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Esperienze di antropologia
dialogica a Ponta do Sol’
Il testo risulta strutturato secondo uno schema piuttosto particolare: la condizione delle donne,
oggetto principale della ricerca della Giuffrè, rende quasi impossibile all’autrice strutturare una tesi
comune a tutte le storie in cui si è imbattuta negli anni vissuti in Africa.
A tal proposito, lo schema segue una ripartizione in quattro grandi capitoli:
1) La storia di Maria Giulia, e la relazione tra le donne capoverdiane e la memoria
2) La storia di Ernestina, e la condizione delle donne a Ponta do Sol oggi
3) La storia di Nita, e la situazione delle donne che restano e che viaggiano dall’isolotto.
4) L’analisi della Giuffrè stessa, che fa tesoro dell’esperienza accumulata e parla di
‘rinegoziazione delle identità’.
Ovviamente, i nomi utilizzati all’interno del testo, compresi quelli ‘corali’ delle innumerevoli donne
che compaiono, sono nomi fittizi creati con l’intento di evitare che gli abitanti potessero riscontrare
la propria esperienza nel testo dell’antropologa.
Cominciamo dunque ad analizzare i capitoli uno per uno, secondo il singolare genere narrativo
scelto dall’autrice per affrontare la questione: un’analisi a tratti autobiografica corredata da pagine
di diario scritte durante le calde giornate a Capo Verde, e dalle tantissime confessioni delle donne
capoverdiane che si sono –non facilmente- adattate, aperte e confidate all’antropologa.
CAPITOLO PRIMO: ‘DONNE E MEMORIA’
1. Presentazione
Maria Giulia è una donna anziana di 73 anni, vedova, molto fedele e disponibile.
Quando Ernestina, su cui ci si soffermerà nel secondo capitolo, condurrà la Giuffrè nella casa di
Maria Giulia, l’antropologa realizzerà di essere già stata a casa dell’anziana.
La donna racconta a grossi linee di non aver studiato e di aver lavorato da subito per il
sostentamento della propria famiglia.
Spesso, durante il racconto, in particolar modo alla conclusione di ogni capitolo, l’autrice riporta,
tramite alcuni stralci di diario, alcuni episodi relativi agli spostamenti interni ed esterni all’isola.
Nel settembre del 2002, per la prima volta la Giuffrè torna in Italia, con Lu, il suo compagno
capoverdiano. Viene messo in evidenza quanto il viaggio, quasi come fosse tradizione, duri sempre
più del previsto.
3. La rappresentazione da parte delle donne della tensione crescente nei rapporti di genere
la prima cosa che le donne mettono in evidenza durante le interviste è la violenza degli uomini
sulle donne.
A Capo Verde ‘un uomo ha l’usanza di picchiare la donna’.
Una delle ragioni con cui viene spiegata quest’usanza dalle donne stesse è la gelosia, anche per
piccole cose. Molte delle interlocutrici mettono anche in evidenza che se si fa ricorso alla polizia, il
più delle volte questa non interviene. In molti casi, pur volendo lasciare un uomo, non ci si riesce a
causa delle minacce: questo rende difficile la scelta da parte di una donna di lasciare un uomo,
perché anche una volta che la relazione è finita l’uomo continua a considerarla una ‘sua proprietà’.
Un altro aspetto che emerge praticamente in tutte le testimonianze, è l’infedeltà e l’irresponsabilità
degli uomini che in gran parte dei casi non aiutano la donna a crescere i figli. Uno dei problemi
cruciali che emerge è quello dell’alcool, una delle cause principali legate alla violenza: quando c’è
di mezzo l’alcool, spesso gli uomini, invece che contribuire al sostentamento dei figli, usano i soldi
per comprare il grogue (una sorta di rum facilmente ricavabile).
Questo problema appare in particolar modo tra le famiglie dei pescatori, che spesso, proprio a
causa della vita dura che svolgono, affogano i propri problemi nell’alcool.
Gli uomini, secondo le opinioni raccolte, sono interessati soltanto alla conquista, ma poi, dopo aver
ingannato le donne con le parole e averle conquistate, le lasciano, anche se non manca la
coscienza che le prima a perpetuare questo tipo di atteggiamento dell’uomo siano proprio le
stesse donne, che non si ribellano e fanno l’errore di fare molti figli con uomini irresponsabili.
La donna infatti, pur avendo coscienza dei propri diritti, spesso non riesce a farli rispettare.
Nel caso del mancato mantenimento dei figli, ad esempio, piuttosto che dover chiedere, preferisce
sacrificarsi da sola (quest’orgoglio appare molto sempre presente nelle donne di Capo Verde). Ma
molte volte non è solo l’orgoglio a determinare la non-azione: nel caso dei maltrattamenti si ha
anche paura a reagire.
Anche le donne sono molto gelose, e i rapporti si basano su equilibri molto delicati; oltre ad essere
gelose, anche le donne possono maltrattare gli uomini e risponde alla violenza con altra violenza.
Tuttavia non è solo la presa di coscienza della dominazione maschile da parte delle donne che si
sta facendo strada: qualcosa sta cominciando a cambiare anche nei comportamenti.
Questa parziale presa di coscienza ha mutato anche l’aspettativa nei confronti di se stesse e degli
uomini, infatti per molte di loro la soluzione migliore è essere da sole (una volta Antonia, ha detto
che ‘avere un uomo è come avere un altro figlio’ e che lei, avendo già figli, preferisce non
compromettersi con nessuno). Tutte queste testimonianze danno vita ad un panorama delle
relazioni uomo-donna piuttosto complesso, e la figura dell’uomo ne esce fortemente penalizzata
(violento, infedele ecc).
Secondo i dati dell’INSC le famiglie monoparentali rappresentano il 41% dei casi. Nel 41% dei casi
sono le donne ad essere ‘chefe’ di famiglia e circa l’81% dei figli nascono fuori dal matrimonio.
Come abbiamo già visto, la famiglia capoverdiana si caratterizza come una famiglia allargata
matrifocale: è presente un’alta percentuale di poligamia di fatto ed è molto difficile che un uomo
abbia figli con una sola donna.
Nonostante per legge i padri siano economicamente costretti a mantenere i figli, prevale una
tendenza generale delle donne a non far valere i propri diritti, o perché non ne sono a conoscenza,
o perché giustificano l’atteggiamento dei padri, o ancora, come abbiamo già visto, per una
questione di orgoglio.
Questo porta a differenziare la poligamia capoverdiana dalle altre società poligamiche dell’Africa
Occidentale, dove di regola l’uomo si assume pienamente la responsabilità delle varie famiglie che
forma.
È necessario anche attuare un’importante differenza tra le ‘mulher de filho’ e le ‘mae de filho’: se
la mulher è la donna ufficiale, la moglie, le maes de filhos di un uomo possono essere molte, ma
non ci si vive insieme, e sono donne che spesso si hanno fuori dal matrimonio e di condizione
sociale inferiore rispetto alla moglie.
Nonostante la diffusione della poligamia in generale, le donne aspirano a unioni monogamiche e
al matrimonio, che viene ritenuto come un consolidamento della coppia molto più forte della prole
in comune.
Possiamo dunque affermare che le donne di Ponta do Sol sono, per questo verso, rappresentative
della condizione generale delle donne capoverdiane.
La donna, pur essendo, in maniera più o meno accentuata, consapevole dei propri diritti, si
comporta in modo ambiguo, ora opponendosi alla cultura maschilista in cui vive, ora
giustificandola: i giudizi sul passato della relazione uomo-donna sono un chiaro esempio di questa
ambiguità di fondo.
Molte delle donne intervistate, infatti, affermano che le donne di una volta erano trattate con più
rispetto, che gli uomini erano migliori e che anche le donne avevano più valore una volta.
La storia di Ilidia esemplifica alla perfezione quest’ambiguità: questa lascia il fidanzato a causa
dell’alcool, perché suo padre era alcolista, e non voleva rivivere ciò che sua madre aveva vissuto,
ma nonostante abbia fatto la scelta di rompere la sua relazione, Ilidia sembra sempre rimpiangere i
tempi in cui uomo e donna restavano insieme, quasi scordandosi di aver attuato una scelta che sua
madre non ha fatto, rimanendo appunto col marito nonostante tutto. Dunque il comportamento
del padre viene visto da Ilidia come quello di un uomo che rispettava molto sua moglie, mentre lo
stesso atteggiamento da parte del compagno viene visto come motivo di rottura.
Quello che appare davvero nuovo è il modo in cui questi rapporti sono vissuti: il carattere di
conflittualità che queste modalità assumono oggi è sicuramente un segno del fatto che la donna
stia cominciando a mettere in discussione i modelli dominanti di potere esistenti; una donna, una
volta, accettava di più questa situazione, non si ribellava, mentre oggi ha cominciato a prendere
coscienza dei suoi diritti e della sua condizione di discriminata.
Un altro elemento di tensione che emerge è quello di un apparente scarsa solidarietà femminile,
un elemento che sembrerebbe recente.
La differenza tra le ‘mae’ e le ‘mulher de filho’, abbiamo visto essere una differenza importante, ma
oggi la donna capoverdiana sembra non accettare più questa situazione e sembra non voler
condividere il suo uomo con nessun’altra.
Infine, sottolineiamo che il modello organizzativo capoverdiano è stato in parte spiegato da alcuni
autori con l’emigrazione maschile: una società dunque, retta dalle donne per ‘assenza di uomini’.
Ma il fenomeno delle numerosi madri, definite ‘single mothers’, non è solo determinato dalla
partenza degli uomini in generale, ma è piuttosto una forma peculiare di famiglia da non
confondere con quelle formate dalle moglie di emigranti e dai loro figli.
Possiamo dunque affermare che, il modello della relazione uomo-donna rappresenti un elemento
di continuità con il passato, elemento che trova la sua ragione di essere nel processo storico della
realtà capoverdiana, mentre le crescenti tensioni uomo-donna e donna-donna sono invece un
elemento nuovo.
7. La relazione con l’esterno: i modi che le donne di Ponta do Sol hanno di ‘viaggiare-nel-
risiedere’
La possibilità di viaggiare non è un privilegio concesso a tutti. Le donne di Ponta do Sol infatti
hanno diversi modi di ‘viaggiare-nel-risiedere’, vale a dire di entrare in contatto con l’esterno pur
non spostandosi fisicamente.
Questa condizione può coinvolgere forze che potentemente passano attraverso la televisione, la
radio, i turisti, le merci, e così via.
Anche questo capitolo, si conclude con un pezzo di diario dell’autrice, che per la prima volta torna
a Ponta do Sol, riconfermando la tradizione del viaggio lungo e realizza per la prima volta di essere
tutt’uno con il paesaggio capoverdiano.
7. Il potere ‘aggiunto’ come superamento del pericolo: la storia del cavallo ‘de perna quevrata’
La storia del ‘cavallino dalla zampa rotta’, dà l’idea di un esterno come qualcosa di ambiguo e
pericoloso, ma allo stesso tempo è potere ‘aggiunto’, non solo di forza sovrannaturali ma anche
nel senso di un prestigio nuovo che si acquisisce.
La storia narra di un signore che raccomanda al figlio di non montare mai sul ‘cavallino dalla
zampa rotta’, perché lo avrebbe condotto in un mondo in cui gli uomini l avrebbero mangiato.
Il ragazzo non obbedisce e giunge in un posto completamente misterioso, ma grazie al suo
ingegno, dopo esser stato catturato dagli uomini di cui si narrava, riesce a distrarli e ad escogitare
un piano per ferirli e poi scappare.
Il racconto ha forti finalità pedagogiche: bisogna fare attenzione perché la terra estera è piena di
pericoli e di gente crudele, ma con l’astuzia si può tornare vittoriosi.
L’autrice descrive il suo secondo ritorno a Roma, raccontando la sua sensazione in aereo, dove,
circondata da tutti italiani che avevano visitato l’isola in qualità di ‘turisti’, realizza di avere una crisi
d’identità, quasi come se l’essere italiana non le appartenesse più, e quasi come a condividere i
pensieri dei capoverdiani sui turisti occasionali visti in maniera negativa.
8-9. La storia di Nita e il luogo d’origine: le relazioni tra donne che partono e donne che
rimangono
Se da un lato l’esterno da prestigio, la relazione con il migrante che torna non è priva di ambiguità.
La critica alle donne che migrano è forte: quando queste tornano, vengono spesso prese in giro da
chi resta, come ad esempio le donne emigrate in Italia che vengono soprannominate ‘ Fiat’.
In tutti i casi, l’affibbiare un soprannome agli immigrati sta a significare: ‘ Tu sei diventato un altro’.
La presenza dell’emigrante da una parte sviluppa il desiderio di emigrare, dall’altra chi rimane si
sente spesso sottovalutato e trattato come se fosse inferiore. A detta di chi rimane, il più delle
volte, gli emigranti quando tornano si danno arie di superiorità e non mantengono spesso le
promesse di aiutare chi rimane e non rispettano i proprio doveri famigliari scordandosi della
propria famiglia.
Dall’altro lato, le donne che emigrano affermano di sentirsi sempre le stesse, ma che le
compaesane ‘pretendono’ da loro.
Come afferma Nita, anche se lei non cambia mai, l’impressione è che sia chi resta a cambiare,
perché sono orgogliosi e perché sviluppano una specie di complesso: le sue amiche si devono
sentire ‘cercate’ dall’emigrante che torna. Tuttavia, è anche vero che gli anni all’estero hanno
indubbiamente cambiato il loro modo di essere.
L’incomunicabilità tra chi resta e chi parte è data da qualcosa che ha fatto diventare chi è partito
irrimediabilmente ‘altro’: l’evento migratoria agisce come una linea di marcazione insanabile e in
che resta subentra una forma di orgoglio.
Allo stesso tempo, però, l’emigrante ha dei diritti: quando ritorna gli viene dato un rispetto enorme
da parte della famiglia, mentre il turista non ha obblighi ne diritti così definiti.
Le donne migranti, dunque, mettono in gioco ‘uno status ambiguo di insider/outsider’ nella loro
comunità di origine, connesso alla condizione migratoria che per molti aspetti viene
costantemente enfatizzata.
Anche da questo viaggio, si torna cambiati: da una parte si è diventati consapevoli che nonostante
la forte nostalgia ormai la propria vita è all’estero; dall’altra, tuttavia, si auto-percepisce comunque
come fortemente capoverdiani.
Ci si sente dunque capoverdiani all’estero ma non più capoverdiani a Capo Verde, dove si è
percepiti come ‘stranieri’.
L’esperienza migratoria, dunque, crea nuovi modi originali di essere e il fatto di poter attingere a
due culture differenti, invece che una limitazione, può divenire arricchimento.
La soluzione a questa duplica appartenenza diviene per molti capoverdiani il ritorno periodico al
luogo d’origine per lunghi periodi: gran parte dei capoverdiani torna ciclicamente nelle isole.
Il viaggiare dunque sembra divenire parte costitutiva della nuova identità (Nita infatti, torna ogni
anno a Ponta do Sol, e come lei, molte altre).
Nel luglio del 2003, l’antropologa programma una trasmigrazione di amici e parenti a Capo Verde,
tra cui la madre.
Martina resta stregata dalla fantastica accoglienza che i bambini e gli abitanti di Ponta do Sol le
riservano.
3. Io ‘mi posiziono’
Di particolare rilievo è il problema, in questo contesto, della figura dell’antropologo come
soggetto ‘posizionato’. Così, l’autrice stessa, in base alle esperienze personali, si è ricollocata nel
contesto capoverdiano: ad esempio, il senso del funerale capoverdiano o del ruolo delle donne
con la morte in generale, non le è stato chiaro fino alla morte di Ted.
L’etnografo, per sua stessa natura, è sempre stato imperfetto, altrimenti cesserebbe di essere un
etnografo, e dunque l’interpretazione è sempre multi-direzionale e multi-prospettica.
Nell’ottobre del 2003, l’antropologa e il compagno si trasferiscono nella città di Mindelo, nell’isola
di São Vicente, poiché l’aeroporto di Ponta do Sol, dove Lu lavorava, era stato chiuso e tutto il
personale era stato trasferito lì.
4. Il dibattito sull’identità a Capo Verde
Capo Verde è più Africa o più Europa? Le posizioni sono diverse.
Abbiamo visto che durante il colonialismo portoghese, i capoverdiani godevano di uno statuto
peculiare rispetto agli altri africani, in quanto non venivano percepiti come africani.
La questione tanto dibattuta dell’africanità o dell’europeizzazione dei capoverdiani va di pari
passo con la questione dell’indipendenza nazionale ed è fortemente legata alle vicende politiche.
1) Nel movimento che ruota intorno alla rivista ‘Claridade’ si assiste ad un nuovo interesse per
la cultura e la lingua capoverdiana. Il movimento dei ‘Claridosos’ tentava di attuare
un’operazione culturale che consisteva nel decolonizzare l’ambiente e capoverdianizzare
l’arcipelago, ancora prima dell’indipendenza politica.
Possiamo affermare che l’indipendenza culturale di Capo Verde ha preceduto quella
nazionale, e che il sentimento di nazionalità anticipa il suo riconoscimento giuridico.
2) Una vera e propria rivalorizzazione avviene solo con il movimento di Cabral che vede nel
riconoscimento dell’africanità la base per la liberazione nazionale. Cabral afferma la
necessità di un’unione dei Paesi del Terzo Mondo, vittime del processo storico di
colonizzazione.
Oggi il dibattito è ancora aperto: dal punto di vista politico, l’identità è stata e continua ad essere
una risorsa del potere ed è ancora oggi strumentalizzata dai partiti per accattivarsi l’elettorato (i
due partiti maggiori, il PAICV e l’MPD, rivendicano l’uno l’identità africana, l’altro quella
euroamericana). Questa è la posizione di diversi studiosi in relazione all’identità di Capo Verde:
• Fonseca afferma che la vera liberazione del capoverdiano avverrà solo attraverso
l’interiorizzazione positiva della propria africanità.
• Elisa Andrade concorda con Fonseca ma se ne differenzia perché punta l’accento sulla continua
rinegoziazione di elementi africani ed europei come tratto costitutivo dell’identità capoverdiana.
• Un’altra analisi la offre Dulce Duarte, secondo la quale la società capoverdiana non ha crisi
d’identità. A partire dal 1600 si assiste ad una riorganizzazione culturale e ad una fusione delle due
culture presenti: Capo Verde non fu una colonia di popolamento ma un interposto.
• Una posizione differente, sostenuta da Varela e Pereira è quella che considera l’identità
capoverdiana come risultante dalla convergenza di un triangolo tra Africa, America ed Europa.
• Veiga crede che la formazione dell’identità capoverdiana è un processo interminabile e in
continua evoluzione.
• Cardoso invece parla di Capo Verde non come di due mondi (quello africano e quello europeo)
che si incontrano, ma di un solo nuovo mondo, quello capoverdiano. Inoltre dice che a Capo Verde
non si è mai instaurato nella società un vero e propria sistema schiavista, a differenza di quanto
sosteneva Pereira.
• Infine, Bettencourt e Duarte ci parlano di un’idiosincrasia capoverdiana, che nasce all’incrocio di
due grandi vicende storiche: una delle più grandi conquiste umane, quella delle scoperte, e una
delle più grandi tragedia, quella della schiavitù. A caratterizzata l’identità capoverdiana, però,
sarebbe prima di tutto la sua insularità: il mare rende l’isolano aperto all’esterno ma allo stesso
tempo chiuso e prigioniero nei limiti dell’isola.
Tutti questi autori privilegiano una visione di Capo Verde come un’identità autonoma ed unica.