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Il processo del Vajont e le memorie diverse di sopravvissuti e superstiti

Stefano Ventura

Panel “Al banco dei testimoni. Crisi ambientali, disastri e giustizia sociale”

Prato, 3° Convegno SIAA, 17-19 dicembre 2015

Il disastro
La sera del 9 ottobre 1963 una massa di oltre 260 milioni di metri cubi di rocce e detriti precipitò a forte
velocità dal versante settentrionale del monte Toc (provincia di Belluno) all’interno dell’invaso artificiale
ottenuto dalla costruzione di una diga lungo la valle del torrente Vajont.
Il gigantesco corpo di frana prese in pochi istanti il posto occupato prima dall’acqua del lago creando
due immani ondate di acqua e detriti lungo la valle ad est, dove spazzò via gli abitati lungo le rive del
lago ma perse rapidamente energia grazie alla maggiore ampiezza della vallata del Vajont, e ad ovest,
dove scavalcò la diga acquistando maggior energia a causa della compressione subita nell’attraversare la
stretta gola, riversandosi nella valle del Fiume Piave.
A Longarone nessuno poteva capire cosa stava succedendo. Il muro d’acqua non poteva essere visto
nel buio. Un minuto dopo la frana, a Longarone si avvertì uno strano refolo di vento. L’aria, compressa
dall’acqua, divenne un’onda travolgente e si avvertì un rumore sordo, come un tuono spaventoso. Allo
sbocco della gola l’onda era alta 70 metri e rase al suolo quasi del tutto diversi abitati (Longarone,
Rivalta, Pirago, Faè, Villanova). I morti furono 1917.
La gente fu assalita dal panico. Quelli che si resero conto per primi di cosa stava succedendo provarono
a correre via, alcuni di loro cercando di trarre in salvo i propri familiari. Palazzi, case, chiese e strade
furono travolti e collassarono, furono disintegrate e rasi al suolo immediatamente: un’enorme massa di
detriti fu coperta dall’acqua, uno scenario allucinante e raccapricciante.
Oltre a Longarone, l’onda raggiunse e distrusse parecchi edifici a Castellavazzo, Pirago, Rivalta,
Villanova e Faè; ci vollero molte ore per far defluire l’acqua, anche se gli argini del fiume Piave non
ressero in molti punti e l’acqua tracimò. Si narra che molti cadaveri furono ritrovati lungo il corso del
Piave, a molti chilometri di distanza da Longarone.
La notizia arrivò ai Carabinieri di Ponte nelle Alpi e ai Vigili del Fuoco di Belluno perché un cittadino di
Ponte delle Alpi aveva chiamato per dire di aver avvertito un boato fortissimo, seguito da un black-out.
I primi tentativi di contatto con Longarone non ebbero risposta, ragion per cui le forze dell’ordine
intuirono che c’era qualcosa di strano nella valle. All’1,30 fu allertato l’esercito e i sette ospedali della
zona. Circa 1200 militari e 500 vigili del fuoco si diressero verso Longarone; le prime azioni furono
abbastanza scoordinate tra loro e spontanee, con le singole forze che lavorarono indipendentemente
l’una dall’altra. La situazione migliorò con l’alba e con la luce solare. Seguì l’arrivo dei soccorsi e delle
procedure di emergenza, anche se sulla zona pesava l’allerta di un possibile crollo della diga, oltre al
rischio di diffusione di epidemie.
Nella gestione del post-disastro si verificarono diversi problemi, come ad esempio le decisioni
riguardanti i cadaveri; non appena venne ventilata l’ipotesi di approntare una fossa comune, la
popolazione locale insorse; gli ufficiali medici e l’esercito, insieme a ingegneri e tecnici, approntarono
allora un cimitero del tutto nuovo a Fortogna, vicino Longarone. Ancora oggi è un cimitero-
monumento, con lunghe fila ordinate di croci bianche: assomiglia a un sacrario di guerra, con i cippi
allineati sui quali sono segnati i nomi. E' una specie di compendio agli altri luoghi simbolo di questa
visita ed è lì che il conteggio delle vittime di questa tragedia appare drammaticamente visibile.

La ricostruzione
Le vicende della pianificazione e della ricostruzione successive al disastro sono state differenti tra i paesi
a valle e a monte della diga. Quest’ultimi sono stati raggruppati in un nuovo paese, chiamato Vajont,
dove hanno trovato ospitalità il 64% degli abitanti dei paesi preesistenti, Erto e Casso, dove è rimasto il
21% della popolazione; il restante 15% si è trasferito a Ponte nelle Alpi.
La rinascita di Longarone fu affidata a Samonà, importante urbanista, che lavorò includendo nel suo
piano anche scienziati sociali e economisti. Tuttavia il comitato dei superstiti si oppose alle innovazioni
proposte da Samonà indirizzando diversamente la ricostruzione e quindi producendo un puzzle
composito di risultati con la compresenza non armonica di stili moderni e di forme più consone alla
tradizione, tanto che Samonà affermò che “si sono prodotte periferie, ora bisogna trasformarle in una
città”.
Dal punto di vista demografico accadrà qualcosa che influirà anche sui processi di costruzione della
memoria comunitaria; infatti, i nuovi insediamenti industriali che furono sovvenzionati nell’area
attrassero nuovi abitanti, soprattutto famiglie giovani, che permisero di mantenere sostanzialmente il
numero di abitanti: nel 1963 Longarone contava 4838 residenti, nel 1981 erano 4481 e nel 2001 4122.
Bisogna ricordare che, tra le tante realtà produttive, nella valle è presente un importante polo dell'ottica,
con i marchi nazionali più importanti del settore.
Come altre ricostruzioni del secondo dopoguerra, anche quella del Vajont fu contraddistinta da un
piano di investimenti statali per creare occupazione e sviluppo, non fermandosi solo alla ricostruzione
edilizia e urbanistica dei paesi ma investendo sulla rinascita di alcune realtà economico-produttive
preesistenti e incentivando la nascita di nuove aziende, laboratori e attività commerciali, artigianali e
industriali.

I processi
Le vicende processuali che hanno accompagnato la storia degli anni successivi alla catastrofe sono
durate circa trenta anni e hanno portato con loro strascichi, divisioni e contraddizioni sia nelle comunità
e nelle amministrazioni direttamente interessate, sia nella visione complessiva che a livello nazionale ha
contraddistinto la gestione delle ricostruzioni, dell'individuazione delle responsabilità e del risarcimento
del danno.

- Il primo passaggio, in ordine di tempo, per far luce sull'accaduto, fu la costituzione di una
Commissione Parlamentare d'Inchiesta, istituita il 22 maggio 1964 per “accertare le cause della
catastrofe e le responsabilità pubbliche e private ad esse inerenti”(Rebershak, Il Vajont dopo il Vajont,
2009).
La commissione fu presieduta dal democristiano Rubinacci e si pose subito il problema della
consultazione dei documenti, che la magistratura aveva sottoposto a sequestro in vista del processo;
grazie a una concessione del tribunale di Belluno, fu concessa la visione delle copie dei documenti. La
commissione lavorò per circa un anno e, seppur con toni smussati e indiretti, ammise le gravi
responsabilità delle imprese e degli organismi ministeriali che avrebbero dovuto controllare la
costruzione della diga, con l'aggravante del fatto che l'evento era tutt'altro che imprevedibile, dati i
numerosi segni premonitori.

- Il 20 febbraio 1968 il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza del
procedimento penale contro 11 imputati: Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco
Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e
Augusto Ghetti. Due di questi, Penta e Greco erano morti nel frattempo, mentre Pancini si toglie la vita
il 28 novembre 1968.
Il processo di primo grado si apre il 25 novembre 1968, ma la sede processuale era stata spostata a
L'Aquila per il clima “troppo esacerbato” che c'era nella valle.
Una delle note significative da segnalare è che Giovanni Leone, già presidente del Consiglio, assumeva
la difesa degli imputati.

- Il 17 dicembre 1969 alle 23, avviene la lettura della sentenza: 6 anni, di cui 2 condonati, a Biadene,
Batini e Violin, per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo
sgombero; assolti tutti gli altri. La prevedibilità della frana non viene riconosciuta.
Si calcolava che fossero stati assegnati circa 2mila giorni di carcere, un giorno per ogni morto, e di
questa sentenza si continuò a scrivere. Tutta la stampa criticò negativamente la sentenza. “La frana non
ha leso il bene giuridico della pubblica calamità”, si leggeva nelle motivazioni della sentenza; nessun
danno risarcibile ai comuni per i morti, che sono un danno mediato, non risarcibile.

- Il 26 luglio 1970 inizia all'Aquila il Processo d'Appello, con lo stralcio della posizione di Batini,
gravemente ammalato di esaurimento nervoso. Il Processo d'Appello si concluse con la sentenza del 3
ottobre 1970: non fu disastro naturale ma responsabilità umana. Gli imputati (Biadene, Sensidoni) sono
riconosciuti responsabili di 3 reati: frana prevista, inondazione e omicidi e vengono condannati a sei e a
quattro anni e mezzo (entrambi con tre anni di condono). Frosini e Violin vengono assolti per
insufficienza di prove; Marin e Tonini assolti perché il fatto non costituisce reato; Ghetti per non aver
commesso il fatto.

- Il processo giunge in Cassazione: è il 25 marzo 1971, quando la Corte sentenzia che Biadene e
Sensidoni sono responsabili dell'inondazione aggravata dalla previsione dell'evento, ma la frana è un
fatto naturale. Biadene è condannato a 5 anni, Sensidoni a 3 anni e 8 mesi, 3 anni vengono condonati a
entrambi. La sentenza è emessa quindici giorni prima della scadenza dei sette anni e mezzo
dell'avvenimento, giorno nel quale sarebbe intervenuta la prescrizione.

- Il 15 febbraio 1997 il Tribunale Civile e Penale di Belluno condanna la Montedison a risarcire i danni
subiti dal comune di Longarone per un ammontare di lire 55.645.758.500, lire 526.546.800 per spese di
liti ed onorari e lire 160.325.530 per altre spese. La sentenza ha carattere immediatamente esecutivo.
Nello stesso anno viene rigettato il ricorso dell'ENEL nei confronti del comune di Erto-Casso e del
neonato comune di Vajont, obbligando così l'ENEL al risarcimento dei danni subiti, quantificati dal
Tribunale Civile e Penale di Belluno in lire 480.990.500 per beni patrimoniali e demaniali perduti; lire
500.000.000 per danno patrimoniale conseguente alla perdita parziale della popolazione e conseguenti
attività; lire 500.000.000 per danno ambientale ed ecologico. La rivalutazione delle cifre ha raggiunto il
valore di circa 22 miliardi di lire.

I risarcimenti

Ancora prima della conclusione del processo, nel maggio 1967, l'Enel si attivò per proporre una
transazione economica che risarcisse i parenti delle vittime. Intanto si era costituito un consorzio, il
“Consorzio dei danneggiati del Vajont” ospitato nella sede della provincia di Belluno (29 gennaio 1968);
il consorzio valutò che l'accordo transattivo, accettato già da molti, non scalfiva la costituzione di parte
civile per perseguire le responsabilità. Il presidente del Consorzio era l'ex sindaco di Longarone Protti.
Nel febbraio 1969 erano stati già liquidati 6 miliardi e 157 milioni alle 3205 enti, privati e associazioni
che avevano accettato la transazione. Le cifre pattuite per i risarcimenti erano queste:
• 3 milioni per la perdita del coniuge;
• 2 milioni per un figlio unico;
• 1,5 milioni per ogni figlio di due o tre;
• 1 milione per ogni figlio di quattro o più;
• 1,5 milioni al figlio minorenne per la perdita di un genitore;
• 1 milioni al figlio maggiorenne non convivente per la perdita di un genitore;
• 800mila lire al fratello convivente;
• 600mila lire al fratello non convivente.
Nulla invece era previsto per nipoti, zii e nonni, anche se conviventi. Il Consorzio operò una campagna
casa per casa per convincere i cittadini ad accettare, perché non si poteva sapere quali sarebbero stati gli
esiti e i tempi del processo, e il 94% degli avente diritto accettò. Coloro che non accettarono di solito
avevano una situazione economica meno indigente e precaria di chi accettò e spesso aveva già in mente
di perseguire le vie legali per ottenere più di quello che l'ENEL offriva. Inoltre, per circa 600 persone
che erano morte senza lasciare eredi, non fu necessario corrispondere risarcimenti.

Lo strano dualismo tra sopravvissuti e superstiti

Proprio per rivendicare giustizia per questi 600 morti, alcuni dei quali non erano neanche stati
riconosciuti, nacque il “Comitato dei superstiti per la difesa dei diritti del Vajont”, guidato da un
panettiere, Guglielmo Cornaviera, che portò avanti per anni la sua battaglia per una giusta valutazione
dei risarcimenti. E' da citare, ad esempio, il caso della commorienza: nel caso in cui non sia possibile
stabilire chi sia morto prima tra due persone di un nucleo familiare, viene stabilito che siano morti nello
stesso momento. Se, quindi, un genitore e un nonno sono morti nella sera del 9 ottobre 1963, gli eredi
riceveranno un solo contributo di risarcimento.
Sono esempi come questi che creeranno le divisioni e le contraddizioni che segneranno il cammino
della memoria e della rinascita comunitaria di questi centri.
Abbiamo già citato due comitati, quello creato da Enel per i danneggiati e per gestire i risarcimenti, e
quello che rappresentava “i superstiti”. Ma a ridosso della sentenza del 1997, che obbligò Montedison,
ENEL e lo Stato a risarcire i comuni colpiti, le vicende legate alla trasmissione della memoria e allo
status di chi era scampato al disastro e rimasto nella valle, subirono un'accelerazione (il 1997 è anche
l'anno dello spettacolo di Paolini, andato in onda su Rai2 in prima serata, la sera del 9 ottobre). Ecco
alcuni momenti- chiave:
1. Nel 2000 nasce l' Associazione sopravvissuti del Vajont; come si legge dallo statuto
“l'Associazione persegue i seguenti scopi:
a) Lo svolgimento di attività volte a:
- mantenere viva la memoria del Vajont, attraverso iniziative che esaltino i valori morali, civili, sociali e ambientali che la
tragedia richiama, con particolare attenzione verso studi, ricerche, testimonianze, divulgazioni e proposte progettuali, di
riconosciuto valore memoriale e simbolico;
- rappresentare le finalità e le istanze dell'Associazione e dei superstiti nelle comunità e presso le Istituzioni competenti, in
particolare esprimere pareri e proposte, nonché formulare programmi e progetti , di propria iniziativa o su richiesta, ai
Comuni o ad altri Enti, in ordine ad argomenti o problemi relativi al disastro del Vajont;
- promuovere rapporti di collaborazione e di solidarietà tra i superstiti, anche attraverso il sostegno a situazioni e
problematiche legate alla tragedia;
intrattenere rapporti di scambio e di collaborazione con Enti ed Associazioni aventi analoghe finalità;
b) La formulazione dell'elenco dei superstiti del Vajont”.
2. Il 15 novembre 2001 si costituisce un nuova associazione, il Comitato per i sopravvissuti del
Vajont; nel suo statuto leggiamo che il Comitato “persegue il fine della solidarietà e del sostegno morale e
psicologico alle persone sopravvissute alla tragedia del Vajont, nonché il fine di diffondere la conoscenza e
conservare la memoria dei fatti accaduti. A mero titolo esemplificativo, il Comitato potrà organizzare
manifestazioni, mostre, convegni, dibattiti, incontri, anche presso le scuole; promuovere studi, ricerche, iniziative
editoriali; farsi promotore di iniziative presso gli enti pubblici”.
3. La Fondazione Vajont nasce dall'accordo transattivo tra il comune di Longarone e l'Edison
S.p.a. e anticipò di poco l'accordo del 27 luglio 2000 che portò a conclusione della richiesta di
risarcimento dei comuni nei confronti di Sade, Enel e Montedison.
Come si legge dal sito della Fondazione, “l'accordo prevedeva, infatti, che una cospicua parte del
risarcimento fosse destinata ad una Fondazione avente per scopi lo studio dei problemi ecologici della montagna
alpina e della zona del Vajont e ogni ricerca utile per la loro più sana e sicura valorizzazione, nei decenni futuri,
nel ricordo reso così partecipe e fattivo delle vittime della sciagura, che fu frutto, come i processi e la storia hanno
accertato, di miope sfruttamento industriale delle risorse della natura ad opera di Sade e Enel”.
L'accordo portò nelle casse dei comuni 900 miliardi di lire, di cui 405 a carico di ENEL, 405 a carico
dello Stato e 90 a carico di Montedison.
In definitiva, quindi, le sfumature tra sopravvissuti e superstiti, tra semplici cittadini che ricordano la
tragedia e cercano di affermare alcuni principi distintivi e istituzioni, legali e tecnici che devono fare i
conti con le sentenze e con le procedure hanno creato diversi dissapori tra i cittadini dei vari paesi,
Longarone, Erto e Casso in particolare. Dalle parole del presidente del comitato per i sopravvissuti,
Micaela Coletti, è possibile capire meglio le definizione identitarie di sopravvissuti e superstiti.
"[...]È una cosa che è fondamentale. Sembra che sia una cosa di poco conto, mentre... generalmente uno dice ok superstiti
e sopravvissuti sì sì è la stessa cosa ...è una differenza che è fondamentale. Allora: i l superstite è quello che
comunque era al sicuro lontano dalla cittadina, era del posto, è ritornato e non ha ritrovato più
niente. Poteva essere lontano per mille motivi, per lavoro, per non lavoro, insomma: non ha nessuna importanza. Quello
che comunque si è trovato senza un paese, ma che però fisicamente in quel momento non c'era.
Il sopravvissuto, come noi, invece era nel posto in quel momento ed è stato tolto proprio dalle
macerie, da sotto terra, per cui sopravvissuto vuol dire 'sopravvivere', vivere 'al di fuori',
nonostante tutto. Per cui la distinzione penso proprio sia determinante[...] L'opinione comune è
quella che 'son tutti uguali'. Allora siamo tutti superstiti, perché comunque siamo 'sopravvissuti' a un 'qualcosa'. Poi ci
sono i superstiti che sono superstiti ed i superstiti che sono 'anche' sopravvissuti, perché anche noi 'abbiamo perso tutto'."
(La memoria del Vajont a quarant'anni di distanza, Claudio Leoni, Tesi di laurea in Sociologia,
Università di Pavia).

La memoria e l' oblio del disastro

Oltre alle implicazioni comunitarie, quasi localistiche, della memoria, ci sono alcune considerazioni che
chiamano in causa elementi che possono accomunare diversi eventi disastrosi e catastrofici.
Nello studio di Angela Favaro e Cristina Zaetta sulle conseguenze psicologiche dell'evento ( Il Vajont
dopo il Vajont, a cura di M. Reberschak, 2009), si evidenzia “come questo evento sia stato traumatico nella misura in
cui ha determinato un contatto inaspettato e imprevedibile con la precarietà di costrutti di sicurezza riguardanti la propria
vita e quella dei propri cari, il proprio corpo e il proprio paese, spazzando via tutte le certezze vitali”.
Altri affermano che “il Vajont è come un marchio indelebile, perché ti ha sradicato di tutto.. ha lasciato il segno a
tutti; non dimentichi mai, ho sempre in un angolo del cervello come un chiodo che batte”(p. 313).
Longarone secondo alcuni è più simile a una periferia urbana che a un paese montano, ed è stato il
destino di diversi paesi ricostruiti dopo una catastrofe, come ad esempio i paesi irpini e lucani dopo il
1980. La presenza degli stabilimenti industriali, alcuni dei quali tecnologicamente all'avanguardia, crea
anche un ricambio continuo di presenze, facendo di Longarone un luogo di lavoro privo di particolari
attrazioni e svaghi; molti dei lavoratori provengono da province vicine, quindi i giorni festivi tornano
nei paesi d'origine.
Anche questo ha influito in modo significativo sulla costruzione della memoria; chi ha visto in faccia la
tragedia, rimprovera implicitamente quelli che hanno tratto beneficio dai fondi arrivati per ricostruire e
per avviare lo sviluppo industriale. Dall'altro lato, in termini di coesistenza, i nuovi venuti hanno
sempre cercato di difendersi dalle dolorose emozioni dei superstiti, mentre i superstiti hanno sempre
avuto difficoltà a esprimere correttamente e senza pietismo quelle stesse emozioni.
I tempi lunghi del processo, il riferirsi al tragico evento più che al disastro causato anche da improvvide
e deliberate scelte hanno implicitamente favorito quell'oblio che fa comodo a molti, e che serve anche a
compiere azioni sul territorio che non tengono conto della lezione di allora.
E' quello stesso oblio, come dice Nimis in “Terre mobili” (Donzelli, 2009) a proposito dei terremoti
italiani, che accompagna inconsapevolmente chi abita un territorio sottoposto quasi in ogni suo angolo
al rischio sismico o idrogeologico.
Forse per questo motivo il monologo di Marco Paolini del 1997 è servito da detonatore per
rappresentare un cambiamento netto nella narrazione di quell’evento, nel passaggio da una memoria e
un dolore privato o di comunità a una questione irrisolta di tutto lo Stato, a un conto in sospeso di cui
gli abitanti della Valle del Vajont e di Longarone erano i debitori. Da lì in poi i superstiti hanno provato
a raccontare con più coraggio gli anni del post-disastro, dando vita a comitati, fondazioni e chiedendo
riconoscimenti che non fossero la semplice ricompensa che l’ENEL fu costretta a pagare ai parenti
delle vittime dalla sentenza della magistratura giudicante.
Nel 2013 si è commemorato il cinquantesimo anniversario dell'evento e la fondazione Vajont ha
promosso, come tutte le associazioni, una serie di eventi e manifestazioni, ma anche progetti di ricerca.
Oltre al Presidente del Consiglio Letta, diverse personalità hanno presenziato alle commemorazioni. Il
Ministro dell’Ambiente ha chiesto scusa, così come il Capo Dipartimento della Protezione Civile
Gabrielli, per quello che accadde, sottolineando gli errori delle istituzioni non solo prima che il fatto
avvenisse, ma anche in seguito. Gabrielli ha parlato di rabbia sorda delle popolazioni, perché nessuno
ha aiutato loro a elaborare il lutto.
In effetti, i diretti responsabili, condannati anche dalla magistratura, non hanno mai riconosciuto in
pubblico le loro responsabilità.
Il presidente del Senato, Grasso, ha detto: "Sono qui per portare le scuse dello Stato. Sono qui per riparare, per
sanare, per quanto possibile, quella ferita che da cinquanta anni separa questo popolo dalle Istituzioni, convinto che solo
con la verità e la giustizia questo processo potrà trovare pieno compimento”. Anche il Presidente della Repubblica,
Napolitano, in un messaggio, ha chiaramente detto che quell’evento “non fu una tragica, inevitabile
fatalità, ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non
possono sottacersi le responsabilità”.
In un certo senso, con le dichiarazioni istituzionali del 50esimo, il percorso di liberazione di chi aveva
difficoltà a narrare il dolore post traumatico si è compiuto, anche se restano i segni dell’ingiustizia su
una comunità completamente mutata (Longarone) e sui paesi a monte della diga che sono quasi del
tutto svuotati.
E' certamente da notare come gli svariati elementi descritti sull'elaborazione del lutto, della memoria e i
propositi di risarcimento in termini di rinascita e sviluppo che sempre accompagnano le fasi
immediatamente successive a un disastro, rendano simili e collegate le numerose vicende legate a
catastrofi naturali e antropiche accadute in Italia dal 1963 ad oggi. Sarebbe un'operazione utile e anche
vantaggiosa imparare dal passato, per non commettere gli stessi errori.

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