di alzare il braccio (momento del pensiero, della res cogitans), esso
effettivamente si alza (momento del corpo, della res extensa)? Come può il
pensiero, che è essenzialmente altro dal corpo, interagire con quest’ultimo?
Cartesio, che ho già citato, non riesce a fornire una spiegazione
convincente. Spinoza, dal canto suo, la propone ammettendo che pensiero e
corpo siano due attributi diversi della medesima sostanza, Dio. Leibniz,
invece, parlerà di “armonia prestabilita”, immaginando che sia stato Dio ad
accordare, in origine, queste due realtà, di modo che esse fossero da sempre
in armonia.
«Vi è così un’armonia perfetta tra le percezioni della monade e i movimenti dei corpi,
un’armonia prestabilita fin dal principio tra il sistema delle cause efficienti e quello
delle cause finali; ed è in essa che consistono l’accordo e l’unione fisica dell’anima e
del corpo, senza che l’uno possa mutare le leggi dell’altra.»

G. LEIBNIZ

La filosofia dell’Occasionalismo pensa invece che vi sia un costante


intervento di Dio, che agisce nel mondo per accordare spirito e corpo.
Hobbes, infine, risolve la questione annullando la dimensione dello spirito e
riconducendo ogni realtà – compreso il pensiero – all’elemento corporeo.

«Corpo è qualcosa che, non dipendendo dal nostro pensiero, coincide ed è esteso con
una certa parte dello spazio.»

T. HOBBES

Tali e tante sono le questioni, Epicuro, e qui ne ho, per ragioni di spazio,
dovute trascurare molte altre, non meno importanti. Ti saluto caramente.
49
Epoca

Caro Epicuro,
è sul concetto di epoca che vorrei soffermarmi nella lettera che sto per
scriverti. Che cos’è un’epoca? Quali le sue caratteristiche essenziali? Il
termine deriva, ancora una volta, dalla lingua degli antichi greci:
precisamente dal verbo epecho, che significa, letteralmente tradotto, “io
trattengo”, “io sospendo”. L’epoca è, allora, anzitutto una sospensione. E
tale era il significato del sostantivo corrispondente, derivato dal verbo
epecho. Presso la filosofia della scuola scettica, in particolare, la parola
epoché – dalla quale il nostro termine “epoca” direttamente discende – era
un concetto fondamentale: letteralmente, alludeva alla “sospensione” del
giudizio a cui il filosofo scettico era chiamato. Questi doveva, per così dire,
mettere tra parentesi le verità accettate comunemente, sospendendo il
giudizio e facendo valere il dubbio più radicale. Il nostro termine “epoca”,
come dicevo, rinvia anch’esso a una sospensione. Essa, tuttavia, è legata
non tanto al giudizio del soggetto pensante, quanto allo scorrere del tempo
storico: l’epoca è, in effetti, una sospensione del tempo, che ha un inizio e
una fine. Tra questi due estremi, sospesi e trattenuti rispetto al costante
scorrere progressivo del tempo, si delinea lo spazio temporale di un’epoca.
Essa è, di conseguenza, un punto saliente della storia, un periodo che – per
via degli eventi particolarmente rilevanti e innovativi che lo attraversano –
presenta una sua unitarietà: e che, per ciò stesso, si mostra con una sua
fisionomia propria e inconfondibile. È in questa luce, Epicuro, che si
spiegano espressioni come “l’epoca delle Crociate” e “l’epoca del
Rinascimento”, “l’epoca del Risorgimento” e “l’epoca delle guerre
mondiali”.
Da questa definizione che del concetto di epoca possiamo prospettare
segue una ricca serie di interrogativi filosofici. Dei quali vorrei, ora,
sollevarne alcuni, che mi paiono particolarmente importanti. Anzitutto,
come si fa, Epicuro, a comprendere il transito da un’epoca all’altra? O, se
preferisci, su che basi e con quali presupposti possiamo legittimamente
affermare che è finita un’epoca e se ne è avviata un’altra? Come distinguere
il “fare epoca”, come anche si dice, dal semplice “durare” nel quadro della
medesima epoca?
Si può, certo, fare riferimento al modo di pensare generale e sostenere
che, in presenza di un suo mutamento radicale, vi è anche un cambiamento
di epoca. Penso, ad esempio, al passaggio, con l’avvento dell’epoca
moderna, dalla prospettiva “geocentrica”, incardinata sulla centralità della
terra, a quella “eliocentrica”, basata invece sulla centralità del sole. Ma
l’elemento del pensiero, che pure è fondamentale, non è il solo che permetta
di cartografare il passaggio da un’epoca all’altra. Accanto a esso vi è anche
il modo concreto in cui gli uomini organizzano il loro stare insieme nella
società e i loro modi di produrre e di lavorare. Con la Rivoluzione francese,
nel 1789, ad esempio, vi è un mutamento d’epoca nettamente riscontrabile
anche sotto questo profilo: da una società basata su legami di tipo feudale si
giunge rapidamente alla nuova epoca di un mondo fondato su rapporti tra
individui che sono, almeno formalmente, liberi e uguali.
L’altro quesito che desidero ora sollevare riguarda l’essenza della mia
epoca. Tale essenza credo possa essere ritrovata principalmente – pur
trascurando molti fattori – nell’unificazione del mondo, nel processo che si
chiama oggi “globalizzazione”. Per la prima volta, esiste una connessione
in tempo reale tra ogni angolo del pianeta: e in tutto il pianeta l’immagine
del mondo che prevale riconosce il consumo di merci e il loro ricambio
ininterrotto come scopo dell’esistere. A ciò si accompagna, inoltre, una
prospettiva fatalistica, propria di chi pensa che questa nostra epoca, pur con
tutte le sue contraddizioni, non consenta alternative.
50
Male

Caro Epicuro,
è di una questione inquietante e, allo stesso tempo, affascinante che
vorrei trattare nell’epistola che oggi ti scrivo. Che cos’è il male? Quali sono
le sue caratteristiche specifiche e i suoi modi di manifestazione? Qual è la
sua essenza e, ancora, quali i suoi ambiti peculiari? Nella sua
determinazione più generale, necessariamente parziale e non soddisfacente,
il male può essere definito come ciò che, opponendosi al principio del bene,
figura come dannoso e sconveniente, contrario alla giustizia e alla morale:
è, per ciò stesso, ciò che si presenta come non desiderabile. Si può allora
riconoscere che diverse sono le sue sfere: vi è un male metafisico e un male
morale, un male politico e un male fisico. Il male fisico, che è il più
semplice da inquadrare, coincide con il dolore e, dunque, con una
condizione che turba l’equilibrio dell’individuo, il suo abituale stato di
benessere. Più arduo, invece, è definire il male metafisico e rispondere alla
domanda “che cos’è il male? E perché esiste?”.
Quando non abbia ammesso l’esistenza obiettiva del male,
identificandolo con un principio realmente esistente, la filosofia occidentale
l’ha inteso in senso privativo, come assenza di bene. Questa, ad esempio, la
prospettiva di Platone e, dopo di lui, di Plotino e di Agostino. Pur con le
debite distinzioni, per questi autori il male non è una realtà esistente in sé,
ma è assenza di bene: è, per così dire, dove non arriva il bene. Possiamo,
forse, comprendere questa posizione mediante un’immagine: pensiamo a
una stanza rischiarata da una luce. Man mano che ci allontaniamo dalla
sorgente luminosa, la luce si fa più fioca, fino a sparire: dove non arriva la
luce, lì è il male, che è, appunto, un’assenza, una mancanza. Sempre per i
tre autori che ho citato (e nonostante – ripeto – le loro differenze), il male
come mancanza è essenzialmente connesso con la materia e con la sua
resistenza rispetto alla forma.
«Il male esiste necessariamente, essendo necessario un contrario al Bene.»

PLOTINO

«L’essere e il bene sono proporzionali; quindi tanto più perfetto è ontologicamente un


ente, tanto “più bene” si troverà in esso: ora, per quanto perfetto sia un ente, in quanto
creato non potrà mai coincidere con “il” bene, perché sarà comunque ontologicamente
più povero del Creatore. Di questa povertà ontologica Dio non è responsabile e quindi
lo stesso male non è qualcosa, ma solo privazione di bene.»

AGOSTINO

Questa soluzione, che intende il male come mancanza, permette anche di


risolvere quello che, altrimenti, resterebbe un vicolo cieco, un’aporia (una
strada senza uscita, appunto): se Dio esiste, perché esiste anche il male?
Per non dover ammettere il controsenso di un Dio che crea il male
(contraddicendo quindi la propria prerogativa dell’infinita bontà), si può
riconoscere il carattere privativo e la non-sostanzialità del male, inteso
come assenza del bene. Se è vero che Dio, nella sua infinita bontà, non
compie il male, né lo crea, è anche vero che, per parte sua, l’uomo, nella
sua libertà, può scegliere il male: vuoi perché lo scambia per il bene
(secondo la soluzione offerta dall’intellettualismo di Socrate), vuoi perché
deliberatamente lo vuole, come Agostino apertamente ammette. Il male
scelto dall’uomo nel suo agire si definisce, propriamente, come male
morale e come peccato: peccare significa compiere il male morale.
E perché l’uomo compie il male, preferendolo alla via del bene?
Agostino risponde che ciò dipende da due motivi principalmente: anzitutto,
dal fatto che l’uomo aspira all’autodeterminazione assoluta e, per ciò, si
allontana da Dio; in secondo luogo, dal fatto che egli, concentrandosi sui
beni materiali, sceglie ciò che è più distante dal bene.
Questa possibile inclinazione al male, che la teologia cristiana pone in
connessione con il “peccato originale”, sarà intesa da Kant nei termini del
“male radicale”: ossia della naturale e inestirpabile inclinazione radicata in
quel “legno storto” che è l’uomo.
«Per noi non c’è alcuna causa comprensibile dalla quale il male morale possa per la
prima volta essere venuto da noi.»

I. KANT

Con Rousseau, nel Settecento, si ha un mutamento di prospettiva


importante, perché il male prende a essere inteso come problema
eminentemente politico: l’uomo è malvagio non per natura, come riteneva
Hobbes, ma per via di un processo storico che l’ha portato a essere tale. Per
questo, occorre cambiare politicamente la società, per redimere l’uomo
anche sul piano antropologico.
Il problema, Epicuro, è stato qui appena accennato, eppure sono
molteplici le questioni che ne derivano. Perché così spesso scegliamo il
male deliberatamente? E perché esiste, al di là delle nostre scelte, il male?
La prova più tragica della sua esistenza, anche a prescindere dalla nostra
volontà, è offerta dalla drammatica esperienza della sofferenza dei bambini,
ossia di coloro che, più di tutti, non hanno colpe. Un male particolare – e ti
lascio con questa osservazione – mi pare che sia da individuarsi nella nostra
inerzia, nella nostra pigra rinuncia ad agire per cambiare in meglio le cose.
Forse è questa indifferenza la forma più subdola e meno immediatamente
riconoscibile del male.
51
Mistero

Caro Epicuro,
quali sono le legittime pretese della nostra ragione? E quali le colonne
d’Ercole oltre le quali essa non può avventurarsi? Nel sollevare tali
questioni, è del tema del mistero che vorrei oggi scriverti. Anche questa
parola è radicata nella civiltà dei greci e rimanda, fin dal suo impiego
originario, ai riti segreti propri del culto orfico e di quello eleusino. Gli
iniziati, mediante riti appositi, venivano introdotti a verità segrete, che
avevano poi l’obbligo di non divulgare. Connessa all’idea del mistero è
dunque, da subito, la segretezza iniziatica e, con essa, una verità accessibile
a pochi, mediante forme che esulano dai canoni propri della ragione. Anche
la religione cristiana ha fatto propria la tematica del mistero, riconoscendo
espressamente la verità del “mistero della fede”: anche in questo caso la
dimensione misterica risulta connessa con una verità – quella della fede –
che resta segreta alla ragione e inaccessibile a essa. Vi si può giungere per
un’altra via, che appunto resta un mistero per quanti continuino a orientarsi
unicamente sul fondamento della ragione.
Dal punto di vista cristiano, questa via non può essere disvelata dalla
ragione, perché solo Dio può renderla nota mediante la rivelazione. È per
questo motivo che, con il cristianesimo, il mistero si ridefinisce come una
verità soprannaturale, che non può essere conosciuta mediante le naturali
forze dell’intelligenza umana: tali sono, ad esempio, la Trinità e
l’incarnazione di Dio, che si fa uomo con Cristo. Sempre dal punto di vista
cristiano, è proprio del mistero il fatto che esso sia inaccessibile alla
ragione (richiedendo, invece, la rivelazione per essere conosciuto) e, non di
meno, non sia in contrasto con i canoni di quest’ultima: è, per così dire, al
di sopra di essa, ma non in disaccordo. Il mistero, di conseguenza, se inteso
nel suo senso più generale, è una dimensione di verità che non può essere
conosciuta, avvicinata e risolta mediante la sola ragione.
Il filosofo Gabriel Marcel ha, a questo riguardo, operato una distinzione
che mi pare degna di essere richiamata. Egli separa nettamente il “mistero”
dal “problema”. Quest’ultimo, per sua essenza, può essere oggettivato e, per
così dire, chiaramente posto dinanzi a noi: “problema”, infatti, deriva dal
greco proballo, “metto avanti”. Ha, di conseguenza, a che vedere con un
quesito che può essere risolto da chi lo pone. Questi deve comporre con
cura tutti i dati di cui dispone e, con l’impiego della ragione, giungere alla
soluzione del problema. Il mistero, dal canto suo, non è oggettivabile. È, se
vogliamo dir così, un problema che non può essere “posto avanti”, come se
fosse, appunto, un oggetto altro rispetto a noi: nel mistero mi trovo
coinvolto in tutto e per tutto; con la conseguenza per cui è impossibile la
distinzione tra il soggetto e l’oggetto, tra me e il mistero stesso.

«Il problema è qualcosa che si incontra, che ci ostruisce la strada. È davanti a me nella
sua totalità. Invece il mistero è qualcosa in cui mi trovo impegnato, e quindi non viene a
trovarsi davanti a me nella sua totalità.»

G. MARCEL

Se volessimo azzardare una definizione centrata sulla distinzione appena


delineata, potremmo affermare che il mistero è un problema che non può
essere risolto mediante la ragione. E, a tal riguardo, è nel vero Dante,
allorché, nella Divina commedia, definisce senza perifrasi “matto” chi spera
di svelare con la sola forza della ragione la verità della Trinità.
Il mistero, però, non è solamente connesso a temi religiosi, come da
quanto detto finora potrebbe risultare. La sua sfera specifica è decisamente
più ampia. Sempre con Marcel, potremmo sostenere che è l’essere il primo
e il più grande mistero. Secondo la più classica delle domande filosofiche:
perché vi è l’essere e non il nulla? Ora, se seguiamo Marcel, possiamo con
diritto sostenere che tale quesito non può essere risolto. E perché? Per il
fatto che si tratta di un mistero, non di un problema. E, dunque, Epicuro,
quali e quanti sono i misteri? Credo, a questo proposito, che occorra evitare
un duplice errore, ritenendo o che la nostra ragione sia infallibile e tutto
possa risolvere, o che essa sia completamente impotente, al cospetto di una
realtà che è, in ogni sua parte, densa di misteri. La dimensione del mistero
esiste, certo, e chiede di essere rispettata. Ma ciò non toglie che la nostra
ragione, per quanto debole, resti il nostro più potente strumento conoscitivo,
al quale non dobbiamo rinunciare, né assegnare una fiducia acritica e
dogmatica.
52
Rivoluzione

Caro Epicuro,
talvolta, nello studio della filosofia, ci imbattiamo in concetti che
cambiano non solo il significato, ma anche l’orizzonte di senso in cui
operano. È questo il caso del concetto di rivoluzione, che in origine
presentava un significato e una sfera di applicabilità completamente
differenti rispetto a quelli che lo contraddistinguono nel lessico
contemporaneo. La parola rivoluzione, in effetti, ha radici antiche. Rimanda
al verbo latino revolvere, che letteralmente vuol dire “tornare al punto di
partenza”. Il suo campo di applicabilità, a quel tempo, non era di ordine
politico: si riferiva, invece, alla sfera del moto naturale dei pianeti. Ancora
nel 1543, all’inizio dell’epoca moderna, l’astronomo Copernico dà alle
stampe il suo fondamentale testo Sulle rivoluzioni delle sfere celesti. Le
rivoluzioni a cui egli allude non sono quelle della politica e della società,
bensì quelle dei pianeti: il cui moto è quello del revolvere, del tornare
sempre e di nuovo su se stessi.
Eppure, a poco più di un secolo di distanza, a metà del Seicento, il
filosofo Tommaso Hobbes utilizza la parola in un significato
profondamente mutato. Dinanzi alla sollevazione che ha portato alla
decapitazione del re in Inghilterra e, da lì, al ritorno della monarchia con un
nuovo re, Hobbes scrive: “ho visto in questa rivoluzione un movimento
circolare”. Il riferimento è, anche per Hobbes, la circolarità ricorsiva
propria del revolvere: si è, infatti, fatto ritorno alla figura del re, da cui si era
partiti. Ma il campo di applicabilità è mutato: non corrisponde più con lo
spazio dell’astronomia, ma con quello della politica e delle umane vicende.
L’ulteriore trasformazione si avrà circa un secolo dopo, quando il
filosofo francese Diderot immaginerà – siamo prima del 1789 – un
sovvertimento dell’ordine costituito della politica. E pone la domanda:
“quale sarà l’esito di questa rivoluzione?”. Hobbes non avrebbe avuto alcun
dubbio nel rispondere: l’esito sarà il ritorno al punto di avviamento,
secondo il significato proprio del revolvere. E, invece, Diderot propone una
risposta sconcertante: “non si sa”.
Siamo così giunti al secondo grande mutamento di significato del
concetto: che, come in Hobbes, trova nella politica la sua sfera di
applicabilità, ma non allude più a un movimento circolare di ritorno
all’origine. Rinvia, invece, a un futuro ignoto, strutturalmente diverso dal
passato e dal presente. Siamo, allora, in presenza del nostro significato di
rivoluzione: essa esprime un mutamento radicale, nell’ambito della politica
e della società, in virtù del quale si crea una frattura, una discontinuità tra il
prima e il poi. La rivoluzione, insomma, interrompe bruscamente un ordine
e ne inaugura uno nuovo, diverso dal precedente e da quest’ultimo
indeducibile. Non si torna a ciò che già c’era, ma si dischiude uno spazio
nuovo, un inedito sistema sociale e politico che si concepisce apertamente
in rottura e in discontinuità con quello precedente. Questo fu, in effetti, il
senso della Rivoluzione francese del 1789 così come lo percepirono i suoi
attori: essi avvertirono la discontinuità che si era prodotta e che avevano
desiderato porre in essere, per creare un nuovo inizio rispetto all’iniquo
mondo storico in cui erano, prima d’allora, vissuti.
Che resta, oggi, del concetto di rivoluzione? Il termine, paradossalmente,
si è a tal punto affermato, da avere invaso ogni angolo del nostro
immaginario. Prova ne è che ormai ci si riferisce alla rivoluzione in ogni
ambito possibile, dalla moda al marketing, dalla tecnologia al consumo. Il
paradosso, però, mi sembra questo: proprio quando ormai la rivoluzione è
ovunque, anche negli ambiti più impensati, essa tende a eclissarsi, come
idea generale di riferimento, nel suo specificamente moderno campo sociale
e politico. In effetti, Epicuro, la mia epoca progetta rivoluzioni in ogni
settore, fuorché nella politica e nella società: dà ingiustamente per scontato
che solo in questo campo sia impossibile trasformare o, meglio ancora,
rivoluzionare la realtà.
53
Progresso

Caro Epicuro,
questa volta ho deciso di mettere per iscritto, in questa lettera, alcune
mie riflessioni su un concetto sconosciuto a voi greci e, invece, diffusissimo
presso i moderni. Esso, peraltro, pur con qualche scricchiolio, continua a
godere di buona salute anche nella mia epoca, che pure ha in parte
ridimensionato la sua centralità. Si tratta del concetto di progresso. Se
dovessi proporre una definizione immediata e sintetica di questo concetto,
sarebbe questa: il progresso è la convinzione che tutto senza eccezioni o, in
ogni caso, la maggior parte delle cose migliorino con il passare del tempo e
siano, per così dire, più perfette domani di quanto non lo fossero oggi e, a
maggior ragione, ieri. In questo senso, il progresso si fonda sull’idea che il
vero, il buono e il giusto risiedano principalmente nel futuro: e che, di
conseguenza, il passato e il presente non abbiano un senso compiuto in sé,
ma solo in riferimento al futuro stesso.
Per l’immaginario dei greci, il progresso sarebbe stato, letteralmente, un
controsenso: il futuro era concepito come l’orizzonte del ritorno delle
medesime esperienze del passato. E la storia, nel suo complesso, era intesa
in modo alquanto simile a un cerchio, in cui tutte le cose eternamente
ritornano al punto di partenza. Per i moderni, invece, la storia assume
un’altra figura: diventa accostabile a una linea, lungo la quale ogni evento è
unico e irripetibile e, soprattutto, si procede a senso unico dal passato verso
il futuro. Questo avanzamento unidirezionale verso le distese del domani
viene esso stesso caricato di un valore positivo: in forza del quale ogni
momento che, secondo l’ordine del prima e del dopo, sopraggiunge sulla
linea, superando il precedente, si pone come un miglioramento. Quanto più
si è distanti dal punto di partenza, tanto più si è “progrediti”, ossia tanto
maggiore è il progresso conquistato. E questo, come ricordavo in
precedenza, non in un singolo ambito specifico dell’esperienza umana, ma
in tutti: dalle scienze alle arti, dal sapere alle forme politiche, dall’economia
all’organizzazione sociale.
Colui il quale crede nel progresso è, a rigore, del tutto simile all’antico
Orfeo. Questi era sceso nell’oltretomba per ricondurre nel mondo dei
viventi l’amata Euridice: gli era stata concessa questa impresa prodigiosa, a
patto che egli, lungo la risalita dagli inferi, mai si fosse voltato per vedere la
sua amata. Analogamente, i cultori del progresso mai si voltano: ritengono
che tutto ciò che vi è nel presente e, in misura maggiore, nel futuro, sia
meglio di quanto vi era in passato. Il passato, in questo modo, viene svilito
al rango di un cumulo di macerie e di errori, di pregiudizi e di tappe
preparatorie prive di significato, se non in relazione al futuro che esse
preparavano. La pericolosità di questa visione all’insegna del progresso è
evidente, Epicuro: essa ci induce a trascurare il passato e, con esso, la
nostra provenienza, le nostre radici, ciò che eravamo. Di più, ci porta a
intendere falsamente l’emancipazione nei termini di un semplice
superamento di tutto ciò che giunge dal passato, liquidato in blocco come
negativo rispetto alle conquiste future. Inoltre, il mito del progresso ci
spinge inconfessabilmente a pensare che, in modo automatico, tutte le cose
miglioreranno in relazione al semplice scorrere del tempo: ci dispensa, così,
dall’agire responsabile di chi, lungi dal credere al progresso automatico, si
adopera per migliorare le cose, superando quelle che meritano di essere
abbandonate e conservando quelle che, invece, sono degne di essere portate
con noi dal passato.
Ho volutamente impiegato un’espressione che, a tutta prima, potrebbe
risultare bizzarra e inappropriata: “mito del progresso”. In effetti, il
progresso si presenta davvero come un mito o, se preferiamo, come una
fede decisamente poco razionale. È, appunto, la fede che in ogni caso le
cose, con il passare del tempo, saranno migliori. Dobbiamo sottoporre a
critica questa fede, Epicuro: ma non per aderire a quella opposta, anch’essa
decisamente poco razionale, secondo la quale tutto ciò che si dà nel passato
è meglio di ciò che sarà in futuro. Dobbiamo, semmai, liberarci da entrambe
queste fedi, per intrattenere un rapporto più sobrio con la realtà: che non
rinunzi né al futuro né al passato, e che nemmeno sacrifichi il presente
sull’altare del ricordo del glorioso tempo che fu o su quello delle
magnifiche sorti che verranno.
54
Essenza

Caro Epicuro,
quante volte, ogni giorno, utilizziamo nel nostro linguaggio comune la
parola “essenza”? Ma anche i suoi derivati (“essenziale”,
“essenzialmente”). Molto più raramente, però, ragioniamo sul senso
profondo di quella parola, così densa di storia e di filosofia. Di tutti,
potremmo anzi sostenere che è il lemma forse più filosofico in assoluto:
quello intorno al quale, da sempre, i filosofi hanno sviluppato le loro
indagini e costruito i loro sistemi. Che cos’è, allora, l’essenza? O, con un
gioco di parole, qual è l’essenza dell’essenza? Aristotele la chiama tò ti en
eìnai, letteralmente “che cos’era l’essere”. I latini tradurranno con essentia,
termine dal quale deriva il nostro “essenza”.
Se seguiamo ancora le coordinate teoriche di Aristotele, possiamo con
diritto affermare che l’essenza coincide con ciò per cui una realtà è quella
che è e non un’altra. Così intesa, dunque, l’essenza è quella serie di
determinazioni proprie di un ente, le quali costituiscono la natura peculiare
di quell’ente, distinguendolo dagli altri. È, per così dire, la forma universale
che fa sì che singoli enti possano essere rapportati allo stesso genere o alla
stessa specie. Al cospetto di animali quadrupedi che corrono, come
facciamo a dire che essi sono dei “cavalli”, ossia a indicarne l’essenza?
Nel suo dialogare nello spazio pubblico della città, Socrate era solito
interrogare i suoi concittadini sulle essenze: che cos’è il coraggio? E la
giustizia? E il sacro? Chi risponde menzionando casi di azioni coraggiose,
leggi giuste o luoghi sacri non soddisfa l’interrogare socratico: che è
appunto rivolto all’essenza, e non a determinazioni concrete che la
rispecchiano. Al quesito sulle essenze, Platone risponde che i casi concreti
delle azioni coraggiose possono essere così intesi e classificati, perché essi
sono determinazioni sensibili dell’idea del coraggio: cioè di un modello
ideale, la cui esistenza non è proiettata nella dimensione del sensibile e del
divenire. Per parte sua Aristotele corregge Platone: e spiega che, invece, le
essenze sono nelle cose stesse, e non altrove, in realtà più alte e lontane dai
sensi. Gli oggetti materiali sono un “tutt’uno” (un “sinolo”, dice Aristotele)
di forma e materia, di essenza ed esistenza.

«[...] Intendo indicare, ad esempio, come materia il bronzo, come forma la figura
rappresentata, come composto di entrambe la statua, cioè il sinolo.»

ARISTOTELE

L’essenza, dicevamo, è, con estrema e incompleta sintesi, ciò che fa sì


che una cosa sia quella che è: per questo, essa deve essere distinta
dall’accidente, ossia dalle qualità e dalle caratteristiche che troviamo in un
ente e che non gli sono essenziali, non ne definiscono l’essenza.
Ad esempio, che l’uomo sia un essere razionale rientra appieno
nell’essenza stessa di uomo: che non sarebbe tale se, appunto, mancasse
della razionalità. Invece, che l’uomo abbia, supponiamo, i capelli canuti o il
naso camuso è un accidente: può certo darsi che il singolo uomo che sta
dinanzi a noi presenti quelle caratteristiche, ma non sono certo esse a
definirne l’essenza di uomo. Da questo punto di vista, si potrebbe anche
asserire che l’essenza è l’universale nel particolare: è cioè quella realtà che
fa sì che tutta una serie di casi concreti possano essere intesi come
partecipanti della medesima essenza. I cavalli che vediamo correre nel prato
o gli uomini che vediamo leggere in biblioteca possono essere definiti tutti
“cavalli” e “uomini” per via dell’essenza comune, che fa sì che, al di là
della loro particolarità concreta, abbiano qualcosa di comune. Questo
qualcosa deve essere essenziale e non accidentale: sia gli uomini sia i
cavalli possono, supponiamo, correre nei prati. Ma non è questo aspetto a
definirne l’essenza. Proprio come non la definisce il fatto che, tra gli uomini
che leggono in biblioteca, alcuni abbiano i capelli biondi e altri neri.
Ora, dove sia situata questa essenza universale, di cui stiamo dicendo, è
da sempre uno dei problemi più discussi dalla filosofia. Per Platone, già
l’ho detto, è in una superiore realtà ideale, esterna alle cose sensibili. Per
Aristotele, è nelle cose stesse, che sono “sinoli”, cioè “unioni” inscindibili
di essenza ed esistenza. Per altri ancora, poi, saranno solo nomi e parole, un
“soffio di voce” (flatus vocis) con il quale noi umani chiamiamo con un
unico nome cose diverse (“cavalli”, ad esempio, tutti i quadrupedi che
presentano certe caratteristiche). Queste e molte altre sono, Epicuro, le
questioni connesse all’essenza. Ma ora ti lascio, salutandoti: su questo
problema credo di aver detto – per restare in tema – l’essenziale.
55
Identità

Caro Epicuro,
è di identità che oggi desidero scriverti. Si tratta di un concetto che è
decisivo tanto per l’ontologia, ossia per la scienza che studia l’essere,
quanto per la filosofia politica, che invece più propriamente si occupa della
relazione tra gli uomini, la storia e il vivere sociale. In termini
generalissimi, la nozione di identità rimanda all’identitas e, dunque,
all’idem, allo “stesso”. Esso è inteso come realtà che si mantiene uguale a
se stessa in relazione a ciò che la circonda e al mutare del tempo e, insieme,
come entità definita e definibile, riconosciuta e riconoscibile. Ciò che ha
una identità è dotato di una gamma di qualità che lo fanno essere e lo fanno
riconoscere per ciò che realmente è: e che rendono, quindi, possibile una
distinzione rispetto a ciò che è altro, e cioè portatore di una diversa identità.
Sotto questo profilo, l’identità procede sempre insieme con la differenza: la
mia identità è ciò che mi distingue, e mi rende appunto differente, dall’altro.
Senza differenza, non potrebbe esservi identità: proprio come, in assenza
dell’identità, neppure potrebbe esistere la differenza.
Quanto detto non deve, tuttavia, indurre a intendere l’identità nella forma
di un’essenza immutabile o di una sostanza non soggetta allo scorrere del
tempo. Si tratta, invece, di un processo dinamico e storicamente
determinato, nel quale permanenza e trasformazione coesistono
unitariamente. L’identità, proprio come la tradizione, è nella misura in cui
diviene: o, se si preferisce, ha una sua storia. Come ricordavo poc’anzi, chi
ha identità si distingue perché è diverso e, insieme, può essere riconosciuto
come tale.
La razza umana, sotto questo profilo, è unitaria nella sua essenza e,
insieme, esiste nella pluralità delle identità culturali storiche e linguistiche
in cui si articola: ciascuna delle quali è caratteristica della razza umana in sé
unitaria – ciò rende false le pratiche del razzismo sul piano ontologico
ancor prima che morale – e, dunque, una ricchezza che deve essere
preservata e non annientata, valorizzata e non stigmatizzata. L’universale
umano si dà concretamente nella pluralità caleidoscopica delle sue
manifestazioni storiche, nella gamma molteplice delle sue identità culturali.
È, per così dire, un universale molteplice e articolato nelle differenze. Per
questo l’identità, lungi dal consistere in un sostrato immutabile che
attraversa le epoche senza variazioni sostanziali, coincide con una realtà
dinamica e in evoluzione, che nasce dall’incontro e dalla fusione tra la
provenienza storica e la prospettiva progettuale. Nella sua essenza,
l’identità – dei popoli come degli individui – corrisponde alla fedeltà a un
progetto il cui fondamento affonda le sue radici nella propria provenienza
storica e che si decide liberamente di perseguire nel presente in cui si è
situati.
Credo, Epicuro, che oggi stiamo assistendo, nel tempo della
globalizzazione, a uno sfaldamento generale delle identità. A tal punto che
la globalizzazione potrebbe anche essere definita come il processo in grazia
del quale si annullano sempre più le differenze e le identità: e, in loro luogo,
subentra una omologazione generalizzata, per via della quale trionfa un
unico modo di pensare e di essere, di parlare e di alimentarsi, di rapportarsi
socialmente e di soddisfare i bisogni. Ritengo, ancora, che il concetto di
identità (e, con esso, quello di differenza) debba essere difeso contro
l’omologazione di cui dicevo e, al tempo stesso, vada maneggiato con cura:
l’identità non deve, infatti, essere un’“arma” da usare contro le identità
altrui, vantando una presunta superiorità. Deve, al contrario, porsi come il
fondamento per un dialogo e per un confronto tra le identità stesse, intese
come parti dell’universale umano. Solo chi ha un’identità differente da
quelle altrui può, infatti, confrontarsi con esse, riconoscendone la differenza
e la distanza e, insieme, dialogando dal proprio specifico punto di vista.
56
Razzismo

Caro Epicuro,
è di una brutta parola che oggi vorrei parlarti. Una parola che ha segnato
alcune delle più tristi pagine della storia dell’umanità. La parola di cui ho
deciso di scriverti è “razzismo”. Nella sua determinazione più immediata e
generica, essa rimanda alla concezione in forza della quale il genere umano
non sarebbe in sé unitario: vi sarebbero, al contrario, “razze” differenti, che
si manifestano per qualità biologiche specifiche come il colore della pelle e
che avrebbero minore o maggiore intelligenza, moralità e dignità. Su questa
base, che si pretende scientifica e biologicamente fondata (la “teoria delle
razze”), il razzismo procede discriminando ed escludendo gli esseri umani a
seconda che essi appartengano a una razza “superiore” o a una “inferiore”.
Così, ad esempio, muovendo dal fatto che vi sono individui con la pelle
nera, il razzismo pretende di sostenere che essi sono di razza inferiore e
come tali debbono essere trattati.
Il razzismo, Epicuro, è un fenomeno tipicamente moderno, per quanto
non fosse completamente estraneo, in alcune forme, anche ai mondi storici
precedenti. Lo troviamo, da subito, connesso con le pratiche del
colonialismo dell’Occidente, ossia con la sua occupazione illegittima di
territori extraoccidentali in vista del loro sfruttamento e del profitto a
beneficio esclusivo dell’Occidente stesso. Si ripete assai frequentemente
che il razzismo è un “pregiudizio”. In verità, esso nasce come “post-
giudizio”, se mi è consentito l’impiego di questa nuova parola. Infatti,
giunti al cospetto delle popolazioni invase, gli occidentali dovettero trovare
un argomento per poterle privare di tutto, in primo luogo delle terre e delle
ricchezze: la teoria della loro presunta inferiorità razziale apparve, da
subito, l’argomento ideale. Come vedi, Epicuro, l’origine del razzismo non
è un pregiudizio, ma un post-giudizio, ossia una legittimazione fornita in
seconda battuta a una scelta che era originariamente di ordine economico.
Ancora oggi, in molti casi, questa connessione tra razzismo ed economia
sopravvive: e chi subisce il razzismo è, quasi sempre, il soggetto
economicamente più debole.
Sul piano strettamente filosofico, la confutazione più rigorosa del
razzismo è quella elaborata da Hegel nell’Ottocento. Chi pensa che la
superiore qualità dello spirito delle persone dipenda dalla razza e, dunque,
da elementi meramente biologici come il colore della pelle, deve di
necessità giungere a una conclusione assurda: “lo spirito è un osso”, ossia
l’intelligenza deriva dalla bruta materialità.
In effetti, Epicuro, l’errore del razzismo mi pare duplice: in primo luogo,
pecca di “biologismo” materialistico, ossia assegna il primato alla pura
materialità biologica connessa con il colore della pelle e con altri elementi
puramente materiali. Dai quali pretende di dedurre le qualità dello spirito
(intelligenza, morale ecc.). Il secondo errore sta nel fatto che il razzismo
spezza l’unità del genere umano, frammentandola in “razze” differenti e
incomunicanti tra loro, destinate a rapportarsi unicamente nella forma
gerarchica della subordinazione dell’una all’altra. La verità, Epicuro, è che
la razza umana è una sola: l’umanità esiste come un unico spirito o, se
preferisci, come un unico soggetto. Le diverse culture e lingue, i differenti
popoli e costumi, sono forme diverse in cui quell’unità si articola e si
organizza: non permettono, in alcun caso, di pensare che mettano capo a
razze diverse e incomunicanti. Sono, al contrario, le diverse modalità,
egualmente degne, in cui l’unità della razza umana si manifesta. Per questo
è sbagliato e, di più, pericoloso l’atteggiamento del razzista, ma lo è anche
quello di chi, magari in nome della lotta contro il razzismo stesso, pensa che
sia un bene annullare le differenze di lingua e di cultura per imporre un
profilo unico del genere umano. Come si è già evidenziato, l’unità della
razza umana (contro il razzismo) esiste solo nella pluralità delle sue
determinazioni culturali (contro chi pretende di imporre il modello unico
planetario).
57
Popolo

Caro Epicuro,
che cos’è un popolo? Quali sono le caratteristiche che ne definiscono
l’essenza? Se dovessi prospettarne una sintetica definizione direi che il
popolo è un gruppo di persone che coesistono nel tempo e nello spazio,
occupando un territorio comune, e che condividono visioni del mondo e
linguaggio, tradizioni e valori. In questa prima approssimazione, emergono
aspetti materiali (come il territorio) e immateriali (come la lingua e i
valori), in assenza dei quali un popolo non potrebbe esistere. Pur diversi,
questi elementi hanno come tratto comune la loro esistenza obiettiva, in sé
riscontrabile. Questa prima definizione, che pure decifra alcuni aspetti
decisivi del concetto di popolo, credo debba necessariamente essere
integrata. Infatti, perché vi sia un popolo non sono sufficienti questi
elementi oggettivi: occorre, accanto a essi, la presenza della dimensione
soggettiva. Cosa intendo sostenere con ciò? Il popolo è tale nella misura in
cui sa di esserlo: ossia nella misura in cui ha coscienza di esistere come
soggetto singolare e collettivo, di cui ciascun membro è parte e si riconosce
in quanto tale. Insomma, perché vi sia un popolo, in senso proprio, occorre
che vi siano gli elementi oggettivi a cui facevo riferimento e che, insieme, i
soggetti che fanno parte del popolo lo sappiano, cioè siano consapevoli di
questa loro comunanza.
In ciò si misura la differenza tra un popolo e una massa, che è, invece,
un gruppo di individui che, pur coesistendo nel tempo e nello spazio, non si
sentono parti integranti di una comunità. A questo proposito, Hegel teorizza
l’ethos e, più in generale, l’etica come fondamento dell’esistere di un
popolo: i cui individui si riconoscono in una ricca gamma di valori e di
riferimenti, di simboli e di usanze, aderendovi con piena convinzione
soggettiva.
Sul piano delle forme di governo, da sempre quella pensata su misura per
il popolo è la “democrazia”, secondo la parola di origine greca che dice
espressamente il kratos del demos, ossia il “potere” del “popolo”. In verità,
il demos non è, per i greci, il popolo genericamente inteso, che essi
appellano invece laos. È, se vogliamo dire così, un popolo in cui prevalgano
libertà ed eguaglianza e in cui, dunque, tutti i membri siano egualmente
liberi. Perché vi sia democrazia, ossia il potere del popolo, non è sufficiente
che il popolo possa eleggere i suoi rappresentanti, come troppo spesso
pensiamo. Questo aspetto è fondamentale, ma di per sé non esaurisce il
contenuto della democrazia: la quale implica anche che il popolo possa
accedere al potere e governare. Sicché potremmo meglio rendere la formula
“democrazia” con la duplice espressione di “potere del popolo” e “popolo al
potere”. È quanto, entro certi limiti, insegna anche Aristotele, nella Politica,
quando teorizza la politìa, ossia una sorta di democrazia del ceto medio. A
suo giudizio, tale forma si basa sull’alternanza tra il governare e l’essere
governati e presuppone che il popolo, ancora una volta, sia un demos e non
un laos, ossia non una massa indifferenziata, bensì un gruppo di individui
né eccessivamente ricchi né esageratamente poveri.

«È chiaro che la forma media di costituzione è la migliore: essa sola non è sconvolta da
fazioni, perché dove il ceto medio è numeroso, non si producono fazioni e dissidi tra i
cittadini.»

ARISTOTELE

Credo che ancora oggi vi sia molto da apprendere da Aristotele e dalla


sua dottrina politica: e ciò anche in ragione del fatto che la mia epoca,
Epicuro, sembra sempre più lontana dalla democrazia e dal rispetto per il
popolo, anche se senza tregua si richiama a valori democratici e popolari.
Per un verso, infatti, quella che chiamiamo democrazia non ha per soggetto
il demos, ma una sorta di tirannia mascherata dei mercati, che sono di fatto i
veri decisori. Per un altro verso, il concetto stesso di popolo tende a essere
svalutato: come se fosse in sé negativo. In suo luogo prevale
l’indifferenziato globale, l’individuo omologato e ridotto a consumatore
indistinto, sciolto dall’appartenenza al popolo d’origine. Eppure, Epicuro,
l’umanità che altro è se non la pluralità dei popoli in cui essa concretamente
esiste?
58
Metafisica

Caro Epicuro,
è del concetto di metafisica che oggi ho deciso di scriverti. Si tratta di un
concetto a tal punto rilevante, in filosofia, che per alcuni quest’ultima si
identificherebbe integralmente con la metafisica. Ma che cos’è, nella sua
essenza, la metafisica? È la scienza che indaga i princìpi primi e gli enti in
quanto enti e che, per farlo, si spinge al di là dei limiti dell’esperienza
sensibile. Scopo fondamentale della metafisica, allora, è il tentativo di
rinvenire e di spiegare la struttura universale e oggettiva delle cose che
sono: essa si nasconderebbe al di là dell’apparenza dei “fenomeni”, ossia –
letteralmente – delle cose che appaiono, mostrandosi ai sensi. Se le scienze
particolari si occupano di singoli e parziali settori del reale, secondo
prospettive e metodi specifici, la metafisica, dal canto suo, ha per oggetto le
strutture fondamentali di tutto ciò che è e, dunque, dell’essere in generale,
inteso nella sua dimensione più universale e tale da poter essere colta non
con i sensi, bensì con l’intelletto.
Sotto questo profilo esiste un rapporto strettissimo tra la metafisica e
l’ontologia, ossia la scienza che studia “l’essere” (in greco, tò on) in quanto
tale. Prova ne è che la domanda fondamentale a cui entrambe provano a
dare risposta è la medesima: perché l’essere anziché il nulla? È, a tal
riguardo, di grande interesse richiamare la genesi della parola metafisica:
che nasce soltanto nel I secolo a.C., per ragioni che oggi diremmo
puramente editoriali. Infatti, fu Andronico di Rodi, nel catalogare le opere
di Aristotele, a impiegare per la prima volta l’espressione: la utilizzò per
riferirsi a metà tà fysikà, ossia alle “cose che vengono dopo quelle fisiche”.
Con tale formula, Andronico si riferiva ai libri aristotelici che, secondo la
successione da lui scelta per la catalogazione, venivano dopo rispetto a
quelli dedicati alla fisica. Per questo, il testo da cui nasce la metafisica
occidentale, ossia la Metafisica di Aristotele, propriamente non fu mai
scritto come libro in sé compiuto dal suo autore, ma pubblicato con quel
nome da Andronico, con intenti puramente editoriali. Da subito
l’espressione metà tà fysikà prese a indicare, per estensione, “le cose al di là
di quelle fisiche”: in effetti, la parola greca metà vuol dire sia “dopo”, sia
“al di là”.
L’espressione, come dicevo, è riferita tradizionalmente ad Aristotele, ma
è già nel suo maestro Platone che troviamo i fondamenti stessi del pensare
metafisico che accompagnerà stabilmente l’Occidente. Nel Fedone, Platone
ammette espressamente che, per rendere conto delle cose che sono e che
appaiono, occorre compiere la “seconda navigazione”, ossia quella che i
marinai intraprendono quando il mare è piatto ed è necessario remare:
mediante tale navigazione, si perviene al “mondo delle idee”, ossia ai
paradigmi immutabili, alla realtà più vera. Essi possono essere colti solo
dalla mente: danno forma e struttura alle realtà sensibili, che esistono nella
misura in cui imitano quei modelli (il cavallo sensibile, ad esempio, è tale
perché partecipa dell’idea immutabile del cavallo, imitandola nell’elemento
sensibile).
Con la modernità, Epicuro, il rapporto con la metafisica si fa più
problematico: e ciò soprattutto in ragione del fatto che le scienze empiriche,
soprattutto a partire da Galileo e da Newton, tendono a porsi come la forma
suprema di sapere. A tal riguardo, sarà Kant, nel Settecento, a ridefinire la
filosofia come scienza dell’esperienza sensibile, negando ogni legittimo
valore conoscitivo alla metafisica e al suo oltrepassamento del sensibile.
Non intendo, ora, ripercorrere la storia della metafisica da Platone a
oggi. Mi limito, tuttavia, a segnalare come in Kant vi sia, forse, il segreto
per comprendere quella che vorrei definire l’ineliminabilità della
metafisica. Per un verso, infatti, Kant sostiene che solo il sapere empirico,
sul modello newtoniano, è autenticamente valido. Per un altro, però, egli
stesso ammette che la tensione verso la metafisica e quella verso il sapere
della totalità che sfugge all’esperienza (Dio, anima, mondo, princìpi primi
ecc.) sono connaturate all’essere umano. È proprio questo il punto, Epicuro.
Io ritengo che l’uomo sia, per sua essenza, un animale metafisico: e che –
usando Kant contro Kant – egli non possa mai rinunciare alla tensione verso
la totalità e verso le essenze che sfuggono al sapere legato all’esperienza.
Finché vi sarà l’umanità, dunque, vi sarà anche la metafisica.
59
Divenire

Caro Epicuro,
tutto è immerso nel divenire. Non v’è nulla che a esso si sottragga.
Anche io, mentre ti scrivo, divengo. Ed è per questo che ho scelto di
dedicare al tema del divenire la lettera che ti sto indirizzando. Fin dalle
origini greche del filosofare, il divenire è concepito in antitesi con l’essere.
Se l’essere è concepito come immutabile e sempre uguale a se stesso, il
divenire ha a che fare con la trasformazione e con il mutamento, con il
transito da una condizione a un’altra. La scuola eleatica fondata da
Parmenide di Elea riteneva impossibile il divenire: esso – argomentava
Parmenide – comporterebbe un indebito e logicamente contraddittorio
passaggio delle cose dall’essere al non essere: ma poiché, per definizione,
l’essere è e non può non essere, il divenire stesso sarebbe impossibile. Esso
riguarderebbe solo la sfera ingannevole dei sensi: i quali registrano il
nascere, il morire e il mutare incessante degli enti. In maniera opposta,
Eraclito di Efeso ravvisa nel divenire l’essenza stessa del reale: panta rei,
“tutto scorre”, asserisce Eraclito (o, se non direttamente lui, qualche suo
allievo di stretta osservanza).

«Il sole è nuovo ogni giorno.»

(frammento da) ERACLITO

Platone, per parte sua, trova una sintesi tra Parmenide ed Eraclito: e
ammette che la dimensione dell’essere che è e non può divenire riguarda le
idee, ossia la realtà più alta, che può essere colta solo con gli occhi
dell’intelletto. La sfera del sensibile, invece, è connessa agli enti che
divengono, ossia che nascono, crescono e periscono.
Con la sua usuale precisione, Aristotele confuta la tesi di Parmenide
mediante la coppia di “potenza” e “atto”: tutto ciò che è in atto, deve prima
essere stato in potenza. Così il seme è un fiore in potenza, e il fiore
sbocciato ha portato all’atto le potenzialità racchiuse nel seme. Il divenire,
così inteso, non riguarda il transito dal non essere all’essere, ma da una
condizione di potenza a una di atto, sempre rimanendo nell’ambito
dell’essere.

«[...] Una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui essa è detta aver potenza
non implica alcuna impossibilità. Faccio un esempio: se uno è in potenza a sedersi e
può sedersi, quando dovrà realmente sedersi, non avrà alcuna impossibilità a farlo.»

ARISTOTELE

Su queste basi, Aristotele individua differenti forme del divenire: vi è,


anzitutto, il divenire come generazione e corruzione, ossia riferito alla
sostanza (noi stessi, Epicuro, nasciamo e moriamo, divenendo). Vi è, poi, il
divenire come alterazione, cioè il divenire secondo la qualità (i capelli che,
da neri che erano, si fanno canuti). Vi è, ancora, il divenire come aumento e
diminuzione, ossia il divenire secondo la quantità (quando si ingrassa o si
dimagrisce, ad esempio). Infine c’è il divenire come traslazione, ossia
secondo il luogo (quando, ad esempio, da Atene ci spostiamo a Sparta).
Secoli dopo, nel XIX secolo, Hegel, nella sua Scienza della logica,
recupererà la posizione di Eraclito: e ammetterà che la verità dell’essere è il
divenire. L’essere, infatti, è un qualcosa di totalmente indeterminato e
indefinito: che, per ciò stesso, trapassa nel proprio opposto, il nulla. La
verità dell’essere e del nulla è, dunque, questo movimento che consiste
nello sparire di ciascuno nel proprio opposto: la loro verità è, in altri
termini, il divenire. Così intesa, sulle orme di Hegel, la realtà è
contraddittoria: è e, insieme, non è, perché diviene. Ogni ente è allora
contraddittorio, proprio in ragione del fatto che, divenendo, è e, insieme,
non è se stesso: la sua verità sta nel superarsi in altro e dunque, divenendo,
nel non essere più se stesso.
Il fatto che la realtà divenga senza posa, Epicuro, vuole dire che l’essere
è divenire: e, se dal piano dell’essere ci spostiamo a quello delle umane
vicende, ciò significa che la realtà è storia, mutamento e trasformazione.
Occorre tenerlo a mente, Epicuro, soprattutto quando – come oggi – in
molti sostengono che la nostra realtà non può essere altrimenti rispetto a
quella che è: essi sbagliano perché trascurano che il reale è, per sua essenza,
divenire; e che, dunque, la storia non può finire mai. Almeno finché
esisteranno il reale e il mondo vi sarà anche la storia, cioè il divenire. E il
presente, così com’è, non potrà dirsi immodificabile e definitivo.
60
Globalizzazione

Caro Epicuro,
non vi è oggi parola più diffusa di “globalizzazione”. Ne parlano i
giornali e le televisioni, gli studiosi e i non addetti ai lavori. Si tratta,
insomma, di uno dei vocaboli più utilizzati nel tempo da cui ti scrivo.
Eppure, come spesso accade, quanto più il termine è impiegato, quasi fino a
farsi logoro, tanto più è inesplorata la sua essenza: chi, davvero, si domanda
che cosa sia la globalizzazione, o mondializzazione, come spesso è
chiamata? Chi ha il coraggio di interrogarsi sulla sua più intima essenza?
Accade, così, che il termine – per riprendere una importante distinzione di
Hegel – finisce per essere “noto”, ma non “conosciuto”: tutti lo impiegano,
pochi sanno quale sia realmente il suo contenuto concettuale. In estrema
sintesi, credo che si possa intendere la globalizzazione come il processo di
unificazione del mondo: cioè come la dinamica in forza della quale ogni
angolo del pianeta entra a fare parte di un’unica rete interconnessa. E, in
questo modo, prende parte in tempo reale alla storia del mondo, che si fa
unitaria e simultanea: è grazie alla globalizzazione, ad esempio, che noi,
dall’Italia, sappiamo immediatamente quel che accade in Giappone; ancora,
è per via della mondializzazione che quanti vivono in America possono
assistere, in tempo reale, davanti allo schermo del loro televisore, a un
concerto che avviene a Berlino.
Insomma, il mondo globalizzato è quello in cui si accorciano le distanze
e ogni evento finisce per avere una portata che supera le barriere spaziali
del paese, della nazione o della città in cui avviene. L’immagine che, forse,
caro Epicuro, esprime al meglio la natura della mondializzazione è quella
della rete internet, il cui “www” (World Wide Web) allude, per l’appunto, a
una rete estesa quanto il pianeta e, dunque, tale da avvolgere il mondo
intero, ponendo in connessione diretta ogni sua parte.
Sotto questo profilo, credo si potrebbe verosimilmente concepire la
mondializzazione come un avvicinamento di ciò che è distante, che,
tuttavia, genera in pari tempo un distanziamento di ciò che è vicino. Cosa
intendo con questa espressione, che forse a tutta prima potrà apparire
misteriosa? Alludo al fatto che, nel mondo globalizzato, ciò che accade
nella strada sotto casa finisce, paradossalmente, per essere saputo e
percepito con la stessa vicinanza, se vogliamo dire così, di quanto avviene a
Pechino o a Madrid. Come ricordavo poc’anzi, si accorciano le distanze e si
produce quella che vorrei chiamare una “compressione spazio-temporale”:
tutto ciò che accade, a prescindere dalla distanza reale, è in simultanea,
quasi come se venissero annullate le distanze e i tempi. Basti ricordare,
Epicuro, che un tempo perché a Roma si sapesse quel che era accaduto a
Parigi occorrevano intere settimane: la distanza comportava tempi dilatati
nella trasmissione delle informazioni.
In che senso, però, la mondializzazione, avvicinando il distante,
allontana il vicino? Sta in ciò, credo, uno degli aspetti più inquietanti della
globalizzazione, i cui lati positivi (connessione planetaria, annullamento
delle distanze, facilità negli spostamenti e nelle comunicazioni ecc.) non
debbono indurci a perdere di vista gli aspetti negativi. Tra questi ultimi vi è
anche, e non in posizione secondaria, il fatto che il mondo globalizzato
tende a omologare il pianeta, generando la perdita delle tradizioni e delle
identità, ossia di quelle realtà che, storicamente, ci sono più vicine. Il
giovane di Napoli, ad esempio, finisce per sentirsi vicino nel tempo e nello
spazio al cantante di Montreal e, insieme, matura indifferenza e lontananza
rispetto alle usanze e alle tradizioni della sua città. Per questo, Epicuro, il
mondo unificato finisce anche per produrre un piano di indistinzione
generale, nel quale si annulla la ricchezza delle differenze e delle culture e
prevale un modello unico, conformistico e indistinto, tale e quale da Roma
a Sydney, da Lisbona a Caracas. Forse sta proprio qui, Epicuro, la sfida per
il futuro: provare a beneficiare dell’avvicinamento del distante, senza
cedere al distanziamento del vicino.
61
Cura

Caro Epicuro,
è del concetto di cura che ho deciso di scriverti. E lo farò a partire da un
antico mito, che viene narrato dallo scrittore Igino nelle sue Favole. Un
giorno, nel tentativo di guadare un fiume, l’attenzione della dea Cura venne
attratta dal fango argilloso. Pur con qualche incertezza, Cura prese a
modellare il fango, traendone la figura di un uomo. Fu allora che
sopraggiunse Giove: la dea lo pregò di infondere nella scultura plasmata lo
spirito vitale. E il padre degli dèi soddisfò la sua richiesta. Cura avrebbe, a
quel punto, voluto attribuire il proprio nome all’essere appena creato, ma
Giove si oppose: il padre degli dèi rivendicava a sé il diritto di scegliere il
nome. Ne nacque una disputa, che si complicò ulteriormente quando giunse
la Terra: anch’essa accampava la pretesa di dare il nome all’ente creato. Sua
era, infatti, la materia con cui era stato forgiato. A risolvere la diatriba
pensò Saturno, che provò ad accontentare tutti i contendenti. A Giove, che
aveva infuso lo spirito, sarebbe toccato, alla morte di quell’essere, di
rientrare in possesso dell’anima. Alla Terra, della cui materia l’essere era
composto, sarebbe tornato il corpo dopo la morte. E a possederlo durante
tutta la vita sarebbe stata la Cura, la prima a plasmarlo. Il nome, invece, non
sarebbe toccato a nessuno dei tre contendenti: l’essere si sarebbe, infatti,
chiamato “uomo”, in quanto generato dall’humus, dal “fango”. Ti ho
raccontato questo mito, caro Epicuro, non solo perché, come ricorda
Aristotele, il narrare miti è, in un certo senso, filosofico, ma anche perché
esso getta luce sulla nostra umana condizione: per tutta la vita siamo
letteralmente posseduti dalla cura o, meglio, da quella figura che vorrei
esprimere con la locuzione “prendersi cura”. Il nostro rapporto con il
mondo e con gli altri è sempre un “prendersi cura”, un partecipare
affettivamente all’esistenza.
A differenza delle cose, che semplicemente sono, noi umani ci
progettiamo e ci rapportiamo al mondo dandogli un significato: ci
prendiamo cura di esso. Non siamo, di conseguenza, indifferenti rispetto a
quel che accade, ma siamo sempre parti in causa. Ciascuno di noi, Epicuro,
è fin da quando viene al mondo “con” gli altri e dunque aperto “verso” gli
altri. Non esistiamo, cioè, come enti isolati e chiusi in noi stessi: l’essere
umano è sempre parte di un mondo popolato da oggetti e, soprattutto, da
soggetti, cioè da persone che interagiscono non in modo accidentale e
fortuito, ma in base alla loro essenza.
Come ci insegna la sapienza di voi greci, l’uomo è per natura
comunitario e socievole, “politikòn”: esiste nelle relazioni intersoggettive,
senza le quali semplicemente non sarebbe. Ora, nel suo significato più
ampio, la relazione o, meglio, l’interazione attiva tra noi e il mondo, tra noi
e le cose e, soprattutto, tra noi e i nostri simili può, a giusto titolo, definirsi
con l’espressione “prendersi cura”. Prendersi cura – di qualcosa, di
qualcuno – vuol dire non essere indifferenti alla sua presenza e alla sua
sorte, ma parteciparne anzitutto affettivamente. Per questa ragione,
potremmo ancora sostenere che il prendersi cura è quella relazione
originaria che l’uomo fisiologicamente instaura con gli oggetti utilizzabili
nel suo ambiente vitale e con le persone che popolano il suo mondo.
L’epoca odierna, caro Epicuro, tende a rimuovere la dimensione della
cura di cui ti ho appena esposto i tratti essenziali. E favorisce in ogni modo
una sorta di indifferenza generalizzata, che tutti induce a vivere alla stregua
di atomi isolati e senza relazioni o, come avrebbe detto il filosofo Leibniz,
di “monadi senza finestre”. In luogo della figura del prendersi cura prevale,
così, l’egoismo di chi ha interesse solo per sé, avvertendo tutto il resto –
cose e persone – come estraneo e indifferente.

«La monade non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice,
cioè senza parti. E debbono esserci sostanze semplici, poiché ve ne sono di composte; il
composto non essendo altro che un ammasso o aggregatum di semplici. Ora, laddove
non ci sono parti, non c’è estensione, né figura, né divisibilità possibili Queste monadi
sono i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose. [...] Così si può
affermare che le monadi non possono cominciare né finire, cioè, che possono
cominciare solo per creazione e finire per annientamento: mentre ciò che è composto,
comincia o finisce per parti. Le monadi non hanno finestre attraverso le quali qualcosa
possa entrare o uscire.»

G. LEIBNIZ

È per questo, forse, che nel lessico del tempo presente la parola “cura”
tende a essere ricondotta solo alla sua accezione medica e tecnica del
“curare”, quasi si trattasse di una operazione meccanica e sciolta da quella
relazione affettiva che, come dicevo, è parte essenziale del prendersi cura.
62
Pregiudizio

Caro Epicuro,
ti scrivo oggi a proposito di un tema che mi pare molto importante. Esso,
pur ampiamente dibattuto in filosofia, riguarda come pochi altri la vita di
tutti, compresi coloro i quali non si sono mai avvicinati alla filosofia come
pratica del pensare. Il tema in questione è quello del pregiudizio. Qual è la
sua essenza? Che cos’è, per definizione, un pregiudizio? La parola deriva,
come spesso accade, dal latino (prae e iudicium) e, segnatamente, allude a
un giudizio formulato prima. Prima rispetto a cosa? Prima rispetto a un
riscontro fattuale. In altri termini, il pregiudizio è un giudizio che il
soggetto formula ancor prima di aver realmente conosciuto, mediante
osservazione, l’oggetto in questione: quest’ultimo viene giudicato, appunto,
prima di essere realmente conosciuto. Ciò accade perché il soggetto
giudicante o, meglio, “pre-giudicante” esprime la propria visione sul
fondamento di preconcetti, di idee pregresse e, più in generale, di una
visione che si è già formato, o che gli è stata trasmessa. Mediante
quest’ultima, egli si sente in grado di valutare l’oggetto senza neppure
doverlo conoscere quale realmente è. Il pregiudizio, dunque, allude a una
opinione o a una visione che si è formata sul fondamento di convinzioni
personali, dunque in assenza di una conoscenza diretta dei fatti, delle
persone, delle cose.
La conseguenza è che la valutazione dell’oggetto risulta fortemente
condizionata: a tal punto che spesso, quand’anche l’oggetto realmente
appaia diverso rispetto al preconcetto, la forza di quest’ultimo prevale
comunque. E noi seguitiamo a pensare che l’oggetto sia conforme al nostro
pregiudizio, sebbene quest’ultimo sia stato smentito dalla realtà dei fatti. È
in questa accezione che, ad esempio, la lingua italiana impiega
l’espressione “avere pregiudizi nei riguardi di qualcuno”.
Quante volte, nella storia, il pregiudizio ha imposto la sua dittatura!
Quante volte esso ha saputo tragicamente resistere alle pur evidenti
smentite della realtà dei fatti! Vi è, qui, la determinazione morale del
pregiudizio: tale è il caso in cui, ad esempio, si attribuiscono
pregiudizialmente a certe categorie di persone determinate prerogative, non
sulla base di una reale conoscenza, bensì, appunto, sul fondamento di una
visione preconcetta.
Vi è stata una filosofia che, più di tutte, ha fatto della lotta contro il
pregiudizio la propria bandiera. Tale è la filosofia dell’illuminismo, che
potrebbe anche intendersi come una filosofia contro il pregiudizio: a
quest’ultimo essa contrappone la pura forza di una ragione che sappia
misurarsi con la realtà obiettiva, senza farsi depistare da superstizioni e
fanatismi, che spesso procedono a braccetto con i pregiudizi. La lotta contro
il pregiudizio, in sede morale, è certo giusta e degna di essere riproposta
anche oggi. Quanti pregiudizi sopravvivono ancora, Epicuro, nel tempo
della globalizzazione?
E, tuttavia, non bisogna neppure cadere nell’errore di quello che vorrei
chiamare il pregiudizio contro i pregiudizi. È il tema magnificamente
sviluppato dal filosofo Gadamer in Verità e metodo, con una serrata critica
dell’illuminismo. In sostanza, la tesi di Gadamer è che se è vero che in sede
morale i pregiudizi meritano di essere decostruiti, la questione è
decisamente diversa nell’ambito della conoscenza. La domanda da porre è
la seguente: siamo davvero in grado di fare a meno dei pregiudizi? Non è
forse vero che ogni nostra conoscenza si fonda sempre su un pregiudizio,
ossia su una valutazione che viene formandosi ancor prima di entrare in
contatto con l’oggetto conosciuto? Sotto questo profilo, argomenta
Gadamer, i pregiudizi risultano insopprimibili. Forse potremmo sostenere
che il pregiudizio ha una sua valenza conoscitiva: se la realtà fattuale lo
conferma, occorre mantenerlo. Ma se lo confuta, occorre – questo il punto –
sapersene liberare. Forse è questo, Epicuro, il corretto rapporto che
dovremmo riuscire a intrattenere con i pregiudizi. Liberarcene
completamente è impossibile, ma non lasciare che ci conducano in errore è
doveroso.
63
Scelta

Caro Epicuro,
è sul tema della scelta che desidero oggi richiamare la tua attenzione.
Che cosa significa, realmente, scegliere? E qual è l’importanza della scelta
nella nostra vita? Se dovessi tentare di delineare una definizione, sosterrei
che la scelta è l’atto in cui si determina la nostra libertà: essere liberi vuol
dire essere liberi di scegliere. E, a sua volta, scegliere significa prendere
posizione al cospetto di due o più opzioni che abbiamo davanti. Significa,
più precisamente, volerne una, escludendo le altre: e ciò sul fondamento
della convinzione soggettiva che l’opzione per la quale propendiamo sia
preferibile rispetto alle altre e, di conseguenza, più degna di essere seguita.
Sotto un certo profilo, Epicuro, non solo la nostra libertà si manifesta come
ininterrotta sequenza di scelte, mediante le quali optiamo per una possibilità
rinunciando ad altre: mi spingerei ad asserire che il nostro esistere coincide
con la serie di scelte sempre nuove alle quali siamo chiamati. Con una
formula: esistere è scegliere.
Era in questo senso che Antonio Gramsci, nel Novecento, poteva
sostenere che esistere vuol dire essere “partigiani”, cioè essere di parte,
posizionandosi e optando per una possibilità. L’indifferente è colui che non
sceglie e che, così facendo, non esiste, né esercita la libertà che pure, in
quanto essere umano, caratterizza essenzialmente il suo essere al mondo. Il
fatto che il nostro esistere sia libertà e scelta – o, se si preferisce, libertà di
scelta – comporta una conseguenza che merita di essere sottolineata: la
nostra esistenza è il risultato finale delle scelte che abbiamo fatto e,
insieme, delle possibilità che abbiamo escluso, ora con fermezza, ora con
qualche esitazione, ora con dubbi dolorosi.
La vita tutta, Epicuro, si presenta come un costante aut aut: “o A o B (o
C o D ecc.)”. Ed è al cospetto delle scelte obbligate, con tutte le
conseguenze che ne scaturiscono, che proviamo il senso della paura e del
dolore, dell’incertezza e dell’inquietudine. Poiché scaturisce dalla libertà, la
scelta comporta infatti responsabilità: rimanda, dunque, a conseguenze che
non sono fatali, ma che, al contrario, dipendono dalle scelte che siamo noi
in prima persona a compiere. Vi sono scelte facili, certo: che compiamo
quasi con spontanea certezza. Ma ve ne sono di complicatissime, che ci
costano dolore e patimento: sulle quali, prima di riuscire a prendere una
decisione, ci tormentiamo a lungo, sconvolti al pensiero delle conseguenze
che potrebbero derivarne o, spesso, terribilmente turbati all’idea che non
siano le scelte giuste.
Non solo la nostra vita quotidiana è fatta di scelte o, più precisamente, è
la serie delle nostre decisioni: la storia stessa, come inesauribile attività del
genere umano, dipende da scelte, spesso decisive, spesso tragiche, talvolta
salvifiche. Potremmo, a questo riguardo, provare a sollevare delle questioni
sul tema della storia, anche se, come sappiamo, gli storici ci ricordano che
la loro materia non si fa con i “se” e con i “ma”: cosa sarebbe accaduto, ad
esempio, se Cesare non avesse scelto di varcare il Rubicone? E se il pilota
che sganciò la bomba atomica avesse scelto di non farlo? Quali
conseguenze sarebbero scaturite da una diversa scelta di Cristoforo
Colombo?
La società in cui vivo, Epicuro, intrattiene un rapporto davvero
particolare e, a tratti, contraddittorio con la scelta. Per un verso, la celebra
senza posa: e ci invita, anche in stile pubblicitario, a fare le nostre scelte.
Per un altro verso, tende a svilire la scelta a una finta possibilità di decidere:
che senso ha, in effetti, la scelta, quando si può scegliere tra realtà che
paiono differenti ma che, in realtà, sono le stesse? La scelta ha senso
compiuto solo se riguarda possibilità diverse. Ma la società odierna tende,
nell’atto stesso con cui celebra la scelta, a neutralizzarla: la trasforma in
finta scelta tra marche diverse, reclamizzate dalla pubblicità, ma che
ugualmente esprimono l’essenza del consumismo in cui siamo immersi. È
in questi casi, Epicuro, che forse emerge una verità profonda della scelta: la
vera scelta, in molti casi, sta nel sottrarsi alla scelta obbligata tra A e B e nel
provare a immaginare possibilità diverse, che tendono a essere nascoste.
64
Patria

Caro Epicuro,
è intorno al concetto di patria che ho deciso di scriverti questa lettera. E
vorrei partire da un passaggio del Critone, il celebre dialogo nel quale
Platone narra della prigionia di Socrate e del suo rifiuto di accettare l’offerta
di evasione procuratagli da chi voleva salvarlo dall’ingiusta condanna a
morte. Socrate, che pure è innocente, rifiuta l’invito. E per spiegarlo agli
amici increduli racconta di come gli siano apparse le Leggi della città sotto
sembianze umane. Esse l’hanno esortato a non violare la legge, seppure
ingiusta: tu, Socrate, sei figlio della tua patria – così gli si sono rivolte le
Leggi – e non puoi, dunque, tradire colei alla quale tutto devi. Senza la
patria, non saresti nulla, seguitano le Leggi. Ed è per questo che Socrate ha
scelto di non evadere e di sottoporsi alla condanna a morte. Il passaggio
merita attenzione, Epicuro, perché rivela un aspetto degno di nota: gli
individui e i popoli non hanno solo un padre materiale, che li ha generati;
accanto a lui, sono anche figli di un padre più grande, se così vogliamo dire,
dal quale dipende la loro stessa esistenza. E questo padre è la patria, che –
seguendo l’insegnamento di Socrate – merita rispetto e i massimi onori. Da
lei siamo stati generati e a lei rimanda la nostra provenienza storica. Non
potrebbero esservi i popoli, in effetti, se non vi fossero le patrie.
Così intesa, Epicuro, la patria è quel luogo storico, legato alla materialità
del territorio e dei suoi confini e, insieme, alla spiritualità delle tradizioni e
della lingua, da cui proveniamo come popoli e come individui. Già nel
vocabolario greco, il termine “patria” rinvia direttamente alla figura del
“patèr”, cioè del padre: e, in quanto “terra dei padri”, allude, di
conseguenza, a quell’ambito territoriale, tradizionale e culturale, al quale si
riferiscono le esperienze affettive e culturali, morali e politiche
dell’individuo e del popolo di cui è parte.
La patria, Epicuro, ha a che fare con il radicamento, ossia con le radici:
avere una patria non vuol forse dire avere delle radici? Non significa,
ancora, essere “legati” a un luogo, insieme materiale e immateriale? Il
concetto di “nazione”, per quanto diverso, non rinvia al “padre”, ma, in
maniera convergente, all’esperienza del “nascere” e, dunque, a un legame
con la provenienza.
Ora, è evidente, Epicuro, che ogni popolo e ogni individuo hanno una
loro patria d’origine. Ma questo non deve diventare il pretesto, come pure
purtroppo in passato è stato, per imporsi in nome della patria sulle patrie
altrui. Il vero patriota, anzi, è colui che ama la propria patria e che, per
estensione, rispetta le patrie altrui. Per questo motivo, mi pare fuorviante la
contrapposizione tra cosmopolitismo e patriottismo, tra l’amore per il
mondo e l’amore per la patria: il vero cosmopolita ama il mondo nella
misura in cui è in grado di amare la sua patria, ossia quella determinata
sfera di mondo in cui è collocato e con cui ha concretamente a che fare. Mi
pare egualmente falso sostenere che è libero chi non ha patria ed è cittadino
del mondo: in molti casi, costui si definisce cittadino del mondo perché è
costretto a essere sradicato e senza patria. Penso, ad esempio, a quanti sono
costretti ad abbandonare le proprie terre per via delle guerre o della miseria
o, sempre più spesso, ai giovani di oggi, condannati a girare il mondo per
trovare lavoro. Dico, dunque, in conclusione, che amare la patria non deve
mai significare odiare le patrie altrui: ogni popolo e ogni individuo hanno
diritto alla loro patria. Quest’ultima, peraltro, è stata usata in passato, è
vero, come strumento di guerra e di violenza (il Novecento ne offre tristi
esempi): ma non è tale per sua essenza. Basti qui ricordare, Epicuro, che
nello stesso Novecento la patria è stata impiegata come vettore di
emancipazione da parte dei popoli oppressi, che in nome della patria si sono
opposti alle invasioni straniere imperialiste. Il motto del popolo cubano era,
ad esempio: “patria o muerte”, “patria o morte”.
65
Mito

Caro Epicuro,
hai mai riflettuto sulla potenza espressiva del mito? A come, mediante i
racconti mitici, si apra uno spazio di senso che, in molti casi, è più esteso e
ospitale rispetto a quello proprio della ragione? È forse anche per questo
motivo che, nel testo a noi noto come Metafisica, Aristotele scrive che, in
fondo, anche chi usa i miti è, in un certo senso, filosofo. Ma che cos’è il
mito? Qual è la sua reale valenza conoscitiva? In termini generali, e
necessariamente incompleti, il mito è una narrazione che, avvolta da un
alone di sacralità e di mistero, spiega le origini del mondo o il modo in cui
esso e le creature che lo popolano hanno raggiunto la loro forma presente.
Assai spesso, le vicende descritte nei racconti mitici si svolgono in
un’epoca che precede la storia scritta e sono oggetto di una fede che sfugge
alla presa della ragione. Penso, ad esempio, alla ricchissima pluralità di miti
prodotti dalla cultura greca in riferimento alla nascita degli dèi dell’Olimpo.
Senza alcuna pretesa di esaustività, Epicuro, potremmo definire tre tipi
diversi di mito: i miti “cosmogonici”, che spiegano la genesi del mondo,
secondo il modello della Teogonia dell’antico Esiodo. Ci sono poi i miti
eziologici, quelli che narrano le cause che hanno prodotto certe situazioni
(nomi, riti ecc.). Infine abbiamo i miti storici, che rendono ragione di eventi
storici come, tra gli altri, la fondazione di Roma.
Ora, la nostra cultura si fonda, generalmente, su un presupposto che, a
mio giudizio, può essere oggetto di una discussione critica. Si ritiene,
infatti, che tra la dimensione del mito e quella della ragione vi sia una
strutturale eterogeneità: una eterogeneità tale per cui ciò che il mito dice
non può essere accettato dalla ragione, che opera con il concetto. Il vero
conoscere è conoscere per cause (verum scire est scire per causas), dice la
ragione: e il mito, dal canto suo, si sottrae a questo ragionamento perché
legge con la fantasia eventi originari, sui quali la ragione non può dire
alcunché.
La cultura moderna, figlia della “rivoluzione scientifica” e della ragione
calcolante, pensa, in altri termini, che il mito sia una forma conoscitiva
inadeguata, propria di una fase non ancora matura del genere umano. Una
volta che quest’ultimo sia “cresciuto” e passato alla maggiore età, non ha
più bisogno – si dice – del mito: e deve avvalersi soltanto della ragione, il
solo strumento appropriato di un conoscere che procede causalmente. Ma
siamo davvero sicuri, Epicuro, che le cose stiano in questo modo? Esiste
davvero, tra mito e ragione, un rapporto di inimicizia e, insieme, di
“superamento”, tale per cui la ragione sarebbe l’oltrepassamento del mito a
opera di un’umanità finalmente matura? A me sembra, Epicuro, che la
questione debba essere impostata diversamente: il mito, che non può essere
ridotto allo spazio della ragione, si concentra su un orizzonte di senso nel
quale la ragione e il concetto possono operare pienamente. Non c’è dunque,
opposizione, ma complementarietà: la sfera inconcettuale del mito permette
alla ragione di dispiegarsi nel modo migliore, fornendo una cornice di senso
senza la quale il concetto non potrebbe esprimersi.
Il mito dunque, Epicuro, non può essere rimosso, perché altrimenti
occorrerebbe prendere congedo anche dalla ragione. Voglio provare a
chiarire questo punto con un richiamo alla figura del divino Platone. Come
sappiamo, egli conduce una serrata lotta contro i “mitopoieti”, ossia contro
gli elaboratori dei miti: nella “città giusta” il mito e la poesia, per Platone,
debbono essere messi al bando. Solo la ragione e il concetto possono
trovarvi piena e legittima cittadinanza. Eppure – quale paradosso! – lo
stesso Platone, che vuole prendere le distanze dal mito, continuamente lo
utilizza nei suoi dialoghi. Mi spingo, anzi, a sostenere che egli, quando deve
spiegare passaggi teorici nodali della sua filosofia, ricorre a miti: il mito
della biga alata per decifrare l’essenza dell’anima, il mito della caverna per
rendere conto della nostra umana condizione, e così via. Perché, Epicuro?
Credo che questo dipenda da quanto dicevo: non possiamo fare a meno dei
miti. Ne ha bisogno, paradossalmente, la nostra stessa ragione.
66
Serenità

Caro Epicuro,
la nostra vita mi pare simile a un vascello in balia di sempre nuove
tempeste. Aspirerebbe a porti sicuri e a una condizione di bonaccia e,
invece, è condannato a mari tempestosi e a una condizione di perpetua
incertezza. A questo stato di turbamento tu hai dato il nome di “taraché”,
che letteralmente vuol dire “sconvolgimento”, “scompiglio”. Come fare,
allora, a superare questa condizione e a trovare spazi di serenità? E che
cos’è, nella sua essenza, la serenità? La risposta che tu hai fornito, Epicuro,
mi pare convincente e calzante anche per la mia epoca, che ha moltiplicato
esponenzialmente il turbamento e il senso generale di precarietà. La
soluzione, in effetti, è racchiusa nel vocabolo che hai scelto per indicare la
serenità: “atarassia”, che letteralmente indica una condizione di privazione
e potrebbe con diritto tradursi con la formula “assenza di turbamento”. La
serenità non coincide, secondo la tua analisi, con la conquista di tesori
perduti o con il raggiungimento di fini imponderabili. È, semplicemente,
legata alla nostra capacità di liberarci dal giogo del turbamento che sempre
attanaglia la nostra esistenza, rendendola angosciosa e insicura, precaria e
tormentata.
Ciò che tu suggerisci è, in effetti, semplice e, insieme, rivoluzionario:
per essere sereni, basta liberarsi dai tormenti; per essere felici, è sufficiente
raggiungere la condizione di pace e di armonia con se stessi e con il mondo
circostante. La condizione di serenità, dunque, è anzitutto legata a una
situazione di pace e di stabilità: per riprendere la metafora nautica
precedentemente impiegata, occorre fare sì che la nostra navicella, anziché
cercare sempre nuove isole e lontane conquiste, sappia accontentarsi di ciò
che ha, facendo del limite e della misura parametri fondamentali
dell’esistenza. Serena, dunque, non è la barca che solca sempre nuovi mari
e che, approdata a un porto, subito intraprende nuove rotte in vista di
destinazioni sconosciute e lontane. Al contrario, sarà atarassico il vascello
che saprà prendere la via del mare, se necessario; e che, con eguale
fermezza, sarà in grado di godere del porto in cui è attraccato, senza fare
della propria navigazione un’inquieta ricerca di novità incessanti.
La vera serenità, Epicuro, è come la quiete che subentra dopo la
tempesta: prendo in prestito da te questa splendida metafora. E più di ogni
altro, a tuo dire, è questo l’autentico compito del filosofare: porsi come
farmaco dell’anima, che sappia liberarla da paure e turbamenti, rendendola
quieta e consapevole della finitudine che intrinsecamente siamo, in quanto
mortali. Apprendere a godere di quel che abbiamo, evitando la funesta
rincorsa del sempre-di-più che pure caratterizza l’esistenza di molti di noi.
Il povero – dici bene, Epicuro – non è chi ha poco, ma chi vuole sempre di
più. La sua anima è un vascello che mai trova un porto sicuro e che sempre
è sospinto, con tormento, di burrasca in burrasca.
Quanti sono, Epicuro, ancora oggi coloro i quali conducono in modo
inquieto la loro esistenza? Li vedi correre scompostamente, con volti
turbati, come se mancassero sempre di quell’elemento in grado di placare la
loro ininterrotta fuga in avanti. E, intanto, la vita scappa loro di mano. Se
solo sapessero fermarsi e meditare, riscoprendo la grande verità di cui ci hai
fatto dono, Epicuro: nulla è più semplice, per l’essere umano, che
raggiungere la serenità, se solo saprà trovare l’equilibrio che scaturisce
dalla giusta distinzione tra il necessario, il superfluo e il nocivo.
67
Virtù

Caro Epicuro,
desidero oggi scriverti intorno al concetto di virtù. Esso mi pare della
massima importanza, perché senza virtù la nostra vita smarrisce il suo pieno
significato. Chi potrebbe dirsi pienamente realizzato, nella sua esistenza, in
assenza dell’agire virtuoso? Nella sua accezione più larga, la virtù, che voi
greci appellate “areté”, allude alla disposizione dell’animo volta al bene e,
insieme, alla capacità, per un individuo, di eccellere in un ambito specifico.
La scena originaria della virtù, per gli antichi, doveva essere il campo da
battaglia, sul quale il combattente doveva mostrare il proprio valore
sfidando senza timore la morte: di ciò conserva una traccia chiarissima la
parola latina “virtus”, dalla quale deriva l’italiano “virtù”. Essa rinvia al
“vir”, all’uomo o, più precisamente, all’individuo di sesso maschile. Per
estensione, la virtù riguarda la capacità di eccellere e, con il tempo,
smarrisce la sua connotazione di genere: svincolandosi dal campo di
battaglia, la virtù diventa prerogativa egualmente presente nelle donne e
negli uomini o, meglio, in quanti di loro – a prescindere dal genere –
sappiano agire con valore.
Siete stati voi greci, Epicuro, a fissare per primi non solo il concetto di
virtù in senso proprio, ma anche il sistema di classificazione delle diverse
virtù. Già nei dialoghi di Platone troviamo, perfettamente delineata, la
partizione quadruplice delle virtù: vi è la temperanza, ossia la moderazione
dei desideri. Vi è il coraggio, cioè la forza dell’animo. Vi è, poi, la
saggezza, che è la base di tutte le altre virtù. E, infine, la giustizia, che
riguarda l’equilibrio e l’armonia tra le altre virtù. I cristiani, per parte loro,
manterranno questo sistema, che a partire da sant’Ambrogio sarà detto delle
“virtù cardinali”. Ma lo integreranno con un nuovo e diverso sistema, detto
delle “virtù teologali” (fede, speranza e carità). E se sant’Agostino rigetta
come intrinsecamente false le virtù non cristiane dei greci, san Tommaso
d’Aquino le rispetta e, senza rigettarle, le affianca a quelle propriamente
cristiane. Platone si riferiva genericamente alla saggezza come base per
l’esercizio delle virtù. Aristotele, invece, opera una distinzione assai
accurata. A suo giudizio, la saggezza, o “prudenza”, è una “virtù
dianoetica”, che riguarda cioè la razionalità comune a tutti. Essa ispira la
condotta umana e rende possibile il giusto esercizio delle “virtù etiche”:
queste ultime riguardano l’azione concreta. Dal punto di vista di Aristotele,
la saggezza, e soltanto essa, rende possibile una vita autenticamente
virtuosa ed è, per questo, la condizione primaria perché possa svilupparsi la
sapienza filosofica in senso stretto. Aristotele ripete che i giovani possono
educarsi alla saggezza grazie al supporto dei saggi, dai quali apprenderanno
come l’essenza della virtù sta sempre in un giusto mezzo.
“Nel mezzo sta la virtù” (in medio stat virtus), tradurranno i latini il
concetto aristotelico della “giusta misura” (mesothes): così, ad esempio, il
coraggio è giusto mezzo tra l’ardimento e la viltà. Educandosi alla virtù, il
giovane potrà conseguire con l’abitudine un “abito” spontaneamente
virtuoso: infatti – scrive Aristotele – “la virtù è una disposizione
abitudinaria riguardante la scelta, e consiste in una medietà in relazione a
noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in base al
quale la determinerebbe l’uomo saggio”.
La questione che, a questo punto, si pone è se la virtù possa davvero
essere appresa, come crede Aristotele, o non sia invece congenita: come
dirà don Abbondio nei Promessi sposi, il coraggio, se non lo si ha, non si
può acquisire né apprendere. È una questione importante, Epicuro: in
sintesi, direi che si può, certo, avere una certa predisposizione, che però
chiede di essere sviluppata mediante l’educazione. Ad esempio, si può
avere per natura la predisposizione a essere temperanti: ma per diventarlo,
in concreto, occorre educarsi mediante sforzi e abitudine. Un’altra
questione, non meno rilevante, può così essere formulata: cosa è vivo e cosa
è morto della virtù nel mondo contemporaneo? Il nostro presente, Epicuro,
è un tempo strutturalmente antivirtuoso: esso ha assunto come propria
norma di riferimento quell’assenza di medietà e di misura che è la
negazione stessa dell’idea di virtù. Insegue, nelle sue principali prestazioni
di senso, il mito della crescita infinita e del piacere smisurato, in ciò
contravvenendo ogni insegnamento classico sulla virtù. Per questo, Epicuro,
sono sempre più convinto che nell’etica, come in molti altri ambiti,
dobbiamo ripartire dalla saggezza greca. Ne va della nostra salvezza e della
nostra dignità.
68
Uguaglianza

Caro Epicuro,
è della questione dell’uguaglianza che mi sono risolto a scriverti oggi.
Mi pare, tra tutti, uno dei concetti più importanti della filosofia, anche in
ragione del fatto che riguarda l’etica non meno della politica, la metafisica
non meno dell’estetica. L’uguaglianza, nella sua determinazione più
generale e generica, riguarda la medietà: si dice retta da uguaglianza quella
realtà in cui le parti vantano pari importanza, senza che una o più di esse
prendano il sopravvento sulle altre. Che si tratti, Epicuro, di un concetto
valido in più ambiti ce lo ricorda anche l’antico Democrito, che così scrive:
“l’uguaglianza è bella in ogni cosa: tali non mi sembrano, invece, né
l’eccesso né il difetto”. Ogni ambito, Epicuro, risplende, ove sia illuminato
dall’uguaglianza e, dunque, dalla pari dignità delle parti. È per questo che la
filosofia classica – i Pitagorici come Parmenide – valorizzava con tanta
enfasi la figura della sfera: in essa, ogni parte è egualmente distante dal
centro e vige, conseguentemente, la perfetta armonia tra le parti e l’intero.
L’uguaglianza, dicevo, si applica in ogni ambito e tutto fa risplendere
con la sua luce benigna: nell’arte, ad esempio, l’uguaglianza – che prende il
nome di proporzione – permette a una statua, supponiamo, di apparire
esteticamente bella, perché le sue parti si armonizzano felicemente tra loro.
Nell’etica, poi, l’uguaglianza – che assume il nome di “giusta misura” – fa
sì che l’uomo virtuoso sia egualmente distante dall’eccesso e dal difetto e,
come insegna Aristotele, rispetti sempre il giusto mezzo.
Anche in politica l’uguaglianza si rivela di un’importanza decisiva: la
polis giusta, Epicuro, è quella in cui vige l’uguaglianza. È, cioè, quella in
cui non sono i ricchi a prevalere sui poveri, né il tiranno sulla comunità:
l’uguaglianza fa sì che ogni cittadino venga considerato una parte della
polis di eguale dignità rispetto a tutte le altre. Per questa ragione, Epicuro,
la vera uguaglianza può essere garantita soltanto da una democrazia
pienamente realizzata, ove il “demos”, il “popolo”, abbia il potere di
decidere della propria esistenza. Il medico pitagorico Alcmeone affermava,
a questo proposito, che la polis democratica, retta da uguaglianza, è come il
corpo i cui organi funzionino correttamente: ognuno svolge la sua parte e
gode di pari dignità rispetto agli altri. Al contrario la polis priva di
uguaglianza e di democrazia – quella tirannica, supponiamo – è quella nei
cui spazi la parte e il suo interesse prevalgono sull’intero: è – suggerisce
Alcmeone – simile al corpo malato, in cui un organo prende il sopravvento
sugli altri.
Quando si parla di uguaglianza, Epicuro, occorre distinguerla
attentamente da altri significati che, all’apparenza, sono simili e che,
invece, a una più attenta analisi, sono la negazione dell’idea di uguaglianza.
Molto spesso l’epoca mia, Epicuro, tende a confondere l’uguaglianza con
l’indifferenziazione e con l’omologazione: quasi come se essere uguali
significasse essere privi di differenze e, per così dire, “interscambiabili”.
Ma questa, Epicuro, non è uguaglianza: è, appunto, la patologia
dell’omologazione e dell’indifferenziazione. La vera uguaglianza, invece,
non annulla le differenze, ma opera affinché esse non neghino la pari
dignità di ognuno. Per chiarirlo, uso un’immagine assai semplice: la mano
destra e la mano sinistra sono differenti tra loro. In molte società, le si sono
trattate secondo disuguaglianza, attribuendo più importanza alla mano
destra. Ora, far sì che trionfi l’uguaglianza vuol dire adoperarsi perché la
mano sinistra goda di pari dignità rispetto alla destra. Ma non vuol certo
dire, Epicuro, negare le differenze tra la mano destra e la sinistra,
pretendendo che siano la stessa cosa! Il paradosso della mia epoca, forse,
sta anche in questo: chiama “uguaglianza” l’omologazione e
l’indifferenziazione. E, dunque, finisce per lottare in loro nome come se
coincidessero con il sommo bene dell’uguaglianza, della quale
rappresentano, invece, la negazione. Dal canto suo, la vera uguaglianza
viene dimenticata e tende a eclissarsi. Ne deriva una società omologata, di
“atomi” umani interscambiabili: a livello planetario tutti pensano e
desiderano le stesse cose, si vestono nel medesimo modo e consumano le
stesse vivande. Nello stesso tempo però, sono disuguali tra loro perché
sempre più divisi, sul piano economico, tra i pochi che hanno il superfluo e
i molti che mancano del necessario.
69
Desiderio

Caro Epicuro,
è sulla figura concettuale del desiderio che vorrei soffermarmi
nell’epistola che sto per scriverti. Il lemma “desiderio”, che voi greci
esprimete con la parola “epithumìa”, ha un’origine splendida. Deriva,
infatti, dal latino “de” e “sidus”, che significa “stella”. Tradotto alla lettera,
significa “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale”, nel senso di
trarne gli auspici e, dunque, bramare. Il desiderio, dunque, è uno stato di
affezione dell’Io: consiste in un impulso volitivo, in forza del quale l’Io
vorrebbe raggiungere un oggetto esterno, per il quale prova appunto
desiderio. Per questo, la condizione dell’Io desiderante implica sensazioni
differenziate e, spesso, altalenanti, che spaziano dal dolore al piacere.
Pensiamo, ad esempio, alla sofferenza causata dalla mancanza della persona
amata, con cui desidereremmo ricongiungerci. Ma pensiamo anche al
piacere che quello stesso desiderio può provocare in noi, quando sappiamo
che entro breve potremo riabbracciare quella persona, di cui avvertiamo la
mancanza.
Già Platone, del resto, aveva chiarito un aspetto fondamentale: il piacere
e il dolore connessi al desiderio stanno in relazione dialettica tra loro.

«Quanto strano, disse, o amici, sembra essere in qualche modo questo che gli uomini
chiamano piacere; quanto straordinario il suo rapporto con ciò che sembra essere
opposto, il dolore, per il fatto che insieme essi non vogliono coesistere nell’uomo; ma se
qualcuno insegue uno dei due e lo prende, più o meno è costretto sempre a prendere
anche l’altro, come se fossero attaccati a una sola cima, pur essendo due.»

PLATONE
O, se preferiamo, il piacere consiste nell’estinguersi della sofferenza
legata al desiderio di ciò di cui manchiamo. Non è, forse, vero che il piacere
che traiamo, se assetati, dal bere sta, appunto, nella liberazione della
sofferenza in cui ci troviamo quando desideriamo l’acqua?
Ma quali e quanti sono i desideri, Epicuro? Tu stesso hai affrontato
egregiamente la questione, così scrivendo: “dei desideri alcuni sono naturali
e necessari, altri naturali e non necessari, altri né naturali né necessari, ma
nati solo da vana opinione”. Mi pare che non vi sia modo migliore di
rispondere a questa domanda. Bere quando si ha sete o dormire quando si
ha sonno sono, ad esempio, desideri naturali e necessari, senza soddisfare i
quali non potremmo vivere. Bere un bicchiere di vino amabile o dormire in
un letto comodo sono desideri naturali, ma non necessari: rientrano nelle
nostre esigenze di esseri umani, senza però risultare imprescindibili per la
nostra sopravvivenza. Invece, desiderare l’immortalità o la ricchezza
smisurata è un desiderio né naturale né necessario: non sorge dalla nostra
disposizione naturale, ma da opinioni ingannevoli, delle quali dovremmo
liberarci.
Prendendo spunto da questa tua classificazione, Epicuro, mi spingerei a
distinguere tra desideri e bisogni: per bisogni intendo quei desideri legati a
una dimensione naturale e necessaria, come diresti tu, e dunque centrata sul
limite e sulla misura. I desideri nel loro senso più ampio, invece, finiscono
troppo spesso per essere dei falsi bisogni: non essendo né naturali né
necessari, sono animati dalla sciagurata ricerca dell’illimitatezza. Penso, a
tal riguardo, al funzionamento specifico della società dei consumi oggi
dilagante: essa si basa non sui bisogni, ma sui desideri. Fa sì che il desiderio
del consumatore non sia mai realmente soddisfatto, affinché egli torni
sempre di nuovo ad acquistare merci e prodotti: l’inganno della civiltà dei
consumi sta proprio in questo, Epicuro, nel fatto che dice di voler
soddisfare i nostri desideri, ma in realtà opera inconfessabilmente affinché
essi non vengano mai realmente soddisfatti. Ciascuno di noi si trova così
nella condizione ben descritta da Platone con l’immagine dell’uomo folle,
che cercava di riempire di olio una giara con il fondo bucato.
È dunque dai desideri naturali e necessari che dobbiamo ripartire,
Epicuro. E dobbiamo farlo soprattutto per resistere al nichilismo che
attraversa la società dei consumi nelle sue strutture più profonde. Per un
verso, il desiderare astrae oggi sempre più dalla sfera del bisogno e si
risolve in un desiderare consumistico, illimitato e illimitabile, che fa di noi
delle “macchine desideranti”, per riprendere l’espressione di Gilles
Deleuze, importante filosofo del Novecento. Per un altro verso, il desiderio
consumistico in voga oggi finisce per metabolizzare il reale, l’esistente,
come principio assoluto ed esclusivo: desideriamo solo merci diverse e non
siamo più in grado di desiderare una società diversa, più libera, più
autentica, meno dipendente da questo cattivo desiderare privo di limiti.
70
Nostalgia

Caro Epicuro,
che cosa pensi della nostalgia? È un sentimento che all’improvviso
irrompe nella nostra vita ed è in grado di renderci più riflessivi: ci induce,
per così dire, a sospendere il processo immediato del nostro esistere e a
sottoporlo a riflessione. Ma che cos’è, nella sua essenza, la nostalgia? E che
cosa vuol dire essere nostalgici? La parola deriva, anche in questo caso,
dalla vostra lingua greca, Epicuro. Ed è – occorre ammetterlo – oltremodo
suggestiva: “nostalgia” è, se tradotta alla lettera, il “dolore” (“àlgos”) del
“ritorno” (“nòstos”). Per comprendere appieno il significato di questo
concetto, possiamo fare riferimento alla vicenda di Odisseo: il secondo
poema omerico è, in effetti, il poema della nostalgia. Narra, come
sappiamo, delle peripezie a cui Odisseo dall’ingegno poliedrico va incontro
nel tentativo di fare ritorno alla sua Itaca natìa. Per tutto il poema, egli è
attraversato da un sentimento – ora tenue, ora intensissimo – che lo induce a
desiderare la patria e la famiglia, ossia le realtà che ha lasciato nella sua
Itaca per salpare glorioso verso Troia. In questo senso, la nostalgia,
Epicuro, mi pare possa essere definita come un’emozione che si
contraddistingue essenzialmente per la tristezza e per il rimpianto scaturenti
dal sentimento della lontananza di ciò che ci è più vicino (persone e luoghi,
eventi e relazioni) e con cui si bramerebbe essere nuovamente in contatto.
Nel caso dell’Odissea, è il sentimento che Odisseo prova rispetto alla
propria moglie Penelope e al proprio figlio Telemaco, ma anche rispetto alla
propria terra rocciosa, al palazzo fastoso e alle sue genti.
Il filosofo Martin Heidegger ha proposto una definizione affascinante
della nostalgia, sostenendo che essa è “il dolore della vicinanza del
lontano”. Cosa intende dire con ciò? Heidegger suggerisce che siamo affetti
da nostalgia, allorché soffriamo per qualcosa che è, di fatto, lontano da noi e
che, ciò non di meno, sentiamo vicino: a tal punto da non riuscire davvero a
separarcene. Da questa difficoltà nella separazione scaturisce il dolore
connesso naturalmente alla nostalgia.
Vi è, in verità, un tratto doppiamente paradossale nel sentire nostalgico,
Epicuro. Per un verso la nostalgia può dare vita a un sentimento triste, come
abbiamo già sottolineato: la nostalgia è connessa infatti con la sofferenza
per la distanza di ciò che, pur essendo distante, sentiamo vicino, non
potendolo avere realmente accanto a noi. Ciò desta in noi un senso di
dolore, che ci rende tristi. E, per un altro verso, la nostalgia può anche
suscitare in noi un ambivalente senso di felicità, sia pure mediata e meno
intensa rispetto a quella diretta che scaturisce dal vivere un evento lieto.
Pensiamo, Epicuro, al momento in cui nel nostro animo riviviamo il ricordo
di momenti lieti trascorsi in passato, con persone a noi care: il ricordare la
gioia passata e i momenti lieti con persone a cui volevamo bene non desta
in noi un sottile senso di gioia? La si potrebbe definire una gioia “impura”,
perché non diretta, ma mediata dal ricordo: è la tenue gioia che scaturisce
dal rievocare la letizia che fu. Tenue perché necessariamente accompagnata
dalla consapevolezza che quella letizia si coniuga al passato: e nel presente
si dà semplicemente come ricordo, per assenza.
Il secondo aspetto, che concorre a fare della nostalgia un sentimento
paradossale, potrebbe così essere cristallizzato: da un lato, la nostalgia può
presentarsi come il sentimento dell’inazione: chi è nostalgico si strugge e,
nel rammemorare ciò che fu, finisce per trovarsi come paralizzato, incapace
di agire. Egli è tutto assorbito dal rammemorare il passato: e, in tal maniera,
si vede sfuggire tra le mani il presente, in cui pure è collocato. Da un altro
lato, tuttavia, la nostalgia può essere un sentimento attivo: può, diventare il
motore dell’agire per chi, ricordando il passato più lieto, si adoperi perché
esso torni a essere anche nel presente. È questo, tra l’altro, il caso di
Odisseo: egli supera ogni traversia possibile pur di tornare in patria a
stringere tra le sue braccia la moglie e il figlio. In questo caso, la nostalgia
diventa un sentimento mobilitatore dell’azione. E svolge una funzione assai
importante, rendendoci più attivi e più consapevoli, meno disposti ad
accettare un presente in cui molto continua a mancare.
71
Differenza

Caro Epicuro,
è di differenza che oggi vorrei scriverti. Mi pare, in effetti, uno tra i
vocaboli più importanti della filosofia e, dunque, indubbiamente degno di
essere analizzato. Per farlo, propongo di prendere le mosse dall’etimologia.
Il lemma “differenza” deriva dal verbo latino differre. Esso significa, se
tradotto letteralmente, “portare” (ferre) “da un’altra parte” (dis), cioè
separare l’un dall’altro. Differre allude, conseguentemente, al movimento
del condurre altrove l’identico, mutandone la collocazione. Ciò vuol dire,
Epicuro, che non si può pensare la differenza senza pensare, in pari tempo,
l’identità. Identità e differenza, infatti, formano una coppia concettuale in
cui ciascun termine figura come indispensabile per l’esistenza e per la
definizione dell’altro. Non può esservi identità, se non per differenza
rispetto ad altre; né può esservi differenza, se non ove vi siano identità
plurali. Possono essere differenti solo realtà che abbiano un’identità in sé
definita, alla cui luce sia visibile ciò che distingue l’identità dell’una da
quella dell’altra, rendendole tra loro differenti. Se, supponiamo, mediante
l’abbattimento delle differenze, si estinguesse l’alterità e sopravvivesse
unicamente il medesimo indistinto, allora si eclisserebbe, per ciò stesso,
ogni possibile identità: non vi sarebbero più né identità né differenze. Ma
regnerebbe ovunque solo il medesimo, ossia un’indistinzione generalizzata.
Ciò vuol dire, Epicuro, che – una volta di più – può esservi differenza solo
ove vi sia identità, proprio come può esservi identità, sole ove si registrino
differenze.
Quanto ho appena sostenuto vale primariamente per quel che concerne il
campo “ontologico”, ossia relativo all’essere in quanto tale. Ma che ne è del
nesso tra identità e differenza per quel che concerne il piano delle culture e
della storia umana? In parte ce ne siamo già occupati nell’epistola dedicata
al tema dell’identità. Vorrei, però, spendere ancora qualche parola intorno al
tema della differenza, soprattutto in relazione al tempo presente da cui ti
scrivo. In estrema sintesi, credo che oggi prevalga ovunque la tendenza
all’indistinto e all’indifferenziazione, a cui poc’anzi facevo riferimento: il
mondo della cosiddetta “globalizzazione” è il mondo del livellamento
planetario o, se preferisci, di una uniformazione senza limiti, che rende tutto
egualmente indistinto e indifferenziato. Da Roma a Los Angeles, da Parigi a
Buenos Aires le stesse marche, gli stessi stili di vita e gli stessi cibi: ecco,
Epicuro, il trionfo dell’omologazione globalista. Essa annulla ogni identità
culturale e, insieme, le differenze tra le identità: come dicevo poc’anzi,
senza identità, non si danno differenze, e senza differenze, non sussistono
identità.
Ed è per questo che nella mia epoca, Epicuro, stanno sparendo
contemporaneamente e le differenze e le identità: in loro luogo si impone la
figura neutra del consumatore indifferenziato, uguale da Milano a Tokyo.
Sempre meno sopravvivono le identità dei popoli, con la loro storia, le loro
usanze, le loro lingue e i loro costumi: e sempre meno, di conseguenza,
resistono le differenze che li rendevano tra loro inassimilabili, facendo
l’identità dei giapponesi differente da quella degli italiani, che a sua volta
differiva da quella dei russi o da quella dei cinesi. Tendono ovunque a
prevalere la “disidentificazione” (così vorrei chiamare la neutralizzazione
delle identità) e l’indifferenziazione. E ogni giorno il mondo si fa più
povero, perché perde quella ricchezza di inestimabile valore che è data dalle
identità plurali e tra loro differenti: identità e differenze che sono, per così
dire, il patrimonio dell’umanità come soggetto unitario, che esiste nella
pluralità dei suoi popoli e delle sue differenze.
Ora, la differenza deve essere letta, Epicuro, non come un elemento
discriminatorio: quasi come se il differente fosse, per ciò stesso, di minor
valore. Al contrario, il differente è elemento di ricchezza culturale, con il
quale confrontarsi dal punto di vista della propria identità. Sarebbe un grave
errore rinunziare all’identità per aprirsi a quelle altrui, proprio come sarebbe
un errore egualmente letale rinchiudersi nella propria identità senza aprirsi
alle identità altrui. Occorre, invece, aprirsi alle altre identità senza
rinunziare alla propria: il dialogo è sempre tra identità differenti, che si
confrontano tra loro secondo il rapporto tra identità e differenza.
72
Consumo

Caro Epicuro,
che cos’è il consumo? A cosa allude realmente questa parola, che la mia
epoca ha innalzato al rango di un vero e proprio imperativo al quale non è
possibile sottrarsi? Il consumo, nella sua accezione più larga, allude al gesto
del consumare, ossia dell’utilizzare completamente qualcosa fino al suo
esaurimento. La società in cui vivo è stata da più parti definita come una
“società di consumo” per il fatto che in essa il fondamento ultimo della
coesione sociale viene identificato nel consumo di merci. Il sistema in cui
noi viviamo, o “modo della produzione”, è il primo della storia umana in
cui non si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono merci
per creare ricchezza, cercando di fare sì che gli uomini acquistino le merci
prodotte. Ne segue una conseguenza degna della massima attenzione: in
società come quella greca il vero protagonista era l’uomo, seppur ancora
inteso in forme limitate (non erano considerati esseri umani in senso pieno
gli stranieri, le donne e gli schiavi). La produzione era volta a soddisfare i
suoi reali bisogni. Nella società in cui vivo io, Epicuro, il rapporto è
rovesciato: il vero protagonista sono le merci da consumare e il movimento
della crescita infinita della ricchezza. La produzione non è volta a
soddisfare bisogni: ma usa i bisogni e i desideri per inventare sempre nuove
merci da vendere e mediante le quali generare ricchezze.
La mia è, dunque, una società a forma di merce più che di persona. Vi è,
alla base di questa società, una fuorviante concezione dell’essere: si ritiene
che l’essere, ossia tutto ciò che è, sia un prodotto disponibile per la crescita
e per il consumo. Tutto – ripete la mia epoca – deve essere consumato e
reso utilizzabile, in vista della crescita infinita della ricchezza (secondo quel
mito della “crescita” che è, poi, la parola d’ordine degli economisti). Ciò si
traduce, nella vita di ciascuno di noi, come imperativo del consumo: l’uomo
stesso tende a essere ridefinito come “consumatore” e la sua intera vita
finisce per essere sempre più trasformata in un costante gesto di consumo di
merci. Da questa condizione derivano tutta una serie di vicoli ciechi, che
con il lessico filosofico chiameremo “aporie”. Tra queste, vi è, in posizione
centralissima, il rapporto con la natura: anche la natura finisce per essere
improvvidamente considerata come un fondo consumabile e utilizzabile
senza riserve, con tutte le tragedie che ne scaturiscono (inquinamento e
devastazioni ambientali ecc.).
Non tutto, Epicuro, può essere consumato: vi sono realtà che, per loro
essenza, non sono merci consumabili: oltre alla natura e all’ambiente, penso
all’istruzione e al sapere, ad esempio. Il sistema della pubblicità fa di tutto
affinché noi sempre, senza interruzioni, ci dedichiamo alla liturgia del
consumo: la moda ci induce a essere attratti dalle nuove merci, acquistando
le quali possiamo distinguerci dagli altri. Il paradosso, ovviamente, è che la
pubblicità ci invita ad acquistare il nuovo prodotto, per avere un “look”
inimitabile, e insieme rivolge a tutti la medesima promessa. Con l’ovvia
conseguenza per cui ciascuno è poi omologato a tutti gli altri, che pure
volevano differenziarsi.
La civiltà dei consumi, in effetti, è contraddittoria nella sua essenza:
promette apertamente la soddisfazione dei nostri desideri mediante il
consumo e agisce segretamente affinché il nostro desiderio non sia mai
pienamente soddisfatto, in modo che torniamo sempre di nuovo a
consumare nuove merci, in vista di un appagamento che non arriverà mai.
La merce consumata, infatti, non soddisfa il desiderio del consumatore:
questi, consumata la merce precedente, vedrà nella successiva, nel
frattempo apparsa in circolazione, il nuovo oggetto mediante il quale
appagarsi. Si attiva, così, una circolarità perversa, per cui la salvezza
promessa dalla merce consumata torna sempre ad apparire all’orizzonte
come promessa legata alla nuova merce. Per questo, il consumatore è
perennemente insoddisfatto: se non fosse così, Epicuro, perché mai
dovrebbe senza tregua tornare a consumare?
73
Metodo

Caro Epicuro,
è intorno alla categoria di metodo che oggi voglio scriverti. Che cos’è il
metodo? E che cosa significa, come si usa dire, “procedere con metodo”?
La parola deriva dalla lingua greca e, tradotta alla lettera, significa “seguire
la via”, da “metà” (“dopo”, “dietro”) e “odòs” (via, strada, percorso). Il
metodo, dunque, allude a una via che viene seguita e percorsa, fino a
pervenire alla mèta che ci si era proposti di raggiungere. L’idea del metodo
rimanda, Epicuro, a un’idea alquanto radicata nell’immaginario occidentale:
ossia all’idea che la conoscenza sia una sorta di viaggio, mediante il quale
si perviene al traguardo del sapere. Perché ciò possa avvenire con successo,
occorre, però, che si segua la strada giusta, senza lasciarsi depistare e,
soprattutto, senza imboccare quelle sbagliate. Queste ultime, lungi dal
condurre alla mèta del sapere, ci porterebbero, letteralmente, fuori strada,
verso l’errore e verso forme false di conoscenza.
Basti qui rammentare, come esempio, il caso dell’antico Parmenide.
Questi, nel suo poema Sulla natura, immaginò di compiere un viaggio
attraverso la città di Elea e di pervenire, in ultimo, alla verità: seguendo la
retta via, Parmenide giunge, alla fine, alla consapevolezza della verità, che
per lui si lascia condensare nella proposizione: “l’essere è e non può non
essere”. Parmenide spiega, oltre tutto, che, per giungere alla mèta finale del
vero, occorre evitare le strade dell’errore, in particolare quella dell’opinare,
percorsa dai più, che pensano che l’essere sia e, insieme, non sia, perché
sottoposto ai processi del divenire.
Nella modernità, Epicuro, l’elaborazione del metodo godrà di
un’immensa fortuna. A partire da Cartesio, si imporrà l’idea per cui, per
poter addivenire al vero, occorre preventivamente stilare un metodo che
faccia da guida e, per così dire, da stella polare per la navigazione
filosofica. Solo fissando le regole di un metodo rigoroso e seguendole
fedelmente sarà possibile evitare ogni sorta di errore. Per questo, Cartesio,
che tradizionalmente è indicato come l’inauguratore del moderno, scrive un
fondamentale testo dal titolo Discorso sul metodo: senza metodo, non v’è
possibilità di pervenire al sapere.
Questo modo di operare, dicevo, sarà radicatissimo nell’immaginario dei
moderni, da Locke fino a Kant. Locke, ad esempio, nel suo poderoso
Saggio sull’intelletto umano, anch’esso composto nel secolo di Cartesio,
solleverà la domanda fondamentale, legata alle potenzialità della ragione
umana: fin dove può avventurarsi legittimamente il mio intelletto
nell’impresa del conoscere? Quali sono i suoi limiti? Come vedi, Epicuro,
sono tutte domande che orbitano intorno al tema del metodo da seguire:
vengono prima rispetto alla conoscenza che, in concreto, conduce al vero.
Servono a organizzarla e a strutturarla, di modo che essa possa svilupparsi
efficacemente, nella piena consapevolezza di sé e dei propri limiti
strutturali. Tutti gli autori che, nell’evo moderno, elaboreranno “discorsi sul
metodo” condivideranno, sia pure da prospettive differenziate, l’assunto di
Cartesio, in conformità con il quale il raggiungimento del sapere deve
presupporre la delineazione delle regole fondamentali del metodo o, come
aveva detto lo stesso Cartesio in un’altra sua opera, le “regole per la
direzione dell’ingegno”.
Sarà Hegel, all’inizio del XIX secolo, a mettere in discussione questo
modo di procedere. Siamo davvero sicuri – egli domanderà nel suo testo
intitolato Fenomenologia dello Spirito – che sia possibile (ancor prima che
auspicabile) elaborare un metodo del conoscere prima di conoscere in
concreto? Per chiarire questo punto nodale, Hegel, nei suoi testi, impiegherà
un’immagine oltremodo concreta, tratta dalla quotidianità della vita vissuta:
il modo migliore per apprendere a nuotare – spiega Hegel – non è certo
stare a bordo vasca a discutere sui movimenti da compiere per galleggiare e
muoversi in acqua. Al contrario, il solo modo per imparare l’arte del nuoto
sta nel tuffarsi e nel nuotare. Pensare, come vorrebbe la tradizione da
Cartesio a Kant, di elaborare un metodo mediante il quale conoscere è
assurdo, per Hegel, in quanto significa cercare di conoscere il conoscere
prima di esercitarlo concretamente. Assurdo, appunto, come nuotare prima
di entrare in acqua. Mi pare, Epicuro, che l’obiezione di Hegel sia fondata e
che, forse, possa essere sviluppata in questa direzione: il metodo non può
essere elaborato prima del conoscere, giacché per sapere come conoscere
occorre, appunto, conoscere concretamente. Lo si può, però, elaborare a
posteriori: ossia dopo aver concretamente conosciuto. Si può, e forse si
deve, stilare un metodo che codifichi le mosse e le strategie che abbiamo
effettivamente utilizzato nel processo mediante il quale abbiamo sviluppato
la nostra conoscenza. Si tratterebbe, per dirla con la grammatica dei filosofi,
di un metodo a posteriori e non di un metodo a priori.
74
Idea

Caro Epicuro,
la filosofia opera con le idee. E, per alcuni versi, non sarebbe
inappropriato definire il filosofo come l’artigiano delle idee. Ma che cos’è,
Epicuro, un’idea? Qual è la sua essenza? Come spesso accade con la
terminologia filosofica, il vocabolo “idea” deriva dal greco: precisamente,
dalla radice “-id”, che a sua volta rimanda al verbo “orao”, che significa
“vedere”. L’idea, dunque, è un ente che si può vedere: ma non con gli occhi
fisici, mediante i quali osserviamo la realtà sensibile che ci circonda, bensì
con quelli della mente. L’idea è, allora, un ente che può essere visto e,
dunque, conosciuto, mediante la visione della mente. Che tra il vedere e il
conoscere esista un rapporto forte, Epicuro, è quanto apprendiamo dalla
civiltà ellenica: per la quale il conoscere è sempre connesso al vedere.
Lo suggerisce anche Aristotele, quando, nella Metafisica, spiega che tutti
gli uomini tendono naturalmente al sapere: e quest’ultimo si ottiene
soprattutto grazie alla vista. Prova ne è che presso voi greci, Epicuro, il
verbo “idein”, che significa “conoscere”, rinvia alla già richiamata radice “-
id”, che allude direttamente alla dimensione visiva.
Per noi moderni l’idea tende a coincidere semplicemente con un
contenuto mentale di qualsivoglia natura: l’espressione popolare “avere
un’idea” non esprime, forse, questa prospettiva, in virtù della quale l’idea è
il contenuto del nostro pensare? L’idea dipende così dal nostro atto del
pensare, che la produce e la pone in essere.
Ma questa concezione, che è ancora la nostra, non è la sola. Per Platone,
ad esempio, l’idea non era affatto un contenuto mentale dipendente dal
nostro atto del pensare. Anzi la prospettiva di Platone è opposta alla nostra:
se per noi l’idea dipende dal pensare e, più in generale, dal nostro modo di
rappresentare il mondo esterno, per Platone vale l’opposto. A suo giudizio
sono il mondo esterno e il nostro pensare a dipendere dall’idea:
quest’ultima non è un contenuto mentale ma è una realtà obiettivamente
esistente in sé e per sé. È una realtà superiore a quella sensibile, che da essa
dipende: i singoli cavalli, che vediamo correre nei prati, esistono – per
Platone – nella misura in cui partecipano e imitano l’idea del cavallo,
eterna e immutabile, esistente in una dimensione ontologica superiore (che
Platone chiama anche “iperuranio”). Gli enti sensibili plurali, che noi
conosciamo, sono, così, soggetti al duplice movimento di “metessi” e di
“mimesi”: i cavalli esistono – tutti diversi tra loro – perché “partecipano”
(“metessi”) dell’idea in sé e per sé di cavallo e perché la “imitano”
(“mimesi”) nel piano mutevole e imperfetto del sensibile.
A questa concezione, come già dicevamo nella lettera sulla conoscenza,
si oppongono gli “empiristi”, ossia quanti – a partire dallo stesso Aristotele,
che pure fu allievo di Platone – ritengono che non sia il sensibile a imitare
le idee, ma siano le idee a esistere come “forme” ideali che ricaviamo per
astrazione dal sensibile. Riprendendo l’esempio poc’anzi impiegato, è
dall’osservare molteplici cavalli reali che noi, per astrazione del pensiero,
ricaviamo l’idea di cavallo come unità elaborata mediante il pensiero. E a
partire dal moderno si impone in forma predominante la concezione
antiplatonica, per cui idea è ogni contenuto della nostra mente.
A tal riguardo, dalla soglia della modernità, Cartesio distingue tra idee
innate, idee avventizie e idee fattizie: le prime sono una dotazione naturale
della nostra mente e sono in noi fin dalla nascita (tale è, ad esempio, per
Cartesio, l’idea di Dio). Avventizie sono, invece, le idee che giungono a noi
dall’esterno: l’albero che sta dinanzi a me viene rappresentato dal pensiero,
che riceve e rielabora il materiale sensibile, proveniente dal piano del
sensibile. Infine, si danno le idee fattizie, che sono quelle da noi create,
come ad esempio l’ippogrifo, il cavallo alato che la nostra mente produce
liberamente.
Nell’epoca odierna, Epicuro, la parola idea tende a farsi talmente vaga e
indefinita da significare tutto e il suo contrario: idea è, per i contemporanei,
ogni rappresentazione o, più in generale, tutto ciò che, letteralmente, passa
per la testa. Di più, prevalgono ovunque delle idee specifiche, che forse
Cartesio avrebbe catalogato come fattizie, e che sono i prodotti mediatici.
La televisione e la rete non producono senza tregua idee che intrattengono
un nesso debolissimo con la realtà esterna? Si presentano come fedeli
immagini del mondo reale, ma finiscono per stare in rapporto a esso come
l’ippogrifo di cui scriveva Cartesio.
75
Anima

Caro Epicuro,
oggi ti scrivo per discutere con te di un problema che è fondamentale per
la filosofia e che, insieme, credo che più di ogni altro riguardi la vita di
tutti. Che cos’è l’anima? È questa la questione che desidero affrontare.
Nella sua accezione più generica, ciò che chiamiamo anima coincide con il
principio vitale dell’uomo: è quella realtà in assenza della quale il corpo
non può vivere. L’anima costituirebbe la parte immateriale dell’essere
umano, sede del pensiero e del sentimento, della volontà e della coscienza
morale. Connessa con l’immaterialità, è l’idea – a cui facevo cenno –
dell’anima come principio che dà vita al corpo. Per questo, secondo una
antica tradizione, l’anima corrisponderebbe al “soffio vitale” che ci mette in
vita. L’origine stessa della parola corrobora questa ipotesi interpretativa:
infatti, “anima” deriva dal termine greco “ànemos”, che vuol dire “soffio”,
“vento”. Analogamente, il termine greco che esprime l’“anima” dei latini è
“psyché”: esso significa anima e, insieme, “respiro”, “soffio vitale”. È il
respiro, dunque, a donare al corpo la vita. Ed è anche per questo che, ancora
oggi, un sinonimo di “morire” è “smettere di respirare”.
Gli antropologici suggeriscono, Epicuro, che non esista popolo presso
cui non sia stato immaginato un elemento “vivificatore” del corpo, in
qualche maniera distinto da quest’ultimo. Diversissime sono, tuttavia, le
concezioni dell’anima e del suo destino, del suo numero e della sua origine.
In origine, si pensava che l’anima non fosse separata dal corpo. In molti
casi, si riteneva che non avesse una sua precisa localizzazione, ma fosse
diffusa in ogni parte del corpo umano. Analogamente, si registrano molti
casi di popoli – in Africa come in Malesia – che credono o credevano nella
pluralità delle anime, variamente classificate. Nella filosofia occidentale, è
soprattutto con Platone che troviamo una compiuta teorizzazione
dell’anima. Sulla scia dell’esperienza dell’Orfismo, egli sostiene che
l’anima non soltanto è autonoma rispetto al corpo, ma che per essere
davvero libera deve affrancarsi dal giogo del corpo. Con un gioco di parole,
Platone asserisce che il “corpo” (“soma”) è il “sepolcro” (“sema”)
dell’anima: con la conseguenza per cui, liberandosi dal corpo, l’anima non
muore, ma raggiunge la pienezza di vita che le era impedita dal “sepolcro”
dell’elemento materiale corporeo. Platone connette direttamente la
questione dell’immortalità con quella della conoscenza: per lui, l’anima può
conoscere le idee solo mediante la reminiscenza, ossia ricordando ciò che
sapeva e che ha dimenticato quando l’anima si è incarnata nel corpo.
Dopo Platone, sarà soprattutto il cristianesimo a sostenere il primato
dell’anima sul corpo: di natura spirituale e immortale, l’anima è, per i
cristiani, creata da Dio. Il diverso destino di ciascuna anima, dopo la morte,
dipende dai meriti acquisiti in vita. Si salveranno e ascenderanno al
paradiso le anime di quanti si sono comportati in maniera proba.
Precipiteranno nell’inferno quelle di quanti hanno agito in nome del male.
Questa concezione porrà seri problemi ai filosofi aristotelici del Medioevo,
che – è, ad esempio, il caso di Tommaso d’Aquino – dovranno provare a
conciliare la concezione cristiana dell’anima con quella aristotelica.
Per Aristotele, infatti, che anche in questo prende le distanze dal maestro
Platone, l’anima non è una realtà. Del tutto diversa, Epicuro, è la
concezione tua e degli altri atomisti: per voi, anche l’anima, come ogni altro
ente, è un aggregato di atomi (sia pure più leggeri e più mobili), destinato a
dissolversi con la morte. Per questo, con i versi del poeta Dante, gli atomisti
“l’anima col corpo morta fanno”.
Giunto alle soglie della modernità, non intendo, in questa epistola,
dilungarmi oltre sulle diverse concezioni dell’anima che ci restituisce la
storia della filosofia. Desidero soltanto, Epicuro, sollevare quella che, a ben
vedere, è forse la questione teoricamente più rilevante, sulla quale anche tu
ti sei soffermato: potrà l’anima sopravvivere dopo la morte? O, come tu
ritieni, con il corpo si spegnerà anche l’anima? L’argomento che tu
impieghi è noto: pensare che l’anima muoia con il corpo genera serenità,
perché libera le menti da quel timore di punizioni a venire che, da sempre,
genera turbamento e inquietudine. Ma non è forse vero, Epicuro, che anche
l’idea del nulla definitivo può ragionevolmente destare in noi
preoccupazione e turbamento? L’idea che, con la morte, tutto finisca non è
forse foriera di pene e inquietudini? E allora, Epicuro, è la morte del corpo
la “tomba” anche dell’anima o, come diceva Platone, è il corpo a essere
“tomba” dell’anima, che senza di lui si libera e raggiunge la propria
pienezza d’essere? Non ho una risposta a queste domande, Epicuro. Ma vi
sono casi in cui, forse, la vera risposta è nell’avere il coraggio di porre la
domanda. E ciò soprattutto in un tempo come il mio, Epicuro, che ha
sostituito il domandare filosofico con le certezze dogmatiche della
pubblicità. E che, proiettato com’è nella pura materialità dei consumi e
degli averi, non ha più il coraggio e la forza di sollevare il problema
dell’anima e del suo destino.
76
Universale

Caro Epicuro,
è di una questione particolarmente difficile che ho deciso di scriverti.
Riguarda la questione dell’universale. Il termine “universale” deriva
dall’aggettivo latino “universalis”, che, a sua volta, rinvia a “universus”,
che potrebbe tradursi con la formula “tutto intero”. La filosofia è, per sua
essenza, ricerca dell’universale: non può, infatti, esservi scienza del
particolare, che è, per così dire, una esemplificazione dell’universale stesso.
Dinanzi ai cavalli che corrono sul prato, ad esempio, la filosofia può
domandare quale sia l’universale, ossia ciò che fa sì che i cavalli concreti
siano determinazioni empiriche dell’universale. Che cosa, in concreto, fa sì
che dalla molteplicità degli enti che si stanno muovendo sul prato noi
ricaviamo quell’idea universale che ci induce a chiamarli tutti “cavalli” e a
pensarli come espressioni concrete del medesimo universale? Così
concepito, l’universale è ciò che è comune a più realtà individuali, ad
esempio le proprietà che definiscono una classe particolare di individui, un
genere o una specie.
Socrate per primo mosse alla ricerca dell’universale: la sua domanda più
tipica – “che cos’è?” (“tì estìn;”) – è, infatti, un tentativo di trovare gli
universali. Rileggendo in maniera originale l’insegnamento del maestro
Socrate, Platone elabora la propria dottrina delle idee quali essenze
immutabili ed eterne: i cavalli empirici sono “imitazioni” dell’idea
universale immutabile ed eterna del cavallo, di cui partecipano. Anche
Aristotele tiene ferma l’idea che la filosofia si occupi dell’universale
(“l’uomo”) e non del particolare (“Socrate”, “Crizia” ecc.). Ma l’universale
non è più una realtà in sé e per sé esistente, come le idee platoniche: è ciò
che per natura si predica di più cose; è, ancora, la forma che, nel piano
dell’immanenza (il mondo terreno), troviamo nei singoli cavalli empirici e
che fa sì che essi siano determinazioni del medesimo concetto universale.
La questione riceve grande attenzione anche nel Medioevo, Epicuro:
tant’è che la “disputa sugli universali” (quaestio de universalibus) è,
probabilmente, la maggiore questione filosofico-teologica della filosofia
scolastica sviluppatasi in età medievale. In estrema sintesi, per i Medievali
gli universali possono essere sostanzialmente di tre tipi: 1) ante rem, ovvero
– alla maniera platonica – come realtà esistenti “prima delle cose”, situate
nella mente di Dio; 2) in re, ossia come enti esistenti “all’interno delle
cose” stesse, come essenza reale, alla maniera aristotelica; 3) post rem,
come realtà esistenti “dopo la cosa” stessa, ossia come prodotti della nostra
mente. Quest’ultima svolgerebbe, dunque, una funzione autonoma
nell’elaborazione dei concetti.
Se dal problema dell’essere ci spostiamo a quello dei valori, la domanda
relativa all’universale può essere così formulata: esistono valori universali?
O non è, forse, ogni valore limitato al contesto storico e geografico in cui è
sorto? Molto spesso, nella storia, il punto di vista dell’universale è stato
utilizzato come semplice strumento per imporre il particolare: penso, ad
esempio, alle forme del colonialismo, che hanno imposto con la violenza il
punto di vista occidentale alle altre aree del pianeta. Ciò, però, non vuol
dire che l’universale non esista, come invece credono i relativisti: significa,
semplicemente, che occorre adoperarsi per distinguere il falso universale da
quello vero. Il primo, come ho evidenziato, è solo un particolare che si
spaccia per universale e che, per farlo, necessita del ricorso alla violenza. Il
vero universale, ossia ciò che è valido non per me e per te, ma per l’umanità
pensata come un unico soggetto, non può essere un particolare falsamente
generalizzato; né può imporsi in forme violente. Il vero universale si
afferma per il tramite del dialogo e della pratica socratica del “rendere
ragione” (“logon didonai”). Vero universale è, tra i tanti, abolire la tortura e
la pena di morte, ma poi anche attuare forme di esistenza sociale che
rendano possibile il libero e uguale sviluppo di tutti. Per questo, uno dei
principali compiti della filosofia, Epicuro, mi pare debba essere
riconosciuto nella demistificazione dei falsi universali e nella difesa di
quelli veri.
77
Essere umano

Caro Epicuro,
di tutte le realtà, la più difficile da definire è indubbiamente l’uomo. Ed è
per questo che ho deciso di scriverti oggi, nel tentativo di approssimarmi il
più possibile a questo ente così sfuggente a ogni tentativo di inquadramento
concettuale. Vi è un paradosso, a ben vedere: fatichiamo in sommo grado a
definire ciò che noi stessi siamo, in quanto esseri umani. Ciò rivela che, da
un certo punto di vista, siamo sempre stranieri a noi stessi: non riusciamo
ad afferrare l’essenza più intima di ciò che siamo. Nel coro della tragedia
Antigone, Sofocle definisce emblematicamente l’essere umano come
“deinotaton”, come ciò che è più strano e più terribile. A differenza di tutti
gli altri enti, la cui essenza è stabile, l’uomo ha una natura sfuggente: per
questo, Nietzsche lo definiva come l’animale non ancora stabilizzato.
Anche in questo, forse, risiede uno dei tratti più peculiari della nostra
“dignità” di umani, così come la intendeva l’umanista Pico della Mirandola.
Egli era convinto che proprio in questa plasmabilità mai definitiva
risiedesse l’essenza dell’uomo: il quale, a differenza delle bestie e degli
angeli, che sempre sono come sono, può, con il suo libero agire, abbassarsi
al grado delle prime o elevarsi al livello dei secondi. Così inteso, l’uomo è
“fabbro del suo destino”: si determina con il proprio libero e responsabile
agire.

«[...] Già il Sommo Padre, Dio Creatore, aveva foggiato, [...] questa dimora del mondo
quale ci appare, [...]. Ma, ultimata l’opera, l’Artefice desiderava che ci fosse qualcuno
capace di afferrare la ragione di un’opera così grande, di amarne la bellezza, di
ammirarne la vastità. [...] Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la
nuova creatura, né dei tesori [...] né dei posti di tutto il mondo. [...] Stabilì finalmente
l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che
aveva assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita: “La
natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai
da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti
posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo.
Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi
libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu
potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere,
rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”.»

G. PICO DELLA MIRANDOLA

L’uomo non ha, per così dire, una determinazione fissa: è quel che fa di
se stesso e, in questo senso, come si è sottolineato, l’“esistenza” è una delle
sue più caratteristiche connotazioni.
Quale sia l’essenza dell’uomo è, da sempre, una delle domande
fondamentali della filosofia: tali e tante sono state le risposte fornite nel
corso della storia della filosofia che è ora impossibile darne conto. Desidero
tuttavia soffermarmi su quella che, tra tutte, mi pare ancora oggi la più
straordinaria. È la duplice definizione che dell’essere umano prospetta
Aristotele. Questi sostiene che l’uomo, per un verso, è uno zoon politikòn,
ossia, come già si è ricordato, un animale fatto per vivere nella polis, ossia
con gli altri uomini, nello spazio intersoggettivo della comunità.
“Politikòn”, da cui deriva il nostro termine “politica”, allude primariamente
alla “polis” nella sua dimensione più ampia. Così inteso, l’uomo è un
animale che si occupa di politica, perché deve gestire le proprie relazioni
nel quadro concreto della vita politica. È, insieme, un animale che non può
non vivere esternamente rispetto alla relazione sociale, in antitesi con quanti
sostengono posizioni variamente individualistiche: l’uomo si realizza nella
relazione con l’altro. Infine, per riprendere un tema a te particolarmente
caro, Epicuro, l’uomo è un animale “amicale”, che cioè, per natura, avverte
l’esigenza di instaurare relazioni disinteressate di amicizia con il suo simile.
Quella che ho appena commentato, per sommi capi, è la prima definizione
dell’essere umano delineata da Aristotele. La seconda, altrettanto
importante, recita che l’uomo è uno zoon logon èchon, ossia un “animale
dotato di logos”. Il “logos” è, nell’immaginario greco, una determinazione
concettuale assai ricca e polimorfa. Allude, anzitutto, alla razionalità.
L’uomo è il solo animale dotato di ragione e proprio in ciò, per la tradizione
antica, sta la sua differenza specifica rispetto agli altri animali. Per questo i
latini tradurranno la formula di Aristotele con l’espressione “animal
rationale”.
E, tuttavia, nella definizione di Aristotele vi sono altri aspetti che
concorrono a delineare l’essenza dell’essere umano e che non possono
essere trascurati. “Logos”, infatti, vuole anche dire “parola” e, per
estensione, “linguaggio”: l’uomo è l’animale che è dotato di ragione e che
può comunicare per il tramite del linguaggio. Infine, “logos” significa
anche “calcolo razionale” e, nel discorso di Aristotele, richiama il calcolo
delle giuste proporzioni sociali che sono necessarie per una vita equa
nell’ordine della polis. Credo, Epicuro, che si possa tentare una sintesi delle
due diverse definizioni dell’uomo come zoon politikòn e come zoon logon
èchon: l’uomo è quell’animale che mediante la ragione e il dialogo cerca
una giusta proporzione sociale, che gli permetta di vivere bene, cioè in
maniera buona, giusta e vera, nello spazio della polis e delle relazioni
comunitarie che in essa attua e mediante le quali si realizza appieno come
individuo sociale.
In questa luce credo che si possa anche comprendere la dignità offesa
dell’uomo nell’epoca da cui ti scrivo, Epicuro: alla ragione, essa preferisce
l’irrazionalità che ovunque dilaga; al dialogo, le urla; all’amicizia e alla
comunità il profitto e l’egoismo; alla politica come luogo della decisione
collettiva il mercato come spazio dell’interesse del più forte. È per questo,
Epicuro, che oggi come mai prima si sta realizzando quella che io definisco
la disumanizzazione dell’uomo, la mortificazione della sua natura.
78
Confine

Caro Epicuro,
è sulla nozione di confine che vorrei oggi confrontarmi con te. Lo si
potrebbe intendere, nella sua accezione più ampia, come una applicazione
dell’idea di limite – su cui già ci siamo soffermati – alla sfera materiale dei
territori. Il confine, infatti, è ciò che delimita e che, come suggerisce la
parola stessa, con la sua derivazione latina, istituisce una “fine” di una
realtà. Dove una realtà ha il suo limite estremo, lì ne inizia un’altra: il
confine è, appunto, ciò che le separa, rendendole distinte ed evitando che si
confondano tra loro. Una prova del fatto che il confine è espressione
materiale del limite si trova, ad esempio, nelle parole del poeta latino
Orazio: questi, nelle sue Satire, utilizza il concetto del confine come
metafora per chiarire il senso del giusto limite. Sostenere che “vi è un limite
nelle cose” significa, per Orazio, che “vi sono confini certi”, superati i quali
è impossibile che sussista il giusto.
In quanto espressione materiale della giusta misura, il confine è,
anzitutto, il limite di un territorio, segnato, ad esempio, da pietre o da
recinzioni. Esso perimetra uno spazio al cui interno il proprietario può
esercitare appieno il proprio diritto: al di là di quello spazio, inizia il terreno
di altri, su cui egli non ha diritto. A un livello più grande, e già pienamente
politico, il confine è ciò che delimita il territorio di una regione, di una
provincia o di uno Stato. Il confine può essere di tipo naturale, nel caso in
cui le linee di demarcazione siano tracciate direttamente dalla natura: è
questo il caso dei fiumi che separano una provincia da un’altra o delle
catene montuose che delimitano il territorio di uno Stato, distinguendolo
dagli altri. Il confine è, invece, di ordine politico, quando è stabilito non già
dalla natura, bensì dalle convenzioni tra gli uomini: tale è, ad esempio, il
confine tra l’Europa e l’Asia, che è frutto di una decisione politica più che
di una linea di demarcazione naturale.
Una volta chiarita l’essenza del confine, la domanda che dobbiamo
porre, Epicuro, è la seguente: si tratta di una realtà buona o cattiva? Credo
che mai come in questo caso la risposta stia nell’uso effettivo che si fa della
realtà in questione. Il confine può, in effetti, essere negativo, se viene
impiegato per escludere e per “confinare”, come anche si dice: se lo si
utilizza cioè per separare ermeticamente e negare ogni possibile contatto. Il
confine può, però, presentare una sua funzione positiva, se lo si intende
come frontiera che protegge il territorio delimitato, garantendo alla sua
popolazione la possibilità di decidere sovranamente sulla propria vita: così
intesa, la frontiera non esclude ma protegge una popolazione. Per questo
può essere attraversata secondo regole e nel rispetto del territorio e del
popolo con i quali, superandola, si entra in contatto.
Vorrei chiarire questo delicato nodo concettuale con due parole che
impiega il filosofo Kant. Egli distingue tra un confine inteso come barriera
invalicabile (che, in tedesco, chiama Schranke), che divide ermeticamente
senza poter essere attraversata, e un confine inteso come limite che può
essere attraversato (Kant lo chiama Grenze). A differenza della barriera, il
limite è ciò che si affaccia da una parte e dall’altra: non impedisce
l’attraversamento, semplicemente lo regola e lo controlla, facendo sì che tra
le due realtà separate non si crei indistinzione e l’una non occupi lo spazio
dell’altra. In effetti, se la barriera è negativa in quanto tale, perché chiude
incondizionatamente e nega ogni possibile relazione, il confine è positivo.
Esso non nega il transito, ma evita le invasioni. Non impedisce le relazioni,
ma evita che diventino sopraffazione. Non interdice il nesso tra i differenti,
ma fa in modo che non si perdano le frontiere che li separano, rendendoli
non identici.
La mia epoca, Epicuro, tende a commettere un errore, che la filosofia
può agevolmente smascherare: tende a tradurre la giusta lotta contro le
barriere in una battaglia, in sé sbagliata, contro i confini. Per questo, quello
in cui io vivo è il tempo dello sconfinamento: il movimento generale con cui
si viola ogni barriera è lo stesso con cui si nega ogni confine.
È questa, del resto, l’essenza stessa della già discussa globalizzazione: il
suo fondamento è quella “libera circolazione delle merci” che ha come
presupposto l’abbattimento di ogni confine. In questo modo, il mondo come
pluralità di differenze demarcate da confini si ridefinisce come un unico
mercato sconfinato: nel suo spazio globale, tutto circola senza impedimenti
e, con i confini, spariscono le demarcazioni che differenziano le realtà.
Tutto diviene indistintamente la stessa cosa. E, in questo senso, lo
sconfinamento della globalizzazione potrebbe essere inteso come
l’invasione di ogni territorio del mondo, privato dei suoi confini, dalla
merce e dalla forma di esistenza che a essa si associa.
79
Meraviglia

Caro Epicuro,
ho deciso oggi di scriverti del concetto che più di tutti è consuetudine
abbinare alla filosofia. A tal punto che, in sua assenza, mai gli uomini
avrebbero cominciato a filosofeggiare. Alludo, Epicuro, al concetto di
meraviglia. Sia il Teeteto di Platone sia la Metafisica di Aristotele ci
ricordano che se gli uomini cominciarono a fare filosofia, ciò dipese dalla
meraviglia che li colpiva dinanzi a tutto ciò che li circondava. Lo splendore
dell’essere, la magnificenza della natura, il mistero del reale: furono queste
le “cause prime” che indussero gli uomini a interrogarsi sulle cause e sul
senso, sullo scopo e sulle forme dei fenomeni.

«[...] Per gli dèi, veramente, Socrate, io mi meraviglio enormemente per cosa possano
essere mai queste visioni e talvolta, guardandole intensamente, soffro le vertigini.»
«Non mi pare, caro amico, che Teodoro abbia opinato male sulla tua natura. Si addice
particolarmente al filosofo questa tua sensazione: il meravigliarti. Non vi è altro inizio
della filosofia, se non questo [...].»

PLATONE

Siamo abituati a tradurre con “meraviglia” il termine greco “thauma”: in


verità, il nostro italiano finisce per depotenziare il vocabolo greco, che poco
o nulla ha a che fare con quella dimensione vaga e, a tratti, euforica che si
esprime nella parola meraviglia. Il greco “thauma”, per parte sua, allude a
un’esperienza tragica più che euforica: lo si potrebbe, forse, rendere con il
termine shock. Quest’ultimo, se non altro, rende meglio l’idea di un trauma,
di un’esperienza che profondamente scuote e perturba.
La filosofia, in effetti, nasce dallo shock originario al cospetto di un reale
che si presenta come enigmatico e misterioso: perché l’essere e non il
nulla? Qual è il principio primo di tutte le cose? E qual è il senso ultimo
dell’essere? Sono queste alcune delle primissime domande che la filosofia
solleva. Come è evidente, si tratta di questioni dolorose e, in un certo senso,
traumatiche: ci riguardano necessariamente e in forma essenziale. Ne va del
nostro stesso essere. Non possono certo essere intese come domande tra le
tante, che l’uomo si pone con la distaccata e quasi indifferente meraviglia di
chi, per caso, sofferma lo sguardo su qualcosa che lo colpisce e che pochi
istanti dopo dimenticherà per guardare altrove.
Nella Metafisica, Aristotele non lascia adito a dubbi: gli uomini tendono
per natura al conoscere. A differenza di tutti gli altri viventi, non possono
soggiornare nell’ignoranza: si adoperano per sapere e, dunque, per superare
attivamente la condizione originaria di non-sapere. La filosofia – spiega
ancora Aristotele – è essa stessa quell’“amore per il sapere” che si
determina al cospetto dello shock scaturito dinanzi al reale: è un amore per
il sapere che, per ciò stesso, pone in essere un moto di fuga dal non-sapere
in cui ci si trova in origine. Per questo, la filosofia non è statica, ma
dinamica: è tensione erotica verso qualcosa che vorremmo e di cui pure ci
sappiamo privi. Ed è per questa ragione che, ancora, la filosofia è quella
disciplina che porta l’amore nel suo stesso nome: significa “philein” la
“sofia”, amare il sapere e, secondo il moto tipico dell’innamorato, cercare
in ogni modo di avvicinarsi all’oggetto amato. Dinanzi allo shock
originario, gli uomini provano, allora, a liberarsi dall’ignoranza: e lo fanno
dapprima con il mito, su cui già ci siamo soffermati.

«Infatti gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della
meraviglia. Mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più
semplici, in seguito giunsero a porsi problemi sempre maggiori: ad esempio i problemi
riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti
la generazione dell’universo intero. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia
riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo
senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia.»

ARISTOTELE
La filosofia è anch’essa, alla stregua del mito, un tentativo di “fuggire
dall’ignoranza”, come scrive Aristotele: ma, a differenza del mito, lo fa
ricorrendo al “logos”, alla ragione e al suo procedere mediante concetti.
Alla luce di queste considerazioni, Epicuro, mi pare di poter sostenere
che finché vi sarà meraviglia, vi sarà filosofia: solo lo shock dinanzi a ciò
che c’è potrà sempre di nuovo indurre gli uomini a quel domandare di tutto,
senza nulla dare per scontato, che è la filosofia. Essa si caratterizza per il
rifiuto dell’accettazione quieta e superficiale delle cose che ci circondano,
assunte indebitamente come ovvie e scontate. La problematizzazione
dell’ovvio è, sotto questo profilo, il movimento più proprio della filosofia
come tentativo concreto di porre rimedio allo shock originario. In questo
senso, tra i più temibili nemici della filosofia occorre senz’altro annoverare
l’indifferenza, ossia la perdita di interesse per la questione della verità.
L’indifferenza potrebbe anche essere intesa come il depotenziarsi dello
shock originario e, dunque, come l’accettazione della propria ignoranza e
la rinuncia a quel moto di fuga dal non sapere che è l’essenza più propria
del filosofare.
È questo, temo, uno dei rischi più tipici della mia epoca. Tra stimoli
costanti della tecnica e automatismi privi di pensiero del sistema mediatico,
essa, con la tempesta di sollecitazioni a cui è sottoposta, tende a smarrire la
sensibilità per lo shock e per ogni tipo di meraviglia. L’indifferenza prevale
e, con essa, si eclissa la volontà di sapere e di domandare.
Chi ha ancora oggi, Epicuro, il coraggio di chiedere “perché l’essere
anziché il nulla?” o “qual è il principio primo?”. La rinascita del filosofare
nel senso dei greci potrà aversi, Epicuro, solo se l’uomo saprà spezzare il
velo dell’indifferenza di un mondo tecnicizzato, in cui tutti calcolano e
operano e nessuno pensa e domanda.
80
Totalità

Caro Epicuro,
desidero scriverti a proposito del concetto di totalità. Mi pare una
categoria della massima importanza, se è vero che, in fondo, la filosofia
potrebbe anche intendersi come il tentativo di conoscere, valutare e
trasformare la totalità. Ma che cos’è davvero la totalità? Come dobbiamo
concepirla? Nella sua accezione più generale, il concetto rinvia direttamente
a tutto ciò che c’è: per totalità, infatti, si potrebbe intendere l’insieme di
tutte le cose che sono e, dunque, l’essere nella sua interezza. A rigore,
Epicuro, rientrano nel concetto non solo le cose che sono qui e ora, ma
anche quelle che, a partire da ciò che ora c’è, potrebbero essere. Insomma,
la totalità allude all’interezza dell’essere, senza lasciare escluso alcunché.
Ed è, per sua essenza, contrapposta alla parte, che invece chiama in causa
una determinazione specifica che, comunque la si intenda, si sa limitata
rispetto alla totalità stessa.
Uno dei grandi dibattiti che attraversano la modernità filosofica riguarda
proprio la possibilità di conoscere la totalità. Kant, che sostiene che
l’umano sapere può dispiegarsi soltanto nel piano dell’esperienza, nega che
la totalità sia conoscibile. Egli, peraltro, la distingue in tre determinazioni
fondamentali: l’anima è la totalità dei fenomeni psichici. Il mondo è la
totalità degli accadimenti e dei fenomeni naturali. Infine, Dio è la totalità
somma, che racchiude tutte le altre. Per Kant, nessuna di queste possibili
figure della totalità è conoscibile. Ciò non vuol dire che non esistano.
Semplicemente, non possono essere conosciute dall’intelletto umano, che
legittimamente opera solo nel piano del finito e del sensibile, dunque – per
riprendere la distinzione precedentemente introdotta – nella sfera delle
parti.
Espressamente contrapponendosi alla prospettiva di Kant, Hegel sosterrà
che la totalità può essere conosciuta: e, di più, che un sapere che si
limitasse alle parti sarebbe, per ciò stesso, un sapere parziale, incompleto e
– come Hegel lo qualifica – “astratto”. In questo senso, astratto significa,
letteralmente, “tractum ab”, “estratto” dalla totalità che lo ospita e di cui è
parte integrante. La totalità così come la intende Hegel, infatti, non è una
realtà monolitica e senza differenziazioni interne: è, al contrario, una totalità
articolata e differenziata, al cui interno le parti e le determinazioni
particolari non sono annullate. Chi intendesse la totalità come qualcosa di
indeterminato e senza parti – come fa, ad esempio, Schelling – sarebbe, per
Hegel, analogo a chi, al buio di una notte senza stelle, dicesse che tutte le
mucche sono nere, senza essere in grado di distinguerle e vedendo soltanto
un’unità indefinita. In quest’ottica, Hegel distingue tra la totalità concreta e
la parte astratta: tra totalità e parte non si dà contrapposizione, poiché la
totalità non è altro che la vita concreta delle parti che esistono nella
relazione reciproca che le rende, appunto, parti di una totalità vivente.
Contrapposto all’astratto della parte, il concreto della totalità riguarda,
letteralmente, il “con-crescere” delle parti nella loro relazione interna alla
totalità stessa: il concreto non è altro, allora, che il nesso tra parti e totalità;
nesso in virtù del quale le prime esistono come relazione interna alla
totalità, che a sua volta sussiste come organismo che ospita le parti. Per
questo, a giudizio di Hegel, è fuorviante pensare tanto la parte senza la
totalità (come fa il pensiero astratto degli illuministi), quanto la totalità
senza le parti (secondo il modo di operare di Schelling).
Sia Kant sia Hegel distinguono, a questo riguardo, tra “intelletto” e
“ragione”: il primo pensa la parte, la seconda la totalità. E, però, per Kant,
dato che la totalità non si può conoscere, il vero organo del sapere è
l’intelletto. In modo opposto, per Hegel, che ritiene che la totalità sia
accessibile al sapere, l’intelletto è una forma limitata e parziale di sapere: la
ragione è la forma suprema del conoscere, in quanto soltanto essa può
attingere la totalità.
Da questa diversa impostazione, discende una conseguenza degna del
massimo rilievo: per Kant il sapere filosofico, dovendosi attenere alle parti,
si sviluppa nella forma propria delle scienze, che si tengono ben lontane da
ogni volo metafisico verso il sovrasensibile. Per Hegel, invece, filosofia e
scienza si distinguono sia per il metodo sia per il contenuto: la scienza, che
è sapere dell’intelletto astratto, indaga su aspetti limitati del reale,
attenendosi al piano empirico dell’esperienza. La filosofia, che è scienza
della ragione, mira alla totalità: è “metafisica”, si può avventurare oltre i
confini delle cose fisiche e sensibili.
Nel mio presente, Epicuro, sembra che prevalga nettamente
un’impostazione che, in certa misura, si richiama a Kant più che a Hegel:
prova ne è che le scienze dell’intelletto godono di grande fortuna e sempre
meno spazio, invece, è concesso al sapere metafisico della filosofia come
scienza della totalità. L’idea stessa di totalità, per certi versi, sembra essere
messa al bando, non di rado, ora in quanto giudicata una violazione dei
princìpi fondativi delle scienze dell’intelletto ora perché abbinata ai
“totalitarismi” politici del Novecento. Eppure, Epicuro, una totalità intesa
alla maniera di Hegel non soltanto non intralcia le scienze nel loro legittimo
operare: non può nemmeno condurre ai totalitarismi politici. Se questi
ultimi erano la totalità nella forma di uno Stato che annientava le sue parti,
cioè le vite concrete, la totalità di Hegel è strutturalmente diversa: è una
totalità rispettosa delle parti e delle differenze, senza le quali non sarebbe.
81
Trascendenza

Caro Epicuro,
oggi vorrei discutere con te di trascendenza. Il termine è tra i più
importanti del vocabolario della filosofia ed è per questo degno di una pur
rapida analisi in questa mia lettera. “Trascendenza” deriva dall’unione di
due parole latine, “trans” e “ascendere”. Se tradotto alla lettera, significa
“ciò che sale al di là”: per estensione, indica ciò che sta al di là, ciò che
rinvia a qualcosa di altro rispetto a quel che sta dinanzi a noi. Per
comprendere al meglio il significato del concetto, può essere utile
richiamarsi, per contrasto, al suo opposto: la trascendenza si contrappone
all’“immanenza”, ossia a ciò che è nel puro piano delle cose sensibili che
stanno dinanzi a noi. In maniera diametralmente opposta, la trascendenza
rinvia a un piano ulteriore, che sta al di là rispetto a quello immediatamente
visibile e che, insieme, risulta superiore rispetto a esso.
Trascendenti sono, ad esempio, le idee di Platone, a cui già abbiamo
fatto cenno: esse non sono nel piano dell’immanenza, ma sono collocate in
una dimensione ulteriore, che trascende quella del sensibile e presenta
maggiore valore rispetto a essa. Alla prospettiva di Platone, replica il suo
allievo Aristotele. Questi, alla trascendenza delle idee platoniche, risponde
con l’immanenza assoluta delle “forme”: l’idea di cavallo, come sappiamo,
per Platone rinvia alla trascendenza di un mondo ulteriore, a un piano
superiore a quello sensibile, che fa sì che il sensibile esista nella forma con
cui lo percepiamo. Al contrario, per Aristotele l’idea di cavallo non esiste
come ente trascendente: è proiettata nell’immanenza del mondo sensibile. In
altri termini, non è l’idea trascendente a determinare la concreta esistenza
dei cavalli empirici (che a essa si ispirerebbero, partecipandone e
imitandola): è, al contrario, dal concreto mondo immanente dei cavalli che
noi ricaviamo, per astrazione, la forma del cavallo.
Sarà il cristianesimo, dopo Platone, a rinnovare profondamente l’idea di
trascendenza. Per la teologia cristiana, come per la filosofia platonica, il
mondo sensibile non esaurisce il senso ultimo delle cose: è, invece, un
segno che rinvia a una superiore dimensione di trascendenza: se Platone la
chiamava “iperuranio”, i cristiani la definiscono “paradiso”. Al netto delle
pur importantissime differenze, il movimento di pensiero resta il medesimo:
ciò che c’è, non è tutto, giacché il sensibile rimanda a un sovrasensibile che
sta “sopra” e “al di là” del sensibile stesso.
In questa prospettiva, potremmo dire che la trascendenza fa valere una
concezione di tipo dualistico: contrappone al mondo sensibile quello
sovrasensibile, duplicando, per così dire, la realtà. Al grado più basso vi è
la realtà empirica, di cui facciamo esperienza con i nostri sensi. A un livello
più elevato si colloca la realtà sovrasensibile, che non può essere percepita
per il tramite dei sensi: sta, invece, agli “occhi” della mente e del pensiero
raggiungerla.
In modo opposto, l’immanenza prospetta una visione di ordine
monistico: non esiste altra realtà rispetto a quella che concretamente
percepiamo con i nostri sensi. Per questo, dal punto di vista degli
immanentisti, il mondo è soltanto uno ed è quello in cui quotidianamente ci
muoviamo.
A rigore, Epicuro, si potrebbe dire che può anche esistere, forse come
eccezione, un tipo di trascendenza immanente: sembra un paradosso, ma
non lo è. Questo particolare tipo di trascendenza immanente è quella del
futuro, inteso come una dimensione diversa e superiore, in nome della quale
agire nel presente. La modernità tende a sostituire alla fede nella
trascendenza del paradiso quella nella trascendenza immanente di un futuro
migliore.
L’uomo stesso, per sua essenza, può a tratti definirsi come l’ente che per
natura è portato alla trascendenza: se non necessariamente a quella di tipo
religioso, sicuramente a quella di tipo immanente, legata alla ricerca di un
futuro migliore. Il dispositivo di pensiero è lo stesso: ciò che c’è non è tutto,
perché quel che esiste rinvia a qualcosa di diverso e di superiore.
Quest’ultimo, però coincide con un altrove inteso nel tempo più che nello
spazio.
Queste considerazioni, Epicuro, mi permettono di riflettere su quanto la
nostra epoca abbia negato ogni genere di trascendenza: nel suo complesso,
ha abbandonato sia la fede in un al di là più grande, sia in un domani
migliore. Si è così consegnata alla disincantata accettazione di ciò che c’è,
perché non è più in grado di contrapporre qualcosa di grande in cui sperare
e per cui adoperarsi quotidianamente.
82
Fenomeno

Caro Epicuro,
antica e veneranda è la storia del concetto filosofico di cui ho deciso di
scriverti oggi. Lo si trova già tra i primi filosofi dell’antica Grecia. Diventa
decisivo nella filosofia della modernità. E ancora oggi mantiene un ruolo
niente affatto marginale nel dibattito filosofico specialistico, come nella
lingua corrente. Il concetto è quello di “fenomeno”. Il termine, come sai,
deriva dalla vostra lingua greca, in particolare da “fainòmenon”, che è il
participio sostantivato del verbo “fàinomai”. Quest’ultimo significa,
propriamente, “mostrarsi” e “apparire”: nel suo senso più generale, il
fenomeno è, dunque, ciò che appare, facendo mostra di sé e risultando
conoscibile attraverso i sensi. Proprio del fenomeno è il suo carattere
ambivalente: ciò che appare può, infatti, corrispondere all’essenza obiettiva
o, invece, mostrarsi diverso da quello che realmente è. Siamo, così, giunti
dinanzi al dilemma del rapporto tra apparenza e realtà. Le cose come si
manifestano corrispondono davvero a ciò che esse sono in realtà? E,
dunque, tra realtà e apparenza si dà piena coincidenza (l’apparire rivela
l’essenza del reale), totale opposizione (l’apparire nega il reale,
distorcendolo) o una relazione elastica, che chiede di volta in volta di
essere indagata?
Il movimento scettico, ad esempio, si fondava sulla esasperazione della
differenza tra fenomeno ed essenza: come il remo immerso nell’acqua si
mostra spezzato, così i nostri sensi ci ingannano in tutte le altre occasioni. Il
fenomeno non corrisponde mai all’essenza e dunque – questo il corollario
scettico – occorre sospendere il giudizio.
Diversa e, di più, opposta, era stata invece la prospettiva dell’antico
Anassagora. Questi intendeva per fenomeno ciò che appare ai sensi e che,
per così dire, esorta il soggetto conoscente ad avventurarsi al di là di essi:
“òpsis adelon tà fainòmena”, dice Anassagora, ossia “i fenomeni sono uno
sguardo lanciato sulle cose che non si vedono”. Forse, lo si potrebbe anche
tradurre con “i fenomeni sono uno sguardo lanciato verso le essenze”, alle
quali alludono e rinviano.

«Le parvenze fenomeniche sono l’aspetto visibile delle [cose] che non si vedono.»

ANASSAGORA

È con Platone, a ben vedere, che si avvia il processo di svalutazione di


ciò che è fenomenico: il vero essere si manifesta non già ai sensi, bensì al
pensiero. E coincide con il piano non sensibile, e dunque non fenomenico,
delle idee. Tale svalutazione del fenomenico verrà esasperata dallo
scetticismo, come ricordavo: e sarà anche, in certa misura, la base della
svalutazione – pur non così radicale – operata dal cristianesimo, che al
piano fenomenico contrapporrà la vera essenza del mondo sovrasensibile.
Con Aristotele e con la sua usuale sensibilità per l’immanenza, il termine
fenomeno viene riabilitato e, di più, assume una connotazione non distante
da quella con cui ancora oggi lo troviamo nel vocabolario delle scienze: per
Aristotele, infatti, il fenomeno è l’ambito al quale deve attenersi la scienza.
Se essa contraddice o supera il fenomeno, allora deve, per Aristotele, essere
respinta.
Nell’evo moderno, è stato Kant, più di tutti, ad affrontare in modo
originale la questione del nesso tra fenomeno ed essenza. A suo giudizio –
così egli sostiene nella Critica della ragion pura del 1781 –, ogni nostra
conoscenza avviene nel tempo e nello spazio (le “forme pure della
sensibilità”), dunque calata nel piano fenomenico: non conosciamo mai la
“cosa in sé”, che è per noi solo un “noumeno” (ossia un “pensato”), ma
sempre e solo il “fenomeno”, ossia l’apparire sensibile.

«Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da cosa,
infatti, la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò
non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi? E, per un verso,
[questi] danno origine da sé a rappresentazioni; per un altro, muovono l’attività del
nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a riunirle o separarle, e a
elaborare la materia greggia delle impressioni sensibili per giungere a quella
conoscenza degli oggetti, che si chiama esperienza. Nel tempo, dunque, nessuna
conoscenza in noi precede all’esperienza, e ogni conoscenza comincia con questa.»

I. KANT

«Senza i sensi non sarebbe a noi posto alcun oggetto, e senza l’intelletto nessun oggetto
verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti
sono cieche.»

I. KANT

Dopo Kant, il concetto di fenomeno verrà impiegato addirittura per


assegnare il nome alla “scienza dell’apparire”, alla “fenomenologia”: così,
nel 1807, Hegel intenderà il senso fondamentale del proprio capolavoro, la
Fenomenologia dello Spirito, che ha per oggetto il mostrarsi del sapere nel
suo apparire. Diversissima, tuttavia, sarà l’accezione che la fenomenologia
assumerà con Edmund Husserl, tra XIX e XX secolo: questi la intenderà, a
differenza di Hegel, come l’esplorazione sistematica della coscienza
trascendentale. Essa non studia i dati di fatto, ma le essenze, ossia le
strutture invarianti e universali delle cose.
Non ho qui la pretesa di ripercorrere, nemmeno per sommi capi,
l’avventurosa storia del concetto di fenomeno dai greci a oggi. Mi limito a
sottolineare, Epicuro, come l’odierna società di massa oscilli tra due estremi
opposti, che si rivelano tra loro complementari. Per un verso, assistiamo
all’apoteosi del postmoderno relativismo, che tutto tende a liquidare come
fenomeno ingannevole: e da ciò fa seguire la pretesa di un congedo
definitivo della ricerca della verità. Per un altro verso – ed è il fondamento
della società dello spettacolo –, assistiamo al trionfo del fenomenismo
assoluto. Ogni apparire viene assunto acriticamente come vero, quasi come
se il fenomeno risolvesse in sé il reale: tutto ciò che appare sugli schermi
televisivi o sulle pagine dei giornali è accolto come se nel suo apparire si
esaurisse ogni realtà.
83
Ermeneutica

Caro Epicuro,
è a un termine tecnico della filosofia che ho scelto di dedicare la lettera
di oggi. Voglio, infatti, discutere con te di ermeneutica. Che cos’è? Qual è il
suo significato? La parola “ermeneutica” deriva dal greco “hermeneutikè
téchne”, che, se tradotto alla lettera, significa “arte dell’interpretazione”. Si
è soliti concordare sul fatto che, a sua volta, l’espressione derivi dal dio
Hermes, il messaggero degli dèi olimpici: il cui compito stava nel
trasmettere ai mortali i messaggi divini, facendo, per così dire, da tramite
tra l’Olimpo e la terra. È, d’altro canto, a Hermes che viene anche attribuita
dal mito la scoperta del linguaggio e della scrittura: scoperta che avrebbe
reso possibile, ai mortali, la traduzione dell’infinito che abita i loro pensieri
nel finito del testo scritto. Nel suo significato più generale, Epicuro,
l’ermeneutica è, dunque, l’arte dell’interpretazione, mediante la quale – così
per lungo tempo – si cerca di intendere il vero significato dei testi: ciò vale
soprattutto per i Testi Sacri della tradizione cristiana. Come può essere
realmente interpretata la parola di Dio così come ce l’hanno restituita i
discepoli di Cristo? Agostino di Ippona (354-430 d.C.), con il suo testo
Sulla dottrina cristiana, distingue tra una interpretazione “letterale” (che
insegna i fatti accaduti), una “allegorica” (da cui apprendiamo ciò in cui
crediamo), una “morale” (dalla quale si impara l’agire) e una “anagogica”
(che ci trasmette la tensione spirituale).
Grande sviluppo è senz’altro offerto all’ermeneutica, nell’Occidente
cristiano, dal problema dell’interpretazione dei Testi Sacri: e ciò soprattutto
quando, con Lutero, affiorano letture divergenti, che creano scissioni
ermeneutiche – è il caso di dirlo – in seno al mondo cristiano. È a quel
punto che scaturisce, più forte che mai, l’esigenza di una retta ermeneutica
del Testo Sacro: per inciso, è anche in ciò una delle più rilevanti differenze
tra l’Occidente cristiano e l’Oriente islamico, che invece non conosce
l’ermeneutica del Testo Sacro. Questa diversità, Epicuro, si spiega in
ragione del fatto che il Corano si pretende scritto direttamente da Allah e,
dunque, non può essere liberamente interpretato, là dove il Vangelo,
essendo stato scritto dagli apostoli e in forme diverse a seconda del singolo
autore, rende possibile un ampio margine di interpretazione da parte
dell’ermeneuta. Addirittura, Spinoza, nel Seicento, si avventurerà a
sostenere l’esigenza di interpretare i Testi Sacri con il solo ausilio del “lume
naturale”, ossia con una ragione libera da ogni residuo della fede.

«La sapienza e la scienza provengono dalla bocca di Dio ed è Dio a concederle. [...] Il
nostro intelletto e la nostra scienza dipendono e traggono origine e perfezione
esclusivamente dall’idea, cioè dalla conoscenza, di Dio.»

B. SPINOZA

«Ciascuno di noi mediante il lume naturale chiaramente comprende la potenza e la


divinità eterna di Dio, dalla quale può dedurre quali cose debbano essere perseguite e
quali evitate [...].»

B. SPINOZA

Uno dei capisaldi dell’ermeneutica, Epicuro, è da ravvisarsi nel


cosiddetto “circolo ermeneutico”, che troviamo tematizzato presso
numerosi autori (già, ad esempio, presso il teologo protestante Mattia Flacio
Illirico e nella sua opera del 1567, La chiave della Sacra Scrittura): il
circolo ermeneutico permette una prima immediata e complessiva
comprensione del Testo Sacro, resa possibile dalla fede dell’ermeneuta;
questi solo dopo, e tenendo sempre in considerazione la visione fideistica,
potrà rivolgersi alla ricerca della conferma della giusta esegesi attraverso le
analisi delle singole parti del testo.
Sviluppando verso nuove direzioni questo principio, Friedrich
Schleiermacher (1768-1834) si spingerà a sostenere che l’ermeneutica è un
compito infinito e inesauribile: non esiste una interpretazione che possa
dirsi definitiva.
Finora, Epicuro, s’è detto che l’ermeneutica è l’arte dell’interpretazione
del testo. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento si sviluppa una nuova
prospettiva, che fiorirà nel Novecento: l’interpretazione si estende e
riguarda il rapporto del soggetto interpretante non solo con il testo, ma
anche con il mondo nella sua complessità. In altri termini, il mondo viene
concepito come un immenso testo che chiede di essere interpretato. Voglio
qui ricordare Wilhelm Dilthey (1833-1911) e la sua distinzione tra lo
“spiegare” (in tedesco “erklären”) e il “comprendere” (in tedesco
“verstehen”): le scienze della natura spiegano il mondo, investigando sulle
cause e sulle leggi universali, là dove le scienze dello spirito aspirano a
comprendere il caso singolo nella sua storicità.

«Il comprendere è il ritrovamento dell’io nel tu; lo spirito si trova in gradi sempre
superiori di connessione; questa identità dello spirito nell’io, nel tu, in ogni soggetto di
una comunità, in ogni sistema di cultura, nella totalità dello spirito e nella storia
universale, rende possibile la collaborazione delle diverse operazioni nelle scienze dello
spirito.»

W. DILTHEY

La lezione di Dilthey sarà sviluppata verso nuove direzioni soprattutto da


Martin Heidegger, nel Novecento: a suo avviso, il nostro essere al mondo è,
nella sua sostanza, un continuo tentativo di comprensione ermeneutica di
ciò che ci sta intorno. L’ermeneutica cessa così di essere intesa solo come
metodo e assume un carattere ontologico, connesso con il rapporto che lega
l’uomo all’essere nella sua interezza. Questo approccio diventa, poi,
centrale presso l’allievo principale di Heidegger, Gadamer, il quale, in
Verità e metodo (1960), mette a tema la “fusione di orizzonti”: ogni
interpretazione scaturisce dall’incontro tra l’orizzonte storico
dell’interpretato e quello dell’interprete, dando luogo a un prisma
ermeneutico che varia storicamente.
«L’interprete non può proporsi di prescindere da se stesso e dalla concreta situazione
ermeneutica nella quale si trova.»

H.G. GADAMER

«La comprensione non va intesa tanto come un’azione del soggetto, quanto come
l’inserirsi nel vivo di un processo di trasmissione storica, nel quale passato e presente
continuamente si sintetizzano.»

H.G. GADAMER

A me pare, Epicuro, che il principio dell’ermeneutica debba oggi essere


valorizzato, in ragione del fatto che stiamo assistendo a un predominio di
quelle che Dilthey appellava “scienze della natura”: le quali pretendono di
essere le sole depositarie del sapere legittimo, esautorando ogni forma di
conoscenza che non sia scientifica. Contro questa tendenza, occorre ribadire
con forza l’importanza dell’interpretazione e di uno spazio di verità che –
per riprendere il titolo di Gadamer – vada al di là del metodo delle scienze.
Tuttavia, il principio dell’ermeneutica non deve essere estremizzato: il
punto di vista dell’individuo interpretante non deve porsi come assoluto: la
celebre sentenza di Nietzsche – “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”
– è, da questo punto di vista, l’apice di un’ermeneutica portata ai suoi
eccessi, piegata a un relativismo prospettico che la spinge, dalla ricerca
della verità mediante l’interpretazione, all’abbandono di tale ricerca in
nome dell’infinita e mai definitiva interpretabilità.
84
Ideologia

Caro Epicuro,
è di un fantasma inquietante che oggi desidero scriverti: si tratta di uno
spettro che si nasconde il più possibile e che ha, quale sua prerogativa, il
confondersi con la verità. A tale spettro assegno il nome di ideologia. È,
Epicuro, un concetto squisitamente moderno, assente presso l’immaginario
di voi greci. Lo troviamo la prima volta in Francia, a cavallo tra XVIII e
XIX secolo: gli idéologues – così li chiamò con disprezzo Napoleone –
erano un eterogeneo gruppo di intellettuali legati alla cultura illuminista:
ritenevano di poter spiegare la concreta formazione delle nostre idee a
partire dalla sfera del sensibile. In questa prima accezione, l’ideologia
sarebbe, in sostanza, la scienza che spiega la genesi materiale delle nostre
idee. Dopo gli idéologues, il concetto muta significato e assume la
connotazione di spettro, a cui facevo prima riferimento: con Marx ed
Engels, “ideologia” è, in generale, la produzione mentale che rispecchia
fedelmente e santifica il presente e i suoi asimmetrici rapporti di potere.

«[...] Kant e Fichte vagavano fra nuvole lassù cercando un paese lontano. Io cerco
d’afferrare con destrezza solo quanto ho trovato sulla strada.»

K. MARX

In sintesi, l’ideologia presenta una duplice prerogativa: in primo luogo,


riporta alla condizione della natura ciò che, invece, è storico e sociale.
Dice, ad esempio, che le crisi economiche o le leggi della società
capitalistica, lungi dall’essere un prodotto storico e, come tali, passibili di
trasformazione, sono naturali: la natura, Epicuro, distinguendosi dalla storia
e dalla società, deve essere semplicemente rispecchiata così com’è, non può
essere né criticata né trasformata. Chi si sognerebbe, in effetti, di criticare
l’andamento dei pianeti o di intervenire per mutare le eclissi? Ricondurre a
questo stesso statuto naturale la società e l’economia significa, Epicuro,
dichiararle immutabili e non criticabili, degne solo di essere accettate e
registrate così come sono.
La seconda prerogativa dell’ideologia, Epicuro, è – così vorrei definirla
– la falsa universalizzazione che essa opera: l’ideologia, infatti, presenta
sempre come valido per l’intero ciò che lo è solo per la parte. In tal
maniera, generalizza falsamente gli interessi della parte, contrabbandandoli
per interessi della collettività: è questo, tra i tanti, il caso di quanti celebrano
la già ricordata globalizzazione e il sistema della produzione capitalistica
come se fossero un bene per tutti, quando lo sono solo per le classi più
facoltose. È in questo senso, Epicuro, che l’ideologia si presenta come il
fantasma della verità, come l’ombra che si confonde con essa: vero è ciò
che permette di essere pensato come realmente universale (ad esempio,
l’abolizione della schiavitù e della tortura), mentre è ideologico ciò che si
presenta universale, come il vero, ma che in realtà è sempre e solo un
particolare falsamente universalizzato (pensiamo, ad esempio, al lavoro
precario, esaltato come generalmente buono).
Così concepita, l’ideologia è, allora, la visione che giustifica l’ordine dei
dominanti, presentandolo come naturale (dunque come immutabile e
fisiologico) e come valido universalmente per tutti (dunque, come buono
anche per chi avrebbe tutto l’interesse a contrastarlo in nome del vero
universale). È questa, in fondo, la tesi che, prima di Marx, esprimerà
Platone per bocca di Trasimaco nel primo libro della Repubblica: “il giusto
è l’utile dei più forti”, i quali si adoperano per trasformare il loro dominio in
naturale e buono in generale.

«Ciascun governo istituisce leggi per il proprio utile; la democrazia fa leggi


democratiche, la tirannide tiranniche e allo stesso modo gli altri governi. E una volta
che hanno fatto le leggi, proclamano che il giusto per i governati è ciò che è invece il
loro proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore della legge e
ingiusto. Questo è quello che dico giusto, il medesimo in tutte quante le poleis, l’utile
del potere costituito. Ma, se non erro, questo potere detiene la forza. Così ne viene, per
chi sappia ben ragionare, che in ogni caso il giusto è sempre identico all’utile del più
forte.»

PLATONE

Accanto ai due significati storicamente assunti dalla parola ideologia


(come scienza delle idee e come mistificazione del reale a beneficio dei più
forti), ve ne è un terzo, Epicuro: ideologia significa – soprattutto nel
Novecento, il secolo delle ideologie – visione del mondo, grande narrazione
in grado di mobilitare politicamente. Ad esempio, Gramsci sostiene che
l’ideologia è una filosofia che si fa visione politica in grado di mobilitare le
masse sul piano politico.
Credo, Epicuro, che l’epoca in cui vivo possa verosimilmente definirsi
come post-ideologica e, insieme, come massimamente ideologica. Si tratta
di una contraddizione solo apparente. È post-ideologica perché dopo il 1989
sono implose le grandi ideologie che nel Novecento avevano mobilitato
politicamente le masse in vista di futuri diversi e migliori. È, però, un’epoca
massimamente ideologica: dopo il 1989, infatti, prevale come unica visione,
universalmente condivisa, quella dei più forti, che riescono con successo a
contrabbandare l’ordine che li vede dominanti – la globalizzazione
capitalistica – come naturale e buono per tutti. Se la filosofia è ricerca del
vero, essa non può non essere anche critica dell’ideologia, ossia del falso
che aspira a essere accettato come vero.
85
Alienazione

Caro Epicuro,
che cosa dobbiamo davvero intendere con la parola alienazione? Qual è
la sua essenza? Si tratta di un termine e di un concetto che, a rigore, non si
trova sviluppato presso la filosofia greca. Deriva dal latino “alienatio”,
termine che rinvia direttamente all’“alius”, all’“altro” inteso come
“diverso”. Vero è che, presso voi greci, si usava l’espressione “alloiosis”
per indicare il “mutamento”: espressione che racchiude in sé, come il nostro
“alienazione”, il riferimento all’“altro” (“àllos”). Infatti, Epicuro, il
concetto di alienazione indica, nel suo significato più immediato, il
passaggio verso qualcos’altro. Così lo si ritrova, ad esempio, nella sfera
specifica del diritto: l’alienazione è il negozio mediante il quale un
soggetto, detto “alienante”, cede a un altro (chiamato “alienatario”) una
proprietà o un diritto su beni che rientrano nel proprio patrimonio. È,
tuttavia, solo con la modernità che il lemma alienazione entra pienamente a
far parte del vocabolario della filosofia. E prende a indicare il processo
attraverso il quale ciò che in origine appartiene all’uomo ed è opera del suo
agire gli diviene estraneo, finendo, in ultimo, per signoreggiarlo e
asservirlo.
Nella filosofia dell’idealista Fichte, a cavallo tra XVIII e XIX secolo,
troviamo la genesi del pensiero dell’alienazione, quale prenderà forma
compiuta, dopo di lui, con Hegel, Feuerbach e Marx. La tesi portante della
filosofia di Fichte è che il mondo obiettivo, in ogni sua determinazione,
dipende dall’attività del soggetto che lo pone: ciò vale sia per gli enti
materiali (come il bicchiere sul tavolo qui dinanzi a me), che esistono
mediati dall’atto del mio pensare; sia per le istituzioni sociali, economiche e
politiche (che sempre sono poste dall’attività del soggetto umano). Fichte
esprime ciò affermando che l’Io si pone come determinante il non-Io: tutto
ciò che è, è mediato dall’attività dell’Io (è, cioè, un pensato che presuppone
un pensante).
Accade, però, che l’Io, che è all’origine del mondo circostante, non
sappia più riconoscersi in esso e lo pensi come indipendente e superiore
rispetto al soggetto stesso. Il Soggetto si smarrisce nelle proprie
oggettivazioni: si aliena, letteralmente diventa straniero a se stesso. Esso
deve ritrovarsi, superando quell’alienazione: la vita pratica non è altro, per
Fichte, che un ininterrotto superamento delle alienazioni che l’Io pone
dinanzi a sé per poi superarle, procedendo così sempre oltre se stesso.
Dopo Fichte, dicevo, sarà Hegel, nell’Ottocento, a sviluppare, pur
diversamente, questa impostazione: il movimento dello Spirito è quello per
cui esso si aliena, negandosi, e poi ritrova se stesso nel proprio essere altro.
Sempre nell’Ottocento, Feuerbach applica questo modello di pensiero
alla religione: non è Dio a crearci a sua immagine e somiglianza, come
vorrebbero le religioni della tradizione. Siamo, al contrario, noi che creiamo
Dio, nel pensiero, a nostra immagine e somiglianza: in questo senso, il
segreto della teologia sta, per Feuerbach, nell’antropologia. Dio è il modo
in cui l’umanità diventa straniera a se stessa, alienando le sue prerogative
(amore, potenza ecc.) in un ente che le possiede in sommo grado e dal quale
gli uomini finiscono per dipendere.

«Come l’uomo pensa, quali sono i suoi princìpî, tale è il suo dio; quanto l’uomo vale,
tanto e non più vale il suo dio. La coscienza che l’uomo ha di Dio è la conoscenza che
l’uomo ha di sé.»

L. FEUERBACH

«Per arricchire Dio, l’uomo deve impoverirsi;


affinché Dio sia tutto, l’uomo deve essere nulla.
[...] Ciò che l’uomo sottrae a se stesso, ciò di cui per sua natura è privo, se lo gode
in Dio in misura incomparabilmente maggiore.»

L. FEUERBACH
Con Marx, infine, questo modello è ricondotto, dalle nebulose regioni
celesti della teologia, alla sfera della mondanità: il mondo capitalistico è il
regno dell’alienazione. Come nella religione investigata da Feuerbach
l’uomo dipende dal prodotto della sua testa (in una sorta di alienazione
mentale), così nell’ambito della società capitalistica dipendiamo tutti dai
prodotti del nostro lavoro, ossia dalle merci. L’uomo, che nel lavoro
dovrebbe realizzare la propria essenza di animale razionale e attivo, diviene
invece straniero a se stesso: tale è l’essenza del lavoro alienato proprio della
società capitalistica, nei cui spazi l’umanità, anziché realizzarsi, si
smarrisce in forme che contraddicono la sua natura specifica. Dal punto di
vista di Marx, in effetti, l’umanità non sarebbe fatta per vivere e pensare
nella sola dimensione della produzione e dello scambio di merci: e, invece,
la società del capitale è – oggi più di ieri, Epicuro – quella che tutto
riconduce alla forma della merce. Le stesse relazioni tra gli umani si
mercificano, nella forma degli “investimenti affettivi”, dei “debiti e crediti”
nelle scuole, del “capitale umano” come definizione in auge dell’umano. Il
mondo del capitale è, in effetti, una realtà rovesciata, che dell’alienazione
segna l’apice: è una società in cui vere protagoniste sono le merci e gli
uomini figurano come semplici mediatori di merci.
Che fare, Epicuro? Se prestiamo ascolto a Marx, ma poi anche a Fichte e
a Hegel, sappiamo che questa situazione è tragica e, insieme, provvisoria:
infatti, la storia umana è la storia delle alienazioni e delle disalienazioni
dell’uomo, che si perde per poi ritrovarsi e rendersi libero. Per superare
l’alienazione, occorre anzitutto acquisire la consapevolezza della sua
esistenza. Non vi è, infatti, schiavo peggiore di quello che non sappia di
esserlo. O, in alternativa, di quello che pensi che le proprie catene non
possano in alcun caso essere spezzate.
86
Menzogna

Caro Epicuro,
è di un problema con il quale continuamente dobbiamo fare i conti che
oggi vorrei discutere con te. Quante volte, infatti, ci siamo trovati nelle
condizioni di domandarci se il nostro interlocutore stesse mentendo? E in
quanti casi siamo stati noi stessi colti dal desiderio di mentire? Che cos’è,
dunque, la menzogna? E cosa vuol dire mentire? Già Agostino di Ippona,
nel suo trattato Sulla menzogna (De mendacio), ci metteva in guardia:
troppo spesso chiamiamo a cuor leggero “menzogna” cose che, in realtà,
andrebbero altrimenti definite, giacché anche la menzogna ha un suo campo
specifico, che deve essere concettualmente delimitato.

«Riguardo alla menzogna c’è un grosso problema: un problema che spesso anche nei
comportamenti della vita di ogni giorno ci crea pensieri. Succede infatti che a cuor
leggero chiamiamo menzogna ciò che menzogna non è, mentre poi riteniamo lecito il
mentire quando si tratta di una menzogna giustificata, come quando è detta a fin di
bene o per misericordia.»

AGOSTINO

Se dovessi provare a darne una definizione abbastanza generale ma


almeno in parte soddisfacente, direi che la menzogna è un atto di
alterazione, quando non di completa falsificazione, della verità; atto che
viene compiuto con piena consapevolezza dal soggetto. Da una diversa
prospettiva, mente chi fa un’affermazione in consapevole contraddizione
con ciò che egli sa o crede vero. Nel XIX secolo, il filosofo italiano
Rosmini sostenne che la menzogna non consiste in altro, se non nel dire ciò
che non si ha nell’animo. La menzogna, dunque, produce una dissociazione
tra il sapere della coscienza e la sua esposizione ad altri.
Occorre, a tal riguardo, prestare molta attenzione sull’elemento della
consapevolezza, che è centrale per la definizione della menzogna: mente chi
dice altro rispetto a ciò che ha nell’animo, ben sapendo ciò che, in tal
maniera, sta facendo. Ove non vi sia la consapevolezza, non vi è,
propriamente, la menzogna: se, a un passante che mi chiede la strada, do
un’indicazione sbagliata, pensando però che sia corretta, non si tratta di
menzogna, ma di errore. Analogamente, a proposito dell’investitore di
Borsa che sostiene che il mercato globale sia una realtà giusta e buona,
diremo che la sua non è menzogna, ma ideologia, nel senso già chiarito. A
rigore, si potrebbe addirittura ipotizzare il caso di chi, mentendo, dice
accidentalmente il vero: immaginiamo che, per depistare il viandante che ci
chiede indicazioni, gli indichiamo una strada che riteniamo sbagliata e che,
invece, è quella giusta. Abbiamo, paradossalmente, detto una verità
mentendo. Ma la nostra resta, in ogni caso, una menzogna, poiché è tipico
del concetto di menzogna l’intenzione di ingannare l’interlocutore.
L’Occidente, Epicuro, ha pressoché unanimemente sottoposto la
menzogna a una severa condanna morale: dire la verità è in sé giusto e
buono, là dove mentire è proprio del maligno e, nella tradizione cristiana,
del diavolo. Ma possiamo davvero dire, Epicuro, che ogni menzogna sia in
quanto tale malvagia? Già Platone, nella Repubblica, parlava di una
possibile “nobile menzogna”, ossia di una menzogna orientata al bene. Che
dire, ad esempio, del medico che mente al paziente sull’esito della sua
malattia, per non privarlo della speranza della guarigione? Vi è un esempio
classico, Epicuro, che attraversa l’intera storia della filosofia occidentale:
come dobbiamo comportarci dinanzi a degli assassini che giungono alla
nostra porta e ci chiedono se abbiamo visto la persona che stanno
inseguendo e che noi stiamo segretamente ospitando in casa nostra? È
moralmente illecito mentire? O è, al contrario, doveroso farlo?
Se si esclude la posizione di rigorismo estremo di Kant, per il quale
sempre bisogna dire il vero (quand’anche ciò costi la morte dello sventurato
amico che stiamo ospitando), credo che sia difficile negare il carattere
“nobile” di una menzogna che salva la vita degli uomini. È, tra gli altri, il
caso di Jacob “il bugiardo”, che nel ghetto di Varsavia mentiva
spudoratamente, inventandosi bollettini e dispacci mai esistiti, al solo fine
di tenere alto il morale della comunità. Alla luce di quanto detto, Epicuro,
credo sia saggio riconoscere che la questione della menzogna non può
essere affrontata solo dal punto di vista “teoretico” della conoscenza del
vero, ma anche da quello “morale” dell’agire giusto. Se, in generale, la
menzogna è riprovevole, vi sono, non di meno, eccezioni in cui essa è
moralmente doverosa.
87
Indifferenza

Caro Epicuro,
è di un problema legato all’etica e alle sue ragioni che ho deciso di
scriverti oggi. Desidero, infatti, confrontarmi con te sulla questione
dell’indifferenza, che già era al centro del dibattito filosofico ai tuoi tempi e
che oggi torna a essere centrale, sia pure con diverse sfumature e
implicazioni. Che cos’è, allora, l’indifferenza? E quali sono le
caratteristiche principali del soggetto indifferente? Come sempre, procedo
anzitutto provando ad abbozzare una definizione generalissima, che mi
permetta di inquadrare il tema, per poi affrontarlo in modo più
circostanziato. L’indifferenza, Epicuro, potrebbe essere definita come lo
stato d’animo di chi, dinanzi agli oggetti che gli stanno di fronte, non prova
né repulsione né desiderio: egli è indifferente, giacché indifferenti sono, per
lui, tali oggetti. Essi non destano alcun tipo di interesse in lui, che non se ne
cura e li tralascia completamente. L’indifferente, dunque, al cospetto
dell’esigenza di una decisione della volontà, non propende né per l’uno né
per l’altro dei termini dell’alternativa.
A tal riguardo, la filosofia scolastica del Medioevo teorizza la “libertà
dell’indifferenza” (“libertas indifferentiae”) in relazione a quella situazione
specifica in cui i motivi della scelta si presentano del medesimo valore. Per
parte sua, la Chiesa cattolica – anche questo fa parte della storia del
concetto – bolla con il nome dispregiativo di “indifferentismo” le teorie per
le quali a Dio sarebbero egualmente graditi ogni religione e ogni culto. È
questa la posizione ancora sostenuta, tra gli altri, da Félicité de Lamennais
(1782-1854) nel suo Saggio sull’indifferenza in materia di religione.
L’indifferenza assume, così, quella connotazione negativa che ancora oggi
conserva. Prima di questo esito, però, l’indifferenza presentava un valore
generalmente positivo.
Penso, ad esempio, alla filosofia dello scetticismo antico, per il quale
l’indifferenza è la caratteristica fondamentale del saggio: questi è cosciente
del fatto che ogni cosa è uguale alle altre per quel che concerne la sua
credibilità o non credibilità. Presso la filosofia stoica, in cui assume una
valenza pienamente etica, l’indifferenza si erge a virtù del saggio: le cose
del mondo sono “adiàfora”, “indifferenti”, incapaci di smuovere la volontà
da quella “apathia”, ossia da quella “assenza di passioni” che è, a sua volta,
il fondamento dell’“autarcheia”, ossia della capacità dell’uomo savio di
“bastare a se stesso”. Questi non ha alcun motivo per giudicare gli
accadimenti del mondo buoni o cattivi, desiderabili o indesiderabili: non ha,
per essi, alcun interesse, tutto preso com’è nella propria serenità
imperturbabile. È anche questa, in effetti, Epicuro, la condizione che tu hai
immaginato per i tuoi dèi, sommamente felici e indifferenti a ogni
accadimento mondano.
È soprattutto con la modernità, Epicuro, che, come prima dicevo,
l’indifferenza assume una connotazione negativa. Essere indifferenti, ancora
oggi, significa mantenere un contegno di fredda apatia e di grigia
insensibilità rispetto a chi ci sta intorno. È, in altri termini, l’atteggiamento
oggi dilagante nella società dei consumi, in balia di un’indifferenza
generalizzata: in forza della quale ciascuno, assorbito da sé e ripiegato nella
propria individualità di consumatore, rivela la più ebete irresponsabilità e il
più cinico disinteresse per tutto ciò che gli sta intorno. Da virtù del saggio,
com’era per la filosofia stoica, l’indifferenza decade, così, a vizio
egemonico nella società che tutti ci vorrebbe attenti solo al proprio piacere
individuale e dimentichi dell’esistenza di una dimensione sociale più ampia,
fatta di rapporti e di solidarietà. Per questo motivo, ciascuno di noi
dovrebbe ribellarsi a questo gelido cinismo e dire, con Gramsci, “odio
l’indifferenza”: la quale, oltretutto, è alleata privilegiata del mondo così
com’è. L’indifferente, infatti, rinunciando a prendere partito, già si sta
schierando con la realtà nella sua effettiva configurazione, giudicandola
indifferente e, di fatto, degna di restare immutata.
Indice dei temi

Alienazione,
Amicizia,
Amore,
Anima,
Azione,
Bellezza,
Causa,
Comunità,
Confine,
Conflitto,
Conoscenza,
Consumo,
Corpo,
Crisi,
Critica,
Cura,
Desiderio,
Dialogo,
Differenza,
Divenire,
Dono
Economia,
Educazione,
Epoca,
Ermeneutica,
Esistenza,
Esperienza,
Essenza,
Essere umano,
Etica e morale,
Felicità,
Fenomeno,
Giustizia,
Globalizzazione,
Idea,
Identità,
Ideologia,
Indifferenza,
Individuo,
Lavoro,
Libertà,
Limite,
Linguaggio,
Male,
Memoria,
Menzogna,
Meraviglia,
Metafisica,
Metodo,
Mistero,
Mito,
Morte,
Natura,
Nichilismo,
Nostalgia,
Opinione,
Passione,
Patria,
Politica,
Popolo,
Possibilità,
Preghiera,
Pregiudizio,
Progresso,
Razzismo,
Realtà,
Relativismo,
Religione,
Responsabilità,
Rivoluzione,
Scelta,
Scetticismo,
Scopo,
Serenità,
Soggetto,
Speranza,
Storia,
Tecnica,
Tempo,
Totalità,
Tradizione,
Trascendenza,
Uguaglianza,
Universale,
Verità,
Virtù,
Volontà.
Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro
modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle
condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come
l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei
diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto
previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito,
rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore.
In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è
stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore
successivo.

www.edizpiemme.it

Caro Epicuro
di Diego Fusaro
© 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788858524565

COPERTINA || ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA: GIULIA NERI/AMACA AGENCY | COPERTINA: MARZIA BERNASCONI


| ART DIRECTOR: CECILIA FLEGENHEIMER
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
CARO EPICURO
Introduzione
1. Felicità
2. Amore
3. Morte
4. Amicizia
5. Speranza
6. Esistenza
7. Verità
8. Relativismo
9. Scetticismo
10. Religione
11. Critica
12. Giustizia
13. Esperienza
14. Bellezza
15. Conflitto
16. Limite
17. Dono
18. Linguaggio
19. Politica
20. Etica e morale
21. Tempo
22. Storia
23. Possibilità
24. Comunità
25. Lavoro
26. Causa
27. Nichilismo
28. Preghiera
29. Dialogo
30. Opinione
31. Conoscenza
32. Azione
33. Volontà
34. Tecnica
35. Natura
36. Memoria
37. Passione
38. Libertà
39. Economia
40. Realtà
41. Soggetto
42. Crisi
43. Tradizione
44. Responsabilità
45. Individuo
46. Scopo
47. Educazione
48. Corpo
49. Epoca
50. Male
51. Mistero
52. Rivoluzione
53. Progresso
54. Essenza
55. Identità
56. Razzismo
57. Popolo
58. Metafisica
59. Divenire
60. Globalizzazione
61. Cura
62. Pregiudizio
63. Scelta
64. Patria
65. Mito
66. Serenità
67. Virtù
68. Uguaglianza
69. Desiderio
70. Nostalgia
71. Differenza
72. Consumo
73. Metodo
74. Idea
75. Anima
76. Universale
77. Essere umano
78. Confine
79. Meraviglia
80. Totalità
81. Trascendenza
82. Fenomeno
83. Ermeneutica
84. Ideologia
85. Alienazione
86. Menzogna
87. Indifferenza
Indice dei temi
Copyright

Potrebbero piacerti anche