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Biochimica Clinica e Biologia molecolare clincia

Biochimica clinica e Biologia molecolare clinica (Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro)

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BIOCHIMICA CLINICA
13/10/2021
Integrazione e coordinamento delle attività metaboliche nelle diverse cellule, tessuti e
organi: il ruolo dei mediatori extracellulari di tipo ormonale
Ci deve essere coordinazione tra le diverse attività metaboliche dei vari tessuti, in modo che ci
possa essere una risposta coerente. Questa attività è svolta principalmente dagli ormoni. Essi
fanno sì che le varie cellule abbiano metabolismo coordinato tra loro e che ci sia equilibrio nella
risposta a stimoli, lievi o forti. Sono mediatori del segnale di tipo chimico solubili in ambiente
acquoso  attraverso il circolo sanguigno possono diffondere portando il segnale anche a
distanza. Altri sono insolubili, di natura lipidica per esempio, e quindi ci saranno trasportatori
proteici che ne consentono il movimento vero i target. Gli ormoni hanno diverse modalità di
rilascio: esocitosi/secrezione, diffusione (molecole liposolubili), proteolisi  processo che
consente ad un ligando non solubile di essere rilasciato nell’ambiente; diverse proteasi in base
a cui verrà rilasciato un certo ormone o un altro.
Ci sono diverse modalità di segnalazione. La più comune è quella endocrina  a lunga distanza,
attraverso il circolo sanguigno tramite cui i mediatori raggiungono il target; questo è possibile
solo se le molecole hanno un’emivita abbastanza lunga. Un altro tipo è la segnalazione
paracrina  avviene tra cellule vicine, sulle quali i segnali inducono risposte rapide e di breve
durata in quanto i mediatori vengono rapidamente degradati (emivita corta); le molecole del
segnale sono in questo caso locali (es: fattori di crescita, citochine, eicosanoidi…). Segnalazione
autocrina  la cellula secerne un ligando per il quale esprime anche il recettore. Segnalazione
sinaptica  molti ormoni sono anche neurotrasmettitori.
Gli ormoni non agiscono mai da soli ma sempre in sinergia con le altre molecole del segnale.
Essi sono prodotti da cellule specializzate, di solito agiscono a lunga distanza e la loro
concentrazione plasmatica è generalmente costante; se varia lo fa entro limiti definiti nel
tempo e entro certi range fisiologici, prevedibili. La loro concentrazione è relativamente bassa
(10^-10 M), ma sono molto efficienti. Per alcuni ormoni la produzione non è continua ma
intermittente; se la produzione diventa cronica è grave in quanto si può sviluppare resistenza, o
stress cronico  anomalie nella biosegnalazione. I tessuti bersaglio devono sempre essere
sensibili all’ormone. Gli ormoni possono essere peptidici e proteici (polari) derivanti da
amminoacidi, steroidi (non polari) o derivati della vitamina D3.
Feromoni  molecole rilasciate nell’ambiente per comunicare con altri organismi della stessa
specie; traccianti per la ricerca di cibo, partner, definire il territorio… (animali).
Neuro-ormoni  classe di ormoni prodotti dai neuroni, rilasciati nel torrente circolatorio. Si
parla di sistema neuroendocrino per la forte intersecazione tra i due sistemi.
Gli ormoni peptidici hanno recettori sulla membrana  proteine del segnale, secondi
messaggeri; gli ormoni steroidei / vitamina D / retinoidi / ormoni tiroidei hanno invece recettori
intracellulari (nucleari)  regolatori trascrizionali, e recettori sulla membrana cellulare 
proteine del segnale, secondi messaggeri.

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Ammine biogene  derivano dagli amminoacidi, sono prodotte da cellule specializzate e


agiscono da ormoni o neurotrasmettitori. Un esempio sono le catecolammine.
Eicosanoidi  derivano dall’acido arachidonico, e hanno una segnalazione di tipo paracrino;
recettori GPCR.
Ipotalamo: regola l’omeostasi. Rappresenta il centro di comunicazione principale tra il sistema
nervoso e il sistema endocrino. Controlla inoltre il sistema nervoso autonomo. Regola il rilascio
di ormoni dall’adenoipofisi. Influenza i comportamenti come la fame, sete, le emozioni e il
comportamento sessuale. Coordina i sistemi motivazionali, regola il bilancio idrosalino, genera
e regola il ritmo circadiano e i cicli sonno/veglia. Regola la temperatura corporea. E’ localizzato
nella zona periventricolare. I ventricoli contengono il liquido cefalorachidiano e ci sono cellule
che fanno da punto di connessione tra il SNC e la periferia. Sono presenti organi
circumventricolari  non c’è barriera ematoencefalica, possono controllare sostanza presenti
nel sangue che normalmente non entrano in contatto nei tessuti nervosi. L’ipotalamo a sua
volta elabora informazioni che arrivano tramite ormoni e vari ligandi chimici, e manda segnali al
SNC per coordinare le varie attività in base alla necessità. Manda segnali nervosi al SN
autonomo: controlla la frequenza cardiaca, la vasocostrizione, la digestione, la sudorazione, la
respirazione. Rilascio di releasing factors, che a loro volta regolano il rilascio di altri ormoni.
Inoltre, regola il rilascio di ossitocina e vasopressina. L’ipotalamo ha una regione mediale e una
laterale.
Fattori di rilascio ipotalamici  hanno natura peptidica, e ciascuno regola in modo specifico la
secrezione di altrettanti peptidi di sintesi ipofisaria: TRH, CRH, GHRH, PRH, GNRH, SS.
ORMONI IPOTALAMICI
Attraverso essi l’ipotalamo restituisce una risposta agli stimoli che ha ricevuto. Vengono
sintetizzati dai neuroni posti nei nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo, e rilasciati
dalle terminazioni nervose nei capillari dell’ipofisi posteriore. Essi sono ADH  arginina
vasopressina, detto anche ormone antidiuretico; OXT  ossitocina. Sono di natura peptidica,
abbastanza simili tra loro (variano per due amminoacidi). Spesso sono ammidati al C terminale,
e questo serve per stabilizzare e rendere meno reattivo il gruppo carbossilico. Questi ormoni
quando vengono rilasciati sono legati a proteine carrier, per aumentarne l’emivita; esse sono
dette neurofisine. L’ossitocina, la vasopressina e la loro rispettiva neurofisina derivano da un
precursore comune.
Ossitocina: ormone collegato con il parto e con l’allattamento. È infatti essenziale per la
contrazione dell’utero, affinché avvenga il parto; favorisce la contrazione delle cellule
mioepiteliali che stanno intorno ai dotti che permettono la secrezione di latte. La stessa
stimolazione del capezzolo stimola la secrezione di ossitocina. Agisce anche attraverso la
produzione locale di prostaglandine. Il recettore per l’ossitocina è l’OTR, ed è associato a
diverse G-alpha. Esse attivano fosfolipasi C-beta, che controlla l’idrolisi di PIP2 in IP3 e DAG. Il
DAG potrà agire sulle PKC-DAG dipendenti (canoniche), e PKC- Ca/DAG dipendenti. IP3 va sul
suo recettore, che è un canale per il calcio  questo provoca la mobilizzazione del calcio dal
reticolo sarcoplasmatico (nella cellula muscolare), e il calcio esce per gradiente di

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concentrazione, e anche l’attivazione della proteina chinasi C (PKC). Viene bloccata la


fuoriuscita di potassio (che fuoriesce spontaneamente, il canale è normalmente aperto), e
questo provoca una piccola depolarizzazione locale perché si accumulano ioni positivi
all’interno della cellula. Questo agisce su un canale del calcio voltaggio dipendente (L-type) 
ingresso di calcio dall’esterno (localizzato). C’è quindi un’amplificazione del segnale del calcio, il
quale andrà ad interagire con la calmodulina, e questo complesso attiverà la MLCK.
Normalmente le cellule mantengono bassa la concentrazione di calcio intracellulare, grazie al
lavoro della pompa SERCA, e anche grazie alle pompe del calcio che lo fanno uscire all’esterno
con consumo di ATP. Quindi grazie all’ossitocina da un lato si fa entrare calcio dall’esterno, e
dall’altro se ne blocca la fuoriuscita tramite l’inibizione della pompa del calcio. Nella cellula
muscolare liscia, a livello della miosina ci sono 4 catene leggere, di cui 2 sono regolatorie. Come
avviene la contrazione?  la calmodulina lega il calcio, ed essa interagisce con la MLCK
(miosine light chain kinase); questa chinasi fosforila la catena leggera della miosina, e in questo
modo dà il via alla contrazione. Ma l’attività del calcio da sola non è sufficiente. Infatti, c’è una
fosfatasi che rimuove il fosfato dalla miosina; RhoK (chinasi attivata da Rho) va a fosforilare la
fosfatasi inattivandola. RhoK è una chinasi attivata da Rho, che è una small G protein. Quindi è
un effettore di Rho, la quale è attivata da una G-alpha.
Ossitocina e contrazione del miometrio: il recettore dell’ossitocina viene attivato, c’è aumento
di calcio intracellulare che va ad attivare la MLCK che va a fosforilare la catena leggera. C’è la G-
alpha 12-13 che è in grado di attivare rho. Rho a sua volta attiverà RhoK, che fosforilerà la
fosfatasi inibendola. Viene anche indotta l’attivazione di un inibitore detto CPA che è un
ulteriore modo per inibire la fosfatasi. Questo segnale così sarebbe troppo debole. C’è anche
l’attivazione delle MAPK sotto il recettore dell’ossitocina. Esse servono alla produzione delle
prostaglandine. Esse agiscono per un certo periodo in modo autocrino/paracrino, quindi
localmente, per potenziare in quella zona la risposta biologica. Cosa fanno?  sono
responsabili del dolore e dei processi infiammatori (aumento temperatura); esse derivano dai
fosfolipidi di membrana, e l’enzima responsabile è la fosfolipasi A2, che taglia il legame estere
in posizione 2 del glicerolo, dove è presente l’acido arachidonico (precursore delle
prostaglandine). Di solito questa fosfolipasi riconosce più facilmente la fosfatidilcolina, come
fosfolipide di membrana. La cellula che rilascia prostaglandine sta producendo acido
lisofosfatidico, che è a sua volta un segnalatore che viene riconosciuto da un GPCR. Quindi non
c’è mai un solo segnale, ma una serie di segnali che si generano insieme. Ci sono diversi tipi di
prostaglandine, ma in particolare qui parliamo di prostaglandina H e E. Ci sono tanti recettori
diversi per le prostaglandine, in quanto a seconda del tessuto possono avere effetti diversi. Per
la prostaglandina E ci sono 4 recettori. Uno di questi (V1) lavora potenziando il rilascio di calcio.
La prostaglandina E ha quindi un effetto autocrino/paracrino potenziante, agisce cioè sulla
cellula stessa e su quelle vicine. C’è quindi un fenomeno ad onda sulle cellule C, che dà una
contrazione ritmica e progressiva. L’intensità della contrazione può essere controllata dalle
cellule muscolari lisce, e può essere più blanda o più intensa, per tempi più o meno lunghi. Le
prostaglandine, quindi, sono in grado di modulare bene il segnale. Un rilascio di calcio a valle
delle prostaglandine potenzia il rilascio di calcio reticolare.

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L’ossitocina, quindi, è essenziale per il parto e per l’allattamento; allora perché anche i maschi
producono ossitocina?  sicuramente il fatto di avere una gravidanza modifica fortemente
l’atteggiamento psicologico della madre, e del padre, nei confronti dell’ambiente e degli altri.
Quindi si è visto che l’ossitocina agisce anche a livello centrale, e in particolare tende a dare un
senso di fiducia verso il prossimo. Quindi anche nel maschio l’ossitocina ha questo ruolo. È
anche molto importante per la socializzazione, l’apertura verso l’altro.
Vasopressina (ADH): ha effetto antagonista rispetto all’ossitocina, dal punto di vista psicologico;
è un ansiogeno, tende ad indurre timore nei confronti dell’ambiente. È detto ormone
antidiuretico, quindi come dice il nome inibisce il rilascio di liquidi attraverso i reni (urine). Ha
anche a che fare con la pressione sanguigna. Inoltre agisce sugli aspetti comportamentali legati
all’equilibrio idrico (sensazione di sete). Quando si ha sete?  quando c’è uno stimolo di tipo
chimico che induce la ricerca di acqua. Essa si ricerca perché ce n’è poca e quindi si è abbassata
la pressione, e si è alzata l’osmolarità del sangue (non per forza i due fenomeni coesistono). Ci
sono due tipi di recettori  quelli che sentono la pressione e quelli che sentono l’osmolarità.
Quelli che sentono la pressione sono detti barocettori, i quali la percepiscono per stiramento;
sono situati vicino al cuore, sull’arco aortico e nel seno carotideo, e sono molto sensibili in quel
punto. Segnalano al tronco encefalico. Poi ci sono gli osmocettori, che sentono la pressione
osmotica, la quale dipende dalla concentrazione di ioni e altre molecole; piccole variazioni di
osmolarità provocano grandi flussi di acqua dalle cellule, e di conseguenza inducono uno
stimolo nervoso (rilascio di neurotrasmettitori). Questi recettori stimolano l’ipotalamo a
rilasciare vasopressina, oltre ad agire a livello centrale stimolando la sete. Gli osmocettori sono
molto presenti sul tratto gastrointestinale, quindi quando ingeriamo alimenti salati partono
queste segnalazioni inconsce a livello centrale, che ci stimolano la sete e il rilascio di ormone. Ci
sono però anche altri osmocettori che sentono l’osmolarità a livello del sangue, a prescindere
dal cibo; stanno prevalentemente nelle zone periventricolari, sulla barriera ematoencefalica,
che entrano in contatto con il flusso sanguigno e comunicano con il SNC. Quando l’osmolarità è
bassa si è in condizioni di ipotonicità, quindi concentrazione osmotica al di sotto di quella
fisiologica. I TRP sono particolari canali cationici (sodio e calcio) importanti in questi processi;
c’è depolarizzazione della cellula per apertura di questi canali, grazie a stimoli vari (variazione di
concentrazione di sali, stiramento membrane cellulari dovuto alla perdita di liquidi). La
vasopressina agisce tramite 3 recettori, parliamo di due di essi: V1 e V2. V1 lavora a livello della
muscolatura liscia per la contrazione della muscolatura dei vasi, segnala per il rilascio di ACTH, e
favorisce anche la sintesi di prostaglandine; c’è anche un effetto sul metabolismo energetico. Il
V2 è quello che espresso nei reni serve per l’assorbimento di acqua, e quindi per l’effetto
antidiuretico. La vasopressina ha anche un ruolo sull’omeostasi del glucosio  un’alterazione
dell’equilibrio idrosalino va ad alterare il metabolismo glucidico. Questo perché da un lato la
vasopressina ha un ruolo di aumento di tolleranza al glucosio, ovvero riduce la concentrazione
di glucosio attraverso l’accumulo di liquidi (se espello meno acqua riduco il glucosio circolante).
Poi ha anche un effetto diretto sull’inibizione della gluconeogenesi (principale causa della
resistenza all’insulina), e aumenta il signaling dell’insulina. Però, tramite la stimolazione della
sintesi di ACTH, con produzione di corticosterone, va anche ad aumentare la quantità di
glucosio circolante. Va anche ad indurre la secrezione di glucagone, che a sua volta indurrà il

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rilascio di glucosio dal fegato  due effetti opposti. La vasopressina è anche detta ormone dello
stress. Viene rilasciata infatti in caso di caduta della pressione, e questo si verifica per esempio
in caso di emorragia, danno da riparare (situazione di pericolo), e in caso di abbassamento della
quantità di acqua, e quindi di risorse. Quindi innesca fenomeni di stress, che servono
all’organismo per prepararsi a riparare danni tissutali oppure a una situazione di sopravvivenza.
Azione della vasopressina a livello renale  l’obiettivo fisiologico è l’aumento della pressione
sanguigna ovvero fare in modo che il volume di sangue aumenti. Questo può essere fatto
diminuendo l’escrezione di acqua. Il primo filtrato derivante dal glomerulo assomiglia molto al
plasma; quindi, c’è riassorbimento dei soluti e di acqua per concentrare il liquido. La
vasopressina agisce a questo livello, sul riassorbimento di acqua. Agisce sulla capacità delle
cellule dell’epitelio dei tubuli renali (verso il fondo del tubulo, nella fase finale) di esporre in
membrana le acquaporine. Esse sono proteine in membrana che formano canali attraverso cui
passa in modo specifico l’acqua. Il recettore per la vasopressina attiva adenilato ciclasi che fa
produrre cAMP. Esso fa sì che questi canali, prima posti in vescicole nella cellula, possano
essere portati in membrana, tramite un processo di fusione con la membrana plasmatica. Le
acquaporine sono costituite da quattro subunità, ciascuna costituita da domini transmembrana,
e tre anse extracellulari che costituiscono il poro attraverso cui passa l’acqua. Ci sono
amminoacidi polari che fanno passare le molecole di acqua in fila indiana; trasportano acqua
all’interno della cellula. Sono anche canali per il perossido di idrogeno. Il meccanismo è stato
ben definito: ci sono modificazioni post-traduzionali delle proteine, con fosforilazioni/
defosforilazioni e ubiquitinazioni. L’acquaporina che sta nelle vescicole di esocitosi è fosforilata,
a livello della Ser261; quando arriva il segnale della vasopressina si attiva PKA (da cAMP). PKA
andrà a fosforilare la posizione 256. Allo stesso tempo viene attivata una fosfatasi che
defosforila l’altra posizione. In questo modo la vescicola va in superficie. Se l’acquaporina viene
fosforilata ulteriormente in 269 è stabilizzata lì, e può rimanerci per un certo tempo. Se invece
viene a mancare l’attività della PKA, avviene un processo di ubiquitinazione. L’ubiquitinazione è
un segnale di endocitosi, quindi l’acquaporina viene endocitata. A questo punto ci sono due
possibilità: o rimane nelle vescicole per poter poi tornare in membrana, o progredisce
diventando un late endosome, un’evoluzione della vescicola di endocitosi (MVB, multi
vescicular body, con tante vescicole interne originate per gemmazione); esso può fondersi con
un lisosoma, che porterà alla degradazione del suo contenuto; oppure può fondersi con la
membrana cellulare liberando esosomi. Nel caso in cui invece ritorni la fosforilazione in 261 e
venga de-ubiquitinata l’acquaporina a opera delle MAPK, l’acquaporina sarà pronta per
rispondere a un nuovo stimolo dalla vasopressina. La scelta tra espulsione in forma esosomica e
degradazione lisosomiale è ancora oggetto di studio.
Se si aumenta la quantità di acqua trattenuta (ritenzione idrica), cosa succede all’osmolarità del
sangue? La concentrazione di sali diminuirà. Perciò bisogna regolare anche il flusso di Sali (ioni),
e non solo di acqua. Lo ione che viene prevalentemente regolato è il sodio. Quindi un aspetto
interessante è come funziona l’altro ramo del controllo dell’equilibrio idrosalino: il sistema
renina-angiotensina-aldosterone  lavora in sinergia con l’ADH, e ne controlla la secrezione
(sistema integrato). È regolato da tre meccanismi principali:

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- stimolo nervoso di tipo simpatico


- sistema dei barocettori, carotideo e renale
- sensori della concentrazione di sodio
1-Sistema nervoso simpatico: arrivano le terminazioni nervose e vengono rilasciate adrenalina
e noradrenalina (catecolammine). Esse agiranno su delle cellule particolari, le cellule
iuxtaglomerulari, le quali secernono renina. Queste cellule esprimono un recettore per le
catecolammine ovvero beta-1. Le catecolammine, e in particolare l’adrenalina, potrebbero
anche essere presenti nel circolo sanguigno, per rilascio da parte delle ghiandole surrenali.
2-Barocettori: sensori che sentono la tensione del vaso in prossimità del cuore; lo stiramento
della membrana determina una scarica di potenziale a livello nervoso, e questo si traduce in
un’attivazione del SN simpatico con secrezione di catecolammine. I barocettori presenti a livello
renale invece lavorano per la secrezione di renina; quando a livello centrale c’è una caduta di
pressione il sistema si attiva e viene secreta renina.
3-Le cellule della macula densa sono dei sensori della concentrazione di sodio, che è presente
dentro al tubulo; quindi, in funzione della quantità di sodio presenti sono facilitati i flussi di
acqua su queste cellule. Di conseguenza c’è una variazione di concentrazione salina, in risposta
alla quantità di Na presente. La concentrazione del sodio è una sorta di modo per misurare la
pressione sanguigna; quantità elevate di sodio ci dicono che c’è un buon afflusso di sangue e
quindi una buona filtrazione. Nel momento di cui si riduce l’afflusso di sangue e quindi la
pressione, si riduce anche la concentrazione di sodio ed essa viene percepita e segnalata da
queste cellule. In risposta all’attivazione delle cellule della macula densa vengono anche secrete
le prostaglandine, e le cellule iuxtaglomerulari rispondono ad esse. Vengono probabilmente
prodotte dalle cellule mesangiali, in risposta al calo di sodio all’interno del tubulo (calo
pressorio).
Questi tre sistemi possono lavorare in sinergia, oppure lavorare in contrapposizione e quindi
modularsi reciprocamente, oppure lavorare solo uno rispetto all’altro.
A questo punto quindi la renina è stata rilasciata in circolo; questo segnale parte dal rene, in
risposta a un problema renale o un calo pressorio a livello centrale. La renina è un enzima
proteolitico, e agisce su una proteina che è l’angiotensinogeno, prodotta dal fegato. La renina
taglia l’angiotensinogeno convertendolo in angiotensina I, e questa comincia a circolare. Il suo
destino è quello di essere convertita in angiotensina II, da parte di un altro enzima detto ACE
(angiotensin converting enzyme). ACE è molto espresso a livello polmonare. L’angiotensina II (8
amminoacidi) è il mediatore del segnale attivo in questo processo; ha un forte effetto
ipertensivo: determina vasocostrizione e va a livello renale a favorire il riassorbimento di sodio.
Nel SNC induce lo stimolo della sete, ed a livello surrenale favorisce il rilascio di aldosterone e
quindi controlla il riassorbimento di sodio, che porta con sé l’aumento della pressione osmotica
(anche sotto il controllo ipotalamico). A livello ipotalamico va a stimolare la sintesi di ADH,
quindi induce il riassorbimento di acqua. Agisce anche potenziando l’attività del sistema
nervoso simpatico.

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Esistono altri enzimi amminopeptidasici, carbossipeptidasici o endopeptidasici che trasformano


l’angiotensina II in altre molecole biologicamente attive. ACE2 converte l’angiotensina I in
angiotensina1-9, oppure in angiotensina1-7. Angiotensina1-9 può diventare anche
direttamente 1-7 tramite ACE. ACE2 converte angiotensina II in angiotensina1-7, la quale può
diventare angiotensina1-5 tramite ACE. A lungo termine un eccesso di produzione di
angiotensina I e II (alterazione di questa via) non ha solo effetti a livello pressorio, ma anche a
livello infiammatorio cronico ( malattie degenerative). Questo perché angiotensina II svolge
la sua funzione tramite due recettori GPCR: AT1 e AT2. Questi recettori sono attivati dagli altri
prodotti. C’è un recettore detto Mas che viene legato dall’angiotensina1-7, che ha attività
antagonista rispetto a AT1. Quindi alcuni prodotti secondari hanno attività antagonista rispetto
ad angiotensina II. L’altro recettore è AT2 che lega ad alta affinità angiotensina1-9, invece Mas
lega angiotensina 1-7. Hanno entrambi azione antagonista rispetto ad AT1. Sono antiossidanti,
antiinfiammatori, quindi inattivano vie che vengono attivate da angiotensina II; essa è un
vasocostrittore, quindi i suoi antagonisti saranno vasodilatatori. Possibile approccio terapeutico
 gli inibitori di ACE bloccano la produzione di angiotensina II, oppure ci sono inibitori della
renina; si può anche lavorare a monte sulla produzione di renina tramite beta bloccanti, che
sono inibitori dei recettori beta dell’adrenalina.
Aldosterone: ormone steroideo secreto dalle cellule della zona glomerulare della corteccia del
surrene. Ha recettori in tutte le cellule dell’organismo, e agisce sul riassorbimento e secrezione
di sodio. Sul rene ha l’effetto più importante. In particolare, siamo nell’ultimo terzo del tubulo
distale (dotto collettore, fase finale della filtrazione per la produzione di urine). In questa
regione il riassorbimento di sodio avviene tramite dei canali del sodio. Se avviene
riassorbimento di sodio deve esserci anche riassorbimento di cloruri, in modo da mantenere la
carica elettrica. Contestualmente avviene anche un flusso di potassio, mantenuto dalla pompa
sodio-potassio. La cellula renale è deputata al riassorbimento di sodio. Il sodio che entra deve
essere messo in circolo, e qui lavora la pompa Na-K (entra potassio ed esce sodio). C’è così
ingresso di acqua, regolato dai processi visti precedentemente. L’aldosterone agisce tramite
recettori nucleari, essendo uno steroide. Lavora prevalentemente tramite regolazione genica,
perciò ci vuole almeno qualche ora (regolazione “lenta”). Cosa avviene in poche ore? Il
mediatore chiave dell’azione dell’aldosterone è SGK1, una chinasi, la cui sintesi avviene in
poche ore in risposta all’aldosterone. Essa media l’attività dell’aldosterone sul canale del sodio
(ENaC) e sulla pompa Na-K. Si è visto che il primo processo è l’attivazione delle pompe Na-K
tramite fosforilazione (processo reversibile ma veloce); tutti i canali hanno un numero elevato
di siti di fosforilazione e defosforilazione, che modulano la loro attività. C’è quindi un aumento
dell’attività della pompa. Poi, da un lato c’è attivazione diretta del canale del sodio, e dall’altro
c’è riduzione dell’internalizzazione del canale (starà di più in membrana). SGK1, tramite
fosforilazione, inibisce Nedd4-2 (ubiquitinasi) che quindi NON ubiquitina ENaC. L’aldosterone
tramite il suo recettore andrà ad agire a livello nucleare  la sua attività successiva, che
avviene in un po’ di ore, sarà la sintesi di altri canali del sodio e la sintesi di altre molecole di
pompa sodio-potassio. C’è anche un’azione sui canali del potassio; esso deve uscire per
equilibrare il flusso di sodio, quindi viene regolato il suo canale. L’aldosterone è un
corticosteroide, che ha affinità per un suo recettore uguale a quello dei glucocorticoidi; essi

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sono in grado cioè di legare lo stesso recettore. Come fa l’aldosterone, che è presente in
concentrazione più bassa, ad avere la sua specificità per il segnale? Si è visto che le cellule in
grado di rispondere all’aldosterone esprimono un enzima che converte il cortisolo in cortisone,
inattivandolo. Il cortisolo che entra nelle cellule quindi si ritrova un enzima che lo inattiva. In
questo modo il corticosteroide potrà legare il suo ligando.
C’è anche un signaling che, tramite GPCR, lavora tramite l’incremento di calcio, che attiva le PKC
e la calcio-calmodulina-chinasi. Questi processi portano all’attivazione di fattori trascrizionali, in
particolare TF e Chreb, necessari alla sintesi di enzimi (soprattutto gli ultimi) per la produzione
di aldosterone. Questo sistema si attiva on-demand, al bisogno.

Fattori di rilascio ipotalamici: ACTH (corticotropina) e CRH


L’ACTH è anche legato alle risposte di stress. L’ipotalamo riceve segnali dal sistema nervoso
periferico (simpatico e parasimpatico), più informazioni dalla periferia legate agli equilibri
energetici (glucosio circolante), più tutta la stimolazione sensoriale legata all’ambiente (stress
ed eustress). L’integrazione di tutto ciò determina il rilascio di CRH, e l’azione sull’ipofisi
anteriore per il rilascio di ACTH. L’ACTH andrà ad agire sulle ghiandole surrenali per il rilascio di
ormoni surrenalici, i quali andranno ad agire sull’ipotalamo con feedback negativo. Infatti,
quando il sistema non si attenua siamo in una situazione di deterioramento cronico
dell’omeostasi energetica. L’ACTH è indotto dal CRH, ma anche dalla vasopressina. Il CRH è un
peptide che viene sintetizzato a livello ipotalamico ma anche nei tessuti periferici: cellule del
sistema immunitario e placenta. In particolare, è un marcatore che determina la durata della
gestazione, e quindi il timing per il parto. Questo CRH periferico ha un aumento esponenziale
verso la fine della gravidanza, e indica appunto quando è il momento per la donna di partorire.
È una sorta di dialogo tra ciò che avviene nei tessuti della madre e ciò che avviene nel bimbo:
dialogo tra produzione di ACTH a livello materno e ACTH prodotto a livello fetale. Quindi si
attiva uno stress nella madre che attiva la produzione di prostaglandine. Esse sono importanti a
supportare l’azione dell’ossitocina. Il CRH induce sintesi e rilascio di corticotropina (ACTH)
nell’adenoipofisi. In risposta allo stress viene prodotto cortisolo nella madre, ed esso agisce
sulla placenta per la produzione di CRH; esso va ad agire sul feto e induce la sintesi a livello del
surrene di un precursore della sintesi degli estrogeni. Questo precursore viene convertito in
estrogeni nella placenta. Gli estrogeni contribuiscono in modo chiave ai processi che portano al
parto (distacco della placenta, ecc…).
Si è scoperto che esistono proteine omologhe a CRH, dette urocortine. Ci sono recettori in
grado di legare sia CRH che le urocortine  CRF-R1 e CRF-R2 (GPCR); essi sono espressi da
diversi tipi cellulari, sia nel SNC che nel SNP. Su questi recettori possono lavorare il CRH
(prevalentemente sul recettore di tipo 1) oppure le urocortine. Che significato biologico ha
questa promiscuità?  CRH e urocortine sono i principali regolatori della risposta allo stress, di
adattamento all’ambiente, grazie alla loro capacità di integrare le risposte fisiologiche per
reagire contro un fattore di stress e per il loro duplice ruolo di ormoni e neuromodulatori.
Quindi questo fanno a livello centrale, mentre a livello periferico controllano l’omeostasi del

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glucosio e il metabolismo energetico. Agiranno quindi a livello muscolare, tessuto adiposo,


pancreas e fegato. Hanno un’azione rapida.
Azione del CRH sull’adenoipofisi: segnalazione via PKA, che attiva le MAPK e due fattori
trascrizionali che inducono la sintesi di una proteina detta proopiomelanocortina (POMC). Essa
è prodotta da tantissime cellule diverse (periferiche e del SNC). Essa è un precursore di diversi
fattori peptidici biologicamente attivi. La POMC è precursore anche delle beta-lipotropine, elle
beta- endorfine, beta-encefaline e MSH. Sono molto importanti nella risposta allo stress e nel
metabolismo energetico (controllo e regolazione dell’assunzione di cibo); è di nuovo un sistema
integrato. Esiste poi una specificità nel prodotto finale rilasciato da queste cellule, ed essa è
data dalle proteasi, che agiscono ad un livello piuttosto che un altro. Anche la sintesi di queste
proteasi è controllata. Quindi, il precursore è la proopiomelanocortina (anche delle lipotropine,
endorfine, ecc…). Le endorfine agiscono sul sistema nervoso centrale, e hanno un effetto
analgesico, di inibizione del dolore, di piacere, calma, inibizione dello stress e della tensione;
attenuano la trasmissione nervosa eccitante. Quindi c’è un processo centrale per attenuare gli
effetti degli eventi stressogeni a livello centrale.
L’ACTH prodotto dall’adenoipofisi va in circolo e induce la produzione di ormoni corticosteroidei
(cortisolo  ruolo importante legato allo stress cronico). Quindi, sia CRH su ACTH, sia ACTH su
ormoni surrenalici è via cAMP. C’è di nuovo la necessità di agire a livello trascrizionale, per la
sintesi degli enzimi necessari a produrre gli ormoni steroidei. C’è un’altra proteina che viene
prodotta grandemente, che è un carrier detto Star che serve a internalizzare il cortisolo
(substrato per gli ormoni steroidei). L’ACTH è quindi l’ormone dello stress, che può essere anche
a medio e lungo termine. Controlla il metabolismo glucidico aumentando la disponibilità di
glucosio e lipidi. L’effetto finale è quindi iperglicemizzante, che si manifesta con il cortisolo.
Quindi, uno stress attivato a livello centrale altera i due sistemi, idrosalino ed energetico. In più
il cortisolo ha un effetto anche sul sistema immunitario. L’effetto è a lungo termine, di
adattamento, per prepararsi a ciò che succederà. Il cortisolo è uno degli ormoni più regolati
durante la giornata; il suo picco è al mattino al risveglio. Questo ritmo circadiano non è regolato
dalla luce, ma dall’attività fisica. Il cortisolo ha un effetto negativo a livello ipotalamico e
ipofisario, e segnala lo stop della produzione quando è già presente in quantità sufficienti. In
questo intervengono anche le catecolammine. Se c’è una produzione di esse troppo elevata, si
avrà un appesantimento da questa via, e quindi si attiva un’iperproduzione cronica di cortisolo
che porta a stress cronico, il quale avrà effetti sul metabolismo energetico (rischio per malattie
cardiovascolari, diabete, ecc…).
Il cortisolo è un forte regolatore del metabolismo. Lega recettori nucleari che agiscono a livello
trascrizionale, quindi la risposta non è immediata ma di adattamento, che richiede almeno
qualche ora e poi si può protrarre per molto tempo. L’obiettivo dei glucocorticoidi è rendere
disponibile glucosio circolante, per rispondere a uno stato di stress, soprattutto per quei tessuti
che non hanno altre fonti di energia (come il SN). Per farlo ci sono più modi: degradare le
scorte, aumentare la sintesi e impedire agli altri tessuti di utilizzarlo. A livello del fegato viene
aumentata la gluconeogenesi e diminuisce la glicogenosintesi, sempre tramite un’attività
trascrizionale. L’altro obiettivo è mantenere il glucosio elevato per il SNC, e quindi impedire ai

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muscoli di consumarlo (attività ridotta al 20%). Viene quindi ridotta la produzione di enzimi per
la sua ossidazione, e di nuovo viene impedita la glicogenosintesi. Il muscolo da cosa ricaverà
energia durante lo stress?  lipidi e amminoacidi. I lipidi arrivano dal tessuto adiposo, infatti
uno degli effetti dei glucocorticoidi è favorire la mobilizzazione degli acidi grassi (degradazione
dei trigliceridi in acidi grassi e glicerolo); viene anche qua impedito il consumo di glucosio. Gli
amminoacidi, invece, possono arrivare dalla digestione delle proteine oppure dal muscolo 
unica “scorta” di proteine oltre alle proteine presenti negli epatociti. Il muscolo quindi inizia ad
“autoconsumarsi”, degradando le proprie proteine rilasciando amminoacidi. Essi, quando
vengono degradati, possono dare origine a diversi composti, in base alla suddivisione in
glucogenici o chetogenici. Gli enzimi up-regolati per la gluconeogenesi sono piruvato
carbossilasi, PEP carbossichinasi, fruttosio-1,6-bifosfatasi e glucosio-6-fosfatasi. La reazione che
alcuni di essi catalizzano è irreversibile, e inoltre sono enzimi specifici della gluconeogenesi. In
questo modo non viene sostenuto anche il processo inverso che è la glicolisi, altrimenti sarebbe
uno spreco di risorse e non avrebbe senso.
Cosa succede se il rilascio di cortisolo diventa cronico uscendo dai parametri fisiologici?  il
fegato continua a fare gluconeogenesi, il muscolo consuma poco glucosio e questo si protrae
nel tempo. Si avrà quindi un’iperglicemia, con una condizione di insulino-resistenza che
aumenta il rischio di diabete. Inoltre, ci sono tanti acidi grassi circolanti (NEFA: acidi grassi non
esterificati), quindi a lungo termine o possiamo utilizzarli per produrre energia (attività fisica)
altrimenti tendono ad aumentare, con rischio infiammatorio cronico e rischio aterosclerotico
(disregolazione cronica).
Incretine: ormoni prodotti a livello delle ghiandole intestinali, parenti del glucagone (es:
glucagon-like peptide 1). Essi servono ad avvertire il SNC (e gli altri sistemi che regolano il
metabolismo energetico) che stanno arrivando delle molecole energetiche come il glucosio, e
quindi quando gli alimenti arrivano all’intestino vengono secrete favorendo il rilascio di insulina
così che quando ci sarà il picco di glicemia le cellule beta del pancreas siano già pronte a
produrre insulina. Inoltre, diminuiscono la secrezione di glucagone, rallentano la mobilità
gastrica, diminuiscono il senso di appetito e attenuano la ricerca del cibo. Quando siamo in un
periodo di stress (i glucocorticoidi diminuiscono i livelli di incretine) infatti, abbiamo un senso di
fame nervosa, che dà un senso di appagamento.
Attività immunomodulante del cortisolo  effetto sul sistema immunitario. Il cortisolo al suo
picco tende a inibire la risposta infiammatoria, e quindi inibisce il rilascio di citochine che a
livello centrale vanno a indurre la febbre (es: interleuchina 1). Essendo un ormone legato allo
stress, regola anche il sistema immunitario e quindi le situazioni di pericolo, di rischio di ferite,
ecc. A bassi livelli, invece, può anche stimolarlo, mantenendolo attivo. Se il cortisolo rimane
alto per lunghi periodi il sistema immunitario verrebbe depresso, in quanto non verrebbero più
innescati processi infiammatori. Patologie del sistema immunitario (es: malattie autoimmuni)
vengono talvolta trattate con antiinfiammatori steroidei, per azzerare le risposte infiammatorie
croniche (assumendo quindi cortisolo farmacologicamente). Il cortisolo ad alte dosi tende
anche a stimolare le citochine antinfiammatorie. Le citochine infiammatorie agiscono a loro
volta stimolando la sintesi del cortisolo, per segnalare che c’è un processo infettivo in corso,

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danni, lesioni, a cui bisogna adattarsi. Quindi agiscono a livello ipotalamico, ipofisario e a livello
del surrene. A lungo termine però il sistema immunitario comincia a non funzionare bene e
aumenta i processi infiammatori; questo perché come tutti i sistemi ligando-recettore c’è un
meccanismo di feedback negativo, di protezione: le cellule del sistema immunitario e le altre a
livello sistemico cominciano a produrre meno recettori per il cortisolo, e si innescano altri
processi che attivano NFKb, il recettore necessario per produrre citochine infiammatorie.
Trattamenti con il cortisolo a lungo termine possono, infatti, dare resistenza (in soggetti con
malattie autoimmuni per esempio).
Se il cervello viene mantenuto in uno stato di stress e allerta per molto tempo si va incontro a
indebolimento delle capacità cognitive, che porta a un invecchiamento precoce.
Malattie da alterazione nella sintesi di corticosteroidi:
- Morbo di Addison  distruzione autoimmune della corteccia dei surreni, quindi ridotta
capacità di produrre ormoni steroidei; alterato bilancio idro-salino, ipoglicemia, eccesso
di pigmentazione (colorazione scura della pelle): ACTH in eccesso stimola i melanociti.
- Morbo di Cushing  ipersecrezione di tutti gli ormoni corticosteroidei per iperplasia o
neoplasia della corteccia surrenale; alterazione dell’intero metabolismo, diabete,
insulino-resistenza, ecc…

Ormoni della midollare del surrene: adrenalina e noradrenalina


Il rilascio di adrenalina avviene in condizioni di stress elevato, che richiede una risposta pronta;
ha un effetto iperglicemizzante. Il rilascio di catecolammine segue due vie. A monte c’è
l’ipotalamo. Sono prodotte a livello della midollare del surrene, e allo stesso tempo la corticale
sta producendo cortisolo. C’è un altro aspetto però che riguarda il SN autonomo (attività
funzionali svolte in modo preciso). In particolare, l’adrenalina rilasciata dal SN simpatico agisce
in modo preciso in luoghi precisi del corpo. Questi due aspetti si competono; in condizioni
normali, senza stress, è prevalente l’attività del SN simpatico, che si bilancia con il
parasimpatico nei normali processi fisiologici, con sporadici rilasci di adrenalina dal surrene
quando è necessario. Il rilascio di catecolammine dal surrene aumenta quando aumenta lo
stress. Il sistema nervoso simpatico e parasimpatico si bilanciano tra loro e hanno attività
antagonista; poi c’è il sistema nervoso enterico che ha una sua attività collegata. Nei momenti
di stress l’adrenalina (SN simpatico) inibisce l’attività dell’apparato gastrointestinale ed
escretore, perché le risorse in quel momento devono essere destinate ad altro; al contrario
agirà il SN parasimpatico, in uno stato di riposo, favorendo assorbimento e digestione.
Adrenalina e noradrenalina sono i mediatori rilasciati a valle del SN simpatico (prevalentemente
noradrenalina); essa andrà ad agire sulle cellule che possiedono i recettori specifici. Il SN
simpatico parte dal midollo spinale e arriva ai gangli; dai gangli arriva a innervare i vari organi,
tra cui le ghiandole della midollare del surrene, dove prevarrà il rilascio di adrenalina. Il
parasimpatico invece farà rilasciare acetilcolina, più o meno sugli stessi tessuti. L’innervazione
che controlla i muscoli è diretta ed è via acetilcolina. L’adrenalina e la noradrenalina differiscono
in struttura per un gruppo CH3, che viene aggiunto alla noradrenalina; essa a sua volta deriva

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dalla dopamina. La dopamina è un mediatore del segnale a livello centrale. Una disfunzione nel
suo rilascio è associata al Parkinson.
A livello dei neuroni che producono le catecolammine avvengono le stesse reazioni che
avvengono nelle cellule della midollare del surrene. Queste cellule le accumulano in granuli
associate a proteine per stabilizzarle, e quando arriva lo stimolo da parte del SN simpatico le
rilasciano per esocitosi. Le catecolammine vengono sintetizzate a partire dall’amminoacido
fenilanina ( tirosina  dopamina  noradrenalina  adrenalina).
Catabolismo: le catecolammine vengono degradate e si producono l’acido vanilmandelico e
acido omovanilico, i quali si ritrovano nelle urine.
Ci sono tre recettori per le catecolammine: alpha1, alpha2 e beta. Essi hanno a loro volta dei
sottotipi. Hanno tre signaling diversi, a valle di GPCR  Gq, Gi, Gs. Gli alpha1 attivano Gq, che
attiva PLC la quale aumenta il calcio all’interno delle cellule. Ci sono cellule muscolari lisci con
questo recettore (non tutte), che in seguito ad aumento di calcio intracellulare si contraggono;
nel tratto urinario e gastrointestinale solo alcune cellule hanno questi recettori e sono quelle
degli sfinteri, con rilasciamento del contenuto. Un altro effetto classico è la midriasi, ovvero
dilatazione delle pupille. I vasi periferici rispondono anch’essi all’alpha1 e si contraggono;
questo porta ad un aumento della pressione sanguigna, per compensare ad un calo precedente
(per esempio in caso di emorragia), e per aumentare la disponibilità di sangue per gli organi
come cuore e cervello. Poi agirà anche a livello del cuore in sinergia con i recettori beta.
L’effetto degli alpha1 è anche contrarre gli sfinteri dell’intestino, chiudere lo sfintere interno
della vescica (azioni meccaniche), ma ci sono anche effetti a livello energetico: aumenta la
glicogenolisi epatica (l’adrenalina lavora un po’ come il glucagone). Agisce anche a livello
centrale per la secrezione di ACTH, quindi potenzia lo stato di stress. C’è un effetto anche a
livello dei processi di apprendimento e memoria. A livello delle cellule muscolari lisce c’è
contrazione; a partire da PLC c’è regolazione della MLCK, che fosforila la miosina attivando la
contrazione (vedi schema). Contestualmente ci sono degli stimoli che portano al rilassamento;
il sistema nervoso parasimpatico indurrà il rilassamento dei vasi tramite il rilascio di
acetilcolina. Bisogna inserire in questo pathway i processi antagonisti  come può avvenire il
rilassamento di una cellula muscolare liscia? O tolgo il calcio, oppure blocco la MLCK e attivo
una fosfatasi. Ci sono due vie principali per il miorilassamento:
- Attraverso G protein che attivano adenilato ciclasi (mediato da cAMP), tramite vari
recettori di membrana (GPCR)  attivazione PKA.
- Attraverso l’azione del monossido di azoto (NO), che agisce a livello locale per il
rilassamento dei vasi; esso lavora tramite cGMP. È il mediatore del segnale del
rilassamento in risposta a molti stimoli, come l’acetilcolina (SN parasimpatico) oppure la
bradichinina. Questi mediatori agiscono inducendo la sintesi di NO. La sintesi avviene
principalmente nella cellula endoteliale; il signaling attiverà l’enzima per la sintesi di NO
che è inducibile. Esso diffonde istantaneamente e passa nella cellula muscolare. Molti
mediatori miorilassanti agiscono nel circolo sanguigno, e quindi passano attraverso
l’endotelio. Nella cellula muscolare NO incontra il suo recettore, che è una guanilato
ciclasi citosolica che produrre cGMP il cui target principale è la proteina chinasi G (PKG),

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una serina-treonina chinasi. Essa fosforilerà una serie di target. Questi target ridurranno
la disponibilità di calcio e l’attività contrattile del sistema miosinico, inducendo
rilassamento. PKG regola direttamente o indirettamente i canali che regolano i flussi
ionici, in particolare quelli del calcio. Quando il potassio esce la cellula viene
iperpolarizzata. Questo va a inibire l’apertura dei canali del calcio voltaggio-dipendenti.
PKG va anche ad attivare la fosfatasi, che defosforila la miosina facendo da antagonista al
processo di fosforilazione per la contrazione. PKG attiva anche la pompa del calcio
SERCA, rendendo l’internalizzazione del calcio nel reticolo più veloce. Può anche inibire il
recettore per IP3, in modo che se arriva uno stimolo da IP3 il calcio verrà rilasciato in
modo meno efficiente. Sono tutti processi volti a ridurre il calcio intracellulare. PKG va
anche ad attivare Rho, che attiva a sua volta ROCK che inibisce la fosfatasi. Quindi, con
questa fosforilazione di Rho che è inibente va anche a spegnere altri segnali per la
contrazione che arrivano e passano attraverso una G-alpha che attiva Rho.
PKA è attivata dai suoi recettori, per esempio le prostaglandine; quindi, i processi infiammatori
a livello vascolare inducono vasodilatazione.
C’è anche un’attività parallela della PKA: in un certo numero di cellule muscolari lisce (vie
respiratorie) PKA agisce come NO nelle cellule della muscolatura liscia dei vasi. Non è da
confondere questa azione della PKA con quella che avviene a livello cardiaco, perché lì avviene
l’opposto.
PKA e PKG a volte lavorano insieme in sinergia, mentre altre volte lavora più una o l’altra.
La fosfatasi è un oligomero, formato dall’enzima stesso e da componenti regolatorie, che
dipendono dal tessuto e che regolano l’enzima a seconda del tipo cellulare (per questo hanno
nomi diversi).
Le catecolammine sono coinvolte anche nel metabolismo: aumento delle risorse energetiche
circolanti, quindi mobilizzazione di glucosio  gluconeogenesi e glicogenolisi. Le
catecolammine aumentano la tolleranza al glucosio. Sebbene siano iperglicemizzanti, operano
anche per far sì che i diversi tessuti siano più in grado di internalizzare (attraverso GLUT4) e
metabolizzare il glucosio. È quindi una metabolizzazione “buona”, che non porta a iperglicemia;
quindi, è diversa da quella indotta dai glucocorticoidi. Questo serve per aumentare l’apporto
energetico. A livello epatico viene aumentata la glicogenolisi e la gluconeogenesi. A livello del
pancreas, aumentano il rilascio di glucagone e quindi stimolano ulteriormente la
gluconeogenesi. Aumentano l’assorbimento di glucosio nell’intestino, e l’uptake nel cuore e
tessuto adiposo (tolleranza). Se molto glucosio viene prodotto nel fegato, esso esce e viene
consumato. Vengono consumati anche gli acidi grassi, i quali vengono rilasciati dal tessuto
adiposo. Viene quindi aumentata anche l’ossidazione degli acidi grassi, sia nel fegato che nel
cuore. Viene favorita quindi la lipolisi, per rendere disponibili acidi grassi, per poi produrre corpi
chetonici che sono un combustibile importante per il SNC  elevata energia disponibile per
rispondere all’emergenza.
Il tessuto cardiaco risponde prevalentemente all’adrenalina, soprattutto tramite beta1. Le
cellule cardiache però esprimono anche alpha1, quindi questi signaling si sommano e i due

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recettori collaborano per la risposta del cuore all’adrenalina. Alpha1 serve soprattutto in caso di
stress cronico (soprattutto in caso di sofferenza cardiaca) perché induce ipertrofia (fa crescere
le cellule), per un periodo breve e ottimo; in caso però di stress cronico, e quindi a lungo
termine, si può arrivare a insufficienza cardiaca.
Recettori alpha2 adrenergici  inibitori, quindi abbassano cAMP modulando in modo negativo
altri regolatori positivi di esso. Nei tessuti che esprimono alpha1 e alpha2, alpha2 supporta
l’attività di contrazione di alpha1, contrastando l’aumento di cAMP. Poi però il grosso del loro
lavoro è a livello presinaptico, così le cellule nervose autoregolano il loro rilascio di
neurotrasmettitori e anche quello di altre cellule. Alpha2 ha quindi un ruolo a livello centrale
con feedback negativo; è un meccanismo di protezione dell’organismo. Le terminazioni
simpatiche sulle ghiandole surrenali, che rilasciano adrenalina, agiscono anch’esse tramite
questo meccanismo. Effetto analgesico, attenuante. L’insieme di alpha1 e alpha2 inibiscono la
liberazione di insulina da parte del pancreas, regolano l’aggregazione piastrinica e potenziano la
vasocostrizione. Inoltre, aumentano la secrezione dell’ormone della crescita (GH o
somatotropina), e stimolano l’assunzione di cibo (situazione di stress). Si è visto che GH è
secreto soprattutto in condizioni di stress e di ridotto apporto energetico, mentre il suo rilascio
tende a diminuire in caso di iperglicemia cronica.
Recettori beta adrenergici: sono tre, e lavorano tutti attivando adenilato ciclasi e PKA che
fosforila diversi target. Beta1  localizzati sul miocardio e sull’apparato iuxtaglomerulare;
aumentano il rilascio di renina, e nel cuore aumentano la contrattilità e la frequenza cardiaca.
Per fare ciò occorre da un lato aumentare la capacità di contrazione, ma anche aumentare la
capacità di distensione e di contrazione (intensità). Perciò i flussi di corrente saranno più veloci,
ma perché la contrazione sia pulita (e il rilassamento sia efficace) occorre anche un’attività
veloce di rilascio del calcio nel citosol e un abbassamento rapido. C’è anche un effetto a livello
del citoscheletro, sulle strutture contrattili del cuore. PKA fosforila la titina, una proteina molto
grande di supporto che si estende in tutta la cellula e consente al sarcomero di non superare i
limiti di estensione, e altre proteine favorendo l’estensione delle cellule muscolari. Beta2  si
trovano sulla muscolatura liscia, e agiscono tramite PKA rilasciando la muscolatura, e riducendo
quindi la contrazione (blocco attività contrattile). Si occupano quindi di muscolature importanti
nello stato di stress. Inducono broncodilatazione, per aumentare l’ossigenazione e la capacità
respiratoria. Rilasciano la muscolatura liscia viscerale e del tratto urogenitale (rilascio del
contenuto); inoltre, rilasciamento della muscolatura uterina (ruolo nei rapporti sessuali e nel
parto). I recettori beta2 sono presenti anche sulla muscolatura scheletrica; anche qui c’è
attivazione di adenilato ciclasi, aumento di cAMP e attivazione di PKA, la quale agisce in modo
simile al cuore, per quanto riguarda la gestione del calcio, ma NON agisce sul citoscheletro.
Aumento del rilascio del calcio, aumento depolarizzazione con aumento di frequenza della
contrattilità. C’è anche un effetto metabolico, in muscolo scheletrico e fegato (NO su muscolo
cardiaco, perché non ha glicogeno al suo interno, sfrutta quello esterno). Nel muscolo
scheletrico viene sintetizzato glicogeno, a riposo, come scorta energetica; beta2 potenziano
l’attività glicolitica da un lato, e dall’altro fanno attingere alle proprie scorte di glicogeno,
potenziando la glicogenolisi. Sul fegato, invece, inducono glicogenolisi e potenziano la
gluconeogenesi. Beta3  lavora sul tessuto adiposo; è importante per la lipolisi, perché la

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attiva in modo che gli acidi grassi entrino in circolo (servono al cuore, al muscolo e al fegato per
produrre corpi chetonici). Beta3 se stimolato per molto tempo induce differenziamento delle
staminali mesenchimali del tessuto adiposo in brown (tessuto adiposo bruno), per la
produzione di calore. Questo perché l’adrenalina è rilasciata dal simpatico anche quando si
prova un senso di freddo: agisce sul tremore a livello muscolare, a livello metabolico in
generale aumentando i processi ossidativi e sul tessuto adiposo facendo rilasciare acidi grassi.
Metilxantine  parenti della caffeina e teina, usate anche farmacologicamente, per esempio
nei neonati. Hanno la capacità di inibire le fosfodiesterasi, e quindi mantengono elevato cAMP
così che PKA possa lavorare e contrastare gli effetti contrattili (in pratica sono dei vasodilatanti).
Gluconeogenesi e glicolisi a confronto: siamo nel fegato, il quale deve scegliere se fare sintesi
di glucosio o degradazione. I principali segnali che arrivano in tempo rapido sono quelli di
insulina e glucagone, e adrenalina (poi ci sono altri ormoni che subentrano). Molte reazioni
sono comuni perché sono reversibili; quelle irreversibili invece rappresentano punti di controllo
(e switch nell’altra direzione), perché sono tappe invalicabili per tornare indietro. Una di queste
è il passaggio da piruvato a fosfoenolpiruvato (e viceversa), in cui agiscono due enzimi. Un’altra
tappa che differenzia le due vie è la parte finale della gluconeogenesi, in cui ci sono processi
fosfatasici, con fosfatasi che staccano il fosfato. Con la defosforilazione della fruttosio bifosfatasi
si ottiene un fruttosio-6-P; esso può essere convertito in glucosio-6-P ed essere poi rilasciato
come glucosio, il quale uscirà in circolo (stimolo della gluconeogenesi). Nel fegato agisce
principalmente il glucagone e poco l’adrenalina (si sommano gli effetti), mentre nel muscolo
agisce l’adrenalina. Come?  tramite attivazione di PKA. Lo stimolo nel fegato è di fare
gluconeogenesi. Per farla bisogna inibire la glicolisi, quindi la prima cosa che occorre è
intervenire sulla chinasi che converte il fosfoenolpiruvato in piruvato (reazione irreversibile).
PKA fosforila la piruvato chinasi rendendola meno attiva, quindi ci sarà meno produzione di
piruvato. L’altro punto di regolazione è il passaggio da fruttosio-6-P a fruttosio-1,6-biP. Se si
forma quest’ultimo si procede con la glicolisi, quindi questo deve essere evitato. Per farlo c’è un
regolatore, il fruttosio-2,6-biP, che viene sintetizzato esclusivamente per essere un regolatore. È
un fortissimo attivatore della fosfofruttochinasi, ed è un inattivante della bifosfatasi. Quando c’è
tanto fruttosio-2,6-biP si fa glicolisi. Si va ad agire a livello dell’enzima che produce questo
regolatore, e su quello che lo degrada. Questo è un enzima bifunzionale, con attività fosfatasica
da una parte e chinasica dall’altra. Su segnale del glucagone, PKA si attiva e va a fosforilare
l’enzima bifunzionale  con la fosforilazione prevale l’attività fosfatasica, quindi il fruttosio-2,6-
biP verrà degradato (blocco glicolisi, rilascio di glucosio). Questo nel fegato. Mentre invece nel
cuore viene favorita l’attività chinasica, perché PKA, a valle di adrenalina (NO glucagone!!!),
fosforila un’altra posizione dell’enzima bifunzionale; si formerà quindi fruttosio-2,6-bifosfato.
Questa differenza è perché la glicolisi nel fegato non è voluta, mentre nel cuore sì, per avere
energia (adrenalina = aumento frequenza cardiaca, maggiore energia richiesta).
Glicogenosintesi e glicogenolisi a confronto: gli enzimi regolati sono glicogenofosforilasi e
glicogenosintasi. La glicogenofosforilasi viene principalmente regolata e attivata da una chinasi,
la fosforilasi chinasi; essa a sua volta viene attivata da fosforilazione da parte di PKA. Questo
accade prevalentemente nel fegato. Ci sono anche regolatori allosterici. Nel muscolo agiscono

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altri regolatori, in particolare l’AMP. Il muscolo, oltre a sentire stimoli ormonali esterni, deve
poter agire anche senza uno stimolo di stress, e deve quindi consumare energia. Il sensore della
quantità di energia è l’AMP, derivante da ADP. AMP segnala un basso contenuto energetico, a
prescindere dai segnali ormonali. Nel muscolo c’è adrenalina (NO glucagone), e ha la
segnalazione da calcio (da acetilcolina in quello scheletrico). Il calcio segnala per il processo di
contrazione, ma segnala anche con le PKC. AMP è anche un regolatore di una chinasi
importante, AMP chinasi, che è un sensore di deficit energetico. Il muscolo quindi a differenza
del fegato sente equilibri interni legati alla sua stessa attività di contrazione. La fosforilasi
chinasi è modulata molto di più, non solo dall’adrenalina, ma anche appunto da questi sensori
(PKA, PKC e AMPK  calcio e sensori energetici). Quando il calcio aumenta c’è un segnale di
contrazione continua (effetto su intensità ma anche sulla frequenza). Il calcio va a regolare
direttamente la fosforilasi chinasi, perché essa ha più subunità, una delle quali è una
calmodulina, che potrà legare calcio cambiando conformazione all’enzima e rendendolo attivo.
Quindi ancora prima che arrivi il segnale dell’adrenalina, grazie al calcio il muscolo inizia già a
degradare il glicogeno (e interrompere la sua sintesi). Anche la glicogenosintasi muscolare è
finemente regolata. Essa deve essere inibita. Su di essa operano delle chinasi, inattivandola. Nel
muscolo ci sono molte chinasi, tra cui PKA e altre chinasi dipendenti da calcio.

Asse TRH/TSH: ormoni tiroidei


È un asse intersecato con altri ormoni. Il TRH è il fattore di rilascio della tireotropina
(ipotalamo), e controlla il rilascio di TSH e prolattina a livello ipofisario. TSH è controllato
negativamente dalla somatostatina, che inibisce anche GH (ormone della crescita), che è
l’ormone chiave nel controllo del metabolismo energetico.
TRH: ormone peptidico, molto piccolo, formato da tre amminoacidi di cui uno è un glutammato
chiuso ad anello (detto piroglutammil), insieme a istidina e prolina; quindi, ci sono tre strutture
ad anello. È prodotto a partire da pre-pro-TRH (precursore) ed è poi tagliata da tre proteasi
dette pro-ormone convertasi 1 e 2, e carbossipeptidasi; sono anch’esse coinvolte nella
regolazione del TRH, perché i vari regolatori di quest’asse agiscono non solo sul precursore ma
anche sulla sintesi di questi enzimi. Sono enzimi down-regolati dal prodotto finale dell’asse
(ormone tiroideo) con feedback negativo, e sono regolati positivamente da leptina e aMSH.
TRH è prodotto a livello ipotalamico e va ad agire sull’ipofisi per stimolare la sintesi di TSH. Nel
SNC ci sono il nucleo arcuato e il nucleo paraventricolare, e la regolazione avviene a livello di
questi due nuclei. Il rilascio di TRH è inibito da citochine, corticosteroidi (cortisolo), GABA,
neuropeptide Y, AgRP (agouti-related protein). Nel nucleo paraventricolare ci sono i neuroni che
producono il TRH. Nel nucleo arcuato ci sono i neuroni che ricevono molti stimoli sia dal SNC sia
stimoli ormonali dal circolo sanguigno (per esempio leptina, rilasciata dal tessuto adiposo). La
leptina dà indicazioni sulle scorte energetiche. Ci sono poi altri ormoni come aMSH, regolatore
positivo, in competizione con neuropeptide Y e AgRP (regolatori negativi). La leptina è un
ormone che segnala al SNC che siamo in uno stato ben nutrito; infatti, essa è rilasciata in grandi
quantità quando c’è tanto tessuto adiposo, ovvero quando ci sono scorte energetiche
sufficienti. In questo modo, quindi, dà il senso di sazietà (fa passare la fame) agendo anche sul

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comportamento alimentare. Alterazioni nel pathway della leptina sono spesso associate a
obesità. Il recettore principale della leptina interagisce con un altro recettore, il recettore per le
melanocortine-4 (MC4-R). Il MC2-R è il recettore che lega l’ACTH (proopiomelanocortina è il suo
precursore). Il recettore della leptina è di tipo citochinico, quindi segnala principalmente
tramite la via Jak-Stat. Gli Stat sono fattori trascrizionali, che arrivano al nucleo e attivano la
trascrizione. Interviene anche MC4-R, che agisce principalmente tramite PKA e attivazione di
Creb, altro fattore trascrizionale che regola la sintesi di TRH. Se persiste un segnale da leptina, e
inizia ad aumentare la quantità di ormone T3 circolante, questo andrà a ridurre l’effetto degli
altri segnali per la sintesi di TRH. Il nucleo arcuato fa da punto di connessione con la periferia
(sensore energetico) e comunica con il SNC e altre aree del cervello, per regolare il
comportamento alimentare e il metabolismo. Come viene sentito il livello energetico
periferico? Con la leptina, che indica la massa del tessuto adiposo. Poi c’è l’insulina che indica la
quantità di glucosio circolante, e la grelina, prodotta dalle cellule intestinali, che lavora in
competizione con la leptina perché è l’ormone della fame, che induce la ricerca di cibo.
Il neuropeptide Y e AgRP sono potenti stimolatori dell’appetito (oressigenici), perché riflettono
uno stato di carenza energetica dell’organismo. Sono prodotti da neuroni a loro volta stimolati
dalla grelina, ormone della fame; sono invece inibiti da leptina, insulina e da quegli ormoni
come GLP e colecistochinina rilasciati dall’apparato digerente quando viene assunto cibo
(segnalatori precoci che segnalano la presenza di nutrienti a livello intestinale). Questi peptidi
agiscono inibendo la produzione di TRH e aMSH, il quale ha affetto anoressizzante perché
elimina il senso di fame. L’effetto finale di AgRP è lo stesso, ma esso agisce in modo particolare
 è un antagonista fisiologico endogeno del recettore MC4-R. Si lega ad esso e impedisce al
suo ligando naturale (aMSH) di segnalare e agire.
Famiglia di recettori per la melanocortina: MC1-R  prodotto a livello cutaneo per la sintesi di
melanina; MC2-R  lega ACTH, nelle ghiandole surrenali; MC4-R / MC3-R  legano aMSH a
livello ipotalamico. AgRP ha effetto inibitorio su questi ultimi.
La leptina, arrivando dalla periferia, può agire sia direttamente sui neuroni del nucleo
paraventricolare, sia indirettamente sui neuroni del nucleo arcuato. Direttamente lega il suo
recettore seguendo la via di Jak-Stat e andando così ad attivare il promotore del TRH.
Indirettamente invece agisce in due modi  inibisce la sintesi e il rilascio di NPY e AgRP, e
regola positivamente la produzione di aMSH. Quindi, quando c’è leptina la regolazione è molto
forte sul TRH.
La dopamina ha un’azione positiva sul TRH e negativa sul TSH. Gli ormoni tiroidei inibiscono la
produzione di TSH a livello ipofisario. Gli estrogeni agiscono aumentando la quantità di
recettore per TRH, rendendo le cellule più responsive ad esso. Uno dei primi effetti del calo
estrogenico nella donna in menopausa è, infatti, una minor funzionalità tiroidea. La
somatostatina ha un effetto negativo.
TSH (tireotropina): misurabile facilmente perché è presente a livello del sangue periferico (TRH
sta a livello cerebrale quindi è più difficile, solo in occasioni molto rare). Viene rilasciato in
relazione al ritmo circadiano, legato all’alternarsi sonno-veglia (notte-giorno); il picco si ha
durante la notte (importante dormire per la crescita, nelle ore “giuste”). Il TSH è un dimero, ma

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a livello trascrizionale viene regolata solo la subunità TSHbeta. L’altra subunità alpha va a
comporre la struttura dimerica di anche altri ormoni, come LH e FSH. La beta è specifica del
TSH, quindi viene regolata finemente. TRH induce la sintesi di TSH, ma sappiamo che gli ormoni
tiroidei (T3 soprattutto) hanno un effetto negativo sulla produzione di TSH; infatti, legano i loro
recettori nucleari, che è un regolatore trascrizionale negativo (effetto negativo). Il TSH ha il
compito principale di sostenere la tiroide dal punto di vista di crescita, proliferazione cellulare,
per favorire la produzione ormonale. Inoltre, va nel tessuto adiposo a stimolare la lipolisi 
sostiene i processi catabolici (menopausa: calo degli estrogeni, meno attività catabolica,
aumento di peso). Il recettore di TSH agisce tramite la via di PKA, oltre alla via delle MAPK che
deve sempre esserci ed è importante per la proliferazione cellulare. La tiroide senza TSH tende
ad atrofizzarsi, le sue cellule non crescono più. Favorisce la sintesi proteica e anche la sintesi del
precursore degli ormoni tiroidei (tireoglobulina).
Nella sintesi degli ormoni tiroidei è coinvolto lo iodio. La carenza di iodio fa sì che venga
prodotto poco ormone tiroideo. Se esso non viene prodotto, a livello centrale viene sentita una
necessità di continuare la segnalazione (essendo esso un inibitore della via)  attivazione
cronica della produzione di TRH e TSH, che stimola la proliferazione della ghiandola tiroidea; ma
siccome manca lo iodio quindi si tende ad avere ipertrofia della tiroide (gozzo). Nell’adulto si ha
il gozzo, mentre nel bambino (prime fasi dello sviluppo) si ha cretinismo, ovvero un deficit dello
sviluppo, ormai raro. La carenza di iodio in età adulta non è invece così rara. Per prevenirla si fa
ampio uso del sale iodato. Quindi, viene sintetizzata molta tireoglobulina, e la cellula tiroidea
deve occuparsi di internalizzare lo iodio, e poi il precursore degli ormoni tiroidei deve essere
elaborato per liberare T3 e T4. La struttura della tiroide ha una parte follicolare in cui c’è una
parte esterna di cellule esposte all’ambiente da cui assorbono lo iodio, e una parte rivolta verso
il centro del follicolo pieno di colloide. Essa è una sostanza proteica la cui principale
componente è il precursore degli ormoni tiroidei (tireoglobulina), che verrà poi modificata con
lo iodio riversato all’interno. La cellula tiroidea deve essere predisposta a internalizzare lo iodio.
Quando è disponibile e viene accumulato, viene internalizzato sottoforma di ioduro (I-) tramite
un cotrasporto con il sodio. Così c’è neutralità di carica, e inoltre non viene consumato ATP
perché il sodio viene trasportato secondo gradiente (viene poi consumato per riportare sodio
fuori tramite la pompa Na/K). Lo iodio deve entrare nella colloide, e lo fa tramite un
trasportatore detto pendrina  antiporto cloruro/ioduro. Per sostenere questo trasporto ci
saranno dall’altra parte dei trasportatori del cloro che lo riporteranno dentro contro gradiente.
Tireoglobulina: proteina dimerica che viene prodotta e va nella colloide. Ha un elevato numero
di tirosine, punto di aggancio per lo iodio. Lo iodio verrà legato agli anelli di tirosina quando essi
sono ancora attaccati come amminoacidi al polipeptide; quindi, è la proteina in sé che viene
iodinata. I residui di tirosina vengono poi modificati dalla presenza di iodio (alcune decine).
Come)  lo iodio può essere legato in una o due posizioni. Avviene quindi una modificazione
detta monoiodotironina o diiodotironina (sostituzioni). Poi, compare un altro anello aromatico
che è stato staccato da un residuo di tirosina e portato sull’altro residuo (fa da ponte il gruppo
OH). Si forma quindi la triiodotironina e la tetraiodotironina (precursori). L’enzima che consente
ciò è la tireoperossidasi (fa avvenire una redox, come dice il nome). Come fa essa ad attaccare
lo iodio all’anello della tirosina?  lavora insieme con un enzima di membrana che è una

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NADPH-ossidasi (NOX). Essa ha un ruolo importante nella biosegnalazione. Prendono il NADPH


ridotto e grazie all’attività redox sono in grado di partire dall’ossigeno e produrre perossido di
idrogeno e ione superossido (riducono l’ossigeno). Producono radicali liberi (ROS), in maniera
fisiologica. Questi ROS servono per ossidare lo ioduro a iodio molecolare. Perché non si poteva
assorbire direttamente iodio molecolare?  lo iodio molecolare non ha carica ed è apolare
(atomo grande), quindi sarebbe stato difficile farlo stare nel sangue. Quindi il sistema si è
specializzato per assorbire ioduro e poi trasformarlo in iodio molecolare dove serve. Avviene
sulla membrana della cellula tiroidea, a contatto con la colloide. Lo ioduro viene preso dalla
tireoperossidasi e viene legato alla tirosina. La tireoperossidasi è molto più veloce a trasferire
un diiodotironina su un altro residuo di iodio per produrre la T4 (tiroxina), rispetto alla
produzione del T3 (triiodotironina), che viene prodotto meno. Quindi viene rilasciato
principalmente T4 dalla tiroide. Prima che vengano rilasciate T4 e T3 deve esserci il taglio
proteolitico dallo scheletro polipeptidico della tireoglobulina. Quindi, la tireoglobulina viene
endocitata, e poi viene scissa rilasciando gli ormoni, che possono arrivare a destinazione. In
periferia vengono rilasciate strutture con 4 atomi di iodio (T4), strutture tre atomi di iodio (T3),
ma esiste anche un’altra componente che potrebbe esserci, sempre con 3 atomi di iodio ma
disposti in modo diversi  due atomi di iodio nel nucleo benzenico esterno, mentre quello
interno ne ha solo uno. Vengono prodotti in modo diverso. Questa forma si chiama reverse, e
viene prodotta da una deiodinasi inversa, che parte dal T4 e stacca un residuo di iodio, dal lato
interno. Ma in realtà dal T4 possiamo anche produrre T3, rilasciato poco. Il T3 deve essere
prodotto in circolo.
Quindi  la tiroide rilascia prevalentemente T4 che è un precursore (bassa attività endocrina),
e poco T3 che è la forma attiva. In periferia T4 viene convertito a T3 dalla deiodinasi tipo 1 o 2,
oppure in reverse T3 dalla deiodinasi tipo 3. Addirittura, oltre a tutta la regolazione a monte,
anche il tessuto bersaglio può regolare l’azione dell’ormone tiroideo. A seconda dell’enzima
deiodinasi che viene prevalentemente prodotto a livello locale, verrà prodotto più T3 o più
reverse T3.
Gli ormoni tiroidei per loro natura sono sostanze idrofobiche (anello benzenico). Ci sono
proteine carrier deputate al loro trasporto (oltre a quelle generali come albumina)  TBG, ALB
e transtiretina. La maggior parte sono legati ad esse. Gli ormoni tiroidi liberi sono l’unica forma
che ha attività endocrina perché possono diffondere liberamente attraverso le membrane
plasmatiche cellulari e andare nel nucleo. Le scorte di tireoglobulina modificata durano
parecchi mesi.
Gli ormoni tiroidei vengono modificati a livello epatico attraverso i processi di glucuronazione,
deaminazione e decarbossilazione  così sono resi polari. Si formano acido
tetraiodotiroacetico o triiodotiroacetico. Queste sostanze, rese solubili dalla componente
acetica, vengono escrete con le urine.
Gli ormoni tiroidei agiscono praticamente su tutti i tessuti del corpo, perché agendo a livello
trascrizionale regolano l’espressione di geni per proteine che intervengono nel metabolismo,
per la produzione di ATP (PRO -CATABOLICI). Per esempio, viene potenziata la pompa sodio-
potassio, importante in molti processi. Sono ormoni importanti non solo nella vita adulta ma

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anche durante la fase di sviluppo embrionale e di crescita. Gli ormoni tiroidei stimolano anche
la produzione di calore, perché accelerano l’attività muscolare in generale e stimolano il
differenziamento del tessuto adiposo bruno. Favoriscono anche il trasporto degli elettroni
(processi ossidativi).

Asse ipotalamo-ipofisario: gonadotropine


Ormoni che agiscono sul differenziamento sessuale e sulla capacità di procreare, nel sesso
femminile e maschile. Nel sesso femminile c’è una ciclicità precisa oltre alla gravidanza in sé.
Il protagonista a livello ipotalamico è il GnRH, ovvero il fattore di rilascio di FSH e LH, ormone
follicolostimolante e ormone luteinizzante, prodotti nell’ipofisi. Differenziamento e
maturazione sessuale iniziano già durante lo sviluppo del feto, e poi diventa predominante nella
pubertà. I tessuti bersaglio delle gonadotropine sono gli organi sessuali, ma anche tutti i tessuti
che poi risentono del rilascio di estrogeni e androgeni; c’è un’azione a livello sistemico, trofica e
proliferativa. Gli ormoni steroidei agiscono con un feedback negativo a livello ipofisario e
ipotalamico per mantenere l’equilibrio. GnRH è un deca peptide (tutti i fattori di rilascio
ipotalamici sono dei peptidi). C’è la sintesi di un precursore polipeptidico, e poi dopo il taglio c’è
la produzione di GnRH insieme ad una proteina detta GnRH-associated protein, che ha
anch’essa una funzione biologica 8viene riconosciuta da recettori). I neuroni che producono e
rilasciano GnRH stanno nel nucleo infundibolare (nucleo arcuato nel topo), sicuramente; poi c’è
un’altra area, secondo gli ultimi studi, quella preottica. È ancora poco chiaro come avvenga la
regolazione del rilascio di questo fattore. Queste due aree hanno una regolazione opposta. Tutti
gli assi ipotalamo-ipofisari sono regolati negativamente dal prodotto finale, rilasciato in
periferia; in questo caso estrogeni e androgeni, che agiscono inibendo il rilascio di GnRH.
Questo avviene a livello ipofisario. A livello centrale (ipotalamo) però questo controllo manca.
Quello che si è visto è che la secrezione del GnRH è pulsata; è una pulsatilità non costante,
legata ad un ritmo intra-circadiano (durante la giornata) e al ciclo di fertilità dell’essere umano
(oltre al classico ritmo circadiano). In particolare, si è visto che si passa da momenti pre-
ovulazione con frequenza molto alta, poi un picco di rilascio di ormone e poi un crollo, con
ritorno ad una frequenza bassa. Se si faceva in modo che GnRH venisse rilasciato
costantemente, l’animale perdeva la sua fertilità; è quindi necessario che il rilascio sia pulsato,
perché la pulsazione agisce in periferia, ed essa comunica con il centro per cambiare la
frequenza di rilascio.
Nel 2003 si scoprirono mutazioni associate all’ipogonadismo, e il gene identificato codificava
per un peptide detto kisspeptin. Esso ha a che fare anche con la fertilità, perché si trovarono
mutazioni anche sul suo recettore (GPCR) associate a problemi nella pubertà e fertilità. Si
marcarono i neuroni di questo peptide con anticorpi. Si sapeva già che gli estrogeni hanno un
effetto opposto sulla regolazione di GnRH: da un lato stimolante e dall’altro inibente, a seconda
del periodo in cui si trova la femmina (post ovulazione  inibitorio, pre ovulazione 
attivatorio). Le due aree, nel topo, rispondevano in modo opposto agli estrogeni. La zona
dell’arcuato è preposta alla regolazione negativa degli estrogeni, mentre l’area preottica è
associata alla regolazione positiva (più sviluppata nelle femmine). Sono state identificate

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diverse forme di kisspeptin; quella più grande, con 54 amminoacidi, detta anche metastina
(ruolo nelle metastasi). Poi ci sono altre forme più piccole, tutte in grado di legare il recettore
GPCR. Nel 2010 si è riuscito a dimostrare bene la localizzazione di kisspeptin nell’uomo, in
relazione ad altri due peptidi già identificati nel topo  dinorfina e neurochinina B. È stato
dimostrato anche nell’uomo. Nel nucleo infundibolare/arcuato ci sono neuroni che
coesprimono questi tre peptidi, mentre nell’area preottica solo neuroni che esprimono
kisspeptin. Questo nucleo infundibolare riceve il segnale dalla periferia e media il segnale
inibitorio tramite kisspeptin sui neuroni che rilasciano GnRH. Nell’area preoticca ci sono i
neuroni che esprimono kisspeptin, e mediano lo stimolo positivo da parte degli ormoni
steroidei, per consentire il rilascio di GnRH. Anche kisspeptin è rilasciato in modo pulsato.
Sentendo la concentrazione degli ormoni steroidei questi nuclei controllano lo sviluppo
sessuale e la fertilità, con ciclicità nella femmina. A livello di questi nuclei, c’è una regolazione
locale autocrina e paracrina. Si crea un microambiente che si autoalimenta e auto inibisce come
regolazione. Ci sono terminazioni nervose che rilasciano il peptide sulle cellule, con processo di
autocrinia. In più ci sono delle gap jucntions tra i neuroni, attraverso anche la glia. Si crea una
rete diffusa di segnalazione, che crea una specie di pacemaker interno di segnalazione che darà
come risultato finale un rilascio pulsato di kisspeptin sulle terminazioni nervose dei neuroni che
rilasciano GnRH. La neurochinina B ha un effetto positivo sul rilascio di kisspeptin, agendo
aumentando i livelli di calcio. La dinorfina ha, invece, un effetto negativo sui neuroni.
L’equilibrio tra i due peptidi modifica la frequenza di rilascio di kisspeptin, e a sua volta la
frequenza di rilascio di GnRH. Ma come fanno questi neuroni a sentire ciò che avviene in
periferia?  su questi neuroni agiscono estrogeni, testosterone, e altri ormoni legati al
metabolismo, anche se è ancora non chiaro come modulano la loro attività (quindi hanno
anche recettori per gli estrogeni). Dal punto di vista terapeutico, se si sta lavorando a problemi
di fertilità, invece di agire in periferia con surrogati di ormoni si può agire direttamente a livello
centrale a livello di kisspeptin e altri peptidi. Questi neuroni sono detti anche KNDy. Hanno
questo meccanismo intrinseco di flussi di rilascio di kisspeptin, che si riflette in questi pulse di
rilascio di GnRH e che a sua volta si riflette sul rilascio di LH in periferia, da parte dell’ipofisi.
L’obesità, oltre ad essere un problema a livello di metabolismo, è anche un problema per la
fertilità e lo sviluppo sessuale. C’è anche lo stress, che normalmente riduce la fertilità. In uno
stato di stress si ha un elevato livello di cortisolo e catecolammine; a livello periferico ci sono
sistemi di controllo pressorio e idrosalino, che lavorano in maniera continuativa, che poi tende
a portare a resistenza. L’infiammazione fa produrre citochine che sono connesse con la
produzione di cortisolo, e quindi con lo stress. Quindi, la fertilità maschile e femminile risente
degli equilibri energetici, dei processi infiammatori e stressogeni.
La leptina è il sensore dei livelli di tessuto adiposo; quindi, di energia a lungo termine. Il
glucosio di riserva non dura molto. La leptina ha un effetto positivo nel rilascio di GnRH. Se è
richiesta energia per sostenere positivamente il processo riproduttivo, perché l’obesità è spesso
associata a infertilità?  c’è una perdita di sensibilità all’ormone stesso, le cellule diventano
resistenti, appunto per l’eccesso di risorsa. Si sente un po’ meno nella femmina, che già di suo
accumula una certa quantità di tessuto adiposo per portare avanti la gravidanza. Nel maschio
invece, non essendo previsto, l’aumento di grasso viene percepito di più a livello centrale.

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Anche il sottopeso nella donna causa infertilità; inizia con un’alterazione del ciclo mestruale,
che poi comincia a saltare fino a scomparire. La priorità diventa la sopravvivenza. L’obesità in
età giovanile da un alto accelera lo sviluppo sessuale, lo anticipa, e questo porta poi ad un
esaurimento della fertilità, se persiste.
Kisspeptin è un peptide con varie forme, già stato identificato nello studio dei tumori (non solo
prodotto dai neuroni!!). Il meccanismo di segnalazione è molto importante. Ha un recettore
GPCR che agisce principalmente tramite fosfolipasi C  calcio e PKC con attivazione della via
MAPK, che favorirà la sintesi e il rilascio di GnRH. Kisspeptin è prodotta e rilasciata anche
altrove. Ci sono diversi tessuti target con recettori per essa: gonadi (effetti trofici e di
regolazione per sviluppo e differenziamento), tessuto adiposo e gastrointestinale. Questi tessuti
tramite ormoni vanno ad agire a livello centrale (ipotalamo). Il GnRH a sua volta va a
controllare, a livello ipofisario, la sintesi e il rilascio delle gonadotropine  FSH e LH.
FSH e LH: hanno struttura dimerica, con subunità alpha comune e subunità beta che li
differenzia. Le diverse cellule ghiandolari si sono specializzate nella produzione della subunità
beta, che caratterizza l’ormone. Da un lato c’è una regolazione basale per la sintesi della alpha
che è comune, e poi ciascun gene di subunità beta sarà espresso preferenzialmente in risposta
al fattore ipotalamico di regolazione. La cosa curiosa è che c’è un solo fattore di rilascio che
controlla due ormoni, in tempi diversi. Ciò che è diverso è la frequenza e l’intensità del GnRH,
che determina se e quando viene prodotto e rilasciato FSH e LH. La frequenza molto elevata di
GnRH che si riflette in LH (misurabile in periferia) corrisponde all’ovulazione. Dopo l’ovulazione
diminuisce sia il rilascio di GnRH sia quello di LH. Di riflesso c’è anche l’azione su FSH.
Intervengono anche gli estrogeni a livello ipofisario per modulare FSH. Nei maschi GnRH ha una
frequenza di pulsazione di due ore, che è abbastanza costante (fertilità più o meno costante nel
periodo fertile). Nella femmina in pre-ovulazione la frequenza è molto elevata, all’incirca ogni
ora c’è rilascio di GnRH (che si legge nell’LH), mentre in fase post ovulazione (fase luteale) la
frequenza scende (ogni due ore). Il picco di LH permane per un po’, e si misura nel sangue. Poi
crolla e scende la frequenza. FSH invece ha un andamento diverso, meno costante. Se GnRH
viene rilasciato in modo continuo, il rilascio di LH e FSH crolla; è necessaria la pulsatilità. Quindi,
in periferia, a livello ovarico c’è la presenza di un numero finito di follicoli che possono maturare
e rilasciare l’oocita. Quando finiscono i follicoli termina il periodo fertile. C’è maturazione del
follicolo (cellule che sostengono l’oocita) e in questo è protagonista FSH, che stimola la crescita
e il differenziamento del follicolo. Qui c’è un primo picco di estrogeni che aiuta questo
differenziamento. La frequenza diventa sempre più intensa fino al picco di LH, che provoca la
rottura delle membrane che contengono l’uovo, con successivo rilascio di esso. Poi crolla la
produzione di LH e scende anche FSH, perché c’è un secondo picco di estrogeni, insieme al
progesterone; essi vanno ad agire negativamente a livello ipotalamico abbassando la frequenza
di GnRH. Così inizia la fase non fertile, in previsione dell’impianto di un uovo fecondato
(gravidanza). Se non c’è gravidanza il tutto decade e si ha il ciclo mestruale, con eliminazione di
tutti i tessuti che avrebbero dovuto accogliere l’uovo fecondato e che quindi non servono più.
Nello sviluppo del follicolo c’è un differenziamento delle varie cellule, con il flusso ormonale
visto prima. LH stimola le cellule della teca (ghiandolari) a sintetizzare e secernere androgeni.
Essi, a livello della granulosa, vengono convertiti in estrogeni perché viene indotta la sintesi

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dell’aromatasi (enzima che converte androgeni in estrogeni). Si produce estradiolo nella cellula,
il principale estrogeno. Durante lo sviluppo del follicolo c’è il picco di estrogeni, che porta poi al
picco di LH e avviene l’ovulazione. Quando avviene l’ovulazione, le cellule della granulosa si
trasformano diventando corpo luteo e secernono progesterone. Esso sta a monte, viene
rilasciato e prodotto dal corpo luteo (ciò che rimane del follicolo), e agisce sull’endometrio per
preparare l’impianto dell’uovo e la gestazione. Inoltre, agisce a livello centrale inibisce
l’ovulazione e quindi il rilascio di LH e FSH. Nel maschio FSH agisce sulle cellule del Sertoli
affinché possano produrre testosterone e ormoni steroidei  spermatogenesi. LH, invece, ha
un effetto trofico sulle cellule di Leydig, sempre per la produzione di testosterone, La
spermatogenesi ha un andamento continuo nella vita dell’uomo. Il testosterone può essere
ridotto a diidrotestosterone (DHT), che è la forma biologicamente attiva. L’enzima che fa questa
conversione è la 5-alpha reduttasi, prodotta nel reticolo endoplasmatico della prostata, ma
anche nel follicolo dei capelli (calvizie associata a quantità elevata di testosterone). Il DHT ha
una maggiore affinità per i recettori androgeni.
Le cellule possono produrre estrogeni a livello locale sintetizzando in loco l’aromatasi. Le cellule
ghiandolari della mammella sono particolarmente sensibili ai livelli di estrogeni. Nella femmina
questi cicli proliferativi che avvengono ogni mese possono avere effetto sullo sviluppo di cellule
tumorali (carcinoma della mammella). Un aspetto importante è capire se queste cellule
tumorali hanno ancora bisogno dello stimolo fisiologico dell’ormone progesterone e estrogeni.
Se ancora esprimono il recettore significa che ancora necessitano di questo stimolo per la loro
sopravvivenza, come quando non erano trasformate. Tra le varie opzioni terapeutiche si può
agire andando a colpire direttamente l’enzima aromatasi, per colpire i tessuti che ne hanno più
bisogno. In questo modo si toglie il sostegno dato dagli estrogeni per la sopravvivenza di queste
cellule.
Gli estrogeni hanno due recettori nucleari alpha e beta (regolazione trascrizionale), e uno di
membrana GPCR. Parte dei recettori nucleari sono palmitoilati. Si è visto che questi recettori
nucleari possono andare in membrana e legare lì gli estrogeni. Ci sono quindi tre tipi di
regolazione: quella classica via trascrizione nel nucleo, una seconda via tramite il recettore
palmitoilato che agisce in membrana (e interagisce con i signaling di membrana), e una terza
segnalazione tramite GPCR classico, detto GPR-30, che può legare estrogeni fuori dalla cellula
ma può anche essere espresso dentro. Il GPR-30 agisce tramite una transattivazione delle EGFR
(recettore per fattori di crescita, ma senza essi)  trasferimento di segnale verso i pathway
classici dei recettori per fattori di crescita (vie delle tirosina chinasi).

Asse ipotalamo-ipofisario: prolattina


Serve alla produzione di latte nella donna, ma viene prodotta anche nell’uomo quindi ha anche
altri ruoli. Viene regolata in modo positivo dal TRH e da VIP (polipeptide intestinale vasoattivo).
Il controllo primario del rilascio di prolattina è un controllo negativo da parte di dopamina. La
prolattina viene rilasciata dall’ipofisi, ma anche da molte altre cellule in periferia  ghiandola
mammaria, tessuto ovarico, prostata, tessuto adiposo e sistema immunitario in senso lato; è un
polipeptide, una glicoproteina, che viene rilasciata per arrivare in periferia dove il suo target

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primario è la ghiandola mammaria. È un ormone adattativo, legato alla risposta allo stress
(gravidanza). Nella femmina gravida, o nella coppia di genitori, si crea un ambiente psicologico
particolare nei confronti dell’ambiente. Quindi c’è un effetto anche a livello nervoso. C’è una
grande quantità di cellule che la producono. Ci sono varie forme di prolattina; quella
sicuramente attiva è quella da 23 kD, monomerica. Si è visto che può anche formare dimeri e
legarsi ad anticorpi formando complessi apparentemente inattivi. Ha un ruolo
immunoregolatorio e sul metabolismo (ancora poco chiaro). La prolattina a livello ipofisario
viene regolata principalmente dall’ipotalamo, tramite un controllo negativo (soppressione del
suo rilascio) grazie alla sintesi e rilascio di dopamina da parte dei neuroni dopaminergici. Il
segnale positivo agirà primariamente sopprimendo il segnale negativo, quindi inibendo la
produzione di dopamina da parte dei neuroni ipotalamici. Tra questi neuroni ipotalamici che
esprimono dopamina, ci sono i TIDA (area tubero-infondibulare), che sono i più studiati. Questi
insieme ad altri sono raggruppati in piccoli cluster che lavorano in sincronia, sempre tramite
gap junctions. Ciascun gruppetto ha una sua intrinseca ritmicità, e ciascuno rilascia dopamina.
Succede ogni tot che i diversi gruppi convergono, e c’è un pulse più intenso di rilascio. Questa
convergenza si riflette nell’abbattimento del rilascio di prolattina a livello ipofisario. Ci sono tre
aspetti importanti che riguardano la prolattina. Uno legato alle malattie autoimmuni, uno
legato ai tumori, e uno legato alle malattie comportamentali (mentali) del SNC, che sono spesso
curate con farmaci dopaminergici che vanno a modificare il rilascio di prolattina. I TIDA sono
regolati da vari ormoni. Sono inibiti da estrogeni, noradrenalina (SN simpatico), serotonina e
istamina  attivazione del rilascio di prolattina. Sono stimolati da acetilcolina e prolattina
(feedback negativo)  inibizione del rilascio di prolattina. Anche il TRH favorisce la produzione
di prolattina, a livello ipofisario; agisce tramite il rilascio di calcio e l’attivazione della via MAPK.
L’ossitocina, responsabile della miocontrazione per il parto, va a sua volta a stimolare il rilascio
di prolattina, per favorire l’allattamento. La somatostatina è un inibitore (sempre), con ruolo
centrale nell’ormone della crescita. Poi la calcitonina, anch’essa un inibitore (produzione di latte
collegata con il calcio). L’istamina ha che fare con lo stimolo del succhiare il latte, quindi
neurologico ma anche immunitario (pro-prolattina). La dopamina è un neurotrasmettitore ma
viene prodotto anche in periferia. Essa ha un sacco di recettori (D1, D2, D3, D4, D5),
raggruppabili in famiglie. La famiglia dei D2, D3 e D4 sono inibitori di adenilato ciclasi, mentre la
famiglia di D1 e D5 sono attivatori. Nelle cellule ipofisarie è necessario che sia attivata adenilato
ciclasi perché sia rilasciata prolattina.
Gli estrogeni agiscono pesantemente a livello ipofisario sulle cellule che producono prolattina,
sostenendo sia il rilascio di essa sia la sopravvivenza e proliferazione delle cellule stesse.
Quando viene a mancare l’effetto inibitorio della dopamina, gli attivatori (estrogeni, TRH)
possono lavorare in modo positivo.
A questo punto la prolattina viene rilasciata in circolo, dall’ipofisi. I principali target sono la
ghiandola mammaria, ma anche il fegato e il pancreas, indipendentemente dal sesso. Nel
fegato la prolattina induce la sintesi di bile. Il pancreas regola la sintesi di insulina. La prolattina
ha struttura tipica delle citochine, e quindi ha una segnalazione tramite Jak-Stat (via
preponderante), con Stat che sono regolatori trascrizionali (agiscono nel nucleo) e Jak che sono
tirosina chinasi. Questi recettori attivano anche altre vie come quella della MAPK. In periferia

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viene attivata la trascrizione di un certo numero di geni che rispondono ai fattori Stat, ed
eventualmente viene anche sostenuta la crescita e proliferazione cellulare (MAPK). Perciò, ci
sono aspetti della prolattina correlati alla riproduzione  sostegno alle gonadotropine per lo
sviluppo del follicolo ovarico nell’ovulazione, sostegno dell’endometrio a livello uterino per
favorire l’espressione del recettore del progesterone e la sintesi del progesterone stesso a
livello del corpo luteo. Contribuisce al rilascio di GnRH a livello centrale.
Ghiandola mammaria  insieme agli estrogeni contribuisce alla parte trofica (proliferazione e
crescita cellulare). Poi consente la sintesi di lattalbumina, con differenziamento completo delle
cellule della ghiandola mammaria per la produzione di latte. Il differenziamento avviene grazie
al fatto che la lattalbumina che viene indotta con la segnalazione Jak- Stat (da prolattina) va a
formare un complesso con l’enzima UDP-galattosil transferasi. Esso trasferisce il galattosio sul
glucosio. Diventa quindi una galattosio sintetasi, e produrrà grandi quantità di lattosio
(disaccaride galattosio-glucosio, zucchero principale del latte).
Pancreas  grandi quantità del recettore per la prolattina. Essa viene anche prodotta qui, in
loco. Essa va a sostenere la crescita delle cellule beta dal pancreas. Questo è importante
durante la gravidanza, che è associata all’aumento del consumo energetico e quindi alla ricerca
di cibo. Essa però è al di fuori dai canoni della sazietà fisiologica della madre, va oltre; quindi, è
richiesto un grande apparato metabolico per l’assimilazione dei nutrienti, e uno di questi è il
glucosio. Una condizione che si instaura in alcune donne gravide è un’intolleranza al glucosio e
un insulino-resistenza transiente (iperglicemia e iperproduzione di insulina). Viene favorita la
produzione di insulina per rispondere all’uptake calorico tipico della gravidanza. Se si sviluppa
insulino-resistenza verso la fine della gravidanza ed essa non si risolve, si può andare incontro al
diabete gestazionale. Si possono sviluppare anche condizioni di iperinsulinemia in pazienti che
hanno una produzione alterata di prolattina.
Tessuto adiposo  le risorse energetiche però sono rappresentate soprattutto dal tessuto
adiposo. Viene favorita quindi l’adipogenesi, e il rilascio di adipochine che favoriscono la
crescita di questo tessuto. Questo sempre per mettere da parte risorse per l’allattamento.
Viene favorito il differenziamento e l’espansione di questo tessuto, per il rilascio di acidi grassi
utili al metabolismo. Interviene non solo nel metabolismo bianco ma anche in quello bruno, per
la risposta al freddo; durante la gravidanza è importante la termoregolazione, per
salvaguardare la crescita del bambino. Questo effetto dura anche nel post gravidanza per un po’
di tempo.
Sistema immunitario  attivazione delle cellule B e T, e della produzione di citochine nella loro
attività difensiva. Questo perché siamo in un contesto di gravidanza, di tutela, quindi il sistema
deve “risettarsi”. Praticamente tutte le cellule del SI rispondono alla prolattina, con effetti vari
che però sono sempre di sostegno alla risposta immunitaria.
Aspetti patologici: legati al carcinoma della mammella, o ad alterazioni della funzionalità degli
organi legati alla riproduzione. La prolattina ha un ruolo anche nell’obesità  aumento di peso
in soggetti con iperprolattinemia. Una variazione di prolattina anche lieve nella donna può
favorire l’insorgenza di malattie autoimmuni. Esse sono più frequenti nelle donne; per esempio,
il Lupus eritematoso sistemico è associato al periodo fertile (20-35 anni). In assenza di

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gravidanza si può avere iperprolattinemia in presenza di alcuni tumori ipofisari, o in caso di


disturbi psichiatrici (compresa la depressione). La malattia mentale è molto diffusa e colpisce
10 persone su 100. Un aumento della prolattina circolante si può avere in seguito all’assunzione
di farmaci che abbassano la produzione di dopamina, perché è la terapia standard riconosciuta
per i disturbi psichiatrici.

Asse ipotalamo-ipofisario: somatotropina (ormone della crescita)


Importante per la crescita, soprattutto delle ossa, ma agisce anche su altri organi. Il fattore di
rilascio è il GHRH, prodotto nell’ipotalamo. La somatostatina (SRIF) regola negativamente il
rilascio di GHRH e di conseguenza di ormone della crescita. GHRH è un peptide di 44
amminoacidi che fa parte della famiglia delle incretine, in cui c’è anche il VIP (peptide
vasointestinale), il glucagon like peptide e il GIP (inibitore gastrico). C’è un ruolo centrale nel
metabolismo. La secrezione di GHRH dipende fortemente dall’età, ed è regolata in modo
pulsato e circadiano (intervallo giorno-notte); l’assetto metabolico ovviamente influisce, perché
devono essere presenti i nutrienti necessari perché ci sia crescita. GHRH si è visto avere un
ruolo nel SNC, perché è legato al sonno profondo; agisce sui neuroni GABAergici (GABA è un
neurotrasmettitore inibitorio) con rilassamento dell’attività neuronale. Il recettore di GHRH è un
GPCR. Esso viene rilasciato dall’ipotalamo ma viene anche prodotto in periferia a livello dei
diversi tessuti. Ce ne sono molti che esprimono il recettore per GHRH e lo esprimono a loro
volta (segnalazione paracrina e autocrina). Esempi: SI, sistema cardiaco, sistema scheletrico,
endometrio, tessuti ghiandolari, ecc... C’è una parte a sé di tessuti che esprimono sia il
recettore sia GHRH che sono le cellule tumorali. Ci sono molti studi in vitro, soprattutto sul
diabete, per un approccio terapeutico usando GHRH come target. Si è visto che le cellule beta
del pancreas esprimono il recettore per GHRH e lo producono anche localmente  ruolo
protettivo e di sostegno di queste cellule, per favorire la secrezione di insulina. Un altro ambito
studiato riguarda la ricerca di un agonista per questo recettore, che svolge lo stesso effetto del
ligando fisiologico, quindi ha un effetto attivante; l’antagonista, invece, è quello che impedisce
l’azione dell’agonista. Un altro problema può riscontrarsi a livello dell’endometrio. Alcune
cellule endometriali possono uscire dall’endometrio e andare nel peritoneo, crescendo lì e
creando problemi (dolore e alterazioni del ciclo mestruale). Quello che si sta cercando di capire
è se è possibile agire con un antagonista, siccome queste cellule esprimono il recettore per
GHRH. Un altro ambito clinico importante è la protezione per il miocardio; il problema
principale in questo caso è che ci sono molti casi di infarto del miocardio, legato a vari fattori
come diabete, obesità, ecc… L’ossigeno portato dal sangue viene a mancare  il grande
problema, oltre al danno cellulare, sorge quando si reinfonde: il sangue che arriva è pieno di
ossigeno, e si innesca uno stress ossidativo. C’è anche un ruolo nel rimarginare le ferite e nel
sostegno dei miotubi della muscolatura scheletrica, oltre che nel sistema immunitario.
Come fa l’ipotalamo a capire quando è il momento di secernere GHRH?  il sistema
adrenalina/noradrenalina, associato allo stress, attiva la sintesi di GHRH. Però va poi ad avere
un’azione combinata di stimolo anche sulla sintesi di somatostatina, che è l’inibitore fisiologico
(con meccanismi diversi). Ciò che è importante è il ruolo di controllo reciproco tra GHRH e

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somatostatina. GHRH stimola la produzione di somatostatina, ed essa va a inibire il rilascio


GHRH. L’azione più potente è sull’effetto della somatostatina sul GHRH. Quando viene a
mancare, il GHRH inizia ad essere prodotto, stimolato da vari fattori. Esso incentiverà i livelli di
somatostatina, la quale lo inibirà di nuovo. C’è anche un altro ormone importante coinvolto che
è la grelina (GHRP). Essa, al contrario della leptina, stimola la ricerca di cibo, dando il senso di
fame. La grelina stimola la sintesi di GH  si cresce più velocemente in carenza di risorse. Una
overdose di nutrienti blocca questo processo, soprattutto nelle fasi più importanti
dell’adolescenza. Il rilascio di GHRH è stimolato anche dagli ormoni sessuali. C’è un effetto
negativo da parte degli acidi grassi liberi, che hanno effetto inibitorio; se c’è un tessuto adiposo
ricco ci sono tanti nutrienti e quindi il rilascio di GHRH diminuisce.
GHRH stimola, a livello dell’ipofisi, il rilascio di ormone della crescita GH. La somatostatina
contrasta questo effetto. GHRH agisce su una Gs, con aumento di cAMP e attivazione di PKA,
attivazione di Creb che va ad attivare a livello trascrizionale la sintesi della proteina. C’è anche
un supporto sull’aumento di calcio tramite recettori di membrana; questo favorisce il rilascio
delle vescicole. C’è un picco elevato di rilascio di GH (associato a un picco di GHRH) nelle prime
ore della notte (dopo mezzanotte, quando c’è sonno profondo). Durante il giorno il rilascio è
abbastanza basso. Quindi il GHRH agisce sul sonno profondo a livello centrale, e il GH agisce in
periferia sulla crescita delle ossa, durante il riposo. C’è un picco di rilascio in adolescenza, poi
quando la crescita sta per terminare la secrezione di GH diminuisce, perché diventa importante
il mantenimento. Poi c’è una degenerazione con la vecchiaia.
Il GH ha una struttura simile alle citochine (come prolattina e leptina). Il loro signaling è la via
delle Jak-Stat, fortemente trascrizionale. Il recettore per GH è esposto poi da diversi tessuti
quindi a seconda di essi ci sarà una risposta più o meno specifica. GH va in periferia. I suoi
target principali sono il fegato, che ha un ruolo di mediatore; il tessuto adiposo, che risponde
pesantemente. Un po’ tutti i tessuti hanno una risposta legata a ridurre il consumo di glucosio.
Quando i tessuti crescono, le cellule si espandono e si dividono, quindi servono risorse. Il
tessuto adiposo risponde facendo lipolisi, quindi rilasciando acidi grassi liberi (inibitori
fisiologici, ma se ce ne sono già tanti in circolo si possono creare problemi). Il fegato risponde
rilasciando IGF-1. GH in periferia tende a contrastare gli effetti dell’insulina sull’uptake di
glucosio, e sul metabolismo lipidico (fa fare lipolisi); ha inoltre effetti anabolici sulla sintesi del
muscolo e dell’osso (sintesi proteica). I bersagli finale sono muscolo, osso e tessuto adiposo. Gli
effetti sono mediati sia da GH che da IGF-1. Nel tessuto adiposo GH induce lipolisi, per il rilascio
di acidi grassi utilizzabili dal fegato, muscolo, cuore, osso. Nel muscolo viene ridotto l’uptake di
glucosio e aumenta la sintesi proteica e l’uptake di amminoacidi (prodotti nel fegato).
IGF-1 è un ormone che viene rilasciato in risposta al GH nel fegato. GH induce gluconeogenesi,
glicogenolisi e beta ossidazione degli acidi grassi. Vuole aumentare la glicemia, per il muscolo e
l’osso. Inoltre, si vogliono produrre corpi chetonici se necessario e ATP come risorsa energetica
per gli epatociti. IGF-1, invece, quando è rilasciato agisce sull’osso per la sua crescita, e fa
alcune cose tipiche dell’insulina come contrastare la lipolisi e la gluconeogenesi, e induce
l’uptake di glucosio (va contro il suo stesso induttore). Questo a causa di meccanismi
omeostatici, per non allontanarsi pericolosamente dall’equilibrio. Il problema subentra quando

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IGF-1 è prodotto in maniera esagerata (obesità e disfunzione metabolica). Un esempio di


disfunzione metabolica dell’ormone della crescita è l’acromegalia  malattia dell’età adulta
dovuta ad un tumore a livello cerebrale che produce grandi quantità di GH, ma nell’individuo
ormai adulto. I processi di accrescimento in altezza sono già terminati. C’è una crescita
sproporzionata nel cranio e nelle mani soprattutto. In questo caso si sviluppa insulino-
resistenza da parte dei tessuti, con iperglicemia, eccesso di acidi grassi circolanti, ecc...
GH, quindi, induce resistenza a IGF-1 e anche a insulina. Il motivo è il pathway che ha il
recettore per GH, di tipo citochinico, ma anche indirettamente tramite gli acidi grassi. Questo
perché vengono attivati pathway che portano da un lato ad attivare delle serina-treonina
chinasi e dall’altro ad attivare la intesi di Socs, a valle di Jak-Stat. GH lavora fisiologicamente
attivando la via Jak-Stat. Tra i fattori prodotti ci sono anche i Socs, che fisiologicamente hanno
ruolo inibitorio verso il signaling di Jak-Stat  legano i recettori di insulina. Gli acidi grassi
attivano pathway infiammatori, con le serina-treonina chinasi che vanno a fosforilare cose sotto
al recettore per l’insulina, bloccando il signaling.
L’eccesso di ormone della crescita in età infantile può portare a gigantismo, con raggiungimento
di altezze notevoli. A contrario un difetto di GH porta a nanismo, con forte riduzione della
lunghezza degli arti. Si può intervenire farmacologicamente per favorire il più possibile l’attività
di GH residuo.
La somatostatina è prodotta in tutto l’organismo. È un inibitore di altri ormoni. Ha tanti
recettori. Alcuni sono più noti, come quelli che agiscono tramite G inibitoria. C’è un’interazione
mista tra GPCR e recettore per fattori di crescita. I tre grandi rami di segnalazione in cui lavora
la somatostatina come inibitore sono noti, e in più ha anche un altro effetto  contrasta la
proliferazione indotta dagli ormoni che down-regola. Ha un braccio che lavora in senso
antiproliferativo, in cui vengono inibiti i classici pathway di proliferazione (PI3K, AKT, MAPK).
Questo effetto antiproliferativo è mediato da fosfatasi recettoriali. La somatostatina ha un GPCR
come recettore, il quale attiva la proteina Src; Src viene defosforilata dalla fosfatasi SHIP-2. In
seguito si attiva la fosfatasi di membrana (PTPRJ), la quale defosforila le proteine chiave della
via MAPK, AKT e PI3K, contrastando la proliferazione. In altri casi attiva p53 e le caspasi
attivando l’apoptosi se necessario. Il terzo braccio è l’attività tramite Gi, andando a ridurre
cAMP e quindi le segnalazioni che dipendono da esso. C’è anche un effetto parallelo sui canali
di membrana del calcio, inibendo il suo signaling. Per farlo, da un lato si inibisce il canale
direttamente e dall’altro attivo il canale del K+ che sta vicino, causando iperpolarizzazione (il
canale del calcio così non si apre più). Quindi effetto antiproliferativo, apoptotico e attenuante
dei segnali cAMP dipendenti. La somatostatina in periferia inibisce sia la secrezione di
glucagone sai di insulina, e inibisce anche la secrezione di ormoni a livello gastrointestinale
(secretina, gastrina). Tutela la funzionalità pancreatica, attenuando il segnale per non stressare
le cellule.
IGF-1 è prodotto dal fegato in risposta a GH. Assomiglia all’insulina, e come altri fattori insulino-
simili (IGF-2) è molto importante in tutti gli organismi perché regola la disponibilità dei nutrienti
per il differenziamento cellulare ed embrionale, in relazione alla durata della vita. Agisce sulla
regolazione metabolica sistemica e a livello cellulare sulla crescita, differenziamento e

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invecchiamento. Invecchiamento fisiologico  alcuni meccanismi molecolari sono programmati


per funzionare bene fino ad una certa età, poi degenerano. Questi fattori agiscono anche sulla
crescita neoplastica. I tumori, con l’avanzare dell’età, aumentano perché le cellule che si sono
alterate si trovano tutto ad un tratto in un ambiente favorevole. Ci sono molti studi che
lavorano su questo aspetto, agendo su prevenzione e terapia. Il recettore dell’insulina è una
Tyr-chinasi ed è un tetramero, con due subunità beta transmembrana con attività chinasica e
due subunità alpha extracellulari; sono tenute insieme tra loro da ponti disolfuro e la subunità
alpha è in grado di legare il ligando. Segnala abbastanza bene anche da solo, senza
clusterizzazione, e ha una sua specificità. C’è una famiglia di recettori per insulina che legherà
anche IGF-1 e IGF-2. Essi hanno effetti simili all’insulina, quindi, legano lo stesso tipo di
recettore. Ci sono recettori più specifici per insulina, che legano prevalentemente essa perché
hanno più affinità  formazione di un omodimero o eterodimero tra A e B (AA, BB, AB).
L’insulina ha prevalentemente un effetto metabolico, ma se essa non c’è un embrione muore
perché manca l’effetto proliferativo. IGF-1 e IGF-2 (fattori di crescita!) in certi casi agiscono sul
metabolismo ma sono più spostati verso l’aspetto di sopravvivenza. Oltre ai recettori specifici
per insulina ci sono i recettori per IGF-1, omodimero, che può formare eterodimeri con il
recettore per insulina, se c’è. Quindi essa va anche interferire con i processi proliferativi. Ci sono
molti studi sul ruolo dell’insulina nello sviluppo tumorale, che si è visto essere più frequente in
caso di insulino-resistenza. Il segnale da insulina è mediato da IRS, degli adattatori specifici per
il recettore da insulina che vengono fosforilati in tirosina da esso, e fanno da docking site per le
vie di MAPK e PI3K-AKT-mTOR  sintesi, anabolismo e proliferazione (favorevole per i tumori).
AKT è la serina-treonina chinasi chiave attivata da PI3K attraverso PIP3; fosforila tanti substrati
che andranno da un lato a inibire i processi apoptotici e dall’altro ad attivare mTOR (complesso
TORC1)  sintesi lipidi, proteine e acidi nucleici. mTORC2 attiva AKT, fosforilandolo. È regolato
e ha un ruolo più importante nella proliferazione che nel metabolismo (si sa poco). I recettori di
insulina e IGF mediano i segnali di crescita tramite IRS. Il contraltare metabolico di questi
processi è una via mediata da AMPK, che si oppone ai processi anabolici. Essa è un sensore del
deficit energetico (concentrazione di ATP), perché segnala la carenza energetica. Bastano
piccole variazioni di AMP per attivare questa via. Il tumore non solo gradisce gli elevati livelli di
insulina e IGF (magari fisiologici per qualche disfunzione metabolica), ma può anche prodursi
da solo IGF, e questa produzione è più difficile da evitare.

Ormoni rilasciati dall’ipofisi intermedia


L’ipofisi intermedia è al di fuori dell’asse ipotalamo-ipofisario. Si tratta di un gruppo di cellule
che producono la proopiomelanocortina (POOMC). L’abbiamo già affrontata parlando di ACTH
nell’ipofisi anteriore, e nei neuroni che producono alpha-MSH nella regolazione del rilascio di
TRH. È un polipeptide precursore di molti ormoni peptidici come le lipotropine, endorfine,
encefaline  ormoni che a livello centrale hanno un effetto rilassante, contrastano lo stress.
Alcuni di essi vengono prodotti anche in periferia.
Le MSH (melanocortine) stimolano la produzione di melanina da parte dei melanociti. Ne
esistono tre tipi  alpha, beta e gamma. Sono simili tra loro, e possono legare lo stesso tipo di

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recettore, con affinità diverse. Alpha-MSH segnala in modo opposto a NPY e AgRP  i neuroni
che li producono sono antagonisti fisiologici di quelli che producono MSH. Alpha-MSH segnala
che c’è sufficiente quantità di nutrienti; NPY e AgRP stimolano la ricerca di cibo, contrastati
dalla leptina. Alpha-MSH viene prodotto anche in periferia sui melanociti. Essi con le loro
terminazioni si insinuano tra le cellule epidermiche; possono trasferire molecole come la
melanina alle cellule epidermiche, le quali si riempiono di melanina e cheratina, poi muoiono
(effetto dell’abbronzatura che poi viene persa rapidamente). Ci sono marcatori enzimatici che
hanno anche fare con la sintesi di melanina  tirosinasi e proteine associate ad essa TYRP1 e
TYRP2. Sono anche i target del signaling di alpha-MSH. Un modello classico di stimolazione dei
melanociti prevede la radiazione UV che stimola la produzione di melanina, come risposta a un
danno tossico indotto al DNA. I cheranociti vengono danneggiati a livello di DNA, e questo
innesca una risposta di stress che stimola la sintesi di POOMC. Vengono prodotti un
antidolorifico (beta endorfine) e alpha-MSH (melanina). Alpha-MSH trova il recettore sul
melanocita, con meccanismo cAMP dipendente; via MAPK che attivano un fattore di
trascrizione specifico per indurre la sintesi dei vari enzimi per la sintesi di melanina (e POOMC,
stimolo autocrino). II raggi UV agiscono anche in membrana, su una Gq (trasducina) che attiva
PLCbeta  PIP2, ingresso di calcio tramite TRPA1; il calcio aumenta il rilascio di melanina. La
melanina si forma e viene immagazzinata in vescicole, poi rilasciate tramite esocitosi.
Ci sono due tipi di melanina: eumelanina (marrone, più scura) e feomelanina (rosso-giallo, più
chiara). Vengono prodotte entrambe ma in percentuali diverse a seconda della persona. La
feomelanina è meno efficace nel filtrare gli UV. La melanina si produce nel melanocita e deriva
dalla tirosina. Si passa attraverso la DOPA (punto di transizione), tramite l’enzima tirosinasi che
usa direttamente ossigeno per formare dopachinone, con processo di riduzione nell’anello e
ossidazione nel gruppo amminico. Sono presenti doppi legami coniugati. Ci sono poi altre
modifiche, fino ad arrivare alla polimerizzazione. Si distinguono poi i processi che portano alla
distinzione tra eumelanina e feomelanina. Gli enzimi necessari stanno in membrana, e lavorano
qui incorporando la tirosina.

Signaling dell’insulina
Sindrome metabolica  diagnosticata quando il metabolismo non funziona più correttamente,
e ci sono evidenze fenotipiche che possono essere misurate con analisi di laboratorio. Non ci
sono sintomatologie precise, ma può essere un fattore di rischio per altre patologie, come il
diabete di tipo 2, ictus, malattie cardiovascolari. Il diabete di tipo 2 è epidemico in molti Paesi,
ed è fortemente associato all’obesità. I fattori di rischio sono il fatto che sono over disponibili
alimenti con elevato apporto calorico, facilmente assimilabili, ma che saziano poco (es: zuccheri
semplici). Un’alimentazione di questo tipo fa sì che in risposta ci sia un’iperinsulinemia quasi
costante, e ciò porta a uno stress a lungo termine a livello pancreatico che si sovraccarica
sempre di più, perché gli altri tessuti sono costantemente stimolati da insulina e sviluppano
resistenza  il pancreas deve liberarne sempre di più. L’obesità in Europa è molto diffusa, ed è
spesso associata all’età. Da una parte è fisiologico perché il tessuto adiposo si modifica con gli
anni, c’è una riduzione di attività fisica per il cambio di stile di vita, e poi c’è un aspetto

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culturale. Il 20% dei bambini è in sovrappeso; se non viene risolta diventa un problema per
molte malattie.
Indicatori di rischio per il diabete di tipo 2: l’obesità (con le disfunzioni metaboliche legate ad
essa) è uno dei primi fattori di rischio, e favorisce la resistenza all’insulina. L’insulino-resistenza
è una condizione in cui i tessuti dell’organismo (muscolare e adiposo soprattutto) non
rispondono più correttamente all’insulina. Il pancreas, quindi, sarà indotto a secernere più
insulina per ottenere l’effetto desiderato. Dopo un certo tempo le cellule pancreatiche si
deteriorano e iniziano a ridurre la produzione di insulina  le cellule periferiche non solo non
rispondono ad essa, ma non ce ne sarà proprio più una quantità adatta. L’insulina agisce su tutti
i tessuti dell’organismo, ma ovviamente alcuni danno una risposta maggiore a livello sistemico
ovvero muscolo, tessuto adiposo e fegato. Anche i neuroni a livello centrale possono
rispondere all’insulina, per monitorare quello che avviene in periferia e adeguare il controllo
endocrino e il comportamento.
Ci sono tre possibili strutture recettoriali che possono essere espresse dalle cellule: due
omodimeri e una struttura eterodimerica (AA, BB, AB). Le forme A e B derivano da splicing
differenziale e possono formare una struttura tetramerica, tenuta insieme da ponti disolfuro 
recettore A, B o ibrido AB. Alla fine si ottiene un tetramero in cui le subunità alpha extracellulari
legano insulina o fattori simili, e le catene beta attraversano la membrana con dominio
chinasico e fanno da docking site per il signaling. I recettori canonici per insulina, soprattutto i
B, hanno un effetto prevalentemente metabolico. Invece i recettori per IGF-1 e i recettori A
mediano prevalentemente effetti mitogenici. Questa struttura tetramerica riesce ad attivarsi da
sola; le due catene B con dominio chinasico devono “incontrarsi” nel modo giusto, trovandosi
abbastanza vicini per poter fare transfosforilazione e attivare il signaling. Avvengono tre
fosforilazioni una dopo l’altra in tre tirosine grazie a questo meccanismo di transfosforilazione
all’interno del recettore stesso. Quella sulla Tyr972, più vicino alla membrana, è essenziale per
far partire il segnale. Questo recettore NON interagisce con le proteine del segnale (es:
fosfolipasi, PI3K,...). Il segnale è mediato da docking proteins che sono prevalentemente la
famiglia degli IRS (Insulin Receptors Substrate) e Shc (Shc2 è una fosfatasi). Shc lega un
adattatore Grb2 che a sua volta tramite SOS (è un GEF) attiva la via delle MAPK. Gli IRS sono
una famiglia e sono quattro (tre nell’uomo). IRS1 e IRS2 sembrano essere quelli più coinvolti nel
metabolismo, mentre IRS3 nella proliferazione. Oltre a ciò, si sa poco. La PI3K ha una subunità
catalitica e una regolatoria (più di una, espresse a seconda del tessuto). Quindi, un altro aspetto
su cui si sta studiando è se queste subunità abbiano un’influenza nel mediare il signaling. Gli IRS
hanno due domini, uno dei quali consente loro si attaccarsi alle fosfotirosine e alla membrana.
Poi ci sono siti di legame per le proteine del segnale (PI3K, Grb). Gli IRS sono fortemente
coinvolti nell’insulino-resistenza. Quando si attaccano al recettore per insulina vengono
fosforilati in diverse posizioni, e queste fungono da docking site per diversi fattori del signaling.
Si è visto che al diminuire delle fosfotirosine, e all’aumentare di fosfoserine si ha un aumento di
resistenza all’insulina. Entrano quindi in gioco delle serina-treonina chinasi che agiscono su IRS,
a monte del segnale. Ci sono meccanismi di retroregolazione negativa del recettore
dell’insulina, che è fisiologico in parte per un normale spegnimento del segnale, ma che diventa
patologico quando lo spegnimento permane.

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La via delle MAPK viene attivata direttamente da Shc, attraverso IRS, tramite Grb2 e SOS  via
tipica per sostenere la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule che rispondono
all’insulina. C’è quindi un’attività mista insulina-IGF-1 (fattore di crescita), perché entrambi
possono agire su questa via. L’insulina, a seconda dei tessuti e del differenziamento, preme più
o meno su questa via, mentre IGF-1 preme soprattutto su questa via, perché agisce meno
sull’aspetto metabolico.
Pathway di signaling dell’insulina  attivazione di PI3K, con formazione di PIP3. C’è qui un
punto di retroregolazione (spegnimento)  PTEN, una fosfatasi che rimuove il fosfato e spegne
il segnale. C’è anche uno spegnimento di PTEN da parte del signaling dell’insulina. Si è visto che
esistono delle proteine di membrana che hanno la capacità di prendere gli elettroni dal NADPH
trasferendoli sull’ossigeno per produrre ione superossido e perossido di idrogeno  reazione
fisiologica che avviene sulla membrana dei macrofagi (evoluzione differenziata dei monociti) e
dei granulociti neutrofili. Sia i granulociti che i monociti esprimono la proteina NOX2, e
uccidono/attaccano microbi e molecole estranee con radicali e molecole ossidanti (acqua
ossigenata)  stress ossidativo legato a infiammazione. È un meccanismo fisiologico di difesa.
Si è visto che le NOX non sono espresse solo sulle cellule del SI. Si è scoperto che l’anione
superossido e l’acqua ossigenata collaborano nel signaling fungendo da molecole del segnale.
Ci sono delle NOX che producono l’anione superossido, e poi ci sono enzimi che lo convertono
in acqua ossigenata che viene poi usata dall’enzima che deve ossidare la proteina bersaglio. Poi
ci sono altre che fanno tutto loro (PUOX); hanno un dominio che trasferisce l’elettrone
all’ossigeno per fare anione superossido, e un altro dominio che trasforma l’anione superossido
in acqua ossigenata, che viene poi usata per ossidare le proteine. Nel signaling dell’insulina, si è
visto che la NOX viene attivata da PIP3; la NOX produce acqua ossigenata che agirà su PTEN
ossidando i residui SH delle cisteine. È una reazione controllata e voluta. Con il ponte disolfuro
PTEN non lavora più, e quindi l’insulina può consentire una produzione locale elevata di PIP3,
perché PI3K può lavorare per un certo periodo di tempo. C’è poi una serie di enzimi che
convertono l’acqua ossigenata in acqua e ossigeno, e nel contempo altri enzimi che vanno a
ridurre i ponti disolfuro.
A questo punto PIP3 attiverà tante altre proteine, ma ci concentriamo su PDK e AKT. PDK è una
chinasi che va in membrana attivata da PIP3, e ha come target principale AKT, che viene
anch’essa portata in membrana tramite PIP3, viene fosforilata da PDK e poi a sua volta fosforila
i suoi target. Senza PIP3 in membrana queste proteine non potrebbero lavorare, perché
permette l’ancoraggio in membrana e anche l’esporsi dell’amminoacido che deve essere
fosforilato. In particolare AKT1 ha la treonina 208 che è il target di PDK che consente l’apertura
del sito catalitico (activation loop) così che AKT possa lavorare. C’è un’altra fosforilazione
importante di AKT che è la 473, ed è il target di mTORC2, che partecipa sempre nel signaling e
contribuisce ad attivare AKT. Ci sono tre AKT (1, 2, 3), e può prevalere una o l’altra o esserci
tutte e tre (modulazione del signaling). Il signaling dell’insulina inizia in membrana e prosegue
all’interno della cellula, perché avviene il processo dell’internalizzazione del recettore. La
vescicola di endocitosi si avvicina sempre di più al Golgi, al nucleo e ai lisosomi, e quindi
cambieranno anche i target perché cambiano i substrati. Da AKT partono importanti strade:
processi metabolici che riguardano il glucosio, processi che riguardano la sintesi proteica e

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processi da riguardano la sopravvivenza delle cellule (connessi con la via MAPK). Da AKT in poi
cominciano le specificità a seconda dei tessuti.
Muscolo: il metabolismo glucidico nel muscolo è legato ad un uso proprio, “egoista”, che
prevede in abbondanza di risorse, metterle da parte sottoforma di glicogeno; esso verrà poi
usato per rigenerare glucosio quando esso è carente da circolo. Il muscolo non ha bisogno per
forza di usare glucosio per produrre ATP per le sue attività. Una volta consumato il suo
glicogeno (che non è tantissimo) può tranquillamente usare gli acidi grassi, anche in condizioni
di riposo, se ce ne sono in circolo. Il muscolo, inoltre, deve continuamente rigenerare proteine.
Il primo segnale da insulina che arriva al muscolo è quello di internalizzare glucosio, per
abbassare la glicemia, e usarlo per le proprie esigenza energetiche. Se ci sono anche lipidi
circolanti ci pensa il tessuto adiposo e il fegato. Il muscolo viene focalizzato sul glucosio, e
questo avviene tramite l’esposizione in membrana del GLUT4, che è il trasportatore del
glucosio. Il trasporto di glucosio è passivo, non richiede energia, avviene per diffusione ed è
facilitato perché è una molecola polare. Esporre un alto numero di trasportatori permette una
maggiore internalizzazione del glucosio. AKT fosforila delle proteine dette TBC (1d4 e 1d1), che
sono delle GTPasi di small G protein  proteine che aiutano ad inattivare la small G protein,
favorendo l’idrolisi di GTP in GDP e Pi. La prima scoperta fu AS160. Il target di queste GTPasi
sono le Rab, le small G protein che si occupano del traffico vescicolare. Le Rab sono parecchie.
Consentono la prima parte di traffico vescicolare verso la membrana. Ci sono anche le Rac che
partecipano alle fasi finali di aggancio delle vescicole, per la fusione e il rilascio del contenuto
(sintaxine e altre proteine coinvolte). Ci sono altre proteine coinvolte, tra cui la 14-3-3, che
hanno il compito di legare altre proteine del segnale per modulare il signaling (tipo chaperon);
hanno un incavo che accoglie bene proteine fosforilate (cariche negative)  possono fare varie
cose come farle cambiare struttura, farla interagire con altre proteine o impedirle di farlo,
segregandola. Oppure spesso la 14-3-3 si trova legata ad una proteina destinata a morte, quindi
dopo l’ubiquitinazione viene indirizzata alla degradazione. Questo è uno dei possibili percorsi,
ma ce ne sono anche altri. In generale sono proteine che “tolgono” una certa proteina dal
signaling e poi ne decidono la sorte.
Quindi, il signaling dell’insulina arriva a far esporre GLUT4 in membrana, per l’ingresso di
glucosio in modo che la glicemia scenda. Dopodiché entra in gioco AMPK, che si attiva quando
l’AMP si innalza perché è stato consumato ATP e quindi si abbassa il livello energetico della
cellula. Di solito nel muscolo questo abbassamento di energia è accompagnato da un aumento
del calcio. Quindi, in presenza di calcio e con l’aumentare di AMP si attiva questa chinasi che fa
la stessa cosa di AKT, o al suo posto o insieme in sinergia. Grazie a questo è stato possibile
spiegare perché l’attività fisica contrasta l’insulino-resistenza. Infatti, se si consuma energia
facendo attività fisica questo processo funziona e si supera già il problema iniziale che potrebbe
riguardare l’esposizione di GLUT4. Il 75% del glucosio internalizzato nel muscolo deve essere
convertito in glicogeno. Poi ovviamente aumenterà anche la glicolisi, ma non è l’obiettivo
dell’insulina forzarla, è solo un effetto collaterale dell’aumento di risorse. Per far sì che il
glucosio che entra nella cellula rimanga lì, c’è una stimolazione della sintesi dell’enzima
esochinasi II (tipica del muscolo, la IV è del fegato), che è il primo enzima della glicolisi quindi
anche per questo essa tende ad aumentare. Il glucosio viene così fosforilato e non esce più.

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L’esochinasi II normalmente sta attaccata al mitocondrio, in modo da prendere subito l’ATP


prodotto da esso e poi usarlo per fosforilare glucosio. Se c’è una glicolisi essa avviene in
prossimità del mitocondrio, quindi il piruvato che si genera può entrare direttamente in esso ed
essere consumato. L’esochinasi II sta attaccata al canale anionico del mitocondrio, e quindi
controlla anche i flussi ionici inibendoli per controllare l’apoptosi. Una volta prodotto glucosio-
6-P esso viene convertito in glucosio-1-P per iniziare la glicogenosintesi. Viene incentivata un
po’ la glicolisi il ciclo dei pentosi ma non è prioritario.
La principale fosfatasi che agisce è la PP1. L’insulina, tramite le chinasi che attiva, fa sì che si
attivi la proteina fosfatasi 1, che è localizzata nei granuli di glicogeno. I suoi target sono
principalmente due  glicogeno fosforilasi e fosforilasi chinasi (per bloccare la degradazione di
glicogeno). Nel muscolo c’è un segnale positivo da adrenalina, AMP e calcio. L’insulina va ad
agire in contrapposizione ad essi. Nel muscolo la fosforilasi, senza dover essere per forza
fosforilata, può comunque lavorare grazie a AMP che è un attivatore allosterico. L’insulina toglie
questa attivazione allosterica perché da un lato induce la produzione di ATP (glicolisi) e in più
rende la glicogeno fosforilasi inattiva tramite cambio conformazionale. Una volta inattivata la
glicogeno fosforilasi bisogna attivare la glicogeno sintasi. Nel muscolo, oltre a PKA (segnale
ormonale) e AMPK (attività fisica), c’è un’altra chinasi importante  GSK3, che fosforila la
glicogeno sintasi inattivandola. GSK3 viene bloccata prevalentemente da AKT, che è
l’antagonista. L’insulina agisce sicuramente su GSK3. La glicogeno sintasi viene attivata anche
dalla presenza di glucosio e glucosio-6-P, che agiscono come attivatori allosterici, e poi dalla
fosfatasi che defosforila l’enzima rendendolo attivo. AKT deve inattivare GSK3. Come? 
fosforila un residuo fuori dal sito catalitico diventando una sorta di substrato. GSK3 la riconosce
come fosse un suo substrato, fa entrare fosfato e poi si chiude da sola. Così GSK3 è inattiva e
tolta dalla circolazione. La fosfatasi interviene e la glicogeno sintasi si attiva. Come viene
attivata la fosfatasi? Quello che è chiaro è che essa viene segregata da proteine (regolazione
negativa), grazie a varie fosforilazioni (PKA e altre chinasi). Nel muscolo c’è una subunità detta
GM che fa in modo che la fosfatasi venga rilasciata dalla proteina inibitrice e vada a collocarsi
sul complesso dei granuli di glicogeno dove sono presenti gli altri enzimi. In questo modo si
trova nel posto giusto per defosforilare. Ci sono delle chinasi dipendenti da insulina che
partecipano alla catena chinasica che porta all’attivazione della fosfatasi. Le subunità
regolatorie non sono tutte uguali nei tessuti, quindi è ancora poco chiaro il meccanismo. In
sintesi  se il sistema è pro-degradazione la fosfatasi è segregata e bloccata da un inibitore, se
invece prevale un segnale tipo insulina che deve favorire la sintesi del glicogeno, la fosfatasi è
liberata grazie a proteina regolatorie come GM e partecipa alla defosforilazione/attivazione.
NB: il muscolo NON fa gluconeogenesi!!!
Fegato: l’insulina negli epatociti riduce la gluconeogenesi, e questo è l’effetto primario, più
potente. Nell’insulino-resistenza uno dei principali problemi è che questa via viene a mancare.
Poi, stimola la sintesi di acidi grassi, i quali verranno incorporati nei fosfolipidi in membrana e
nei trigliceridi, come forma di deposito e riserva; oppure vanno in circolo sottoforma di
lipoproteine (VLDL). Verranno poi captati dagli adipociti e rielaborati. L’insulina interviene
anche sulla sintesi di proteine (come anche nel muscolo). Poi c’è una stimolazione della sintesi

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del glicogeno; non c’è una regolazione così forte per quanto riguarda gli enzimi di questa via,
perché funziona prevalentemente il sistema del controllo allosterico. Gli epatociti (e anche le
cellule del pancreas e gli enterociti del lume intestinale) esprimono in membrana GLUT2, quindi
non hanno un trasportatore regolato da insulina. GLU2 non è mai saturo, lavora a bassa affinità
e quindi è neutro. Se il glucosio circolante è in concentrazioni fisiologiche GLUT2 lo fa entrare
poco; se il glucosio aumenta, GLUT2 lo fa entrare in maniera passiva. Il glucosio ha un effetto
sulla glicogenosintesi, infatti inibisce la degradazione, con un effetto allosterico. Si lega alla
fosforilasi e, cambiandone conformazione, favorisce la defosforilazione e quindi la sua forma
inattiva. La glicogeno sintasi (GS) per funzionare ha bisogno di glucosio-6-P  esso è un
attivatore allosterico di questo enzima. La GS fosforilata è inattiva, quindi se c’è G6P si lega e
facilita l’azione della fosfatasi PP1. G6P è sintetizzato dalla glucochinasi GCK, che è una chinasi
che quando entra in contatto con il glucosio lo fosforila impedendone l’uscita. L’insulina è un
potente induttore della sintesi di GCK. C’è una regolazione trascrizionale, ma anche un’altra più
fine. La GCK normalmente quando è inattiva sta segregata nel nucleo, legata ad una proteina
(GCKRP); finché non c’è glucosio sta lì. Quando arriva glucosio esso si lega al sito catalitico
dell’enzima, il quale cambia conformazione e si stacca, per uscire nel citosol. In questo
interviene anche il fruttosio, il quale non è soggetto al controllo da insulina e interferisce con il
metabolismo del glucosio. Il glucosio entra, viene fosforilato a glucosio-6-P e viene attivata la
glicogenosintesi grazie ad attivazione di GS e inibizione di glicogeno fosforilasi. Il glicogeno
viene sintetizzato.
Gluconeogenesi  a partire da piruvato sintetizza glucosio; è molto sensibile alle
concentrazioni di piruvato e degli enzimi che iniziano e terminano il processo, con un ruolo
chiave (piruvato carbossilasi, glucosio-6-P fosfatasi). L’insulina deve bloccare questo processo,
che altrimenti tende ad avvenire facilmente. A regolare questo processo sono innanzitutto due
regolatori trascrizionali molto importanti  FOXO e PGC1alpha. Essi formano un complesso
trascrizionale che regola i geni importanti per gluconeogenesi, ed eventualmente la
glicogenolisi, metabolismo lipidico, ecc... Operano per mantenere alti i livelli di glucosio ed
energia in generale. L’insulina deve bloccare questa macchina trascrizionale. Questo processo
avviene tramite AKT, proteina chinasi chiave, che fosforila FOXO (direttamente e
indirettamente) bloccandolo nel citosol (lo trattiene e degrada). Esso così non potrà più
trascrivere i geni per la gluconeogenesi. Se FOXO è alto, esso agisce in modo particolare sulla
glucosio-6P-fosfatasi e sulla fosfoenolpiruvato (PEP) carbossichinasi (defosforilazione del
glucosio e produzione di PEP). Inibendo FOXO si vanno a inibire questi enzimi. Il glucosio-6-P è
presente in alte quantità, e tenderà ad essere portato verso la glicogenosintesi e poco verso la
glicolisi (avviene ma verrà deviata ad un certo punto verso la sintesi dei lipidi). FOXO lavora a
medio-lungo termine, ci vogliono un po’ di ore perché induca la gluconeogenesi a digiuno. Si è
visto, quindi, che c’è anche un altro complesso trascrizionale  CREB (e CREB binding protein),
insieme ad un coattivatore CRTC2. Questo è il controllo primario. Risponde direttamente a PKA
e a tutti gli ormoni che chiedono glucosio. Questi fattori (CREB e i suoi complessi) inducono
un’alta sintesi degli enzimi PEP carbossichinasi, glucosio-6P-fosfatasi, piruvato carbossilasi, ma
anche dei fattori visti prima (PGC1alpha e FOXO). Viene favorita quindi la gluconeogenesi sia
subito sia a lungo termine.

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Si è visto che l’insulina agisce anche a questo livello, non solo su FOXO, ma anche prima su
CREB, inserendo fosforilazioni diverse da quelle di PKA. C’è una chinasi detta Sik2 che fa in
modo che questi complessi non si formino (CREB, CRD5); essi vengono segregati o degradati
tramite ubiquitinazione. Così l’insulina spegne il segnale ormonale del glucagone.
La calcineurina (CN) è un’altra fosfatasi che risponde direttamente al calcio. Anche per stimoli
diversi, in presenza di calcio induce la defosforilazione riattivando il complesso e quindi la
sintesi degli enzimi della gluconeogenesi. Ci sono una serie di ormoni che agiscono alzando i
livelli di calcio negli epatociti.
Si è visto che un altro livello di regolazione importante che riguarda il calcio è sull’IP3 receptor,
il canale principale del calcio che lo fa uscire dal reticolo dopo aver legato IP3 (ligando, che
deriva dall’attivazione di una fosfolipasi). C’è una regolazione molto fine anche della quantità di
calcio che viene rilasciata. Oltre alla calcineurina, entrano in gioco anche PKA e AKT. Il
glucagone agisce prevalentemente tramite cAMP (PKA). PKA è in grado di fosforilare IP3
rendendolo più sensibile all’apertura. AKT invece fosforila il canale del calcio chiudendolo, per
bloccare questo processo.
È stato scoperto che c’è un controllo metabolico sulla gluconeogenesi. La regolazione vista
prima funziona bene, ma non può agire in tempi così brevi, deve esserci qualcos’altro. Un
controllo potente di inibizione sulla gluconeogenesi riguarda il fruttosio-2,6-bifosfato
(regolatore allosterico)  quando c’è uno stimolo di insulina si attiva l’attività chinasica
dell’enzima bivalente (viene defosforilato), quindi il fruttosio-2,6-BIP viene prodotto. Questo è il
meccanismo più potente per spegnere la gluconeogenesi e favorire il processo inverso ovvero
la glicolisi. Il segnale del glucagone è esattamente opposto.
Una volta coperte le scorte di glicogeno, il fegato si occupa di fare lipogenesi. NON è un organo
adibito al deposito di lipidi, come il tessuto adiposo. È però in grado di accumularli, ma se
questo avviene in eccesso vengono alterate le normali funzioni della cellula. Fisiologicamente il
fegato fa sintesi di lipidi, ma essi devono poi uscire dagli epatociti tramite VLDL (lipoproteine).
Esse vanno in circolo, vengono un po’ captate dai diversi tessuti, ma il loro destino è l’adipocita.
In esso verranno svuotate del contenuto di TAG, che verranno poi riassemblati ed elaborati. C’è
anche un sostegno a lungo termine sulla sintesi delle lipoproteine e degli enzimi per la sintesi
dei lipidi. Per la regolazione di questo processo c’è il fattore trascrizionale SREBP1, che sta da
solo nelle membrane del reticolo. Quando si attiva va ad agire su acetil-CoA carbossilasi
(enzima che serve per produrre malonil-CoA che dà il via alla sintesi di acidi grassi), su acido
grasso sintasi e glicerolo-3P aciltransferasi. Quindi, da una parte un po’ di glicolisi arriva fino alla
fine, producendo piruvato che va al mitocondrio. L’acetile viene usato per fare acidi grassi, ma
deve essere portato nel citosol (può essere prodotto solo nei mitocondri). Quindi, per farlo,
viene incorporato nel citrato, il quale esce. La citrato liasi rilascia acetato, il quale va a fare
sintesi di acidi grassi. Questo processo viene potenziato grazie a SREBP1, che è un sensore
importante e si attiva quando serve. L’insulina, tramite fosforilazione di una proteina, e
inibizione del regolatore Insig, favorisce la liberazione di SREBP1 dal reticolo, il quale va al Golgi
e qui viene tagliato liberando il pezzo di proteina che fa da fattore trascrizionale. Va al nucleo e

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favorisce la sintesi di geni che codificano per enzimi per la sintesi dei lipidi. Ci sono più tipi di
SREBP, che controllano diversi tipi di lipidi.
Sotto mTOR e AKT c’è anche la sintesi proteica. C’è una regolazione su una serie di fattori di
inizio e terminazione della sintesi proteica. Importante da ricordare è EIF4F (complesso formato
da EIF4E, EIF4A e EIF4G)  consente che si formi il complesso tra la subunità minore del
ribosoma e l’mRNA. Questo è necessario perché la macchina parta. Una buona parte della
regolazione traduzionale (sintesi proteica) avviene proprio qui. EIF4F è un complesso, e le sue
parti sono regolate in modo primario da TORC1 e S6 chinasi. Sono regolatori metabolici vitali.
Qua siamo sotto l’insulina. AKT attiva TORC1. TORC1 è un complesso con tante subunità
regolatorie, in cui mTOR la serina-treonina chinasi. Se AKT funziona, è attiva anche mTOR.
mTOR fosforila diverse cose, ma il suo principale compito è sintesi lipidica, sintesi proteica e
anche sintesi nucleotidica  crescita. Un’altra chinasi importante è p70 s6 chinasi, target
primario di mTOR, che la attiva. Il bersaglio di mTOR è 4Ebp (parte del complesso EIF4F). 4Ebp è
un inibitore di EIF4E. mTOR ha il compito di bloccare l’inibitore fosforilandolo, cos’ che EIF4E
venga liberato e possa agire per innescare la sintesi proteica. S6 chinasi ha molti bersagli e
media molti segnali. In particolare, nel contesto della sintesi proteica, fosforila un inibitore
(PDCD4) di EIF4A, bloccandolo. EIF4A per lavorare ha bisogno anche di EIF4B che viene liberato
tramite fosforilazione. S6 chinasi fosforila anche l’attivatore di EIF4A, attivandolo. Si è visto che
c’è anche un’altra regolazione da parte di s6 chinasi, che agisce su un elongation factor più
avanti, tramite fosforilazione inibisce un chinasi che inibisce EF2 (elongation factor). In tutte le
cellule c’è questo pathway che risponde in modo efficace all’insulina. Essa ha quindi questo
ruolo di sostegno della sintesi proteica, in tutte le cellule. Nell’epatocita è particolarmente
importante perché deve produrre le lipoproteine, gli enzimi per le biosintesi e le proteine per
tutto l’organismo (es: albumina). In abbondanza di risorse l’insulina segnala di fare proteine. Il
problema sussiste quando c’è un sovraccarico di questo processo. La parte della cellula che farà
fatica a stare dietro a questa sintesi proteica è il reticolo endoplasmatico rugoso  il folding
delle proteine è impegnativo. A lungo andare ci sarà un accumulo di proteine in eccesso
“inutili”, e questo provoca stress. Un signaling cronico dell’insulina è fisiologicamente legato
all’invecchiamento, che procede velocemente. Il contraltare è la fame (carenza), la quale
allunga la vita, paradossalmente. Anche il fattore IGF-1, che è simile all’insulina, se
sovraprodotto agisce in modo simile sovraccaricando questa parte biosintetica.
Pancreas: ha GLUT2 come trasportatore. Le cellule beta devono fare da sensore abbastanza
neutro del glucosio. GLUT2 fa entrare molto glucosio. Nelle cellule del pancreas c’è
glucochinasi, sempre a bassa affinità e mai satura; fosforila glucosio per farlo restare nella
cellula. Avviene la glicolisi, che ossida il glucosio per produrre ATP, NADH e piruvato. Il piruvato
va nel ciclo di Krebs dove verrà prodotto ATP e NADH. Aumenta quindi il NADH e diminuisce il
NAD ossidato. Si modifica anche il rapporto ATP/ADP/AMP. L’ATP raggiunge il massimo
fisiologico. La cellula sente una riduzione di ADP e AMP. L’ADP controlla un canale per i potassio,
ed è un suo attivatore. Il canale del potassio aperto provoca depolarizzazione perché il potassio
esce. Se a fianco c’è un canale del calcio voltaggio dipendente esso si apre, e ci si aspetta che ci
sia la secrezione di qualcosa. Quindi, c’è regolazione della secrezione di insulina grazie ai canali
del calcio, con il processo appena descritto  regolazione metabolica standard.

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Tessuto adiposo: in risposta all’insulina, il loro compito è prendere glucosio è produrre


triacilgliceroli. Se invece non c’è insulina ma adrenalina, l’adipocita rilascia acidi grassi. Essi
vanno poi a sostenere le attività metaboliche del muscolo scheletrico e del cuore (questi tessuti
bruciano acidi grassi senza problemi). L’effetto primario è bloccare la lipolisi, e poi
eventualmente anche stimolare la lipogenesi. Il tessuto adiposo bianco sottocutaneo è buono,
può crescere molto, senza creare danno metabolico; oltre ad una certa quantità poi le cellule
staminali soccombono, si esauriscono, quindi l’unica cosa da fare alle cellule è crescere in
dimensione. A lungo termine anche il grasso sottocutaneo diventa “malato”, ma normalmente
ha funzione protettiva. Il problema dell’accumulo riguarda perlopiù il grasso viscerale, che
dovrebbe essere presente in minima quantità. L’insulina agirà favorendo il processo di sintesi
degli enzimi per la lipogenesi, e blocca la lisi lavorando sulle gocce lipidiche protette dalle
perilipine. L’insulina rende i lipidi accumulati meno accessibili alle lipasi. L’insulina contrasta
l’attivazione delle lipasi, bloccando la loro fosforilazione. Non è ancora ben chiaro come lo
faccia. Si è visto che stimola l’attività di una fosfodiesterasi 3B, degradando cAMP e bloccando
PKA. Agiranno anche le fosfatasi per defosforilare quello che le chinasi avevano fosforilato.
È stato scoperto un altro regolatore per la regolazione della gluconeogenesi. Si è visto che la
piruvato carbossilasi, necessaria per partire dal piruvato e arrivare all’ossalacetato (primo
passaggio gluconeogenesi), è regolata dall’acetil-CoA. Quindi, indirettamente, l’insulina
lavorando sugli adipociti e regolando la disponibilità di acidi grassi (diminuendola) rende meno
disponibile l’attivatore della piruvato carbossilasi  controllo allosterico fortissimo, che viene a
mancare nel diabete. Quindi, compromettendo il metabolismo degli adipociti si compromette
anche quello epatico e muscolare indirettamente. Nell’insulino-resistenza il tessuto adiposo,
non rispondendo all’insulina, continua a rilasciare acidi grassi tramite lipolisi. Il fegato dovrà poi
metabolizzarli per risintetizzare TAG e poi riportarli al tessuto adiposo. Quando circolano tanti
acidi grassi significa che è richiesta una quantità di energia nell’organismo che non può essere
soddisfatta dal glucosio; si innescano quindi quelle segnalazioni tipo quella da adrenalina, che
chiedono risorse energetiche. Quando gli acidi grassi arrivano al fegato in parte entrano nel
catabolismo dell’epatocita, che con la beta ossidazione li degrada ad acetil-CoA. Esso attiva la
piruvato carbossilasi. Il fegato sente gli acidi grassi circolanti come messaggio per produrre
glucosio (gluconeogenesi stimolata).
Insulino-resistenza
Quando viene stimolato il recettore dell’insulina avviene un processo di internalizzazione. Tanta
più insulina viene rilasciata in circolo, tanto più massiva sarà l’internalizzazione. È un processo
di endocitosi clatrina-dipendente. Servono specifiche fosforilazioni in tirosina. Con
l’internalizzazione si rimuove il recettore dalla membrana, si sposta il tipo di signaling e si
sottrae insulina dall’ambiente, perché viene anch’essa internalizzata e si trova in vescicole di
esocitosi che verranno degradate man mano che si acidificano (processo fisiologico). A questo
punto c’è una sorte di smistamento, per decidere se il recettore verrà riciclato in membrana,
oppure se inizierà un percorso diretto verso il lisosoma. Non è ancora chiaro in base a cosa ci
sia il segnale per il riciclo o degradazione delle vescicole. Sembra esserci un’associazione tra
insulino-resistenza e minore espressione di recettori per insulina in superficie. Le proteine Rab

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intervengono nel traffico vescicolare, e si sia indagando su possibili disfunzioni anche in esse. Il
signaling dell’insulina viene spento innanzitutto dalla defosforilazione delle tirosine
(fisiologicamente). Inoltre, ci sono anche fosforilazioni in Ser-Thr sia sul recettore sia su IRS.
All’aumentare di queste fosforilazioni in Ser-Thr diminuisce la sensibilità del recettore e del
signaling in generale. C’è anche la deplezione del PIP3 tramite PTEN (processo fisiologico), e
processi vari di ubiquitinazione.
Defosforilazione delle tirosine  intervengono la fosfatasi PP2A e la fosfatasi PHLPP (dominio
PH). Queste fosfatasi sono sempre strutture oligomeriche, con una subunità catalitica e altre
regolatorie. Le subunità regolatorie cambiano in base al tessuto e alla zona in cui l’enzima va a
lavorare. Le fosfatasi sono poche rispetto alle chinasi, e più generiche; la loro specificità è data
dall’essere disponibili come sito catalitico, e dalla loro posizione. L’azione dipende quindi da
come vengono regolate le subunità regolatorie. Queste fosfatasi arrivano e spengono il segnale.
È un aspetto fisiologico. AKT fosforila GSK3beta, inibendola. Essa smette di fosforilare i suoi
target, tra cui PHLPP, che diventa attiva. Anche S6 chinasi fosforila PHLPP, attivandola. PHLPP ha
una predilezione per AKT, e la spegne. Anche PP2A contribuisce, ma è meno chiara come
regolazione. È un pathway che può interferire con il signaling dell’insulina, perché risente
fortemente dei nutrienti (soprattutto amminoacidi). Se questo pathway è over-attivato,
indipendentemente dall’insulina, agirà con un feedback negativo sul signaling stesso
dell’insulina.
S6K e mTORC1 vanno a fosforilare IRS, e anche un inibitore GRB10, attivandolo e rendendolo
più propenso a legarsi al recettore per insulina (processo fisiologico  pathway che spegne se
stesso). Se questo pathway si attiva indipendentemente dall’insulina, il segnale per insulina
viene bloccato, ancora prima che arrivi lei (defosforilazione di AKT, e inattivazione di IRS).
Segnale trasversale indipendente da insulina  diventa un processo patologico.
Si è visto che sono inibitori importanti del signaling dell’insulina JNK e IKKbeta. JNK, insieme a
p38, sono due MAPK attivate a valle di signaling infiammatori. Quindi, segnali di infiammazione
in senso di elevati livelli di citochine ma non solo. Oltre al segnale infiammatorio, sono chinasi
che rispondono a stress, che può essere ossidativo, legato ad un’incapacità del reticolo di
funzionare bene, al mitocondrio (omeostasi della cellula non stabile). Queste chinasi innescano
meccanismi di sopravvivenza per far fronte allo stress, oppure indirizzano alla morte. C’è una
situazione metabolica sistemica che non funziona (soprattutto in fegato, muscolo e tessuto
adiposo): elevate quantità di citochine infiammatorie e acidi grassi che segnalano uno stato
infiammatorio. IKKbeta è una chinasi attivata a valle di citochine e fa parte delle chinasi che
attivano NFKB, fattore di trascrizione attivo nei processi di stress e infiammatori. Queste due
chinasi segnalano stress attivato, qualsiasi sia la causa. In questo contesto fosforilano
pesantemente gli IRS, e contribuiscono all’inattivazione fisiologica.
Le proteine SOCS sono inibitori della via Jak-Stat, e modulano il segnale a monte, come risposta
fisiologica. Esse, soprattutto la 1 e la 3 vanno ad attaccarsi al recettore insulinico. Però non sono
un substrato fisiologico, quindi bloccano il sito catalitico del recettore. Inoltre reclutano le
ubiquitina ligasi, che fanno ubiquitinare gli IRS i quali verranno degradati dal proteasoma.
Quindi, più diventa importante lo stimolo infiammatorio nelle diverse cellule, più il signaling

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dell’insulina viene impedito da questi segnali cronici. Un altro tipo di regolazione è il ruolo delle
PKC. Anch’esse sono Ser-Thr chinasi e fosforilano il recettore in Ser-Thr e anche gli IRS, down-
regolando il signaling.
GRB10 e GRB14  proteine adattatrici, ma si è visto che sono potenti inibitori del signaling
dell’insulina. Si attaccano al recettore impedendo l’attività chinasica e il legame con i vari target.
La loro espressione aumenta con l’insulino-resistenza (pseudo-substrati).
Insulino resistenza: è una condizione che si manifesta progressivamente. La concentrazione
fisiologica di insulina non basta più, e il pancreas aumenta la sua produzione. Poi, la risposta
dell’organismo all’insulina diventa nulla, e questo sfocerà nel diabete di tipo 2. Di solito si
associa alla sindrome metabolica, con tutta una serie di alterazioni che indicano che c’è
qualcosa che non va a livello sistemico. L’organismo risponde con un aumento del glucosio
endogeno, ma il pancreas non riesce a produrre abbastanza insulina quindi ad un certo punto ci
sarà una riduzione dell’insulina in circolo. Ma anche assumendola dall’esterno non
cambierebbe niente perché i tessuti non rispondono più. Prima in periferia si instaura insulino-
resistenza. Il pancreas risponde con iperinsulinemia, e poi si arriva al diabete di tipo 2. C’è
anche un'altra ipotesi di patogenesi: iperinsulinemia iniziale che poi porta a insulino resistenza,
e diabete di tipo 2. In ogni caso l’insulino resistenza spesso si accompagna a iperinsulinemia, e
non tutti i diabete di tipo 2 sono uguali. L’insulino-resistenza da sola è una condizione
reversibile, trattandola con una dieta ipocalorica ed esercizio fisico; una volta arrivati a diabete
di tipo 2 conclamato invece non si può tornare indietro, ma solo tenere sotto controllo la
malattia. I soggetti insulino resistenti hanno una minor quantità di recettori per insulina esposti
dalle cellule in superficie. Si può comunque avere una risposta, seppur in maggior tempo. Ma
se i pochi che ci sono funzionano male la risposta è ridotta.
Muscolo: l’effetto più evidente è mancanza dell’uptake del glucosio e della glicogenolisi, perché
vengono a mancare i controlli allosterici. C’è anche un accumulo di lipidi nel tessuto muscolare,
perché il muscolo non riesce a internalizzare glucosio, ma si infarcisce di acidi grassi (gocce
lipidiche) con cui farà TAG. Di solito è un muscolo che non fa attività fisica. Se le gocce lipidiche
diventano troppo grandi compromettono la funzionalità cellulare.
Adipocita: riduzione della lipogenesi e mancanza di soppressione della lipolisi  acidi grassi
continuamente rilasciati in circolo. Essi, inoltre, non riusciranno ad essere incorporati nei TAG.
Epatocita: gli acidi grassi continuano a stimolare la gluconeogenesi. FOXO non viene inibito e
quindi la gluconeogenesi continua. Il sistema non riesce a rispondere agli effetti allosterici del
glucosio in modo corretto. Diminuisce la glicogenosintesi e aumenta la glicogenolisi. È rallentata
la risposta all’insulina. Si pensa che ci sia un aumento della sintesi lipidica, non solo captando gli
acidi grassi da fuori; è ancora poco chiaro se sia una causa o una conseguenza. Di solito chi
diventa insulino resistente ha una dieta ipercalorica e iperproteica. SREBP1 si attiva a valle di
AKT e mTOR. Serve per sintesi di acidi grassi e colesterolo. C’è un fattore di trascrizione ChREBP
(proteina che lega l’elemento di risposta ai carboidrati) che risponde direttamente al glucosio,
indipendentemente dall’insulina, tramite un sistema automatico. Esso attiva una serie di geni
che codificano per la piruvato chinasi e acetil-CoA carbossilasi, e acido grasso sintasi. C’è anche
un altro regolatore, lo xilulosio-5-P (via dei pentosi), il quale si accumula quando c’è eccesso di

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glucosio e va ad attivare la fosfatasi, attaccandosi alle regioni regolatorie; così il ChREBP viene
defosforilato, entra nel nucleo e attiva i suoi geni. È un fattore regolato direttamente dal
glucosio. Anche il fruttosio ha un ruolo  entra tramite GLUT2 e tende ad essere convertito a
fruttosio-1-P. Questo sfugge al controllo dell’insulina, anche se essa funziona. Viene
metabolizzato in diidrossiacetone fosfato e poi gliceraldeide-3-P, che tenderà a indurre la sintesi
di lipidi. Così si va ulteriormente a sovraccaricare il fegato sulla sintesi dei lipidi. Si somma il
fatto che l’eccesso di acetil-CoA esce dal mitocondrio e andrà a fare acidi grassi, ed essi vanno
ad attivare la gluconeogenesi. La nostra dieta non è solo grassa, ma il problema è soprattutto
che è iperproteica, con proteine perlopiù di origine animale. Gli aa leucina, arginina e
metionina attivano mTOR.
L’obesità è un fattore di rischio per l’insulino resistenza, ma ci sono obesi insulino sensibili. Ci
sono anche normopeso insulino resistenti. Cosa hanno in comune? C’è anche un altro modello
umano studiato, che è la lipodistrofia  disfunzione nello sviluppo del tessuto adiposo,
soprattutto quello sottocutaneo (mancanza). Molti di questi soggetti diventano insulino
resistenti. Quindi l’attenzione si sta rivolgendo non solo al tessuto adiposo viscerale, ma anche
a quello sottocutaneo periferico. Cosa succede quando il tessuto adiposo cresce tanto di
dimensione?  finché è sano, ci sono cellule staminali che si differenziano e accumulano gocce
lipidiche. Ad un certo punto le cellule staminali si esauriscono a forza di riprodursi più del
dovuto; quindi, l’adipocita inizia a ingrossarsi sempre di più, fino a compromettere la funzione
cellulare. Questo porta anche ad una compressione dei vasi sanguigni esterni, che induce
ipossia, quindi sofferenza cellulare e stress. Iniziano ad essere prodotto adipochine e citochine,
per richiamare le cellule del sistema immunitario (alcune sono già residenti). I macrofagi
iniziano ad infiltrare. Poi però rimangono intrappolati in questo tessuto in parte ipossico, quindi
inizia un processo di reciproco sostegno. Anche i macrofagi iniziano a produrre citochine
infiammatorie (interleuchina 6, TNF). Si pensa che l’infiammazione non sia la causa primaria
dell’insulino resistenza, ma che una volta instaurata contribuisca ad accelerare il processo. Si
sta anche vedendo che l’overdose di glucosio e acidi grassi in qualche modo deve essere
smaltita e metabolizzata dai tessuti. Alla fine, il grosso del lavoro viene fatto dal mitocondrio
(ingresso di piruvato). Però c’è un continuo sovraccarico del ciclo di Krebs, che produce acetato,
il quale serve per fare gli acidi grassi. Ma per farlo deve esserci acido grasso sintasi, che dopo
un po’ inizia a faticare  accumulo di prodotti intermedi degli acidi grassi fuori e dentro al
mitocondrio; essi segnalano e alterano il metabolismo. Si crea una forte sofferenza
mitocondriale perché ci si ritrova ad avere una serie di acidi grassi intermedi che non
dovrebbero normalmente esserci. Parte uno stress dall’interno della cellula stessa. Si crea una
risposta antiinfiammatoria fisiologica che però poi non si risolve perché lo stimolo al di fuori
della cellula continua. Il risultato è un consumo di ATP ridotto. Ma il mitocondrio ne produce
molto, anche se non serve.
PKC fosforila il recettore dell’insulina. È una chinasi attivata da DAG. Le classiche dipendono da
calcio e DAG, con un signaling classico a valle di PLC. Poi ci sono le novel che si attivano solo con
DAG. Normalmente DAG arriva dalla membrana per azione di una fosfolipasi. Quando c’è molto
glicerolo-3-P e acidi grassi, viene prodotto molto DAG. C’è un ruolo anche delle ceramidi,
prodotte a partire da acido palmitico. Si accumulano e hanno la capacità di alterare il

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metabolismo in sé e anche l’attività di AKT, impedendogli di attivarsi e ad agire. Sono anche un


problema a livello mitocondriale.
Caloric restriction and longevity: nutrient sensing
Processi biologici che sentono i livelli di energia e nutrienti all’interno di una cellula e nel suo
ambiente. Questi processi funzionano sicuramente a valle di regolazioni ormonali, ma ci sono
anche dei meccanismi intrinseci di controllo metabolico che non per forza devono dipendere da
segnali ormonali. Gli stessi nutrienti possono funzionare da mediatori del segnale, e gli stessi
enzimi/proteine possono fungere da sensori. L’alimentazione, intesa come apporto calorico, è
associata ad un aumento della longevità oppure ad una riduzione di malattie degenerative (non
per forza le due cose sono accoppiate). È ormai provato che la restrizione calorica estende la
durata della vita, oppure diminuisce il rischio di alcune malattie come quelle cardiovascolari,
neurodegenerative, e anche la progressione tumorale. Negli Stati Uniti ci sono molteplici studi,
che vanno avanti da anni. Un esempio sono gli studi sulle scimmie. Questi dimostrano che c’è
una differenza tra le scimmie sottoposte a restrizione calorica rispetto alle altre, e in particolare
si evidenzia una minore incidenza di malattie ed eventi degenerativi. Ci sono anche studi sugli
esseri umani. Isola di Okinawa  Giappone; popolazione più longeva al mondo, che arriva in
salute fino a 100 anni. Hanno una dieta ipocalorica, abbastanza restrittiva. Si sono fatti tanti
studi su come questa dieta ipocalorica e molto controllata possa influire sulla vita degli uomini.
Si è visto che quando l’apporto calorico era composto da proteine oltre ad una certa
percentuale, aumentava molto il rischio di cancro; se le proteine erano di origine vegetale
questo aumento di rischio non c’era. Questo è vero se il consumo elevato di proteine avviene in
età infantile. Nell’anziano non succedeva. Ci sono molteplici spiegazioni: sequenza
amminoacidica, additivi della carne, oppure solo il fatto che chi consuma tanta carne ha un
particolare stile di vita che va ad influire.
Sicuramente è coinvolto il signaling di IGF1 e insulina, che arriva dall’esterno. All’interno della
cellula ci sono i pathway di mTOR (con AMPK), il pathway delle sirtuine (enzimi sensibili ai livelli
di NADH, relativo allo stato redox della cellula) e il fattore GCN2. Sono tutti intersecati. Due
“bracci”  il deficit calorico attiva AMPK, mentre la possibilità di avere nutrienti attiva la parte
sintetica di mTOR. AMPK lavora nel contesto del catabolismo, in condizioni di carenza
energetica; mTOR lavora in condizioni di abbondanza. mTOR è stato scoperto per caso, negli
anni ’70 (isola di Pasqua). È stato isolato dal suolo un batterio, da cui è stata isolata la
rapamicina. L’idea era quello di usarla come antimicotico (funzionava in vitro), ma si vide che
sulla gente aveva un effetto immunosoppressivo molto forte e anche attività antiproliferative.
Quindi entrerà poi in commercio come immunosoppressivo nei pazienti trapiantati. In vitro
inoltre blocca anche molto bene la crescita tumorale. Quindi, vengono poi selezionati ceppi
resistenti alla rapamicina e si identifica la proteina TOR, mutata nei microorganismi resistenti,
mentre in quelli che morivano era wild-type. Quindi TOR viene identificata come target della
rapamicina, e media il suo effetto antiproliferativo (Ser-Thr chinasi). In realtà, la rapamicina lega
le immunofilline, proteine in grado di legare gli immunosoppressori. Per la rapamicina è stata
identificata la proteina FKBP12  è un enzima cis-trans isomerasi, che gira il legame peptidico
sulla prolina; lavora nel folding proteico. La rapamicina ha una struttura che ricorda una zona

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della prolina, quindi si lega alla rapamicina. Quando questa proteina si lega alla rapamicina, si
forma una molecola nuova in grado di interagire con altre proteine, tra cui mTOR (in tutte le
cellule), e va a interferire con la risposta immunitaria nelle cellule del SI. mTOR è una Ser-Thr
chinasi con vari domini. È importante per regolare la sintesi proteica, sintesi lipidi, biogenesi dei
ribosomi ed è un inibitore dell’autofagia molto potente. Poi mTOR è sensibile ai fattori di
crescita che arrivano dall’esterno (ormoni), ma anche risente della presenza di energia, intesa
come ATP e NADH, e dei nutrienti (glucosio e amminoacidi). Poi, si vide che mTOR sta in due
complessi principali: mTORC1 e mTORC2 (TOR è sempre la chinasi, le altre sono proteine
regolatorie; “m” sta per “mammalian”. TORC2 è più indirizzata a regolare la proliferazione e
sopravvivenza cellulare in sé, mentre TORC1 lavora più sulla sintesi delle macromolecole pur
agendo anche sulla sopravvivenza. Inizialmente gli studi erano fatti perlopiù sui tumori. Sono
fattori fondamentali nella crescita tumorale, in un modo o nell’altro sono sempre attivati (sopra
c’è AKT!). Negli anni più recenti si è visto che hanno un ruolo anche in malattie non
proliferative, come il diabete, o anche malattie neurodegenerative. TORC1 fa da catalizzatore
per segnali che sente in modo diretto o indiretto  presenza di glucosio e amminoacidi (stato
energetico della cellula). mTORC1 viene attivato sul lisosoma (anche un po’ su altre vescicole
ma meno importante). Questo perché va ad inibire l’autofagia. Sta lì, dove può agire vicino a
quei processi che portano alla fusione di vescicole di endocitosi autofagiche con il lisosoma.
Inoltre lì escono gli amminoacidi. Quindi, gli amminoacidi che escono dal lisosoma sono
attivatori di mTORC1. Non occorre fare autofagia, perché i nutrienti ci sono, quindi si può fare
sintesi proteica. mTORC1 quindi è appoggiato sulla membrana del lisosoma, e lì ci sono
proteine regolatorie, tra cui le GTPasi dette Rag. Sono loro che fanno da switch molecolare per
il nutrient sensing, cioè l’aspetto di attivazione legato agli amminoacidi. Ma c’è anche un
aspetto energetico a cui risponde mTORC1. I due segnali potrebbero anche non essere
d’accordo. Quindi, c’è un altro sistema, quello delle small G protein Rheb, che fanno anch’esse
da “interruttore”, come sensore energetico. Se Rag e Rheb sono concordi è meglio, se non lo
sono dipende, dal peso. Rheb è farnesilata e sta sul lisosoma; di sua natura tende a legare
facilmente il GTP rilasciando il GDP, oltre all’attività GTPasica. Per la maggior parte del tempo è
attiva. Si è scoperto un GAP di Rheb, il complesso TSC1-TSC2. Queste GAP sono state scoperte
in una malattia genetica ereditaria che causa un’iperproliferazione dei tessuti, nei tumori
benigni. Rheb tendenzialmente è sempre attiva, e ci sono queste GAP di questo complesso che
la rendono inattiva, attivando fortemente la sua attività GTPasica e quindi reprimendo il suo
aspetto positivo. Il sistema, quindi, va ad inibire le GAP  AKT attiva mTOR fosforilando le GAP
(complesso TSC1 e 2) e inattivandole. Gli amminoacidi arrivano sia da dentro al lisosoma
(liberati dalla degradazione proteica), sia dall’ambiente del citosol (che entrano dalla
membrana, ecc..). Si è scoperto che in realtà mTOR ha dei diversi sensori per gli amminoacidi, e
NON qualsiasi amminoacido. Quelli che hanno veramente un effetto di molecole del segnale
sono leucina, arginina, metionina. Arginina lavora bene sia nel citosol che dal lisosoma. Ci sono
altre GTPasi che rispondono alla presenza di questi amminoacidi. Nel lisosoma la regolazione è
un po’ più complicata. La pompa che acidifica il lisosoma (pompa dentro i protoni) sembra
essere coinvolta in questa regolazione. Poi ci sono proteine canale per gli amminoacidi.
All’esterno è un po’ più chiaro. Arginina e leucina hanno due percorsi distinti, sono due sensori
diversi. Le Rag sono attivate dal loro GEF. Un inibitore dell’attivazione delle Rag è GATOR1  se

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lui funziona le Rag sono spente e TOR è inibito. Quindi, serve qualcosa che inibisca l’inibitore:
GATOR2  se funziona, inibisce l’inibitore delle Rag e quindi mTOR funziona. GATOR2 deve
lavorare. Ma è a sua volta tenuto a bada da degli inibitori  CASTOR (sensore di arginina), e le
sestrine 1 e 2 (sensore di leucina). Se non ci sono amminoacidi, CASTOR inibisce l’inibitore
dell’inibitore delle Rag, quindi TOR è spenta. Compare l’amminoacido: CASTOR o sestrina
legano l’amminoacido corrispondente, GATOR2 è attivo e può inibire GATOR1, esso non può più
inibire le Rag e così esse attivano mTOR. Questo spiega una cosa: elevati livelli di arginina e
leucina attivano mTOR, e tutta la macchina sintetica, inibendo la macchina autofagica. C’è poi
un altro interattore importante che viene sentito  SAM (s-adenosil-metionina). Prodotto a
partire dalla metionina, con trasferimento di metili, importante nella sintesi degli acidi nucleici
e nei sistemi antiossidanti. SAM segnala che c’è tanta possibilità biosintetica, quindi è un
attivatore dei sistemi biosintetici. SAM ha un altro sensore detto SAMTOR, che va ad interagire
con altre molecole e va ad attivare le Rag (blocca la loro inibizione, interferisce con tutto il
processo) così che mTOR possa funzionare. Poi c’è l’effetto dell’amminoacido arginina
all’interno del lisosoma. C’è una proteina canale SLC che non sente solo l’arginina ma anche il
colesterolo; anch’esso è importante, perché le membrane ne sono piene quindi serve per la
crescita. Questa proteina canale sente l’arginina e il colesterolo, e contribuisce a fare in modo
che le Rag funzionino e mTOR sia attivo.
Il pathway che porta ad attivare TORC1 e 2 è finalizzato ai processi anabolici, soprattutto alla
sintesi delle proteine. Uno dei punti in cui si può regolare la sintesi proteica, fuori dal nucleo,
riguarda l’ambiente del citosol, e in particolare la stabilizzazione degli mRNA. C’è poi un’altra
parte che riguarda la loro disponibilità (segregati o resi disponibili alla traduzione). Ci sono
pathway che regolano anche lo splicing, sempre nel citosol. Per quanto riguarda mTOR, l’inizio
della regolazione è più a valle, all’inizio della traduzione della proteina; l’RNA è reso disponibile
e viene facilitata la formazione del complesso con la subunità minore del ribosoma e i fattori di
inizio, e l’RNA transfer posizionato con il primo amminoacido che attende l’mRNA. In una
cellula ci sono tantissime unità pronte. Viene incorporato nel modo giusto l’mRNA; essi hanno
la 7-metilguanosina e il cap, e questo serve per proteggerli e come riconoscimento. Il
complesso 4F (primo) è composto da molte subunità, di cui una è la 4E, la quale deve
riconoscere il 7-metilguanosina. L’altra subunità è la 4G, e fa da ponte per legarsi alla proteina
che lega la poliadenina (coda) dell’mRNA. Perché il sistema parta, occorra che l’RNA transfer si
posizioni con l’amminoacido in modo che esso sia sul codone di inizio, e questo prevede uno
srotolamento dell’RNA. Quest’azione è svolta dal fattore 4A. Sono tutti fattori importanti per
dare inizio al processo. Dopo che si è trovato il codone di inizio si attacca la subunità maggiore
del ribosoma e il processo inizio.
TORC con la proteina a valle S6K agisce su questo livello, in tre punti. C’è la fosforilazione di
4EBP (binding protein), un inibitore del fattore 4E  viene rimosso e viene liberato 4E così che
possa interagire con il 4G, perché inizi tutto il processo. In seguito a tutti gli stimoli proliferativi
che agiscono via AKT porta ad attivazione di mTOR e quindi a questo processo. Se siamo in una
condizione di stress e carenza questa via è inibita.

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Ci sono altri due fattori che vengono regolati. 4A è un’elicasi, e viene regolato attraverso 4B. 4B
è regolato dall’inibitore PDCD4. 4B viene liberato e fosforilato da S6K, così si attiva e può
partecipare al complesso con 4A  attività elicasica stimolata. L’inibitore PDCD4 blocca il
fattore 4B che deve essere fosforilato. È target di AKT e di S6K. La fosforilazione dell’inibitore lo
stacca dall’attivatore e così avviene la fosforilazione e attivazione di 4A. In questo modo tutti gli
mRNA possono essere tradotti. Ci sono poi altre vie con attivazione della sintesi degli acidi
nucleici, necessaria per la proliferazione cellulare.
S6K inibisce IRS (retro controllo negativo). EIF1alpha è un sensore dell’ipossia, quindi è un
fattore di stress e agisce sul differenziamento cellulare e sul metabolismo del glucosio. ETF4 è
un fattore di trascrizione che è coinvolto nell’ER stress (ingolfamento del reticolo)  accade per
vari motivi, per esempio sofferenza delle cellule pancreatiche per eccesso di insulina o eccesso
di sintesi proteica. Questo fenomeno detto UPR (unfolding protein response) serve a bloccare la
sintesi proteica e far sopravvivere le cellule. Infine, TORC1 attivato porta alla sintesi degli acidi
nucleici. C’è poi un aspetto focale per quanto riguarda la longevità e l’invecchiamento in salute
 regolazione negativa di TORC1 sul processo autofagico.
Regolazione negativa di TORC1 sul processo autofagico: l’autofagia rappresenta un modo per la
cellula per nutrirsi, inglobando materiale dall’esterno oppure “auto digerendo” se stesse, in
modo controllato. Questo porta alla degradazione degli organelli danneggiati. Quindi, oltre ad
un aspetto nutritivo si unisce l’aspetto di eliminare ciò che è danneggiato. Se questo processo
non avviene mai, questi organelli dovrebbero venire degradati, ma ciò avviene con minore
efficienza. C’è una regolazione trascrizionale, che potenzia la sintesi dei fattori pro autofagici;
poi c’è una regolazione metabolica che lavora su una macchina che favorisce l’autofagia, in
senso meccanico di attivazione locale. Queste due vie vengono quindi bloccate. TFEB è il fattore
di trascrizione principale coinvolto nella biogenesi dei lisosomi. La vescicola autofagica che si
forma va a fondersi con le vescicole lisosomiali, che devono essere pronte a lavorare per la
degradazione. TFEB quindi consente la sintesi di molte proteine lisosomiali (idrolasi) e delle
vescicole stesse, fondamentali in questo processo. TFEB è regolato da TORC1 tramite
fosforilazioni, e anche da AKT  effetto inibitorio. Poi anche GSK, PKC. Con la fosforilazione
viene bloccata la sua attività di fattore di trascrizione nel nucleo. Gli si impedisce di entrare nel
nucleo, tramite la proteina 1433 che lo “ingabbia”. Se gli viene consentito di andare nel nucleo
inizia tutta la sintesi delle vescicole lisosomiali e proteine autofagiche che favoriscono il
processo.
Processo autofagico: si deve attivare un nucleo proteico iniziale che segnala che deve iniziare la
sintesi delle membrane autofagiche che devono inglobare ciò che deve essere degradato.
Questi elementi legano delle proteine che segnalano che essi devono essere inglobati. Il
complesso inziale si chiama ULK. C’è una chinasi ULK1/2 e poi altre proteine ATG13 e ATG101,
che formano la macchina iniziale. Poi, c’è il complesso secondo formato da Beclin1 e Vps34 
complesso di una PI3K, con una chinasi che serve per attivare il processo autofagico. mTOR va
ad inibire il complesso ULK1/2, fosforilandolo in due posizioni 637 e 757 (Ser). Sono
fosforilazioni inibitorie. Se non basta, mTOR fosforila anche ATG13 in 258, e così il complesso è
bloccato a monte. C’è però qualcosa che antagonizza questo blocco dell’autofagia. Il

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protagonista di questo processo antagonista è AMPK. Essa ha lo stesso target ovvero ULK ma lo
attiva, e va anche a fosforilare mTOR per inibirlo e impedirgli di fosforilare ULK. Quando mTOR è
inibito, arrivano le fosfatasi e staccano i fosfati inibitori, e intervengono le fosforilazioni
attivatorie (AMPK). ULK1/2 viene attivato e si autofosforila, e va ancora a fosforilare TORC1 su
Raptor bloccandolo, e poi fosforila ancora i suoi componenti per attivare tutto il processo di
autofagia. Una cellula tende sempre ad avere un po’ di autofagia fisiologica basale, che poi può
essere incrementata se arrivano gli stimoli. Ci sono molti inibitori, attivi su diverse parti
dell’autofagia (es: rapamicina, coercitina, curcumina...). Alcuni vengono usati in ambito
terapeutico (inibizione o attivazione dell’autofagia), oppure sono usati nei laboratori di ricerca.
AMPK è in grado di indurre autofagia, direttamente agendo su ULK e indirettamente andando a
inibire mTOR, fosforilando Raptor. Ma non basta. Va a fosforilare il complesso TSC1/TSC2, ma in
questo caso ha effetto attivante. Se AKT bloccava la GAP, AMPK la attiva. Con le GAP attive Rheb
viene inibita, e se Rheb è inibita TOR non può essere attivato a valle dei fattori di crescita. Può
ancora sentire l’effetto degli aa, ma gli manca l’altra parte di attivazione. In pratica  se c’è
AMPK chinasi attiva, TORC è inattivato. AMPK sta indicando che c’è un problema energetico
importante, e quindi deve dire alla cellula che deve produrre più ATP e non consumarlo. Quindi,
blocca tutto l’anabolismo, perché l’obiettivo è la sopravvivenza e non la crescita. Bisogna
produrre non solo ATP ma anche NADH e FADH2. L’anabolismo consuma tutto ciò. ATP, AMP e
ADP non sono solo molecole importanti per l’energia, ma fanno anche da mediatori del
segnale, soprattutto AMP. Il turnover dell’ATP è molto rapido (poche ore). In parte questo
processo avviene nel mitocondrio, o nelle reazioni di fosforilazione a livello del substrato in cui
l’ADP viene convertito in ATP. Ma può anche avvenire un altro processo  l’enzima adenilato
chinasi catalizza il trasferimento di un gruppo P dall’ADP ad un altro ADP. Si forma così AMP e
ATP. Quindi la cellula ottimizza la quantità di ATP disponibile. Questo porta ad un aumento di
AMP molto importante. La reazione è quasi all’equilibrio (costante di equilibrio pari a 1), e può
andare in entrambi i sensi in base a cosa prevale tra ADP e ATP. Indicativamente l’ATP è 10 volte
più concentrato dell’ADP; l’AMP è pari a 1/100 dell’ATP. Quando avviene questa reazione, se
comincia ad aumentare l’ADP, il rapporto ATP/AMP varia subito, perché AMP aumenta e fa da
sensore del fatto che c’è poca energia. L’AMP è un regolatore allosterico della fosfofruttochinasi,
e spinge per fare glicolisi per avere energia. In presenza di solo ATP l’enzima lavora poco, ma
basta poco AMP per farlo lavorare di più.
C’è una deplezione rapida di energia quando mancano nutrienti, ma anche in condizioni di
sforzo fisico importante, in cui viene usato tanto ATP per la contrazione e aumenta AMP. Poi,
entra in gioco anche il calcio. A volte fa da sensore per lo stress ossidativo o condizioni
ipossiche, quindi di stress.
AMPK è un trimero, con tre subunità alpha, beta e gamma. Esse lavorano insieme, e la gamma
è il sensore dell’AMP. Esso è un attivatore allosterico dell’AMPK, ma non basta per la sua
attivazione completa, amplifica la sua attività chinasica e la rende più propensa all’attivazione.
La chinasi per lavorare deve essere fosforilata in Thr172, sul loop attivatorio. Il massimo
dell’attività si ha con AMP legato alla gamma, e questa fosforilazione. Quando l’AMP se ne va
(energia torna normale) viene favorita la defosforilazione e AMPK torna a riposo. Ci sono due

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subunità alpha, due beta e tre gamma. La ricerca attuale sta cercando di capire che significato
biologico hanno queste varianti, ma la regolazione generale dell’enzima è sempre la stessa.
L’enzima ha la subunità gamma formata da 4 domini. La beta ha un dominio che lega il
glicogeno e un altro che fa da ponte tra la gamma e l’alpha. L’alpha contiene la subunità
catalitica, e c’è un loop che fa da sensore che sente la presenza o assenza di AMP sulla gamma,
e trasmette ciò alle subunità catalitiche. AMPK può legarsi alla membrana tramite una codina, e
sta anche lei sul lisosoma. AMPK ha un ruolo fondamentale nel fegato e nel muscolo (dominio
che lega il glicogeno in beta). La gamma è stata studiata molto appunto perché è il sensore
dell’AMP. Questo sensore è formato da due blocchi, ciascuno formato da una coppia di CBS
(dominio identificato nella cistationina beta sintasi). Questo accoppiamento serve perché venga
infilato dentro l’AMP. Si è scoperto che CBS2 non lega AMP, mentre CBS4 è sempre legato ad
AMP. CBS1 e CBS3 sono liberi e lo legano quando esso aumenta. Uno dei due è anche in grado
di legare ATP, in modo reversibile. Quando l’ADP è legato cambia la conformazione, si trasferisce
ad un linker ed esso fa cambiare conformazione al dominio chinasico. Qui avviene una
fosforilazione in Thr174 (sull’activation loop), che è necessaria per irrigidire e fissare l’activation
loop in una conformazione che permette al sito catalitico di lavorare. Se non c’è l’AMP questa
fosforilazione è in balia delle fosfatasi, che possono toglierla. Quando si lega AMP c’è un cambio
conformazionale e la fosforilazione rimane protetta (più interna). Quindi l’AMP promuove
questa fosforilazione, e poi la chiude proteggendola dalle fosfatasi, permettendo alla chinasi di
lavorare. Ma si è anche visto che favorisce la velocità, perché è un attivatore allosterico 
quando c’è AMP e fosforilazione la chinasi lavora al suo meglio. Chi fosforila la chinasi? La
fosforilazione risponde al calcio, ad una chinasi epatica LKB1 e ad un’altra chinasi TAK1 (sotto
TGFbeta, attivata anche nello stress ossidativo). LKB1 è regolata da ERK e AKT  inibitorie. Tra
le attivatorie invece c’è l’acetilazione delle sirtuine, PKA (cAMP, quindi segnale da glucagone –
ipoglicemia  bisogno energetico), e Ragulator (GEF delle Rag). L’attivazione avviene sul
lisosoma. Se non ci sono gli amminoacidi (deficit energetico) come fa AMPK a sentire il
glucosio?  ci sono alcuni enzimi delle glicolisi che sono sul mitocondrio, e altri come l’aldolasi
che stanno attaccati all’ATPasi. Il sensore di glucosio è il fruttosio-1,6-biP. Quando c’è glucosio e
la glicolisi parte, l’aldolasi agirà sul fruttosio-1,6-biP tagliandolo. Essa ha una sua conformazione
che si trasferisce all’ATPasi. Quando manca glucosio per la glicolisi l’aldolasi un po’ si stacca e un
po’ cambia conformazione, e viene favorito il legame di axina con LKB1. Quando sono legate,
LKB1 si attiva e fosforila AMPK. Prima ancora che AMP aumenti si può formare questo
complesso. L’AMP arriva e viene stabilizzata la fosforilazione di AMPK. Parte il processo
catabolico e viene inibito quello anabolico. AMPK agisce anche fosforilando altre proteine,
come ULK, PGC1-alpha, e CD36 per facilitare l’uptake di acidi grassi da parte degli adipociti
(ripulimento del sangue periferico). Va a inibire la glicogenosintasi. Fosforila Raptor, TSC2,
Beclin.
Sirtuine: sono una famiglia, e sono state scoperte come enzimi in grado di deacetilare i residui
di lisina, sugli istoni ma non solo, anche fuori nel citosol e nel mitocondrio. Utilizzano il NAD
ossidato, in una reazione in cui prendono l’acetile e lo trasferiscono sull’ADP-ribosio sganciando
la nicotinammide. Altre sirtuine (4 e 6) non fanno da deacetilasi, ma fanno ADP-ribosilazione di
altre proteine. Quindi regolano l’attività di altre proteine. Come? Dipende. Le attivano,

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inattivano, destabilizzano. Hanno bisogno di NAD ossidato, quindi sono dei sensori dello stato
di ossidazione della cellula. Inoltre, il NAD è anche un sensore del livello energetico (tanto
NADH  tanta glicolisi e beta ossidazione  ATP; tanto NAD ossidato  poca energia). Questi
enzimi vengono attivati quando la cellula è carente di energia. Sono state studiate nel contesto
dell’invecchiamento. AMPK ha un’attività che rallenta l’invecchiamento. La Sirt1 aiuta
l’invecchiamento in salute (proteina della longevità, e si sta cercando di capire il perché). Le
sirtuine lavorano quando c’è tanto NAD ossidato, e quando lavorano aumenta l’attività
autofagica (collaborano con AMPK). Si è visto che il NAD può essere modificato come quantità.
L’enzima nicotinammide fosforibosil transferasi è regolabile, e quando c’è deficit energetico
viene attivata la sintesi. Questo consente una maggior sintesi di NAD ossidato  attività delle
sirtuine. Si è visto anche che nell’aumento della sintesi della nicotinammide Pribosil transferasi
è coinvolto AMPK. Essa va ad agire e induce la trascrizione genica. Aumenta NAD ossidato e
aumenta l’attività della sirtuina. La sirtuina contribuisce all’attivazione di LKB1, che a sua volta
va a fosforilare AMPK. Feedback positivo. Un altro target di Sirt1 è p53, che viene inattivata; e
poi il fattore PGC1-alpha. P53  contribuisce a indurre senescenza. AMPK agisce su PGC1-
aplha. Sirt1 ha un ruolo pesante su muscolo, fegato e tessuto adiposo. Tende a portare a
processi che aumentano l’energia e diminuiscono l’anabolismo, analogamente a AMPK
(lavorano in sintonia). Sirt1 favorisce l’attivazione di AMPK e viceversa.
PGC1-alpha  fattore di trascrizione. Interviene nella gluconeogenesi e nell’ossidazione degli
acidi grassi. PKA è a valle di glucagone nel fegato. AMPK si attiva, anche Sirt1, che supporta
FOXO per gluconeogenesi. Se c’è richiesta di energia, i grassi vanno mobilizzati e deve avvenire
beta ossidazione. PGC1-alpha interagisce con i fattori di trascrizione PPAR. C’è anche un ruolo
importante nella biogenesi dei mitocondri. Quando arriva un surplus di acidi grassi, il fegato
cerca di smaltirli risintetizzando TAG, ma non può smaltirli tutti quindi vanno nel muscolo, che
(se non fa attività fisica) un po’ fa TAG e un po’ li manda al mitocondrio per la beta ossidazione.
Ma se non viene consumata energia e siamo pieni di NADH, il mitocondrio non sarà mai
stimolato a crescere. I mitocondri si trovano pieni di acidi grassi che non riescono a
metabolizzare. Se invece si innesca il deficit energetico, si attiva anche una macchina
trascrizionale, che dura il tempo di ore, giorni, mesi, anni. Con una funzionalità muscolare che
prosegue, e si arriva a vivere molti anni. C’è poi il recettore per l’ormone tiroideo, che sta
insieme a PGC1-alpha e insieme fanno biogenesi mitocondriale. L’ormone tiroideo dice che c’è
bisogno di fare catabolismo per ottenere energia, e se non ci sono mitocondri buoni non si può
fare. I NERF sono fattori legati a stress ossidativo. Quindi, ci sono una serie di studi sulla
longevità che indagano questi pathway. C’è un grande mondo di ricerca, nell’ambito dell’attività
sportiva innanzitutto. Poi ci sono anche studi su interventi farmacologici. Ci sono molte
molecole che vanno a inibire TORC e ad attivare AMPK. Ci sono persone che non possono
gestire certi regimi dietetici né fare attività sportiva, per vari motivi. Si può in queste persone
provare ad agire su questi pathway, con interventi terapeutici per forzare l’attivazione di AMPK
e inibire TORC1? Per migliorare le condizioni metaboliche generali. Il problema è che queste
molecole, come la coercitina, agiscono su svariati target. È molto difficile quindi intervenire
sperando che si vada ad agire su quello che si vuole. Ci sono una serie di farmaci che agiscono
sulla longevità, ma è un argomento complicato. Ci sono solo trial clinici per ora.

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Biochimica clinica
Scienza clinica applicata che studia con metodi chimici, fisici e biologici le alterazioni
dell’organismo nello stato di malattia. Ottiene da campioni biologici, provenienti dal paziente,
dati quantitativi o qualitativi che consentono di ottenere informazioni utili a scopo diagnostico,
prognostico e terapeutico.
La biologia molecolare clinica è un settore disciplinare che racchiude e contraddistingue
l’insieme dei test che vengono sviluppati ed eseguiti sulla base di tecnologie ed approcci
metodologico-concettuali tipici della biologia molecolare.
Marcatore biologico (biomarker)  parametro biologico misurabile e quantificabile che serve
da indicatore di processi biologici normali, patologici o di risposta ad interventi farmacologici.
Può essere considerato un indicatore di endpoint clinico surrogato (es: glicemia  diabete).
Può essere di tre tipi:
- Genomico: mutazioni, polimorfismi, espressione genica, modificazioni epigenetiche
- Proteomico: quantità e attività di una proteina
- Metabolomico: alterazioni quali-quantitative dei substrati e dei prodotti delle reazioni
metaboliche
I biomarker possono servire a cose molto diverse, quindi vanno scelti in base a cosa si vuole
andare ad indagare:
- indicatori di salute  pannelli pre-operatori, controlli periodici
- markers predittivi  indicatori di rischio di malattia in soggetti sani (portatori eterozigoti
di malattie ereditarie, colesterolemia, omocisteinemia)
- markers diagnostici  indicatori di malattia presintomatica o in atto (ipotiroidismo
neonatale, fibrosi cistica, iperglicemia diabetica, positività per Sars-CoV-2)
- markers prognostici  indicatori di evoluzione della malattia; danno un’informazione di
tipo probabilistico. Markers di stadiazione  indicazioni sulla progressione tumorale.
- indicatori di stratificazione ed efficacia terapeutica  indicatori di risposta ad una
terapia, definizione posologica di un farmaco.
Ci sono markers che non consentono di dare alcuna diagnosi, ma danno informazioni su come
sta andando la malattia.
Ci può essere un approccio del singolo biomarker  validazione di singoli candidati che mano a
mano vengono inseriti nei pannelli diagnostici. Oppure ora si sta iniziando ad usare un
approccio globale, grazie a tecnologie omiche e “wide” e a strategie di fingerprinting e profiling.
In ricerca di base si identifica un possibile biomarker. Poi bisogna capire in che contesto esso è
applicabile e come si può misurare. Si passa poi alla ricerca applicata, con la validazione del
biomarker  analisi del marcatore in gruppi di pazienti e controlli sani. Poi c’è la validazione
clinica, in cui si valuta l’effetto dell’introduzione del biomarker nella pratica clinica (efficacia

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clinica, costi, validità rispetto a marcatori già in uso). Nel laboratorio di riferimento c’è la
standardizzazione del sistema diagnostico per consentire l’analisi del biomarker da parte dei
laboratori diagnostici e l’uso diffuso in clinica  applicazione clinica.
Markers genomici: non costituiscono il fenotipo attuale (non rifletto ciò che sta accadendo). Le
variazioni di sequenza sono stabili. Sono indicatori pre-esistenti di rischio di malattia. Bisogna
indagare la relazione tra genotipo e malattia. DNA  alterazione numero di copie,
mutazioni/polimorfismi, modificazioni epigenetiche. Vari metodi di indagine come PCR, FISH,
sequenziamento, cariotipo molecolare. RNA  espressione trascritti singoli, profili
d’espressione, ncRNA.
Markers proteici: il proteoma rappresenta lo stato funzionale si una cellula/tessuto/organo in
quel dato momento  le proteine sono indicatori del fenotipo attuale. Si possono identificare
variazioni quantitative, modificazioni qualitative come splicing differenziale, mutazioni o
modificazioni post-traduzionali.
Marker metabolici: approccio classico, molto usati in medicina di laboratorio. La presenza e la
concentrazione dei metaboliti nei tessuti e nel sangue correla direttamente con la situazione
funzionale dell’organismo. Sono almeno 7000 e danno una conoscenza sullo stato delle reti
metaboliche in salute e malattia. Rapporto che intercorre tra metaboloma tissutale e
metaboloma plasmatico.
Fonte dei biomarker  occorre trovare dei tessuti/campioni surrogati del campione bersaglio.
Molti tessuti e cellule sono difficilmente accessibili. I fluidi fisiologici o le popolazioni di cellule
estratti da questi sono, di solito, buoni surrogati. Il sangue costituisce il campione surrogato per
eccellenza (anche per i tumori).
Test diagnostico: è una procedura caratterizzata da valori di riferimento della misurazione della
variabile biologica rispetto al quale i pazienti sono classificati come positivi (+) o negativi (-). È
basata su un criterio obiettivo piuttosto che su un giudizio soggettivo per attribuire
probabilisticamente il valore ottenuto alla popolazione degli affetti o non affetti di una
determinata malattia di cui stiamo formulando la diagnosi. Ci sono fattori che influenzano la
validità diagnostica di un test  distribuzione del valore reale nella popolazione dei soggetti
affetti e non affetti; differenza tra il valore reale ed il valore misurato.
Variabilità totale = variabilità vera + variabilità indotta
La variabilità dovuta alla fisiopatologia, responsabile della distribuzione del valore reale, si
somma a quella relativa alla tecnica di misurazione.
Variabilità vera: variabilità biologica interindividuale e variabilità biologica intraindividuale 
cause biologiche. Epigenetica, fisiologia (età, gravidanza, ciclo mestruale, peso), abitudini di vita
(alimentazione, fumo, farmaci, attività fisica), localizzazione geografica, ritmo circadiano,
MALATTIA (condizioni mediche come febbre, shock, traumi). Si fa una valutazione
longitudinale, ovvero si seguono questi parametri con il tempo, e una trasversale, su un pezzo
di popolazione.

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Variabilità indotta: variabilità preanalitica e variabilità analitica  cause tecniche.


Modificazioni che avvengono nel campione dal momento della raccolta al momento dell’analisi
(modalità di raccolta, trasporto, manipolazione e conservazione). Poi c’è la variabilità intrinseca
del test, ovvero il metodo di rilevazione e le sua caratteristiche.
L’obiettivo della procedura diagnostica è determinare quanto gli scostamenti osservati possono
essere associati alla variabilità patologica, cioè allo stato di salute o malattia. Questo
scostamenti si sommano alla variabilità interindividuale e intraindividuale fisiologica, nonché
alla variabilità indotta.
Capacità diagnostica del test
- MASSIMA  quando gli effetti di tutte le cause di variabilità, tranne lo stato di malattia,
sono minimizzati.
- MINIMA  sul risultato del test agiscono fattori di variabilità non controllati o non
conosciuti.
La riduzione della variabilità intrinseca alla misura dei dati di laboratorio e la conoscenza delle
fonti di variabilità biologica sono i due punti chiave per incrementare la validità diagnostica
dell’informazione del risultato di laboratorio.
Variabile continua: glicemia, colesterolemia, acidi grassi...
Variabile discreta: infezione virale, mutazione, polimorfismo...
Curva di Gauss
Il dato analitico ha valore solo se confrontato con parametri (valori) di riferimento calcolati in
una popolazione ristretta che abbia caratteristiche genetiche e ambientali confrontabili e
omogenee rispetto a quelle del soggetto cui il dato di laboratorio si riferisce.
Fasi della diagnostica di laboratorio
- Fase preanalitica
- Fase analitica
- Fase post analitica
Prelievo di sangue
È il liquido più usato. Può essere prelevato da arterie, vene o capillari.
- sangue venoso  o sangue capillare, è di scelta per le indagini chimico-cliniche di
routine
- sangue arterioso  standard per lo studio degli equilibri acido-base e dei gas del sangue
Nel corpo umano sono presenti circa 5 l di sangue (7% del volume corporeo). Di questi 5 l,
solamente 2,25 l, cioè il 45%, è rappresentato da cellule, mentre il resto è plasma, che consiste
per il 93% di acqua e per il 7% di componente solida (per lo più proteine).
Siero: cellule inglobate nel coagulo subiscono danni e inducono la liberazione di parte del
contenuto cellulare. Variazione significativa di alcuni parametri biochimici nel siero rispetto al

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plasma. Ad esempio  concentrazione del potassio, fosfatasi acida e la lattico deidrogenasi >
rispetto a quella del plasma.
Durante la fase preanalitica l’attendibilità dei risultati di laboratorio è condizionata dalla
correttezza delle seguenti operazioni:
- preparazione del paziente e raccolta delle informazioni
- modalità di prelievo dei campioni biologici
- trattamento, trasporto e conservazione dei campioni
Materiali biologici sui quali possono essere eseguiti esami di laboratorio (biochimici e
molecolari): sangue periferico e midollare, urine, liquidi intracavitari, liquido cefalorachidiano,
liquido seminale, liquido amniotico, feci, espettorato, succhi gastrici, sudore, frammenti di
tessuti bioptici e autoptici, lavaggio bronchiale.
(Vedi preparazione del paziente prima del prelievo)

Anticoagulanti: per le analisi si può scegliere di usare siero o plasma. Se scelgo di usare il
plasma, bisogna usare un anticoagulante. Ce ne sono di diversi tipi, per esempio l’eparina. La
scelta si fa non solo in funzione del marcatore, ma anche in base al metodo di misurazione.
Eparina
L’eparina è una molecola che ricorda gli zuccheri; appartiene alla famiglia dei GAG. Non è altro
che un analogo degli eparansolfati presenti nei nostri tessuti, nella matrice extracellulare e
sulla superficie dei vasi. Ciò significa che abbiamo degli anticoagulanti naturali nei vasi.
L’eparina aumenta di un migliaio di volte la velocità di reazione dell’antitrombina che va in
opposizione alla trombina, principale enzima che converte il fibrinogeno in fibrina. In questo
modo non si completa la coagulazione poiché il fibrinogeno non si converte in fibrina e non si
forma il coagulo.
L’eparina non solo attiva l’antitrombina, ma riconosce anche altri fattori della coagulazione
come fattore IX, fattore X e fattore XI, che legandoli si blocca la loro attività proteasica. Dotata
di un PM elevato è l’anticoagulante ideale qualora si voglia misurare la osmolarità plasmatica o
studiare la fragilità osmotica eritrocitaria. Non è utilizzabile per indagini coagulative, dosaggio
del Li, NH4+, Ca e Mg. Forma complessi non rilevabili dagli elettrodi ionosensibili. L’eparina
come anticoagulante viene messo in provetta per inibire tutti questi fattori in modo da essere
sicuri che la coagulazione nella provetta non avvenga. Esistono due tipi di eparina: una non
frazionata di grandi dimensioni e una frazionata di piccole dimensioni a basso PM. Si è visto che
la forma a basso PM ha un’inibizione leggermente più blanda rispetto alla forma intera. Ai
pazienti viene somministrata quella a basso PM poiché crea meno effetti collaterali e non
inibisce il fattore X.
Ha un’attività anticoagulante fisiologica, per impedire che la coagulazione si attivi per sbaglio, in
modo incontrollato. Si possono sintetizzare in vitro delle eparine ad alto peso molecolare che
fungono da anticoagulante, e si possono mettere nelle provette. Legano l’antitrombina, che è
un inibitore delle proteasi della coagulazione, e la rende maggiormente in grado di inibirle.
L’eparina aumenta di circa 1000 volte la velocità di reazione tra antitrombina e la proteasi
agendo come catalizzatore a cui si legano l’inibitore (antitrombina) e la proteasi (trombina). Il
legame con l’eparina causa un cambiamento conformazionale dell’antitrombina che rende il

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sito attivo più disponibile all’interazione con il fattore della coagulazione. Dotata di un PM
elevato è l’anticoagulante ideale qualora si voglia misurare la osmolarità plasmatica o studiare
la fragilità osmotica eritrocitaria. Non utilizzabile per indagini coagulative, dosaggio del litio o
dell’ammonio, calcio e magnesio. Forma complessi non rilevabili dagli elettrodi ionosensibili.
EDTA
Esplica la sua azione sequestrando lo ione calcio: lo lega irreversibilmente e forma con esso
composti insolubili. Viene utilizzato alla concentrazione di 1mg/mL di sangue ed è
l'anticoagulante di elezione per test quali l'esame emocromocitometrico ed emoglobine
patologiche mentre interferisce nei test per Ca, colesterolo, CO2 , CK, Fe, LAP, K, proteine totali,
tempo di prototrombina, Na. Da non usare per la determinazione degli elementi pesanti come
ferro e rame perché anch’essi vengono sequestrati. Potente inibitore di molti enzimi eritrocitari,
leucocitari, piastrinici e plasmatici, non consente misure dell’attività di questi come pure
dell’attività piastrinica. Vengono impiegate tradizionalmente tre formulazioni di EDTA come
anticoagulanti: Na2EDTA, K2EDTA e K3EDTA, la cui scelta dipende per lo più dal tipo di analisi
che deve essere eseguita. In particolare è il potassio EDTA (K2EDTA) il sale più comunemente
usato.
Citrato/ossalato
Entrambi vengono usati per indagini sulla coagulazione. Sono dei chelanti reversibili, quindi
possono anche rilasciare Ca. il citrato di sodio viene impiegato per la misura della velocità di
eritrosedimentazione, per lo studio dei fattori della coagulazione e della funzionalità piastrinica.
L’ossalato doppio ammonio e di potassio è il chelante del calcio usato più raramente. La
coagulazione viene misurata nel momento in cui si inserisce nel sangue un attivatore della
coagulazione che contiene anche Ca, il quale supera la capacità chelante del citrato presente.
Inibitori della glicolisi
• Fluoruro di sodio → inibisce l’enzima enolasi, formando un complesso con Mg e gruppo
fosfato e bloccando di conseguenza l’accesso al 2PG.
• Acetato di iodio → inibisce la G3PD, formando un adotto all’interno del sito catalitico
dell’enzima, fermando la sua funzione.
• Mannosio → inibisce l’esochinasi sostituendosi al glucosio.
Provette per prelievi di sangue
- verde  eparina, plasma o sangue intero
- grigio  sodio fluoruro – EDTA/potassio ossalato; idroacetato – EDTA/potassio ossalato;
sodio fluoruro – mannosio (glicemia)
- blu  citrato, plasma o sangue intero (coagulazione)
- viola  EDTA, plasma o sangue intero (ematologia)
Trattamento e conservazione dei campioni biologici post prelievo
- raccolta, conservazione e trasporto  laboratorio analisi

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- accettazione e verifica dell’idoneità


- centrifugazione e sieratura
- smistamento secondo le analisi richieste
- eventuali trattamenti specifici
Causa di alterazione di campioni biologici
Possono essere alterazioni rapide o che si instaurano a tempi medio-lunghi.
- Alterazioni di natura fisica  evaporazione (solubilità); adsorbimento e deadsorbimento;
diffusione
- Alterazioni chimico-fisiche  effetto fotochimico, denaturazione, polimerizzazione e
aggregazione
- Alterazioni biometaboliche  risultano dall’attività metabolica delle cellule
• La durata di conservazione di un campione è limitata nel tempo. Molti campioni possono
essere mantenuti alla temperatura ambiente per un lungo periodo mentre altri devono essere
conservati nel frigorifero o essere congelati.
• Il siero o il plasma deve essere separato immediatamente dalle cellule dopo la
centrifugazione.
• Con alcune eccezioni il siero o i campioni di plasma devono essere conservati in frigorifero a
4°C dopo la separazione delle cellule.
• Assicurarsi che le provette siano chiuse saldamente durante lo stoccaggio altrimenti si
potrebbero verificare delle evaporazioni che cambierebbero la concentrazione del sangue con
l’additivo.
• Per uno stoccaggio a lungo termine sono necessarie temperatura < -20°C. Un congelamento
veloce è importante per mantenere la struttura delle proteine. Il processo di scongelamento
deve essere lento, durante la notte nel frigorifero o in bagno d’acqua e con una miscelazione
continua.
Errori di trasporto
✓ I campioni devono essere protetti dalla luce durante il trasporto specialmente per la
determinazione di parametri sensibili alla luce come la bilirubina.
✓ È consigliabile trasportare le provette in posizione verticale.
✓ Le variazioni di temperatura durante il trasporto possono avere effetti negativi, quindi si
consiglia di portare subito i campioni in laboratorio.
FASE ANALITICA
Nella fase analitica si è in laboratorio, quindi il primo step è la scelta del metodo da utilizzare.
Non esiste un metodo per definire in maniera assoluta il valore reale. Esistono metodi con
caratteristiche tali da offrire una stima più o meno buona del valore reale.

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Metodo analitico  insieme dei procedimenti, della strumentazione e dei reagenti che sono
necessari per ottenere i dati richiesti. Esistono diversi tipi di metodi:
- Metodo definitivo: fornisce la migliore approssimazione al valore reale
- Metodo di riferimento: metodo inaccurato in maniera trascurabile
- Metodo a errore noto: metodo del quale si conosce l’errore (sistematico)
- Metodo a errore ignoto: metodo di cui non si conosce il grado di accuratezza
Analizzare un campione significa fornire la stima di una grandezza, il cui valore vero è
sconosciuto. Lo scostamento tra misura e valore reale è definito errore totale della misura. Le
fonti di errore sono diverse ma classificabili in due categorie principali:
- Quelle che provocano uno scostamento costante tra valore vero e valore stimato →
errore sistematico.
- Quelle che si manifestano con uno scostamento incostante nel tempo e nel segno →
errore casuale.
L’errore totale di un metodo analitico è influenzato da:
- Errori casuali → sono di piccola entità, sempre presenti e distribuiti attorno al valore
medio secondo una gaussiana.
- Errori sistematici → possono essere dovuti a poca sensibilità, a poca specificità del
metodo utilizzato o a errate impostazioni degli strumenti.
- Errori grossolani → sono dovuti a negligenza dell’operatore.
L’errore può essere valutato determinando:
- Variazione della misura nella stessa serie
- Variazione in giorni diversi sullo stesso campione con il medesimo operatore
- Variazione della stessa analisi eseguita da operatori diversi sullo stesso campione
- Variazione fra laboratori
Parametri che caratterizzano un metodo analitico
• Campo di misura
• Specificità-selettività analitica
• Limite di rilevabilità e di quantificazione
• Range dinamico e lineare
• Veridicità, intesa come esattezza + accuratezza
• Precisione
• Incertezza della misurazione
• Robustezza

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Campo di misura
Il campo di misura è l’intervallo tra il più alto e il più basso livello di analita determinabili con
precisione e accuratezza utilizzando un determinato metodo. Dobbiamo scegliere il metodo più
adeguato valutando appunto la sua capacità di misurare con precisione e accuratezza un
determinato intervallo e dobbiamo cercare di rispettare tale intervallo. Non si deve andare al di
sotto della soglia di misurazione e non al di sopra della massima capacità del metodo.
- Se si ha un analita la cui concentrazione è molto più alta di quella che il sistema è in grado di
misurare, si deve diluire il campione in una concentrazione che rientri nel range.
- Il problema, invece, sorge se si è al di sotto della soglia, quindi bisogna usare sistemi che
aiutino a purificare quello che si sta cercando o cambiare metodo.
Risoluzione del metodo
La risoluzione del metodo è la minima variazione in ingresso in grado di produrre una
variazione in uscita. Permette di sapere con quale livello di dettaglio è possibile percepire le
variazione della grandezza misuranda. Dipende da qual è il tipo di rapporto che esiste tra il
modo in cui misura e il modo in cui fa vedere l’entità. Dipende anche dal tipo di tecnologia
usata (strumento usato).
Sensibilità analitica
La sensibilità analitica è la capacità di discriminare tra piccole differenze di concentrazione di
analita.
• È data dal rapporto fra la variazione rilevata dal sensore e la variazione della grandezza
misurata.
• Per una risposta lineare la sensibilità corrisponde alla pendenza della retta.
• Dipende dalla risoluzione dello strumento.
Specificità/selettività analitica
È l’abilità di misurare accuratamente l’analita in presenza di interferenti.
• Specificità → si riferisce a un metodo che produce una singola risposta.
• Selettività → si riferisce a un metodo che produce più risposte.
Limite di rilevabilità
Il limite di rilevabilità è la concentrazione più bassa dell’analita che può essere rilevata, ma non
necessariamente determinata quantitativamente, nelle condizioni sperimentali del metodo. È
possibile distinguere tra un segnale analitico e le fluttuazioni statistiche del bianco quando il
primo è almeno k volte superiore alle variazioni casuali del secondo.

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Limite di quantificazione
Il limite di quantificazione è la più bassa concentrazione analitica che può essere determinata
quantitativamente con accettabile precisione ed esattezza nelle condizioni sperimentali del
metodo. Diventa tanto più piccolo quanto più lo strumento è in grado di mantenere limitato il
rumore di sotto fondo.
Intervallo dinamico lineare
La linearità di un metodo analitico è la sua abilità di dare risultati che sono direttamente
proporzionali alla concentrazione degli analiti nei campioni all’interno di un determinato campo
di validità.
• Deve essere verificata attraverso il calcolo del coefficiente di correlazione della curva di
taratura eseguita.
• Sono generalmente accettati coefficienti di correlazione pari almeno a 0,99.
• Una non-linearità significativa dovrebbe essere corretta mediante l’utilizzo di funzioni di
taratura non lineari o eliminata restringendo l’intervallo di concentrazioni in cui si opera.
• Si deve effettuare almeno da 3 a 6 repliche di 4 o più concentrazioni.
• Nella validazione del metodo devono essere riportati il coefficiente di correlazione, la
pendenza, l’intercetta, oltre a un grafico dei dati sperimentali e della curva calcolata.
Veridicità
La veridicità è il grado di accordo fra valore vero e valore misurato. Comprende:
• Esattezza → ovvero il grado di concordanza tra il valore medio ottenuto a partire da un grande
insieme di valori determinati da molteplici misurazioni e il valore vero (valore di riferimento
accettato).
• Accuratezza → ovvero la concordanza fra il risultato di una singola misurazione e il valore
vero.
Entrambe dipendono dal metodo e, soprattutto, dall’operatore.
Precisione/attendibilità
La precisione o attendibilità del metodo va a misurare la concordanza tra diverse misure
indipendenti ripetute sullo stesso campione. La deviazione standard costituisce una misura
della (im)precisione. Aumenta all’aumentare dell’errore casuale. Definiscono la precisione
(attendibilità) di un metodo:
• Ripetibilità → concordanza tra risultati di prove indipendenti ottenuti con stesso metodo su
materiali identici, nello stesso laboratorio, dallo stesso operatore, usando la stessa
apparecchiatura e in intervalli di tempo brevi.

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• Riproducibilità → concordanza tra risultati di prove indipendenti ottenuti con lo stesso


metodo su materiali identici, in laboratori diversi, da operatori diversi, usando apparecchiature
diverse e in intervalli di tempo diversi. Entrambe dipendono dal metodo.
Precisione intermedia
Concordanza tra risultati di prove indipendenti ottenuti con lo stesso metodo su materiali
identici, nello stesso laboratorio, dallo stesso operatore, usando la stessa apparecchiatura ma in
intervalli di tempo lunghi.
Robustezza
Un metodo è robusto quando non risente delle piccole variazioni di parametri ambientali e
sperimentali. Il metodo sarà tanto più robusto quanto riesce a rispettare i parametri precedenti,
cambiando alcuni parametri.
FASE POST ANALITICA
Test di diagnostico
Un test diagnostico si riferisce a qualunque procedura utile all'identificazione di uno stato di
malattia.
Esempi : misura e valutazione di …
- Glicemia  diabete
- GOT e GPT  malattie epatiche
- Proteinuria  malattie renali
L'esito positivo di un test induce a sospettare la presenza della malattia. L'esito negativo di un
test induce ad escludere la presenza della malattia.
Stato di salute: condizione caratterizzata da un minimo di segni obiettivi e soggettivi di malattia,
valutato in relazione alla situazione sociale, storica e allo scopo dell’attività medica. In senso
assoluto non è raggiungibile (postulato di Grasbeck).
Test diagnostico “ideale”
Consideriamo un test di laboratorio per una patologia che comporta un innalzamento della
concentrazione di uno specifico analita, e vediamo le tre situazioni paradigmatiche possibili…
Il test ideale dovrebbe consentire di discriminare completamente tra sani e malati. In un caso
del genere, una volta eseguito il test, in base al suo risultato possiamo attribuire il paziente al
gruppo dei sani o al gruppo dei malati con assoluta certezza.
Test diagnostico “inutile”
La situazione diametralmente opposta è quella indicata nella figura (b). In questo caso i risultati
del test nel gruppo dei sani e nel gruppo dei malati sono identici: una volta eseguito il test, in
base al suo risultato non sappiamo se attribuire il paziente al gruppo dei sani o al gruppo dei
malati. Il test non può essere utilizzato per la diagnosi della malattia in questione. Si tratta di un
test inutile.

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Test diagnostico “reale”


Nel caso di un test reale ci troviamo quasi sempre nella situazione indicata nella figura (c). La
distribuzione dei risultati del test nei soggetti sani e nei soggetti malati è parzialmente
sovrapposta, determinando così un certo grado di incertezza nella classificazione. Ci troviamo
allora di fronte al paradosso del sorite, attribuito a Zenone: quale è il granello che fa passare un
mucchio di sabbia in un nonmucchio? …Qual’ è il risultato di una specifica analisi di laboratorio
che fa passare il soggetto dallo stato di “sano” a quello di “malato” (o viceversa)?
Valori di riferimento
Dobbiamo definire la distribuzione del parametro nella popolazione  campioni di
popolazione (gruppo campione di riferimento) con numerosità e caratteristiche omogenee con
il soggetto studiato  selezione individui di riferimento.
- Esecuzione dell’esame con procedure identiche
- Definizione valori di riferimento (criteri statistici d’interpretazione)
Un buon test diagnostico tende … a fornire esiti positivi in soggetti che presentano la malattia.
SENSIBILITA’ DIAGNOSTICA
Si consideri l'insieme dei soggetti che hanno la malattia M, e si supponga di sottoporli al test …
Se il test fornisce: esito positivo (T+), si tratta di  Veri positivi (VP).
Se il test fornisce: esito negativo (T-), si tratta di  Falsi negativi (FN).
La probabilità che un test diagnostico ha di dare esiti positivi (T+) nei malati (M+) prende nome
di sensibilità diagnostica.
(Sn) [ p(T+|M+) ]
Un buon test diagnostico tende... a fornire esiti negativi in soggetti che non presentano la
malattia.
Si consideri l'insieme dei soggetti che non hanno la malattia M, e si supponga di sottoporli al
test …
Se il test fornisce: esito positivo (T+), si tratta di  Falsi positivi (FP).
Se il test fornisce: esito negativo (T-), si tratta di  Veri negativi (VN).
La probabilità che un test diagnostico ha di dare esiti negativi (T-) nei non malati (M-) prende
nome di specificità diagnostica.
(Sp) [ p(T-|M-) ]
Sensibilità diagnostica = veri positivi / totale malati (veri positivi + falsi negativi)  potenzialità
del test di dare esito positivo quando il soggetto in analisi è malato, quindi di trovare i positivi. È
una probabilità.

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Quindi avrò il risultato del test che sarà positivo o negativo, e poi avrò soggetti sani e soggetti
malati. Potrei anche avere risultati positivi in soggetti sani  falsi positivi. Ci sono più o meno
sempre. Posso ottenere un risultato negativo nei sani (veri negativi) ma anche di trovarlo
negativo nei malati (falsi negativi).
Specificità diagnostica = veri negativi / totale sani (veri negativi + falsi positivi)  capacità di un
test di identificare i sani, ovvero di dare esito negativo nei soggetti che NON hanno la
caratteristica che sto indagando (M- = sani). È di fatto la controparte della sensibilità.
Prevalenza = frequenza della malattia in una popolazione
- caratteristiche interne e proprie di un test diagnostico che dipendono dal valore soglia.
- misurabili dalla frequenza relativa di esiti positivi o negativi su campioni di pazienti affetti da
malattia o di soggetti sani.
- comprese tra 0 e 1: esse infatti esprimono valori di probabilità.
- raramente entrambe uguali a 1
Efficienza diagnostica = veri negativi + veri positivi / totale positivi + totale negativi
Valori predittivi di un test
- Valore predittivo di un test positivo = veri positivi / veri positivi + falsi positivi
- Valore predittivo di un test negativo = veri negativi / veri negativi + falsi negativi
Questo tipo di valutazione è valida in un contesto di valutazione delle caratteristiche di un test
diagnostico, su una popolazione selezionata artificialmente, in cui è previamente noto il
numero di malati e di sani.
Ma se non conosciamo veramente chi è sano e chi è malato? Quest’informazione non è mai
sicura al 100%, ma devo poterlo calcolare.
 il prodotto del laboratorio di analisi è rappresentato dall’informazione
Se accettiamo l’assunto che il valore aggiunto che la diagnostica di laboratorio fornisce alla
diagnosi medica è rappresentato dall’informazione, non possono non sorgere alcune domande:
- possiamo misurare il contributo che l’informazione di laboratorio fornisce alla conoscenza
medica?
-che valore dobbiamo/possiamo assegnare all’informazione prodotta con i dati di laboratorio?
-esistono delle regole in grado di garantire scelte razionali nelle condizioni di incertezza tipiche
della diagnosi medica?
Nell’ambito della matematica, la teoria della probabilità, e in particolare il teorema di Bayes,
fornisce concetti cruciali e strumenti chiave per rispondere a queste domande.

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Il test dà un’informazione che cambia la probabilità che quella diagnosi sia corretta (aumenta o
diminuisce). Le indagini di laboratorio hanno un ruolo molto importante.
Ragionamento deduttivo
- ragionamento patogenetico: abbiamo un’urna contenente 500 palline di colore bianco e
500 palline di colore rosso. Cosa ci possiamo attendere dall’estrazione di una pallina? Si
sa tutto sull’urna, ovvero si conosce “l’universo”, ovvero si conoscono le condizioni
iniziali. Si applica un ragionamento deduttivo. Il risultato (l’effetto, l’estrazione di una
pallina) può essere calcolato.
Ragionamento induttivo
- ragionamento diagnostico: da un’urna contenente X palline estraiamo n palline di cui k
sono di colore rosso. Cosa possiamo concludere circa il contenuto dell’urna?
Nel 1763 viene pubblicato postumo il saggio di Bayes, che indica la soluzione de “il problema
inverso”. Si è fatto un esperimento, si conosce l’effetto. Il problema che Bayes si pone è: esiste
un qualche ragionamento induttivo che ci consenta di “calcolare” la causa (lo specifico
contenuto dell’urna?).
Teorema di Bayes  P = (k+1) / (n+2) ( probabilità che la prossima pallina estratta sia rossa)
La probabilità P non dipende da X. Il valore di P tende a 1 ma non potrà mai raggiungere
esattamente tale valore.
L’induzione non potrà mai essere certa

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Il valore predittivo di un test diagnostico dipende dalla prevalenza della malattia indagata!!!!
Noi non conosciamo il numero reale di malati nella nostra popolazione. Per calcolare la
probabilità a posteriori noi possiamo basarci esclusivamente sulle caratteristiche del nostro test
e sull’unica altra informazione a nostra disposizione: la prevalenza della malattia.
Noi abbiamo il risultato di laboratorio e la prevalenza, cioè la frequenza con cui questo
fenomeno che stiamo indagando è presente nella popolazione.
Teorema di Bayes e informazione diagnostica: il valore predittivo di un test diagnostico in un
contesto di applicazione clinica su popolazioni generali
Valore predittivo positivo di un test (positivo)
Se la domanda che ci poniamo è: “quale è la probabilità che il paziente sia malato, avendo un
test positivo?” possiamo calcolare il valore predittivo di un test positivo come: Vp/ (Vp + Fp)
Valore predittivo negativo di un test (negativo)
Se la domanda che ci poniamo è: “quale è la probabilità che il paziente sia sano, avendo un test
negativo?” possiamo calcolare il valore predittivo di un test negativo come:

P(T-|M-) = specificità
P(M-) = (1-prevalenza)
p(T-|M+) = (1-sensibilità)
Il valore predittivo di un test diagnostico dipende dalla prevalenza della malattia indagata!!!!
Si considerino due differenti situazioni:
1) prevalenza di malattia bassa: medico generico  primo tentativo di diagnosi
2) prevalenza di malattia alta: medico specialista  conferma di un sospetto
Prevalenza = 0,1 (10%) soggetti con quella caratteristica. Uso un test che ha una sensibilità 0,85
e specificità 0,8, e ottengo dei risultati. Posso calcolare il valore predittivo positivo e negativo
con gli algoritmi visti prima. Le informazioni le ho tutte (prevalenza, specificità e sensibilità).
Ottengo 0,32 di valore predittivo positivo e 0,98 di negativo. Ciò significa che ho solo il 32% di
probabilità di essere malato; il 98% di valore predittivo negativo significa che è remota la
possibilità che il test sia sbagliato.
Effetto della prevalenza  cambia il valore informativo del test.
Cosa è da preferire? Un test che da valore predittivo positivo alto o negativo alto? Dipende da
cosa voglio ottenere da questo test e da cosa voglio e posso fare dopo. Se l’obiettivo è

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identificare il maggior numero di malati possibili, preferisco avere un test più sensibile
possibile, che indentifichi tutti i malati. Se voglio trovare invece i malati sicuri, devo usare un
test con specificità maggiore. Se esce positivo è quasi sicuramente malato, se esce negativo c’è
una buona probabilità che sia sbagliato e che si sia perso un malato.
Quindi:
- Se il fine è individuare il maggior numero di malati, il test migliore ha sensibilità
maggiore. Essa comporta: un miglior valore predittivo dell’esito negativo (un esito
negativo indica quasi certamente un soggetto sano), un minor valore predittivo dell'esito
positivo (in molti casi, ad un esito positivo può corrispondere un soggetto sano).
- Se il fine è individuare i soggetti sicuramente malati, il test migliore ha specificità
maggiore. Essa comporta: un miglior valore predittivo dell'esito positivo (un esito
positivo indica quasi certamente un soggetto malato), un minor valore predittivo
dell'esito negativo (in molti casi, ad un esito negativo può corrispondere un soggetto
malato).
Test sensibile
La distinzione tra sani e malati è stata fatta impiegando un valore soglia che consente, pur
classificando un certo numero di sani come malati (falsi positivi), di classificare tutti i malati
come tali: abbiamo privilegiato la sensibilità del test, a scapito della sua specificità.
La massima sensibilità (idealmente del 100%) è richiesta quando 1) la malattia è grave e non si
vuole correre il rischio di non diagnosticarla, 2) la malattia è curabile, e 3) i falsi-positivi non
comportano gravi danni psicologici e/o economici.

Test specifico
La distinzione tra sani e malati è stata fatta impiegando un valore soglia che consente, pur
classificando un certo numero di malati come sani (falsi negativi), di classificare tutti i sani come
tali: abbiamo privilegiato la specificità del test, a scapito della sua sensibilità.
La massima specificità (idealmente del 100%) è richiesta quando (i) la malattia è grave ma non
è curabile, (ii) il sapere che la malattia è esclusa ha valore psicologico e/o per la salute pubblica,
e (iii) i falsi positivi possono comportare gravi danni psicologici e/o economici.

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Compromesso tra specificità e sensibilità


La distinzione tra sani e malati è stata fatta impiegando un valore soglia che rappresenta un
compromesso tra le due scelte precedenti. In particolare il valore soglia prescelto è quello che
contemporaneamente massimizza i pazienti classificati correttamente (veri negativi VN e veri
positivi VP) e minimizza i pazienti classificati in modo errato (falsi negativi FN e falsi positivi FP).
La massima efficienza è richiesta quando 1) la malattia è grave ma curabile, inoltre i falsi-positivi
e i falsi-negativi sono parimenti gravi e/o dannosi. Un esempio è rappresentato dall’infarto del
miocardio. Se un caso viene trascurato, ne può derivare un danno. Un danno grave può
derivare anche da una diagnosi di infarto in assenza di questo. La massima efficienza
rappresenta la scelta più oculata.

Osservazioni:
 A parità di valore soglia, al diminuire della prevalenza della malattia diminuisce il valore
predittivo del test positivo (la probabilità di essere malato avendo un test positivo),
mentre aumenta il valore predittivo del test negativo (la probabilità di essere sano
avendo un test negativo).
 Al diminuire della specificità di un test, il valore predittivo del test positivo si avvicina
progressivamente al valore della prevalenza o, in altre parole, quando la specificità tende
a zero, il valore predittivo del test positivo tende al valore della prevalenza della malattia
(ad esempio VES).
 In condizioni di bassa prevalenza riduzioni anche minime della specificità di un test
possano comportare drastiche riduzioni del valore predittivo del test positivo.

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Quesito clinico 1
Si consideri un test destinato a rivelare la presenza nel siero di anticorpi anti-HIV. Si assuma che
questo test abbia una sensibilità del 100% (il test, quindi, è positivo nel 100% dei malati). Si
assuma che questo test abbia una specificità del 99.7% (il test, quindi, è negativo nel 99.7% dei
soggetti sani). Si sa che la prevalenza dell’infezione da HIV è del 3 per mille (nella popolazione,
su 1000 soggetti presi a caso, 3 sono affetti da virus). Quale è il valore predittivo del test
positivo?

Se il test è positivo, la probabilità di essere malati è pari al 50%.


Ma la differenza tra la probabilità di essere malati a posteriori, dopo avere effettuato il test,
(50%) e prima di avere effettuato il test, (3 per mille) rappresenta il valore aggiunto che il test è
in grado di fornire, in termini di informazione, alla diagnosi clinica. La determinazione degli
anticorpi anti-HIV, un test di primo livello poco costoso, consente di restringere da 1000 a 6 soli
individui la rosa dei candidati ad essere sottoposti a un test di secondo livello (western-blot).
Che è sì risolutivo dal punto di vista diagnostico, ma che ha un costo molto superiore a quello
degli anticorpi. Eseguire il western-blot a 6 individui su mille è ragionevole, mentre eseguirla a
1000 su 1000 sarebbe uno spreco di risorse.
Vedi altri quesiti su slide da 135 a 139
Curve ROC  modello matematico per distinguere il segnale specifico da un rumore di fondo.
Il medesimo modello matematico è utilizzato per la diagnostica di laboratorio e la diagnosi
medica in generale, nelle quali il risultato del test nei malati è il segnale, il risultato del test nei
sani è il rumore (di fondo).
Curve ROC nella medicina di laboratorio
È considerato il metodo guida per la definizione delle caratteristiche diagnostiche dei test.
Studia e rappresenta graficamente la funzione che, in un test binario (dicotomico) o in un test
con distribuzione continua di valori in cui sia stato fissato un valore soglia per distinguere i
soggetti malati da quelli sani, lega la probabilità di ottenere un risultato vero positivo
(sensibilità) alla probabilità di ottenere un risultato falso positivo (1-specificità).
L’area sottesa alla curva ROC fornisce una misura delle prestazioni del test di laboratorio.
Il massimo valore di sensibilità è uguale a 1, e il massimo valore di (1- specificità) è uguale a 1, e
pertanto l'area totale massima sottesa dalla curva (AUC) è uguale a 1.
Questa area misura la validità diagnostica del test e rappresenta la probabilità che una persona
con la malattia, presa a caso, abbia un risultato superiore a quello di una persona senza la
malattia, presa a caso. Se la curva ROC va dall'angolo inferiore sinistro all'angolo superiore

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destro la probabilità è uguale a 0,5: e l’informazione fornita dal test di laboratorio è uguale a
quella che si può ricavare dal lancio di una moneta!
L’unico limite delle curve ROC deriva dal fatto che sono costruite a partire dalla sensibilità e
dalla specificità, e non prendono in considerazione la probabilità a priori (prevalenza della
malattia nel caso di un test diagnostico). Le curve ROC forniscono quindi una soluzione parziale,
e per questo motivo non possono sostituire l'approccio bayesiano analitico (completo).

Le curve ROC sono utili per confrontare test diagnostici diversi utilizzati per una malattia con
una determinata prevalenza.

Un test di laboratorio descritto da una curva


che giace al di sopra della curva di un altro
test ha prestazioni migliori.

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Biomarcatori enzimatici: enzimologia clinica


Il quadro enzimatico di un organo o di un tessuto dipende dalla composizione e dalla funzione
delle singole cellule che lo compongono. La concentrazione intracellulare di un determinato
enzima è parecchie volte superiore (100x, 1000x) a quella che si rileva all’esterno di essa
(liquido extracellulare, plasma…).
• Misurazione della quantità o dell’attività di un enzima all’interno di una cellula o un tessuto
• Valutazione della quantità di enzima rilasciata dalle cellule nei liquidi fisiologici
>1000 enzimi attivi
≈ 100 utilizzati in clinica
≈ 20 in uso nella routine diagnostica
≈ 30% del carico di lavoro del laboratorio di biochimica clinica
• Come indicatori di funzionalità di lesione di cellule o tessuti (gran massa delle richieste) 
siero/plasma
• Come marcatori di specifici deficit enzimatici (esami specialistici)  tessuti
Classi di enzimi:

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Cinetica delle reazioni enzimatiche


La cinetica della maggior parte delle reazioni enzimatiche è descritta dalla equazione di
Michaelis-Menten.
La velocità di una reazione enzimatica aumenta con l’aumentare della [S] fino a raggiungere un
limite oltre il quale non aumenta più (saturazione = tutto “E” è legato a “S” sottoforma di
complesso ES) ma resta costante a meno che non si aumenta [E].

Fattori che influenzano la velocità delle reazioni enzimatiche:


• Temperatura
• pH

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• Concentrazione ottimale di substrato


Per valutare l’attività enzimatica, viene impiegata una concentrazione di substrato [S] >> KM in
modo che la V misurata corrisponda con buona approssimazione alla Vmax:

Il monitoraggio delle reazioni enzimatiche dipende dalla loro cinetica di reazione.


Nei dosaggi a monitoraggio continuo, si assume che la velocità di reazione durante la fase a
ordine zero rimanga costante per tutto il periodo dell’osservazione.

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A, B = metodi cinetici; C = metodi end point


Determinazione delle attività enzimatiche in ambito clinico
- La concentrazione degli enzimi serici viene determinata in base alla loro attività catalitica
- L’enzima deve costituire il fattore limitante della reazione
- Metodo cinetico / metodo end point attraverso la misurazione di: 1. quantità di substrato
consumato 2. quantità di prodotti ottenuti 3. la variazione nella concentrazione di un
coenzima
- La concentrazione degli enzimi è espressa in unità enzimatiche internazionali (IU/l)
“IU” corrispondente alla quantità di enzima che catalizza la trasformazione di 1 μmole di
substrato o la formazione di 1 μmole di prodotto in 1 minuto.
• L’UI è funzione del metodo utilizzato e non consente una completa unificazione dei valori di
riferimento!!

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Si usano dosaggi accoppiati, in cui si mettono anche gli enzimi successivi (reagenti). L’unico
fattore ignoto è l’enzima da misurare. Con una serie di reazioni si arriva a ottenere qualcosa di
misurabile  reazione rivelatrice. Molto spesso nei laboratori si usa come molecola di
rivelazione il NAD; con una redox si misura la differenza di concentrazione in base
all’assorbanza a lunghezza d’onda di 390 nm  differenza di assorbimento tra forma ossidata e
ridotta.

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Reazione accoppiata: Metodo di Oliver-Rosalsky per la determinazione della CK

Misure di massa / isoenzimi


• Immunometriche (determinanti antigenici e non funzionali)  inutili se si ha una variazione
dell’attività dell’enzima
• Rilevanza clinica nella definizione delle concentrazioni relative dei diversi isoenzimi o
isoforme

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Normalmente nei laboratori analisi si va a misurare l’attività. Misurare la quantità di proteina è


più indaginoso, e meno specifico perché si devono usare anticorpi. Si usano quindi solo in
contesti ben precisi. Invece, la misurazione dell’attività usando la specificità degli enzimi dà
un’ottima informazione indirettamente sulla quantità.
Quando si misurano le quantità?  quando c’è una riduzione della produzione di enzima
(malattie genetiche). Oppure quando si vogliono identificare anche le forme enzimatiche che
catalizzano una determinata reazione.
Di solito si registra un aumento dell’attività di un enzima. Si vuole sapere se quella reazione è
catalizzata da forme diverse di un enzima  isoenzimi, alleloenzimi. Oppure ci sono isoforme,
date da modificazioni post traduzionali. Ci serve quando sappiamo che vengono espresse in
modo diverso in cellule e tessuti diversi.

ISOENZIMI
IBRIDI

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Isoenzimi ibridi  più subunità. Due geni diversi che codificano due enzimi diversi ma che
catalizzano la stessa reazione, infatti vanno a comporre un oligomero e possono combinarsi in
diversi modi. Questo tipo di composizione delle subunità dà un’informazione, perché i tessuti
diversi hanno combinazioni diverse  tessuto specifiche.
Requisiti per la validità clinica degli enzimi
1. Conoscenza della localizzazione intracellulare (o extracellulare)
2. Differente concentrazione dell’enzima di interesse nei diversi tessuti
3. Presenza di isoenzimi o isoforme specifici per determinati tipi cellulari o tessuti
Bisogna conoscere la localizzazione intra ed extra cellulare. Bisogna verificare che ci sia una
differenza di concentrazione dell’enzima nei diversi tessuti  specificità di espressione. Se ci
sono isoforme diverse specifiche per i tessuti ancora meglio. Dopodiché bisogna valutare dove
è espresso l’enzima e dove viene rilasciato. Alcuni enzimi vengono secreti nell’ambiente
extracellulare o in cavità, altri rimangono nel luogo dove vengono prodotti. Possono essere
misurati nel sangue, anche quelli che non vengono rilasciati fisiologicamente in esso. Questo
perché il rilascio dipende da quanto enzima viene prodotto. C’è un aumento di attività
dell’enzima misurato nel sangue, luogo più facile per misurarlo. Si può pensare che ci sia
un’alterazione nel processo di sintesi, che se ne stia producendo di più, per stress o aumento
della massa cellulare. Oppure c’è un danno alla cellula, una lesione più o meno grave. In
funzione della gravità della lesione si potrà avere quantità più o meno elevate di rilascio nel
sangue. Si può anche scoprire se questi enzimi vengono rilasciati per via lisosomiale, oppure se
hanno una localizzazione mitocondriale, citosolico o di membrana.
• Tutti gli enzimi sono prodotti all’interno delle cellule. Alcuni rimangono intracellulari, altri
vengono secreti.
• Aumento (sofferenza cellulare, necrosi, induzione, ipertrofia/iperplasia/neoplasia) –
Fisiologica (ALP placentale in gravidanza) – Patologica (ALT, cirrosi epatica).
• Diminuzione (attività/quantità)  di solito genetica.

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Gravità: danno alla membrana lieve  necrosi


Timing: reversibile  irreversibile
Localizzazione: ectoenzimi  enzimi citosolici  enzimi legati agli organelli
Se il danno diventa irreversibile la membrana comincia a bucarsi e rilasciare materiale
citosolico. Se iniziano ad uscire enzimi localizzati negli organelli, il danno è marcato e si va
incontro a necrosi.
Ectoenzimi: enzimi situati sulla superficie esterna della membrana plasmatica.
AUMENTO MASSA CELLULARE:

Sapere che un enzima si inattiva e viene degradato è anche importante dal punto di vista della
diagnosi, per definire i tempi (es: infarto del miocardio  prima si interviene meglio è). Oppure
è importante sapere che ci sono enzimi con una lunga emivita.
Attenzione: Dalla velocità di clearance dipende l’emivita dell’enzima!! Un’alterata clearance
/aumento emivita porta ad aumento di concentrazione plasmatica dell’enzima.

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Fattori che influenzano l’utilità diagnostica di un enzima


• Informatività: gravità (pattern enzimatico: di membrana, citosolici, organelli), estensione
danno (entità aumento)
• Persistenza incremento
• Disponibilità di metodi accurati

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Alcuni di questi non sono specifici per un danno, altri invece sono molto specifici.
Quadri enzimatici d’organo

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Ripasso di alcuni marcatori


Transaminasi (amminotrasferasi)
Sono molto importanti, marcatori dello stato di salute. Sono molto informative perché sono
presenti in elevate concentrazioni in alcuni tessuti. Spostano il gruppo amminico, quindi
trasformano un amminoacido in un chetoacido o viceversa. Sono reazioni reversibili. Sono
enzimi necessari per il bilanciamento di amminoacidi e chetoacidi. Ce ne sono tante, ma due
sono le principali in clinica:
Alanina aminotransferasi  transaminasi glutammico-piruvica (ALT-GPT): muscolo, fegato
(ciclo dell’alanina). Specializzata nella conversione alanina-piruvato. Di solito il partner di questa
alanina-piruvato è alpha-chetoglutarato - glutammato.
Aspartato amminotransferasi  transaminasi glutammico-ossalacetica (AST/GOT). Si accoppia
anch’essa a glutammato – alpha-chetoglutarato.
Il glutammato può poi essere convertito in glutammina (2 gruppi amminici).
Questi enzimi servono anche a spostare questi gruppi amminici, che sono importanti ma
bisogna anche riuscire a gestirli, perché non si può liberare ammoniaca casualmente. Il gruppo
amminico deve essere preservato per tutti i suoi usi, ma anche contenuto, perché l’ammoniaca
è tossica. Questa situazione è critica quando un tessuto deve utilizzare amminoacidi come
fonte di energia, perché carenza di grassi e zuccheri. Si utilizza in particolare il ciclo dell’alanina
nel muscolo. Il muscolo usa sue proteine, ed è ricco di amminoacidi ramificati. Si produce anche
acetil-CoA (buon combustibile). Il gruppo amminico viene usato per produrre alanina. Nel
fegato, che fa gluconeogenesi, l’alanina può essere riconvertita in piruvato, e il gruppo
amminico va a finire sul glutammato. Il piruvato entra in gluconeogenesi, esce glucosio che
potrà essere usato. Una dieta iperproteica sovraccarica questo processo, quindi è dannosa
(tanto ciclo dell’urea  a chi fa queste diete viene consigliato l’uso di potenzianti del ciclo
dell’urea).

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Ruolo di ossalacetato, alpha-chetoglutarato e piruvato nel metabolismo ossidativo (reazioni


anaplerotiche).

Rapporto di concentrazione nel tessuto e nel


sangue.
 Aspartato aminotransfeasi / Transaminasi glutammicoossalacetica (AST/GOT)
 V.R 8-20 UI/L
 Alanina aminotransferasi / Transaminasi glutammico-piruvica (ALT-GPT); V.R. 10-30 UI/L
 Patologia epatica, muscolare, miocardica  aumentano in questo tipo di malattie

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Condizioni morbose con aumenti o diminuzioni della transaminasi

Per alcune malattie, c’è un’informazione più o meno generica. Non vengono mai usate da sole,
ma insieme ad altri marcatori.
Andamento ALT/AST nella malattia epatica - Indice di De Ritis

Di solito le ALT sono leggermente più alte delle AST, come livelli. Ad un certo punto si invertono,
e di colpo aumentano le AST  malattia molto grave: necrosi massiva delle cellule che porta al

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rilascio della forma mitocondriale, che prima rimaneva lì, e veniva rilasciata solo quella
citosolica. Fase terminale della malattia.
Creatina chinasi
Converte creatina fosfato e ATP. Essenziale per le cellule che hanno un consumo molto elevato
di ATP per la contrazione  cellule muscolari. Ogni ciclo di contrazione e rilassamento di una
singola molecola di miosina che interagisce con actina richiede una molecola di ATP. L’enzima
agisce per tamponare queste esigenze di ATP: viene prodotta creatina e a livello muscolare
funge da deposito di glucofosfato. La reazione di conversione di ATP a creatina fosfato e ADP è
all’equilibrio  fosforilazione a livello del substrato (fosforilazione diretta dell’ATP). Non è
molto comune, solo alcuni casi. Quando è richiesto un grande consumo di ATP la reazione si
sposta verso il consumo di ATP. Invece quando ATP è abbondante viene prodotta creatina
fosfato. La creatina fosfato serve per gli sforzi acuti.

Quando c’è ossigeno la fosforilazione produce la maggior parte dell’ATP, ed esso può essere
usato per rifornire le scorte di creatina fosfato. Essa va nel citosol finché le scorte non sono
piene, poi quando serve viene convertita in creatina e si produce ATP. Serve per le cellule che
consumano tanto ATP  perciò muscolatura, sistema nervoso centrale, rene.

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Ruolo della fosfocreatina

 Concentrazione fino a 5 volte superiore a quella dell’ATP


 Preserva le riserve di ATP (~ 50% ) per altre funzioni essenziali

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Creatina chinasi

Cause di aumento di creatina chinasi


 Malattie cardiache: infarto del miocardio (tempi discretamente brevi, in una giornata,
accompagnati da aumenti di transaminasi).
 Malattie muscolari
 Malattie del SNC
 Farmaci e droghe d’abuso

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Lattato deidrogenasi
Enzima che hanno tutte le cellule che fanno glicolisi di tipo anaerobio. È necessario per far in
modo di rigenerare NAD ossidato nel citosol, nelle cellule che non possono fare fosforilazione
ossidativa. Queste cellule sono cellule muscolari e globuli rossi. Ma in generale tutte le cellule
hanno quest’enzima, solo lo useranno di meno. La reazione è molto semplice: il piruvato viene
convertito in acido lattico. È una reazione reversibile. Le cellule che usano la reazione inversa
sono epatociti e cellule cardiache. Il cuore utilizza anche l’acido lattico. Non può fare glicolisi
anaerobia, quindi il suo metabolismo è disegnato per fare fosforilazione ossidativa.
Sono presenti nel sangue e nei tessuti cinque diversi isoenzimi della LDH:
• LDH1 HHHH
• LDH2 HHHM

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• LDH3 HHMM
• LDH4 HMMM
• LDH5 MMMM

L’enzima è presente nel citoplasma di tutte le cellule; non è legato a organelli subcellulari. I
livelli di enzima tessutale sono mediamente circa 500 volte superiori a quelli osservati nel siero
normale e quindi la fuoriuscita dell’enzima anche da una piccola lesione cellulare causa un
significativo aumento della concentrazione plasmatica.

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Variazioni degli isoenzimi LDH nelle diverse malattie

Analisi elettroforetica degli isoenzimi LDH


Nella riga in alto sono riportati i quadri tipici degli estratti di tre diversi tessuti: miocardio,
piastrine, fegato. In condizioni normali i 5 diversi isoenzimi che si originano da questi tessuti e si
riversano nel sangue danno luogo alla normale distribuzione indicata nel riquadro blu.

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LDH2 è la forma predominante nel plasma.


Fosfatasi alcalina
Idrolasi che stacca i gruppi fosfato, con una reazione alcalina. I suoi substrati sono fosfoesteri.
Sta nelle membrane interne ed esterne.
Glicoproteina a struttura dimerica contenente Zn, che catalizza l’idrolisi a pH alcalino di
numerosi fosfoesteri. Associata a membrane citoplasmatiche e microsomali delle cellule della
mucosa intestinale, degli osteoblasti, degli epatociti e del sinciziotrofoblasto placentare.
Esistono diversi isoenzimi ed isoforme.
Enzimi differenti, codificati da tre geni diversi:
1. ALPL/K/B: la più abbondante, presente nel fegato, rene e osso con la stessa struttura proteica
ma con diverso contenuto glicidico (isoforme)
2. ALPP, placentare
3. ALPI, intestinale
• Nel siero dell’adulto sono presenti principalmente ALP di origine osteoblastica ed epatica per
circa la metà ciascuna e con piccole percentuali di ALP di origine intestinale.
• La separazione delle ALP di origine ossea ed epatica non è semplice e richiede tecniche quali
l’immunoelettroforesi, l’isoelettrofocusing o l’HPLC.
• La forma ossea è attualmente misurabile con test di tipo immunometrico.
Ruolo della fosfatasi alcalina nella mineralizzazione dell’osso
Poiché la formazione dell'osso dipende dall'azione degli osteoblasti, i marcatori di formazione
ossea come la fosfatasi alcalina danno informazioni sulla attività di queste cellule. Il
meccanismo con cui questo enzima svolge la sua funzione non è completamente noto, ma essa
sembra agire sia aumentando la concentrazione locale di fosfato inorganico, un promotore di
mineralizzazione, sia diminuendo la concentrazione di pirofosfato extracellulare, un inibitore
della mineralizzazione. I valori della fosfatasi alcalina ossea riflettono l'aumento del turnover
osseo associato ad accrescimento o a distruzione per invecchiamento, menopausa o metastasi
ossee.
Deduzione: se l’osso ha dei problemi, i livelli di enzima si modificano.
Fosfatasi alcalina epatica: indicatore di colestasi
Negli epatociti ALP è localizzata sulla parte canalicolare della membrana cellulare.
• Importante ruolo nei processi infiammatori.
• Con il danno colestatico aumenta la sintesi della ALP da parte degli epatociti;
contemporaneamente, l’azione dei sali biliari causa il distacco di frammenti di membrana dalle
cellule canalicolari con conseguente rilascio dell’enzima ad esse legato. Quindi compariranno

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nel sangue sia la forma normalmente prodotta dall’epatocita sia la forma legata alla membrana,
con PM più elevato e legata a lipoproteine.
Quando c’è un danno epatico, da problemi di flusso del secreto degli epatociti (bile) aumenta
molto la fosfatasi alcalina  quando c’è un blocco nella secrezione della bile (colestasi, per vari
motivi), c’è un ritorno all’indietro verso i canalicoli biliari nel fegato, e le cellule vengono
riempite da una sostanza prodotta per digerire i grassi. La bile infatti è un tensioattivo, scioglie
le membrane. Quindi alle cellule non fa bene. La fosfatasi alcalina così esce e va in circolo. Si
possono misurare le diverse forme.
Cause di aumento:

Fosfatasi acida / ACP


• >20 isoenzimi espressi in diversi organi e tessuti (enzima lisosomiale) separabili in 5 bande
elettroforetiche
• Concentrazioni molto elevate nel liquido seminale e nelle cellule prostatiche
•  staging pazienti con carcinoma prostata (extracapsulare e metastatica)
•  medicina legale: presenza di sperma
•  malattie metaboliche dell’osso (aumento attività osteoclastica)

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Gamma glutammil transpeptidasi


Sposta peptidi legati con gamma-glutammile. È espressa nelle membrane, quindi ha un ruolo
nel metabolismo del glutatione, che agisce sia dentro che fuori dalle cellule, per il
mantenimento degli equilibri redox. È un enzima fortemente espresso a livello epatico, poi
anche nell’intestino, pancreas e rene. Quindi c’è di nuovo una condizione di colestasi, bile che
provoca il rilascio di proteine di membrana ovvero enzimi visti fino ad ora.
Ha anche un altro ruolo diagnostico  serve per tenere sotto controllo l’epatopatia alcolica.
Quindi, nel monitoraggio degli alcolisti può aiutare a capire se c’è astinenza da alcol oppure no.
I marcatori ALT e AST magari non sono così modificati nel tempo breve di un’assunzione di alcol
non ancora importante; invece la GGT si alza subito.
Enzima espresso in diversi tessuti, con massima concentrazione nel rene e, quindi, in ordine
decrescente fegato, pancreas e intestino.
L’enzima presente nel sangue deriva in massima parte dal tessuto epatico. Il meccanismo del
rilascio dell’enzima, analogamente a quello della fosfatasi alcalina ALP è quello dell’effetto degli
acidi biliari sulle cellule epatiche pericanalicolari, con rilascio di frammenti di membrana a cui
sono legate GGT e ALP.
GGT nelle malattie epatiche
A causa della variabilità preanalitica ampia, il valore predittivo e la validità del test sono bassi.
Il dosaggio della GGT costituisce comunque un discreto marker di funzionalità epatica. I
maggiori aumenti si osservano nel 100% dei pazienti con tumori primitivi o secondari del fegato
e nella cirrosi biliare (> x10): aumenti più contenuti (x4-x10) nell’80-100% dei pazienti con
epatiti croniche, colestasi intra o extraepatica, cirrosi, epatopatia alcolica. Marker adatto per
valutare l’abuso di alcool (30- 50% dei bevitori).

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Enzimi pancreatici
Il pancreas esocrino secerne enzimi digestivi. Vengono prodotti e accumulati in vescicole di
esocitosi, e poi vengono rilasciati nell’ambiente extracellulare. Nel caso in cui ci sia
un’alterazione nella loro produzione (di solito aumento) perché ci sono più cellule disponibili o
c’è una disfunzione, allora aumentano anche i livelli plasmatici.
Nel pancreas esocrino ci sono diversi tipi di enzimi prodotti: amilasi, lipasi, fosfolipasi, tripsina,
chimotripsina, carbossipeptidasi. Quando c’è un malfunzionamento delle cellule esocrine del
pancreas c’è un aumento di questi enzimi nel sangue.
Amilasi
Marcatore importante, vengono dosate per diagnosticare pancreatiti acute. C’è un’alterazione
delle cellule pancreatiche, per cause varie (autoimmuni, da farmaco, tumori…) quindi c’è un
anomalo rilascio degli enzimi. Le amilasi sono importanti nella diagnosi perché aumentano
rapidamente e permangono per un po’ di giorni. Si può dosare l’amilasi nel sangue ma anche
nelle urine, perché passa nelle urine in forma attiva (più veloce e comodo). Può anche
aumentare per altre condizioni patologiche.
Lipasi
Fanno idrolisi degli acidi grassi. Normalmente usati nella digestione lipidica. L’indagine delle
lipasi insieme alle amilasi diventa un buon marcatore per la diagnosi delle pancreatiti acute.
Durano ancora più a lungo nel sangue quindi possono essere monitorate a distanza dall’evento
iniziale; quindi, si può intervenire per risolvere l’eventuale cronicità a livello pancreatico.
Tripsina
Immagazzinata sottoforma di zimogeni, e poi rilasciata per esocitosi e attivata attraverso taglio
proteolitico (autocatalisi). È un marcatore interessante per le malattie pancreatiche, ma più
adatto per fare una diagnosi di fibrosi cistica. Essa è una malattia genetica che colpisce un
traportatore del cloro (canale). O esso non viene prodotto, oppure ha emivita ridotta e funziona
male  viene escreta una minore quantità di cloro. Il cloro serve ai tessuti che devono
produrre un ambiente acquoso nello spazio extracellulare (epitelio respiratorio  muco, epiteli
ghiandolari). Le cellule ghiandolari che secernono materiale attivo devono creare un ambiente
liquido al loro esterno. Il cloro richiama anche ioni sodio per bilanciare la carica. Se questo non
avviene correttamente il muco sarà troppo denso (fibrosi cistica). Anche il pancreas risente di
questa anomalia nella secrezione del cloro. I livelli di tripsina nel sangue aumentano già in età
neonatale, quando ancora non ci sono altri sintomi. Si può già fare quindi un primo screening.
Si può fare diagnosi già in pazienti che non manifestano alcun sintomo, quindi è un marcatore
sensibile e molto importante.

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Colinesterasi
Pseudo-colinesterasi  idrolisi di esteri della colina. È espressa un po’ ovunque, mentre
l’acetilcolinesterasi è caratteristica delle sinapsi del sistema nervoso centrale. La pseudo-
colinesterasi in grado di idrolizzare acetilcolina ma anche altri substrati, come la butirril-colina.
È importante dosare questo mediatore quando si ha sospetto di avvelenamento da insetticidi e
gas nervini, in soggetti esposti. L’enzima accoglie questa sostanza tossica nel suo sito catalitico,
come fosse un substrato, ma essa si lega alla serina vicino al sito e blocca l’enzima
definitivamente.
Le colinesterasi vengono anche testate quando bisogna fare un intervento chirurgico. Per un
intervento chirurgico bisogna usare anestetici e miorilassanti per preparare il soggetto 
sostanze che sono in grado di inibire la trasmissione sinaptica soprattutto a livello muscolare (le
acetilcolinesterasi non sono in grado di degradarle). Per esempio si usa la succinilcolina. Tutti
noi abbiamo le colinesterasi in grado di degradare esteri della colina, tra cui questi
miorilassanti; quindi, dopo l’intervento l’effetto di questi farmaci diminuisce. Però ci sono
portatori di varianti di questo enzima, che non riescono a degradare questi farmaci nei tempi
corretti. Se un soggetto ha questo deficit rischia di andare in blocco respiratorio. Quindi si fa
screening con la dubucaina  parametro necessario per l’intervento.
È un test funzionale, mirato per andare a rilevare delle varianti alleliche. Nella farmacogenetica
si cercano varianti alleliche che possono rendere un farmaco meno efficace; oppure alcuni di
questi enzimi vengono sfruttati quando si somministra un prefarmaco che verrà attivato da essi.
Allora può succedere che se alcuni soggetti hanno queste varianti, in essi ci sarà più farmaco
attivo rispetto alla media dei soggetti.

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Fibrosi cistica: sono poche le mutazioni interessate. Molte di esse non sono associate ad un
fenotipo ben definito. Se si facesse uno screening sui neonati attraverso un test genetico si
rischierebbe di avere tante varianti che però non hanno una storia clinica associata; non si
potrebbe sapere se ci saranno mai manifestazioni cliniche e quali. Quindi, quello della tripsina è
un primo test ed è molto sensibile, oltre che poco invasivo. Raramente ci sono falsi positivi.
Dopodiché si faranno altri test di tipo biochimico, per esempio il dosaggio del cloro nel sudore.
Se anche i successivi test danno conferma allora si passa al test genetico.
La misurazione dell'attività della colinesterasi sierica è altresì utilizzabile come indice della
capacità sintetica del fegato. In effetti, i livelli di pseudocolinesterasi diminuiscono quando
viene compromessa la capacità di sintesi epatica delle proteine, in maniera proporzionale al
danno epatico.

Errori congeniti del metabolismo (ECM)


Malattie genetiche, che possono riguardare alterazione di sistemi e funzioni e che sono dovute
a mutazioni di geni che codificano o per un enzima, cofattore enzimatico, proteine strutturali o
trasportatori/canali. La conseguenza sono problemi metabolici e disfunzione di cellule (carenza
strutturale).

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Sono mutazioni che portano ad una perdita di funzione dell’enzima. Se dosassimo la proteina
potremmo trovarla, ma essa non funziona più. Queste malattie interessano enzimi che si
trovano all’interno delle cellule e svolgono funzioni in esse. Perciò non si possono misurare nel
sangue, serve un modo alternativo, che non è quello genetico. L’enzima sta all’interno della via
metabolica, ed essa viene interrotta o fortemente rallentata. Il fenotipo si manifesta perché c’è
accumulo o carenza di prodotto. Di solito ciò che si accumula ha un effetto tossico sistemico o
locale. Poi, se viene a mancare qualcosa di importante a valle, il sistema ne risente. Se stiamo
parlando di energia come prodotto finale (ciclo di Krebs, catena respiratoria), il prodotto che
manca è l’ATP quindi verranno colpiti maggiormente tessuti come cuore, muscolo, fegato. Le
malattie potrebbero interessare un apparato piuttosto che un altro.
Se ciò che si accumula nella cellula è una sostanza solubile l’effetto sarà sistemico. Se invece ciò
che si accumula è insolubile (o ad alto peso molecolare) il danno primario è a livello del tessuto
dove quell’enzima manca, e dove c’è quella via metabolica. Sono malattie che si manifestano fin
dalla nascita, o addirittura prima, e poi c’è un progressivo aggravarsi dalla situazione.
Il problema è che queste malattie possono manifestare i sintomi in tutte le fasi della vita.
Alcune si manifestano subito, ma altre no. Possono manifestarsi dopo qualche mese,
nell’adolescenza. Altre forme più croniche si manifestano nell’età adulta, solo che ormai è
troppo tardi per intervenire perché il danno è fatto. Sono geni diversi che possono essere

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mutati. Lo stesso gene può avere diversi tipi di mutazione, quindi fenotipicamente potranno
manifestarsi sintomi diversi e più o meno gravi. Bisognerebbe intervenire il prima possibile, con
analisi varie. Se i sintomi sono acuti, fin dai primi anni di vita, è un’intossicazione tale che
bisogna intervenire molto velocemente, perché il danno potrebbe essere letale. La
sintomatologia purtroppo è molto generica. Se le prendiamo una ad una sono malattie rare. Se
invece si prendono tutte insieme sono molto frequenti. Si vede il fenotipo clinico, e poi si passa
a quello biochimico  metaboloma e proteoma. Si inquadra tutto e si procede, poi se possibile
si fa la conferma del genotipo. Questo ha valore dal punto di vista della prevenzione (famiglia
con rischio di un’altra gravidanza con questa malattia). Per molte di queste malattie c’è lo
screening perinatale, per diagnosticare per tempo una di queste malattie.
Le ECM si possono classificare in 3 gruppi:
- Gruppo 1  squilibrio metabolico con danno secondario di tipo tossico, acuto o cronico,
a cellule e tessuti.
- Gruppo 2  sofferenza cellulare e quadro disfunzionale a carico di organi ed apparati
causata da deficit energetico.
- Gruppo 3  malattie delle molecole complesse, ovvero grossi metaboliti che si
accumulano (gangliosidi, glicogeno, ecc…) perché manca l’enzima per degradarli, e
quindi il tessuto va in sofferenza.
Gruppo 1: nel feto non si vede nulla. Nascono gli individui e poi possono manifestare una
sintomatologia neurometabolica classica (nausea, vomito, letargia, coma, alterazioni equilibrio
acido-base). Situazione drammatica. Se questo non si manifesta e non si interviene subentrano
i danni cronici da tossicità  deficit dalla crescita, ritardo dello sviluppo psico-motorio. Spesso
si manifesta anche danno da carenza (albinismo). In questo gruppo rientrano malattie del
metabolismo degli amminoacidi  amminoacidurie. Alterazione del metabolismo del ciclo
dell’urea, carboidrati, acidi organici, metalli, neurotrasmettitori, trasporto di piccole molecole.
Gruppo 2:

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