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‘Donne di Capo Verde.

Esperienze di antropologia
dialogica a Ponta do Sol’

‘Donne di Capo Verde’ è la straordinaria esperienza dell’antropologa Martina Giuffrè, docente


referente del corso, accumulata sul campo durante una ricerca universitaria che l’ha trattenuta
nell’affascinante isola di Capo Verde per circa tre anni, dalla fine del 2001 al 2004.
Inizialmente diretta a São Nicolao, l’antropologa si è ben presto trovata ‘costretta’ dalla confidenza
mostratele dalla popolazione di Ponta do Sol, cittadina di cui era originaria l’amica Lucia che con
sé l’ha condotta nel continente nero, a divergere verso questo posto la propria ricerca.
Le isole di Capo Verde sorgono nei pressi della costa occidentale dell’Africa, e Ponta do Sol, un
villaggio confinante con la contea di Ribeira Grande, risulta essere il punto settentrionale più
estremo dell’isola di Santo Antão.
È importante, da un punto di vista prettamente territoriale, collocare alcuni nomi che ricorreranno
all’interno del testo nel rispettivo spazio geografico: le isole che prenderemo in considerazione
maggiormente sono Santo Antão e São Vicente (dove invece vi è la città di Mindelo), che due
isolotti vicini, ed alcuni riferimento saranno fatti a São Nicolau, terzo isolotto non troppo distante
da quelli appena citati.
Paùl è una cittadina che dista qualche ora (o qualche giorno, in base ai mezzi di trasporto) da
Ponta do Sol, mentre Sal è il luogo più vicino a Ponta do Sol dove vi sia attualmente un aeroporto,
dopo la chiusura di quello di Ponta do Sol.
São Tomè, isola appartenente allo stato indipendente di São Tome e Principe, è invece situata in
una posizione approssimativamente vicina dalla costa centro-meridionale del continente africano.

Il testo risulta strutturato secondo uno schema piuttosto particolare: la condizione delle donne,
oggetto principale della ricerca della Giuffrè, rende quasi impossibile all’autrice strutturare una tesi
comune a tutte le storie in cui si è imbattuta negli anni vissuti in Africa.
A tal proposito, lo schema segue una ripartizione in quattro grandi capitoli:
1) La storia di Maria Giulia, e la relazione tra le donne capoverdiane e la memoria
2) La storia di Ernestina, e la condizione delle donne a Ponta do Sol oggi
3) La storia di Nita, e la situazione delle donne che restano e che viaggiano dall’isolotto.
4) L’analisi della Giuffrè stessa, che fa tesoro dell’esperienza accumulata e parla di
‘rinegoziazione delle identità’.
Ovviamente, i nomi utilizzati all’interno del testo, compresi quelli ‘corali’ delle innumerevoli donne
che compaiono, sono nomi fittizi creati con l’intento di evitare che gli abitanti potessero riscontrare
la propria esperienza nel testo dell’antropologa.
Cominciamo dunque ad analizzare i capitoli uno per uno, secondo il singolare genere narrativo
scelto dall’autrice per affrontare la questione: un’analisi a tratti autobiografica corredata da pagine
di diario scritte durante le calde giornate a Capo Verde, e dalle tantissime confessioni delle donne
capoverdiane che si sono –non facilmente- adattate, aperte e confidate all’antropologa.
CAPITOLO PRIMO: ‘DONNE E MEMORIA’

1. Presentazione
Maria Giulia è una donna anziana di 73 anni, vedova, molto fedele e disponibile.
Quando Ernestina, su cui ci si soffermerà nel secondo capitolo, condurrà la Giuffrè nella casa di
Maria Giulia, l’antropologa realizzerà di essere già stata a casa dell’anziana.
La donna racconta a grossi linee di non aver studiato e di aver lavorato da subito per il
sostentamento della propria famiglia.

2. La storia di Maria Giulia. Prima giornata: l’infanzia e l’adolescenza


Maria Giulia racconta di come i padrini, o meglio la figura dei padrini, eserciti un ruolo
fondamentale nel contesto dell’educazione capoverdiana: i padrini, infatti, non sono i reali genitori
biologici della persona ma, come nel suo caso, altre persone che si assumono la responsabilità di
‘adottare’ i bambini, e vengono perciò definiti ‘genitori di criação’
Racconta inoltre di come, su otto fratelli che erano, due ne morirono e di come la madre non
riusciva a mantenerli. I suoi genitori adottivi, ovvero la madrina e il padrino, sono anch’essi morti.
Alla morte di un padrino, si può anche scegliere di ‘avere’ un’altra persona per farsi accudire. Infatti
la prima madrina di Maria Giulia è morta quando lei aveva 16 anni, cadendo dalla montagna, e
dopo quel momento Maria Giulia ha deciso di ‘scegliere’ un’altra madrina e così via.
Parla inoltre di come sia stata guidata da Dio in una vita, e soprattutto in un’infanzia, molto
difficile: guadagnava infatti molto poco.
Descrive, poi, la struttura delle case di Corvo, il suo luogo d’origine, e di come fossero fatte solo di
paglia e pietra, di come le generazioni stiano velocemente cambiando e di come il rispetto avesse
costituito le fondamenta della sua educazione, nonostante i genitori adottivi non avessero potuto
concederle il privilegio della scuola.
Si passa poi alla descrizione del cibo che caratterizza l’alimentazione degli isolani: maggiormente
fagioli, patate, zucca, il mais verde ed a volte anche il caffè.
Il vestiario era estremamente semplice: a volte, un solo vestitino ed uno con cui andare poi a
messa. Maria Giulia di aver passato una vita molto stancante e che ha deciso di venire a Ponta do
Sol solo perché vi ci fosse il dottore, dal quale fu costretta poi a restare durante una malattia: si
innamorò talmente tanto del posto che decise di restarvi.
La Giuffrè introduce all’interno del capitolo alcuni personaggi che costituiscono una narrazione
corale: Nha Tchuk, Maria de Lourdes, Matilda, Armanda, Dona Amelia, Antoninha, e così via.
La rappresentazione del passato da parte delle donne anziane assume delle caratteristiche
particolari: Maria Giulia intreccia infatti un passato fatto di martiri e di povertà con un passato di
abbondanza dove si viveva meglio: questa ambiguità può essere spiegata da diversi fattori.
In primis l’abbinamento del passato alla propria giovinezza, da parte di una donna anziana, oppure
come un’estensione di quella ‘morabeza’ (ospitalità) dell’isola che diviene nostalgia nel tempo e
nello spazio. Spesso, dunque, le testimonianze delle interlocutrici appaiono contraddittorie: da un
lato si parla di una vita ‘mais sabe’ (molto bella), dall’altro una vita molto dura, in cui non c’era
nulla (si parla di ‘tempi bui’).
Teobaldo Virgilio parla di Santo Antão mettendo proprio in risalto quest’aspetto dell’isola come
terra dell’abbondanza e come terra dove le cose possono cambiare repentinamente: da un anno
d’oro si passa ad un anno di siccità, come negli anni ’40, che videro le peggiori ripercussioni
sull’isola, come la carestia del 41-43 dovuta alla mancanza di pioggia, la crisi internazionale dopo
la seconda guerra mondiale, e la carestia del 47-48.
La gente di Ponta di Sol riuscì in parte a scampare la morte per fame grazie al pesce; alcuni
ricordano eventi particolari, quasi mitici, come quello della barca che trasportava il mais e che si
incastra nella Praia di Monterigo, dall’altra parte delle montagne dell’isola: Antoninha racconta di
come la gente, disperata, si incamminava per giorni a piedi per una puntina di mais.
Ma la pioggia non va vista sempre come un fattore risolutivo: a volte sembra una vera e propria
condanna.
L’autrice nota come tutte le donne anziane mettano sempre in evidenza di essersi arrabattate e di
aver fatto tutti i lavori possibili.
Tornano alla descrizione del vestiario, Maria de Lourdes racconta che al massimo si potevano avere
tre vestiti, e al minimo si poteva addirittura avere un vestito condiviso in due.
Ancora oggi, il fenomeno dell’adozione risulta un fenomeno attivo e diffuso a Santo Antão e la sua
spiegazione va ricercata nella divisione in classi sociali e nella distinzione netta tra la classe
signorile e gli schiavi domestici, e in seguito, tra la classe signorile e i gruppi di persone che
lavorano per loro, in cambio di un salario o di protezione.
La struttura familiare capoverdiana è una famiglia allargata caratterizzata dalla matrifocalità:
un’organizzazione sociale in cui la madre detiene un ruolo centrale nella famiglia, dal punto di
vista culturale, strutturale ed affettivo, e dove la diade madre-figlio diviene relazione primaria
rispetto a quella coniugale.

3. La storia di Maria Giulia. Seconda giornata: i tempi antichi


Maria Giulia racconta di quando c’erano molti stranieri, e introduce la figura di Jon Serra, un
capoverdiano di discendenza portoghese che lei ritiene esser stato un ottimo amministratore
perché faceva lavorare le donne, nonostante si dicesse in giro che le molestasse. Racconta inoltre
di quando ancora c’era il colonialismo portoghese e qui, come in tutte le testimonianze, la
situazione appare contraddittoria: da una parte Ponta do Sol appare come un luogo molto
movimentato, dall’altra un luogo con poche case, dove si svolge una vita molto faticosa.
Sicuramente Ponta do Sol, e l’isola di Santo Antão in generale, è cambiata moltissimo
dall’indipendenza ad oggi e le classi si sono differenziate anche a causa dell’emigrazione di massa.
È infatti l’emigrazione ad aver permesso a molti di raggiungere oggi una determinata condizione
di benessere.
Inoltre molti abitanti sono oggi impegnati nella vita turistica, nel terziario o comunque nelle
attività commerciali.
Le interlocutrici raccontano anche di quanto fosse lungo il viaggio di Ribeira Grande a Paùl, mentre
oggi tutto è cambiato. Ponta do Sol, nel ricordo sia delle giovani che delle anziane, appare come
un luogo senza luce, senza televisione, senza aeroporto e così via; eppure, dalle donne anziane
viene sempre ricordato come luogo ‘mais sabe’ .
Quello che appare diverso nei due gruppi è che le anziane, a differenza delle giovani, possono
ancora ricordare i tempi del colonialismo portoghese, che è durato fino al 1975.
Per molto tempo, Ponta do Sol diviene il porto principale di Santo Antão, da cui venivano
commerciate principalmente banane, il più grande prodotto di esportazione dell’isola per il
Portogallo.
Lo scrittore Teobaldo Virgilio descrive Ponta do Sol di quegli anni come una cittadine fiorente;
descrive di come le donne aspettavano al porto il rientro delle barche per prelevarne il pesce e la
dura vita delle pescivendole.
Le donne di Ponta do Sol erano anche principalmente note per le loro capacità culinarie (la
‘catchupa’, un piatto di fagioli, verdure, e salsicce è il principale piatto capoverdiano), e da alcune
testimonianze è evidente come il villaggio non fosse solo un luogo di pescatori poveri ma di come
fosse presente anche una borghesia (come i Serra).
Alcune interlocutrici, come Nha Tchuk, raccontano la vita dei poveri contrapponendola a quella dei
‘bianchi’, trasferitesi per periodi più o meno lunghi a Ponta do Sol: vi è dunque una divisione di
classi fortemente bipolare, secondo la quale i ricchi sono coloro che vengono da fuori (i
portoghesi, gli amministratori, i bianchi), mentre tutti gli altri, gli abitanti di Ponta do Sol, si
sentono un’unica grande famiglia.
Eppure alcune donne, tra cui appunto Maria Giulia, affermano che durante il colonialismo si stava
meglio, mentre in molti altri casi il colonialismo viene criticato e ne vengono ricordati gli aspetti
più brutali.

4. La storia di Maria Giulia. La terza giornata: l’emigrazione forzata a São Tomè.


Durante questa giornata Maria Giulia racconta della sua esperienza a São Tomè, quando aveva
soltanto ventisette anni.
L’emigrazione dei capoverdiani per São
Tomè rientra nel fenomeno definito da
Carreira ‘emigrazione forzata’, ovvero
‘tutta quella che avviene in conseguenza
della rottura dell’equilibrio
produzione/popolazione provocata dalla
siccità, dalla fame, dalla mortalità o dalla
pressione demografica, e di cui i governi
si approfittano per avviare l’uscita della
popolazione. […]’.
L’emigrazione dei capoverdiani a São
Tomè è stata sempre vista come un’esperienza negativa dagli studiosi: equivaleva ad una
deportazione, tanto che nacque l’analogia ‘emigrare per il Sud’, alludendo una condizione simile a
quella riservata ai condannati che venivano mandati in Angola a scontare la pena.
Le grandi protagoniste dell’esperienza migratoria a São Tomè sono state le donne. In un periodo in
cui le violenze e i soprusi ad opera dei padroni si erano attenuati di molto, le donne erano qui di
nuovo trattate come schiave. Maria Giulia racconta in particolar modo la situazione dei
mozambicani che arrivavano nudi e con le catene ai piedi.
Oltre che per i maltrattamenti perpetuati dai portoghesi, i capoverdiani a São Tomè affrontavano
altre difficoltà, come le condizioni climatiche, la piovosità, gli insetti e la malaria, i bassi salari: il
guadagno a volte era così misero che non si aveva neanche il denaro sufficiente per tornare a casa,
come nel caso di Nha Dindinha.
Quello che tuttavia raccontano le interviste, è la capacità di adattamento e di volgere a proprio
favore la situazione da parte di queste donne.
Maria Giulia infatti si mette anche qui nel piccolo commercio, vendendo sigarette, e trova il modo
per non lavorare nei campi, facendo fare il lavoro al posto suo ad alcuni mozambicani, per i quali in
cambio lava, stira e cucina.
Si può dire infatti che la sua figura sia ben lontana da quella stereotipata del capoverdiano che si
reca a São Tomè: Maria Giulia reagisce, trova nuove soluzioni.
Un altro elemento presente nell’intervista di Maria Giulia è la questione identitaria: il viaggio per
São Tomè diviene infatti un viaggio di incontro-confronto con gli altri africani, che lei stessa
definisce ‘africani’, quasi quindi a sottolineare la propria ‘non africanità’ (gli stessi africani chiedono
ai capoverdiani ‘Ma voi siete portoghesi?’, ma la questione dell’africanità dei capoverdiani verrà poi
meglio approfondita nel quarto capitolo)
Emerge dunque che il colonialismo portoghese ha attuato nei confronti dei capoverdiani una
politica del tutto differente rispetto a quella riservata agli altri africani: i capoverdiani vennero
trattati come dei ‘quasi portoghesi’ e fungevano dunque quasi da intermediari tra i coloni e i
popoli delle colonie.

5. La storia di Maria Giulia. Quarta giornata: l’amore e la morte


In questo capitolo Maria Giulia racconta del rapporto con il marito Germano, del corteggiamento,
del matrimonio e della morte di lui.
Maria Giulia sposa l’uomo della sua vita soltanto intorno ai 50 anni, poco prima della morte di
Germano.
Maria Giulia e le donne, anche quelle regolarmente sposate, sembrano sempre essere coloro che
mandano avanti la famiglia, quasi a sottolineare una sistematica ‘assenza’ dell’uomo all’interno dei
racconti e, in senso più ampio, all’interno della società capoverdiana.
E anche la descrizione che Teobaldo Virgilio fa del padre, in contrapposizione alla madre, come
‘colei che fa le cose concrete’, è emblematica.
Tuttavia, nonostante il fatto che nella maggior parte dei casi, sia sempre la donna ad occuparsi
della famiglia, tutte le donne capoverdiane sognano di sposarsi.
Secondo la cultura capoverdiana, doveva essere sempre l’uomo a corteggiare la donna, e la mano
della sposa doveva essere chiesta ai genitori di lei ma con loro non andava a parlare direttamente
lo sposo bensì una persona scelta da cui con una certa reputazione che andava dunque a recare il
messaggio, o scritto o orale, ovviamente accompagnato dal potenziale sposo.
La prima preoccupazione dei genitori di lui era quella di parlare con i genitori di lei per assicurarsi
la verginità della giovane: il mostrare il lenzuolo sporco di sangue della deflorazione avvenuta
durante la prima notte di nozze era un segno d’onore.
Tuttavia, non era facile assicurarsi che la donna arrivasse vergine al matrimonio, neanche a quei
tempi.
Il matrimonio si svolgeva in chiesa, e l’evento richiedeva mesi di preparazione: tutti, infatti,
collaboravano per la buona riuscita del matrimonio in un forte spirito di solidarietà.
Uno dei momenti fondamentali della cerimonia è il rituale di ‘ptà saùde’, durante il quale le donne
intonano un canto rituale indispensabile per la felicità di lei.
È interessante notare che nella canzone viene spessa ripetuta la frase ‘ ragazzetta bianca dai capelli
crespi’, espressione in cui ‘bianca’ si riferisce metaforicamente alla verginità della donna;
analogamente, ‘figli bianco dai capelli gonfi’, sottintende la convinzione che un bambino nato da
un’unione pura, ovvero da una donna arrivata vergine al matrimonio, sia bianco.
Dunque l’accostamento puro-bianco che traspone in un continuum verginità-donna pura-bianco
sottintende un’ideologia di classe e razza ben definita.
In conclusione, le donne anziane si auto-identificano attraverso il duro lavoro e la dedizione
familiare, che permette loro di avere un ruolo come mediatrici nelle relazioni di genere.
Le donne, come vedremo all’interno dei capitoli successivi, sembrano anche essere coloro che
mediano la mediazione con la morte attraverso i pianti rituali: il funerale è infatti il rituale che ha
più mantenuto le modalità tradizionali. Tuttavia, se prima per la morte di un parente prossimo si
doveva star chiusi in casa un anno e vestirsi di nero, ora non è più così.
È importante notare che anche nel caso della morte, a Santo Antão, è presente la distinzione dei
generi: quando muore un uomo, vi sono molti rintocchi di campane, mentre quando muore una
donna ve ne sono di meno.

6. La storia di Maria Giulia. Quinta giornata: le feste


Durante la quinta giornata, Maria Giulia analizza le feste, descrivendole come elemento centrale
nella vita delle donne di Ponta do Sol. La feste di cui la donna parla sono per la maggior parte
feste cattoliche, o relative ai sacramenti cattolici: feste dei santi patroni (feste di ‘romaria’), feste
del battesimo, della comunione, della cresima, del matrimonio, della Pasqua, del Natale ecc.
La religiosità è fortemente intrecciata alla gioiosità dei festeggiamenti. Gli abitanti di Ponta do Sol
vivono aspettando la prossima festa e sono coinvolti in lunghi preparativi per ognuno di essi.
La festa è una necessità e il momento cruciale per tutta la comunità, per la sua funzione di
coesione e per la sua funzione catartica.
Vari elementi si fondono tra loro per assicurare la buona riuscita della festa, come musica, danze,
bibite alcoliche, cibo.
La funzione catartica è maggiormente evidente nella festa del Carnevale, che appare come
competizione con la città di Ribeira Grande e come momento in cui gli abitanti danno sfogo alla
propria rivalità nei confronti della città vicina, tutti sembrano avvolti in un classico rito di inversione
secondo il quale ognuno può impersonare il personaggio che preferisce. Tuttavia, oggi l’aspetto
della competizione non è più presente perché a Ribeira Grande il Carnevale non si festeggia più.
Le feste di romaria, ovvero quelle patronali, che nonostante la variazione del patrono dei diversi
villaggi, si svolgono tutte nel mese di giugno, sono costituite da una varietà incredibile di elementi,
dal sincretismo religioso alle credenze e alle tradizioni, come la corrida dei cavalli, l’allestimento di
bancarelle che vengono tutti i prodotti tipi dell’isola.
L’obiettivo era duplice: quello religioso e quello di alleviare i mali come la peste. Queste feste,
infatti, si sono riprodotte come valvola di reazione alla sottomissione, aspetto che fornirebbe una
spiegazione all’estrema importanza attribuita a queste.
Sono le feste che, più di tutto, vedono le donne protagoniste; in primo luogo è stato messo in
rilievo che le feste di romaria siano un vero e proprio rito di iniziazione per le donne, in quanto è
un momento in cui quasi tutto è permesso, e dove tutte le donne potrebbero conoscere i propri
partners e perdere la verginità. Inoltre, le feste sono l’apoteosi del fare ‘negocio’ femminile: è in
queste feste, infatti, che il ruolo delle rabidantes transnazionali, che analizzeremo più in là, appare
in luce nell’isola di Santo Antão.
Anche nelle feste di romaria, così come nel matrimonio, è presente l’usanza di ‘rubare’ le persone,
gioco che diventa un pretesto per continuare la festa i giorni seguenti.
Di particolare rilievo è la festa di ‘Nossa Senhora do Livramento’ in settembre, festa della
protettrice di Ponta do Sol. Qui le donne si preoccupano soprattutto di organizzare una buona
accoglienza per coloro che vengono da fuori.
L’atmosfera, ancora oggi, è in tutto e per tutto simile a quella che si riscontra nei racconti delle
donne anziane.
In questa giornata, Maria Giulia, affronta anche la questione delle figure ricorrenti nell’immaginario
di Santo Antão.
Afferma infatti che le ‘bruxas’ (streghe) erano tutta una bugia, mentre i ‘massongos’ esistevano
veramente. La bruxa è forse la figura più presente nei racconti locali, donna dai poteri
soprannaturali, che uccide soprattutto i bambini, perché più vulnerabili.
Il metodo più utilizzato per allontanare i malefici della strega era quello di vegliare sul bambino
durante la notte del settimo giorno dalla sua nascita, per evitare che la strega lo mangiasse.
Per quanto riguarda invece la ‘massongaria’, a Ponta do Sol questa è stata una realtà di cui
nessuno ne mette in discussione la veridicità.
La ‘cachorrona’ è una figura altrettanto interessante: le donne che abortivano, dopo la morte
tornavano a scontare quella penitenza, ovvero crescere quel figlio che in principio non avevano
voluto.

7. La storia di Maria Giulia. Sesta giornata: pensieri sulla vita.


In quest’ultimo capitolo, Maria Giulia ripercorre alcune vicende significative della sua vita.

Spesso, durante il racconto, in particolar modo alla conclusione di ogni capitolo, l’autrice riporta,
tramite alcuni stralci di diario, alcuni episodi relativi agli spostamenti interni ed esterni all’isola.
Nel settembre del 2002, per la prima volta la Giuffrè torna in Italia, con Lu, il suo compagno
capoverdiano. Viene messo in evidenza quanto il viaggio, quasi come fosse tradizione, duri sempre
più del previsto.

CAPITOLO SECONDO: ‘DONNE A PONTA DO SOL OGGI’


1. La storia di Ernestina
Ernestina è una giovane donna di Ponta do Sol di ventisette anni al tempo dell’intervista, e perciò
coetanea dell’autrice.
La giovane donna ha alle spalle una storia piuttosto complessa: a quindici anni ha avuto il primo
figlio, e la sua condizione le ha creato non pochi disagi con i suoi genitori che in base alle sue
gravidanze la cacciavano di continuo di casa.
L’educazione che Ernestina dice di dare ai figli tende ad essere la stessa di quella che i genitori
hanno impartito a lei, anche se, nella sua educazione, sembra aver predominato la mancanza di
dialogo.
Ernestina ha assistito la sua giovane vita a grandi cambiamenti in un tempo molto ristretto, come
la luce a casa, il gas, la macchina e il telefono, tra gli altri.
L’intervista si è fatta piuttosto intima nel momento in cui la donna ha cominciato a parlare delle
violenze che gli uomini di Ponta do Sol riservano alle donne, venendo incoraggiata da Jenny,
donna norvegese che insieme all’antropologa ha assistito all’intervista, spiegandole che anche in
Norvegia accadono cose simili.
Infine Ernestina ha parlato delle relazioni con le sorelle emigrate, dicendo che queste non l’aiutano
affatto. La cosa più interessante di Ernestina è rivelata lo stretto rapporto che lei e il compagno
Djon stringono con i turisti: è per questo che la Giuffrè la definisce spesso la più grande ‘mediatrice
culturale’ dell’isola.
2. Le donne di Ponta do Sol oggi
I problemi nelle relazioni di genere sembrano assorbire in grande parte la vita e il narrare delle
donne, mentre nei racconti delle più anziane la problematica sembrava del tutto assente. Una serie
di fattori potrebbe spiegare questa ‘assenza’: la differenza tra la memoria e il modo di raccontarsi
di una donna anziana e di una giovane, le condizioni dure di vita della vecchia generazione e
quindi la vita assorbita dalla loro esperienza, che mette in secondo piano problematiche ‘minori’
come quella di genere.
Il gruppo delle amiche di Ernestina ha come tratto in comune il fatto che sono donne che non
hanno mai vissuto alcuna esperienza migratoria e che nessuna di loro sia sposata legalmente.
La maggior parte di loro condivide una condizione precaria di vita, e la loro età varia dai 26 ai 38
anni, con l’eccezione di Dulce, che ha circa 40 anni, e che, come narrato in un’intima intervista
offerta all’autrice, si rivela essere una donna di straordinaria pazienza con a carico ben sedici figli.

3. La rappresentazione da parte delle donne della tensione crescente nei rapporti di genere
la prima cosa che le donne mettono in evidenza durante le interviste è la violenza degli uomini
sulle donne.
A Capo Verde ‘un uomo ha l’usanza di picchiare la donna’.
Una delle ragioni con cui viene spiegata quest’usanza dalle donne stesse è la gelosia, anche per
piccole cose. Molte delle interlocutrici mettono anche in evidenza che se si fa ricorso alla polizia, il
più delle volte questa non interviene. In molti casi, pur volendo lasciare un uomo, non ci si riesce a
causa delle minacce: questo rende difficile la scelta da parte di una donna di lasciare un uomo,
perché anche una volta che la relazione è finita l’uomo continua a considerarla una ‘sua proprietà’.
Un altro aspetto che emerge praticamente in tutte le testimonianze, è l’infedeltà e l’irresponsabilità
degli uomini che in gran parte dei casi non aiutano la donna a crescere i figli. Uno dei problemi
cruciali che emerge è quello dell’alcool, una delle cause principali legate alla violenza: quando c’è
di mezzo l’alcool, spesso gli uomini, invece che contribuire al sostentamento dei figli, usano i soldi
per comprare il grogue (una sorta di rum facilmente ricavabile).
Questo problema appare in particolar modo tra le famiglie dei pescatori, che spesso, proprio a
causa della vita dura che svolgono, affogano i propri problemi nell’alcool.
Gli uomini, secondo le opinioni raccolte, sono interessati soltanto alla conquista, ma poi, dopo aver
ingannato le donne con le parole e averle conquistate, le lasciano, anche se non manca la
coscienza che le prima a perpetuare questo tipo di atteggiamento dell’uomo siano proprio le
stesse donne, che non si ribellano e fanno l’errore di fare molti figli con uomini irresponsabili.
La donna infatti, pur avendo coscienza dei propri diritti, spesso non riesce a farli rispettare.
Nel caso del mancato mantenimento dei figli, ad esempio, piuttosto che dover chiedere, preferisce
sacrificarsi da sola (quest’orgoglio appare molto sempre presente nelle donne di Capo Verde). Ma
molte volte non è solo l’orgoglio a determinare la non-azione: nel caso dei maltrattamenti si ha
anche paura a reagire.
Anche le donne sono molto gelose, e i rapporti si basano su equilibri molto delicati; oltre ad essere
gelose, anche le donne possono maltrattare gli uomini e risponde alla violenza con altra violenza.
Tuttavia non è solo la presa di coscienza della dominazione maschile da parte delle donne che si
sta facendo strada: qualcosa sta cominciando a cambiare anche nei comportamenti.
Questa parziale presa di coscienza ha mutato anche l’aspettativa nei confronti di se stesse e degli
uomini, infatti per molte di loro la soluzione migliore è essere da sole (una volta Antonia, ha detto
che ‘avere un uomo è come avere un altro figlio’ e che lei, avendo già figli, preferisce non
compromettersi con nessuno). Tutte queste testimonianze danno vita ad un panorama delle
relazioni uomo-donna piuttosto complesso, e la figura dell’uomo ne esce fortemente penalizzata
(violento, infedele ecc).
Secondo i dati dell’INSC le famiglie monoparentali rappresentano il 41% dei casi. Nel 41% dei casi
sono le donne ad essere ‘chefe’ di famiglia e circa l’81% dei figli nascono fuori dal matrimonio.
Come abbiamo già visto, la famiglia capoverdiana si caratterizza come una famiglia allargata
matrifocale: è presente un’alta percentuale di poligamia di fatto ed è molto difficile che un uomo
abbia figli con una sola donna.
Nonostante per legge i padri siano economicamente costretti a mantenere i figli, prevale una
tendenza generale delle donne a non far valere i propri diritti, o perché non ne sono a conoscenza,
o perché giustificano l’atteggiamento dei padri, o ancora, come abbiamo già visto, per una
questione di orgoglio.
Questo porta a differenziare la poligamia capoverdiana dalle altre società poligamiche dell’Africa
Occidentale, dove di regola l’uomo si assume pienamente la responsabilità delle varie famiglie che
forma.
È necessario anche attuare un’importante differenza tra le ‘mulher de filho’ e le ‘mae de filho’: se
la mulher è la donna ufficiale, la moglie, le maes de filhos di un uomo possono essere molte, ma
non ci si vive insieme, e sono donne che spesso si hanno fuori dal matrimonio e di condizione
sociale inferiore rispetto alla moglie.
Nonostante la diffusione della poligamia in generale, le donne aspirano a unioni monogamiche e
al matrimonio, che viene ritenuto come un consolidamento della coppia molto più forte della prole
in comune.
Possiamo dunque affermare che le donne di Ponta do Sol sono, per questo verso, rappresentative
della condizione generale delle donne capoverdiane.
La donna, pur essendo, in maniera più o meno accentuata, consapevole dei propri diritti, si
comporta in modo ambiguo, ora opponendosi alla cultura maschilista in cui vive, ora
giustificandola: i giudizi sul passato della relazione uomo-donna sono un chiaro esempio di questa
ambiguità di fondo.
Molte delle donne intervistate, infatti, affermano che le donne di una volta erano trattate con più
rispetto, che gli uomini erano migliori e che anche le donne avevano più valore una volta.
La storia di Ilidia esemplifica alla perfezione quest’ambiguità: questa lascia il fidanzato a causa
dell’alcool, perché suo padre era alcolista, e non voleva rivivere ciò che sua madre aveva vissuto,
ma nonostante abbia fatto la scelta di rompere la sua relazione, Ilidia sembra sempre rimpiangere i
tempi in cui uomo e donna restavano insieme, quasi scordandosi di aver attuato una scelta che sua
madre non ha fatto, rimanendo appunto col marito nonostante tutto. Dunque il comportamento
del padre viene visto da Ilidia come quello di un uomo che rispettava molto sua moglie, mentre lo
stesso atteggiamento da parte del compagno viene visto come motivo di rottura.
Quello che appare davvero nuovo è il modo in cui questi rapporti sono vissuti: il carattere di
conflittualità che queste modalità assumono oggi è sicuramente un segno del fatto che la donna
stia cominciando a mettere in discussione i modelli dominanti di potere esistenti; una donna, una
volta, accettava di più questa situazione, non si ribellava, mentre oggi ha cominciato a prendere
coscienza dei suoi diritti e della sua condizione di discriminata.
Un altro elemento di tensione che emerge è quello di un apparente scarsa solidarietà femminile,
un elemento che sembrerebbe recente.
La differenza tra le ‘mae’ e le ‘mulher de filho’, abbiamo visto essere una differenza importante, ma
oggi la donna capoverdiana sembra non accettare più questa situazione e sembra non voler
condividere il suo uomo con nessun’altra.
Infine, sottolineiamo che il modello organizzativo capoverdiano è stato in parte spiegato da alcuni
autori con l’emigrazione maschile: una società dunque, retta dalle donne per ‘assenza di uomini’.
Ma il fenomeno delle numerosi madri, definite ‘single mothers’, non è solo determinato dalla
partenza degli uomini in generale, ma è piuttosto una forma peculiare di famiglia da non
confondere con quelle formate dalle moglie di emigranti e dai loro figli.
Possiamo dunque affermare che, il modello della relazione uomo-donna rappresenti un elemento
di continuità con il passato, elemento che trova la sua ragione di essere nel processo storico della
realtà capoverdiana, mentre le crescenti tensioni uomo-donna e donna-donna sono invece un
elemento nuovo.

4. I paradossi di una forma rizomatica di maschilismo


Abbiamo appena messo in evidenza che nonostante le donne capoverdiane abbiano oggi una
nuova coscienza dei propri diritti, esse sembrino in parte riprodurre i modelli di dominazione
maschile.
Secondo Bourdieu, il dominio maschile è l’esempio per eccellenza di una sottomissione
paradossale, effetto di una violenza simbolica, che si esercita in modo impercettibile attraverso le
vie della comunicazione della conoscenza. Le forme di dominazione sono presenti anche nelle
condizioni soggettive come categorie di percezione o valutazione, quelle che Bourdie chiama
‘habitus’.
L’habitus si forma storicamente ma viene acquisito come se fosse universale.
Secondo Bourdieu, questo habitus per potersi riprodurre e per essere acquisito, deve essere
condiviso sia dagli uomini che dalle donne. Questa dominazione è radicata molto profondamente
e riprodotta a livello inconscio come ordine naturale delle cose e gode quindi di un’autonomia
relativa rispetto alle strutture economiche.
Per rompere queste struttura, dunque, è necessario attuare una lotta cognitiva, cosa che però non
avviene.
Anche l’uomo ovviamente è vittima di questa rappresentazione dominante e, per sentirsi adeguato,
dovrà comportarsi secondo le prescrizioni del codice dominante androcentrico (onore, coraggio
ecc). potremmo considerare il modello di dominazione maschile a Capo Verde come un habitus
profondamento radicato nel processo storico della formazione della società capoverdiana.
Anche il lavoro è fortemente diviso sessualmente, e anche qui i lavori considerati meno nobili e più
faticosi sono riservati alle donne, che si occupano infatti di vendere il pesce pescato dagli uomini,
di fare i lavori di casa, di occuparsi dei figli, e di trasportare i pesi, e che svolgono tutti lavori il cui
valore è scarsamente riconosciuto.
Tuttavia, il modello di dominazione maschile e di divisione sessuale del lavoro, permane e
significativo è il fatto che in questo contesto la donna non si presta ad attività lavorative aperte ad
entrambi i sessi offerte dal Comune, perché non vuole esercitare una professione ritenuta maschile.
Definiamo questo habitus ‘rizomatico’ poiché è il prodotto di molte violenze simboliche esercitate
sulla donna capoverdiana, che si sono sintetizzate nel processo storico di formazione della società
capoverdiana, in un unico modello di dominazione maschile.
Questa forma di maschilismo crea delle aspettative sociali riguardo a quello che deve ‘essere’ una
donna in senso compiuto e, nello stesso tempo, le nega la possibilità di realizzare queste
aspettative.
Inoltre, l’avere i figli è per molte donne povere l’unica possibilità di riscatto sociale, una risorsa
importante per assicurarsi un aiuto in vecchiaia (magari nella speranza che il figlio un giorno possa
emigrare e mandare a casa delle rimesse) ma è proprio nel momento in cui si ha un figlio che
l’uomo abbandona la donna.
Dunque siamo nuovamente di fronte ad uno dei tanti paradossi della società di Capo Verde: la
donna per sentirsi ‘donna’ deve avere un compagno accanto, e mostrargli attaccamento facendo
un figlio con lui, perché la tradizione le concede rispetto solo così, ma nello stesso tempo, questo
contrasta con la libertà sessuale degli uomini, che per essere davvero ‘uomini’ non devono legarsi
a nessuna donna.
Un altro paradosso molto evidente è il fatto che la donna, per tradizione, deve sottomettersi alla
volontà dell’uomo, e riconoscere il suo ruolo di ‘pater familias’, mentre poi come abbiamo visto,
non potranno contare molto sulla presenza dell’uomo, e divengono esse stesse ‘chefe’ di famiglia;
ma anche nel caso in cui abbiano una relazione stabile con un uomo, l’uomo viene
deresponsabilizzato e delega alla donna il più possibile per tutte le decisioni di casa.
Dunque la donna ha un potere enorme che però non le viene riconosciuto, non solo nel gestire il
capitale simbolico della famiglia, ma anche nel sostentamento della stessa.

5. Un’analisi dei processi storici di formazione dell’ideologia dominante attraverso


l’interrelazione delle categorie di classe, ‘razza’, etnia e genere
Come è stato affermato da Stephanie Urdang, le donne hanno sofferto in queste terre di una
triplice oppressione: il colonialismo, il razzismo e il maschilismo, senza considerare altre due forme
di oppressioni quali il cattolicesimo e il classismo, che si sono tutte andate sintetizzando in
un’unica struttura di dominio maschile.
Cominciamo con il vedere come classe, ‘razza’, genere ed etnia si siano andati integrando nel
processo di formazione della società capoverdiana. Come punto di partenza, dobbiamo
considerare che quello portoghese non è stato un colonialismo radicale, ed era molto lontano
dalla democrazia razziale che vantava. Anche le classi sociale erano sottilmente razziste in tutto il
processo storico della formazione di capo verde. La classe sociale a Capo Verde ha il potere di
‘sbiancare’ le persone e il creolo, infatti, viene usato come categoria razziale oltre che come
categoria linguistica.
I capoverdiani, inoltre, venivano usati dai portoghesi come intermediari nelle altre colonie
lusofone, spesso con il ruolo di amministratori coloniali: la strategia del colonialismo portoghese
diviene quindi quella di trasmutare le questioni razziali in questioni culturali.
Il colonialismo presupponeva un’idea di superiorità economica, culturale e razziale: bianco e nero
(‘branco e preto’) al di là di descrivere esclusivamente delle caratteristiche fenotipiche, rientrano in
un’ideologia razziale specifica, che lega il colore al luogo d’origine, al comportamento morale e al
carattere.
La gerarchia classe/colore si manifesta esplicitamente nei rapporti di genere, seguendo modelli
sviluppati durante la schiavitù, che non rendeva possibile la stabilità familiare.
Molto spesso, inoltre, i colonizzatori, avevano relazioni intime con le loro schiave, in questo senso il
potere sessuale e il potere economico diventano tutt’uno.
Inoltre, proprio perché la presenza di bianchi era soprattutto maschile, la relazione (‘branco/preto’),
come relazione di potere di tipo intimo, si è realizzata storicamente come relazione uomo-donna.
È importante fermarci anche a riflettere su quale fosse la funzione della poligamia informale, in
questo contesto di potere economico e sessuale congiunti: ad attuare la poligamia erano
soprattutto i dominatori, come nel caso di Jon Serra, che come abbiamo visto dalla testimonianza
di Maria Giulia, aveva molti figli illegittimi.
Il punto è che prima c’erano pochi uomini nella condizione di poter essere dei ‘pai de filhos’; le
‘maes de filhos’, dal loro canto, consapevoli di non avere possibilità di essere spose, per la loro
condizione inferiore, ricercavano più che un compagno un uomo che le potesse aiutare
nell’allevare i figli.
Tuttavia, oggi, l’uomo sembra essere più de-responsabilizzato, e una spiegazione della diffusione
di questa poligamia informale potrebbe essere rintracciata nel fatto che, nel momento in cui Capo
Verde diviene indipendente, le differenziazioni di status tra benestanti e poveri si fanno ancora più
marcate, mancando l’elemento portoghese cui contrapporsi.
Un fattore importante che potrebbe aver causato una maggior differenziazione e immobilità
sociale è stato probabilmente l’emigrazione.
Secondo Gilroy, ‘è possibile sostenere che una mascolinità amplificata ed esagerata sia diventata il
riferimento centrale e esibizionista di una cultura della compensazione, che
(auto)consapevolmente lenisce il dolore dei senza potere e dei subordinati ’.
Questa interpretazione va collocata all’interno della sua teoria del ‘Black Atlantic’, ovvero
l’Atlantico Nero, di cui può essere considerato parte anche Capo Verde, che è per Gilroy, ‘la
formazione storica di uno spazio politico e socio-culturale ibrido, delocalizzato’, che comprende sia
la rotta tradizionale degli schiavi Africa-Americhe sia il vissuto della comunità nera degli immigrati
nella Gran Bretagna post-coloniale, e sul quale spazio si è andata configurando la ‘black diaspora’.
L’Atlantico Nero si presenta in una posizione opposta a quello dello Stato nazionale moderno.
Inoltre possiamo affermare che la mascolinità, la misoginia, i rapporti negativi di genere, siano il
prodotto di una violenza che colorava l’intera vita coloniale, ed era riprodotta nelle relazioni più
intime.
L’oppressione culturale, economica, sociale del colonialismo e della schiavitù, insomma, si è perciò
andata strutturando in modo profondo nelle relazioni uomo-donna. È importante sottolineare che
questa cultura del potere maschile emerge in maniera molto forte anche nei racconti
dell’immaginario capoverdiano: come abbiamo visto, la ‘bruxa’ è donna, e gli uomini possono
soltanto apprendere l’arte della stregoneria, ma non è una qualità innata in loro; inoltre le figure
maschili dell’immaginario capoverdiano, come il ‘massong’ appaiono essere il corrispettivo
maschile della ‘bruxa’ e dunque non esistono ‘donne massongos’ perché la loro codardia ‘non
lasciava osare tanto’. Il ‘massong’ inoltre, è una figura legata al potere e al successo, a differenza
della ‘bruxa’, legata ai comportamenti sbagliati nei confronti del bambino.

6. Relazioni intergenerazionali: lo Stato, la Scuola, la Chiesa e la Famiglia come luoghi di


riproduzione della violenza e della dominazione maschile
Secondo Bourdieu, la rivoluzione della gerarchia dei generi e del conseguente maschilismo era
assicurata da quattro istituzioni, che agivano sulle strutture inconsce:
1) La Chiesa è abitata da un anti-femminismo profondo nel clero, regolando una morale
familista regolata dal dogma dell’inferiorità della donna
2) La Scuola continua a riprodurre e trasmettere i modelli della rappresentazione
patriarcale; tuttavia, è un’istituzione dal ruolo ambiguo, perché è nello stesso tempo un
odei luoghi decisivi della trasformazione delle relazioni dei generi tramite l’accesso
delle donne all’istituzione.
3) Anche lo Stato riproduce le prescrizioni del patriarcato privato per mezzo di un
patriarcato pubblico, che si inscrive in tutte le istituzioni che gestiscono e regolano
l’essenza quotidiana dell’unità domestica.
Con l’istituzione della repubblica a Capo Verde, in teoria le leggi garantiscono
l’uguaglianza dei sessi in tutti i campi, ma nella pratica, le situazioni di discriminazioni
avvengono in tutte le circostanze.
4) Ma è la famiglia il fulcro della riproduzione della dominazione maschile, perché è qui
che si impone l’esperienza precoce della divisione sessuale del lavoro e della
rappresentazione legittima di questa suddivisione.

7. La relazione con l’esterno: i modi che le donne di Ponta do Sol hanno di ‘viaggiare-nel-
risiedere’
La possibilità di viaggiare non è un privilegio concesso a tutti. Le donne di Ponta do Sol infatti
hanno diversi modi di ‘viaggiare-nel-risiedere’, vale a dire di entrare in contatto con l’esterno pur
non spostandosi fisicamente.
Questa condizione può coinvolgere forze che potentemente passano attraverso la televisione, la
radio, i turisti, le merci, e così via.

7.1 Televisione, telenovelas, e nuovi modi dell’essere donna


La televisione rappresenta a Capo Verde un potente mezzo di formazione, informazione ed
educazione e fonte di principale comunicazione con l’esterno. A Ponta do Sol la televisione
rappresenta un forte momento di socializzazione in quanto il più delle volte la si guarda e
commenta insieme. In particolare, accendere la televisione rappresenta un segno di
ospitalità soprattutto tra i giovani.
Alle telenovelas vengono attribuiti significati differenti a seconda della cultura che li
recepisce. Nella recezione dei media, si assiste ad un vero e proprio processo di re-
invenzione delle identità e si creano nuove alleanze: in altre parole, si assiste ad una
costruzioni di relazioni tra individui separati territorialmente.
Dunque il consumo dei prodotti televisivi viene ormai considerato da molti un processo che
darebbe origine ad una relazione tra pratiche del consumo ed identità sociale (a Ponta do
Sol vi era un cinema, motivo per cui le donne hanno già avuto modo di confrontarsi con un
mondo esterno).

7.1.1 Terra Nostra Esperança


‘Terra Nostra Esperança’ permette alle donne di Ponta do Sol di riflettere in modo
diretto su se stesse e sulla propria posizione, perché parla di loro in modo traslato e
meno conflittuale.
‘Terra Nostra Esperança’ è una telenovela che parla degli emigranti italiani arrivati in
Brasile dopo l’abolizione della schiavitù. I temi trattati a proposito di italiani
rispecchiano sotto molti punti di vista la realtà capoverdiana: l’emigrazione, la nostalgia
ecc.
Il modo in cui gli italiani sono rappresentatati, ovvero poveri e semplici, permette in un
gioco di specchi l’identificazione con gli italiani stessi. Interessante notare come
Ernestina abbia cambiato atteggiamento nei confronti dell’autrice in seguito alla visione
della telenovelas (prima pensava fosse ricca, poi si è chiesta ‘ Allora anche gli italiani
sono poveri?’).
L’aspettativa più grande che viene colmata dalla telenovela è quella nei confronti degli
uomini che incredibilmente, qui esaudiscono la ricerca di un uomo fedele e romantico.
Ma le aspettative delle donne su cosa bisogna fare per sentirsi davvero donna non
vengono frustrare: al contrario, ciò che esse fanno per riuscire a tenersi un uomo, se
nella realtà non funziona, nella finzione mediatica risulta un codice di comportamento
vincitore.
Si ricompone dunque, in Terra Nostra Esperança, l’identità che nella realtà capoverdiana
non si può realizzare, e qui la donna può essere artefice del proprio destino.

7.2 La relazione con le straniere (turiste occasionali, turiste cicliche e residenti)


Il contatto con gli stranieri e l’immagine che questi hanno con le donne influisce sulla
percezione che le donne di Ponta do Sol hanno della propria identità.
A Ponta do Sol ci sono infatti vari tipi di stranieri: turisti occasionali, coloro che vengono per
pochi giorni e non hanno il progetto di tornare, i turisti ciclici, che tornano spesso durante
l’anno a Ponta do Sol, e infine gli stranieri residenti, quelli ciclici che decidano di restare per
periodi variabili.
Diciamo che il contatto diretto con le turiste e con il loro modo di essere donne è
sicuramente problematico, soprattutto perché le turiste rimandano un’immagine negative
di loro stesse, come donne scarsamente emancipate. Quando si attua invece il passaggio da
turista a straniera residente, le cose cambiano:, in poche parole, è solo quando lo straniero
si avvicina alla cultura locale e diventa un po’ ‘capoverdiano’, che l’interscambio non viene
più visto come negativo.
Ernestina entra per prima in contatto con gli stranieri, e questa cosa non è molto ben vista
dalle sue amiche.
A volte è anche la paura del confronto, del non ‘sentirsi adeguata’, a scoraggiare le donne a
non entrare in contatto con le straniere. L’ambiguità della relazione con lo straniero può
anche essere spiegata con una sorta di sentimento di nazionalismo, che rende l’immagine
che i locali hanno dei turisti fortemente stereotipizzata, almeno fino a quando non si entra
in contatto diretto con loro.
Le straniere sono donne che viaggiano, che possono muoversi attraverso i confini e partire
quando vogliono, avendo dunque il privilegio rispetto alle donne di Ponta do Sol di
muoversi liberamente. Spesso poi le straniere sono corteggiate dagli uomini locali, cosa che
fa nascere una certa conflittualità tra le due ‘fazioni’. Inoltre, le straniere percepiscono e
giudicano la condizione femminile a Ponta do Sol, influenzando la loro identità e
mettendola parzialmente in crisi, perché considerano la donna vittima, poco emancipata e
sottomessa all’uomo.
Inoltre, le donne straniere residente possono essere considerate come amiche
particolarmente adatte per una confessione, in quanto se da un lato sono parte della
comunità, e quindi in grado di capire, dall’altro, essendo comunque esterne, non attuano
critica sociale all’interno della comunità.

Anche questo capitolo, si conclude con un pezzo di diario dell’autrice, che per la prima volta torna
a Ponta do Sol, riconfermando la tradizione del viaggio lungo e realizza per la prima volta di essere
tutt’uno con il paesaggio capoverdiano.

CAPITOLO TERZO: ‘DONNE CHE VIAGGIANO’


1-2. La storia di Nita: l’esperienza migratoria e il viaggiare al femminile.
Nita, principale personaggio di questo capitolo, è una delle ‘donne viaggiatrici’, perennemente
divisa tra Roma e Ponta do Sol e che rappresenta una realtà recente a Capo Verde.
Il viaggio verso la Terra Longe (l’estero), ha rappresentato e rappresenta tutt’ora un momento
importante.
Leed offre una tipologizzazione della figura del viaggiatore, che cambia a seconda del tempo
storico: l’eroe antico vive il viaggio come una prova voluta dal destino, l’eroe medievale parte per
una scelta del tutto individuale, il viaggiatore moderno che attua tramite il viaggio una fuga dalla
propria civiltà e, per ultimo, il viaggiatore contemporaneo, il turista, che ritiene la fuga non più
possibile nella società globale dei viaggiatori. Infine, ci sono tutti quelli il cui viaggio è negato, e
che sono relegati all’immobilità.
Carling sottolinea come ‘l’immobilità involontaria’ sia parte integrante del processo migratorio:
molte persone infatti desiderano emigrare ma si trovano nell’impossibilità di farlo.
Il processo migratorio andrebbe dunque disgregato in due parti distinte: da un lato l’aspirazione, e
dall’altro la capacità. Secondo l’antropologa Ruba Salih, la mobilità è fortemente condizionata dal
genere e le donne non sempre hanno la possibilità di muoversi a causa dei ruoli culturali normativi
e forme patriarcale del ruolo dei sessi.
Le poche viaggiatrici, di solito borghesi e bianche, sono figure insolite: le donne infatti sono
sempre state associate alla casa, e gli uomini al viaggiare.
L’arcipelago di Capo Verde, in particolar modo, è stato associato all’immagine di isole di donne
che restano e casa e di uomini che viaggiano; le donne, con l’unica eccezione dell’emigrazione
forzata per São Tomè, sono rimaste, nella maggior parte dei casi, le custodi delle case e delle
tradizione di Capo Verde. Ultimamente, però, le cose sono cambiate.

3. Emigrazione: modello maschile e modello femminile


Negli ultimi anni, Carling ci parla non solo di un declino
ma anche di una femminilizzazione dell’emigrazione.
Questo fenomeno è dovuto principalmente a due
fattori: in primo luogo, al passaggio dall’emigrazione
determinata dalla ricerca del lavoro all’emigrazione per
il ricongiungimento familiare e in secondo luogo alla
crescita della richiesta di lavoro indipendente da parte
delle donne nei territori esteri.
Questa femminilizzazione dell’emigrazione si inserisce
in un contesto globale definito ‘emigrazione femminile
indipendente’: in effetti l’emigrazione maschile ha
assunto caratteristiche diverse del modello di
emigrazione femminile.
Mentre potremmo definire l’emigrazione degli uomini come ciclica-temporanea, quella delle
donne sembra subito assumere le caratteristiche di un’emigrazione definitiva.
Può essere utile perciò in questo caso utilizzare la nozione di ‘periplo’ di Catani: il periplo,
tradizionale di molte società africane, non è l’equivalente dell’emigrazione originate dalla
supremazia delle ideologie occidentali.
Nel caso dei capoverdiani, se la rottura è evidente in chi decide di partire per restare e il concetto
di ‘periplo’ vale, ovviamente per l’emigrazione dei migranti che partono per tornare ma pi
finiscono per restare si passa dal periplo al prevalere del modello occidentale.
Questo è quello che spesso succede alle donne, che una volta arrivate nel luogo di immigrazione,
formano la propria famiglia per poi stabilirsi definitivamente.
Dalla donna che resta a casa ad aspettare, si è passato dunque all’emigrazione femminile e la
differenza con quella maschile è lampante: le capoverdiane emigrano come domestiche, e mettono
su famiglia.
Si passa dunque dall’emigrazione come periplo attuata dagli uomini all’emigrazione come
‘individualizzazione’ attuata dalle donne.
Un aspetto che è importante sottolineare è che, con l’emigrazione femminile, il modello della
matrifocalità sembra rinforzarsi: il modello matrifocale, in cui i genitori educativi spesso non
coincidono con i genitori biologici, preesiste all’emigrazione femminile, e non ne è dunque
determinato, ma piuttosto la facilita.

4. Le donne emigranti: il processo migratorio come desiderio e realizzazione del desiderio


Il processo migratorio va visto nel suo duplice aspetto: il desiderio di emigrare e la realizzazione di
tale desiderio.
In alcuni casi, la voglia di emigrare può nascere anche dalla sete di conoscenza; spesso è data
anche dall’immaginario relativo alla Terra Longe, come una specie di Terra Promessa, perché
spesso anche quando alcuni emigranti che tornano svelino la difficoltà e l’illusione della terra
lontana, la tendenza è sempre quella di dar credito a chi piuttosto ne perpetua l’illusione. Infatti,
per le donne che partono, subito la Terra Promessa diviene ‘terra della disillusione’, dove ci si deve
adattare subito a ritmi diversi e a orari stremanti. Ci sono anche alcuni casi, invece, in cui chi parte
viene sopraffatto dal senso di nostalgia del marito, della famiglia, della casa, e finisce per tornare.
La motivazione economica è dunque una delle motivazioni che spingono le donne ad emigrare,
ma non l’unica.
Ciò che emerge dalle testimonianze infatti è che la storia delle cause dell’emigrazione di Ponta do
Sol è tutt’altor che omogenea e segue piuttosto percorsi differenziati. È interessante la
considerazione di Catani sull’evento migratorio come ‘scelta di individualizzazione’: l’emigrazione
verso una società industriale va vista come la transizione dei soggetti da un sistema di valori ad un
altro e in questo senso l’emigrante opera una frattura con i membri della comunità d’origine, e
opta per l’affermazione di sé.
In effetti le donne capoverdiane partono per individualizzarsi e per realizzarsi come donne.

5. I migranti, le rimesse, e lo sviluppo. Alcuni dati.


Vi sono anche delle ragioni concrete per cui viene attuata una mitizzazione dell’estero, la prima
delle quali è sicuramente la grande quantità di rimesse inviate dagli emigranti a Capo Verde.
Le rimesse degli emigranti hanno ovviamente comportato una grande differenziazione sociale ed
avere un parente emigrato diventa un privilegio ed una fonte di prestigio. L’emigrazione è infatti
rappresentata a Capo Verde come il principale mezzo di elevazione di status: è perciò chiaro che
viene vista da chi rimane con una possibilità auspicabile e come un desiderio da realizzare.
I migranti hanno contribuito in modo consistente allo sviluppo economico e industriale del paese,
non solo con le rimesse ma anche influenzando le politiche degli aiuti internazionali, seppur in
modo indiretto.
Si può perciò dire che i migranti abbiamo agito come dei veri e proprio ‘agenti innovatori’, e come
portatori di fondamenti di altre culture. L’emigrazione, infine, ha avuto un ruolo centrale nel
processo di indipendenza: indipendenza e emigrazione si sono influenzate reciprocamente.
L’idea della nazione capoverdiana nasce con l’emigrazione negli Stati Uniti, dove si apprendono
nuove idee e valori democratici.

6. Il potere ‘aggiunto’ dell’esterno: considerazioni sull’esterno che dà prestigio


Alle persone e con esse agli oggetti che provengono dall’estero, viene attribuito un potere
‘aggiunto’, e il fatto di possedere oggetti o familiari provenienti dall’estero dà prestigio in
generale. L’emigrante rappresenta diverse cose: un possibile arricchimento, un possibile aiuto per
un’eventuale futura emigrazione, il riscatto personale nel momento del suo ritorno, e così via.

7. Il potere ‘aggiunto’ come superamento del pericolo: la storia del cavallo ‘de perna quevrata’
La storia del ‘cavallino dalla zampa rotta’, dà l’idea di un esterno come qualcosa di ambiguo e
pericoloso, ma allo stesso tempo è potere ‘aggiunto’, non solo di forza sovrannaturali ma anche
nel senso di un prestigio nuovo che si acquisisce.
La storia narra di un signore che raccomanda al figlio di non montare mai sul ‘cavallino dalla
zampa rotta’, perché lo avrebbe condotto in un mondo in cui gli uomini l avrebbero mangiato.
Il ragazzo non obbedisce e giunge in un posto completamente misterioso, ma grazie al suo
ingegno, dopo esser stato catturato dagli uomini di cui si narrava, riesce a distrarli e ad escogitare
un piano per ferirli e poi scappare.
Il racconto ha forti finalità pedagogiche: bisogna fare attenzione perché la terra estera è piena di
pericoli e di gente crudele, ma con l’astuzia si può tornare vittoriosi.

L’autrice descrive il suo secondo ritorno a Roma, raccontando la sua sensazione in aereo, dove,
circondata da tutti italiani che avevano visitato l’isola in qualità di ‘turisti’, realizza di avere una crisi
d’identità, quasi come se l’essere italiana non le appartenesse più, e quasi come a condividere i
pensieri dei capoverdiani sui turisti occasionali visti in maniera negativa.
8-9. La storia di Nita e il luogo d’origine: le relazioni tra donne che partono e donne che
rimangono
Se da un lato l’esterno da prestigio, la relazione con il migrante che torna non è priva di ambiguità.
La critica alle donne che migrano è forte: quando queste tornano, vengono spesso prese in giro da
chi resta, come ad esempio le donne emigrate in Italia che vengono soprannominate ‘ Fiat’.
In tutti i casi, l’affibbiare un soprannome agli immigrati sta a significare: ‘ Tu sei diventato un altro’.
La presenza dell’emigrante da una parte sviluppa il desiderio di emigrare, dall’altra chi rimane si
sente spesso sottovalutato e trattato come se fosse inferiore. A detta di chi rimane, il più delle
volte, gli emigranti quando tornano si danno arie di superiorità e non mantengono spesso le
promesse di aiutare chi rimane e non rispettano i proprio doveri famigliari scordandosi della
propria famiglia.
Dall’altro lato, le donne che emigrano affermano di sentirsi sempre le stesse, ma che le
compaesane ‘pretendono’ da loro.
Come afferma Nita, anche se lei non cambia mai, l’impressione è che sia chi resta a cambiare,
perché sono orgogliosi e perché sviluppano una specie di complesso: le sue amiche si devono
sentire ‘cercate’ dall’emigrante che torna. Tuttavia, è anche vero che gli anni all’estero hanno
indubbiamente cambiato il loro modo di essere.
L’incomunicabilità tra chi resta e chi parte è data da qualcosa che ha fatto diventare chi è partito
irrimediabilmente ‘altro’: l’evento migratoria agisce come una linea di marcazione insanabile e in
che resta subentra una forma di orgoglio.
Allo stesso tempo, però, l’emigrante ha dei diritti: quando ritorna gli viene dato un rispetto enorme
da parte della famiglia, mentre il turista non ha obblighi ne diritti così definiti.
Le donne migranti, dunque, mettono in gioco ‘uno status ambiguo di insider/outsider’ nella loro
comunità di origine, connesso alla condizione migratoria che per molti aspetti viene
costantemente enfatizzata.

10. Il viaggio migratorio come ‘rito di iniziazione’


Il viaggio migratorio sembra in un certo senso non concludersi mai completamente: i periodici
ritorni al luogo d’origine, le visite ai parenti sparsi nel pianeta, e persino i viaggi turistici per
l’Europa assumono connotazioni molto spesso legate all’evento migratorio iniziale.
Il ritorno è un evento importantissimo: è solo con il ritorno che si può sancire definitivamente il
cambiamento avvenuto e il successo dell’esperienza, ed è solo con il ritorno che molti conciliano
quel sentimento di coesione con il luogo verso cui sono emigrati.
Una volta all’isola, essi si auto-percepiscono e vengono percepiti dagli altri in maniera diversa
rispetto a chi è rimasto, come abbiamo visto, cambiati, quasi ‘stranieri’. In molti casi, il migrante,
come nel caso di Nita, diviene il misuratore del cambiamento della comunità poiché diviene
attento osservatore di ciò che nella comunità cambia e si fa giudice di questo cambiamento.
Dunque al di là delle diverse sfumature, il luogo d’origine è per gli emigranti il referente principale
attraverso cui misurare il proprio cambiamento e tanto i compaesani quanto gli emigranti
percepiscono la differenza culturale che si è creata tra loro.
In poche parole, l’essere ‘meno capoverdiano’ è uguale a essere ‘più straniero’, ma
quest’interpretazione non è valida laddove il migrante non torni più al luogo d’origine, operando
una rottura totale.
Dunque, il ciclo dell’emigrazione dal luogo d’origine-primo ritorno, può anche essere letto come
rito di passaggio: anche il migrante infatti si distacca dal luogo familiare e si immerge in una
situazione straordinaria per poi tornare, arricchito dalla propria esperienza, allo stato di partenza.
Il rito di passaggio compiuto dal migrante viene considerato secondo Turner per tre motivi
fondamentali:
1) Il fatto che Turner faccia riferimento alle società complesse, come quella capoverdiana
2) L’attenzione che Turner pone all’’interno del ‘dramma sociale’, al momento di crisi, che è
considerato all’origine delle trasformazioni sociali. La crisi, viene posta infatti
dall’antropologo come soltanto una delle fasi del rito di passaggio che si articola:
a) Infrazione
b) Crisi
c) Azione riparatrice
d) Reintegrazione o riconoscimento dello scisma
3) Il fatto che il conflitto non si risolve sempre con uno stabilimento dell’ordine, ma al
contrario a volte se ne afferma uno nuovo.
Turner aggiunge che l’esperienza migratoria sembra essere vissuta non solo come crisi ma anche
come sperimentazione di sé e avventura.
Innanzitutto, le quattro fasi di Turner non sono nettamente separate ma al contrario si intrecciano
l’una nell’altra. Sta di fatto comunque che si produce un conflitto tra il desiderio di scoprire la Terra
Longe e quello di restare nella Terra Mamaizinha.
La permanenza nella Terra Longe viene concepita da molti come un momento ‘liminoide’, e a
questo momento Turner dedica una particolare attenzione, perché si caratterizza non soltanto
come momento di passaggio tra due mondi, ma anche come momento di alta tensione.
Le isole, infatti, vengono ricordate sia come terra che ha costretto ad emigrare, sia come terra
paradisiaca, dove tutto era armonico (nello stesso racconto di Nita, è presente questa mitizzazione
delle isole). Questa fase ‘liminoide’, si conclude con il primo ritorno alle isole, che è, come abbiamo
visto, un momento fondamentale nella presa di coscienza del proprio cambiamento.
Il processo migratorio introduce, nel caso del migrante che torna contemporaneamente alle isole,
una variante all’interno della schema turneriano: infatti se il viaggio di ritorno può essere letto
come ultima fase di un rito di passaggio iniziata tempo prima con la migrazione, nel contempo
esso si connota anche come prima fase di un processo inverso, ovvero la vita all’estero. Col tempo
dunque, la vita all’estero diviene l’ordinarietà e il viaggio di ritorno alle isole, se da un certo punto
di vista è visto come ‘ritorno alla normalità’, dall’altro è visto come momento straordinario.

Anche da questo viaggio, si torna cambiati: da una parte si è diventati consapevoli che nonostante
la forte nostalgia ormai la propria vita è all’estero; dall’altra, tuttavia, si auto-percepisce comunque
come fortemente capoverdiani.
Ci si sente dunque capoverdiani all’estero ma non più capoverdiani a Capo Verde, dove si è
percepiti come ‘stranieri’.
L’esperienza migratoria, dunque, crea nuovi modi originali di essere e il fatto di poter attingere a
due culture differenti, invece che una limitazione, può divenire arricchimento.
La soluzione a questa duplica appartenenza diviene per molti capoverdiani il ritorno periodico al
luogo d’origine per lunghi periodi: gran parte dei capoverdiani torna ciclicamente nelle isole.
Il viaggiare dunque sembra divenire parte costitutiva della nuova identità (Nita infatti, torna ogni
anno a Ponta do Sol, e come lei, molte altre).

11. I modi che le donne emigranti hanno di ‘risiedere-nel-viaggiare’


Abbiamo visto che Ernestina e le sue coetanee hanno modi di ‘viaggiare-nel-risiedere’, che
permettono loro di rinegoziare la loro identità di donne pur rimanendo fisicamente a Ponta do Sol.
Allo stesso tempo, Nita e le donne emigranti hanno diversi modi di ‘risiedere-nel-viaggiare’:
queste donne, infatti, mettono in scena la loro ‘capoverdianità’ sia nel luogo di residenza sia nel
luogo di origine.
Molte delle donne telefonano ai propri familiari anche tre volte in settimana, e i ritorni estivi
vengono percepiti come momenti importantissimi; in molti casi, quando non è possibile viaggiare,
mandano dei container, dei bidoni, con molta roba a casa.
La figura della donna viaggiatrice, insomma, è importante nel mantenimento dei legami, sia in
senso materiale sia in senso strettamente sociale.
Nei discorsi generali fatti dalla comunità dei capoverdiani a Roma, per esempio, si tende a
ricordare le isole prima delle partenza con una sorta di mitizzazione, come detto prima. Il luogo di
origine, però, viene dotato di senso anche in base all’esigenza del momento.
Nelle feste dei connazionali, in occasione di un compleanno o di un matrimonio, in Italia la prima
generazione di migranti si organizza fittando delle sale, dove si mangiano piatti tipici capoverdiani
spesso mischiati a quelli nostrani, si balla musica tradizionale africana e si parla il creolo; anche la
seconda generazione, quella dei più giovani, spesso partecipa a queste feste dei genitori, ma
principalmente ha altri luoghi di incontro, come le discoteche romane.
Le donne emigranti hanno dei modi di ‘risiedere-nel-viaggiare’ anche nel momento in cui tornano
al luogo d’origine: questi modi di risiedere si evidenziano soprattutto nei rituali legati alla morte e
al matrimonio.
I rituali sono i luoghi in cui i migranti formano e rinegoziano le loro identità di fronte a colore che
rimangono, e il rispetto nei confronti del rituale tradizionale è un modo per sentirsi una donna
realizzata nel senso più vero del termine.
Due grandi esempi di ‘risiedere-nel-viaggiare’ sono il funerale di Ted, lo zio di Nita, e il
matrimonio di Lucia.
Nell’ottobre del 2002, nel pieno dell’attività del pub aperto dall’autrice e dal compagno
capoverdiano Lu, un incidente scuote le loro vite: Ted, giovane ragazzo e zio di Nita, come già
detto, ha un mancamento mentre è seduto su un muretto che affaccia direttamente sulla scogliera
della spiaggia locale; la sua morte shocka gli abitanti e allo stesso tempo permette all’autrice di
vivere in prima persona le emozioni relative al rituale del funerale.
Nel caso del funerale, l’elemento fondamentale è che di fronte alla morte la tradizione venga
mantenuto inalterata, ma nel contempo, è pur vero che l’emigrante porta delle innovazioni nei
codici comportamentali legati alla morte, che vengono prontamente criticati, come ad esempio il
fatto che la madre di Ted sia uscita di casa senza rispettare la tradizione che la voleva rilegata in
casa per un anno.
Anche il matrimonio è un’arena in cui mettere in esposizione il proprio status e classe sociale: in
questo caso a sposarsi è Lucia, grande amica dell’autrice che, nonostante la sua vita consolidata
all’estero (in Italia) torna nel luogo natio per sposare il proprio compagno.
Nel suo matrimonio, Lucia mette in scena tanto gli elementi locali e tipicamente capoverdiani
quanto quelli occidentali, che testimoniano il suo successo migratorio e ne dimostrano la
modernità (il vestito da sposa portato da fuori, il cibo, le decorazioni, ecc.)
Un altro momento da mettere in evidenza è l’importanza nel celebrare queste evenienze nel luogo
di origine: lo scopo è infatti quello di dare riconoscibilità sociale alla famiglia dei migranti, che con
la cerimonia, cercano di reintegrarsi simbolicamente nella comunità originaria.

12. Le donne ‘transnazionali’ intermediarie: brokers, rabidantes e viaggiatrici


Il ruolo delle donne che emigrano, come intermediarie e portatrici di oggetti da un luogo all’altro è
stato rilevato nel contesto di molti studi sull’emigrazione.
In questo caso, le donne diventano delle vere e proprie brokers interculturali, interpretando e
traducendo gusti e stili esteri.
A Capo Verde troviamo ben rappresentata questa categoria di donne; ma sono presenti anche altri
tipi di donne, che si muovono attraverso i confini e svolgono dei veri e propri ruoli di operatrici
‘transnazionali’.
Anche in passato le donne hanno avuto un ruolo di primo piano come intermediarie e promotrici
dell’emigrazione.
1) Il primo tipo che è possibile rintracciare è quello delle donne-viaggatrici, che hanno figli
all’estero e si spostano spesso per andare a visitarli nei luoghi di emigrazione, come Maria
de Lourdes, che parte una volta all’anno per visitare le figlie in USA, dove si ferma per un
periodo che va dai 3 ai 6 mesi, ed ad ogni ritorno a Ponta do Sol riporta grandi quantità di
oggetti che rivende poi ai compaesani. In questo caso, la donna sfrutta i viaggi come
occasione per svolgere un’attività commerciale
2) Il secondo tipo è quello delle donne-viaggiatrici che si dislocano periodicamente per
approfondire la propria formazione generale e specializzarsi.
3) Il terzo tipo è quello delle donne emigranti che sono però tornate a vivere nel loro luogo
d’origine; molte di queste oggi hanno aperto attività commerciali o si sono dedicate
all’attività turistica (come Fatima, che dopo 3 anni in Francia, ha messo su una pensione per
turisti su gestione familiare: in un certo senso, Fatima mette in scena una transnazionalità
pur rimanendo fisicamente a Ponta do Sol)
4) Infine, le rabidantes, o ‘false emigranti’. Questo tipo originale di migranti rientra in quella
categoria di donne di cui fanno parte quelle che svolgono attività commerciali informali in
varie società dell’Africa subsahariana.
Il termine rabidantes, dal punto di vista etimologico, proviene dal greco ‘rabirad’ (‘riuscire a
cavarsela’) e loro, infatti, acquistano prodotto all’estero per poi rivenderlo al dettaglio a
Capo Verde a prezzo più basso rispetto ai negozi.
Fatù, ad esempio, ha due negozi ed un bar e fa continuamente viaggi in Brasile per fornire i
propri negozi.
Il commercio delle rabidantes è per molti versi un’estensione in ambito transnazionale del
fare negocio che abbiamo visto essere prerogativa di Maria Giulia durante le feste di
romaria. La maggior parte di queste donne sono sole, hanno un alto grado di autonomia e
spesso devono provvedere al fabbisogno di una famiglia allargata.
Spesso, per divenire una brava rabidante, si comincia comprando beni da altre rabidantes,
per poi iniziare a viaggiare nei luoghi più vicini, fino poi ad arrivare alle mete più ambite
(Brasile e USA).
Se da una parte le rabidantes perseguono valori individuali e si auto-rappresentano come
indipendenti ed autonome, dall’altra la loro attività dipende fortemente dai loro rapproti
amicali e familiari: infatti il supporto dei familiari rappresenta una risorsa primaria per il
successo della loro attività.
In poche parole, queste donne sembrerebbero partecipare al mercato globale pur restando
interne alle dinamiche sociali.
Tra rabidantes, è presente in parte competizione, ma spesso ci si scambia informazioni sul
dove comprare buone merci: spesso sono le vecchie rabidantes ad istruire le più giovani.
È importante infine notare che l’attività delle rabidantes va al di là della compravendita
delle merci, poiché include anche la gestione di vari tipi di relazioni sociali, che permette lo
svolgersi del commercio stesso: il loro successo risiede in una serie di legami sociali
utilizzati come legami sociali e nel ruolo importante che esse hanno in quanto
‘intermediarie transnazionali’.
Il successo economico delle rabidantes favorisce l’emancipazione della donna, e tramite
loro si assiste al riconoscimento di un modo di essere femminile costruito socialmente: la
donna come ‘impresaria rabidante’ così come la donna-sposa e la donna-madre.
Le donne inoltre, avrebbero la capacità, che gli uomini non hanno, di gestire i conflitti e di
mediare nelle relazioni sociali.
Le rabidantes possono essere considerate come agenti della globalizzazione: sono soggetti,
che localmente agiscono come impresari e all’stero come consumatori di altre lingue e
prodotti che poi fanno girare per il mondo.
13. I nuovi modi di essere donna veicolati dalle donne emigranti e del viaggiare al femminile
Queste nuove figure di donne viaggatrici veicolano nuovi ed originali modi di essere donna: donne
indipendenti che si muovono e gestiscono rapporti planetari, assumendo importanti ruoli di
intermediarie.
Il modello matrifocale e quello della donna ‘chefe’ di famiglia, dunque, in questo contesto, si
rinforzano grazie al successo economico delle donne.
L’ambiguità della relazione tra migranti e donne che restano è determinata principalmente dal
fatto che le donne emigranti hanno un modo di ‘risiedere-nel-viaggiare’ che diviene spesso, agli
occhi di quelle che restano, la realizzazione a loro negata delle aspettative che secondo la
tradizione capoverdiana rendano la donna veramente donna: in poche parole, le donne migranti
sembrano superare quei paradossi con cui chi resta si trova continuare ad avere a che fare.
Per questo, le donne emigranti, quando non sono persone della propria famiglia o persone strette,
vengono tenute a distanza perché si ritiene che il loro mettersi in mostra sia una messinscena della
loro superiorità. Il caso delle rabidantes, è in un certo modo differente, perché queste cambiano
dall’interno il proprio modo di essere donna, e vivono in prima persona le contraddizioni della
propria condizione: non vengono viste come ‘esterne’, ma piuttosto sembrano inglobare il mondo
all’interno del loro essere donne a Capo Verde.

Nel luglio del 2003, l’antropologa programma una trasmigrazione di amici e parenti a Capo Verde,
tra cui la madre.
Martina resta stregata dalla fantastica accoglienza che i bambini e gli abitanti di Ponta do Sol le
riservano.

CAPITOLO QUARTO: ‘LE DONNE E LA RINEGOZIAZIONE DELLE IDENTITA’


2. Una definizione di ‘identità’
Negli ultimi anni il concetto di identità è stato più
volte rivisitato. Migrazione e globalizzazione hanno
messo in risalto come le problematiche identitarie
nascano dalle pratiche del confronto e si è passati da
una concezione statica dell’identità ad una visione
dell’identità come processo dinamico.
L’idea dell’individuo come portatore di identità
multiple si fa strada negli anni ’80. Secondo Signorelli,
l’identità di un soggetto ‘è l’auto-percezione che egli
ha di sé in relazione con un altro ed è costruita come
una sorta di sistemi di cerchi concentrici’. Ogni
individuo appartiene a differenti gruppi con cui di volta
in volta ci si può identificare oppure opporre; l’identità
dunque non è solo relazionale ma anche contestuale e situazionale.
L’identità etnica comincia perciò ad essere definita come ‘la somma delle identità che una persona
assume nel corso della vita e ha sempre una valenza relativa e relazionale’.
Un’altra revisione del concetto di ‘identità’ ci arriva dagli studi sulla ‘ globalizzazione’, che è
definibile come il rimodellamento delle condizioni locali per opera di potenti forze globali a ritmo
sempre più intenso.
Negli ultimi anni, gli studi sull’identità si sono infatti moltiplicati e si è parlato di identità prodotte
da culture ibride, creole, transnazionali, ecc.
Secondo l’antropologa Bottomley, l’identità si può definire come una ‘combinazione di auto-
identificazioni e di identificazioni da parte degli altri’. Questa definizione aggiunge una
componente fondamentale a quella dei cerchi concentrici di Signorelli, in quanto tiene sia conto
dell’auto-percezione sia dell’identificazione da parte degli altri.
In queste definizioni però, ponendo l’accento sull’etnicità, non si tiene conto dei gruppi trasversali
interni alle identità etniche. Infatti, l’identificazione non è mai solamente etnica: individui che si
relazionano tra loro non sono mai solamente italiani o capoverdiani, ma anche vecchi o giovani,
ricchi o poveri; dunque le identità vengono giocate non solo in base all’etnicità ma anche in
relazione al genere, alla generazione e alla classe sociale.

3. Io ‘mi posiziono’
Di particolare rilievo è il problema, in questo contesto, della figura dell’antropologo come
soggetto ‘posizionato’. Così, l’autrice stessa, in base alle esperienze personali, si è ricollocata nel
contesto capoverdiano: ad esempio, il senso del funerale capoverdiano o del ruolo delle donne
con la morte in generale, non le è stato chiaro fino alla morte di Ted.
L’etnografo, per sua stessa natura, è sempre stato imperfetto, altrimenti cesserebbe di essere un
etnografo, e dunque l’interpretazione è sempre multi-direzionale e multi-prospettica.

3.1 Autopresentazione e riflessioni di un’antropologa a Ponta do Sol


In questo paragrafo, l’autrice si auto-presenta. Il suo nome è Martina Giuffrè, e all’epoca
della sua permanenza a Ponta do Sol stava terminando la sua ricerca di dottorato per
l’università ‘La Sapienza’ di Roma. Ha trascorso 3 anni a Capo Verde: due a Ponta do Sol e
uno a Mindelo, nell’isola vicina di São Vicente.
Durante la sua permanenza si è fidanzata con un ragazzo del luogo e ha con lui aperto
un’attività di ristoro a Ponta do Sol, che è divenuta in poco tempo il luogo d’incontro
principale del paese.
L’antropologa ha sempre pensato che per comprendere fino in fondo bisogna anche essere
emotivamente coinvolti, pur mantenendo la consapevolezza di non poter mai diventare
‘uno di loro’.
Dopo un primo periodo in cui si sentiva trattata come ‘straniera’, i suoi rapporti con i
capoverdiani hanno subito molte modificazioni ed hanno assunto diverse sfumature: una
lunga serie di fattori condizionavano le relazioni tra gli abitanti e lei, che poteva dunque
essere vista come donna, come straniera, studentessa, giovane, turista, italiana, amica,
‘bianca’, ecc.
Le sembrava che le donne mantenessero nei suoi confronti un equilibrio fatto di distanza e
avvicinamento.
L’identificazione con la sua classe sociale avveniva tanto in base al suo essere ‘ricca’, in
quanto bianca occidentale, quanto in base all’associazione con Lu, che appartiene ad una
classe sociale elevata.

3.2 Dal mio diario


In questo sotto-paragrafo, vengono presentati alcune pagine di diario, nelle quali l’antropologa
afferma che solo dopo molti viaggi di andata-ritorno e la presenza di amici, professori e parenti
italiani a Capo Verde che è riuscita a rappresentarsi davvero Roma e Ponta do Sol come due mondi
contemporanei.

3.3 Come mi vedono gli altri: Maria Giulia mi racconta


Quello che ha più colpito l’autrice è stato scoprire che Maria Giulia ritenesse piuttosto strano il suo
continuo osservare quello che lei faceva.
In un certo senso, Maria Giulia stava dando all’autrice una lezione di antropologia, mettendo in
luce gli errori etnografici di cui non si era resa conto.
L’anziana donna parla anche della loro amicizia: il fatto di essere entrate sempre più in intimità e il
fatto che lei fosse fidanzato con un suo nipote da tre anni, le ha poste in una relazione ancora più
stretta dell’amicizia, quasi di parentela acquisita.
Maria Giulia mette in evidenza le difficoltà iniziali nel capire la mentalità del luogo, come dato
naturale degli esseri umani, ed ipotizza l’eventuale migrazione a Mindelo, come se fosse
completamente un altro mondo.

Nell’ottobre del 2003, l’antropologa e il compagno si trasferiscono nella città di Mindelo, nell’isola
di São Vicente, poiché l’aeroporto di Ponta do Sol, dove Lu lavorava, era stato chiuso e tutto il
personale era stato trasferito lì.
4. Il dibattito sull’identità a Capo Verde
Capo Verde è più Africa o più Europa? Le posizioni sono diverse.
Abbiamo visto che durante il colonialismo portoghese, i capoverdiani godevano di uno statuto
peculiare rispetto agli altri africani, in quanto non venivano percepiti come africani.
La questione tanto dibattuta dell’africanità o dell’europeizzazione dei capoverdiani va di pari
passo con la questione dell’indipendenza nazionale ed è fortemente legata alle vicende politiche.
1) Nel movimento che ruota intorno alla rivista ‘Claridade’ si assiste ad un nuovo interesse per
la cultura e la lingua capoverdiana. Il movimento dei ‘Claridosos’ tentava di attuare
un’operazione culturale che consisteva nel decolonizzare l’ambiente e capoverdianizzare
l’arcipelago, ancora prima dell’indipendenza politica.
Possiamo affermare che l’indipendenza culturale di Capo Verde ha preceduto quella
nazionale, e che il sentimento di nazionalità anticipa il suo riconoscimento giuridico.
2) Una vera e propria rivalorizzazione avviene solo con il movimento di Cabral che vede nel
riconoscimento dell’africanità la base per la liberazione nazionale. Cabral afferma la
necessità di un’unione dei Paesi del Terzo Mondo, vittime del processo storico di
colonizzazione.
Oggi il dibattito è ancora aperto: dal punto di vista politico, l’identità è stata e continua ad essere
una risorsa del potere ed è ancora oggi strumentalizzata dai partiti per accattivarsi l’elettorato (i
due partiti maggiori, il PAICV e l’MPD, rivendicano l’uno l’identità africana, l’altro quella
euroamericana). Questa è la posizione di diversi studiosi in relazione all’identità di Capo Verde:
• Fonseca afferma che la vera liberazione del capoverdiano avverrà solo attraverso
l’interiorizzazione positiva della propria africanità.
• Elisa Andrade concorda con Fonseca ma se ne differenzia perché punta l’accento sulla continua
rinegoziazione di elementi africani ed europei come tratto costitutivo dell’identità capoverdiana.
• Un’altra analisi la offre Dulce Duarte, secondo la quale la società capoverdiana non ha crisi
d’identità. A partire dal 1600 si assiste ad una riorganizzazione culturale e ad una fusione delle due
culture presenti: Capo Verde non fu una colonia di popolamento ma un interposto.
• Una posizione differente, sostenuta da Varela e Pereira è quella che considera l’identità
capoverdiana come risultante dalla convergenza di un triangolo tra Africa, America ed Europa.
• Veiga crede che la formazione dell’identità capoverdiana è un processo interminabile e in
continua evoluzione.
• Cardoso invece parla di Capo Verde non come di due mondi (quello africano e quello europeo)
che si incontrano, ma di un solo nuovo mondo, quello capoverdiano. Inoltre dice che a Capo Verde
non si è mai instaurato nella società un vero e propria sistema schiavista, a differenza di quanto
sosteneva Pereira.
• Infine, Bettencourt e Duarte ci parlano di un’idiosincrasia capoverdiana, che nasce all’incrocio di
due grandi vicende storiche: una delle più grandi conquiste umane, quella delle scoperte, e una
delle più grandi tragedia, quella della schiavitù. A caratterizzata l’identità capoverdiana, però,
sarebbe prima di tutto la sua insularità: il mare rende l’isolano aperto all’esterno ma allo stesso
tempo chiuso e prigioniero nei limiti dell’isola.
Tutti questi autori privilegiano una visione di Capo Verde come un’identità autonoma ed unica.

5. Identità a Santo Antão


Nonostante quanto appena affermato, a Santo Antão il dilemma dell’appartenenza sembra essere
ancora un problema vivo, tanto tra gli intellettuali quanto tra le persone comuni.
Rispetto a questo tema, non emergono differenze legate al genere, poiché uomini e donne
sembrano avere sostanzialmente la stessa visione di cosa un capoverdiano sia.
Secondo quanto afferma Antonio Mauricio, gli elementi che vengono subito messi in rilievo sono
quelli della nascita storica del capoverdiano e della politica del governo portoghese, della
contrapposizione con Santiago, più africana, e dell’insularità.
Antonio finisce con l’affermare che il capoverdiano ha una struttura propria, quella creola, che
prende tanto dall’Europa tanto dall’Africa. La creolità appare anche il frutto dell’impossibilità di
un’appartenenza ad un destino legato alle insularità.
Tra le isole, Santo Antão viene considerata la più lontana dall’Africa e la più europea di tutte.
Infine, sembrerebbe che i capoverdiani nel momento in cui aspirano a essere identificati con gli
europei, lo facciano in quanto africani, e nel momento in cui valorizzano la propria africanità, lo
farebbero da europei.

6. La natura ibrida dell’identità capoverdiana


La gente di Santo Antão sembra in parte identificarsi secondo la teoria dei cerchi concentrici di
Signorelli:
1) Quando ci si confronta all’interno della stessa isola, prevale l’identità locale
2) Quanto ci si confronta con le isole, prevale l’identità regionale della singola isola
3) Quando ci si confronta con l’esterno, prevale l’identità nazionale
Nel parlare dell’identità dei capoverdiani, dobbiamo tener conto di tre aspetti fondamentali:
1) La percezione che i capoverdiani hanno di se stessi
2) L’atteggiamento della politica governativa nei confronti dei capoverdiani, coloniale prima e
alla ricerca di un’identità nazionale poi
3) Le relazioni di identificazione/contrapposizione dei capoverdiani con gli altri gruppi esterni
(soprattutto africani vs europei)
Abbiamo visto anche che gli abitanti di Santo Antão si autorappresentano identificandosi con
l’Europa in contrapposizione a Santiago, identificata invece come Africa. Tuttavia, in un momento
in cui ci si confronta con l’Europa, ad essa ci si oppone come gruppo specifico, ovvero quello dei
Capoverdiani.
Dunque i capoverdiani sembrano essere abituati da sempre a rinegoziare la propria identità, che
risulta perciò caratterizzata da sempre dall’ibridismo. La sua natura ibrida costituisce una risorsa
fondamentale per quella capacità di risposta alle innovazioni che sembra essere la caratteristica
determinante di questa cultura.
Oggi con il fenomeno della globalizzazione, che abbiamo prima definito, l’identità capoverdiana
sta assumendo nuove possibilità, tra cui la più importante è l’occasione di relazione con l’esterno
che offrono il turismo e i mass media.
La rinegoziazione della propria identità sul mercato e la commercializzazione della propria etnicità
implicano un riconoscimento dell’unicità delle identità locali, ma in un certo senso, però, Capo
verde ha già costruito la propria identità nazionale come arcipelago nel cui contesto le diverse
vicende di ogni isola fanno di essere dei micro-mondi con la propria storia ognuno.

7.La formazione di un’identità di genere


7.1 L’associazionismo al femminile
È solo a partire a dall’indipendenza che è emersa una nuova coscienza dei diritti della
donna, grazie soprattutto alle idee di Cabral, il quale ha avuto un ruolo fondamentale non
solo nella liberazione nazionale ma anche in quella della donna.
Nel ’61 si forma l’Unione delle Donne, che mette però in secondo piano il problema delle
donne rispetto a quello di liberazione nazionale, mentre nell’81 nasce l’OMCV, con
l’obiettivo specifico di promuovere la liberazione delle donne. Quest’associazione ha
attuato negli ultimi anni un radicale cambiamento delle proprie politiche, aprendo il campo
anche ai bambini, alla famiglia intera e agli uomini.
Capo Verde oggi vanta un gran numero di associazioni femminili, per lottare contro la
violenza nei confronti delle donne e dare un appoggio alla lotta contro la povertà.
Il contatto che le donne di Ponta do Sol hanno con queste associazioni, sia per la
lontananza fisica sia per il fatto che spesso le donne emigrano.

7.2. Le donne intellettuali


La riflessione intellettuale delle donne sulla condizione femminile è oggi amplissima: le
scrittrici, ognuna di loro in modo originale, riflettono sulla condizione della donna e della
discriminazione in generale. Le tre autrici che sintetizzano al meglio la situazione sono:
- Vera Duarte, che nelle sue poesie, sottolinea in forma drammatica il dilemma della
donna capoverdiana divisa tra morale cattolica e rivoluzionaria
- Dina Salustio, che denuncia in molti scritti la violenza e gli abusi nei confronti dei
bambini a Capo Verde
- Fatima Bettencourt, i cui scritti richiamano con sottile e amara ironia, molte delle
problematiche dell’essere donna

8. Rinegoziando le identità. Donne a confronto a Ponta do Sol


Ci sono tre diversi modi di definire la propria identità, dunque:
1) Nella generazione di Maria Giulia le donne sembrano vivere la loro identità di ‘donne
capoverdiane’ non in contrapposizione all’identità maschile. Esse si identificano come
lavoratrici, cattoliche, oneste, fedeli imprenditrici e hanno un forte legame con le tradizioni.
Le donne anziane, rispetto al cambiamento, sembrano essere soprattutto osservatrici
esterne e, pur consumando i prodotti televisivi, non sembrano aver messo in discussione il
loro modo d’essere donne, né la loro vita. Tuttavia, tutte concordano sul fatto che una volta
la donna era migliore e che si sapeva comportare di più
2) Nel caso di Ernestina, del gruppo delle giovani, invece, la contrapposizione con gli uomini
è un elemento che assorbe gran parte della loro rappresentazione della propria identità di
donne. Inoltre, i vari modi che Ernestina e delle donne della sua generazione hanno di
‘viaggiare-nel-risiedere’ le portano a desiderare e ad attuare nuovi modelli di femminilità e
questo è reso possibile in quanto la televisione permette di entrare in contatto con
fenomeni non localizzati (come abbiamo visto, una semplice telenovela ha fatto nascere
nelle giovani che restano l’identificazione con le donne italiane emigrate in Brasile e ha
fatto loro scoprire l’idea che la donna può realizzarsi compiutamente, senza umiliarsi e che
può avere aspettative diverse nei confronti degli uomini)
3) Infine, Nita e le donne che viaggiano, veicolano nuovi modelli di essere donna al loro
ritorno al luogo d’origine. Abbiamo visto che le donne migranti sono emancipate,
indipendenti, spesso sono loro a sostenere economicamente i familiari rimasti. Queste
donne, inoltre, si auto-percepiscono prima di tutto come donne migranti, e non
semplicemente come capoverdiane. Se è vero che il loro primo nucleo di identificazione è
l’essere capoverdiana, essere capoverdiane emigranti non è la stessa cosa di essere
capoverdiane rimaste alle isole.
Questa differenziazione è evidente nel momento del loro ritorno in cui le compaesane
vengono identificate in parte come ‘straniere’. Anche le donne emigranti hanno molti modi
di ‘risiedere-nel-viaggiare’, e abbiamo anche notato come le tradizioni non siano statiche
ma vengano in continuazione rinegoziate.
Inoltre, in molti studi sull’emigrazione capoverdiana, è stato rilevato come le donne
abbiano un ruolo fondamentale come mediatrici culturali.
Un esempio interessante è quello riportato dall’antropologa Halter nel suo studio sugli
immigrati capoverdiani in America. Come questa nota, negli USA i capoverdiani vengono
chiamati in tutti i modi possibili, e hanno perciò sperimentato quella che viene definita
‘doppia invisibilità’, doppia in quanto sia invisibile dal punto di vista etnico che razziale,
poiché non si è tenuto conto del loro passato e della loro storia, che ne ha fatto un popolo
creolo.
La relazione ambigua tra chi resta e chi parte nasce dal fatto che le emigranti vengono
quasi considerate delle ‘traditrici’ e nello stesso tempo rispecchiano la donna realizzata. Se
le donne emigranti raggiungono un nuovo stato e realizzano le aspettative di ciò che una
donna dovrebbe essere, lo fanno tuttavia attuando una rottura; inoltre rappresentano un
aiuto fondamentale per quelle che restano.
Le rabidantes, invece, rimanendo interne alla società capoverdiana, riescono a coniugare
valori localistici e planetari in quella che è stata definita ‘autonomy socially embedded’
(autonomia radicata nel sociale), perché sfruttando i legami familiari e i modi di agire nelle
relazioni sociali tradizionali, sono riuscite a trovare un equilibrio e a diventare delle vere
imprenditrici.
Ognuna delle donne di cui abbiamo parlato, perciò, agisce in un palcoscenico, quello di Ponta do
Sol, dove diversi modi di essere donna entrano in gioco.
Le donne, in conclusione, sembrano essere le mediatrici per eccellenza, ma ognuna di loro ha
rinegoziato questa capacità di mediare in situazioni, contesti e relazioni diverse.
Nel mese di ottobre 2004, la scrittrice torna improvvisamente a Roma, a causa di un brutto
incidente che ha visto protagonista il suo fratello piccolo che era finito sotto un autobus.
Per la prima volta, la donna è accompagnata incessantemente durante il viaggio dalla sensazione
di non tornare più.
Alla fine della pagina di diario, decide di restare per sempre a Roma.

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