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i Robinson / Letture

© 2008, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2008


Nicoletta Bazzano

La donna
perfetta
Storia di Barbie

Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel giugno 2008


SEDIT - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-8710-6
a Giulia e Teresa
Ringraziamenti

L’idea di questo libro è nata nella tratta Roma-Teramo con-


versando con Francesco Benigno e Gabriele Pedullà, affet-
tuosi e solleciti spettatori delle sue varie traversie. Matteo
Sanfilippo, che per leggerne la prima stesura ha sacrificato
parte di un’entusiasmante notte bianca romana, è stato pro-
digo di suggerimenti. Giuseppe Mrozek mi ha aiutato, in un
momento di difficoltà, a reperire alcuni materiali. Pamela Ca-
talano, Roberta Pizzutto e Alessandra Campanile non hanno
mai smesso di incoraggiarmi. A tutti va il mio più sincero rin-
graziamento.
Ugualmente profonda è la mia riconoscenza per Olga
Khaustava, che si è spesso presa cura di Ruggero mentre la
sua mamma continuava a «giocare con la Barbie», attività che
prometto a Massimo di interrompere ringraziandolo di tutto
cuore.
La donna perfetta
Storia di Barbie
Lilli

Il 23 giugno del 1952, sulla prima pagina del «Bild Zeitung»


pronto per la rotativa campeggia una lunga colonna candida,
un enorme spazio bianco che bisogna affrettarsi a riempire.
Il redattore capo mette all’opera Reinhard Beuthin, il grafico
della testata. Il disegnatore, preso alla sprovvista, tratteggia il
profilo di un angioletto paffuto. Bocciato. Malgrado il biso-
gno impellente – il giornale deve andare in macchina entro
mezz’ora – si pretende qualcosa di accattivante per il lettore
del quotidiano.
E così, continuando a lavorare di matita, il visetto rotondo
dell’angelo si assottiglia, i boccoli diventano ciocche maliziose
che sfuggono da una fluente coda di cavallo; sotto un sorriso
che perde in celestialità per acquistare una sfumatura di inno-
cente malizia, viene tratteggiato un corpo tutto curve, che gli
abiti severi non riescono neppure minimamente a dissimulare.
«Voici Lilli» recita, in un vezzoso francese, la didascalia
del disegno che si trova a riempire il 24 giugno 1952 la prima
pagina di «Bild Zeitung». Ecco Lilli. Ed è subito un succes-
so, che si rinnova ogni giorno dalla striscia domenicale riser-
vatale dal giornale.
Lilli, infatti, risulta estremamente attraente per i lettori. In
primo luogo è il suo aspetto a farle conquistare la comune
ammirazione. Slanciata e bionda, Lilli impersona il canone di
bellezza che il defunto regime nazionalsocialista aveva pro-
pagandato come unico possibile e che il tedesco medio ha im-
parato a considerare come ideale: un modello che si è ancor
più radicato quando, al seguito delle truppe di occupazione,

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sono arrivate in Germania le immagini delle seducenti pin up
statunitensi.
Seno prosperoso, vita sottile, fianchi morbidi: il suo aspet-
to sembra compendiare quanto Joseph Goebbels, ministro
della propaganda del Reich hitleriano, aveva scritto, negli an-
ni Trenta, in un racconto giovanile.

La donna ha il compito di essere gradevole e di mettere al mon-


do figli. Questa non è un’idea così retriva e crudele come si può
pensare in un primo momento. Le femmine degli uccelli si puli-
scono per il proprio compagno e si prendono cura delle uova. In
cambio il maschio si incarica di portare il cibo al nido, rimane vi-
gile e combatte contro tutti i nemici.

Nei tratti somatici Lilli, con i suoi lineamenti delicati, richia-


ma quell’«essenza del tipo nordico», già inutilmente cercata nel
1926 in un concorso della rivista «Volk und Rasse» (Popolo e
razza). Secondo i giudici della rivista nessuna concorrente pre-
sentatasi aveva risposto al modello richiesto: al di là dell’aspet-
to fisico, infatti, essi inseguivano una dimensione morale che, ai
loro occhi, le donne del primo Novecento avevano smarrito, do-
po che il primo conflitto mondiale le aveva portate a ricoprire
ruoli in precedenza di esclusivo appannaggio maschile. Non ba-
stavano gli occhi azzurri e i capelli biondi di Marlene Dietrich a
incarnare con la pienezza richiesta l’ideale inseguito.
Solo apparentemente si trattava di una questione estetica.
L’Angelo azzurro che, prima nel romanzo di Heinrich Mann
e poi nel film di Joseph von Sternberg, seduceva il bigotto
professor Unrat possedeva una torbida carica erotica che mal
si addiceva alla donna tedesca esemplare, il cui tratto domi-
nante doveva essere quello di una spensierata e candida alle-
gria e il cui unico e naturale obiettivo era quello di generare
quanti più figli possibile.
L’idea che la donna tedesca dovesse avere nella maternità
il suo principale obiettivo e nel panorama sbirciato dalle fi-
nestre della casa coniugale il suo unico orizzonte era stata af-

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fermata con chiarezza sin dai primi anni del secolo. Nel 1914
Fritz Lenz, un eugenista ossessionato da un’imminente
«scomparsa» della «razza tedesca» dinanzi alla crescita di al-
tre popolazioni, teorizzò l’obbligo sociale per la donna di de-
dicare tutte le proprie energie, la propria forza e il proprio vi-
gore alla riproduzione. Secondo i suoi calcoli, si potevano
raggiungere livelli di fecondità incomparabili con quelli atte-
statisi ai due figli per coppia, cui la borghesia tedesca, in con-
sonanza con quanto accadeva contemporaneamente nel resto
d’Europa, cominciava a inizio Novecento ad attenersi.

Si tratta di un fatto che la donna sia fisicamente in grado di pro-


creare per un periodo medio di 30 anni. Considerando che la don-
na può generare soltanto una volta ogni due anni questo significa
mettere al mondo 15 figli come minimo. Qualsiasi cifra inferiore a
questa va considerata come la conseguenza di cause non naturali o
patologiche.

Nel 1935 Otmar Freiherr von Verschuer, direttore dell’Isti-


tuto sull’igiene della razza dell’Università di Francoforte e scia-
gurato maestro del criminale nazista Josef Mengele, aveva
scritto che la «migliore politica contro la disoccupazione con-
siste nel favorire il ritorno a casa delle donne». Qualche anno
più tardi, forte di queste affermazioni «scientifiche», Hitler di-
chiarò solennemente che «il campo di battaglia della donna è
la casa». E per indurre le donne a lasciare il lavoro e tornare a
pappe, pentole e padelle vennero create onorificenze da asse-
gnare alle madri più prolifiche, premiate come combattenti
particolarmente valorosi, mentre le coppie senza figli doveva-
no pagare tasse aggiuntive e l’incapacità delle donne a pro-
creare veniva contemplata come causa di divorzio.
Cancellare la presenza femminile dal mondo del lavoro ri-
sultò però difficile. Malgrado gli auspici della propaganda, la
necessità crescente di manodopera impediva che le donne
abbandonassero il posto di lavoro. Paradossalmente rispetto
ai dettami del regime, ma in maniera estremamente naturale,

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viste le condizioni in cui versava la Germania, il numero del-
le lavoratrici aumentava di concerto con l’inquadramento de-
gli uomini nelle file dell’esercito. Complici alcuni divieti uffi-
ciali, alle donne, nei servizi pubblici come nelle fabbriche, ri-
manevano gli incarichi più svantaggiosi, gli impieghi meno
remunerativi mentre ogni tentativo di migliorare la propria
posizione veniva regolarmente frustrato. Il lavoro fu così, per
le donne tedesche, una condanna che non redimeva da una
condizione oggettiva di inferiorità, dalla quale ci si poteva ri-
scattare solo con la procreazione.
Anche negli anni immediatamente successivi alla fine del
regime, le donne furono costrette a sopportare una situazio-
ne estremamente gravosa. In una Germania confusa, popola-
ta di reduci allo sbando, senza casa, senza famiglia, senza la-
voro, le donne affrontavano la durezza di una vita quotidia-
na che sembrava somigliare per molti aspetti a una lotta
darwiniana. Assenti gli uomini, perché morti o prigionieri, le
donne sopportavano le lunghe code per i rifornimenti ali-
mentari e si adattavano alle lunghe contrattazioni del merca-
to nero: ancor più di prima il lavoro diventò un fardello dif-
ficile da sopportare.

Quasi a voler visualizzare un’aspirazione diffusa, nelle vi-


gnette di Reinhard Beuthin, il creatore del nuovo fumetto che
rallegra la prima pagina di «Bild Zeitung», Lilli non appare
mai al lavoro, ma sempre occupata a far bella mostra di sé e
delle sue grazie, esibite con notevole disinvoltura (come d’al-
tronde fanno, oltreoceano, le sue cugine su manifesti e calen-
dari). La sua principale occupazione e la sua maggiore preoc-
cupazione è quella di tenere a bada i numerosi pretendenti in
situazioni umoristiche in cui i personaggi si esprimono in un
linguaggio non privo di doppi sensi. Il sogno di Lilli – come
confessa sin dalle prime strisce, in cui si intrattiene con una
cartomante – è quello di sposare un milionario; nel frattem-
po attraversa con passo leggero le più diverse vicende, più at-
tenta ai portafogli che agli sguardi maschili. Sempre elegan-

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te, grazie anche ai preziosi consigli della moglie del disegna-
tore, Erika Beuthin, Lilli si dedica alla cura del proprio aspet-
to e alle mille civetterie cui gli uomini tedeschi aspirano per
le loro donne, dopo quella che è sembrata un’interminabile
stagione di severità.
Grazie alla sua coquetterie, Lilli riscuote un grande suc-
cesso. Diviene un simbolo del «Bild Zeitung», che le affida
un’inedita missione pubblicitaria. A un anno dalla sua nasci-
ta, Reinhard Beuthin, pur continuando a disegnarne le av-
venture nelle strisce che arricchiscono la versione domenica-
le del quotidiano, si mette in contatto con Max Weissbrodt,
un progettista della ditta Hausser Elastolin di Neustadt, af-
finché la sua eroina acquisti tridimensionalità.

La Hausser Elastolin era un’azienda fra le più conosciute


in Germania. Fondata nei pressi di Stoccarda ai primi del No-
vecento e trasferitasi in Turingia negli anni Trenta, doveva le
sue fortune all’elaborazione di una miscela di cartapesta, col-
la e gesso con la quale si costruivano figurine in miniatura,
l’elastolin. Questo materiale era sicuramente meno costoso
del piombo, con il quale in Inghilterra a partire dalla fine
dell’Ottocento si realizzavano i soldatini destinati al gioco dei
bambini, e una volta pressato negli appositi stampi si presta-
va ugualmente bene a essere dipinto con vernici satinate da
artisti specializzati. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, la Haus-
ser Elastolin aumentò le sue fortune. Su diretta sollecitazio-
ne del regime, infatti, la ditta – come molte altre aziende te-
desche produttrici di giocattoli – ampliò il suo catalogo rea-
lizzando le miniature di mezzi e uniformi dell’esercito tede-
sco: figurine con le divise della Wehrmacht o della Luftwaf-
fe, autocarri, cannoni, cucine da campo e così via. In questo
modo il regime intendeva promuovere nei bambini, sin dalla
più tenera età, l’aspirazione alla vita militare e l’idea di ap-
partenere a una nazione forte. Quando, sul finire della guer-
ra, i bombardamenti distrussero gli stabilimenti delle ditte
concorrenti, la Hausser Elastolin venne miracolosamente ri-

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sparmiata dagli attacchi aerei. Dai laboratori della ditta, che
si trovava nella zona occupata dalle truppe statunitensi, co-
minciarono così a venir fuori le miniature degli autocarri
americani. Tuttavia, ben presto, con il ritorno alla normalità,
il repertorio militare cessò di essere quello di maggiore im-
portanza per l’azienda, in cerca di ridefinizione malgrado la
grande professionalità.

In quei primi anni Cinquanta, i progettisti dell’Hausser


Elastolin, attenti ai minimi particolari, e i suoi decoratori,
sensibili alle più tenui sfumature, sono dunque fra i pochi, in
Germania, in grado di garantire a Reinhard Beuthin che, nel
passaggio dalla bidimensionalità alla tridimensionalità, Lilli
non perda i suoi caratteri originali, ma conservi, amplifican-
dolo, quel tratto vezzoso che la rende affascinante agli occhi
maschili.
Dopo diversi conciliaboli fra Beuthin e Weissbrodt e sva-
riati tentativi di riprodurre a colori e in tre dimensioni quan-
to Beuthin ha realizzato in bianco e nero e in due dimensio-
ni, il 12 agosto 1955, Lilli fa il suo ingresso sul mercato tede-
sco al prezzo di quasi venti marchi. I capelli color platino le-
gati in una coda di cavallo, gli occhi bistrati, l’aria sofisticata
non la rendono, però, una bambola destinata alle bambine
europee, che continuano a cullare bebè di plastica dagli oc-
chioni sgranati. Nei suoi trenta centimetri scarsi – ne misura
in realtà ventinove e mezzo –, la pallida e bionda Lilli, dallo
sguardo obliquo e dalle rosse labbra a forma di cuore, rac-
chiude un concentrato di sensualità assolutamente inadegua-
to alle fantasie infantili. La ricercatezza della bambola è am-
plificata dalle mises raffinate, realizzate appositamente per lei
dalla 3M Dolls sotto la guida di Martha Maar, la madre
dell’imprenditore Rolf Hausser, che segue appassionatamen-
te l’evolversi capriccioso della moda dell’epoca. La copia in
miniatura del quotidiano «Bild Zeitung» che stringe in mano
accentua l’idea che Lilli non sia stata creata per i giochi in-
fantili.

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Chiusa in una scatola trasparente, che ne fa apprezzare la
linea voluttuosa delle forme, Lilli è destinata a un pubblico
maschile adulto: un regalo divertente per signori, un gadget
malizioso da acquistare in quei luoghi tradizionalmente riser-
vati agli uomini che sono le tabaccherie. Anche la versione in
miniatura, che misura diciotto centimetri, e che verrà com-
mercializzata di lì a poco, anch’essa chiusa in una scatola tra-
sparente e accompagnata da una copia del «Bild Zeitung» tut-
ta a lei dedicata, rimane riservata agli uomini, quale stuzzican-
te mascotte portafortuna. Con questo ruolo provocante Lilli
varca i confini tedeschi e comincia a essere distribuita in Au-
stria e in Svizzera, inconsapevole del destino di progenitrice di
un autentico mito.
È nata una stella

Spazzate vie le macerie, complice la bontà del cambio, il Vec-


chio Continente diviene il luogo dove gli abitanti del Nuovo
amano trascorrere le loro vacanze: in Europa è possibile respi-
rare quell’atmosfera rarefatta che gli americani non riescono a
trovare in patria. La raffinata Audrey Hepburn di Vacanze ro-
mane, di Sabrina o della commedia musicale Gigi non può che
confermarlo. Ma non sono solo le giovinette di belle speranze
ad attraversare l’oceano piene di curiosità. L’Europa attira pro-
prio tutti, anche le tranquille famigliole della classe media ame-
ricana. Così, nel 1956, fra le tante famiglie che giungono ad am-
mirare i monumenti europei, si contano anche gli Handler. Il
signor Elliott Handler e sua moglie Ruth, i figli Barbara, di
quindici anni, e Kenneth, di nove, passeggiano oziosamente
godendosi il clima estivo per le vie di Lucerna. È per le strade
della cittadina svizzera – come ricorderà negli anni a seguire,
confondendo talvolta, nelle diverse interviste rilasciate, Lucer-
na con Zurigo – che Ruth vede per la prima volta Lilli.

Eravamo andati tutti e quattro a fare una passeggiata per vetri-


ne. [...] Presto ci fermammo davanti a un negozio di giocattoli. Ken
disparve al suo interno, ed Elliott gli andò dietro. [...] Al posto di
seguirli, Barbara ed io ci attardammo a lungo davanti al negozio.
Eravamo totalmente affascinate dalla vetrina. Vi erano esposte sei
bambole di 28 centimetri; i visi e i capelli erano identici ma ogni
bambola portava una tenuta da sci diversa, di stile europeo.

Sebbene abbia da tempo passato l’età dei giochi con le


bambole, Barbara, i cui ingenui occhi statunitensi non sanno

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decifrare la malizia tutta europea di Lilli, vuole assolutamen-
te uno degli esemplari in vetrina. Già immagina di continua-
re con quella bambola il gioco tante volte fatto con le bam-
bole di cartone, vestite con abiti di carta sempre diversi tenuti
da linguette. Per questo Barbara, abituata all’opulenza ame-
ricana, oltre la bambola vorrebbe almeno un vestito di ri-
cambio. Ma la commessa non può accontentare la ragazza.
Nell’Europa in cui anche nelle buone famiglie si rivoltano i
soprabiti e si risuolano più volte le scarpe, i singoli abiti non
sono in vendita e Barbara deve accontentarsi solo della Lilli
che le piace di più. I deliziosi vestitini alla moda disegnati da
Martha Maar Hausser non risultano in vendita neppure l’in-
domani a Vienna, dove la signora Handler acquista ancora
due Lilli, una per la figlia, l’altra per sé. La bambola l’ha
profondamente colpita, poiché rende palpabile una fantasia
a lungo coltivata in cui si fondono elementi contrastanti de-
rivati da una particolare vicenda biografica.

Ruth era nata nel 1916 a Denver, in Colorado, da genito-


ri ebrei di origine polacca. Quando era ancora la signorina
Mosko, Ruth aveva lavorato come stenografa negli studi del-
la Paramount. Nel 1938, dopo il matrimonio con Elliott
Handler, si era stabilita a Hawthorne, in California, la citta-
dina che ha dato i natali a Norma Jean Baker, la futura Ma-
rilyn Monroe, e che si trova a pochi chilometri dal luogo do-
ve sorgerà nel 1955 l’immaginifica Disneyland. In quello che
diventerà di lì a poco un «paese dei balocchi», dove i piccoli
inseguiranno le grandi sagome di Mickey Mouse e di Donald
Duck e i grandi sogneranno lo sguardo languido e dolce di
Marilyn, negli anni Quaranta Elliott Handler e il suo socio
Harold Mattson fondarono la Mattel. La loro azienda, il cui
nome è frutto della fusione fra le prime lettere del cognome
del secondo e quelle del nome di battesimo del primo, pro-
duceva mobili per case di bambole che riscuotevano un cer-
to successo. Quando Harold Mattson aveva lasciato il socio,
il suo ruolo era stato rilevato da Ruth Handler, che si era co-

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sì trovata a lavorare fianco a fianco al marito. Elliott, tuttavia,
non era eccessivamente ricettivo ai consigli della moglie, che
avrebbe voluto ampliare l’attività dell’impresa familiare e
produrre un nuovo tipo di bambole. A Ruth riusciva diffici-
le spiegare perché non voleva immettere sul mercato un bam-
bolotto con le braccine paffute da bebè, simile a quanti tro-
neggiavano sugli scaffali dei negozi di giocattoli. Quando poi
gli capitava di descrivere la bambola adulta che aveva in men-
te, non trovava orecchie disposte ad ascoltarla. Eppure av-
vertiva che le bambine dell’età di sua figlia, o poco più pic-
cole, non trovavano eccessiva soddisfazione nel giocare alle
mamme con i pargolotti di plastica.

Nel clima di prosperità in cui si trovano gli Stati Uniti negli


anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondia-
le, con l’affermarsi del consumismo, le bambine tendono a re-
plicare nei loro passatempi le smanie delle borghesi americane,
prima fra tutte quella di acquistare e cambiare turbinosamen-
te abito a ogni ora e per ogni occasione. Armate di forbici affi-
late, ritagliano completi da giorno e abiti da sera, costumi da
bagno e tenute sportive, stando ben attente a non eliminare
quelle linguette candide che servono ad assicurarli alla rigida
bambola di cartone. Agghindate di tutto punto, le bambole so-
no pronte a vivere le loro fantastiche avventure. Sono tempi
nuovi, però, anche per le favole. I volti dei divi e delle dive che
occhieggiano dalle pagine dei giornali dopo aver riempito la su-
perficie luminosa dello schermo cinematografico divengono
familiari anche ai bambini. E ben presto ai personaggi di Per-
rault e dei fratelli Grimm, le cui vicende continuano a essere
narrate in quei rituali familiari che contemplano «i racconti del-
la buona notte» quale saluto quotidiano dei genitori prima del
riposo notturno, bambini e bambine cominciano a preferire gli
eroi e le eroine delle nuove favole diffuse dalla celluloide.
Il principe azzurro ha i lineamenti regolari e il fascino di-
stinto e scanzonato di Cary Grant oppure il sorriso ironico e
lo sguardo penetrante di Clark Gable; Cenerentola o Bianca-

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neve cessano di essere gli unici ideali di cui le bambine aspi-
rano a vivere l’avventura romantica; la spigolosa Rossella
O’Hara, interpretata con ironia da Vivien Leigh, l’esplosiva
Rita Hayworth o l’accattivante Marilyn sembrano possedere
l’essenza più nascosta della femminilità.
Tutto ciò, probabilmente, non è ignoto alla signora Hand-
ler. Ma spiegare come le fantasie di bambine nutrite a latte e
cinema possano essere diverse da quelle delle bambine delle
generazioni precedenti appare particolarmente difficile in un
mondo conservatore quale quello della produzione di gio-
cattoli. A toglierla dall’impaccio giunge, per le strade di una
cittadina svizzera, la tedesca Lilli, che sembra compendiare
nei suoi formosi trenta centimetri scarsi l’essenza del divismo.
Delle icone del cinema Lilli ha lo sguardo ambiguo e amma-
liante, il broncio scarlatto e l’inconfondibile allure: è pronta
a proiettare mille fantasticherie infantili e adolescenziali sul
candido telo del gioco quotidiano.
Il viaggio da un continente all’altro non è dei più facili. Lil-
li non è un oggetto che un wasp – white-anglo-saxon-protestant
– metterebbe senza una qualche preoccupazione nelle mani
delle figlie innocenti. In Germania la bambola gode di una pic-
cante reputazione, che Ruth Handler, peraltro, ignorava total-
mente al momento del fatidico acquisto. Ma per una donna che
ha trascorso i suoi anni giovanili nella Hollywood dei grandi
studios, ciò non rappresenta certo un problema.

Sulla collina dei divi si sprecavano, già da tempo, le chiac-


chiere sulle allegre tendenze bisessuali di Marlene Dietrich e
del gruppo di sue amiche, note come «il circolo del cucito di
Marlene»; si sussurrava dell’amicizia particolare che legava la
divina Greta Garbo con la scrittrice Salka Viertel; più forte
ancora era il mormorio su Charlie Chaplin, la sua passione
per le minorenni e la ragguardevole «artiglieria personale»,
indiscreto particolare che le voci attribuivano anche a
Humphrey Bogart. Accanto ad amori omosessuali e passioni
extramatrimoniali, argomenti preferiti dei mormorii erano

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baccanali e festini, dove non si risparmiava su alcol e cocai-
na. In realtà, quanto avveniva sui bordi delle piscine dei divi
non arrivava sulle pagine dei quotidiani, e le stelle del cinema
erano al tempo stesso personaggi da applaudire e modelli da
imitare. Gli spettatori volevano vestirsi, mangiare e divertirsi
come i divi che ammiravano: quando Clark Gable in Accad-
de una notte si tolse la camicia rimanendo con il torace nudo
crollarono le vendite delle canottiere; a Veronica Lake lo stes-
so governo chiese di modificare la pettinatura, perché diver-
se operaie che imitavano l’onda di capelli sul viso rimaneva-
no vittime di incidenti sul lavoro. Di tanto in tanto, però, la
cieca adorazione degli spettatori veniva scossa dagli scandali
che sulle prime pagine dei giornali gettavano un’ombra tetra
sulle figure dei divi. Sfrenatezze, droga, violenze, morti im-
provvise... Ma si trattava di fulmini che squarciavano un cie-
lo pronto a ritornare presto sereno. Come scriverà Kenneth
Anger, nel suo Hollywood Babilonia: «I fans adoravano ma
erano volubili, e se le loro divinità mostravano di avere i pie-
di di argilla le abbattevano senza pietà. Tanto, a un passo dal-
lo schermo, c’era sempre una nuova stella in attesa di sorge-
re». Con il passare del tempo, le grandi case cinematografi-
che affinarono le loro abilità e presto furono in grado di co-
struire a tutto tondo le figure dei divi e delle dive che voleva-
no lanciare, di dotarle di tutti quei pregi che la pubblica mo-
rale esigeva fossero patrimonio collettivo, di nascondere le in-
finite debolezze sotto la maschera sfavillante che sfoggiava-
no, di presentarli impeccabili al pubblico osannante.
Del resto gli studios non inventano nulla. Raffinano una pra-
tica nata con le stesse colonie americane, tanti secoli prima, e che
già Daniel Defoe aveva raccontato nel suo romanzo Moll Flan-
ders. La maggior parte degli abitanti del Nuovo Mondo, tra la
fine del Seicento e gli inizi del Settecento, non era certo classifi-
cabile nella categoria degli onesti borghesi. Si trattava di schia-
vi o di delinquenti tutti riconoscibili dal marchio a fuoco im-
presso sulla carne. Tuttavia, al di là dell’oceano si poteva avere
una nuova identità: «più di un uccello uscito dalla gabbia di

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Newgate diventa un grand’uomo, e qui abbiamo [...] diversi
giudici di pace, ufficiali di polizia, magistrati, che hanno il mar-
chio di fuoco sulla mano». La stessa Moll, protagonista del ro-
manzo «fu dodici anni prostituta, cinque volte moglie – e una
volta al suo stesso fratello –, dodici anni ladra, otto deportata in
Virginia, e alla fine diventò ricca, visse onesta e morì penitente».

Alla tedesca Lilli, Ruth Handler non chiede rivolgimenti esi-


stenziali così tortuosi. E così, nel volgere di un triennio, l’intra-
prendente americana cancella la prorompente e ingombrante
personalità di Lilli per creare una bambola che le assomiglia
moltissimo nel fisico ma che è totalmente nuova per moltissimi
altri aspetti: primo fra tutti quello di essere destinata ai giochi
infantili. Il 9 marzo 1959, fa il suo ingresso trionfale alla fiera
del giocattolo di New York la bambola Barbie, il cui nome al-
tro non è che il diminutivo di quello della figlia degli Handler,
Barbara Joyce. La casa produttrice Mattel la presenta come
«teen-age fashion model», sottolineando la sua età adolescen-
ziale e l’indelebile attitudine a seguire la moda; e ancora come
«a new kind of doll from a real life», un nuovo tipo di bambo-
la dalla vita reale. Tuttavia, la realtà che Barbie si trova a vivere
e a far vivere a coloro che giocano con lei è incontestabilmente
impregnata di divistica irrealtà. La bambola stessa, sin dalla sua
prima comparsa, più che la ragazza della porta accanto appare
come una delle inarrivabili dive che popolano gli schermi e le
fantasie delle adolescenti statunitensi: la folta chioma bionda
come quella di Marilyn Monroe o bruna come quella di Jane
Russell con una frangia a far velo allo sguardo; le morbide cur-
ve, tanto simili a quelle di Lilli, sono coperte da un costume da
bagno di jersey bianco e nero che svela lunghissime gambe, re-
se ancora più slanciate da affusolati zoccoletti a tacco alto; il vi-
so, ancora una volta tanto somigliante a quello dell’antesigna-
na tedesca, è ingentilito da grandi orecchini dorati. Grandi oc-
chiali da sole bianchi con lenti blu lo possono celare a sguardi
indiscreti: ecco a voi Barbara Millicent Roberts, Barbie. Signo-
ri, è nata una stella.

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Diventare grandi

L’ingresso di Barbie nel mondo infantile a prima vista sembra


arduo: troppo trucco, troppo seno, troppi tacchi, troppo tut-
to..., almeno a detta dei moralisti, che gridano allo scandalo.
Ma la bambola non ha attraversato l’oceano per subire una
condanna, e il successo di mercato cui, sin dalla sua prima ap-
parizione, va incontro non fa che confermarlo. Complice la
partecipazione alla popolare trasmissione televisiva per bam-
bini The Mickey Mouse Club, al concorrenziale prezzo di 3 dol-
lari l’una, nel solo 1959 più di 351.000 Barbie lasciano gli scaf-
fali dei negozi per trasferirsi nelle accoglienti case americane,
con un importantissimo, malcelato, compito da svolgere.
Come ogni gioco che si rispetti, Barbie deve educare le
bambine che hanno a che fare con lei, prepararle al futuro.
Ma, se è vero che – come afferma negli stessi anni il sociolo-
go Roger Caillois nel saggio I giochi e gli uomini – il gioco
«non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto» e che
«il ragazzino che gioca col cavalluccio o col trenino non si
prepara affatto a diventare cavaliere o macchinista, né si pre-
para a fare la cuoca la bambina che ammannisce in ipotetici
piatti alimenti fittizi insaporiti da finti odori», Barbie non re-
plica pedissequamente le funzioni di un qualsiasi, ingenuo,
giocattoluccio di legno o di gomma. Non si limita a consen-
tire l’innocente simulazione di attività per «allenare alla vita
aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far
fronte alle difficoltà». Ogni volta che una bambina si mette ai
fornelli con Barbie, in lei trova anche un ineludibile riferi-
mento: con il suo aspetto inequivocabilmente adulto e con gli

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accessori in miniatura di cui ben presto viene dotata, Barbie
non può non essere, oltre che una bambola come tutte le al-
tre da accudire e vezzeggiare, soprattutto un modello, in cu-
cina come in qualsiasi altro luogo. La bambina che sveste e
riveste Barbie, pettinandone i fluenti capelli di nylon, gioca
con quello che, inevitabilmente, sta diventando il proprio ar-
chetipo femminile. Come ha sottolineato recentemente Victor
Stoichita, nel suo L’effetto Pigmalione, «la bambina gioca con
il proprio modello femminile ideale e, di conseguenza, con la
propria madre, divenuta, almeno in virtù delle dimensioni,
bambina». Da principio, tra le mille attività che una madre
svolge dinanzi agli occhi attoniti della sua bambina, Barbie
predilige quelle connesse alla sua natura di feticcio della so-
cietà dei consumi: un tratto amplificato dalle prime campa-
gne pubblicitarie. A differenza di quelle della sua matrice Lil-
li, che nelle prime foto di presentazione al pubblico si mo-
strava nuda con le scarpe, in una posa che ne metteva in ri-
lievo la snodabilità, Barbie sin dal suo apparire esalta la sua
vocazione di manichino. Un’immagine propagandistica del
1959 la mostra come un multiplo: non una, ma sette Barbie,
con diverse acconciature e diverso abbigliamento, sono alli-
neate dinanzi all’obiettivo, che le inquadra controluce, met-
tendo in rilievo la lieve trasparenza degli abiti. È al tempo
stesso reale, nelle sue fattezze di plastica pronte a ogni rifini-
tura, e irreale, nel suo promettere alle bambine un futuro di-
nanzi allo specchio con nuovi abiti e nuovi rossetti. Barbie in-
segna quale, nell’ordinata società occidentale della fine degli
anni Cinquanta, sia l’autentico volto della donna: sempre
pronto al cambiamento sull’onda di una nuova sollecitazio-
ne. E la bimba che, ignara, continua a infiocchettarla per poi
sciogliere il nastro, nella rassicurante ripetizione dell’infan-
zia, apprende i rudimenti di quell’attenzione spasmodica al
proprio aspetto fisico che conserverà nei giorni a venire.

Nel trasformare il gioco mimetico in strumento di disci-


plinamento, Barbie non è certo una pioniera. Nell’antichità,

17
le bambole in terracotta raffiguranti figure femminili adulte,
quasi sempre nude, avevano il compito di rappresentare, in
un certo senso, il culto della fertilità. La bambola veniva so-
lennemente abbandonata in un tempio al momento delle
nozze delle fanciulle di tredici o quattordici anni durante
una cerimonia che non segnava soltanto l’addio all’infanzia
ma anche l’addio alla verginità. Conservavano la loro bam-
bola, e venivano sepolte con essa, solo quante si consacra-
vano agli dèi.
L’avvento del cristianesimo eliminò i tratti sessuati nelle
bambole che, a partire dall’Alto Medioevo, riprodussero ge-
neralmente bambini in fasce, donne e uomini abbigliati se-
condo la moda del tempo, monaci e monache: si trattava di
giocattoli per bambini e bambine, al pari delle trottole di le-
gno e dei fischietti di terracotta, che in un qualche modo pre-
figuravano loro il futuro. La «sventurata» Gertrude manzo-
niana, monaca a Monza, che nel Seicento «rispose» agli inviti
del dirimpettaio scavezzacollo tuffandosi nel vortice della pas-
sione, veniva da un’infanzia in cui «bambole vestite da mona-
che furono i primi balocchi che le si diedero in mano. [...] Nes-
suno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era
un’idea sottintesa e toccata incidentemente».
Con le lontane bambole controriformistiche, che fanno
opera di convincimento, Barbie condivide la missione, anche
se apparentemente il suo compito è assai meno problematico
e tristo. Non deve piegare nessuno a prendere il velo e a spa-
rire dal mondo per il resto della vita, ma più semplicemente
forgiare le abitudini tipiche della donna di media estrazione
della società occidentale. Walter Benjamin, nelle poche pagi-
ne dedicate a Giocattolo e gioco, afferma che quest’ultimo «e
null’altro, è la levatrice di ogni abitudine» e che «l’abitudine
nasce come gioco, e in essa, anche nelle sue forme più rigide,
sopravvive fino alla fine un piccolo residuo di gioco». Non si
sa quanto Barbie sia consapevole di ciò, ma si appresta a svol-
gere una delicatissima fatica: illustrare alle bambine quanto
possa essere palpabile e come debba essere non solo ghermi-

18
ta, ma posseduta e custodita, quella che in Occidente si chia-
ma «l’essenza della femminilità», un’essenza i cui tratti di-
stintivi sono l’arrendevolezza e la civetteria e i cui segni este-
riori si compendiano nei tacchi alti e nel rossetto sgargiante.
Vestendola e spogliandola, preparandola per una notte di ri-
poso o per una grande soirée, le bambine imparano a essere
sempre opportune, almeno dal punto di vista dell’abbiglia-
mento; ravviandole i capelli, ora sciolti ora in una coda di ca-
vallo ora in un vezzoso chignon, ripassandole il rossetto, si
scopre la severa disciplina sottesa all’aspetto curato, le preoc-
cupazioni continue che richiedono un’acconciatura impecca-
bile e un maquillage raffinato. Sollevate dalle fatiche dome-
stiche dal massiccio impiego degli elettrodomestici, per non
avvertire fastidiosi sensi di colpa o discutibili vuoti che po-
trebbero condurle a una pericolosa introspezione, le fanciul-
le americane apprendono prematuramente la fatica della bel-
lezza – di certo tipo di bellezza – considerandola connatura-
ta all’esistenza, e assimilano l’impegno necessario per preser-
varla e la concentrazione esclusiva per affrontare questo tita-
nico sforzo. Ancora libere dalle catene costituite dagli obbli-
ghi sociali, le bambine imparano a sopportarne il peso, tro-
vandolo magari gradevole, e a trasformarsi senza un guizzo di
adolescenziale ribellione nella «Signora Maggioranza Me-
dia», obiettivo principale dell’occulta persuasione di avidi
pubblicitari.

La Signora Maggioranza Media [...] è assai bene disposta verso


tutti i prodotti destinati alla massaia americana, specie verso gli arti-
coli e apparecchi per la cucina che è il centro del suo mondo. [...] Ha
uno spiccato senso di responsabilità morale e costruisce tutta la sua
vita attorno al proprio focolare domestico. Ma, d’altra parte vive in
un mondo angusto, limitato, ed ha un sacro terrore del mondo ester-
no. Ha scarso interesse per le attività civiche o per le arti, si confor-
ma volentieri a schemi già riconosciuti, e non sente alcun bisogno di
originalità. [...] Tende a considerare tutto ciò che si trova al di fuori
del suo piccolo universo come una minaccia o un pericolo.

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Queste parole di Vincent Packard, scritte nel 1958 in The
Hidden Persuaders (I persuasori occulti), un anno prima della
nascita della bambola, senza sapere quanto utile ai fini
dell’occulta persuasione sarebbe stato il suo ingresso in so-
cietà, tratteggiano un idealtipo nel quale è facile per la bion-
da e formosa fanciulla ritrovarsi e riconoscersi. Barbie, con le
sue scollature e i suoi tacchi a spillo, mentre la lavastoviglie
compie il suo dovere in una cucina tirata a lucido, appare non
tanto un costrutto sociale ma una forma «naturale», immodi-
ficabile del vivere: autentico «mito d’oggi», nella sua formu-
la più compiuta teorizzata da Roland Barthes.
E non a caso, sostanzialmente immodificata Barbie attra-
verserà i suoi primi cinquant’anni, malgrado le mille imper-
cettibili variazioni non solo nell’aspetto fisico, ma anche nelle
inclinazioni che le apparenze lasciano trasparire. Totalmente
caduti nell’oblio i giorni in cui, sotto altro nome, era un licen-
zioso giocattolo per adulti, Barbie diverrà il giocattolo per di-
ventare grandi, grazie anche a tutta una serie di complicati og-
getti di cui verrà dotata. Con il trascorrere degli anni, acqui-
sterà tre sorelle e un fratello, un paio di cugine, un amico del
cuore, scalzato per qualche tempo da un avvenente surfista au-
straliano, un nutrito gruppo di amici di diverse etnie. Altret-
tanto numeroso sarà il suo gruppo di pets: sei cavalli, uno stal-
lone arabo, tre pony, un levriero afgano, un barboncino, tre ca-
gnolini non meglio identificati e un paio di mici. Barbie colle-
zionerà proprietà mobiliari (auto, barche e così via) e immo-
biliari (magioni in città e in campagna, in sobrio stile country
come nelle più sontuose linee dello stile vittoriano o di quello
coloniale, tutte magnificamente arredate e complete di grandi
e piccoli elettrodomestici), insieme a innumerevoli abiti da
giorno e da sera, tenute sportive e lingerie, nonché scarpe, bor-
se, acconciature, gioielli... A casa Mattel si esaudirà ogni suo
desiderio, prima ancora che venga pronunziato, in modo che
Barbie diventi simbolo dell’Occidente sazio e non smetta mai
di accumulare, senza derogare in alcun modo alle imprescin-
dibili leggi del mercato in nome di altri valori.

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Non a caso in lei Barthes ritroverebbe un archetipo del
giocattolo che prepara «gesti senza avventura, senza sorpre-
sa né gioia»; ma non è per le avventure che le bambine bor-
ghesi, in linea di massima, vengono allevate, almeno fino a
buona parte degli anni Settanta, ma per essere casalinghe e
consumatrici, sempre in cerca di qualche scontata e futile
gioia che dia senso a una vita che rischia di esserne priva.
99-53-83

Se Barbie, anziché trenta centimetri scarsi, fosse alta un me-


tro e settantacinque, le sue misure seno-vita-fianchi sarebbe-
ro 99-53-83. Sono proporzioni poco credibili, e forse anche
poco gradevoli: busto troppo corto, con un seno troppo am-
pio, su una vita troppo sottile, con fianchi troppo stretti, su
gambe troppo lunghe che si concludono su piedi troppo ar-
cuati. Eppure, quelle sue forme innaturali – il seno generoso,
la vita affusolata, i piedi già predisposti a un tacco imperti-
nente – appaiono agli occhi delle bambine occidentali dei tar-
di anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta come le più de-
siderabili. Ricordano le curve delle dive cui anche le loro
mamme ambiscono, sottoponendosi a forme di mortificazio-
ne della carne che nei cinquant’anni precedenti erano anda-
te gradualmente scomparendo. Corpetti e bustini dalle allac-
ciature complicate erano scomparsi da circa mezzo secolo dai
guardaroba femminili a favore di biancheria più comoda e so-
prattutto meno costrittrice.

All’alba del Novecento, il busto delle donne era ancora in-


trappolato da severi corsetti le cui stecche gonfiavano, spin-
gendolo in avanti, il seno e stringevano parossisticamente il
girovita. Da questa gabbia emergevano braccia con maniche
arricciate e pompose, mentre le gambe erano nascoste da am-
pie gonne scivolate, il cui volume era sostenuto dal pouf che
enfatizzava il posteriore. Impettite come soldati a una parata,
le signore non potevano tirare (flebili) sospiri di sollievo al
pensiero della libertà di occulto sgambettamento. Il capric-

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cio dei sarti, che dopo lo straordinario successo nella Parigi
di metà Ottocento di Charles Worth, il padre della haute cou-
ture, divennero incontrastati arbitri dell’eleganza, talvolta ag-
giunse nuove costrizioni all’abbigliamento femminile. I pan-
neggi delle gonne si stringevano sotto le ginocchia, avvitan-
dosi intorno alle gambe. Un abito così complicato, natural-
mente, faceva acquisire a chi lo indossava il romantico aspet-
to di una sirena, ma non le assicurava certo comodità e spe-
ditezza nei movimenti: l’infelice, benché à la page, era co-
stretta a una sostanziale immobilità, che si scioglieva solo nel
movimento ritmico e aggraziato del ballo.
Liberare le donne da tali rigide imposizioni non era sem-
plice; tuttavia, nel clima per molti versi artisticamente provo-
catorio che si respirava nella Parigi della Belle Époque, il gio-
vane sarto Paul Poiret propose alle signore della buona so-
cietà abiti fluidi e sciolti, che potevano essere indossati senza
il nascosto ausilio del corsetto. Le tuniche dagli inediti cro-
matismi che riecheggiavano le sperimentali tele degli artisti
squattrinati che vivevano nelle soffitte della Ville lumière eb-
bero nel mondo della moda lo stesso effetto dirompente. Co-
me affermò lo stesso Poiret, compiaciuto della propria auda-
cia e della sapiente interpretazione dello spirito dei tempi
pronti ad accogliere una novità assoluta che consigliava di
gettare alle ortiche un indumento da secoli presente nei bau-
li femminili: «Io non impongo la mia volontà nella moda. So-
no semplicemente il primo a percepire i desideri segreti del-
le donne e a esaudirli in anticipo. È stato in nome della libertà
che ho compiuto la mia prima rivoluzione, deliberatamente
prendendo d’assedio il corsetto».
Tuttavia, la «presunta» rivoluzione di Poiret non frantu-
mava le catene estetiche femminili. Il respiro a pieni polmo-
ni, che le signore potevano finalmente esalare, serviva sem-
plicemente a sbuffare perché le gonne disegnate dal couturier
erano tanto strette da impedire di camminare speditamente.
Ancora una volta, quella per la quale un sarto maschio dise-
gnava, era una donna quasi introvabile nella realtà, che si

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muoveva languidamente da un salotto all’altro. La nascente
società industriale, con la sua capacità di propagandare velo-
cemente ogni idea nuova, riuscì a fare delle lunghe tuniche
del sarto francese un’autentica moda, nei termini descritti da
Georg Simmel nel suo saggio La moda. Da principio solo le
signore dell’alta società si drappeggiarono negli abiti di Poi-
ret per distinguersi da quante continuarono a rimanere fede-
li a crinoline e corsetti; in breve, tutte, in tutti gli strati socia-
li, rinunciarono all’armatura ottocentesca per imbozzolarsi in
quella, più fluida, del nuovo secolo.
Poco male per le frequentatrici del jet-set, sempre alla ri-
cerca di novità pur di distinguersi: a soccorrerle nell’imper-
via fatica di cambiare nuovamente aspetto, continuando a li-
berarle da innaturali costrizioni, arrivò di lì a poco Coco Cha-
nel, una delle rare donne nell’ambiente della moda, domina-
to per la maggior parte da uomini. Mademoiselle Coco fu
protagonista di un’avventura umana, prima che stilistica,
estremamente singolare. Orfana, priva di dote e quindi esclu-
sa dal mercato matrimoniale, carina tanto da poter aspirare a
trovare un compagno facoltoso, Gabrielle Chanel a ventidue
anni andò a vivere con un allevatore di cavalli, che le offrì la
possibilità di frequentare il bel mondo: aristocratici, attori,
artisti affermati. Ma la lussuosa vita di mantenuta non si ad-
diceva a quella ragazza dal fisico spigoloso e dalla volontà fer-
rea, che presto chiese a un nuovo amante di finanziarle un’at-
tività che la rendesse indipendente e le permettesse di diven-
tare ricca. Gli abiti che realizzava nel laboratorio di rue Cam-
bon, a Parigi, per le concittadine dell’alta società furono un
autentico inno all’indipendenza femminile, al movimento, al-
la comodità. Orlo al polpaccio, gonne a pieghe, cardigan che
scendevano morbidi sui fianchi, tweed – un tipico tessuto
maschile – tinto in colori pastello, vistosi gioielli falsi: com-
plice lo scoppio del primo conflitto mondiale, Mademoiselle
Coco interpretava con charme tutto parigino il cambiamen-
to nell’immagine, e nella sostanza, che la guerra faceva speri-
mentare alle donne europee.

24
Al di là dei dettami parigini, infatti, le donne che prende-
vano il posto di lavoro degli uomini al fronte rendevano più
semplice il loro abbigliamento, anche in rispetto di un prin-
cipio di sobrietà che mai prima di quel momento era entrato
fra quelli ispiratori della moda. Nella Russia rivoluzionaria
del 1917 il «Ωurnal dlja choziajek» (Rivista per le casalinghe)
invitava le donne di casa cui si rivolgeva ad attenersi a uno sti-
le rigoroso nell’abbigliamento.

In tempi di totale distruzione dell’economia è difficile parlare


di moda come di una forma d’arte, dei suoi compiti di creare bel-
lezza e armonia, sapendo che a questi compiti corrisponde il lusso
e, quindi, una grande spesa, che attualmente deve essere cancella-
ta dal budget di ogni donna. Lo slogan di oggi, anche nella moda,
dev’essere semplicità e risparmio. [...] Ponendo come scopo il ri-
sparmio, noi, tuttavia, non possiamo negare alla donna il suo in-
trinseco desiderio di apparire seducente, pur con un abito di poco
costo, cucito o rifatto con le proprie mani: l’istinto ci deve suggeri-
re che i tessuti costosi, pizzi, diamanti non sono in sintonia con il
momento storico che stiamo vivendo.

L’ostentazione era lasciata a momenti migliori. Tuttavia,


la conquista della semplicità apparve consolidata al termine
del conflitto. L’ideale di bellezza femminile degli anni Venti
del secolo si compendiava nella figura della garçonne, la «ma-
schietta» magra, slanciata, androgina. Le donne alla moda
sembravano scolare adolescenti, senza seno e senza fianchi,
con il capello corto, nel taglio «alla Eton», e le lunghe gambe
scoperte dalle gonne a pieghe.
Un ulteriore passo avanti nella definizione di una figura
femminile asciutta ed essenziale si compì nel decennio suc-
cessivo. L’austerità seguita al crollo della borsa di Wall Street
nel 1929 segnò la moda dell’intero decennio, che vide le don-
ne impegnate fra diete ed esercizi ginnici per assumere quel-
la linea slanciata, «a matita», che le gonne tornate lunghe e
strette sottolineavano e che divenne certezza di eleganza.

25
«Non si è mai ricchi né magri abbastanza», affermava snobi-
sticamente Wally Simpson, duchessa di Windsor, inauguran-
do la stagione degli immani sacrifici femminili sull’altare del-
la bilancia e confermando in maniera definitiva l’inscindibile
binomio «ricchezza-moda». Parallelamente, il cinema hol-
lywoodiano diffondeva con l’immagine ambigua e severa di
Marlene Dietrich, Greta Garbo, Katherine Hepburn e Joan
Crawford uno stile asciutto, severo, androgino, che cancella-
va le curve in nome di un’ambita parità fra i sessi.
Ma l’immagine della donna mascolina non ebbe successo
nell’Europa delle dittature. In Italia come in Germania, con
l’ascesa al potere rispettivamente di Mussolini e di Hitler,
certi suggerimenti della moda apparivano aberranti. In ot-
temperanza a quanto proclamano il duce e il Führer, le mo-
diste tornarono a sottolineare le forme del corpo femminile,
vagheggiando un’opulenza tizianesca che richiamava la fun-
zione materna. E mentre in Italia e in Germania la propa-
ganda continuava a mostrare signore eleganti nei completi di
raso, avvolte in sontuose stole di pelliccia e guarnite di tutti
quegli orpelli che le rendevano deliziosamente inadeguate a
svolgere qualsiasi attività lavorativa, la realtà costringeva le
donne ad adottare uno stile assai più sobrio (e triste). A que-
sto faticoso grigiore reagì la svampita Lilli, che sin dal suo ap-
parire non rinunciò ad alcun vezzo per dimenticare i giorni
appena trascorsi. Eppure, quando finalmente tacquero i can-
noni e sembrò aprirsi una nuova stagione per le donne e i lo-
ro diritti, il misogino mondo della moda non rinunciò a pro-
porre nuove sottili crudeltà, che rinverdirono un antico ada-
gio ormai dimenticato: «per essere belle bisogna soffrire».

Nel febbraio del 1947, nella Parigi che malgrado l’occu-


pazione aveva continuato a dettare le incontestabili regole
dell’eleganza, debuttò Christian Dior, destinato a segnare
con un’indelebile impronta la moda del decennio successivo.
Le strade erano piene di passanti e vuote di auto, per la scar-
sità della benzina, la temperatura era sotto lo zero. Anche nel-

26
le loro case i parigini soffrivano il freddo, dato che mancava
il carbone per il riscaldamento e la razione quotidiana di pa-
ne era di appena 200 grammi. Tuttavia, quando il 12 feb-
braio, alle dieci e trenta, in avenue Montaigne, si aprirono le
porte della Maison Dior, alla ristretta cerchia degli invitati
sembrò primavera inoltrata. Il salone era decorato da una
profusione inimmaginabile di fiori – rose, mughetti e delphi-
nium blu – per presentare al pubblico la collezione Corolle:
novanta abiti dai vivi colori e dai nomi inusitati – Amour,
Tendresse, Bonheur... – che nella tetra atmosfera del dopo-
guerra apparvero estremamente innovativi. Rasentava l’inso-
lenza, la nonchalance con la quale, in anni di rinunce, il cou-
turier utilizzava metri e metri di stoffa pregiata. Sotto vitini di
vespa degni del miglior sadismo di Mamie e del miglior ma-
sochismo di Rossella O’Hara, si aprivano gonne gonfie come
mongolfiere, sorrette da strati di sottogonne inamidate. Nel
pieno di quel Novecento, che le aveva viste ritagliarsi uno
spazio in molti settori lavorativi, tornava a imporsi per le don-
ne una silhouette dal sapore ottocentesco: spalle delicate, se-
no enfatizzato, vita sottile, fianchi gonfiati da nuvole di tulle.
La statunitense Carmel Snow, cronista della rivista «Harper’s
Bazaar», colpita dal gusto scenografico che Dior dimostrava
malgrado i giorni grami, battezzò new look la linea che, pur
accentuandone le morbidezze, proibiva alle signore le ele-
mentari comodità conquistate durante la stagione bellica. Ma
il mondo voleva sognare, e i variopinti e leziosi abiti di Dior
sembravano quasi un inno alla speranza. Il sarto sembrava
preconizzare come «l’Europa, stanca delle bombe, volesse
sparare i fuochi d’artificio».
Non a caso le sue linee vengono incessantemente replicate,
anche dopo la sua morte nel 1957, per tutto il decennio suc-
cessivo, quando il boom economico fa dimenticare le ristret-
tezze belliche. Incuranti del bustino che torna a serrare la vita
e dell’obbligatorio tacco alto che slancia ulteriormente la fi-
gura, le fanciulle di tutte le età sono pronte a strizzarsi la vita
per permettere alle mille organze delle sottogonne di ondeg-

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giare con un fruscio che sa d’altri tempi. I fiduciosi anni Cin-
quanta vedono così il fiorire di centinaia di gonne a corolla e
le donne, per molti versi, tornano a interpretare un ruolo de-
corativo. Mentre le sartine dei sobborghi americani si affan-
nano a carpire i segreti di tagli ormai dimenticati e i direttori
delle case di moda dei quartieri alti aspettano con fibrillazio-
ne il momento per andare a Parigi a vedere le nuove collezio-
ni, le signore, come fiori troppo pesanti su steli troppo esili, co-
minciano a ondeggiare su altissimi tacchi a spillo, segno in-
confondibile del privilegio femminile di andare, se proprio si
deve, con lentezza, senza alcuna meta da raggiungere.
Barbie, con il suo 99-53-83 per un metro e settantacinque
di altezza, si rivela un’interprete ideale del new look. E non a
caso i disegnatori dei suoi abiti attraversano l’oceano due vol-
te l’anno per carpire quei particolari anche minimi in grado
di trasformare la ragazzona americana in una signora sofisti-
cata. Bastano pochi tocchi ed ecco che la nuova bambola si
rende perfettamente interprete di quell’eterno femminino
che a occhi nostalgici la crudeltà del nuovo secolo ha tentato
di cancellare, ma che è risultato – ahimè – impossibile da eli-
minare. Ammantandosi di sete e chiffon inequivocabilmente
passatisti, Barbie riesce a neutralizzare le sue forme scanda-
lose e a entrare a pieno titolo nel novero dei giochi usuali per
le bambine americane.
Chic!

Al momento della sua apparizione, malgrado gli abiti parigi-


ni e il successo commerciale, Barbie non attira eccessive sim-
patie. Il suo aspetto estremamente civettuolo è quanto mai
lontano da quello della donna più famosa d’America, Jacque-
line Lee Bouvier Kennedy, colei che è in quel momento l’au-
tentico modello di classe e distinzione. Ma imitarla non è fa-
cile. Jacqueline appartiene alla buona società della costa
orientale. Per «diritto di nascita» frequenta le migliori scuole
di New York City, alternando lo studio con le lezioni di equi-
tazione e di danza. A diciott’anni, nel 1947, un columnist del
gruppo Hearst la presenta come debuttante dell’anno, de-
cantandone la particolare bellezza: «una brunetta regale, dai
lineamenti classici e dalla carnagione che ricorda la porcella-
na di Dresda». Jacqueline, tuttavia, non è certo una bambola
di fragile biscuit. Compie gli studi superiori al Vassar College,
si perfeziona alla Sorbonne e si laurea in belle arti alla presti-
giosa George Washington University. A partire dal 1951 la-
vora al «Washington Times Herald», prima come fotografa,
poi come giornalista. Ed è proprio frequentando per motivi
di lavoro il mondo politico che Jackie conosce John Fitzge-
rald Kennedy. Lo sposa il 12 settembre del 1953 e diviene,
malgrado i suoi studi, irreprensibile «angelo del focolare». La
carriera di giornalista, grazie a cui ha conosciuto il marito, vie-
ne abbandonata il giorno prima delle nozze, a partire dal qua-
le Jacqueline mette le sue qualità al servizio di John: si occu-
pa della sua immagine, dei suoi discorsi, dei suoi ricevimenti
e non si risparmia durante l’intera campagna elettorale. Do-

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po l’elezione, si dedica al restauro della Casa Bianca: come
ogni donna americana anche Jacqueline si preoccupa della
gradevolezza e comodità del proprio salotto; e come ogni si-
gnora di provincia è orgogliosa di illustrare gli interventi por-
tati a termine: naturalmente non durante un tè con le amiche,
ma, sotto gli occhi delle telecamere della CBS. Questa fatica,
che le fa conquistare l’Emmy Award, l’Oscar televisivo, sci-
vola quasi in secondo piano di fronte all’impegno a fianco del
marito nei viaggi in Europa, India e Pakistan.
Gli americani sono incantati dai modi discreti e dall’ele-
ganza di Jacqueline. Colpisce la sua capacità di risultare sem-
pre a proprio agio, l’estrema naturalezza con la quale si mo-
stra, sia a un ricevimento ufficiale sia nella tranquilla intimità
della casa, sia durante i viaggi in qualità di first lady sia nel
tempo libero, a Long Island, con i figli. Essere inappuntabi-
le come lei diviene il sogno di tutte le americane.
Se è impossibile tentare di dotarsi del fortunato bagaglio
che i natali privilegiati hanno riservato a Jacqueline, si posso-
no certamente imitarne i modi garbati e l’eleganza. Non si
tratta però di un compito semplice, non tanto e non solo per-
ché la prima signora d’America può scegliere il proprio guar-
daroba fra un ventaglio di proposte irraggiungibili per la
maggior parte delle altre donne. L’irreprensibile signorilità di
Jacqueline sembra piuttosto essere il frutto del rispetto di una
serie di regole, note all’alta società ma sconosciute ai più, che
scandiscono tempi e modi dell’eleganza come di altre sfere:
un galateo trasmesso di madre in figlia, raramente trasgredi-
to, e in grado di assicurare a chi lo rispetta l’appartenenza a
una ristretta, raffinata ed esclusiva cerchia. La visione di Jac-
queline in gramaglie e del suo contegno durante la cerimonia
funebre del marito, assassinato a Dallas durante la fatale pa-
rata del 22 novembre 1963, amplifica non solo il rispetto de-
gli americani per la sua forza morale e le sue capacità perso-
nali, ma anche il desiderio di emulazione delle americane per
un portamento che neppure nelle circostanze più avverse e
dolorose viene abbandonato. I funerali la vedono ieratica ico-

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na di quella che di lì a poco verrà battezzata «mistica della
femminilità», mentre il piccolo John John fa bella mostra
dell’educazione impartitagli dalla madre, salutando militar-
mente il feretro del padre.
Disciplina e compostezza costituiscono una corazza diffi-
cilissima da scalfire, che gli abiti impeccabili della prima don-
na d’America rendono visibile e, per lo meno per qualche
particolare, imitabile. Ma non è un caso che i sarti presso cui
si serve la first lady siano europei o di origine europea, mal-
grado le critiche dei compatrioti, primo fra tutti il parigino
Oleg Cassini, che disegna per lei le mises più note. E non è
neppure un caso che sia per mano di una signora francese,
Geneviève Antoine Dariaux, che viene data alle stampe, nel
1964, a New York, una Guide to elegance. Nel testo, un au-
tentico dizionario le cui voci suonano di irresistibile frivolez-
za (A come Abbronzatura, abito intero, accessori...; F come
Figlie, fotografie, funerali...; N come Natale, négligé, nozze...;
S come Saldi, soprabiti, spiaggia...), l’autrice, direttrice fra gli
anni Cinquanta e gli anni Sessanta della casa di moda parigi-
na Nina Ricci, elargisce generosamente alle donne americane
consigli per essere raffinate e disinvolte.
Nel seguire rispettosamente sia i dettami stilistici che arri-
vano da Parigi sia i suggerimenti di cui sarti e modiste sono
prodighi, Barbie non è da meno delle sue compatriote. Un ge-
neroso aiuto le viene da Ruth Handler e dalle due creatrici di
moda – Charlotte Johnson, in opera fino al 1964, e Carol Spen-
cer, parte integrante dell’équipe Mattel dal 1963 – che ne di-
segnano gli abiti. La Johnson e poi la Spencer sono sempre
presenti alle sfilate parigine e assicurano a Barbie, non solo un
guardaroba ricco, ma anche la capacità di veicolare quelle co-
noscenze di bon ton necessarie a indossarlo. Le confezioni che
racchiudono gli abiti e gli accessori illustrano le occasioni in
cui vanno indossati e sembrano, per molti aspetti, ricalcare
quei principi che Madame Dariaux destina alle sue lettrici.
La prima regola da rispettare consiste nel portare abiti
consoni alla vita che si conduce e agli ambienti in cui ci si

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muove: «Come è possibile essere ben vestite in ogni ora del
giorno e in qualsiasi ambiente con una sola toletta?». Ogni
abito ha la sua occasione, così come ogni più piccolo acces-
sorio: «non basta possedere una bella scelta di borsette; una
donna elegante deve anche saper scegliere la borsa giusta per
l’occasione giusta e il momento giusto». Barbie, con le sue de-
cine di abiti e gli svariati accessori, potrebbe apparire una
delle migliori allieve, se non la migliore, di Madame Dariaux.
I consigli che l’esperta francese enumera non riguardano so-
lo gli abiti, ma la cura della persona nel suo complesso: «Il
trucco è una sorta di vestito per il viso, e in città una donna
non penserebbe certo di mostrarsi senza trucco come non
penserebbe di camminare per strada nuda». E, infatti, l’ab-
bondanza di mascara sulle ciglia e il fresco carminio sulle lab-
bra impediscono a Barbie di dare pubblico scandalo. Allo
stesso modo, Barbie non danneggia la propria carnagione
esponendosi eccessivamente ai raggi solari: «Se una carna-
gione leggermente dorata dal sole dà una gradevole impres-
sione di buona salute, al ritorno in città alla fine dell’estate
un’epidermide simile a un arrosto bruciato invecchia terri-
bilmente ed è del tutto priva di eleganza».
Sin dal mattino, Barbie sembra rispettare il galateo del-
l’eleganza occidentale, nei termini in cui viene enunciato
dalla Dariaux. Lo stile che si addice a una signora che lavo-
ra deve essere improntato alla sobrietà e all’efficienza: «In li-
nea di massima, una donna in carriera dovrebbe evitare tut-
ti i fronzoli decorativi, i tessuti fantasia, i colori aggressivi, le
lane ruvide, i tessuti molto leggeri che prendono facilmente
le pieghe, gonne troppo corte, troppo larghe o troppo stret-
te: in breve, tutto quanto può sembrare volgare o eccessivo.
Nel corso delle ore lavorative, ancora di più che in qualsia-
si altro momento, è indice di buon gusto attenersi a uno sti-
le riservato e discreto». Così, quando le circostanze la vo-
gliono impegnata nel lavoro, Barbie non disdegna una certa
severità, indossando creazioni rigorose come Commuter Set,
un tailleur blu notte da completare con una camicia avorio

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o in cotone stampato a quadretti e un eccentrico cappellino
rosso, o Career Girl, lineare tailleur di tweed con accessori
in tinta.
Madame Dariaux disprezza ogni tipo di sciatteria, soprat-
tutto quando si manifesta nell’ambiente della moda: «Le
donne che lavorano nel campo della moda hanno l’obbligo
verso se stesse di avere un aspetto particolarmente raffinato.
Potrebbe sembrare un’osservazione ovvia, ma vorrei che ve-
deste quante poche donne ben vestite si vedono a una sfilata
per la stampa. Certe volte mi sento molto perplessa... tanto
più quando si riflette che queste donne possono creare o di-
struggere con i loro articoli la reputazione di uno stilista».
Proprio a questo tipo di critica sembra rispondere il viva-
ce completo Busy Gal, in cui Barbie si presenta nelle vesti di
una disegnatrice di moda. L’aderente gonna e il giacchino av-
vitato di lino rosso sono portati con una camicia a righe ros-
se. L’insieme è completato da una grande cartella che contie-
ne i figurini.
La mattina, tuttavia, si può riservare ad altro tipo di attività
che non sia il lavoro. Quando gli impegni ufficiali obbligano
ad abiti meno sportivi, Barbie sfoggia Fashion Luncheon, com-
pleto di stoffa operata rosa, o Sunday Visit, tailleur candido
con gli accessori color oro, o Gold ’n Glamour, con giacca e
cappello bordati di pelliccia come Matinee Fashion. La scelta
si amplia quando si passa a impegni di più disinvolta informa-
lità: Suburban Shopper è un prendisole in cotone bianco e az-
zurro, completato da borsa e cappellino di paglia, che ha an-
che una versione in rosso, Busy Morning; Cotton Casual è il
classico abito estivo di cotone rigato, dal bustino stretto e dal-
la gonna ampia; Sheath Sensation, uno smilzo chemisier rosso
fuoco; Coffee’s On, un fresco modello con un motivo a farfal-
le. I rigori invernali possono essere affrontati con It’s Cold Out-
side, un avvolgente cappotto con cappello coordinato, mentre
fra le mura domestiche il completo ideale è Sweeter Girl, un
caldo twin-set sferruzzato dalla stessa Barbie, che ha a dispo-
sizione gomitoli e ferri da calza.

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Le regole dettate da Madame Dariaux si fanno più rigide
man mano che le ore passano: «Al mattino quasi tutte le don-
ne indossano un tailleur, e l’abito da pomeriggio è stato so-
stituito dall’insieme a due pezzi più giovanile e meno forma-
le, o addirittura da un golfino e una gonna. Ma, a partire dal-
le sei del pomeriggio, l’abito intero riprende i suoi diritti, co-
me l’abito da cocktail o da mezza sera. È il momento del
trionfo per il classico tubino nero, scollato, di lana o di crêpe
di seta, la cui eleganza sta tutta nel taglio». Il consiglio è pe-
dissequamente seguito da Barbie, che fra il 1962 e il 1964
sfoggia After Five, un abito nero con un ampio colletto di or-
ganza bianca e bottoncini dorati, alternandolo a partire dal
1963 con Black Magic Ensemble, un abito scollato, indispen-
sabile per le cene in città, completato da una cappa di organ-
za dello stesso colore, da guanti e scarpe nere e da una pre-
ziosissima pochette dorata.
«A un’ora più tarda è preferibile sostituire il nero con co-
lori più vivaci e con un tessuto più ricco, eventualmente rica-
mato o ornato di perline», consiglia Madame Dariaux. A
quell’ora Barbie può indossare Gay Parisienne, un abito dal-
la linea a palloncino, creata da Hubert de Givenchy, in taf-
fetà blu a pois bianchi e lunghi guanti bianchi con una stola
di candido lapin, o Easter Parade, un vestito aderente stam-
pato a pastiglie con un soprabito di faille nero, o Evening
Splendour, abito e soprabito in tessuto operato color oro con
le finiture in pelliccia, o Red Flare, un cappotto di velluto ros-
so con un cappellino pillbox – modello reso celebre proprio
da Jacqueline Kennedy – e scarpe in tinta: tutti completi da
cocktail adatti alle situazioni mondane che una signora della
buona società si può trovare a dover affrontare.
Non sempre però gli appuntamenti pomeridiani sono
contraddistinti dalla formalità. Negli Stati Uniti un’abitudi-
ne diffusa è quella dei ricevimenti in giardino per i quali si
richiede un abbigliamento vezzoso. Barbie si dimostra all’al-
tezza di ogni invito indossando Plantation Belle, un roman-
tico abito di plumetis rosa ricco di balze e nastri; o Friday

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Nite Day, uno scamiciato in velluto indossato sopra una ro-
mantica camicia candida; o ancora Garden Party, un raffi-
nato abito di cotone stampato a pois e fiori che si apre so-
pra una sottogonna di pizzo sangallo.
Ma è naturalmente con gli abiti da ballo che Barbie riesce
a esprimere al meglio la proprietà del suo gusto. Del resto,
quello degli abiti da gran sera è l’ambito in cui più sentito è
l’entusiasmo femminile: «Per le occasioni formali, poi, l’abi-
to da sera lungo può essere splendido quanto volete. Nel mo-
mento in cui lo indossate dovreste avere l’impressione di su-
bire una magica metamorfosi: dovreste sentirvi una princi-
pessa. Anche la donna d’aspetto più comune è sempre più
bella in un abito da sera lungo. La sera è il solo momento del-
la giornata in cui una donna ha il diritto, seppure non il do-
vere, di richiamare l’attenzione. Per questo un lungo abito da
sera nero, spesso giudicato molto pratico, è una scelta tutt’al-
tro che sensata».
Barbie non si concede alcuna insensatezza. Soltanto uno
dei suoi primi abiti, Solo in the Spotlight, un attillato model-
lo in paillettes che si apre alle caviglie in una morbida balza
di tulle, con guanti, è nero: ma i luccichii del tessuto e un fou-
lard di seta rosa contribuiscono a illuminarlo e completano
l’immagine di Barbie, che per una sera si cimenta dinanzi al
microfono. Innumerevoli e splendidi, i suoi abiti da ballo so-
no un’autentica esplosione di colori: Enchanted Evening è ro-
sa cipria; Senior Prom alterna il verde acqua e l’azzurro cari-
co; Campus Sweethearth e Sophisticated Lady giocano con i
più diversi toni di rosa e rosso; Midnight Blue fa risaltare un
blu sontuoso grazie al contrasto con l’argento; Evening Gala
è turchese e oro; rosso fiammeggiante sono Magnificence e
Benefit Performance.
Intollerabile, per l’esigente Madame Dariaux, è la sciatte-
ria che alcune donne dimostrano nei momenti privati a fronte
dello splendore riservato alle occasioni pubbliche: «Una delle
più singolari incoerenze in donne per altri versi eleganti è il
modo in cui trascurano completamente la loro eleganza nelle

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ore di intimità in casa propria, esattamente nel luogo e nel mo-
mento in cui soprattutto dovrebbero essere attraenti».
Ma Barbie può controbattere con Nighty-Negligee Set, un
completo formato da camicia da notte e vestaglia dalle rosee
trasparenze, che indossa stringendosi al cuore un cagnolino
di feltro rosa. Uguale cura Barbie dimostra con la biancheria,
ambito nel quale secondo la Dariaux non è concessa alcuna
negligenza: «Le donne commettono uno sbaglio se trascura-
no questo potenziale elemento di attrazione».
E Barbie, naturalmente, non commette un errore così
grossolano, sfoggiando sotto i sontuosi abiti Floral Petticoat,
una gonfia sottoveste ricamata con reggiseno a fascia e slip
coordinati, o Fashion Undergarments, un altro completo for-
nito di guaina.

Splendidamente abbigliata, in casa come fuori, nelle oc-


casioni pubbliche come nei momenti di relax, di giorno e an-
cor più di sera, Barbie sembra tradurre ottimamente la mag-
gior parte dei consigli di Madame Dariaux. Ma la signora
francese, che caldeggia un’eleganza tutto sommato fondata
sulla sobrietà, rimarrebbe allibita dinanzi alla quantità di abi-
ti e di accessori sui quali nel giro di pochi anni Barbie si tro-
va a poter contare: «Una delle differenze più nette tra
un’americana ben vestita e una parigina ben vestita sta nelle
dimensioni dei rispettivi guardaroba. L’americana probabil-
mente rimarrà stupefatta dall’esiguo numero di capi appesi
nell’armadio della francese, ma quasi certamente osserverà
anche che sono tutti di eccellente qualità, forse costosi se-
condo lo standard americano, e perfettamente adatti allo sti-
le di vita della francese. Li indossa spesso, smettendoli solo
quando sono consunti o fuori moda, e considera un compli-
mento (come tale viene pronunciato) se la sua migliore ami-
ca le dice: ‘Sono felice che tu abbia deciso di indossare l’abi-
to rosso: mi è sempre piaciuto!’. [...] Una francese elegante si
aspetta che i suoi soprabiti durino almeno tre anni, i tailleur
e gli abiti almeno due e gli abiti da sera quasi per sempre. Pos-

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siede pochissimi completi di biancheria nello stesso momen-
to, ma li sostituisce spesso. Lo stesso vale per le scarpe e i
guanti, mentre le borse durano anni e anni. Rinnova ogni
estate soltanto il guardaroba per le vacanze, acquistando
spesso gli abiti estivi in un grande magazzino o in una bouti-
que non molto cara». Certo, la direttrice della casa di moda
francese non disconosce che un tale atteggiamento è un com-
portamento indotto, piuttosto che una naturale inclinazione:
«Non si può negare che l’americana sia costantemente cir-
condata da tentazioni e aggredita dalle più irresistibili pub-
blicità di moda. Inoltre, le viene insegnato che il suo ruolo
nell’economia nazionale è di acquistare e consumare in con-
tinuazione».
E, difatti, una certa frenesia nell’acquisto è quanto inse-
gna, in maniera neppure troppo sotterranea, Barbie. Nella
confezione di ogni singolo abito è presente un piccolo cata-
logo che presenta le altre creazioni, con le quali la singola
bambola sarà sempre più compiutamente abbigliata. Diffici-
le dire se tale accuratezza sia quell’ineffabile e indefinibile
qualità cui aspirano tutte le donne occidentali, l’essere chic,
«un dono degli dèi che non ha alcun rapporto né con la bel-
lezza né con la ricchezza», dono che Jacqueline Kennedy si-
curamente possiede e che risulta estremamente difficile da in-
segnare con un manuale o con una bambola che ne rispetti
pedissequamente le norme.
L’incubo di Betty Friedan

Belle o, se non altro, eleganti e sposate: questo l’obiettivo prin-


cipale che le signorine americane devono perseguire, malgra-
do l’istruzione superiore conseguita. Spesso vanno al college
solo per trovare marito, e abbandonano gli studi a metà nella
convinzione che un’eccessiva istruzione possa pregiudicare la
felice riuscita del matrimonio. Così, fra gli anni Cinquanta e
Sessanta, una volta spentisi gli echi della marcia nuziale, le si-
gnore delle classi medie e medio-alte disertano gli uffici per le
sale parto, tornando – se proprio devono – al lavoro solo in età
avanzata e con nessuna prospettiva di carriera.
È questa la situazione denunciata dalla studiosa Betty
Friedan, che nel 1963 pubblica The Feminine Mistique (La
mistica della femminilità), un’analisi dell’immagine femmini-
le promossa dalle riviste americane e pedissequamente imita-
ta dalle donne nella prosperità del dopoguerra. Con grande
costernazione Betty Friedan constata che il profilo della don-
na così come viene disegnato dalle riviste a grande diffusione
è contraddistinto dalla frivolezza. Le donne che sorridono
appagate dalle pagine patinate appaiono allegramente soddi-
sfatte di un mondo composto da casa e bambini. L’unico
obiettivo di queste donne che attendono con il sorriso sulle
labbra alle faccende domestiche, diventate meno faticose gra-
zie alla diffusione degli elettrodomestici, è quello di conqui-
stare una preda maschile e tenersela ben stretta per il resto
della vita. Per questo, uno degli appuntamenti quotidiani im-
portanti è quello con la cura del proprio aspetto fisico, che
appare la chiave per aprire le porte della felicità coniugale.

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Così, la stampa femminile dedica ampio spazio alla moda e
alla bellezza, all’arredamento e alla cucina, alla posta del cuo-
re e ai bambini. Se in passato il grande escluso dei discorsi per
signore era tutto quanto riguardava la sfera del sesso, ora
molta della precedente pruderie viene abbandonata. Assolu-
tamente banditi nelle colonne delle riviste femminili sono
semmai tutti gli argomenti che possono in qualche modo ri-
mandare a un orizzonte extradomestico: politica, economia,
problematiche sociali e così via. Illecita, scandalosa, intolle-
rabile non è l’ammissione del desiderio sessuale ma la possi-
bilità che una donna sia in grado di essere intellettualmente e
economicamente autonoma, che possa anche solo aspirare a
una personalità indipendente. Assolutamente immorale è che
una donna eserciti una professione, costringendo il marito a
condividere le fatiche domestiche, invece di permettergli di
dedicarsi ai problemi della nazione e del mondo.
Malgrado la maggior parte delle lettrici abbiano comple-
tato gli studi superiori e abbiano frequentato, almeno per
qualche anno, il college, per le redazioni delle riviste esse ri-
sultano incapaci di dedicarsi ad altro che alle ricette dei muf-
fins o alla linea degli scamiciati con martingala, con eventua-
li deviazioni sulla confezione di coprifasce o sulla coltivazio-
ne dei rampicanti. Poco importa – rileva Betty Friedan – che
le signore condannate nei verdi sobborghi cittadini a un ri-
petitivo rituale quotidiano, scandito dagli orari scolastici dei
figli, dagli appuntamenti con le amiche e dalle attività bene-
fiche, si sforzino di ignorare quella voce interiore che dice:
«Voglio qualcosa di più del marito, dei figli, della casa» e di
sfuggire alla consapevolezza di vivere in un incubo vischioso.
Quando cercano di scantonare dal binario prestabilito in cer-
ca di svolte diverse, a impedirlo c’è lo spettro del pubblico lu-
dibrio. Mentre infatti si confeziona con ogni cura possibile la
figura femminile positiva, tutta casa, marito e figli, con al-
trettanto dispiego di mezzi si costruisce il profilo negativo, ti-
pico della donna che lavora. Se in precedenza la «donnaccia»
era colei che trascinava in un rovente e proibito gorgo pas-

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sionale l’uomo, ora la donna da sfuggire è colei che dimostra
di avere una personalità autonoma e indipendente: essere ir-
reprensibili equivale a scongiurare il sogno, proibito, della
carriera.
Non a caso, i racconti che allietano le signore americane
hanno spesso come protagonista una casalinga minacciata da
una donna in carriera che tenta di sedurne il marito o il figlio,
per poi insinuarle nell’animo il tarlo dell’insoddisfazione per-
sonale e di un sogno di indipendenza, rischiando di farle per-
dere inevitabilmente e per sempre l’amore maschile. Alla fi-
ne la protagonista esorcizza il pericolo cancellando la propria
personalità: si realizza così, compiutamente, la togetherness,
condizione che vede la donna esistere solo per la felicità e la
soddisfazione del marito e dei figli.
I giornalisti non mancano di celebrare fulgidi esempi di sa-
crificio delle aspirazioni personali delle donne in nome della
felicità familiare. Anche le attrici, che svolgono una delle po-
chissime professioni che la «mistica della femminilità» con-
cede alle donne, vengono presentate sotto una luce che ne
amplifica i tratti teneri e materni. Le nuove dive non hanno
più il tratto volitivo e imperioso di Greta Garbo o di Bette
Davis, ma il dolce sorriso di Debbie Reynolds. Le pagine del-
le riviste non le ritraggono più durante le fatiche sul set o nel
momento dell’aspra lotta per raggiungere il successo, ma
quando divengono madri o si dedicano alla casa. Le dive al
culmine della carriera, poi, non fanno altro che dichiarare di
sentirsi fallite intimamente, come donne.
Il sacrificio di sé cui le donne vengono chiamate dalla so-
cietà negli anni Cinquanta e Sessanta Barbie sembra soppor-
tarlo piuttosto bene. E però fa capolino qualche vistosa esi-
tazione. Nel 1962, indossa la toga nera con il tocco e stringe
fra le mani il diploma infiocchettato: nella sua biografia uffi-
ciale leggiamo della frequenza presso la Willows High School
a Willows, nel Wisconsin, e del perfezionamento presso la
Manhattan International High School a New York. Forte
dell’istruzione ricevuta, Barbie graduate è pronta a tuffarsi

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nel magico mondo delle professioni, in questo più simile alle
giovani degli anni Quaranta che a quelle degli anni Sessanta.

Negli anni Quaranta, infatti, il profilo femminile ideale


che molte riviste statunitensi promuovevano era caratterizza-
to da un allegro e risoluto spirito di autonomia. Le eroine del-
le novelle pubblicate dai settimanali, generalmente, erano
contraddistinte da un’inesausta fiducia nelle proprie capacità
personali e da uno spiccato talento professionale. L’impegno
lavorativo che le contraddistingueva e che impediva che la lo-
ro vita fosse esclusivamente dominata dal sentimentalismo,
tingeva di una luce inconsueta la relazione con l’altro sesso.
Benché spesso, negli intrecci, una parte rilevante fosse riser-
vata al conflitto fra la dedizione al lavoro e l’amore, le prota-
goniste riuscivano ad armonizzare i due ambiti che per tante
pagine erano rimasti inconciliabili. Insomma se l’eroina ri-
maneva fedele a se stessa e ai propri valori, in primis quello
della propria indipendenza, nonostante tutte le difficoltà e le
traversie non veniva abbandonata dal compagno, con il qua-
le convolava, infine, a giuste nozze: questa la morale implici-
ta in tutti i racconti dei magazines.
Le storie sentimentali pubblicate dalle riviste, malgrado
presentassero come personaggi principali donne assidua-
mente impegnate nelle più diverse attività professionali, era-
no indirizzate a un pubblico di casalinghe. Costrette entro il
ristretto perimetro domestico, le mogli e madri degli anni
Quaranta avevano vissuto il triste periodo della crisi del ’29 e
della Grande Depressione. Se per molte ragioni le loro am-
bizioni erano state frenate, le lettrici di «Ladies Home Jour-
nal», «Mc Call’s», «Good Housekeeping», «Woman’s Home
Companion», fra pavimenti da pulire e lenzuola da stirare, di-
voravano le appassionanti vicende delle eroine alle prese con
le fatiche del lavoro extradomestico e coltivavano ambiziosi
propositi per le proprie figlie. A loro era toccato di soppor-
tare l’amara povertà della Depressione, senza poterla diretta-
mente affrontare in alcuna maniera: le loro bambine sareb-

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bero state in grado di lavorare e di disporre di denaro, oltre
che di un’autonoma posizione sociale, indipendente da quel-
la del marito anche se a essa simmetrica.

Questi i valori che, per motivi generazionali, la giovane


Ruth Mosko sembra aver appreso e mai dimenticato, neppu-
re quando si trasforma nella signora Handler: non a caso l’in-
tero mondo di Barbie è il frutto della sua intraprendenza e del
suo fiuto per gli affari. Pesa, in questo caso l’appartenenza
della signora Handler a una generazione educata a credere
che le donne possono diventare statiste, poetesse o fisiche e
che sono in grado, coltivando la loro creatività, di guidare al-
tre donne sulla strada dell’emancipazione. Nelle redazioni
delle riviste che confezionano con zuccheroso zelo la «misti-
ca della femminilità», le donne sono invece bandite a partire
dagli anni Cinquanta. Le redattrici che negli anni Quaranta
avevano nutrito i sogni delle casalinghe americane presen-
tando loro il profilo di una donna ideale indipendente e co-
raggiosa, in grado di coniugare felicemente casa e lavoro, so-
no allontanate per far posto ai reduci di guerra. Sono uomini
coloro che decidono che le donne americane devono votarsi
alla casa e alla famiglia, devono tornare a essere autentici «an-
geli del focolare» dopo l’emancipazione conquistata durante
il secondo conflitto mondiale, che le ha viste entrare a far par-
te del mondo produttivo per sostituire gli uomini partiti per
il fronte. Una volta firmati i trattati di pace, gli uomini sono
tornati a reclamare quei ruoli che ritengono di loro esclusivo
appannaggio in politica come in economia, nelle università
come nelle fabbriche. E uomini sono coloro che, dalle pagi-
ne delle riviste alla moda, indicano la strada che le donne do-
vranno percorrere a partire da quel momento, che cantano le
delizie della vita domestica ora che essa è resa più leggera dal-
la presenza degli elettrodomestici, che celebrano le gioie del-
la maternità ora che la medicalizzazione del parto ne ha ri-
dotto i rischi, che salutano con entusiasmo la nascita dei cen-
tri commerciali ora che la «regina della casa» può scegliere li-

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beramente fra i vari modelli di automobili, vestiti, profumi,
soprammobili... Proprio ora, assai più che in passato, inte-
ressa non tanto colpire la mente delle donne e contribuire al-
la loro indipendenza ma gonfiare il portafoglio degli inser-
zionisti che vogliono vendere detersivi e rossetti.
Così Barbie, che si appresta a diventare la bambola più fa-
mosa del mondo, malgrado la sua creatrice coltivi valori di-
versi e immagini proiettata la sua creatura su orizzonti pio-
nieristici, sembra non poter zittire totalmente le sirene del
suo tempo, che ha delimitato con precisione l’unico ambito
in cui la donna può e deve sentirsi protagonista. Una volta
conquistata la laurea, Barbie si tuffa a capofitto nel mondo
del lavoro, arrivando ad assumere un’aria consapevolmente
professionale. Nei momenti di riposo ama frequentare le
esposizioni artistiche e i teatri: il delizioso abito Modern Art,
completo di catalogo, è l’abbigliamento ideale per un vernis-
sage, così come Theatre Date, un completo di raso verde sme-
raldo con il cappellino in tinta, è perfetto per accomodarsi in
poltronissima. Ma, nonostante le predilezioni culturali e le
duttili capacità che si trova a poter agevolmente dimostrare,
Barbie durante gli anni Sessanta non può assumere l’aria di
una nuotatrice di lungo corso nell’avventuroso e appassio-
nante oceano che si estende fuori dalla porta di casa. Pronto
a essere indossato, nell’armadio, l’attende Barbie-Q Outfit,
un vaporoso abito da casa completo di ciabattine, ampio
grembiule, cappello da cuoco, presina in tinta, mattarello e
mestoli vari: un abbigliamento da cuoca perfetta, ad attesta-
re quali siano le doti che si ritengono necessarie a una donna
per realizzare in maniera completa le sue potenzialità.
L’incubo di Betty Friedan è servito: acconciando e ve-
stendo la donna-bambola con i preziosi consigli contenuti
nelle confezioni degli abiti, le bambine hanno imparato, me-
glio che con la lettura di una qualsiasi Madame Dariaux, qua-
li siano oneri e onori che le attendono una volta sostituite le
calze di cotone con il nylon del collant, e sanno che in ogni
caso il volto che dovranno assumere, non importa quanto ric-

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ca o complessa sia la loro personalità, è quello rassicurante
della donna di casa, felice dell’appagante pienezza della vita
domestica.
Del resto, anche la creatrice di Barbie rinuncia all’aura di
donna in carriera e ama presentarsi al pubblico curioso come
una semplice mamma che ha ideato una bambola esclusiva-
mente per far felice la figlia Barbara: peccato che quest’ulti-
ma abbia già diciotto anni quando la prima Barbie vede la lu-
ce e l’età la pretenda davanti allo specchio a sistemarsi le pie-
ghe dell’abito, anziché a sistemarle a una pupattola di plasti-
ca. Tuttavia, quel che l’età ha risparmiato alla giovane Hand-
ler toccherà in sorte a milioni di altre bambine che con Bar-
bie imparano a vestirsi, a sorridere, e soprattutto a rimanere
immobili nella propria trionfante e «mistica femminilità».
Domani mi sposo...

Sin dalla prima collezione, l’abito più importante che Barbie


può indossare è naturalmente quello da sposa. Si chiama – c’è
bisogno di dirlo? – Wedding Day, e come ogni capo del suo
guardaroba è completo di accessori: una tiara di perle trat-
tiene il gonfio velo candido; fra le mani guantate Barbie può
stringere un bouquet, mentre sotto le ampie balze della gon-
na rimane invisibile una civettuola giarrettiera blu, tradizio-
nale portafortuna delle spose. Manca solo un ultimo, non tra-
scurabile accessorio..., lo sposo!
Il poco gradevole inconveniente è risolto qualche stagio-
ne dopo il debutto di Barbie in società. Bello e aitante, arriva
al suo fianco un boyfriend: Ken Carson (il nome, per una par-
ticolare par condicio vigente nella famiglia Handler, è mutua-
to da quello del figlio maschio, Kenneth). Di poco più basso
della signorina cui non deve fare ombra, lineamenti regolari,
occhio ceruleo e fisico smilzo, il ragazzo è pronto a fare cop-
pia con quella che si appresta a diventare la bambola più fa-
mosa del mondo. Per non farla sfigurare in società, il giova-
notto, come la dama cui deve fare da accompagnatore e ca-
valier servente, ha un guardaroba notevole, seppure più mo-
desto, in nome di una certa maschia sobrietà.
Il fatto che Barbie e Ken – cloni in miniatura dei fratelli di
casa Handler – siano una coppia di innamorati potrebbe in-
sinuare un’aura incestuosa nella relazione fra i due: senonché,
essi giocano insieme a tennis e fanno escursioni al mare e in
campagna, vanno a sciare e a pescare, lei sorride dalle tribu-
ne a lui che si affanna sul campo da baseball... e quando Bar-

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bie si drappeggia nelle immacolate trine dell’abito da sposa,
Ken cerca di non esserle da meno nel suo Tuxedo nero, com-
pleto di farfallino cremisi e di gardenia all’occhiello. Tuttavia
le nozze non vengono mai celebrate, ma posposte all’infinito.
E negli anni gli abiti da sposa si moltiplicano: velo corto, ve-
lo lungo, organze, chantilly, rasi, sete, velluti, perle, fiori
d’arancio, mughetti, gelsomini, rose. Tutto il repertorio tra-
dizionale viene periodicamente ricombinato per dar vita a un
nuovo, indimenticabile abito che alla collezione successiva
viene dimenticato a favore di uno diverso, dello stesso niveo
colore, fatto con gli stessi materiali, ma con un volant, una
pince, un fronzolo in più o in meno.
Barbie non sembra poter resistere al fascino dell’abito da
sposa. Tuttavia, la biografia della fanciulla, che la descrive
pronta a cedere di fronte a una vetrina che le propone un
completo all’ultimo grido, dice anche che è ferrea nella tute-
la della sua virtù. Peraltro, anche Ken non è certo il tipo di
ragazzo caparbiamente deciso a metterla in pericolo. Con la
sua aria dimessa, appare proprio uno dei tanti accessori del-
la sua dama, che lo pretende al suo fianco quando estetica-
mente necessario. Del resto, quando alla Mattel si è trattato
di deciderne le fattezze anatomiche, di fronte a tre prototipi
diversi si è scelto quello con appendice maschile meno evi-
dente, per evitare che la chiusura lampo dei calzoni lo faces-
se sembrare un superdotato, poco adatto al ruolo di cicisbeo.
Così i due piccioncini non si negano nessuno dei diverti-
menti che la morale corrente negli anni Sessanta ritiene giu-
sto debbano essere concessi alle giovani coppie. E anche se
Barbie ama spesso vestirsi in maniera provocante, sembra
non costarle eccessiva fatica attenersi pedissequamente a
quanto recitano in quegli anni i manuali di buone maniere
per giovinette.
Le regole del bon ton, naturalmente, sono state aggiorna-
te in conseguenza di nuove abitudini sociali. Si dà per scon-
tato che i teenager di entrambi i sessi frequentino le stesse le-
zioni e insieme vadano a balli, gite ed escursioni senza oc-

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chiuti chaperon. Ma, nelle occasioni di svago più che in altri
momenti, le ragazze di buona famiglia devono tenere un «me-
tro ragionevole di condotta». Ciò che più di ogni altra cosa
devono temere è quella che, con circospezione, nelle pagine
loro dedicate viene definita «eccessiva confidenza» o «torbi-
da familiarità»: devono quindi saper ben riconoscere il mo-
mento in cui l’allegria si trasforma in baldoria incontrollata;
devono evitare che abbigliamento, portamento e comporta-
mento possano incoraggiare facili libertà; devono preferire
amici e amiche che si comportino con compostezza; devono
evitare di bere fino a perdere l’equilibrio e devono saper la-
sciare la compagnia al momento opportuno. L’elenco fitto
dei doveri da rispettare serve alle ragazze a preservare quan-
to si ritiene abbiano di più prezioso: la verginità, che offri-
ranno solo al futuro sposo, dopo regolare contratto di matri-
monio, siglato in un turbinio di chiffon e taffetà, al suono
pomposo e familiare dell’organo parrocchiale.

L’America che negli anni Sessanta tenta di salvaguardare


la virtù delle proprie fanciulle fino alle nozze è, tuttavia, as-
sai consapevole che lo sforzo è impari. Il perbenismo bor-
ghese da qualche anno era stato sconvolto dalla pubblica-
zione, nel 1948, di Sexual Behaviour of the Human Male (Il
comportamento sessuale dell’uomo) e, nel 1954, di Sexual
Behaviour of the Human Female (Il comportamento sessuale
della donna), del dottor Alfred Kinsey. Malgrado l’ostraci-
smo cui il medico era stato condannato, l’opinione pubbli-
ca si vedeva costretta a riconoscere la fondatezza della sua
analisi dei comportamenti maschili e femminili nel chiuso
delle alcove e, quindi, a tollerare che Kinsey attribuisse agli
americani comportamenti ritenuti devianti dalla morale cor-
rente. Il «rapporto Kinsey» illustrava come sesso prematri-
moniale, masturbazione, adulterio, omosessualità fossero le
tentazioni cui gli americani, silenziosamente, non riuscivano
a resistere, malgrado il severo conformismo impartito da
pulpiti e cattedre. Dopo la pubblicazione dei due rapporti,

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non sembrò più possibile celare il vizio privato dietro la
smagliante pubblica virtù.

Il turbamento dei perbenisti di fronte alle rivelazioni del


dottor Kinsey era, tuttavia, destinato ad aumentare nel vol-
gere di poco tempo, quando comportamenti sessuali fino a
quel momento celati vengono resi noti con naturalezza, se
non ostentati. La «rivoluzione sessuale» è uno degli effetti
della generale turbolenza che negli anni Sessanta investe la
società americana, prima di approdare in Europa. Molti so-
no i fermenti che inducono gli studenti dapprima e altri grup-
pi sociali in seconda battuta a contestare l’ordine esistente e
a proporne uno nuovo, «rivoluzionario».
Sulla scorta di quanto contenuto nel manuale del dottor
Benjamin Spock, The Common Sense Book of Baby and Child
Care, la cui prima edizione risale peraltro al 1946, i genitori
degli anni Sessanta tendono a seguire nuove teorie pedagogi-
che. A loro volta educati rigidamente, gli adulti del dopo-
guerra preferiscono attenersi con i loro figli a un comporta-
mento maggiormente permissivo, improntato più sul dialogo
che sull’imposizione. Le caratteristiche della nuova educa-
zione sono, naturalmente, patrimonio esclusivamente priva-
to; in molti, ragazze e ragazzi, quando lasciano la famiglia per
fare il loro ingresso al college, conoscono così, per la prima
volta, divieti e proibizioni. Per contro, infatti, all’interno del-
le istituzioni, prime fra tutte le università, sembra ancora sta-
gnare la plumbea atmosfera maccartista, che in nome del pa-
triottico sentimento anticomunista, aveva prediletto certe
forme di oscurantismo e pregiudicato il confronto fra le di-
verse generazioni. Inoltre, proprio all’interno delle istituzio-
ni universitarie, dove nel 1965 accede il 44 per cento della
gioventù fra i 18 e i 22 anni, gli studenti possono fare, spesso
per la prima volta, l’esperienza della disparità sociale e vede-
re il lato oscuro del «sogno americano». A Berkeley e a Har-
vard il patriottismo che comporta la segregazione dei neri e
l’esclusione dei poveri dalla «felicità» promessa dalla Costi-

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tuzione comincia a essere messo seriamente in discussione e
la sua critica si lega strettamente alla montante protesta con-
tro la guerra del Vietnam. La voce degli studenti si alza pri-
ma per denunciare la ristrettezza di vedute che sembra per-
vadere i loro programmi di studio. Ben presto, però, sembra
che niente sfugga ai vigorosi appunti del mondo studentesco.
La discussione comincia così a toccare i più svariati ambi-
ti – l’educazione, l’istruzione, la politica – fino a trasformarsi
in contestazione della società capitalistica nel suo complesso:
i retrivi valori borghesi vengono combattuti in nome di una
nuova libertà. Quello che sembra non venir meno nei gruppi
contestatari è il «sogno americano» di costruire una nuova
società fondata su valori antitetici a quelli del profitto e della
bellicosità; solo che esso viene interpretato con canoni liber-
tari e anticonformistici. I protagonisti della costruzione di
nuove comunità, gli hippy, credono fortemente che a partire
dalla loro esperienza sociale, caratterizzata dall’eguaglianza
sostanziale fra gli individui e dal rispetto reciproco, il mondo
possa effettivamente cambiare: sarà instaurata una nuova età,
quella che in astrologia viene chiamata l’era dell’Acquario,
pacifica e felice, luminosa e colorata. In apertura al musical
Hair, dedicato alle vicende di un gruppo di disertori della
guerra del Vietnam, scritto nel 1967 e rappresentato per la
prima volta l’anno successivo, si inneggia a questa nuova sta-
gione felice per l’umanità.

When the moon is in the seventh house


And Jupiter aligns with Mars
Then peace will guide the planets
Love will steer the stars.
This is the dawning of the Age of Aquarius,
Age of Aquarius, Aquarius...
Harmony and understanding
Sympathy and trust abounding
No more falsehoods or derisions
Golden living dreams of vision
Mystic crystal revelation

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And the mind’s true liberation
Aquarius, Aquarius...

Quando la luna entrerà nella settima casa / e Giove sarà in con-


giunzione con Marte / sarà la pace a guidare i pianeti / e l’amore a
far muovere le stelle. / È l’alba dell’era dell’Acquario. / Armonia e
comprensione. / Solidarietà e fiducia a piene mani. / Non più falsità
né scherno / ma vita dorata, visioni da sogno, / rivelazioni mistiche
dei cristalli. / La mente finalmente liberata. / È l’era dell’Acquario...

Come si allude nel titolo del musical, non casualmente la cri-


tica dell’ordine esistente può passare anche per i capelli. Chi
contesta vuole rendere immediatamente visibile il suo modo di
pensare. In una società regolata da norme precise sull’aspetto
fisico, una chioma lunga e fluente è esclusivo appannaggio del-
la donna, che ha comunque l’obbligo di curarla e custodirla
quale emblema della sua femminilità. Per questo solo rara-
mente, e spesso solo nell’intimità, i capelli sono sciolti; duran-
te la giornata a trattenerne le onde c’è sempre un fermaglio, una
fascia, decine di forcine... Lasciando che le chiome maschili si
allunghino, i contestatori sembrano rivendicare nei guerrafon-
dai anni Sessanta statunitensi la presenza in ogni uomo di una
parte femminile che gli impedisce di partecipare con soddisfa-
zione a operazioni militari e che, poiché essenziale nel natura-
le equilibrio dell’individuo, non si vuole più mettere a tacere. Il
simbolo del Tao, in cui la rappresentazione del principio ma-
schile e di quello femminile si fondono in una sfera armoniosa,
non a caso diviene uno degli emblemi della gioventù ribelle,
che affannosamente ricerca «armonia e comprensione», «soli-
darietà e fiducia», virtù che nella competitiva società statuni-
tense sembrano mancare, mentre non vengono risparmiati ai
più deboli «falsità e scherno». Le «visioni da sogno», le «rive-
lazioni mistiche», la «mente liberata» sono effetto delle droghe,
che nelle comunità hippy vengono consumate per combattere
quella lucidità e quella razionalità che impedirebbero di com-
prendere nella sua pienezza la complessità del mondo, e per

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sconfiggere le inibizioni inculcate dall’educazione borghese in
nome di una nuova libertà, soprattutto sessuale.

Sodomy, fellatio,
Cunnilingus, pederasty,
Father, why do this words sound so nasty?
Masturbation can be fun.
Join the holy orgy kamasutra, everyone.

Sodomia, fellatio, / cunnilingus, pederastia. / Padre, perché


queste parole suonano così oltraggiose? / Masturbarsi è anche di-
vertente. / Unitevi all’orgia santa del kamasutra, tutti insieme.

In un’atmosfera che si vorrebbe piena di felicità sensuale,


la verginità che l’educazione ricevuta invita a custodire reli-
giosamente è un fastidioso inconveniente, che si fa presto a
eliminare.

Once upon a lookin’ for Donna time,


There was a sixteen year old virgin.
O Donna... O Donna OO
O lookin’ for my Donna,
Just got back from lookin’ for Donna
San Francisco psychedelic urchin.
O Donna... O Donna OO
O lookin’ for my Donna.
Have you my sixteen year old
Tattooed woman?
Heard a story she got busted for her beauty.
[...]
And I’m going to show
Her life on hearth can be sweet.
Gonna lay my mutated head at her feet
And I’m gonna love her, make love to her
Till the sky turns brown.

Una volta cercavo la donna, / una vergine sedicenne. / Oh Don-


na, cerco la mia Donna, / una ragazzina psichedelica di San Fran-

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cisco. / Oh Donna, cerco la mia Donna. / Avete visto la mia sedi-
cenne tatuata? / Ho sentito dire che l’hanno scacciata per la sua
bellezza / [...] / Le farò vedere / quanto è dolce la vita sulla Terra.
/ Metterò ai suoi piedi la mia testa sballata / e farò l’amore con lei
/ finché il cielo non si oscura.

Ben presto però l’occhio si abitua alle folte chiome giova-


nili. I capelli lunghi perdono la loro carica polemica e diven-
gono parte integrante di un’immagine giovanile codificata.
Privati del loro potere eversivo, i capelli in libertà possono
entrare nell’ordinato mondo di Barbie, una fanciulla che non
apprezza la nuova libertà, soprattutto sessuale, che l’onda
protestataria le ha fatto guadagnare.
L’inveterata fedeltà a Ken lascia intravedere come il suo
autentico ideale di uomo appartenga a una tipologia assai ben
conosciuta nell’America benpensante di cui Silvia Plath ha
tracciato un rapido ma significativo ritratto in The Bell Jar (La
campana di vetro), pubblicato nel 1963.

Era andato a un liceo privato, nel Sud, specializzato nel forma-


re perfetti gentiluomini, dove vigeva la regola non scritta secondo
la quale prima di arrivare al diploma dovevi avere conosciuto una
donna. Conosciuto in senso biblico [...].
Sicché un sabato lui e alcuni suoi compagni erano partiti in au-
tobus per la città più vicina, dove c’era un famoso bordello [...]. Era
un’attività priva di interesse, come andare al gabinetto.

Inutile, dinanzi a tanta adamantina sicurezza, ipotizzare


che forse il sesso è un’altra cosa quando scaturisce da un sen-
timento.

Il pensiero che anche la donna amata è una bestia né più né me-


no delle altre avrebbe rovinato tutto, perciò lui, se si fosse inna-
morato di una ragazza, non ci sarebbe mai andato a letto. Se pro-
prio doveva, sarebbe andato con una prostituta, ma la donna ama-
ta l’avrebbe tenuta immune da quelle porcherie.

52
Ken non beve, non fuma e appare solidamente allergico a
ogni forma di erotismo. Non sappiamo cosa faccia quando
Barbie è lontana. Sicuramente, in sua presenza non si lascia
andare a niente che non sia più che consono al comporta-
mento di un gentiluomo nei confronti di una gentildonna.
Certo, di tanto in tanto può indossare una casacca sgargian-
te e a partire dai primi anni Settanta comincia a sfoggiare una
fluente capigliatura: ma questo non basta a trasformarlo da
perfetto fidanzato fifties a fascinoso ribelle, semmai a far en-
trare nell’ambito del convenzionalmente lecito quanto fino a
quel momento è stato visto come segno di rivolta.
Così Barbie può dimostrarsi solidale con tutti quei geni-
tori che sognano, come un tempo, il «matrimonio buono»
per le loro figlie e che, malgrado le evidenze che i tempi fan-
no segnare, continuano a figurarsele illibate fino al «grande
passo». E continua a essere felice di collezionare, stagione do-
po stagione, immacolati abiti da sposa che indossa con tutta
solennità, salvo poi lasciare solo – e libero – il suo povero Ken
a un passo dall’altare, in un gioco ripetitivo e interminabile.
Ma si tratta esclusivamente di un espediente: giusto il tempo
di aggiornare scollatura e acconciatura ed eccola ancora lì,
che prende per mano il suo promesso... ma solo per un mo-
mento.
L’età ingrata

Non si vive di soli matrimoni, peraltro sempre rimandati a da-


ta da destinarsi. Nei primi anni Sessanta il ristretto orizzonte
di ogni fanciulla occidentale si sta spalancando in maniera
inusitata. E così anche lo sguardo di Barbie, che finora ha in-
quadrato il solo Ken, deve obbligatoriamente ampliarsi. Una
donna «moderna» non può avere solo le nozze come unico,
accecante obiettivo: le amicizie sono altrettanto importanti,
così come la famiglia. Gli affetti non devono essere trascura-
ti dalle fanciulle che cominciano a godere di un’insperata in-
dipendenza: e Barbie lo ricorda riempiendo la sua casa di
comprimari, che ne condividono il roseo destino.
Il primo nuovo arrivo nella vita di Barbie è naturalmente
quello di un’amica del cuore. Nata nel 1963, Midge Hadley
non può, ovviamente, contare sul fascino che emana la bam-
bola più famosa del mondo: classica fanciulla da tappezzeria,
si accontenta di essere molto simpatica, grazie anche alla ge-
nerosa spruzzata di lentiggini sul volto, e di poter scambiare
gli abiti con Barbie, di cui ha la stessa taglia. Ma è ancora po-
co: il tenero Ken e la cara Midge non bastano a scacciare la
solitudine di cui sembra soffrire Barbie. Peraltro, tutti e tre i
mondani personaggi non si rivelano assolutamente in grado
di conquistare la fascia di mercato costituita dalle bambine di
otto, dieci anni, che vedono le sorelle maggiori impegnarsi
con bambole formose giudicate dai genitori inadatte a chi fre-
quenta ancora le elementari. Così nel 1964, a Barbie viene af-
fiancata una sorella, Skipper. La nuova bambola ha un aspet-
to decisamente infantile, ma può vantare gli stessi capelli

54
fluenti della sorella e un guardaroba altrettanto numeroso.
Sempre nel 1964 Midge si fidanza con Allan Sherwood, il mi-
gliore amico di Ken.
L’allegra comitiva, così genuinamente americana, alla
metà degli anni Sessanta, può dirsi tranquilla e soddisfatta.
Come la maggioranza degli americani può cullarsi nell’ab-
bondanza dei beni materiali, assicurati da un’economia capi-
talistica in espansione. Nella semplice e sobria Dream house
del 1961, Barbie e i suoi amici gustano il piacere di compor-
tarsi da adulti: sui divani ci si siede a conversare, ma si pos-
sono anche conoscere cose nuove leggendo uno dei tanti li-
bri ben ordinati sugli scaffali, o rilassarsi ad ascoltare i nu-
merosi dischi poggiati sul mobiletto con stereo e televisore in-
cassati. Qualche anno più tardi gli ambienti di Barbie si am-
pliano con la Dream kitchen-dinette, la prima cucina com-
pleta di un angolo per la prima colazione e di un altro per il
pranzo, con i mobili in serie blu e gialli, l’ampio frigorifero, il
forno, la lavastoviglie e il tostapane: un’autentica american
kitchen, simbolo per tutti gli americani, sia di plastica sia in
carne e ossa, di quel benessere capitalistico che sembra in
grado di assicurare anche alle casalinghe fatiche più lievi e
una vita più appagante. Quella che si respira negli Stati Uni-
ti è un’atmosfera di piena fiducia nel futuro e nelle possibi-
lità dell’uomo di migliorare costantemente la propria condi-
zione: la tecnologia si dimostra in grado di risolvere i mille
piccoli e grandi problemi della vita quotidiana, garantendo
un benessere inimmaginabile anche solo una generazione
precedente. L’intero universo sembra a portata di mano, do-
po i primi viaggi spaziali e l’orma di Neil Alden Armstrong
sul suolo lunare.

Tuttavia, dietro il benessere patinato serpeggia una sorta


di disagio. È l’inquietudine di cui è già stata pionieristica pre-
da l’irrequieto giovane Holden di J.D. Salinger, è la ribellio-
ne «senza causa» della «gioventù bruciata» degli anni Cin-
quanta: un malessere che, un decennio più tardi, nelle uni-

55
versità americane si esprime con la contestazione studente-
sca, con il rifiuto dell’aggressività che la società capitalistica
occidentale dimostra contro i paesi più poveri del mondo,
con il miraggio di una palingenesi promossa dalla libertaria
cultura beat.
Dall’Atlantico le brezze rivoluzionarie raggiungono con
facilità l’Europa. Anche qui i disagi dell’abbondanza si vol-
gono presto in critica verso l’assetto perbenista e gerarchico
della società. Ma se in Francia e in Italia i venti di rivolta sof-
fiano nelle università, sollevando urgenze di cambiamento in
ambito politico e sociale, nel Regno Unito la «contestazione»
dell’ordine costituito e la «trasgressione» delle convenzioni
sociali assume un aspetto peculiare, apparentemente più at-
tento agli aspetti esteriori, ma in grado di incidere profonda-
mente e a lungo sui costumi collettivi.
La «swinging London» regala al teenager, un attore socia-
le appena inventato, caratterizzato dall’insoddisfazione e
dall’indole critica, dall’entusiasmo per quanto appare sopra le
righe e fuori dalle regole, un’immagine, un abbigliamento e un
aspetto peculiari, ma soprattutto l’assicurazione che quell’im-
magine, quell’abbigliamento, quell’aspetto sono esclusiva-
mente suoi, patrimonio di chi non ha più di venticinque anni.
Ormai, per i ragazzi non si tratta più di passare dai calzoni cor-
ti a quelli lunghi repentinamente, perdendo con il nuovo ab-
bigliamento la spensieratezza dell’infanzia e assumendo
un’aria indiscutibilmente seria, adulta; né per le ragazze di ab-
bandonare gli spessi calzettoni e le scarpe allacciate a favore di
calze di seta, tacchi alti e filo di perle. Per i giovani in quella che
sempre più spesso si sente definire «età ingrata», nelle bou-
tique di Carnaby Street e di King’s Road si trovano capi che
non li fanno sembrare fotocopie dei loro «imbalsamati» geni-
tori. Autenticamente rivoluzionaria è la proposta di una gio-
vane diplomata al Goldsmith College of Art che di nome fa
Mary Quant e che propone alle ragazze di accorciare decisa-
mente gli orli delle gonne e di evitare il nero e i pastelli a favo-
re di colori vivi e sgargianti.

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Una volta vinte le riserve, i creatori di moda fanno a gara
per proporre capi sempre nuovi, dalle linee avveniristiche,
dagli abbinamenti di colore impensati, dai materiali inusitati.
Se le passeggiate nello spazio e lo sbarco dell’uomo sulla Lu-
na fanno sembrare vicino e tangibile l’intero universo, il fran-
cese André Courrèges dedica all’età spaziale un’intera colle-
zione di abiti molto corti, funzionali e sobri, rigorosi nella bi-
cromia bianca e nera, completati da stivali candidi. Le mo-
delle indossano questi abiti con parrucche di capelli sintetici
dai colori inverosimili e con occhiali da sole bianchi, che le
fanno assomigliare a veri e propri astronauti in missione. Uno
stile cosmonautico è anche quello cui si ispirano negli stessi
anni Pierre Cardin, che utilizza spesso e volentieri il vinile per
le sue creazioni o Paco Rabanne che realizza in plastica e me-
tallo i suoi abiti futuristici.
Questi abiti, che scoprono i corpi in maniera impensata e
impensabile fino a qualche anno prima, scandalizzano i ben-
pensanti, né più né meno che i comportamenti che le giova-
ni generazioni cominciano a tenere pubblicamente. Ribelli al-
le convenzioni che li costringono a soffocare sogni e tempe-
ste ormonali, curiosi di ogni nuova esperienza, gli adolescen-
ti dei secondi anni Sessanta reclamano a gran voce di espri-
mere apertamente sentimenti e passioni e salgono alla ribalta
delle cronache, perché in grado di dare inedite e calzanti de-
finizioni al mondo.

La stessa Barbie, a vent’anni di distanza da tutto ciò, in un


volumetto autobiografico autorizzato da casa Mattel ricor-
derà il clima effervescente e ottimista del periodo.

I cambiamenti erano nell’aria. Nel 1961 il ballerino Rudolf Nu-


reev [sic] fuggì dall’Unione Sovietica; nel 1962 il twist ribaltò le
convenzioni; nel 1963 Valentina Tereškova fu la prima donna lan-
ciata nello spazio e nel 1964 i Beatles, con le loro camicie senza col-
lo, esplosero all’Ed Sullivan Show. Tutto e tutti si stavano rinno-
vando.

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Nel novero di coloro che si rinnovano Barbie non inseri-
sce se stessa e il suo mondo, in rapido cambiamento per ri-
spondere prontamente alle sollecitazioni più diverse. Fino a
quel momento, infatti, pur essendo in giovane età, Barbie,
Ken e gli altri amici di casa Mattel si sono sempre vestiti e
comportati da adulti, riproponendo le abitudini in uso fino
all’avvento della moda della «swinging London». Ma l’aria
londinese, così allettante per chi come Barbie dimostra di
avere una sensibilità particolare per il rinnovamento estetico,
diviene irresistibile quando anche dagli Stati Uniti si guarda
con attenzione a quanto mettono in vetrina le boutique
all’ombra del Big Ben, snobbando gli abiti che fanno somi-
gliare le diciottenni alle loro madri. Così, anche le vecchie
amiche vengono impercettibilmente trascurate da Barbie per
nuove amicizie, che condividono con lei inedite linee di ve-
stiti dai colori inusitati. Nel 1966 fa il suo ingresso in società
una cugina di Barbie, Francie, che l’anno dopo si fa raggiun-
gere da un’amica, Casey. Fra le nuove amicizie c’è anche
Twiggy, riproduzione in vinile della più famosa modella del
momento, mentre nel 1968 entra a far parte del gruppo Sta-
cey, che non a caso giunge proprio da quella creativa Inghil-
terra che detta le regole del vestire alla moda.
Il nuovo quartetto che affianca Barbie ha un fisico più sot-
tile, forme meno accentuate, quasi infantili. Le loro fattezze ri-
propongono in miniatura il nuovo ideale di donna che, con la
nuova moda, si va imponendo e che è rappresentato non solo
da Twiggy, ma anche da Veruschka e da Jean Shrimpton: una
donna magrissima, quasi eterea, ma non per questo meno sen-
suale, grazie ai grandi occhi segnati dal kajal e alle labbra pe-
rennemente imbronciate. Scattanti, nervose, quasi androgine,
rispetto alla linea morbidamente femminile che continua a
contraddistinguere Barbie, le sue nuove amiche hanno il fisi-
co perfetto per valorizzare le linee semplici ed essenziali che le
nuove tendenze della moda propongono alle giovanissime.
Dietro il loro esempio, anche la formosa Barbie non rinuncia
a rinnovare il trucco, riproponendo l’affascinante broncio di

58
Brigitte Bardot e lunghissime ciglia da cerbiatta: un volto no-
to anche come «viso a o» dato che le labbra della bambola sem-
brano pronunciare questa lettera. Felice anche della possibi-
lità di ruotare il busto, che un’innovazione tecnica le ha con-
cesso, Barbie Twist ’n Turn, cambia l’intero guardaroba se-
guendo il consiglio degli stilisti emergenti. Sempre in sintonia
con lei, anche Ken aggiorna la sua immagine, ispirandosi al fa-
scinoso Warren Beatty. La coppia assume così un’aria decisa-
mente più sbarazzina e meno formale: quello che oggi in mol-
ti chiamano aspetto mod, dall’inglese modern.
Tuttavia, malgrado le linee giovanili e i disparati materia-
li utilizzati, malgrado l’idea stessa che la formalità dell’abbi-
gliamento – al pari di tutte le altre noiose formalità – vada
combattuta, non sembra tramontare la tradizione sartoriale
delle creazioni destinate a Barbie, sempre contraddistinte da
un nome e da un’estrema cura di particolari: Sunflower ha
una scollatura inusuale e una stampa psichedelica; Lemon
Kick è un elegante completo pantalone plissettato; Jump into
Lace un raffinato pigiama palazzo di pizzo doppiato in rosa
ciclamino; Print a Plenty un asciutto abitino stampato a ret-
tangolini; Caribbean Cruise un completo pantalone giallo
sgargiante ornato di volant; Patio Party una tuta pantalone a
disegni vivaci completa di spolverino bicolore. Malgrado gli
abiti stessi, con i loro colori accesi e le loro fantasie appari-
scenti, quasi chiassose, vogliano sfidare le convenzioni, Bar-
bie insegna sempre a indossarli nel posto giusto al momento
giusto. Appare inutile quanto poi affermerà successivamen-
te, ricordando di aver colto lo spirito del tempo, scegliendo
abiti più semplici.

I miei bellissimi completi dei primi anni Sessanta, che indossa-


vo con tanto piacere e che tuttavia richiedevano un’accurata pre-
parazione e un modo di presentarsi decisamente perfetto, hanno la-
sciato il posto a creazioni più vivaci e giovanili. I «coordinati», co-
me li chiamavamo, ovvero scarpe, borsetta, guanti e cappellino in
tinta, hanno pian piano perso il loro fascino.

59
Se una certa apparenza formale sembra aver perso ogni in-
canto agli occhi di Barbie che ora si riveste di abiti più sem-
plici e spiritosi, intatta rimane però la sua capacità di dettare
alle ragazzine un preciso galateo dell’abbigliamento, sugge-
rendo con il nome dei singoli abiti le occasioni in cui indos-
sarli. Anche il ventaglio delle attività cui dedicarsi rimane
piuttosto ristretto, e non sembra tener conto dei tempi che
cambiano. Nel 1968 Barbie Talking pronuncia sei frasi em-
blematiche:

«What shall I wear to Prom?»


«Cosa devo indossare per la festa?»
«I have a date tonight.»
«Ho un appuntamento questa sera.»
«Would you like to go shopping?»
«Vuoi andare a fare compere?»
«Stacey and I are having tea.»
«Stacey e io stiamo prendendo un tè.»
«Let’s have a costume party!»
«Facciamo una festa in costume!»
«I love being a fashion model.»
«Mi piace fare la modella.»

Naturalmente le parole che escono dalle labbra di Barbie


sono quelle veramente indispensabili per la sua quotidianità,
una quotidianità dove non c’è posto, nonostante lo sforzo di
riprodurre la vita reale, per le normali necessità. Barbie non
mangia: beve solo tè, naturalmente quando è in compagnia
della britannica Stacey che non può rinunciare alla bevanda
nazionale; in caso contrario, si astiene da cibo e bevande. E
coerentemente Barbie non fa la spesa, ma si dedica alle spe-
se. Ringiovanita dall’esperienza della «swinging London» la
deliziosa fanciulla ha deciso di rinunciare per un poco alle fa-
tiche casalinghe, lasciate a chi ha più anni di lei, per concen-
trarsi sull’estenuante esperienza delle compere di vestiti e ac-
cessori. Barbie non dorme: la sera ha un appuntamento; non
sappiamo con chi, ma i pochi dubbi sulla sua moralità ci in-

60
ducono a pensare che esca con il solito Ken. Barbie si annoia
nel suo incessante andirivieni da un party all’altro e, dotata di
ogni fantasia, ne propone uno in maschera, tanto per viva-
cizzare l’atmosfera. Barbie ama il suo mestiere di modella,
che le permette di indossare abiti sempre diversi, insufficien-
ti però a sciogliere il primordiale amletico dubbio con cui
inaugura la sua conversazione: «Cosa devo indossare per la
festa?». Il quesito, degno delle più attente premure, segna
l’intera vita di Barbie, costretta a una piatta routine festaiola
che solo il cambio dell’abito può contribuire, parzialmente, a
rianimare.
Pazienti, le bambine rispondono facendole indossare gli
abitini che hanno imparato da lei stessa a considerare oppor-
tuni. A Barbie sembra impossibile, anche in un periodo in cui
più forti si fanno le voci che invitano a non rispettare con-
venzioni che sembrano assurde, non continuare a impartire,
impossibile sapere quanto inconsapevolmente, lezioni di bon
ton. Peccato che le sue principali interlocutrici, le bambine
degli anni Sessanta, malgrado Barbie prometta loro un futu-
ro di occasioni centrate grazie al rispetto dei codici estetici,
non sognino che di diventare grandi per poter finalmente in-
frangere le regole, e non solo quelle della moda.
Black is black...

Con il suo nugolo di amiche rigorosamente caucasiche, Bar-


bie, malgrado gli abitini à la page, negli Stati Uniti degli ulti-
mi anni Sessanta, rischia però di apparire decisamente rea-
zionaria. La componente nera, infatti, è sempre più visibile
all’interno della vita pubblica americana e reclama a gran vo-
ce un’attenzione che in precedenza le era del tutto negata, da-
to che ai neri cominciano a essere affidati anche incarichi di
prestigio e di responsabilità e che le bambine nere ambisco-
no a possedere le medesime cose di quelle bianche: un fatto
di cui Barbie deve tener conto, tanto più che nella lunga sto-
ria della segregazione razziale in America le bambole gioca-
no un ruolo non indifferente.
Se, infatti, la guerra di Secessione aveva abolito la schia-
vitù e sancito in via di principio l’uguaglianza fra bianchi e
neri, di fatto nel secondo dopoguerra la società americana è
segnata da una profonda frattura fra le due comunità. Non
dappertutto la distanza fra gli uni e gli altri è marcata nella
medesima maniera. Negli Stati del Nord la discriminazione
dei bianchi a danno dei neri è strisciante; negli Stati del Sud
le distanze sono più nette. Vige il principio del separate but
equal, sancito da una sentenza della Suprema corte del 1896.
Nei cinema, nei teatri, nei ristoranti, negli autobus e persino
nelle chiese vi sono posti riservati ai neri, vi sono scuole per
neri, mentre le sale d’attesa nelle stazioni e gli scomparti-
menti ferroviari sono rigorosamente separati. Teoricamente
quanto destinato ai neri è «uguale» a quanto destinato ai
bianchi. Tuttavia, la suprema ipocrisia dei bianchi porta a ri-

62
conoscere come «uguali» cose assolutamente imparagonabi-
li dal punto di vista qualitativo.

Timidi tentativi per contrastare la situazione erano stati


tentati sin dall’inizio del Novecento. Ma la National Associa-
tion for the Advancement of Colored People fondata nel
1910 non era giunta a rilevanti risultati. Un effetto positivo
per una maggiore considerazione dei neri e del loro ruolo
all’interno della società era, semmai, venuto un decennio più
tardi, durante la cosiddetta età del jazz, dal successo ottenu-
to da alcuni musicisti di pelle nera. Louis Armstrong e Duke
Ellington erano divenuti glorie mondiali, in grado di entusia-
smare intere platee. Successivamente, poi, il contributo dato
dai neri nel secondo conflitto mondiale e i ruoli che i singoli
riescono a ricoprire nell’esercito fanno compiere un ulterio-
re passo nel riconoscimento dell’effettiva uguaglianza con la
popolazione bianca.
Sin dai primi anni Cinquanta i neri cominciano una battaglia
giuridica, basandosi sul principio costituzionale dell’uguaglian-
za fra tutti i cittadini, che dalla segregazione razziale sarebbe nei
fatti negato. Per dimostrarlo lo psicologo Kenneth Clark, nel fa-
mosissimo processo Brown contro il Board of Education di To-
peka - Texas, propone ad alcuni bambini neri di scegliere fra due
bambole perfettamente identiche, salvo che per il colore dell’in-
carnato. Una maggioranza schiacciante sceglie la bambola bian-
ca «perché più bella»: già nei bambini la pelle scura viene vista
come un segno di bruttezza e, quindi, di inferiorità. La pelle
bianca, invece, è sinonimo di bellezza, e solo a fatica e con evi-
dente dispiacere i bambini neri ammettono che la bambola più
brutta è quella che in realtà somiglia loro di più. Anche grazie
all’esperimento di Kenneth Clark, nel 1954 i neri raggiungono i
primi risultati. La Corte suprema stabilisce che l’applicazione
del principio giuridico separate but equal in ambito scolastico
non è ammissibile e quindi intima agli Stati del Sud dove è in vi-
gore di procedere alla desegregazione nelle scuole «with all de-
liberate speed», con ogni ragionevole velocità.

63
L’America bianca, che tenta di resistere a ogni possibile
innovazione in campo razziale, viene inoltre scossa da un epi-
sodio di cronaca che suscita grande clamore: a Montgomery,
in Alabama, una donna di colore, Rosa Parks, di ritorno dal
lavoro, rifiuta di cedere il suo posto in autobus a un bianco.
Il suo arresto segna l’inizio di un’azione di resistenza che
coinvolge l’intera comunità di colore della città. I neri boi-
cottano il servizio urbano fino a quando il tribunale non ri-
conosce le ragioni di Rosa Parks.
A partire da questo episodio nella provincia americana
degli anni Cinquanta i casi di neri che si impegnano in for-
me di resistenza non violenta aumentano. Al loro fianco è
schierato il governo centrale, che non tollera che vengano
disattese leggi federali e sentenze della Corte suprema.
Quando, nel 1957, alla Central High School di Little Rock,
in Arkansas, a nove studenti neri è impedito l’ingresso, vie-
ne inviato l’esercito a presidiare la cittadina affinché gli stu-
denti possano entrare regolarmente a scuola. Naturalmente,
queste misure vengono ritenute troppo drastiche dai molti
bianchi che ritengono giusta la separazione dai neri e che ri-
spondono in maniera altrettanto decisa. L’anno successivo,
la Central High School di Little Rock, pur di impedire l’in-
gresso ad allievi di pelle scura, non riapre i battenti.
Non basta però un portone chiuso a fermare l’avanzata,
tanto più che una volta fuori dai ghetti, nell’ansia di riscatto
e di promozione sociale, i neri promettono di diventare un
nutrito gruppo di consumatori. Sicuramente si tratta di una
fascia di mercato che, in molti settori, ha bisogno di prodot-
ti strutturalmente diversi da quelli usati dai bianchi. Soprat-
tutto le case produttrici di cosmetici devono ampliare la loro
offerta per far fronte alle esigenze della nuova clientela che
viene da subito considerata come una generosa fonte di pro-
fitti.

Anche chi vende sogni non può ignorare che essi possono
acquistare sfumature diverse da quelle che hanno avuto fino

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a quel momento. Così la Mattel si trova ad allargare la pro-
pria produzione lanciando sul mercato bambole nere, con cui
le bambine di pelle scura possano identificarsi. Nel 1968 ap-
pare Christie, seguita a un anno di distanza da Julia, le cui fat-
tezze riproducono quelle della protagonista di un serial tele-
visivo dell’epoca, Diahann Carroll. Capelli neri e crespi,
grandi occhi castano scuro, pelle ambrata, Christie e Julia,
come Barbie e Midge, partecipano a una vita sociale piena di
impegni, dal ritmo serrato scandito dal frenetico cambio
d’abito: tornei di tennis e merende all’aperto, cocktail party
e prime teatrali, balli di beneficenza e vernissage, in cui non
si postulano gerarchie basate sulla distinzione razziale... Le
due fanciulle prendono parte alle medesime attività di Bar-
bie, non sono relegate nell’angolo né destinate a ruoli di ser-
vizio. Julia, addirittura, viene presentata con un dispositivo in
grado di farla parlare, al pari della Barbie che viene prodotta
in quella stagione.
Inoltre Christie e Julia non rimangono le uniche bambole
nere di casa Mattel. Nel corso degli anni, infatti, le amiche
afroamericane di Barbie aumentano: Cara frequenta Barbie
fra il 1975 e il 1978; Dee Dee nel 1986 suona nel gruppo del-
le Rockers, così come Belinda, che nel 1988 fa parte del grup-
po delle Sensation; l’anno seguente si aggiungono al gruppo
anche Devon e Stacie; nel 1994 è la volta di Shani, mentre nel
1999 quella di Nichelle. Certo, negli anni Ottanta la sponta-
neità dell’amicizia di Barbie appare un po’ offuscata dal so-
spetto di un certo interesse: le star di colore dominano il pa-
norama musicale e Barbie, che dà vita a una band, non può
certo prescindere dal loro apporto.
Del resto, anche Ken annovera amici neri fra le sue fre-
quentazioni: nel 1970 si accompagna a Brad; nel 1975 a Cur-
tis, fidanzato dell’amica di Barbie, Cara; nel 1988 a Steven,
boyfriend di Christie. Inoltre, i due fidanzati hanno provato,
letteralmente anche se temporaneamente, a «cambiar pelle».
Barbie nera debutta nel 1980: la sua pelle di ebano è valoriz-
zata – nella confezione originale di vendita – da un vestito

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rosso con dettagli e accessori di gusto etnico e di un lussu-
reggiante color oro. Ma si tratta dell’ebbrezza di un momen-
to, del piacere di vestire – oltre ai mille abiti adatti alle più di-
sparate occasioni – anche una pelle diversa: un brivido che
non intacca quella che nel corso degli anni è diventata una
tradizionale affezione per l’incarnato pallido, gli occhi celesti
e i capelli innaturalmente biondi.

Nelle sue prime apparizioni, Barbie, infatti, pur non ri-


nunciando alla carnagione pallida, cambia volentieri colore
di capelli, alternando le chiome bionde a quelle nere, non di-
sdegnando talvolta il castano e osando, in qualche occasione
particolare, il tiziano o il cannella: la prima Barbie sfoggia con
uguale sicurezza il platino e il corvino; sfoggia diverse tinte
anche la Barbie, prodotta nel 1961, con la gonfia e corta ac-
conciatura detta «Bubble Cut»; Barbie Fashion Queen, pro-
dotta nel 1963, ha i capelli modellati in vinile, in modo da po-
ter agevolmente cambiare colore con le tre parrucche – nera,
castana e bionda – in dotazione; la nuova acconciatura «Swirl
Ponytail», sfoggiata a partire dal 1964, viene realizzata con
capelli di diverse sfumature.
Malgrado le diverse tonalità nulla tolgano al suo fascino,
a partire dagli anni Settanta, Barbie non sembra però voler
assolutamente rinunciare al look platinato. Nei negozi di
giocattoli e nei grandi magazzini, dalle scatole di un rosa
sgargiante si affacciano sorrisi immancabilmente ombreggia-
ti da ciocche dorate. Il roseo mondo di Barbie, nelle sue in-
finite declinazioni (dagli accessori per la scuola ai capi di ab-
bigliamento, dalle calzature ai mobili, dai piccoli elettrodo-
mestici di uso personale ai più svariati gadget e così via), è
sempre illuminato da uno sguardo turchino e da un ricciolo
biondo. Nell’immaginario collettivo Barbie, malgrado ogni
tentativo di variazione, rimane così innegabilmente chiara al
punto che anche le bambine nere preferiscono giocare con
la versione tradizionale piuttosto che con quella di pelle scu-
ra: Barbie è bianca e bionda. Se è vero, come voleva la crea-

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trice Ruth Handler, che le bambine vengono aiutate trami-
te il gioco con Barbie a «esplorare il mondo circostante [...]
mostrando le infinite possibilità a loro disposizione [in mo-
do che possano] proiettare se stesse nei loro sogni di cresci-
ta e interpretare a modo loro il mondo dei grandi», le bam-
bine di pelle scura, dalle chiome felicemente crespe, posso-
no sin dalla più tenera età cominciare faticosamente a pren-
dere atto di come la vita sembri riservare maggiori soddisfa-
zioni a chi esibisce un incarnato pallido e una chioma dora-
ta rispetto a chi non può vantarli. Ancora oggi ad Harlem,
infatti, il «test della bambola», reso noto da Kenneth Clark
nel lontano 1954, ha confermato come le bambole più bel-
le, con le quali le bambine nere preferiscono giocare, sono
bianche e se viene chiesto loro perché esse siano più belle,
le bambine con sconcertante sincerità rispondono che lo so-
no proprio «perché sono bianche».
Una verità che Barbie ha sempre conosciuto, senza neces-
sità di ripetere il «test della bambola», e che, malgrado le più
disparate colorazioni di incarnato, chioma e iride, negli ulti-
mi anni in cui ha debuttato con abiti folcloristici come Barbie
nel mondo, non ha mai provato effettivamente a contestare.
Anzi. Una delle ultime imprese dell’infaticabile fanciulla si è
svolta in ambito storiografico: è, infatti, stato dato alle stam-
pe a firma Barbie il primo di una serie di tomi in cui vicende
«biografiche» sono intrecciate ai grandi avvenimenti della
storia degli Stati Uniti. Ciascun volume racconta un decen-
nio: il primo, dedicato agli anni Sessanta, si intitola Peace,
Love & Rock’n’Roll. La vicenda ha inizio nel gennaio del
1964, quando Barbie racconta del suo viaggio a Washington
come reporter per realizzare un servizio su Martin Luther
King. La memoria sembra, però, tradire la simpatica ragazza,
dato che, benché all’inizio del racconto siano passate solo sei
settimane dall’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, l’avve-
nimento – uno dei più sconvolgenti per l’intera America –
non viene neppure ricordato. Ugualmente sotto silenzio pas-
sano il conflitto in Vietnam o la Guerra Fredda.

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A uno sguardo più attento ci si accorge che la memoria ha
infierito con inaudita crudeltà sulla poco zelante storiografa,
la quale dimentica anche che la sua amica Christie ha la pel-
le nera. Un’immagine che raffigura le due ragazze, le presen-
ta con un identico colore della pelle, indubitabilmente chia-
ro... Del resto, se ancora oggi al «test della bambola», le bam-
bole nere risultano perdenti al confronto con quelle bianche,
perché condannare la cara Christie all’insuccesso sociale?
Yankee go home

Risulta difficile per Barbie ricordare anche il momento in cui,


agli inizi degli anni Sessanta, riattraversa l’oceano per appro-
dare nuovamente in Europa e, forte del successo ottenuto nel
Nuovo Mondo, cerca di replicarlo nel Vecchio Continente. Il
percorso non si rivela per nulla facile: se il debutto america-
no è stato un succès de scandale, l’arrivo di questa diva di pla-
stica dal guardaroba inusitato nell’Europa di quegli anni, nel-
la quale il nuovo benessere non ha ancora cancellato il ricor-
do delle sofferenze dell’ultima guerra, viene visto con grande
sospetto. Il piccolo balocco che viene dal grande «paese dei
balocchi», interpretandone a perfezione lo spirito, contrasta
con quanto l’Europa democratica ha nei suoi programmi: se
«la società opulenta smorza i fuochi dell’indignazione», co-
me afferma nel 1957 Raymond Aron con una frase destinata
a diventare famosa, suscita ben più di una sporadica diffi-
denza chi, come Barbie, di quell’opulenza si fa latore. Nel
1965 la Società Editrice Giochi, distributrice in Italia della
bambola, dalle pagine del catalogo pubblicizza Barbie come
«la Bambola-Signorinetta, la Bambola più elegante e più am-
biziosa, che dispone di un’invidiabile collezione di vestiti e
accessori, tutti finiti e curati come modelli usciti da una gran-
de Sartoria».
Ciò che si chiede alle bambine italiane, abituate a cullare
i bambolotti e a prendersi cura di loro come mamme in mi-
niatura, è cambiare l’abito alla bambola a seconda delle oc-
casioni. La confezione che la racchiude è completa anche di
un piccolo catalogo che mostra i molteplici modelli, comple-

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ti di accessori che Barbie è solita utilizzare nella sua monda-
na quotidianità: «Vestire Barbie è la cosa più facile e più di-
vertente perché, cambiandole d’abito, acquista di volta in
volta diversa eleganza e diversa personalità».
Tuttavia il gioco appassionante che dovrebbe entusia-
smarle è riservato solo a una fascia particolarmente ristretta
di fanciulline italiane. Nel 1965 il guadagno medio lordo di
una famiglia operaia si attesta sulle 70.000 lire mensili: una
semplice Barbie in costume da bagno e scarpe ne costa 1950;
la versione più sofisticata con tre parrucche, per permettere
alla bambola il cambio dell’acconciatura, addirittura 4500;
gli abiti più semplici costano 1600, mentre i più sontuosi pos-
sono superare le 3000 lire. Skipper, la sorellina di Barbie,
«con costume bianco-rosso, pettine, spazzola e cerchietto» e
Midge, l’amica di Barbie, «con costume in due pezzi e scar-
pe» costano ciascuna 1950 lire, mentre Ken, il fidanzato di
Barbie, e Allan, l’amico di Ken, ambedue in giacca di spugna,
costume da bagno a calzoncino e sandali, costano – privile-
gio della virilità – 2400 lire.
Preclusa la vendita alle bambine delle famiglie operaie per
ovvi motivi, neanche presso la media borghesia la bambola
riesce a riscuotere eccessive simpatie. Non si tratta solo delle
sue forme procaci, inadeguate ai giochi infantili secondo
l’opinione dei genitori che ritengono più educativi i bambo-
lotti, ma anche e soprattutto del fatto che Barbie non pro-
muove certo quei valori di sobrietà e discrezione che devono
diventare patrimonio delle bambine di buona famiglia. Il ca-
talogo che accompagna la Barbie recita infatti: «Tutta la
stampa ha parlato e continua a parlare di Barbie che è la Bam-
bola più fotografata e più reclamizzata di tutti i tempi».
Al contrario, il galateo corrente vuole che le signorine a
modo vivano lontane dalla luce dei riflettori, adatta esclusi-
vamente a quelle figure di dubbia moralità che sono le attri-
ci, e non dimostrino un facile orgoglio per la loro avvenenza.
Non sono solo le pubblicazioni più bigotte del periodo a con-
sigliare alle fanciulle una condotta modesta. Anche dalle pa-

70
gine dell’Enciclopedia della donna (1965), voluta dall’Unione
donne italiane, l’associazione vicina al Pci che promuove sul-
la Penisola l’emancipazione femminile, le giovani fanciulle
sono ammonite ad apprendere sin dalla più giovane età qua-
li debbano essere le doti da coltivare.

I successi dovuti alla femminilità devono essere distinti giudi-


ziosamente tra successi passeggeri originati da slanci istintivi e suc-
cessi originati invece da reale simpatia per il complesso della nostra
personalità. Il contegno della ragazza unito a caratteristiche fisiche
appariscenti può provocare l’esplosione di ammirazione istintiva e
incontrollata da parte dell’altro sesso. Il piacere che l’ammirazione
altrui per le proprie doti fisiche può suscitare è naturale e non ha
niente di riprovevole. Ma può contenere il pericolo di spingere la
ragazza a sottolineare sempre più la propria avvenenza fisica, ri-
nunciando a quelle soddisfazioni più durature e più profonde che
derivano dall’apprezzamento delle sue qualità di intelligenza e di
spirito. Per le ragazze molto belle è più difficile emergere per qua-
lità di ingegno, di carattere e di forza morale. La bellezza è un do-
no prezioso che crea molti doveri; soprattutto quello di non pro-
vocare con il suo predominio assoluto la dissipazione degli altri do-
ni avuti da natura.

Una bellezza pudica, quindi, si deve accompagnare a mo-


di garbati, tali da non attirare l’attenzione altrui.

Si può consigliare alla giovinetta di tenere presenti alcuni pochi


precetti di buona creanza: 1. ascoltare e cercare di capire l’am-
biente e le persone, prima di dare giudizi o esporre opinioni; 2. non
lasciarsi dominare dal desiderio di far bella figura che può con-
durre, invece, a fare pessima figura; 3. dimostrare deferenza agli an-
ziani ascoltandoli e lasciando ad essi l’iniziativa della conversazio-
ne; 4. accettare di buon grado quanto viene offerto servendosi con
misura; 5. sopportare discorsi noiosi senza dar segno di insofferen-
za; 6. non aver fretta di accomiatarsi, ma non prolungare troppo la
visita quando il ricevimento tende ad esaurirsi; 7. non preoccupar-
si troppo del proprio aspetto, mettendo mano continuamente allo
specchietto e tanto meno al pettine; 8. non pretendere di essere al

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centro dell’attenzione, ma nello stesso tempo non appartarsi; 9.
non far sfoggio delle nozioni o delle abilità da poco conquistate ma,
nello stesso tempo, inserirsi nella discussione con i propri proble-
mi culturali e con le proprie opinioni; 10. non portare nelle di-
scussioni un eccesso di calore, pur sostenendo con fermezza il pro-
prio punto di vista; non voler intervenire in discorsi che esigono
preparazione e cultura superiore a quella che si possiede, ma ascol-
tare per apprendere e, nel caso, domandare chiarimenti e spiega-
zioni; 11. se c’è una persona di riguardo, non voler accaparrare la
sua compagnia anche se questa persona dimostra una cortese sim-
patia per noi.

Barbie, con il suo fisico da pin up, il suo guardaroba smi-


surato in colori sgargianti e vistosi, i numerosi accessori stret-
tamente coordinati, lo sguardo bistrato e le sontuose pellicce
pare invece fatta apposta per trasmettere alle bambine il gu-
sto di monopolizzare l’attenzione altrui. Ma oltre a contrav-
venire ai principi che regolano la vita nella buona società, la
bambola sconta un altro peccato, più grande, che contribui-
sce non poco alla sua emarginazione. Proprio il suo aspetto
appariscente denuncia in maniera innegabile la sua prove-
nienza, quegli Stati Uniti che sono obiettivo di critiche con-
divise da gruppi e individui della più diversa provenienza
ideologica.

La diffidenza nei confronti dell’America, a volte tanto for-


te da sfociare in un autentico ostracismo verso quanto provie-
ne da oltreoceano, fa permanentemente parte, negli anni Ses-
santa, del patrimonio ideologico di diverse forze politiche.
Forte è l’antiamericanismo che si avverte nel Movimento
sociale italiano. In questo caso, esso, da un lato, è retaggio de-
gli atteggiamenti coltivati dal regime fascista: Mussolini ave-
va sempre guardato con sconcerto alla società americana con
un pavido atteggiamento strapaesano nei confronti dell’inci-
piente modernità capitalistica. Questi timori nei confronti
del gigante statunitense venivano esorcizzati con il richiamo

72
a un passato inattingibile per gli americani e attutiti grazie ai
vincoli instauratisi con l’emigrazione italiana oltreoceano. A
segnare in maniera definitiva il distacco dell’Italia mussoli-
niana da eventuali simpatie atlantiche erano stati, in primo
luogo, l’alleanza con la Germania hitleriana e, in secondo luo-
go, lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Nelle vignette di Gino
Boccasile gli americani venivano rappresentati come sinistri
figuri capaci di ogni violenza sulla popolazione inerme. Que-
sta immagine si rafforzò, negli schieramenti di destra, all’in-
domani della Liberazione. Per i nostalgici del regime l’Italia
non era stata solo il teatro degli orrori dell’esercito a stelle e
strisce: gli Stati Uniti, fornendo gli aiuti del Piano Marshall,
vi imponevano un modello di vita decadente e dissoluto, se-
gnato dalla corruzione diffusa e dalla presenza ebraica nei
gangli vitali. Il teorico di destra Julius Evola segnalò come lo
sfacelo colpiva anche le più giovani generazioni, trascinan-
dole in abissi di nefandezza.

Specialmente fra le studentesse l’immoralità è estrema, cagio-


nata non solo dall’indifferenza dei genitori [...] ma dagli spacciato-
ri di stupefacenti, onde un’enorme percentuale di tali ragazze si
prostituisce al solo scopo di trovare i soldi della droga. Questa è la
realtà americana.

Se nel corso degli anni Cinquanta una tale posizione ideo-


logica divenne gradualmente eredità delle frange più estre-
miste della destra, mentre nel Movimento sociale italiano ma-
turò una «svolta atlantista», l’antiamericanismo arrivò a esse-
re parte sostanziale dell’ideologia dei partiti della sinistra par-
lamentare. Durante la guerra e nella stagione immediata-
mente successiva i gruppi socialisti e comunisti non avevano
visto nell’America combattente contro Hitler un autentico
nemico; al contrario, l’America era il luogo dove era matura-
ta quella democrazia cui in molti in Italia aspiravano. La svol-
ta che vide i partiti di sinistra opporsi vigorosamente alla po-
litica e ai valori atlantici maturò nel 1947, quando al Co-

73
minform, nel quadro della lotta mondiale contro gli assetti
borghesi che si auspicava i diversi partiti comunisti affron-
tassero, gli Stati Uniti vennero indicati come il nemico impe-
rialista da sconfiggere. Fu sistematicamente svalutata quella
democrazia che fino alla stagione precedente era stata vista
con ammirazione: si sostenne anzi che il sistema americano
fosse falsamente democratico, in realtà dominato da poche
grandi famiglie estremamente facoltose, in grado di orienta-
re e dirigere l’intera sfera della politica statunitense.

Tra il 1965 e il 1970 la bandiera a stelle e strisce comincia


a essere bruciata nelle manifestazioni, in segno di disprezzo
per l’aggressiva azione militarista che gli Stati Uniti stanno
conducendo in Vietnam, mentre vengono elevate a modello
e simbolo le carismatiche figure di leader del Terzo Mondo.
I profili di Fidel Castro, Mao Tze Dong, Ho Chi Min, Che
Guevara alimentano l’immaginario collettivo giovanile insie-
me al sogno di una società in grado di non lasciarsi corrom-
pere dall’abbondanza e dagli eccessi consumistici statuniten-
si. Ciò che si teme è la vischiosità del benessere statunitense,
in grado di deteriorare la società nel suo insieme, di drogar-
ne fino alla morte i componenti, commettendo un autentico
crimine, tanto peggiore quanto invisibile. Significative sono a
questo proposito parole come quelle che Carlo Levi scrive nel
1967 nel suo Discorso sul Vietnam:

La civiltà che ci è proposta dal gruppo dirigente americano è


forse più pericolosa di quella che c’era proposta allora con le armi
dai dirigenti della Germania, perché è apparentemente affascinan-
te, è ricca di seduzioni, di merci, di vantato benessere, di vantata
democrazia, è ricchissima di parole ma più sottilmente meta-
morfosamente e più alienante di quella. Non si trasforma qui l’uo-
mo in saponetta o in paralume ma lo si trasforma (non solo i nemi-
ci ma tutti gli alleati, anche gli americani, tutti gli uomini li trasfor-
ma) in merce, in cosa, in oggetto, in numero di economia di mer-
cato, in astratti consumatori.

74
Tuttavia, l’ambiente dove con maggior continuità matu-
ra l’avversione nei confronti degli Stati Uniti e di un certo
stile di vita è quello cattolico. Alla fine dell’Ottocento si
guardava con un sospetto tale alla democrazia e al liberali-
smo sviluppatisi in America che papa Leone XIII nel 1895
aveva emanato l’enciclica Longinqua oceani: si condannava
il tipo di civiltà di cui gli Stati Uniti erano latori perché
avrebbe potuto minare alla base i valori gerarchici sulla
quale secondo il pontefice si dovevano basare le società oc-
cidentali. Nel Novecento la punta di diamante dell’antia-
mericanismo vaticano era costituita dalla Compagnia di
Gesù, che dalle pagine della rivista «Civiltà cattolica» con-
dannava la materialistica ed edonistica società americana,
priva di ideali e di fede religiosa.

Più della metà dei cittadini degli Stati Uniti sono privi di ogni
Chiesa, fuori di ogni professione religiosa. È una massa che vive, se
non nell’ateismo, nel puro naturalismo [...]. L’idea di un’apparte-
nenza a un’istituzione religiosa; la necessità di consacrare con qual-
che pratica religiosa almeno i punti culminanti della vita – nascita,
matrimonio, morte; l’idea di dare ai figli, insieme con i primi rudi-
menti dell’educazione e dell’istruzione, anche qualche verità reli-
giosa che divenga parte della loro educazione fondamentale; tutto
questo insieme di riflessi religiosi nella vita quotidiana, per gran
parte della massa americana, non esiste.

Agli occhi dei sacerdoti gesuiti, la mancanza di spirito re-


ligioso colpiva profondamente la società, dato che uno dei
suoi maggiori capisaldi, il matrimonio, in virtù della sua na-
tura essenzialmente civile e non sacramentale, con estrema fa-
cilità veniva sciolto.

Il divorzio è un male veramente pernicioso data la leggerezza


con cui lo si chiede e la facilità con cui lo si ottiene. [...] Agli occhi
delle ragazze lavoratrici il matrimonio non ha nulla di religioso, di
sacro; esse non ne vedono che l’aspetto economico. [...] È soprat-
tutto un affare e perciò si sposano con una riserva mentale: che se

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l’affare si rivelerà cattivo esse spezzeranno ogni vincolo per andare
liberamente alla ricerca di un’altra combinazione.

La leggerezza con cui veniva slegato quanto dalla Chiesa


cattolica era considerato nodo indissolubile si coniugava, se-
condo i commentatori cattolici della rivista «Politica sociale»,
con un’estrema spregiudicatezza nel trattare gli argomenti
inerenti alla sfera sessuale.

La frenesia del sesso assume un carattere pedagogico quando


sotto pretesto di istruire i giovani si pubblicano e vendono volumi
attraenti dove tra illustrazioni e testo c’è abbastanza per fare espe-
rienza. Ciarpame pseudo letterario a fondo speculativo che attossi-
ca le coscienze dei giovani americani [...].

Le coscienze dell’italica gioventù non devono, quindi, in


alcun modo essere turbate dal pervertitore «american way of
life». Ogni mezzo è buono per raggiungere il fine e tanto pri-
ma si comincia a mettere in guardia contro l’immoralità ame-
ricana meglio è. Nel 1974, vince lo Zecchino d’Oro la canzo-
ne Cocco e Drilli: «due coccodrilli / lei lo chiamava Cocco lui
invece Drilli» la cui storia d’amore viene messa in pericolo da
un cacciatore che cattura Drilli e la carica «in barca dicendo
‘Yes! / Io ne farò borsette, portafogli e beautycase’». L’odio-
so personaggio che attenta alla felicità amorosa dei due coc-
codrilli parla l’inviso idioma e ha la truculenta intenzione di
affettare la povera Drilli per ricavare tutti quei beni che – si
sa – abbondano sulle scintillanti vetrine americane, mentre in
Italia – dove si è ancora tutto sommato legati alla parsimonia
bellica e si continua a vedere di buon occhio una certa mori-
geratezza nell’acquisto – sono appannaggio di poche privile-
giate. E anche se «più di mille coccodrilli / [...] scesero nel
fiume a cercar la Drilli» e «vedendoli arrivare, il cacciatore /
buttò la Drilli in acqua per poi scappare», rinunciando così
ai suoi turpi propositi, in modo che «Cocco è tornato ancor
/ a vivere con Drilli il suo bel sogno d’amor», rimane la cer-

76
tezza che quanti per dire «sì» dicono «yes» e uccidono ani-
mali indifesi per farne superflui beautycase non siano certa-
mente persone frequentabili.
In una tale atmosfera, la maggiorata e consumista Barbie,
così vistosa, provocante e superficiale da trattare il suo velo
da sposa come una qualsiasi acconciatura da utilizzare a pia-
cimento, non può essere certo vista di buon occhio. Anche se
non disdegna, com’è noto, di armeggiare in cucina, la bionda
statunitense sembra trovarsi troppo a proprio agio con gli
elettrodomestici che proprio in questi anni cominciano a pro-
mettere minore fatica alle casalinghe. Fornelli, frigoriferi, la-
vatrici, aspirapolvere, frullatori negli anni Sessanta, e poi la-
vastoviglie e televisore negli anni Settanta, fino al forno a mi-
croonde, al tostapane, alla pentola a pressione e alla friggitri-
ce negli anni Ottanta non vengono immediatamente recepiti
dal mercato femminile. La «rivoluzione del bucato», com-
piuta con l’ingresso delle lavatrici nelle case della classe me-
dia, offre nuove opportunità, liberando il tempo prima im-
piegato a mettere a mollo, strofinare, sciacquare, strizzare...,
ma in un primo momento atterrisce chi teme di perdere ogni
ruolo utile. Barbie, così sicura con le nuove tecnologie, così a
suo agio nella gestione del suo (tanto) tempo libero, appare
particolarmente inquietante: perciò ammicca dagli scaffali
dei negozi di giocattoli sola e altera, in attesa di un momento
migliore.
Crisi di crescita

Snobbata in Europa a favore di bambole più tradizionali e


meno impegnative, al principio degli anni Settanta Barbie
non sembra trovarsi sotto una buona stella neppure nel Nuo-
vo Mondo. Il modello di sviluppo e di consumo basato sulla
convinzione che le risorse del pianeta siano inesauribili è de-
finitivamente tramontato. Si apre una stagione di austerità,
che incide sulle abitudini dei consumatori, inducendoli a tra-
scurare i consumi lussuosi e voluttuari: quelli che per Barbie
sono generi di prima necessità.
Anche in casa Mattel spira un’aria poco piacevole. La più
importante fabbrica del continente, situata in Messico, viene
distrutta da un incendio: i danni economici non sono indiffe-
renti. E di lì a poco la stessa Ruth Handler viene perseguita dal
fisco per evasione. Barbie non ricorda il decennio con parole
elogiative: «Disturbo qualcuno se confesso che gli anni ’70
non sono stati i miei preferiti per quanto riguarda la moda? So-
no stati anni di riorganizzazioni, di ripensamenti, di ritorno al-
le origini. Ecologia ed economia furono il motto dell’epoca.
[...] Abiti da nonna e da contadina, maglie all’uncinetto, mol-
to denim e pantaloni, pantaloni, pantaloni ovunque...».
Concentrata sul ricordo della moda, Barbie preferisce non
richiamare alla memoria i brutti momenti. Non si tratta solo
della crisi economica incipiente, che porta gli acquirenti a
preferire bambole concorrenti – ormai ce ne sono diverse –
ma meno costose. Uno dei grossi problemi di Barbie si ap-
punta sulle feroci critiche che fioccano su di lei, per la prima
volta in maniera massiccia e articolata.

78
Nei primi anni Settanta, infatti, in tutto il mondo occi-
dentale risulta saldamente costituito il movimento per la li-
berazione della donna. Si tratta di un movimento che nasce
nella seconda metà degli anni Sessanta dalla presa di co-
scienza da parte di molte donne, già impegnate nella conte-
stazione studentesca o per il riconoscimento dei diritti civili
ai neri, della loro esclusione dai luoghi decisionali. Come i ne-
ri, le donne sono costrette a lavorare ai margini o al di fuori
delle strutture di potere, anche all’interno dei gruppi nati per
lottare contro le esclusioni sociali e le gerarchie. La decisione
di gruppi di donne consapevoli della marginalità del loro ruo-
lo di staccarsi e di costituire i primi, autonomi consciousness
raising groups, i primi collettivi femministi, ha un precedente
in un episodio avvenuto nel 1966 ed entrato nella leggenda
del movimento femminista. In occasione della conferenza na-
zionale della Students of a Democracy Society, durante una
discussione sulla questione femminile, le donne abbandona-
no il dibattito comune per affrontare da sole, separatamente,
la questione: una scena che si ripeterà innumerevoli volte ne-
gli Stati Uniti e in Europa e che, in molti casi, segnerà la na-
scita dei collettivi femministi.
Negli Stati Uniti uno di questi gruppi inaugura la propria
attività con un’azione estremamente significativa: mentre si
svolgono le finali del concorso di bellezza più famoso del con-
tinente, l’elezione di Miss America, un gruppo di donne inco-
rona una pecora, getta nella «pattumiera della libertà» reggi-
seno, bigodini e cosmetici e celebra una cerimonia funebre al-
la «femminilità tradizionale» nel cimitero nazionale di Arling-
ton, in Virginia. Non è il solo, ma certamente il più plateale epi-
sodio, che testimonia come, a partire dalla prima denuncia di
Betty Friedan che aveva illustrato come la «mistica della fem-
minilità» avesse creato un eterno femminino afflitto da quel
«problema senza nome» che era l’insoddisfazione, si sia radi-
cata l’opinione che la libertà di cui le donne godono nel mon-
do occidentale è condizionata da una miriade di fattori, tutti
riconducibili alla sua posizione di inferiorità. Se Betty Friedan

79
aveva reclamato il diritto femminile al lavoro extradomestico,
nei gruppi di autocoscienza che vengono formandosi in ma-
niera spontanea negli Stati Uniti come in Europa, le tematiche
che sono discusse non interessano esclusivamente l’ambito la-
vorativo. Esso, anzi, rischia di risultare marginale di fronte al-
la riflessione più ampia e articolata che le donne avviano sul
corpo femminile, sulla sua proprietà, sull’uso che la società ne
fa privandole del diritto di disporne liberamente: partendo
spesso dal vissuto personale delle componenti, vengono ap-
profonditi i temi relativi alla sessualità, alla libera scelta della
maternità, all’aborto, al divorzio, alle varie forme di schiavitù
domestica che molte donne sono costrette a sopportare. Di
fronte alle battaglie delle femministe sull’aborto come sul di-
vorzio, sulla parità salariale come sulle politiche familiari, alla
lunga, il mondo politico occidentale non può non reagire. E
sebbene in tutti gli schieramenti parlamentari e anche nei mo-
vimenti politici extraparlamentari le battaglie femministe sia-
no viste con un atteggiamento di sufficienza, se non di fastidio,
nel corso degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta vengono
varate, anche se con molte timidezze e in mezzo ai mugugni dei
gruppi più conservatori, delle leggi in grado di fornire le pri-
me, immediate risposte alle esigenze femminili.
Ma è sul piano simbolico che la battaglia delle femministe
appare più difficile da combattere: finché non cambia l’idea
tradizionale della femminilità appare estremamente difficile
che, malgrado una legislazione più attenta ai bisogni delle don-
ne che in passato, le cose cambino effettivamente. I mezzi di
comunicazione di massa continuano a promuovere un’imma-
gine femminile caratterizzata dal precipuo interesse per le pro-
prie doti fisiche e per il loro miglioramento, nonché per la ca-
pacità di seduzione in grado di esercitare. Si tratta di un’im-
magine talmente pervasiva da giungere senza difficoltà alle
bambine, che la vedono ulteriormente amplificata dall’esi-
stenza di giocattoli come Barbie.
Articolare una critica verso la bambola che alla fine degli
anni Sessanta copre un’ampia fetta del mercato con un suc-

80
cesso sfolgorante, anche grazie a furbe operazioni pubblicita-
rie, non è un’operazione tanto complessa quanto quella di
scardinare convinzioni comuni sulla femminilità. Inoltre, la
censura nei confronti di Barbie poggia su argomenti che sono
stati affilati e perfezionati in cantieri non immediatamente ri-
conducibili all’area del movimento di liberazione della donna.

Nel 1963 un cronista del «Saturday Evening Post» aveva


condannato le madri americane che, regalando Barbie alle lo-
ro figlie, le spingevano verso una precoce maturità. Di lì a po-
co, sullo stesso giornale Barbie era stata ripresa per l’enfasi
che poneva sul possesso – di vestiti, di case, di automobili e
così via – e sulle apparenze: sembrava una parodia della ri-
cerca del benessere materiale e della soddisfazione per le ba-
nalità. Questi rimproveri suonavano blandi al confronto con
quelli che, nel 1964, comparvero in un articolo di «Nation»
e che riportavano dati elaborati dalla Medical School
dell’Università della California: Barbie era alla radice di al-
cuni disturbi adolescenziali. La bambola, anche secondo la
rivista «Ramparts», proponeva un ideale femminile, spac-
ciandolo come tipicamente americano, che invitava a diven-
tare frigide e impegnate consumatrici. Inoltre – come asseri-
va anche il direttore della Pediatric Mental Health Unit,
dell’Università della California – Barbie avrebbe istigato fan-
tasie sessuali precoci e una notevole propensione al consumo
vistoso.
Dal 1975, poi la bionda californiana appare regolarmente
nella colonna «dei cattivi» della rubrica Toys: Bad News /
Good News della rivista «Ms. Magazine» a causa dello ste-
reotipo che rappresenta e che risulta ogni giorno più supera-
to. Le femministe dai capelli sciolti che lasciano intravedere
fantasiosi pendenti, che si vestono con larghi camicioni che
nascondono le forme, hanno così gioco facile nel condanna-
re Barbie, agghindata e ingioiellata, emblema della donna co-
me oggetto sessuale, il cui compito è esclusivamente quello di
sedurre il maschio. Le forme da maggiorata della parte supe-

81
riore della bambola, inoltre, si coniugano significativamente
con un bacino stretto: Barbie è quindi strutturalmente inca-
pace di maternità. Il suo seno prosperoso è solo in grado di
suscitare pensieri peccaminosi, non assolvendo ad alcuna al-
tra funzione. Il guardaroba fornito dei più svariati accessori
serve ad amplificare ulteriormente la civetteria della bambo-
la, demonizzata quasi quanto il reggiseno che le femministe
lanciano nei falò accesi in piazza.
Ma questa feroce propaganda negativa è sostanzialmente
caratteristica degli Stati Uniti. In Europa, mercato al quale
Barbie sta puntando in questo periodo, il movimento di libe-
razione della donna si concentra su mete più sostanziali, e so-
lo marginalmente risulta interessato a colpire una bambola.
La fanciulla, pertanto, non si lascia spaventare più di tanto
dagli strali femministi. Intimamente ferrea, esperta e spre-
giudicata conoscitrice di quello che è il mercato occidentale
almeno quanto nell’aspetto è romantica e svenevole, Barbie
inaugura una strategia in grado di farle vincere la sfida che i
tempi sembrano lanciarle. Se fino a poco tempo prima, con il
suo trucco sofisticato e gli abiti in tessuti pregiati, è stata de-
stinata a un pubblico di élite, adesso cambia aspetto e stile.
La carnagione chiarissima e il volto teneramente imbroncia-
to e marcatamente truccato, da seduttrice, vengono rimpiaz-
zati da una pelle lievemente abbronzata e da una nuova fac-
cia quasi senza trucco, in cui spiccano due occhioni turchini
che si fissano sull’interlocutore, mentre le labbra sono atteg-
giate a un sorriso aperto e gioviale. Barbie Malibu sceglie de-
finitivamente il biondo platino per la sua chioma e si presen-
ta vestita solo di un costume da bagno celeste. La sua tenuta
la rivela pronta al solito cambio di abiti: ma non si tratta più
di indossare le squisite creazioni sartoriali dei primi anni Ses-
santa né gli audaci abiti dell’epoca mod. Le confezioni degli
anni Settanta non presentano nessuna delle raffinatezze degli
abiti precedenti, a cominciare dal nome. Le contraddistingue
un generico best buy seguito da un numero. Allo stesso mo-
do, gli accessori diminuiscono in numero e qualità. In com-

82
penso, la bambola, venduta in semplici scatole rosa acceso (le
pink box), costa assai meno di prima.
In precedenza solo in un momento della sua esistenza Bar-
bie aveva goduto di una campagna promozionale a tutto cam-
po, e solo negli Stati Uniti: in occasione del lancio di Barbie
Twist ’n Turn, rendendo indietro la vecchia Barbie, ormai
fuori moda, con un dollaro e cinquanta, le bambine poteva-
no portarsi a casa la bambola con un trucco più aggiornato e
un aspetto più rispettoso dei dettami della moda, nonché ca-
pacità di movimento fino a quel momento inaspettate. Ma
adesso non si tratta solo di convincere le bambine a cambia-
re la propria bambola con una che abbia un aspetto più à la
page e che si riveli in grado di ruotare il busto. Bisogna con-
quistare un nuovo mercato, quello più marcatamente popo-
lare di tutti i paesi occidentali dove Barbie è già stata lancia-
ta senza troppo successo: un mercato sostanzialmente anco-
ra vergine perché fino a questo momento estraneo agli obiet-
tivi di casa Mattel, interessata a un target più esclusivo.
La strategia di Barbie è furba. Se sia negli Stati Uniti che
in Europa, le mamme di estrazione sociale medio-alta sono
generalmente più istruite e si rivelano più sensibili ai messag-
gi femministi (e quindi non permettono che le loro figlie gio-
chino con Barbie, giocattolo maschilista e capitalista, a favo-
re di tutta una serie di giocattoli che le coeve teorie psicope-
dagogiche ritengono adeguati a una crescita equilibrata e sen-
za derive sessiste), nelle fasce sociali più basse, desiderose di
ascesa, un simbolo di consumistica opulenza è più che ben-
venuto. Barbie viene così destinata alle bambine di famiglie
di provenienza sociale media e medio-bassa, anche grazie al
prezzo, ora decisamente più allettante.
Nei primi anni Settanta, quando in tutta Europa spirano i
venti della crisi economica e l’inflazione, insieme all’ascesa dei
prezzi del petrolio, rende ogni giorno più costosa la vita quoti-
diana, in Italia si può avere Barbie anche con duemila, poi con
mille e cinquecento e addirittura con sole mille lire, come reci-
tano le pagine pubblicitarie che presentano, a scanso di ogni

83
equivoco con la concorrenza sempre più insidiosa, «la vera Bar-
bie: la tua migliore amica». Anche gli abiti sono decisamente al-
la portata delle tasche meno gonfie: sempre in Italia, in partico-
lari periodi promozionali, al prezzo di un vestito le bambine
possono averne due fra i cinquanta che compongono la colle-
zione della bambola, grazie a un buono sconto di cinquecento
lire che viene offerto sulle pagine dei giornalini per ragazzi. Ve-
ro è che un intero esercito di mamme, nonne, zie, cugine e vici-
ne di casa si apprestano con forbici, ago, filo e ritagli di stoffa
per dotare le bambole di un guardaroba autarchico, ma gli slo-
gan pubblicitari parlano chiaro: «la tua Barbie vuole solo abiti
Barbie, perché gli abiti Barbie sono gli unici su misura per lei».
Dalle pagine del popolarissimo «Topolino» bordate di ro-
sa, dato che la neonata Tv dei ragazzi non è ancora interval-
lata da spot, Barbie, con la puntualità degna del direttore di
una grande azienda, incanta le bambine dei giorni dell’auste-
rity e del primo lassismo educativo, con l’ordinata abbon-
danza che offre, insieme all’agognata possibilità di sentirsi
adulte immedesimandosi con lei: «Sentiti grande. Grande co-
me la tua Barbie. Quante cose puoi fare con la tua Barbie!
Prima di tutto sentirti grande. Giocare grande. Sai che la Bar-
bie ha un’infinità di nuovi vestiti, tutti diversi, tutti bellissimi.
Un divertimento solo a guardarli e a ordinarli bene nella sua
elegantissima valigia».
Barbie sa come ammaliare e dalle pagine dei giornalini a fu-
metti, quale momentanea attrazione fra una storia e l’altra,
emana un fascino incomparabile, promettendo in un momen-
to difficile e cupo la speranza di una vita spensierata. Poco le
importa delle condanne emesse sul suo aspetto e sui valori che
trasmetterebbe alle bambine che giocano con lei. Tutto som-
mato, è sopravvissuta al rogo della sua più importante fabbri-
ca, ha ancora due occhi, due tette e due gambe, decine di pan-
taloni e gonne da indossare in ogni occasione e un desiderio
spasmodico di ricominciare ad avere la vita piena di tutti que-
gli oggetti che, ai suoi occhi di signorina statunitense nata negli
anni Cinquanta, risultano ancora assolutamente irrinunciabili.

84
Una nuova casa

L’intima soddisfazione di Barbie non risiede esclusivamente


nel cambiarsi d’abito: le bambine lo sanno, e se non lo sanno
lo imparano presto dalle pagine pubblicitarie profilate di ro-
sa che costellano i giornalini. Negli anni Settanta, per molti
versi faticosi anche per chi, con ancora i giocattoli in mano,
ascolta i genitori a cena lamentarsi dei prezzi in vertiginosa
ascesa e li vede tacere quando la televisione aggiorna sull’ul-
timo attentato, quelle pagine rappresentano il sogno a occhi
aperti di una vita dispendiosa e spensierata.
Ogni momento dell’esistenza di Barbie è vissuto con una
leggerezza estrema, dal primo istante della mattina «fresca e
allegra nella sua meravigliosa cameretta color ciclamino» fi-
no alla tarda sera quando, prima di dormire, «siede davanti
alla specchiera per i soliti preparativi: spazzolarsi i capelli, to-
gliersi il trucco». La bambola non possiede solo una vezzosa
camera da letto, ma anche mobili per tutte le altre stanze: «I
nuovi mobili di Barbie sono stati realizzati seguendo le più
raffinate linee proposte da arredatori ed architetti. Nulla è la-
sciato al caso ed è per questo che tutti i particolari – quale ad
esempio soprammobili e posate – rispettano un garbato gu-
sto moderno. Anche i tessuti che rivestono poltrone, divano,
sedie, sgabelli sono nei colori e nei disegni di moda».
Quando le linee funzionali dell’arredamento moderno la an-
noiano, Barbie può cambiarlo scegliendo mobili in stile liberty
che «hanno cassetti e sportelli veri, cuscini e piccoli segreti».
Tutto trova ampio spazio nella sua casa «completamente
ridisegnata nelle tappezzerie e nei pavimenti [...] molto gra-

85
ziosa ed elegante. Sei grandi locali completamente arredati
con l’ascensore [...] alta 1 metro e 10 cm». Qualora le bam-
bine restino basite di fronte a tanta meraviglia e non sappia-
no come utilizzare l’ingombrante giocattolo e le bambole già
in loro possesso, in uno spazio pubblicitario tanto ampio da
accogliere più fotografie e lunghe didascalie, e non importa
quanto costoso, Barbie racconta la sua prima giornata nella
nuova casa. Dal suo racconto le bambine potranno trarre
ispirazione per giocare in modo «corretto».

Giornata memorabile per Barbie. Le hanno appena consegnato


le chiavi della sua nuova casa di città, perciò desidera condividere
la sua gioia con gli amici, li invita tutti a visitarla e da perfetta pa-
drona di casa li accoglie presentando loro i moderni ambienti.
«Al piano terra ecco la spaziosa cucina» – dice Barbie a Cara mo-
strandole tutti i particolari – «ed ora passiamo in sala da pranzo».
In questo ambiente fanno spicco il tavolo con due poltroncine
e ci si affaccia sulla piscina circondata dal giardino.
Ken e Cara, felici della gioia di Barbie, si complimentano con
l’amica mentre, in ascensore, salgono al secondo piano.
Qui, nel soggiorno, Cara conversa, comodamente seduta sul di-
vano con Skipper, in attesa di Barbie che sta mostrando a Ken la
stanza attigua, adibita a studio; Ken potrà sedersi comodamente in
poltrona e consultare alcuni libri della biblioteca di Barbie.
«Ma c’è ancora un piano da visitare!» – dice Cara, mentre in
ascensore raggiungono il terzo piano. «Com’è allegra la tua came-
ra da letto... e c’è anche la camera degli ospiti». Così dicendo Cara
batte le mani, complimentandosi per il raffinato gusto dell’amica
nella scelta delle colorate tappezzerie e del raffinato arredamento.
Ken ha sempre più dell’ammirazione per la personalità della sua
amica Barbie che sa primeggiare in tutte le occasioni e commenta:
«Una casa stupenda e, benché su tre piani, l’ascensore la fa più co-
moda e razionale!».
«Brava Barbie!» – ripetono continuamente, complimentandosi
con lei gli amici.

Ascensore privato, giardino, piscina: non sono pochi i lus-


si che Barbie si concede in mezzo alla generale approvazione,

86
ma soprattutto non sono i soli. I confini del suo universo non
ricalcano le mura domestiche. Per le sue scorribande Barbie
ha diverse automobili: «una stupenda vettura color ciclami-
no» con cui può correre «all’impazzata sente[ndo] il vento
fra i capelli» ascoltando la musica proveniente dalla radio o
dal mangianastri posizionati sul cruscotto; una «Volkswagen
Golf Cabriolet [...] lunga ben 50 centimetri [con la] capote
per le giornate più fresche [e che] quando Barbie decide di
fare una gita all’aria aperta [...] viaggia completamente aper-
ta»; in più può contare su uno scooter per i «sentieri più im-
pervi, anche perché lo Scooter ben si presta a questo genere
di corsa libera [per andare] poi via allegramente al suono del
clacson».
Auto e moto le servono per raggiungere quello che per le
ragazze, secondo lei, dovrebbe essere uno dei luoghi più im-
portanti, il salone di bellezza.

Nel suo Salone di Bellezza, Barbie si è lavata i capelli, proprio


come si fa da un vero parrucchiere, con l’acqua che scende da un
rubinetto apposito. Tu lo hai visto fare tante volte ed ora lo metti
in pratica con la tua Barbie, le attorcigli i bigodini in testa, la met-
ti sotto il casco e quando uscirà, la tua Barbie avrà i capelli lucidi e
vaporosi. Infatti, ecco la tua Barbie che si ammira allo specchio e,
dal sorriso, sembra piuttosto soddisfatta. Ma ora facciamo un leg-
gero trattamento di bellezza al viso, poi mettiamo un po’ di trucco
ed è fatto! Comodo questo Salone di Bellezza, vero? C’è proprio
tutto e la tua Barbie è felice, ora più bella che mai.

Fresca di parrucchiere e con il trucco appena fatto, Barbie


può concedersi una sosta al ristorante: «Un ristorantino alla mo-
da in cui, quando il tempo lo permette, si può fare colazione
all’aperto, attorno ad un tavolo, sotto l’ombrellone e seduti su
comode sedie. Nella vetrinetta si possono scegliere: frittelle,
kraffen [sic], hamburger, spuntini che stuzzicano l’appetito».
Per mantenersi in forma la fanciulla pratica con estremo
successo gli sport più diversi: il tennis; l’equitazione con Tim-

87
bo, un cavallo che «con estrema agilità salta la siepe anche
perché Barbie sa guidarlo con perizia, stringendo le redini
perché è dotata di mani prensili»; il windsurf «in bikini a stri-
sce bianche e rosse [...] sulle onde lunghe del Grande Ocea-
no»; la vela, con un catamarano «agile, coloratissimo con un
albero alto 90 cm e con il timone perfettamente funzionan-
te»; lo sci e volteggiando sulle piste si fa vedere sulle pagine
pubblicitarie con didascalie che contraffanno le voci di com-
mento per la sua apparizione.

E quella che scende spericolata dalla pista più ripida? Sì, pro-
prio quella in gran completo sci con cappuccio in pelo... Ma è an-
cora lei, Barbie, insieme a Ken, sui campi da sci di Sun Valley, nel
Colorado. Bastoni, scarponcini, occhiali da neve: e pensare che ap-
pena la settimana scorsa faceva il surf ai Tropici!

Dalle spiagge tropicali alle cime montane. Del resto, Bar-


bie è una professionista delle vacanze, che affronta sempre al
volante: ha un camper che «all’arrivo si divide in una agile au-
tomobile ed una comodissima casetta completa di tutto»; una
casa mobile «ideale per lunghe e indimenticabili vacanze a
contatto con la natura [...] fornita di letti a cuccetta, tavolo e
sedie, fornello, lavello, doccia e tanti altri utilissimi accesso-
ri»; una roulotte accanto alla quale Barbie può montare una
piscina.

Barbie con la sua Roulotte è sulle rive del lago a trascorrere le


ultime vacanze. Il sole è ancora caldo e la Roulotte offre tante co-
modità, da non far rimpiangere la propria casa. Con Barbie, sono
Ken e Skipper, hanno girato la Roulotte in modo da avere anche il
finestrone posteriore, che fa anche da tavolo, rivolto verso il lago.
Ken è già seduto, perché stanco della lunga nuotata, mentre Barbie
ha finito di attaccare gli adesivi colorati anche sulla parete che fa da
parasole. Skipper ha preparato i sacchi a pelo per la notte ed ora
programmano la giornata di domani e tu farai risplendere il sole per
la tua Barbie. Ed ora tutti in piscina! La Piscina di Barbie è molto
bella e grande, Barbie può comodamente fare il bagno, nuotando

88
e tuffandosi dal trampolino, mentre a Skipper piace tuffarsi dallo
scivolo e fare «shciaf!» nell’acqua. Il sole è ancora caldo e Barbie
ne approfitta per mantenere la tintarella conquistata al sole estivo,
è comodamente sdraiata sul materassino e pensa a quanti metri ha
fatto nuotando, se ha percorso ben dieci volte la piscina che misu-
ra 40 cm.

Su queste pagine le bambine degli anni Settanta coltiva-


no i loro sogni consumistici e sperano nelle festività o nei
compleanni quando genitori altrimenti risparmiatori si in-
terrogheranno sui gusti della loro piccolina. Possono sce-
gliere tra Barbie Western «bellissima: grandi occhi meravi-
gliosamente truccati, abito western con frange con una stu-
penda gonna lunga, cappello e stivaletti [con] un cavallo
splendido: Dallas» e Barbie Jeans con «scarpe da tennis
bianche, jeans e coloratissime t-shirt [...] pronta per un’alle-
gra festa con gli amici, una capatina in città a fare compere
al supermercato o una divertente scampagnata»; tra una
Barbie Fotomodella «che si muove con sicurezza davanti
all’obiettivo [...] in pantaloni, con la sopragonna e i capelli
sciolti sulle spalle o con il mantello che le copre le spalle» e
Barbie Principessa «con uno stupendo abito lungo da ballo
[...] una vera corona e la regale fascia con lo scettro», tra
Barbie Coiffure dai «nuovi capelli magici [che] tengono
realmente la piega» e Barbie 16 Anni con «un bel visino fre-
sco e ingenuo, una pettinatura semplice, e un abitino da fe-
sta molto elegante [e con] pettine e spazzola, creme per la
tintarella, profumo e un completino modernissimo di blue
jeans»; tra Barbie Mani Vere che «può portare in tavola un
vassoio» e Barbie Ballerina che «esegue sulle punte i ballet-
ti più impegnati»; tra Barbie Sposa che «per l’occasione
sfoggia un radioso sorriso» e Barbie Superstar «protagoni-
sta sia nella vita che nel teatro», deliziosa quando è seduta
nel suo «camerino così bello che fa spettacolo».
Le bambine che già hanno ricevuto il necessario per far
fronte alle esigenze della sobria fanciulla bionda, possono

89
trovare «uno splendido purosangue bianco [che] guida la
Carrozza di Barbie, preziosa nelle sue decorazioni floreali e
nella lanterna, con il mantice regolabile ed i pannelli laterali
intercambiabili», oppure due nuovi amici di Barbie, Tracy in
«classico abito bianco lungo, velo in tulle e bouquet vario-
pinto» e Todd in «frac a due colori, camicia e farfallino»,
pronti a convolare a nozze.

Alle bambine italiane l’appuntamento settimanale con


l’amica Barbie sulle pagine di un famoso periodico infantile
sembra bastare. Alle fillettes d’Oltralpe invece, è riservato, un
trattamento assai più raffinato: per loro, che avevano gratifi-
cato con un immediato successo Barbie sin dal 1963, nasce al
principio degli anni Ottanta il Club Barbie. Non si tratta, in
terra giacobina, dell’ennesimo prodotto, mirato alle infanti,
di una disposizione secolare all’associazione: nel club, voluto
da casa Mattel, non trovano posto appassionate e appassio-
nati della bionda fanciulla statunitense che si incontrano per
magnificarne le virtù (e magari scambiarsi modelli esclusivi di
abiti da sera), ma bambine, spesso in compagnia delle loro
mamme, che in Barbie hanno il loro balocco preferito e che
nel club trovano l’occasione di intrattenere un rapporto con
la loro eroina. Associandosi al club, ogni bambina attiva una
relazione diretta e unica con Barbie, grazie all’uso sapiente
della corrispondenza. Per chi non riceve lettere né dalla non-
na né dalla zia, essere periodicamente la destinataria di una
missiva personale ha un impatto emotivo rilevante, tanto più
che i plichi sono personalizzati e contengono sempre un pic-
colo regalo, un libretto, dei giochi, dei gadget e così via. Bar-
bie, per le bambine francesi, cessa così di essere solo una
bambola per diventare un’autentica compagna di giochi, cui
legarsi anche affettivamente, almeno per un paio d’anni, tem-
po medio di appartenenza al club. In questo periodo, che può
peraltro diventare più lungo, Barbie può diventare la deposi-
taria di un incondizionato affetto, che si esprime con l’invio
di disegni, di regalucci e di lettere su lettere, piene di atten-

90
zioni, a Chantilly, 60641 Cedex, l’indirizzo del club. La strut-
tura, che al compimento del quindicesimo anno, nel 1998, ha
meritato il Gran premio europeo per il marketing, secondo i
suoi responsabili ha il fine di incrementare le vendite.

Non abbiamo missioni pedagogiche o educative nel club. Il no-


stro scopo è quello di utilizzare questo formidabile strumento che è
la posta personalizzata per fidelizzare la nostra clientela di ragazzi-
ne. Abbiamo un canale privilegiato per presentare i nostri prodotti.

Tuttavia, proprio attraverso la relazione affettuosa che


Barbie intrattiene con le sue amiche di penna passa una serie
di consigli che modellano le coscienze delle signorine occi-
dentali; naturalmente, non si tratta di moniti sempiterni: Bar-
bie con la stessa spumeggiante vivacità con cui cambia abito
segue principi morali aggiornati ai tempi e alle mode, riu-
scendo al tempo stesso – modello esemplare di coerenza – a
mantenere intatta la sua personalità.
Buone maniere

Attraverso le pagine delle riviste per bambini e le lettere che


periodicamente ricevono bimbe come quelle francesi si entra
a far parte del mondo di Barbie: un mondo che, in quegli an-
ni Settanta che passeranno alla storia come «anni di piombo»
e che segnano il traumatico passaggio della società occiden-
tale alla postmodernità, continua a mantenere per la bionda
fanciulla un aspetto rassicurante. Malgrado l’adeguamento al
tempo che passa, e che allontana sempre di più dagli ordina-
ti anni Cinquanta, in cui si poteva sistematizzare tutta l’espe-
rienza umana per riporla ordinatamente dentro i pensili di
una cucina all’americana, Barbie si rivela perfettamente in
grado di mantenere vivo e forte il legame del nuovo turbino-
so tempo con il passato recente.
Nel corso degli anni Settanta, quando le strade delle città
italiane cominciano a essere percorse da cortei di protesta, i
più colorati dei quali composti da donne che reclamano il di-
ritto a una vita completa e non complicata dalle rigide con-
venzioni borghesi, Barbie inizia a essere la felice protagonista
di vicende narrate in vistosi libri illustrati, all’interno dei qua-
li «insegna molti segreti del suo successo come perfetta pa-
drona di casa». Dalle pagine di questi volumetti «allegri e uti-
li, in cui Barbie vi invita in campagna, al mare, al circo e a se-
guirla in tante, tantissime avventure», vengono impartiti quei
precetti che risulta sempre più difficile far giungere a desti-
nazione, ora che le teorie del dottor Benjamin Spock sono di-
ventate patrimonio comune e bambini e bambine vengono
educati con pochi divieti e molte concessioni: valori che la

92
movimentata società del tempo sembra aver dimenticato a fa-
vore di un pericoloso e inelegante permissivismo.
Il primo libro della biblioteca di Barbie si intitola La Casa
di Barbie e racconta del trasloco della fanciulla in una nuova
casa e della festa inaugurale. Sia nella trama del racconto che
nelle didascalie delle illustrazioni, Barbie, ormai definitiva-
mente bionda, non perde occasione per elargire consigli che le
madri dei figli maschi troverebbero disdicevoli se indirizzati
alla loro prole. I primi riguardano la cura della persona. Bar-
bie illustra la ginnastica «per snellire il collo, per migliorare il
busto [qualsiasi cosa ciò significhi] per rinforzare la spina dor-
sale, per snellire i fianchi, per assottigliare la vita, per elimina-
re la pancetta», svela «il segreto dei suoi capelli lucidi e mor-
bidi», che consiste nel risciacquarli con camomilla e succo di
limone; apostrofa come «sciocche le ragazzine che si mangia-
no le unghie o non si preoccupano di curarsi le mani», che so-
no «il nostro biglietto da visita»; snocciola con sicurezza «con-
sigli utilissimi antibrufoletti», che invitano le lettrici a stare at-
tente alla dieta, evitando salame, cioccolato, fritti, cibi piccan-
ti e aprendo la giornata con acqua minerale e yogurt, a usare il
latte detergente ogni giorno, a pulire ogni settimana il viso con
il vapore prima di stendere una maschera di bellezza.
Da perfetta padrona di casa quale nell’introduzione pro-
mette di essere, Barbie non si limita a fornire consigli sul-
l’aspetto fisico, ma suggerisce anche le ricette adatte per una
festicciola: frullato di pomodoro, spuma di latte, pesche alla
Melba, prugne in sorpresa, triangolini, frullato di uva, frulla-
to di pomodoro, tartine... Alcune pagine più avanti, mentre
scorre il racconto della festa, nelle didascalie Barbie continua
a elargire i suoi suggerimenti per decorare un tavolino rovina-
to e preparare fiori di carta, tovagliette decorate, contenitori
per la corrispondenza, tappeti di stoffa intrecciata e copriletti
fantasia, tutti da realizzare «con pazienza e con buon gusto».
Dopo il bricolage, c’è anche posto per il giardinaggio (con
l’istruttiva didascalia «Come coltivo i gerani», sotto l’illustra-
zione che vede Barbie e Ken comodamente seduti in giardino,

93
mentre Skipper si dà da fare con l’innaffiatoio). Quanto dopo
la lettura è stato appreso, ricorda la chiusa del testo, «è merito
di un trasloco e della nuova casa di Barbie». Ma quante sono
arrivate fino alla fine del volume non vengono graziate dal fi-
nale. Proprio all’ultima pagina, non a caso intitolata I consigli
di Barbie, la saputa fanciulla non può non concludere con le
sue ultime perle di saggezza: «Quando i denti crescono di tra-
verso, ci vuole un apparecchio apposta e più di un anno di pa-
zienza fra i dodici e i tredici anni. Quest’apparecchio dà un esi-
to straordinario e crea un sorriso perfetto». E ancora: «I ca-
pelli vanno spazzolati: dalla nuca verso la punta delle ciocche;
dalle tempie verso la punta delle ciocche; dalla fronte verso la
punta delle ciocche». Oppure: «Quando le scarpe si bagnano
per la pioggia occorre metterle dentro l’apposita forma, e
riempirle di carta di giornale. Quando sono asciutte, alla sera,
vanno lucidate per l’indomani». Bassa profumeria e alta eco-
nomia domestica si mescolano perfettamente, in un cocktail
tutto sommato assai poco pericoloso per chi lo trangugia, in
quanto non gli (o le) si chiede altro se non il rispetto di alcune
forme esteriori, di una precettistica impregnata di moralismo
ma fondamentalmente priva di ogni morale.

Sin dal loro primo apparire, nel 1558, nel Galateo di Gio-
vanni Della Casa certe norme di comportamento non aveva-
no mirato alla costruzione di azioni meritorie ed edificanti,
ma all’elaborazione di un modo gradevole di stare in società.
Giovanni Della Casa aveva scritto tenendo bene a mente le
necessità di «chiunque si dispone di vivere non per solitudi-
ni o ne’ romitori, ma nelle città e tra gli uomini». Egli aveva
sottolineato come nella quotidianità, i valori di magnanimità,
liberalità, «giustizia, fortezza e le altre virtù più nobili» solo
«rade volte» si è «constretti a dimostrare»; al contrario è ne-
cessario esercitare spesso «la dolcezza de’ costumi e la con-
venevolezza de’ modi e delle maniere e delle parole». Il testo
ospitava quelle norme necessarie alla convivenza sociale, sen-
za dettare alcun vincolo morale per quanti le esercitassero.

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La sostanziale amoralità del Galateo e il fatto che la pre-
cettistica che ospitava fosse esclusivamente formale, rifug-
gendo dal faticoso esercizio sostanziale della virtù, destinaro-
no il libro sin dal momento della sua comparsa a un enorme
successo in tutta Europa. Sulla base del suo contenuto si ela-
borano i protocolli cortigiani e diplomatici nonché le manie-
re del «vivere civile».
Come ogni grosso successo, non fu esente da imitazioni:
nel corso del Sei e del Settecento, e poi ancora con maggiore
vigore nell’Ottocento aumentarono i testi – detti non a caso
galatei – che insegnavano a lettori e lettrici le buone creanze.
Lasciando a Della Casa il compito di illustrare le norme ge-
nerali, altri autori si incaricarono di precisare le regole il cui
rispetto conveniva a singoli soggetti. Si tratta di una miriade
di pubblicazioni, sempre più puntigliose nel classificare for-
me, modi e luoghi, che accompagnano per secoli la storia eu-
ropea fino alla contemporaneità.
Fu proprio il passaggio alla società industriale a incre-
mentare in maniera esponenziale le pubblicazioni sui miglio-
ri modi di comportarsi nei diversi momenti, complice una
nuova mobilità e una ricca sociabilità che aumentava le occa-
sioni di incontro collettivo. Furono più spesso le donne a in-
caricarsi di stendere i decaloghi, che si moltiplicarono ulte-
riormente nel corso del Novecento fino a diventare, nell’Ita-
lia del boom, autentici successi editoriali. L’Italia che smet-
teva i panni contadini per vestire quelli cittadini sentiva il bi-
sogno di sgrezzarsi, di abbandonare le spicce maniere rurali
per modi urbani, signorili, che assai più di qualsiasi bene tan-
gibile legittimassero l’ascesa sociale e il nuovo benessere.
Un capolavoro del genere è Il saper vivere di Donna Letizia
di Colette Rosselli, edito nel 1960, che dipingeva tra le righe
un’Italia da jet-set: si tratta di un testo che, con i suoi corredi
di nozze contenenti otto tappetini per il bagno, diciotto asciu-
gabicchieri di lino e diciotto asciugapentole di canapa, nonché
con le occasioni di incontro con un’altezza reale («di Principi
oggi se ne incontrano un po’ dappertutto: ai ricevimenti, nei

95
luoghi di villeggiatura e di cura, sui transatlantici»), serve più
a far sognare che a dare consigli di una qualche utilità. Una
quotidianità dorata è quanto mai lontana dalle fatiche che le
lavoratrici italiane, sempre più divise fra casa, figli e lavoro, de-
vono affrontare ogni giorno: se, quindi, il libretto di Donna
Letizia ha un grande successo, le lettrici spesso gli affiancano
i fascicoli, dall’orizzonte assai più modesto, della Grande enci-
clopedia della donna dei Fratelli Fabbri, che esce settimanal-
mente in edicola dal 27 ottobre del 1962 al primo ottobre del
1966. Ancora una volta, regole su regole si affastellano per di-
sciplinare signorine e signore italiane, alla ricerca di un equili-
brio fra i diversi obblighi: le faccende domestiche e le cure per
piacere al consorte, i fornelli e la vita professionale. Lo spirito
sotteso ai consigli che vengono generosamente elargiti dalle
pagine patinate della Grande enciclopedia della donna è im-
pregnato da una (sconcertante, visti i tempi) consapevolezza
della sostanziale minorità, fisica e psichica, della figura fem-
minile, la cui sudditanza nel mondo del lavoro come fra le mu-
ra domestiche è necessaria alla felicità collettiva.
Nei sovversivi e femministi anni Settanta un certo tipo di
pubblicazioni non scompare, ma viene fondamentalmente ri-
visitato. Latrice di uno sguardo scanzonato e provocatorio sul-
la congerie di norme che sono indirizzate alle donne e che po-
stulano una condizione di subalternità è la giornalista Brunel-
la Gasperini, autrice alla metà del decennio di una disinibita
Guida utile, divertente, aggiornatissima ai misteri del galateo
che cambia. Un ironico sorriso pervade l’intero scritto, che an-
nota i rapidi cambiamenti di costume della società italiana con
una partecipe bonarietà, come si può leggere nella premessa.

Più che un libro di galateo, questo si può dire un libro di con-


trogalateo. Il galateo tradizionale infatti è oggi un anacronismo:
una sovrastruttura corrosa, che non regge più alle spinte del nostro
tempo svelto e concreto.
Già la parola, galateo, fa pensare a una sorta di stereotipata co-
reografia, a un insieme di regole fisse, passi obbligati, frasi fatte e

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gesti di rito, oggi svuotato d’ogni vitalità e d’ogni autentico signifi-
cato. Il ritmo, lo spirito, le situazioni del tempo in cui viviamo ri-
chiedono ben altre cose: cose come elasticità, immediatezza, buon
senso, spirito critico, ironia.
[...] Allora, il nuovo galateo, o controgalateo, vuol dire sovverti-
mento, distruzione, linciaggio del galateo? Ma no: non proprio, non
sempre, non del tutto. Vuol dire se mai revisione, aggiornamento, di-
scussione, demistificazione. Vuol dire riconoscere che la cortesia for-
male, senza il sostanziale contenuto di reciproco rispetto e disponi-
bilità, è un involucro vuoto, da buttare. Vuol dire, quindi, cercar di
sostituire buon senso, spontaneità, elasticità, umorismo a quelle rigi-
de e ormai logore sovrastrutture convenzionali che intralciano, inve-
ce di agevolarli, i rapporti umani così profondamente mutati.
Questo libro non ha pretese didattiche. È semplicemente una se-
rie di annotazioni basate sulla realtà, cioè sull’osservazione quoti-
diana del nostro prossimo, così come mi capita di vederlo e di sen-
tirlo nella pratica consueta del mio lavoro e della mia vita privata.
[...] Forse, anzi di certo, qualcuno si scandalizzerà: pazienza. Io
guardo la realtà com’è, non come si vorrebbe che fosse. È dall’os-
servazione della realtà, e non dai dogmi, che si può cercar di capire
che cosa funziona e che cosa non funziona più, che cosa bisogna di-
fendere, che cosa abolire, che cosa modificare, che cosa aggiungere.
In conclusione: se il galateo inteso tradizionalmente vuol dire
«guida al modo di apparire», il nuovo galateo, o controgalateo,
vuol dire «guida al modo di essere» e quindi di vivere il più sensa-
tamente possibile, in questo tempo per molti versi insensato.

Dopo secoli di probi consigli, l’invito alla «sensata natura-


lezza» appare decisamente rilassante: ma questo savoir vivre
che mescola l’ironia e la consapevolezza dell’inevitabile cam-
biamento (in meglio) della società, non diviene con facilità pa-
trimonio di quante vedono nelle regole formali una fonte di
certezze. E anche se della moda anni Settanta, Barbie ha trat-
to una carnagione abbronzata e un abbigliamento più infor-
male, dell’atmosfera del periodo non riesce a cogliere lo spiri-
to libertario e continua, imperterrita, dalle pagine dei suoi li-
bri a dettare quelle norme che perpetuano una sempre più eva-
nescente «mistica della femminilità».

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La «vie en rose»

Rosa: tutto l’universo di Barbie è incontestabilmente rosa.


Rosa carne, rosa cipria, rosa buganvillea, rosa bon bon, rosa
salmone, rosa ciliegia, rosa shocking, rosa fragola, rosa mal-
va, rosa baby, rosa peonia, rosa confetto, rosa ciclamino, ro-
sa albicocca, rosa lilla, rosa lampone, rosa lollipop, rosa anti-
co, rosa pesca, rosa fucsia, rosa caramella... Lucido, iride-
scente, opaco, fluorescente, matto, diafano, scintillante, ma-
dreperlato, opalescente, glitterato, velato, paillettato, lucci-
cante... purché rosa.
Barbie non nega di avere una spiccata simpatia per questo
colore nelle sue più svariate declinazioni. In un’intervista ri-
lasciata al principio degli anni Ottanta a Laura Jacobs, con-
fessa:

Tutti quelli che mi conoscono sanno che la mia firma è il rosa.


Questo colore si addice perfettamente al mio carattere e, in tutti
questi anni, l’ho sempre portato con grande gioia. Un rosa mor-
bido era la mia sfumatura preferita tanti anni fa e, a mio parere,
l’abito di plumetis rosa pallido del primo anno è ancora incredi-
bilmente grazioso. Due anni dopo ho sfilato con un abito color
crema con la gonna drappeggiata, forse la creazione più femmini-
le che abbia mai indossato oltre che un capolavoro di stile. Quan-
do nel 1962 ho vinto il concorso fotografico di un giornale per ra-
gazze e ho passato l’estate a New York lavorando al giornale co-
me modella e giornalista ho imparato che il rosa è uno dei colori
che valorizza meglio la carnagione: ecco perché un ombrello rosa
riesce a essere un accessorio perfetto e perché alcuni dei cappel-
lini più belli sono rosa.

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Negli anni Sessanta anche il rosa confetto è entrato a far parte
del mio guardaroba con un abito di satin con boa di struzzo che mi
faceva il solletico al naso, e con un superbo abito da sartoria bor-
dato in satin rosa: molto parigino! Il mio abito preferito degli anni
Settanta era a quadri bianchi e rosa con le maniche di organza e na-
stri di velluto nero al collo e ai polsi: lo conservo ancor oggi in un
portabito, naturalmente rosa! E un maglione che ho molto amato
è quello del 1986 con il collo a ruches, naturalmente color rosa
chewing-gum. Il rosa carico e il rosa shocking, e molte sfumature
del lavanda (il colore delle favole, cugino del rosa) sono entrati a
far parte del mio guardaroba negli anni Ottanta, un’epoca di colo-
ri più forti, più carichi, e il mio trench di un magenta esagerato del
1988 è portabile altrettanto bene con un abito senza spalline e con
una tuta.

Ma non sono solo la maggior parte degli abiti di Barbie a


essere inesorabilmente rosa. Rosa è la scatola dalla quale sor-
ride civettuola dagli scaffali dei grandi magazzini. Rosa sono
le pareti della sua casa, rosa le sue automobili, dalla vecchia
Corvette ai più nuovi e rombanti modelli, rosa la roulotte e
rosa la moto, rosa i decori della piscina e i mobili delle diver-
se stanze, rosa sono la lavatrice, la lavastoviglie, il frigorifero,
e rosa sono ancora piatti, bicchieri, posate. E virata in rosa è
ogni cosa che parla di lei: profili rosa hanno le pagine pub-
blicitarie che la vedono protagonista, volute rosa ornano le
copertine dei libri a lei dedicati. Sfidando ogni parvenza di
buon gusto, a partire dagli anni Settanta, Barbie coltiva la
monomaniacalità cromatica con una dedizione incrollabile e
insospettata fino a quel momento. Nei suoi primi dieci anni
di vita, infatti, la fanciulla ha fatto uso di tutte le sfumature
dell’arcobaleno, non ostentando alcuna preferenza fra le di-
verse tinte che i disegnatori della Mattel le propongono di
utilizzare in ogni occasione, sia per gli abiti che per diversi og-
getti. Ma quando, negli anni Settanta, la fanciulla, in un mo-
mento deludente, decide di andare alla conquista di nuovi
spazi, si costringe giocoforza a inforcare le lenti dell’ottimi-
smo e colora la sua vita di un rosa inequivocabile.

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Negli anni Quaranta, nell’Europa ingrigita dal conflitto,
Edith Piaf cantava: «Quand il me prend dans ses bras / Il me
parle tout bas / Je vois la vie en rose» (quando lui mi prende
fra le braccia e mi parla sussurrando vedo rosa la vita). La vie
en rose è una vita priva di ennui, di malumori, di chagrin, di
rimpianti, piena di amore, di fiducia, di entusiasmo, di feli-
cità. Il colore rosa serviva nel testo scritto dalla stessa can-
tante a evocare quei particolari significati che all’interno del-
la cultura occidentale tradizionale generalmente sono attri-
buiti al rosso.
Il rosso è il colore per eccellenza. Per la cultura cristiana,
il rosso richiama il sangue, ossia ciò che dà la vita, che purifi-
ca e che santifica. Rosso è il sangue versato sulla croce da Ge-
sù Cristo; rossa la fiamma dello Spirito Santo. Rosso inoltre è
il colore del dinamismo: le sue vibrazioni sono tali che un og-
getto rosso sembra più vicino all’occhio di chi lo guarda di
quanto lo sia in realtà. Per la cultura progressista, rosso è il
sole dell’avvenire, speranza per gli sfruttati che sognano un
mondo migliore. Rosso acceso è il colore dell’infanzia, dei
giocattoli, delle confetture e dei frutti più golosi. Rosso, so-
prattutto, è il colore del lusso e della festa.
Nell’antichità il tessuto più prezioso era quello tinto con il
murice che gli conferiva un sontuoso color porpora e non a ca-
so, in molte occasioni, solo all’imperatore era concesso abbi-
gliarsi di quel colore. Nel Medioevo e in età moderna, in mol-
ti luoghi, le leggi suntuarie riservavano all’aristocrazia l’abbi-
gliamento scarlatto. I tessuti vermigli erano, infatti, i più pre-
ziosi, non solo per il valore simbolico del loro colore ma anche
perché le tecniche dell’arte tintoria non assicuravano buoni ri-
sultati per colori diversi dal rosso. Fino all’Ottocento inoltra-
to, quando vennero messi in uso coloranti sintetici, per i tes-
suti erano utilizzate tinture vegetali: il guado per ottenere il
blu, il granoturco o la ginestra per il giallo, l’ortica e le foglie di
betulla per il verde, le noci per il nero, le foglie di ontano per
il grigio e così via. Tuttavia, i colori ottenuti da queste materie
non penetravano bene nelle fibre del tessuto. Le stoffe blu,

100
verdi, gialle, nere, con la pioggia e con i lavaggi, con l’aria e con
il sole, sbiadivano facilmente e inesorabilmente, assumendo
un aspetto polveroso, velato. La robbia, colorante utilizzato
per ottenere il rosso, invece, garantiva risultati migliori: pene-
trava profondamente nelle fibre tessili e resisteva meglio
all’acqua, all’aria e alla luce. Non a caso rosse erano le stoffe
destinate agli abiti da cerimonia. Da qui e dal valore simboli-
co del rosso, dipendeva il fatto che gli abiti da sposa fossero,
fino al XIX secolo, generalmente rossi.
Tuttavia, il rosso ha un valore ambivalente. Le sfumature
scarlatte indicano l’errore, il pericolo: in rosso sono sottoli-
neati gli errori sui compiti scolastici; utilizza il rosso la se-
gnaletica stradale, ferroviaria, marittima, aerea per indicare i
divieti; rossa è una zona piena di insidie; rossa è la linea di at-
tacco durante i conflitti; nell’America che non riesce a di-
menticare la Guerra Fredda rosse sono le bandiere comuni-
ste; rosso il telefono per scongiurare un conflitto mondiale;
rosso l’allarme che indica l’emergenza estrema; rosse le fiam-
me dell’inferno. Anche in riferimento alla figura femminile i
toni scarlatti presentano significati negativi accanto a quelli
positivi: se rosso è l’abito nuziale, peccaminosamente rossa è
la biancheria delle prostitute e sgradevolmente rosso è anche
il sangue mensile che rende, nella credenza popolare, le don-
ne impure e la femminilità pericolosa.

Il rosa è un parente stretto del rosso, appartiene alla me-


desima scala cromatica ed è, nella cultura occidentale, il co-
lore per antonomasia delle femminucce appena nate, così
l’azzurro lo è per i maschietti. L’uso di attribuire ai bebè, ri-
spettivamente, l’azzurro se maschi e il rosa se femmine era
una pratica nata nell’Ottocento tipica dell’Europa occiden-
tale e degli Stati Uniti. Si sarebbero dati ai neonati i colori del-
la Vergine, al fine di essere protetti nel periodo difficile e pe-
ricoloso della prima infanzia. Tuttavia, mentre l’azzurro sin
dal XII secolo è il colore della Vergine Maria, il rosa non lo è
e non lo è mai stato. Il secondo colore della Vergine, dopo la

101
proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione nel
1854, è il bianco. Inoltre, il fatto che questa abitudine sembri
più radicata nei paesi protestanti che in quelli cattolici ri-
marca il fatto che essa non può essere messa in relazione al
culto mariano.
La coppia azzurro/rosa può essere invece una declinazio-
ne della coppia blu/rosso. Si tratta di colori pastello, ovvero
bianchi leggermente colorati, in cui il bianco richiama la pu-
rezza e l’innocenza, legate alla nascita di un nuovo individuo,
mentre il viraggio diverso rispetto al sesso riprende una di-
stinzione nata alla fine del Medioevo: il blu è maschile e il ros-
so è femminile. La definizione di genere che il blu e il rosso
assumono e la loro opposizione si fondano su vaghe conside-
razioni simboliche e hanno valore solo quando i due colori
sono giustapposti: il blu è maschile nella misura in cui è ab-
binato al rosso e viceversa; soli, o associati ad altri colori, ros-
so e blu sono sprovvisti di questa connotazione. Invece cele-
ste e rosa, e soprattutto quest’ultimo, anche se non sono ap-
paiati, mantengono il loro significato legato al genere e in ba-
se a esso vengono attribuiti, indossati e utilizzati. E mentre il
celeste, malgrado indichi preferibilmente il maschio, può es-
sere portato anche dalle femmine, senza tema che l’identità
sessuale simbolica ne soffra, il rosa, quando è attribuito al
maschio, indica lo scherno, è beffa della virilità: non a caso,
rosa era il triangolo che nei campi di concentramento nazisti
gli omosessuali erano costretti a esibire sulla giubba.
Il rosa, quindi, nel Novecento, è il colore femminile per
eccellenza e nel corso del secolo arriva a rappresentare tutti i
valori positivi della femminilità, senza che conturbanti ba-
gliori amaranto ne vengano a ricordare possibili aspetti spia-
cevoli. Presente in natura in piccolissime quantità, quasi mai
in una tonalità uniforme, ma sempre compatto, il rosa, nelle
sue gradazioni più sature, è uno dei colori che conosce un
grande successo nella rivoluzione cromatica e del gusto ope-
rata dai movimenti hippy. Contro la «cromoclastia» di origi-
ne protestante, che viene ereditata dalla civiltà borghese di fi-

102
ne Ottocento e che in parecchi ambiti importanti della vita
religiosa e sociale (il culto, l’abito, l’arredamento, l’arte, gli af-
fari e così via) raccomanda ancora in pieno Novecento un si-
stema di colori interamente costruito attorno all’asse nero-
grigio-bianco, i figli dei fiori dimostrano un amore sviscera-
to, e naturalmente contestatario, per i colori accesi, carichi,
vibranti: giallo, arancio, verde erba e verde acido, turchese e,
naturalmente, rosa, nelle sue molteplici nuance. I maschi non
si fanno scrupolo di indossare abiti rosa: la loro ribellione è
accesa anche contro la rigidità borghese dell’identità sessua-
le. Vestirsi di rosa per un uomo significa far mostra di accet-
tare anche la propria parte femminile, di costituire quel per-
fetto insieme Tao in cui yin e yang, il maschile e il femminile,
il freddo e il caldo, il luminoso e l’oscuro si compenetrano,
formando un essere completo.
Tutto ciò non serve a sdoganare definitivamente il rosa dal
significato che ha assunto nell’immaginario occidentale. Se
nella sfumatura più tenue esso comincia a fare capolino nei
guardaroba dei gentiluomini degli anni Ottanta, è per testi-
moniare una sorta di anticonformismo; ma, in effetti, il rosa
continua a essere colore femminile, in qualsiasi modo si in-
terpreti la parola «femminilità». «Rosa» si intitola quel «qua-
derno di studio e di movimento sulla condizione della don-
na» che viene periodicamente pubblicato in Toscana fra il
1974 e il 1976 e che intende essere uno strumento di lotta po-
litica. Rosa è, però, anche il colore preferito della famosa
scrittrice Barbara Cartland e la nota cromatica più incisiva
nelle copertine dei suoi romanzi e di quelli della maggioran-
za delle sue emule (definiti «rosa», per l’appunto), che rac-
contano le disavventure di un’eroina sfortunata che deve su-
perare mille vicissitudini per coronare felicemente il suo so-
gno d’amore.

Non è quindi un caso che Barbie scelga il rosa, colore


femminile e romantico. Rosa è anche il colore dell’alba e del-
l’aspettativa inconsapevole e felice, il colore della fiducia: in-

103
dossare gli occhiali rosa significa guardare alla vita con otti-
mismo, confidando nelle proprie capacità per raggiungere
gli obiettivi propostisi. Una dichiarazione di intenti, formu-
lata da Barbie a partire dalle pink box, le scatole rosa che le
fanno da cornice proprio negli anni Settanta, in uno dei mo-
menti più difficili della sua esistenza. Il rosa dell’involucro,
come quello dei mille particolari che compongono il suo
consumistico universo, altro non sono che la dichiarazione
della volontà di sopravvivere in un mondo sempre più insi-
dioso per le giovinette di narcisistici costumi degli anni Cin-
quanta. Poco importa se spesso le sfumature utilizzate ten-
dano a essere squillanti e un tantino vistose, volgari. Barbie,
che non ha mai nascosto la sua passione per i lustrini, non
teme la volgarità. Come non teme l’ambivalenza che carat-
terizza il rosa. Agli occhi dell’osservatore attento non sfug-
ge che rosea è la caramellosa sfumatura attraverso la quale
tutto, anche ciò che non lo è, appare bello e desiderabile:
Siegfried Kracauer, nel suo Gli impiegati, sin dal 1930, spie-
gava come per divenire un ingranaggio di una macchina bu-
rocratica nella società moderna «decisiva è piuttosto la car-
nagione moralmente rosa. Così desiderano coloro che han-
no il compito della selezione. Vorrebbero ricoprire la vita
con una vernice che nasconda la sua realtà tutt’altro che ro-
sea. Guai se la morale si spingesse sotto la pelle, e se il rosa
non fosse più abbastanza morale per impedire l’eruzione dei
desideri». Rosa sono spesso gli abiti delle reginette del liceo,
come la caramellosa vicenda di Grease ci insegna. Ma que-
gli stessi abiti, spesso leziosamente decorati da rose, fiocchi
e nastri, in un trionfo di ingenua abbondanza, sono anche
quelli indossati dalla sorridente Laura Palmer, che con l’af-
fettata ingenuità dei suoi completi contribuisce a celare
quanto di torbido si nasconde nella misteriosa cittadina di
Twin Peaks. E non a caso sempre rosa sono i golfini indos-
sati da Laura Dern e da Naomi Watts nei film di David Lyn-
ch Blue Velvet e Mulholland Drive: il colore serve a evocare
un’atmosfera superficialmente felice ma, allo stesso tempo,

104
con la sua dichiarata innaturalità ricorda come sotto ogni su-
perficie si possano nascondere oscure profondità abissali,
non sempre piacevolmente esplorabili.
Barbie sembra giocare con questa ambivalenza; reginetta
del ballo e, in spregiudicate interpretazioni della sua persona-
lità da parte di artisti buontemponi, irretiti dalle sue formosità,
disinibita intrattenitrice in fumosi, e non sempre raccoman-
dabili, luoghi del sottobosco urbano occidentale, la fanciulla
sembra nutrire una sola, grande paura: che un mondo dove vi-
ga una signorile sobrietà condanni lei, i suoi capelli a partire
da questo momento ossigenati (almeno nello stereotipo), le
sue forme procaci e la sua «vie en rose» alla scomparsa.
I mille volti dell’«american dream»

Tanta pervicace fiducia nel futuro paga. Nel 1986 Barbie su-
pera uno dei traguardi più ambiti della popolarità: i suoi occhi
sgranati e il suo sorriso vengono immortalati da Andy Warhol,
il modo più blasonato per essere riconosciuta come icona del-
la cultura popolare. E gli anni Ottanta sono ricordati da Bar-
bie con una gioia difficilmente contenibile. Finalmente la nar-
cisistica fanciulla che per tutti gli anni Settanta ha ignorato il
movimento per l’emancipazione delle donne, continuando a
interpretare l’aberrato stereotipo, ora che alcune rivendica-
zioni appaiono sostanzialmente accettate e che le discrimina-
zioni nei confronti delle donne destano sempre maggior scan-
dalo, almeno nella sfera pubblica, sembra convertirsi a un pa-
cato femminismo, come dichiara nell’intervista alla Jacobs.

Nel 1980 è uscito il film 10 e, a mio parere, ha dato il tono a tut-


to il decennio. Le donne erano pronte a fare e ottenere tutto. Es-
sere o non essere mogli, madri e donne in carriera perfette, questo
era il problema. I personaggi femminili delle telenovelas della sera
come Dallas e Dynasty, che fossero a capo di un’impresa o soltan-
to mogli, indossavano abiti sontuosi e completi da donna in carrie-
ra diventando esempi di una nuova élite femminile. Questa ten-
denza a lasciare le donne libere di prendere in mano e di crearsi il
loro futuro è andata di pari passo con la moda della buona forma
fisica, che, a sua volta, ha dettato i nuovi parametri della forza e del-
le forme femminili. I muscoli sono diventati «in», l’indolenza
«out», la parola «definizione» è diventata lo slogan: non stavamo
soltanto ridefinendo i nostri muscoli e la nostra vita, ma anche il
nostro posto nella società.

106
Gli anni Ottanta, quindi, per Barbie comportano il vero
confronto con il mondo del lavoro, un confronto che in pre-
cedenza era stato sostanzialmente rimandato, anche se la fan-
ciulla non aveva rinunciato di tanto in tanto a vestire abiti
adatti a svolgere una determinata mansione. Nei primi anni
di vita, la professione di modella, che ufficialmente e ordina-
riamente svolge, era stata di tanto in tanto abbandonata per
altre esperienze.

Il primo cimento in un campo diverso da quello dell’abbi-


gliamento consiste in ciò cui aspirano tutte le bambine che gio-
cano con lei: fare la ballerina. E Ballerina si chiama l’insieme
di abiti e accessori che è possibile acquistare per preparare la
bambola ai clamori del palcoscenico. Il tutù che indossa non è
però uno qualsiasi, bensì quello adatto per interpretare la Fa-
ta Confetto sulle note dello Schiaccianoci di Čajkovskij. Non si
tratta di una scelta casuale: tradizionalmente, dalla sua prima
rappresentazione, nel 1954, con la coreografia di George Ba-
lanchine, il balletto viene rappresentato nei giorni precedenti
il Natale come spettacolo adatto alle famiglie. Molte delle
bambine della classe media e medio-alta americana sognano di
interpretare i ruoli femminili più importanti di quella che è
una delle più belle fiabe da recitare sulle punte. La storia, trat-
ta da un racconto di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, nel-
la versione meno cruenta elaborata da Alexandre Dumas e sce-
neggiata per balletto da Marius Petipa, si svolge durante la vi-
gilia di un Natale di inizio Novecento. Il sindaco indice una fe-
sta natalizia per i propri bambini, allietati dai regali e dai gio-
chi di prestigio del signor Drosselmeyer. A Clara, Drossel-
meyer regala uno schiaccianoci a forma di soldatino, che però
il fratello della bambina, Fritz, rompe per dispetto. Drossel-
meyer lo aggiusta. Clara, dopo tanti festeggiamenti, si addor-
menta e sogna: una miriade di topi, capitanati dal Re Topo,
cercano di rubarle lo schiaccianoci, ma lei resiste ingaggiando
una battaglia con gli intrusi, aiutata dallo stesso schiaccianoci.
Alla fine della battaglia, restano in vita solo lo schiaccianoci e

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il Re Topo, che Clara uccide tirandogli la sua scarpetta. Alla
morte del topo lo schiaccianoci si trasforma in un principe.
Clara e il principe intraprendono un viaggio verso la dimora
della Fata Confetto dove ha inizio una grande festa da ballo:
sono travolti dalle danze il caffè, il tè, i pasticcini, i fiori, finché
il sogno svanisce e Clara si risveglia con il suo schiaccianoci fra
le braccia.
Si tratta di una storia adatta a un pubblico infantile, che
Barbie interpreta con soddisfazione negli anni immediata-
mente successivi al suo debutto, non dimenticando di ricor-
dare alle bambine, che sognano tutù e applausi, che la danza
è una disciplina severa: le ballerine, quando smettono l’abito
di scena, indossano una tutina aderente per gli innumerevoli
esercizi preparatori. Del resto, in questa fase della sua vita
quando, lasciato in un angolo il vezzoso tutù della Fata Con-
fetto, Barbie è pronta a vestire altri panni professionali, come
le fanciulle in carne e ossa del periodo, lavora solo in ambiti
dove le qualità «femminili» per eccellenza vengono conside-
rate insostituibili: gli unici lavori concessi dalla «mistica del-
la femminilità», e per breve tempo, alle donne americane pri-
ma del matrimonio. Così Barbie, dal 1961 al 1964, si trova a
vestire l’uniforme di hostess come American Airlines Stewar-
dess, mentre nel 1966 lavora come Pan Am Stewardess: una
professione molto ambita nell’America kennediana, fiducio-
sa e aperta alle novità tecnologiche, ma nella realtà esercitata
solo da ragazze di bell’aspetto, in grado di servire un drink
con grazia all’uomo in viaggio di affari. Più accessibili sono
vesti e accessori di Registered Nurse: con il camice bianco con
tanto di crestina, la mantellina blu foderata, gli occhiali con
la montatura nera, la bottiglia dello sciroppo e la borsa
dell’acqua calda, Barbie promette di essere un’infermiera sol-
lecita e paziente, oltre che esperta e diplomata (a scanso di
ogni equivoco, porta con sé il «pezzo di carta» che ne garan-
tisce la professionalità). Un’occupazione molto comune fra le
ragazze che ancora studiano è quella di baby-sitter, che Bar-
bie svolge con il contenuto di Baby-Sits: un enorme grembiu-

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lone, per mettere al riparo i vestiti da possibili esternazioni
dell’infante, che giace in una cesta foderata; telefono e pro-
memoria dei numeri per le urgenze – dottore, vigili del fuo-
co, polizia; biberon; e poi ancora occhiali, salatini, soda, sve-
glia e ben due libri per ingannare l’attesa: significativi i titoli,
How to Travel (Come si viaggia) e How to Lose Weight (Co-
me perdere peso), tanto per ricordare a sé e agli altri che non
si è mai abbastanza in linea. Meno male che il tomo che por-
ta con sé a lezione, quando è Student Teacher, si intitola mol-
to semplicemente Geography: con la bacchetta brandita con
estrema sicurezza e l’aria professorale, malgrado l’abito fa-
sciante e gli altissimi tacchi rossi, Barbie non vuole impartire
precetti per una sana e filiforme costituzione.
Hostess, infermiera, studentessa, baby-sitter per i neonati
e maestrina per i più grandicelli, cui insegna nozioni di geo-
grafia. Ma l’insegnamento più importante che Barbie dispen-
sa è che, nella vita pubblica, si devono ricoprire quei ruoli ri-
tenuti inadeguati per il sesso forte, per natura incapace di nu-
trire l’altruismo e la dedizione necessari alla cura degli altri.
Così, anche negli anni Settanta, quando non si lascia irretire
dalle sirene femministe, Barbie lascia il suo frenetico andiri-
vieni tra il mare e la montagna solo per vestire il camice ste-
rilizzato del chirurgo e continuare a servire, almeno quando
si misura in una professione, alla pubblica utilità.
Tanta silenziosa abnegazione viene meno con l’arrivo de-
gli anni Ottanta, quando le donne cominciano a ricoprire in-
carichi fino a quel momento preclusi. Del resto, è proprio una
signora, Lady Margaret Thatcher, primo ministro in Gran
Bretagna dal 1979 al 1990, a figurare fra le figure più rilevanti
del decennio. Il premier ha un ideale di pubblica felicità che
non contempla il sostegno statale alle fasce più deboli della
popolazione, credendo invece che il libero dispiegarsi dell’at-
tività economica dei singoli, secondo i propri interessi e sen-
za gli intralci dati dalle norme sui licenziamenti o sulla tutela
ambientale, possa far aumentare il benessere economico. Le
sue decisioni impopolari causano forti resistenze, cui da vera

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iron lady, signora di ferro, risponde con durezza inusitata,
svelando un volto pubblico della femminilità decisamente
inedito.
Non è certo questa durezza a ispirare Barbie, ma sicura-
mente il fatto che sempre più spesso il mondo delle profes-
sioni si dimostri aperto all’ingresso femminile, senza che la
donna debba necessariamente dimostrare istinti altruistici, è
un buon incentivo. Così, nel 1985 fa il suo ingresso in società
Day-to-Night Barbie, una donna d’affari in tailleur doppio-
petto e valigetta ventiquattrore, naturalmente color fragola.
Il severo completo però può trasformarsi facilmente in una
mise da sera di chiffon e lamé: come non si stancano di ripe-
tere le riviste femminili, sotto il gessato, le donne in carriera
sono quasi obbligate a vestire sete seduttive e pizzi maliziosi.
Si è ormai spenta anche l’eco dei tamburi nei cortei di pro-
testa e i falò, dove si riunivano donne in cerca di liberazione,
non mandano più alcun barbaglio. La stagione dell’«impe-
gno», naufragata negli «anni di piombo» degli attentati e del-
la lotta al terrorismo, appare ormai archiviata. Dopo gli anni
dei timori, con il passaggio dai Settanta agli Ottanta, si inau-
gura una nuova fase, la cui caratteristica principale si riassu-
me nell’abusata parola «riflusso». La nausea per la politica si
mescola alla riabilitazione della sfera privata; un’economia
nuovamente fiorente e produttiva spalanca le porte alla pub-
blica esibizione del benessere. Se negli anni Settanta i figli dei
fiori avevano usato l’apparenza esclusivamente in senso pro-
vocatorio, vestendo colori sgargianti o evitando ogni possibi-
le contatto con il barbiere e sottolineando, anche attraverso
l’uso di allucinogeni, la ricerca dell’autentica interiorità uma-
na, un decennio dopo sembra che apparire ed essere, come
negli anni Cinquanta, tornino a coincidere: è il trionfo
dell’immagine, della bellezza dei canoni pubblicitari, del-
l’estetica. Gli «anni di panna» o «di pongo», agli yuppie che
hanno desiderio di ostentare le ricchezze inseguite con avi-
dità con i giochi borsistici, prospettano una ridda di locali
notturni, discoteche, ristoranti dove appare d’obbligo per le

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signore, mollato il cipiglio decisorio tenuto dalle nove alle
cinque, farsi vedere in raso e paillettes vistosamente allusivi.
Gli «anni del riflusso» significano, per molti aspetti, un de-
ciso passo indietro, almeno in quegli aspetti formali che sono
la sostanza dell’effimero e in cui Barbie non ha mai smesso di
poter essere maestra. Del resto, Barbie, anche con le nuove ac-
conciature e il sorriso del nuovo modello Superstar, che non
ha mai sfoggiato in precedenza, conserva sempre la grazia di
ragazza degli anni Cinquanta, in fondo attenta solo alla piega
dei capelli. Vi unisce però un’inedita grinta post-femminista
che la conduce, dopo aver vestito i panni dell’executive, a in-
dossare a partire da quel momento, fino a oggi, quelli di istrut-
trice di aerobica, portavoce dell’Unicef, medico, ufficiale
dell’esercito, astronauta, ballerina televisiva, insegnante di lin-
guaggio dei segni, pilota nell’aviazione americana, ambascia-
trice di pace, tennista, cantante rock, diplomatica, stella del va-
rietà sul ghiaccio, protagonista di video musicali, pattinatrice,
insegnante di storia dell’arte, attrice cinematografica, ufficia-
le di marina, manager, sergente dei marines, musicista rap, uf-
ficiale di polizia, ginnasta, ufficiale medico nell’esercito, stella
del circo, chef, cantante del Radio City Music Hall, giocatrice
di baseball, pediatra, ufficiale durante l’operazione Desert
Storm, sommozzatrice, poliziotta canadese a cavallo (ma solo
in Canada), regista, pilota nei rally, insegnante di spagnolo,
cowgirl, capitano dell’aeronautica, ginnasta, pittrice, poliziot-
ta, pompiere, veterinaria, ingegnere, dentista, paleontologa,
maestra d’asilo ed elementare, negoziante... Finalmente il suo
fisico e il suo aspetto vistoso non sono più guardati con diffi-
denza. Con il trionfo dell’effimero comincia per ogni donna il
quotidiano, impari confronto con lo specchio. Dalle video-
cassette che invadono il mercato, Jane Fonda istiga al saltello
continuo, e migliaia di donne in carriera e madri di famiglia,
quanto mai lontane fino a questo momento quanto ad abitu-
dini e stile di vita, si trovano accomunate dalla tutina svelacu-
scinetto con lo scaldamuscolo in tinta, mentre il sudore ru-
scella dalle tempie come da una fonte di acqua sorgiva. In tut-

111
to il mondo occidentale si inaugura la gara a chi mostra il ven-
tre più piatto, il seno più alto, il gluteo più sodo: nessuna è
esente dal confronto, e poco importa se per mestiere ci si affa-
tica le pupille sui caratteri cuneiformi o si trapiantano bulbi di
piante tropicali in serre umide. Per tutte, ma proprio tutte, è
iniziata la corsa all’aspetto radioso: una corsa che ancora oggi
non si è fermata.
In questo, ça va sans dire, Barbie ha la meglio. Inoltre,
qualsiasi cosa faccia, riesce a non correre mai il rischio di in-
cappare nella critica dell’opinione pubblica, tendenzialmen-
te conservatrice, del decennio. Certo, vi sono dei pessimi sog-
getti in giro per il mondo che, complici le sue forme da pin
up, si divertono a farle indossare i panni succinti di coni-
glietta di «Play boy», di spogliarellista, di ballerina di lap dan-
ce, dando corpo a fantasie fetish, porno, sadomaso o lesbiche.
Non mancano inoltre quanti, stanchi del glamour delle sue
tenute, la costringono alla mancanza di maquillage e di coif-
feur, nonché a mestieri privi di qualsiasi attrattiva – contrab-
bandiera, donna delle pulizie in locali pubblici, precaria di
call center, bidella... Nessuno, naturalmente, pensa di farla
entrare dentro un archivio o una biblioteca e neppure in un
laboratorio o in un osservatorio astronomico. Casa Mattel,
infatti, vigila attentamente sulle sorti della sua creatura. E se
da una parte avversa tutte le rappresentazioni «forti» della
bambola, arrivando a combattere, peraltro spesso vittoriosa-
mente, anche con artisti di fama internazionale (da Cat Sass
a Tom Forsythe ad Albertina Carri) colpevoli di enfatizzare
la sua accentuata femminilità o di utilizzarla in maniera anti-
conformista, dall’altra rinuncia a farle svolgere attività che
comunemente sono ritenute noiose o inadatte alle donne. In
ogni momento la deliziosa fanciulla si uniforma alle aspetta-
tive generali, non osando mai un passo troppo lungo, ma fa-
cendo agevolmente vedere dove può arrivare l’alluce una vol-
ta tesa la gamba: una vera strategia dell’ammiccamento che le
procura sempre più apprezzamenti. E anche nei decenni suc-
cessivi non dimentica la lezione. Così, nel nuovo secolo, men-

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tre impazzano le campagne presidenziali negli Stati Uniti e
con qualche timidezza si comincia a discutere della possibi-
lità di una signora alla scrivania della Stanza ovale, Barbie si
candida alle elezioni a capo di un Party of Girls, il partito del-
le ragazze, e, con un sobrio caschetto platinato che ben si ac-
corda al severo completo che indossa, si prepara a prendere
le decisioni più importanti per il pianeta. Il suo programma
elettorale è fondato su valori pacifisti e animalisti, anche se la
fanciulla dimostra di non avere alcun timore al momento op-
portuno a imbracciare le armi e servire nell’esercito, anche in
operazioni rischiose. In ogni momento Barbie si dimostra
all’altezza delle aspettative che aumentano nei suoi confron-
ti, sempre conforme alle direttive del mondo occidentale e
deliziosamente incurante delle contraddizioni.

Barbie, tipico soggetto suburbano dell’America benestan-


te della Guerra Fredda, soffre di quello che lo studioso Da-
vid Riesman, autore di The Lonely Crowd (La folla solitaria),
già negli anni Cinquanta chiamava «irrazionale bisogno di in-
discriminata approvazione da parte dei propri pari»: un di-
sturbo dal quale, malgrado il passare degli anni e il crescere
di una certa affezione del mercato nei suoi confronti, la fan-
ciulla non guarisce. Anzi, in certi momenti, come durante la
guerra del Golfo, i sintomi appaiono pericolosamente peg-
giorare. La sua spasmodica ricerca di conformità la porta a
interpretare l’«american dream», il sogno americano, inten-
dendolo quale inesausta capacità di raggiungere il successo in
ogni occasione, sotto ogni cielo, in ogni ambito. Barbie, che
a prima vista sembra esclusivamente un’adepta del consumi-
smo, rivela così di possedere quella religiosità intima che gli
americani amano pensare innervi il loro spirito collettivo e
quell’inveterata fiducia nelle proprie possibilità che ha ani-
mato i pionieri alla conquista di nuove frontiere.
Non si tratta di una mistica avulsa dalla realtà, ma di una
filosofia pragmatica, che trova la sua compiuta espressione
nella miriade di manuali per raggiungere il successo, derivati

113
da quello pionieristico pubblicato per la prima volta nel 1952
dal reverendo Norman Vincent Peale e destinato a diventare
un bestseller planetario, The Power of Positive Thinking (Il
potere del pensiero positivo, tradotto in Italia con il titolo Co-
me vivere in positivo, a sottolineare la natura di ricettario del
volume). Quasi seguendo pedissequamente il decalogo del
reverendo Peale, Barbie mostra di avere impressa «in mente
in modo indelebile un’immagine felice e fortunata» di se stes-
sa, di mantenerla viva con tenacia; soprattutto dà prova di
non dubitare mai dell’immagine di successo che ha costruito.
Sembra capace di formulare un pensiero positivo ogni volta
che la assale un dubbio sulle sue capacità personali e di eli-
minare le difficoltà. Ogni mattina, qualsiasi cosa succeda, si
dice «che tutto sta andando benone, che la vita è bella»: è
questa granitica certezza a regalarle la palma di migliore in-
terprete dell’«american dream», un sogno che si presenta
sempre uguale a se stesso, anche se può essere reso palpabile
attraverso i mille costumi diversi che Barbie conserva appesi
nell’armadio.
Barbie burqa

Con il suo ottuso ottimismo della volontà, Barbie è un em-


blema a stelle e strisce. Anche se la sua «mamma» è un’ebrea
di origini polacche; anche se la sua sorella maggiore Lilli è te-
desca; anche se le sue prime ore di vita si sono consumate in
Giappone; anche se in un secondo momento viene realizzata
in Messico; anche se i suoi vestiti seguono prima la moda
francese e poi quella inglese; anche se vengono cuciti a
Taiwan.
È intimamente americana per le sue ascendenze europee,
che condivide fino agli anni Ottanta con la maggioranza del-
la popolazione degli Stati Uniti; è americana per lo sguardo
appassionato sulla moda parigina e londinese, malgrado al-
cune inevitabili cadute di stile; ma, soprattutto, è americana
per la sua capacità di prendere quanto di più conveniente il
mondo offre e piegarlo ai propri fini: sono i meccanismi del-
la sua fabbricazione a renderla americana fino al midollo.
Alla fine degli anni Cinquanta sembra impossibile tanto in
Europa quanto in America trovare un’azienda in grado di
fornire le cerniere in miniatura necessarie alla confezione di
un abito di Barbie – dicono alla Mattel –, solo in Estremo
Oriente vi è una manualità tanto raffinata. Così la Mattel fon-
da in Giappone la YKK, una compagnia che produce la mi-
nuteria necessaria al completamento degli abiti e parecchi ac-
cessori del composito mondo di Barbie. Ma perché stampa-
re in Giappone anche i cataloghi che accompagnano ogni
confezione di Barbie e dei suoi abiti? In Occidente non ci so-
no tipografie adeguate per la stampa a colori di quelle pagi-

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ne di 10 centimetri per 7,5 tenute insieme da due graffette in
costa? E non vi sono neppure sarte accurate, se nel 1963 la
Mattel decide di aprire uno stabilimento di Barbie a Taishan,
nell’isola di Taiwan, dove vengono confezionati rigorosa-
mente a mano gli abiti di cui la fanciulla californiana farà
sfoggio sotto ben altri cieli. Anche dopo la chiusura della fab-
brica di Taiwan nel 1987, c’è ancora chi, in quella che oggi è
una delle «tigri asiatiche» in pieno boom economico, con af-
fezione nostalgica continua a cucire abitini per la Barbie, ri-
cordando che la maggiorata statunitense offriva un’occupa-
zione a un terzo della popolazione del paese, spesso a intere
famiglie. Bambine comprese? La Mattel ha sempre e con sde-
gno respinto le accuse di sfruttamento del lavoro minorile. E
sicuramente negli stabilimenti statunitensi ed europei vi è
sempre stato un pedissequo rispetto della legislazione vigen-
te e una politica dei salari adeguata alle aspettative di operaie
e operai. Tuttavia ancora recentemente, nel Messico centra-
le, a proposito della fabbrica di Tepeji del Rio, vi sono sinda-
calisti che denunciano che in aziende satelliti del colosso pro-
duttore di giocattoli, vi siano minori – cui generalmente in
Messico non vengono pagati contributi e non viene garantita
l’assistenza sanitaria – che superano ampiamente il tetto del-
le sei ore lavorative al giorno, cucendo vestitini per la vanito-
sa yankee per ben oltre nove ore.
Se fosse vero, il giocattolo preferito delle bambine del
Nord del mondo sembrerebbe trasformarsi per molte del
Terzo mondo in un autentico incubo. Del resto, così facen-
do, la casa madre della signorina Barbie non si comportereb-
be diversamente da moltissime altre aziende con cervello sta-
tunitense e braccia e gambe disperse nei luoghi più recondi-
ti del pianeta, laddove le condizioni locali consentono, in as-
senza di forte rappresentanza sindacale, orari superiori alle
sessanta ore settimanali, la mancata osservanza del riposo set-
timanale, il lavoro dei minori e dei carcerati, il licenziamento
in tronco per le donne in gravidanza, lo sfruttamento incon-
trollato delle risorse naturali, discutibili standard di sicurez-

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za e di salubrità sui luoghi di lavoro e così via: tutta una serie
di elementi che si uniscono a caratterizzare le condizioni di
produzione delle multinazionali nell’era della cosiddetta
«globalizzazione».
Protagonista di una faccia del fenomeno, quella caratte-
rizzata dalla delocalizzazione della produzione nelle più di-
verse lande del pianeta, Barbie non si esime dall’esserlo, e con
grande dispiego di mezzi, anche dell’altra, quella che la vede
presente sui mercati di tutto il mondo. Sempre uguale a se
stessa, Barbie occhieggia dalle vetrine di tutto il mondo, an-
che se in modo politicamente corretto non esita a vestire gli
abiti tipici dei paesi che la ospitano. Nel corso degli anni, a
partire dal 1987, Barbie è stata italiana, con un costume agli
occhi americani adatto ai saltelli della tarantella; francese,
con stivaletti allacciati, calze nere, gonna a balze di pizzo e
cappello piumato, pronta a sfrenarsi nel più parigino dei can
can; inglese, con un abito da cavallerizza ispirato a cacce alla
volpe ottocentesche; scozzese, con tanto di gonna e sciarpa in
tartan e berretto con pompon; cittadina di Hong Kong in la-
minato dorato e giacchino color porpora; indiana, con un sa-
ri rosso bordato d’oro e la fronte segnata dal caratteristico
bindi; spagnola, in severa mantilla nera con tanto di peineta
dorata; svedese; irlandese, con un vestito verde carico in ono-
re del lussureggiante paesaggio e una spilla a forma di trifo-
glio, simbolo nazionale dell’Irlanda; svizzera; greca; peruvia-
na, stretta nel coloratissimo serape, la sciarpa utile a coprirsi
e a stringere a sé i bambini; tedesca, con grandi trecce rac-
colte sulle tempie, scialle immacolato e grembiule sull’ampia
gonna rossa da ragazza di campagna; coreana, sontuosa nel-
lo sgargiante costume folcloristico; canadese, membro della
polizia a cavallo; russa, in rosso fiammeggiante e un cappello
che richiama il profilo delle cupole della chiesa moscovita di
San Basilio; messicana, le trecce scure accuratamente petti-
nate e l’abito nei colori nazionali, il bianco, il rosso e il verde;
nigeriana, in un trionfo di capelli crespi e un abito maculato;
brasiliana, pronta al più lungo carnevale del mondo e alle

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sambe più audaci; malese, con lo smilzo sarong in seta stam-
pata e una giacca di taffeta rosa carico; cecoslovacca, tutta un
fruscio di pizzo sangallo candido che completa la mise in ne-
ro, giallo e rosso; giamaicana, i capelli raccolti in una banda-
na e un grembiule patchwork; pellerossa, ieratica nel suo co-
stume da cerimonia con il copricapo che ricorda un antico to-
tem; australiana, in partenza per una lunga cavalcata; olan-
dese, in zoccoletti bianchi e gonna inamidata in una sfuma-
tura di azzurro da porcellana di Delft; cinese, con un raffina-
to cheongsam di seta stampata a crisantemi, simboli di lunga
vita e le ampie maniche che richiamano gli abiti dei mandari-
ni di un tempo; kenyota, il collo circondato da una miriade di
collane di perline colorate in autentico stile masai; cilena,
pronta a domare i cavalli come i locali huasos; polinesiana,
con tanto di gonna di paglia svolazzante al vento e una ma-
gnifica collana di ibisco; giapponese, nel tradizionale kimono
stretto in vita da una larga obi e con i classici zori ai piedi; nor-
vegese, con il tipico bunad a fiori bianchi e rosa su fondo blu;
ghanese, in uno sgargiante abito a disegni geometrici e un al-
to turbante, a garantire l’altezza della posizione sociale; inuit,
avvolta nel caldo parka con il cappuccio bordato di pelliccia;
portoricana, con un abito bianco stretto in vita da una cintu-
ra a fiori tropicali; polacca, in un tripudio di fiori e nastri; ma-
rocchina, in fruscianti sete dai toni aranciati e una preziosa
collana di monete; austriaca, sobria e romantica nella sua
gonna stampata a fiori alpini e nel suo giacchino di lana cot-
ta; thailandese, pronta a danzare scalza malgrado la magnifi-
cenza dell’abito. Naturalmente, non sempre si è presentata
all’appuntamento con le rispettive tradizioni nazionali con la
pelle eburnea, la chioma platinata e le iridi azzurre; ogni vol-
ta le sue fattezze hanno ripreso quelle caratteristiche della po-
polazione indigena, rimescolando nelle più svariate combi-
nazioni carnagione chiara, olivastra e nera, capelli biondi,
rossi, neri, lisci, ondulati, crespi, sciolti e raccolti, occhi cele-
sti, marroni, tondi e a mandorla.

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Ma tanta buona volontà non è stata premiata, soprattutto
in Medio Oriente, dove Barbie ha tentato inutilmente di con-
quistare plauso e posizioni. A poco le è valso il travestimento
da Sherazade, regina delle Mille e una notte, insieme al fido
Ken nelle vesti di sultano. I suoi veli succinti hanno convinto
poco e non sono bastati a far dimenticare l’attitudine narcisi-
stica e consumistica che da sempre la caratterizzano. La poca
simpatia che si nutre in queste regioni per tutto quanto odora
di statunitense ha fatto il resto. In molti paesi mediorientali a
Barbie è precluso l’ingresso. La polizia religiosa saudita ha in-
detto una vera e propria campagna contro la bambola. È peri-
colosa perché, dopo averci giocato, le bambine fanno «strane
richieste»: «Mamma, mi compri i jeans, una T-shirt e un co-
stume da bagno come Barbie?». Così i ministri, memori anche
delle origini della signora Handler che ai loro occhi risultano
intrinsecamente colpevoli e nefaste, ammoniscono: «Le bam-
bole ebraiche di Barbie con i loro vestiti che lasciano vedere le
forme, le posizioni oscene, i differenti stili e accessori sono il
simbolo della decadenza e della perversione occidentale. C’è
da riconoscere il pericolo ed essere vigili».
In Iran rincarano la dose: «Ogni Barbie è più dannosa di
un missile americano». Così, l’Istituto per lo sviluppo intel-
lettuale dei bambini e dei giovani adulti – un’agenzia gover-
nativa affiliata al Ministero dell’Istruzione – ha messo allo
studio due bambolotti, Sara e Dara che, grazie anche alla con-
temporanea produzione di cartoni animati che ne mostrano
le avventure, dovrebbero far sparire dal mercato i letali Bar-
bie e Ken. Sara e Dara sono una sorella e un fratello di otto
anni dal sobrio guardaroba e con un forte attaccamento ai
tradizionali valori musulmani. Per Sara niente minigonne o
rossetto, né tanto meno lunghi capelli biondi. Tutti e quattro
i prototipi esistenti della bambola hanno in dotazione una
sciarpa bianca per coprire capo e riccioli rigorosamente ca-
stani o neri. La bambina poi può scegliere fra una camicia
arancione lunga fino al ginocchio, pantaloni blu e calze bian-
che, o una blusa a fiori o un chador a fiorellini lungo fino al-

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le caviglie; il fratello Dara fra camicia bianca e pantaloni ne-
ri oppure camicia beige, pantaloni neri e giacca rossa.
Nell’attesa che Sara e Dara facciano il loro ingresso in so-
cietà, le bambine di credo islamico, che non possono trastul-
larsi con Barbie per i più svariati motivi, da qualche tempo
hanno a disposizione altri balocchi. Dal novembre 2003, in
Siria, Egitto e Qatar viene pubblicizzata come migliore ami-
ca di ogni bambina la bambola Fulla, «gelsomino», il cui
aspetto ricorda vagamente quello di Barbie, solo un po’ più
larga di fianchi, più modesta di seno e assai più scura di pel-
le e capelli, esce dalla scatola avvolta in un’abaya nera e con
il capo coperto dall’hijiab. I genitori, neppure sfiorati dal
pensiero di comprare Barbie alle loro bambine, acquistano
lieti Fulla, che ha un guardaroba dalle linee sobrie e possiede
un bel tappeto di feltro rosa per le orazioni quotidiane. Ful-
la non ha alcun fidanzato, ma è ben felice di seguire i detta-
mi paterni e materni, dimostrandosi onesta, dolce e premu-
rosa. Si dice che presto Fulla, che non disdegna cucinare o
leggere, diventerà una donna in carriera, ma solo come inse-
gnante e come medico, uniche professioni ritenute rispetta-
bili dagli ulema. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna le bam-
bine di famiglia islamica giocano con Razanne, il cui nome si-
gnificativamente evoca quella «scintillante modestia» che de-
ve essere patrimonio insostituibile delle donne musulmane.
Anche Razanne legge e rispetta il Corano e porta con inusi-
tata grazia un immacolato chador.
Né Fulla né Razanne incorreranno mai nella fatwa di con-
danna pronunciata in Kuwait contro Barbie, sin dal lontano
1994. Il funzionario religioso ha vietato la presenza di Barbie
dentro i confini nazionali perché essa «non ha niente a che
vedere con i bambini». Difficile dire se egli condanni usi e co-
stumi della bambola: il testo lapidario è supportato da una
lunga e articolata serie di motivi che potrebbero farla bandi-
re. Può darsi che egli veda in Barbie l’incarnazione di un pe-
ricoloso modello di bellezza occidentale; può darsi che non
approvi certe smanie consumistiche.

120
Di fatto le parti della pin up californiana sono state prese
da famose esponenti del movimento femminista di qualche
decennio fa. Secondo la sessuologa Shere Hite, autrice di
quel famoso Rapporto Hite la cui pubblicazione nel 1976 tan-
to contribuì al mutamento dei costumi sessuali, il bando
emesso contro Barbie altro non sarebbe che la manifestazio-
ne del fastidio che si prova nei confronti del pensiero di una
sessualità femminile attiva, non forzatamente legata alla pro-
creazione. Le culture religiose fondamentaliste ravvisano in
Barbie una bambola che ostentando seni e fianchi, pur man-
cando di genitali, aiuterebbe le bambine a prefigurare le for-
me di un corpo femminile adulto, orgogliosamente portato.
Ciò che più si teme, secondo la Hite, è che le bambine impa-
rino dalla bambola che indossa gli sfrontati abiti occidentali
anche quei comportamenti che all’abbigliamento sembrano
legati, soprattutto la possibilità di controllare e prendere de-
cisioni per quanto riguarda il proprio corpo, in campo ses-
suale e riproduttivo: un’autonomia che spaventa ogni inte-
gralista, a qualsiasi religione appartenga. Prova ne sia la ri-
sposta neoevangelica a Barbie, le bambole Elsie, Latlie, Mil-
lie e Violet del gruppo Mission City Press, tutte fornite di
Bibbia oltre che di ombrellini e cappelliere in omaggio alla vi-
sione di una femminilità quieta e sottomessa.

A fronte di tutte queste emulatrici, la Barbie degli ultimi


anni, candidata alla Casa Bianca e astronauta, sembra sicura-
mente l’emblema della riscossa femminile. Al di là di ciò,
nell’ultimo decennio le critiche nei suoi confronti si sono de-
cisamente affievolite, fino quasi a scomparire. Anzi, la fan-
ciulla riscuote nuovi apprezzamenti, proprio da parte di que-
gli ambienti che in precedenza ne avevano condannato aspet-
to e modi. Con la sua disponibilità alle fatiche professionali e
la rinuncia alla maternità, con il congelamento in un’immagi-
ne femminile stereotipata, Barbie rifletterebbe la capacità
delle donne di oggi di misurarsi con le attività più diverse
sempre con successo. Barbie libererebbe le bambine dall’ob-

121
bligo di immaginarsi future casalinghe e, grazie alla capacità
di precorrere i tempi, provandosi in ruoli inediti per le don-
ne – primo fra tutti quello di presidente degli Stati Uniti – lan-
cerebbe un messaggio di emancipazione assai più efficace di
mille slogan. In più, il recente abbandono dello slavato Ken
a favore di una nuova libertà sentimentale e di un disimpe-
gnato flirt con un aitante surfista australiano, Blaine, svecchia
Barbie dalla patina di grigia fedeltà a un fidanzato tiepido che
ne offuscava lo splendore e le fa vestire gli invidiabili panni
di single, in un mondo sempre più a loro misura. Insomma,
Barbie, sulla soglia dei primi cinquant’anni, sembrerebbe
pronta a viverne altrettanti con l’inveterato entusiasmo delle
debuttanti.
Le smanie del collezionismo

Il mondo è vario: se vi sono signore e signori che hanno cam-


biato idea su Barbie, criticandola in gioventù e trovandone
inediti lati positivi con l’avanzare degli anni, vi sono anche si-
gnore e signori che nel corso degli anni hanno irrobustito
l’amore infantile fino a farlo diventare un’ardente passione.
Sfogliavano i giornalini con l’occhio vagante alla ricerca del-
la sinuosa silhouette della loro beniamina e poi rimanevano a
guardarne gli infiniti accessori con espressione rapita, la me-
desima che avevano di fronte alle vetrine dei negozi di gio-
cattoli nelle quali si materializzavano in mille sfumature di ro-
sa i loro sogni più reconditi. Il primo stipendio non l’hanno
speso per una rata del motorino, ma per dotare delle ago-
gnate due ruote la loro fanciulla del cuore... e poi sono venu-
te le quattro ruote dell’utilitaria, della decappottabile e della
fuoriserie, le sei ruote del camper, e poi le più sontuose ma-
gioni, in stile vittoriano o coloniale, con i mille particolari rea-
listici, mobili, suppellettili e decorazioni.

In questo scenario, dove nulla è lasciato al caso, accanto


alla prima bambola, regalata in un giorno speciale dell’infan-
zia che ancora viene ricordato con batticuore, pian piano se
ne aggiungono altre. Si cerca dai più vetusti giocattolai, si fre-
quentano i mercatini del modernariato, si spulciano i carret-
ti dei rigattieri per cominciare a poter esporre accanto alla fe-
dele e sorridente Barbie Malibu, compagna di mille pome-
riggi, le sorelle maggiori: la Talking, che pronunzia alcune
frasi, la Twist ’n Turn, in grado di ruotare il busto, la Color

123
Magic, che cambia il colore dei capelli e, andando indietro,
l’American Girl, dai capelli a caschetto, i diversi tipi di Swirl
Ponytail, la Fashion Queen, con le sue parrucche, la Miss,
l’unica a chiudere le palpebre, e poi ancora indietro le prime,
indicate solo con un numero, la n. 5 Ponytail, la n. 4 Ponytail,
la n. 3 Ponytail, la n. 2 Ponytail, fino alla debuttante, la n. 1
Ponytail. Due, tre, dieci, cento, duecento, cinquecento... fino
alle seimila (ma il numero è approssimato per difetto) che
vanta uno dei maggiori collezionisti italiani, tutte diverse, in
uno o più particolari, ma tutte uguali, tutte inconfondibili,
tutte Barbie.

Una passione tanto accesa, condivisa da centinaia di cuo-


ri, non passa inosservata in casa Mattel, che ne coglie i primi
timidi segnali alla fine degli anni Ottanta e con palpitante sol-
lecitudine incoraggia chi ancora risulta restio. Nel 1988,
quando viene lanciata sul mercato, la prima Barbie della se-
rie Happy Holidays, la sua immagine radiosa in gonna di tul-
le rosso e guarnizioni di raso bianco, viene accompagnata da
una significativa didascalia.

Bella, elegante, preziosa. Veramente unica! Ha il corpino di


prezioso velluto, capelli lunghi e luminosi e la gonna è ampia e sof-
fice come una nuvola. Barbie Gran Galà, nel suo vestito scintillan-
te è bellissima, preziosa. Così preziosa che quando sarai grande la
terrai con i gioielli e le tue cose più care.

Il monito è quello di non sciupare vestito e acconciatura


(cosa alquanto difficile se bambola e infante fanno il loro
mestiere), ma di scegliere un’interazione contemplativa che
lasci intonso quello che non è più solo un giocattolo. Diffi-
cile sapere chi abbia ottemperato alle raccomandazioni di
casa Mattel; certo è che questa Barbie, con il suo successo,
inaugura una serie di bambole particolarmente «preziose»,
immesse sul mercato annualmente prima delle feste natalizie
per ornare gli scaffali dei negozi prima e di casa poi con i lo-

124
ro abiti da sera gonfi come meringhe e scintillanti come lu-
ci al neon.

Si apre così la porta alla produzione delle Barbie da colle-


zione, create non per il mercato infantile, ma per quegli adul-
ti – e sono parecchi – disposti a metter mano al portafoglio
per continuare a coltivare la passione infantile.
I pretesti che casa Mattel individua per offrire nuovi pez-
zi agli avidi collezionisti sono innumerevoli: dopo aver cele-
brato le feste natalizie e indossato i costumi tradizionali del-
le più lontane province del pianeta, Barbie con la serie Great
eras si tuffa nel passato, vestendo con la medesima disinvol-
tura i panni di signora di un maniero medievale o i sontuosi
vestiti à la page nella Francia napoleonica o addirittura le au-
guste vesti della regina Elisabetta I d’Inghilterra; con la serie
Great fashion ripercorre la storia della moda dal 1919 al 1979;
elegantissimi sono gli abiti che si drappeggia addosso con la
serie Princesse; fantasmagorici i colori della serie dedicata ai
pittori, che annovera bambole ispirate a Monet, Van Gogh e
Renoir, come anche quella denominata Birdy of Beauty, dove
gli uccelli di perfetta bellezza, in attesa d’altro, sono il pavo-
ne, il fenicottero e il cigno, o l’altra ispirata ai Flowers, o quel-
la delle Fairies o dello Zodiac: un labirinto in cui si districano
solo gli amanti del genere; e poi ancora la serie del Classic bal-
let, dove Barbie indossa i più vezzosi tutù della storia del bal-
letto; la serie American stories, dove veste ancora una volta i
panni dell’indiana d’America (anche se non vanno confusi
con quelli portati nella serie delle Barbie nel mondo, qualcu-
no potrebbe aversene a male!), e poi quelli di pellegrina al se-
guito dei Padri approdati sulle coste orientali nel lontano
XVII secolo, di colona, di rivoluzionaria e patriota (con tan-
to di giubba blu e cappello piumato per difendere i diritti del-
le colonie nei confronti della rapace Inghilterra), e infine di
infermiera durante la guerra civile. Ricercate, non solo dai
collezionisti di Barbie, sono tutte quelle bambole che richia-
mano un altro marchio (Coca-Cola, Harley-Davidson, Ferra-

125
ri): esempio riuscito di marketing incrociato, riescono a tro-
vare appassionati anche fra coloro che collezionano quanto
appartenga al marchio giustapposto.
Fra le bambole più ambite dai collezionisti vi sono quelle
che celebrano il mondo hollywoodiano, dove Barbie imita
Rossella O’Hara dell’indimenticabile Via col vento, pavoneg-
giandosi nell’abito bianco e verde della festa alle Dodici
Querce, nello splendido abito verde realizzato con le tende
di casa o in quello sfrontatamente rosso con cui Rhett Butler
la conduce a un ricevimento; oppure rievoca l’amatissimo My
Fair Lady, prima con le umili vesti da fioraia e poi con i più
eleganti abiti indossati nel corso della commedia dalla prota-
gonista, Audrey Hepburn. Sempre alla Hepburn, nei panni
di Holly Golly di Colazione da Tiffany, è dedicata un’altra
bambola. Ma forse, gli abiti hollywoodiani che con maggior
piacere Barbie indossa sono quelli di Marilyn Monroe, da
quello rosso fuoco di Come sposare un milionario a quello ro-
sa acceso di Gli uomini preferiscono le bionde all’immortale
plissé svolazzante di Quando la moglie è in vacanza... La con-
sonanza fra le due dive, nate a pochi chilometri di distanza
l’una dall’altra, nella stessa assolata California, è tale che Bar-
bie non disdegna di cancellare i propri tratti, per assumere
quelli, pieni di innocente sensualità, di Marilyn, ricordando-
la con quel vestito scandalosamente cucito addosso un atti-
mo prima di intonare in un sussurro pieno di sottintesi
«Happy Birthday» al presidente Kennedy.
Ugualmente ricercate sono le bambole vestite e truccate
dalle grandi firme della moda attuale: Armani, Burberry,
Escada, Bill Blass, Oscar de la Renta, Ralph Lauren, Calvin
Klein, Donna Karan, Versus, Versace...
Troppo giovane per vestire un autentico Christian Dior,
che ispirò però i suoi primi sarti, ultimamente Barbie, per tut-
ti gli appassionati di moda, ripropone anche gli abiti che lan-
ciarono il new look, per i quali il suo fisico sembra creato.
Particolarmente amate dagli intenditori sono le bambole
truccate e vestite da Bob Mackie, un famoso costumista hol-

126
lywoodiano, che con Barbie come modella sembra aver tro-
vato un medium ideale di espressione. Abiti impressionanti,
ispirati ai disegni stilizzati e fantasiosi di Erté o ai più rutilanti
musical cinematografici, ricchi di ricami, di paillettes, di ra-
cemi, di volumi solidi che inventano imponenti colletti e rein-
ventano la figura femminile, coprono bambole con un truc-
co innovativo, che definisce nuovamente i lineamenti accor-
dando l’espressione alla magnificenza delle vesti.
Non tutte le bambole vengono prodotte nella stessa quan-
tità, né realizzate secondo la richiesta del mercato. Le diver-
se serie sono divise in quattro insiemi: pink, silver, gold e pla-
tinum. Le pink sono le più comuni, realizzate in numero illi-
mitato; solo 50.000 fortunati possono invece vantare il pos-
sesso di una bambola di classe silver; a 25.000 sono riservate
le gold; mentre croce e delizia dei collezionisti di tutto il mon-
do sono le platinum, rigorosamente prodotte in numero di
1000, per accendere quella smania di possesso che solo chi
colleziona conosce.
Rafforza la febbre il fatto che casa Mattel attua la vendita
non solo attraverso i canali tradizionali, ma anche per corri-
spondenza e con le televendite, commercializzando alcun mo-
delli solo in ambiti particolari (un fan club specifico, un sin-
golo mercato nazionale, un unico continente). In questo mo-
do si scatena la caccia spasmodica alle rarità e si fanno salire
ulteriormente le quotazioni di oggetti già estremamente cari
rispetto al prodotto riservato al normale gioco infantile. Ma i
collezionisti più entusiasti – e sono tanti –, oltre a seguire quan-
to promuove la casa madre, sono anche fra i promotori e i fre-
quentatori assidui di appuntamenti annuali irrinunciabili.
Grazie a un tam tam che l’utilizzo del web ha amplificato
e perfezionato, gli appassionati si riuniscono per mostrare,
vendere, comprare, scambiare bambole e accessori. In que-
ste fiere si aggirano genitori che, lasciati a casa i pargoli, non
vogliono assolutamente rinunciare ai propri balocchi. Aggi-
randosi fra soli adulti, non sono colpiti tanto dalle collezioni
«filologicamente» corrette. Naturalmente, dinanzi alla prima

127
Barbie, che occulta con il mitico costume bianco e nero del
suo debutto il marchio sulla natica destra

Barbie™
Pats. Pending
© MCMLVIII
by
Mattel
Inc.

non manca il sorriso che l’intenditore riserva alla rarità, così


come dinanzi al suo colorito pallido, giustamente da signora
d’altri tempi, un pallore che nelle edizioni successive si andrà
sempre più riscaldando, fino ad assumere le mille sfumature
che contraddistinguono le diverse origini etniche che la bam-
bola interpreta oggi. Ma l’autentica meraviglia è riservata alle
creature di cui i veri amanti della bambola sono orgogliosi e
che scatenano gli istinti più bassi degli appassionati: le OOAK,
«one of a kind», uniche al mondo. Si tratta di bambole alle
quali con infinita pazienza e una discreta quantità di acetone è
stato cancellato il trucco originale. Con mano ferma e grande
perizia, l’occhio sempre rivolto alle proposte più innovative
delle sfilate di moda, si è proceduto poi a truccare nuovamen-
te il viso con nuove vernici, fornendo la bambola di nuove lab-
bra, nuove sopracciglia e un’iride di colore totalmente nuovo.
Anche i capelli sono stati acconciati liberamente mentre la fan-
tasia si è sbizzarrita nel realizzare vestito e accessori, la cui uni-
cità è garantita dal creatore con certificati o etichette speciali.
Impossibile elencare i soggetti ispiratori: le OOAK fanno vera-
mente interpretare a Barbie, talvolta in compagnia di Ken,
ogni ruolo possibile sul pianeta e fuori, e sempre con una ge-
nerosità di mezzi e una mancanza di ogni senso della misura
impensabili per un prodotto industriale.

Ancora una volta casa Mattel non è stata a guardare. Per


venire incontro alle esigenze di questo target di mercato ca-

128
ratterizzato da desideri «lussuosi», quando non «lussuriosi»,
ha creato una serie di bambole decisamente raffinata nel suo
genere. Con un nuovo materiale, pesante come la porcellana
e particolarmente voluttuoso al tatto, il silkstone, ha realizza-
to delle bambole che riprendono nei tratti del volto le Barbie
dei primi anni, rinverdendone oltremodo i fasti d’antan con
un guardaroba di taglio e realizzazione sartoriale, accurato
fin nei più insignificanti particolari. Per loro, in omaggio a
una particolare clientela, è concepito un nuovo packaging, in
cui il rosa decisamente pacchiano che contraddistingue la
maggior parte delle confezioni tradizionali non compare.
Una discreta scatola bianca e blu contiene quello che per
molti è un autentico oggetto del desiderio, tenuto da nastri di
raso che non ne possano scalfire la setosa superficie. A que-
ste bambole, particolarmente rifinite anche nella struttura del
corpo e già in elegante posa da mannequin, i creatori di OOAK
dedicano il meglio della loro fantasia per poi esporle e ven-
derle in apposite occasioni (fiere specializzate, concorsi, con-
vention a tema e così via). Non sfigurano accanto a queste le
OOAK derivanti da bambole che hanno visto giorni migliori e
che sembravano condannate a un presente squallido e a un
futuro infelice: bambole trovate per caso nelle soffitte o nei
mercatini, danneggiate da giochi energici o dagli inevitabili
sadismi infantili, che vengono riparate, ritruccate e rivestite
(«customizzate» si dice fra gli addetti ai lavori) per rivivere
una nuova gioventù con uno splendore di cui neanche appe-
na sfornate dalla fabbrica hanno goduto.
Nelle mani di questi spregiudicati creatori, Barbie si libe-
ra dalle remore giovanili e se pure non convola ad agognato
talamo, si scrolla di dosso l’aria candida con la quale ha con-
quistato (e tormentato) generazioni di ragazzine, per assu-
mere espressioni navigate che meglio si confanno a una fan-
ciulla da tanto tempo sotto la luce dei riflettori. Certo, a vol-
te i suoi magnifici costumi più che a una signora al ballo
dell’ambasciata rischiano di farla assomigliare a una drag
queen in pieno spettacolo: ma è un inconveniente che in mol-

129
ti sono disposti a correre, pur di appropriarsi di una di que-
ste pupe sopra le righe. Una volta ghermito il tesoro, il colle-
zionista può goderlo nel chiuso delle proprie mura; ma più
spesso ormai, complice la rete, gli appassionati allestiscono
vetrine dove mostrare orgogliosamente i propri pezzi unici,
oltre a tutto il resto. Le bambole eccezionali fungono spesso
da richiamo per piazzare presso acquirenti altrimenti irrag-
giungibili pezzi più ordinari, meno pregiati, ma non per que-
sto privi di un valore commerciale. Impossibile dinanzi a lo-
ro non pensare alla descrizione fatta da Walter Benjamin di
Eduard Fuchs, un collezionista non solo desideroso di in-
grandire la propria collezione ma, nell’era della riproducibi-
lità tecnica, di diffonderla sul mercato e di trarne un qualche
vantaggio economico. I collezionisti più generosi elargiscono
suggerimenti per gli acquisti o consigli per personalizzare le
proprie bambole; i più sentimentali arricchiscono le didasca-
lie con il racconto delle traversie incontrate per conquistare
l’amata, prima di ostentarla all’occhio dei più. E non manca
chi le fa recitare storie che si compongono scatto dopo scat-
to, facendone un’interprete di fotoromanzi cibernetici.
In queste personalissime vesti dotate dell’ineguagliabile
pregio dell’unicità, se non sempre e necessariamente del
buon gusto, Barbie – sia con il vezzoso broncio delle pregia-
te silkstone sia con il sorriso smagliante della dozzinale Su-
perstar – appare finalmente libera dall’obbligo di insegnare
qualcosa e rischia di apparire quasi affascinante al profano,
che dimentica il profluvio di rosa in tutte le sfumature e la
proliferazione bulimica di accessori per rimanere inebetito.
Quello che vive Barbie, una volta passata dalle mani di origi-
nali creatori, è la possibilità di nuove avventure, meno ste-
reotipate di quelle concepite in casa Mattel e più aderenti ai
sogni di un singolo. Proprio questo sembra muovere quanti
trascorrono il proprio tempo libero a disegnare nuove mises
per la loro bambola preferita, a realizzare accessori che ri-
producano come perfette miniature quelli al momento in vo-
ga, a costruire perfette ambientazioni dove posizionarla. Bar-

130
bie con il suo fisico iperrealistico offre la possibilità di creare
un mondo fittizio ma estremamente rappresentativo di quel-
lo reale: la distanza e la distorsione tra realtà e rappresenta-
zione stanno nell’eliminazione di ogni particolare che possa
turbare l’armonia voluta dal suo creatore. Il bizzarro mondo
che il customer realizza è pertanto estremamente sicuro, ma
al tempo stesso in grado di incantare uno spettatore qualun-
que. Quello che Barbie ha offerto e offre a quanti hanno or-
mai da tempo abbandonato l’età dei giochi è la possibilità di
una second life, dalla ricca tattilità e con il vantaggio di ap-
puntamenti periodici con i propri simili e un pubblico posi-
tivamente colpito. Come la Second Life che si affaccia dagli
schermi del computer è solo un gioco e non ha alcun senso
per i profani scandalizzarsi: si tratta di adulti. Consenzienti.
È bello ciò che è bello

Malgrado le interminabili variazioni cui la costringe il suo


pubblico di appassionati, malgrado le mille sfumature che as-
sumono chioma e iride, nell’immaginario collettivo Barbie è
bionda con gli occhi azzurri. Non è un caso: si tratta di un bi-
nomio cromatico armonico per antonomasia e latore di per-
fetta bellezza.
In un Mediterraneo olivastro, dalla spuma delle acque del
mare Egeo nasceva la bionda Afrodite, le cui chiome erano di
uno splendente color oro, quanto mai lontane da ogni ruggi-
nosa imperfezione, e quindi da corruzione e morte, come
scriveva la poetessa greca Saffo. Biondi, naturalmente, erano
i lunghi capelli della bella Elena, vero pomo della discordia
fra il troiano Paride e il greco Menelao.
Dal mito alla realtà, i capelli chiari sono sempre stati em-
blema di bellezza. Le matrone romane amavano che le loro
chiome rifulgessero sotto i raggi del sole. E se nell’oscuro Me-
dioevo le ciocche bionde venivano guardate con sospetto,
l’umanista del XIV secolo, Jacopo Alighieri, figlio del più fa-
moso Dante, rinveniva nei riccioli biondi un netto segno di
chiara bellezza, in accordo con l’innamorato Francesco Pe-
trarca che sospirava sui «capei d’oro a l’aura sparsi» dell’ama-
ta Laura.
L’eleganza rinascimentale ingabbiò le gentildonne di cor-
te in severi bustini e pesanti gonne, lasciando visibile solo la
parte superiore del busto e il volto. Nella concezione della
bellezza del tempo, l’ordine estetico doveva replicare quello
cosmico. Pertanto, le parti superiori venivano mostrate,

132
quando non ostentate, poiché, come le regioni celesti, erano
degne della migliore attenzione; al pari di quelle, che aveva-
no nel sole il loro principale bagliore, esse erano come illu-
minate dalla chioma bionda.
Non casualmente, nella trattatistica riservata alle signore
del tempo, i consigli su come ottenere capelli biondi, folti e
ondulati si moltiplicavano. Caterina Sforza, nei suoi famosi
Experimenta pubblicati nel 1504, consigliava alle brune di il-
luminarsi utilizzando impacchi di fiori di lupino mescolati a
salnitro, zafferano e altre sostanze e avendo poi cura di far
asciugare i capelli al sole.
A Venezia si scomodò addirittura Tiziano per mettere a
punto la tintura per «capelli file d’ore», necessaria a ottenere
il cangiante «biondo veneziano» che le signore amavano sfog-
giare: 2 libbre di albume, 6 once di zolfo nero e 4 once di mie-
le distillato con acqua. Cosparso il capo con la mistura, le va-
nitose gentildonne si ritiravano sopra i tetti delle case, in «al-
cuni edifici di legno quadri, in forma di logge scoperte, chia-
mate altane». Qui, «con una sponzetta ligata alla cima di un
fuso» bagnavano ripetutamente le chiome presto asciutte a
causa del sole e dell’aria aperta, non temendo il «colmo del
gran calore del sole, sopportando molto per questo effetto».
Naturalmente biondi erano i boccoli dell’affascinante Lu-
crezia Borgia, che da un noto ritratto fissa lo spettatore con
un occhio limpidamente azzurro, altro segno di perfetta bel-
lezza che attraverso i secoli si manterrà costante, malgrado i
molteplici cambiamenti di gusto. Anche le forme di Barbie,
al di là delle esagerazioni, parlano all’occhio occidentale di
una «perfetta bellezza». Naturalmente, per riconoscerla qua-
le modello esemplare non occorre risalire fino a tempi mitici:
solo nel corso dell’Ottocento le curve femminili cominciaro-
no a divenire visibili in società e fu possibile rintracciare an-
che nelle linee del corpo il segno della bellezza. Naturalmen-
te furono i tempi, il dinamico Ottocento e il frenetico Nove-
cento, a dettare le condizioni della silhouette: non si trattò so-
lo della ricerca di una maggiore comodità a far indovinare

133
sotto i vestiti i profili femminili. La scoperta della villeggia-
tura marittima – magnifica invenzione della contemporaneità
– si accompagnò alla «scopertura» delle membra. Anche le
donne vollero un fisico asciutto, modellato dalla ginnastica e
dalla vita all’aria aperta, che non le facesse sentire goffe men-
tre si muovevano per la prima volta libere sulle spiagge.

L’affinamento fisico, però, in Barbie, data la sua origine


teutonica che la vuole gradevole strumento di piacere e vigo-
roso agente demografico, non può cancellare quelle roton-
dità che immediatamente fanno pensare alla voluttà e alla ma-
ternità. Le cosce affusolate, dove è impossibile immaginare
anche un solo sospetto di cellulite – di cui non a caso le don-
ne cominciarono a preoccuparsi a inizio Novecento –, e i pol-
pacci sottili che rimandano alle immagini levigate immortala-
te in Olympia da Leni Riefenstahl o alle linee tese della sta-
tuaria di Arno Breker sono innestati su un busto disponibile
a ogni voluttà.
Capace di coniugare armonicamente il passato più lonta-
no con il presente, Barbie rinviene negli abiti che ne amplifi-
cano o cancellano la morbida femminilità o la passione spor-
tiva i migliori alleati, interpretando al meglio l’attuale post-
modernità dalla facile plastica facciale e/o corporale e veico-
lando con estrema facilità quel principio, alla base di tante
operazioni di medicina estetica, secondo cui è la volontà a
modellare il corpo.

Non è però esclusivamente quello il messaggio che nella


sua misura ridotta la bionda fanciulla trasmette con il suo
aspetto radioso. Nell’Occidente dall’instancabile lavorio in-
tellettuale, la bellezza non è stata mai solo, o semplicemente,
qualità esteriore: essa, come compendiava ai primi del Sei-
cento Cesare Ripa nella sua famosa Iconologia, riprendendo
un concetto elaborato dal cistercense abate Suger, vissuto se-
coli e secoli prima, è sempre stata ritenuta «splendore che de-
riva dalla luce della faccia di Dio». Tramite l’osservazione del

134
volto e del corpo si possono scoprire messaggi reconditi, co-
me sostiene ancora nell’illuminato Settecento, in termini cer-
to polemici con il razionale spirito del secolo, ma non per
questo inascoltati, lo scrittore tedesco Johann Kaspar Lava-
ter, che afferma il valore euristico della fisiognomica.

Se ogni granello di sabbia, se ogni fogliolina contiene in sé l’Infi-


nito, l’uomo, il quale è sintesi dell’Universo, deve attraverso il cor-
po, a cui il suo Spirito è indissolubilmente legato, cogliere le intime
armonie spirituali di cui è l’espressione, e d’altro canto le deficienze
di una materia, sorta a rispondere all’energia plastica dell’Idea che
in essa intende reincarnarsi.

Ancora fra Otto e Novecento, negli scritti di Rudolf Kas-


sner, autore dei Fondamenti della fisiognomica, come in quel-
li di Cesare Lombroso la fisiognomica è uno strumento per
comprendere in maniera piena la realtà. Chi utilizza lo stru-
mento fisiognomico ne trae la possibilità di conoscere anche
le reazioni emotive, in quanto i tratti somatici rimandano a un
preciso «tipo» con una determinata indole, che reagirà alle
contingenze in una serie di predeterminati modi e non in altri.

Con i suoi capelli biondi e gli occhi turchini, la pelle rosa-


ta e il seno prosperoso Barbie riesce a esprimere le profon-
dità altrimenti insondabili del suo animo. Ciò che corpo e
volto di Barbie raccontano contribuiscono a definire un pro-
filo peculiare di una bambola che non vuole essere semplice-
mente «bella», come è facile comprendere sulla scorta di
quanto recita il trattato di Giovan Battista Della Porta nel
1599, poi tradotto in volgare nel 1610 e i cui principi, bana-
lizzati e filtrati attraverso i secoli, fanno tuttora parte della
cultura comune. Il capo, in proporzione di poco più grande
rispetto al collo su cui insiste, indica buon senso, grande in-
telligenza e animo magnanimo. Unito a spalle larghe e forti
nonché a un torace ampio (e qui Barbie non ha nulla da invi-
diare a nessuna) denota inoltre una notevole carica carisma-

135
tica. La carnagione chiara, leggermente rosata e altrettanto
lievemente abbronzata, è segno di una non comune capacità
di apprendimento. Soprattutto questa sfumatura rosea ri-
manda a Venere, dea della bellezza e della seduzione amoro-
sa, la cui influenza rende dotati di ogni fascino uomini e don-
ne. Le virtù, che la carnagione denota, sono amplificate quan-
do, come accade a Barbie, si accompagnano con sorridenti
occhi azzurri, segno di capacità superiori, quasi divine. Il tut-
to appare concluso e compendiato nella chioma bionda, sim-
bolo di altissime qualità umane e intellettuali.

Le mille qualità che chi ha la fortuna di possedere ciocche


dorate fra Cinque e Seicento potrebbe ostentare non sem-
brano più riguardare le bionde preferite dagli uomini di Ani-
ta Loos nel 1925, che stigmatizzò l’idea della bionda soave-
mente svampita: una convinzione che si stagliò indelebil-
mente nell’immaginario collettivo una volta che, nel 1953, il
personaggio della bionda Lorelei venne magistralmente in-
terpretato da Marilyn Monroe in Gli uomini preferiscono le
bionde.
A partire da questo momento, per le bionde la sorte sem-
bra segnata. Solo al volgere del nuovo millennio dai grandi
schermi si proietta sulla realtà La rivincita delle bionde. Non
è un successo epocale e la chiara Reese Witherspoon, che in-
terpretando il ruolo principale combatte lo stereotipo della
bionda bella e stupida, riesce a mietere successi nella seria e
intellettuale Harvard non può certo vantare il successo di al-
tre platinate, di ben altro rilievo. Del resto, sono i tempi a
sdoganare le bionde, di vispo intelletto e di bell’apparenza:
come Barbie, assai più di qualsiasi sbiadita e saccente Mary
Poppins, per antonomasia «praticamente perfetta sotto ogni
aspetto».
La donna perfetta

È la perfezione l’autentica cifra di Barbie. Il suo mondo, sia che


venga concepito dagli attenti progettisti di casa Mattel sia che
rappresenti il frutto delle sfrenate fantasie e degli innamorati
sensi del collezionista, è sempre un’interpretazione della
realtà accuratamente accomodata affinché la bionda fanciulla
non debba in nessun modo esperire il seppur minimo senso di
disagio. La moltitudine degli accessori fa sì che Barbie non pa-
tisca alcun bisogno, neanche quando aspira al più voluttuario
dei consumi. L’apollinea radiosità non è scalfita dal disap-
punto per la camicia sudata e le scarpe strette o dal fastidio per
una puntura di zanzara, dalle quotidiane seccature per i servi-
zi pubblici non funzionanti o anche solo dall’indefinibile ug-
gia pomeridiana: questi inconvenienti non trovano posto in un
universo costruito trascurando ogni possibile spiacevolezza.
Naturalmente, sono bandite anche le devastanti passioni che,
se pure animano tanta letteratura, hanno notoriamente pessi-
mi risvolti: nel migliore dei casi fanno colare il mascara, nel
peggiore conducono sull’orlo dell’abisso senza alcun gadget
utile come parapetto. La vita di coppia, quasi mai per Barbie,
ha assunto la sconvolgente sfumatura dell’amore. Ken, fin
quando è stato sulla cresta dell’onda, è stato trattato con ri-
spettoso distacco; Big Jim, con il quale si vocifera abbia avuto
una fugace ma segreta e focosa liason, è caduto nel dimentica-
toio, sembra senza particolari conseguenze; e anche l’aitante
surfista Blaine, dopo una stagione di innocente corteggiamen-
to, è stato irrimediabilmente trascurato. Non che Barbie non
ami le sfrenatezze: la bulimia con la quale ammassa abiti e ac-

137
cessori ne è una prova non larvata. Ma le frenesie d’acquisto
sono sempre dissimulate dal sorriso composto, che sottolinea
l’imprescindibilità esistenziale dell’ultimo acquisto: «Ma co-
me vuoi che guidi se non ho il fuoristrada con l’aria condizio-
nata e il lettore cd?»; «Si può vivere senza televisore al pla-
sma?»; «Devo assolutamente avere una piscina in tono con il
mio ultimo costume da bagno!».
Con falsa ma saputa modestia Barbie si emancipa da una
vita all’insegna della scomoda imprevedibilità, per adagiarsi
in una comoda quotidianità, tagliata su misura per i suoi tren-
ta centimetri scarsi e per i suoi sogni di fanciulla borghese con
nessun desiderio di rivolta. Il suo mondo, del resto, può solo
continuare a espandersi, in un’infinita bramosia d’accumulo:
il fatto stesso di essere di plastica lo rende in odor di eternità,
privo della facoltà di decomporsi, incorruttibile perlomeno
per un minimo di quattrocento anni: perfetto, al pari di colei
per la quale è stato edificato.
Non è un caso che sceneggiatori, scenografi e costumisti
del film La donna perfetta (tardo remake della Fabbrica delle
mogli, storia di una casalinga con una forte passione per la fo-
tografia, uscito nel 1975, in pieno rigoglio della protesta fem-
minista) sembrino ispirarsi a Barbie e al suo mondo per trat-
teggiare il mondo privo di pecche dove si rifugia la protago-
nista Joanna (la bionda Nicole Kidman), ex workalcoholic
scioccata da un insuccesso sul lavoro. La cittadina di
Stepford, dove Joanna viene portata dal marito insieme ai fi-
gli per ritemprarsi, è composta da lussuose ville circondate da
rigogliosi giardini; tutte le donne sono attraenti, curatissime
e tutte si dedicano interamente al marito, alla casa e alla fa-
miglia, consigliate dalla fondatrice della cittadina, Claire
Wellington (una splendida Glenn Close); gli uomini si riuni-
scono al circolo cittadino, dove trascorrono il tempo a gioca-
re a carte, bere alcolici e fare conversazione, sotto la carisma-
tica guida del marito di Claire, Mike. La donna in carriera che
è in Joanna è stupita e disgustata da quanto vede accadere a
Stepford: le riunioni al circolo culturale femminile, dove si

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commentano capolavori letterari sull’arte degli addobbi na-
talizi o dell’inappuntabile cottura dei dolci, la ginnastica in
tacchi a spillo e i colori pastello immancabilmente scelti per
l’abbigliamento da tutte le sue concittadine. Ma ben presto il
mistero viene svelato: prima allo spettatore, poi a Joanna. Le
mogli di Stepford sono state sottoposte a un trattamento che
ne ha annullato la vera personalità e le rende zuccherose e
servizievoli robot: donne «perfette». Prima della lobotomia
erano persone di grande successo e carisma, sposate a uomi-
ni banali e inconsistenti, che dopo anni di frustrazioni assa-
porano, senza mai saziarsene, il gusto, mai provato, della su-
periorità. Anche Joanna, dopo giorni di permanenza nella cit-
tadina, appare trasformata: lasciati sulle grucce i severi com-
pleti neri da manager, eccola sbocciare da morbide gonne
mentre sulle spalle ondeggiano le lunghe chiome bionde; una
Barbie in carne e ossa, che con incedere gentile spinge il car-
rello del supermarket riempiendolo di ogni bendidio e ri-
sparmiando al consorte anche le più lievi fatiche domestiche,
prima – immaginiamo – di soggiacere arrendevolmente alle
sue voglie. Il colpo di scena finale assicura lo spettatore che
Joanna ha finto ogni docilità per smascherare la falsità del
mondo di Stepford, un mondo all’interno del quale le donne
sono «perfette» nella misura in cui assecondano i più biechi
desideri dei mariti, e assecondano i più biechi desideri dei
mariti nella misura in cui i loro naturali sensi sono obnubila-
ti costringendole a una vita di bambole.
Bambola plasticosa, sottomessa e festaiola, ridanciana
eroina di un fantastico mondo tutto di plastica è la protago-
nista dell’innocente canzoncina estiva Barbie Girl del gruppo
danese Aqua. Il loro leader Søren concepisce il ritornello pas-
sando dinanzi a un locale di Copenaghen dove fanno bella
mostra di sé delle bambole luccicanti nei loro vestiti di raso.

Hi Barbie!
Hi Ken!
Do you wanna go for a ride?

139
Sure Ken!
Jump in...

I’m a Barbie girl, in a Barbie world,


Life in plastic, it’s fantastic!
You can brush my hair, undress me everywhere,
Imagination, life is your creation.
Come on Barbie, let’s go party!

[...] I’m a blond bimbo girl, in the fantasy world,


Dress me up, make it tight, I’m your dolly.
You’re my doll, rock’n’roll, feel the glamour in pink,
Kiss me here, touch me there, hanky-panky...
You can touch, you can play, if you say: «I’m always
yours».

[...] Make me walk, make me talk, do whatever you please.


I can act like a star, I can beg on my knees.
Come, jump in, bimbo friend, let us do it again,
Hit the town, fool around, let’s go party.
You can touch, you can play, if you say: «I’m always
yours».

[...] Oh, I’m having so much fun!


Well Barbie, we’re just getting started.
Oh, I love you Ken!

Ciao Barbie! / Ciao Ken! / Vuoi fare un giro? / Certo Ken! /


Salta su! / Sono una ragazza Barbie, in un mondo Barbie, / la vita
nella plastica è fantastica! / Puoi spazzolarmi i capelli, denudarmi
tutta, / immaginazione, la vita è una tua creazione. / Vieni Barbie
andiamo a divertirci. / Sono un’oca bionda in un mondo di fanta-
sia. / Mettimi il vestito, stringilo, sono la tua bambola. / Tu sei la
mia bambola “rock and roll”, segui la moda del rosa. / Baciami qui,
toccami lì, facciamo del sesso. / Puoi toccare, puoi giocare, se lo di-
ci sarò sempre tua. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Vieni Bar-
bie andiamo a divertirci. / Fammi camminare, fammi parlare, fai
quello che vuoi. / Posso recitare come una diva, posso chiedere in
ginocchio. / Vieni salta su amica oca facciamolo ancora. / Fai col-

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po sulla città, vaghiamo, andiamo a divertirci. / Puoi toccare, puoi
giocare, se lo dici sarò sempre tua. / Vieni Barbie andiamo a diver-
tirci. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Oh mi sto divertendo
moltissimo! / Beh Barbie, abbiamo appena cominciato. / Oh ti amo
Ken!

Nel ritrarre la bambola e il suo mondo, secondo casa Mat-


tel che dopo aver letto attentamente il testo intenta loro una
causa miliardaria, Søren, Claus, Lene e René, componenti de-
gli Aqua, sottolineerebbero tutti gli aspetti che qualificano
Barbie come plasticoso oggetto sessuale. Cedere al focoso de-
siderio del maschio è, in effetti, pregio primo e indubbio del-
la «donna perfetta»; il secondo è non darlo a vedere sfaccia-
tamente. Barbie, che avvolge in drappi di un ingenuo rosa
confetto il seno provocante, è ampia dimostrazione di ciò.
Probabilmente parte del suo successo è proprio dovuto al ni-
codemismo sessuale, come ben sa casa Mattel che, malgrado
continui a vestirla e svestirla seguendo i dettami della moda,
tutela costantemente il buon nome e la moralità della sua pro-
tetta: gli Aqua hanno messo il piede su un terreno minato.
Così la casa discografica Universal, distributrice del gruppo
negli Stati Uniti, per evitare uno scontro con la potente in-
dustria produttrice di giocattoli, decisa non solo a ottenere il
risarcimento dei danni per la lesa immagine della sua pupilla
ma anche il ritiro dal commercio di tutte le copie della can-
zone, arriva a scrivere sulle confezioni del singolo: «La can-
zone Barbie Girl è un’espressione di critica sociale e non è sta-
ta creata o approvata dai produttori della bambola». Fatica
sprecata in quanto la canzone serve, semmai, alla fine degli
anni Novanta, a rilanciare l’immagine un po’ appannata di
Barbie: in molti credono che Barbie Girl sia un tributo alla
bambola più famosa del mondo.
Fra gli altri che difendono gli Aqua e il loro tormentone,
vi sono quelli che prendono spunto dall’aggressività della
Mattel per denunciarne il falso moralismo sugli argomenti ri-
guardanti la sfera sessuale. Valga per tutti quanto scrive in

141
una lettera aperta un ragazzo statunitense, che gestisce un si-
to dedicato agli Aqua:

Questa è una lettera aperta, pubblicata su Internet, diretta a


chiunque si preoccupi di ascoltarmi all’interno di una società sen-
za volto chiamata Mattel. [...] Il lato più triste della vicenda è che
l’immagine di Barbie che avete tentato di proteggere semplice-
mente non esiste. Il personaggio di Barbie fu creato approssimati-
vamente una quarantina d’anni fa (non ricordo l’anno esatto in cui
fu prodotta la prima bambola) ed è stata fidanzata con Ken per
buona parte di questo tempo (non so con certezza quando fu crea-
to il suo personaggio). Comunque, avete ritenuto per molti anni
che a Barbie non dovesse essere concesso di sposarsi – così Barbie
e Ken sono condannati a vivere per sempre nel peccato.
Dite che non vivono insieme? Quando avete visto, per l’ultima
volta, una casa, un appartamento o qualcosa del genere venduto
con il marchio di Ken? Ken ha forse una sua auto? O un lavoro?
Dipende in tutto e per tutto da Barbie – è il suo piccolo schiavo
d’amore, direi. In realtà, quando avete ideato Barbie & The
Rockers, Ken non ne faceva parte. Quando il pubblico se ne rese
conto, voi avete rimediato alla bell’e meglio, aggiungendolo, in ri-
tardo, alla band.
Di recente avete cominciato a vendere dei fratellini e delle so-
relline di Barbie e Ken. Mi spiace per voi, ma sembrano piuttosto
i loro bambini. Ma loro non possono avere bambini, dal momento
che non sono sposati, e così li chiameremo fratellini, per nascon-
dere il fatto che Barbie ha avuto figli fuori dal matrimonio (dal mo-
mento che abbiamo stabilito che non si è mai sposata).

La lunga lettera demolisce la presunta «perfezione» di


Barbie, la cui innaturalità nei comportamenti sessuali fa ipo-
tizzare «imperfette» tresche degne di un pontefice del primo
Rinascimento: figli avuti fuori dal matrimonio, in una rela-
zione tutto sommato clandestina con un «perfetto» uomo og-
getto, oltretutto nullafacente; la sordida copertura di una pa-
rentela fittizia per celare quella autentica...
In effetti, Barbie, con l’impudicizia delle sue forme coniu-
gata con l’atteggiamento puritano impostole dai suoi produt-

142
tori, non può non sottrarsi alle ambiguità. L’ardito giovane
che osa puntare il dito contro casa Mattel non è un’eccezio-
ne nel mondo occidentale, dove Barbie ha talmente occupa-
to l’immaginario, infantile e non, da suscitare più diffidenza
che simpatia e, spesso, più odio che apprezzamento. Sicura-
mente, nella disincantata Europa, in parte indifferente grazie
al cattolicesimo ai turbamenti sessuali, in parte emancipata
dal femminismo, non sono le sinuosità di Barbie a scatenare
istinti distruttivi nei suoi confronti. Turba molto di più la sua
immarcescibile perfezione, la sua innata capacità di non pro-
vare mai un momento di imbarazzo o di non trovarsi mai fuo-
ri posto, come quelle «donne perfette», senza un ricciolo in
disordine o coreograficamente trasandate in lingerie di pizzo,
che sorridono dalle pagine dei giornali o dagli schermi della
televisione, assorte nella lettura di poderosi tomi nei momenti
di tempo libero, ma pronte ad agghindarsi per l’happy hour,
proprio il giorno prima di un colloquio di lavoro, che natu-
ralmente le vedrà magnificamente a proprio agio e in grado
di colpire favorevolmente l’interlocutore, per l’eleganza del
loro tailleur oltre che per la brillantezza dell’eloquio, in una
girandola di situazioni che vedrebbero le «donne normali»,
generalmente dotate di mutande dall’elastico slabbrato e del
buon proposito di andare dal parrucchiere più spesso, tre-
mare come foglie in vista del «d-day» con l’insano, e libera-
torio, desiderio di barrire al mondo la loro vera e vibrante im-
perfezione.
Ti odio!

Al di là dell’invidia per l’amica (amica? conoscente!) che non


ha mai un capello fuori posto, se proviamo a farne una que-
stione di numeri, Barbie è guardata con diffidenza dai più e
detestata da molti. Poco male se l’acredine è nutrita da chi ha
superato i due lustri di età: compiuti i dieci anni, ormai, si è
già fuori dalla fascia ritenuta «interessante» in casa Mattel per
piazzare le prime Barbie Pink Label™. Se, infatti, fino a qual-
che anno fa la clientela attratta dalla bionda bambola e pron-
ta a impegnare costantemente le proprie paghette settimana-
li per dotarla del necessario si attestava alle preadolescenti,
oggi sono le bambine fra i quattro e i sette anni le principali
destinatarie di Barbie e di tutti i suoi accessori, la quale, si-
gnificativamente, nell’ultima stagione veste i panni delle prin-
cipesse delle favole. Per coloro che escono dalla scuola ma-
terna per approdare a quella elementare sono anche conce-
piti il necessaire per la scuola, le linee di abbigliamento, le cal-
zature e così via, che portano l’inconfondibile marchio bre-
vettato da casa Mattel. A loro sono destinati i videogiochi e i
film, dalle cui custodie la fanciulla occhieggia sorridente pro-
mettendo svago e libertà, rispettivamente, a bambine e geni-
tori. Per loro è concepito un apposito sito, declinato in cen-
toquaranta versioni – tante quanti sono i paesi dove la bam-
bola è presente sul mercato –, dove le possibilità di interagi-
re con Barbie si moltiplicano, nel tentativo di rendere fedeli
(o «fidelizzare» come si dice in gergo) delle utenti quanto mai
volubili, pronte nel fatidico passaggio dai sette agli otto anni
ad abbandonare spensieratamente e con malcelata indiffe-

144
renza chi per anni si è proposta come migliore amica e fidata
custode di tutti i segreti.
A poco serve il fatto che, per speciali occasioni come i com-
pleanni, Barbie sia anche disposta ad abbandonare le sue ro-
mantiche gonne fruscianti per vestirne una di pan di spagna,
marzapane e confettini. L’immagine di Barbie sorridente, an-
che se per metà coperta di sciroppo alla fragola e per l’altra
metà da un panettone glassato, che troneggia al centro di una
tavola imbandita, rimbalza da un sito all’altro per ispirare le
mamme in cerca di idee per festeggiare le figlie, ma altro non
sembra per la bionda nata e cresciuta con ben altre aspirazio-
ni che l’anticamera per quello che l’aspetta una volta cresciu-
ta la padroncina. Nel migliore dei casi Barbie viene lasciata a
marcire in un angolo (da dove forse in una fase particolare del-
la maggiore età verrà ripresa, vestita con più orpelli di una spo-
sa di provincia e truccata da travestito d’altobordo).
Ma può anche accadere che il congedo prenda la forma di
un rituale voodoo. Le cronache, sempre più spesso, fanno re-
gistrare Barbie con la testa rapata, il sorriso ridotto a sberleffo
con un pennarello, gli occhi pesti... per non parlare delle
braccia o delle gambe spezzate... o dell’arrostimento a colpi
di microonde... Nessun altro giocattolo ha subito e subisce
tante decapitazioni, scotennamenti e mutilazioni. L’accani-
mento con il quale tali pratiche sono state messe in atto, non-
ché la loro diffusione, il tutto unito alla notorietà di una bam-
bola che più di una volta si è attirata gli strali del mondo «cul-
to» e progressista, ha incuriosito frotte di ricercatori di psi-
cologia e li ha condotti a indagare sulle ragioni di un tale, pla-
teale, smaccato odio. E dato che la cosa si è ripresentata in
periodi diversi, in cui in maniera diversa Barbie dominava
mercato e giochi infantili, diverse sono state le diagnosi rila-
sciate. In passato, si è ipotizzato che tanto malanimo nei con-
fronti di un’imbelle pupattola al momento dell’abbandono
fosse causato proprio dal suo aspetto inequivocabilmente
adulto. Proprio l’obiettivo che la sua creatrice Ruth Handler
si era prefissa di raggiungere, quello di traghettare verso l’età

145
adulta le bambine, aiutandole tramite la bambola a prefigu-
rare il loro futuro, era alla base di un sadismo che trovava sfo-
go nella mutilazione. Sfigurando colpendo la prosperosa Bar-
bie, le bambine esprimevano tutto il loro dissenso nei con-
fronti di una crescita indesiderata e i timori per il passaggio a
quel «mondo dei grandi», dal quale non è possibile fare ri-
torno all’infanzia.
Oggi, gli eredi di quegli stessi ricercatori, osservando
l’estrema voluttà con la quale le bambine seviziano la loro
Barbie, danno della cosa un’interpretazione estremamente
differente. Sebbene immediatamente identificabile grazie al
bagliore del ciuffo biondo e all’indimenticabile rosa chewing-
gum, la moltiplicazione della bambola nelle sue mille versio-
ni, croce e delizia dei collezionisti, disorienta chi con Barbie
vuole solo giocare. La confusione che genera l’abbondanza
dei modelli è l’esatto contrario di ciò che deve necessaria-
mente possedere un giocattolo, tanto più se esso, come acca-
de per Barbie oggi, è indirizzato alla prima età scolare. Bar-
bie difetta di quella riconoscibilità che suscita l’affezione. E
da perfetta e indifferente sconosciuta, diventa il bersaglio di
tutte quelle crudeltà, che i bambini oggi possono sperimen-
tare direttamente dopo un’attenta osservazione in televisio-
ne. Afferma Agnes Nairn, autrice di uno studio sull’argo-
mento:

I bambini non parlano mai di una Barbie in particolare. Quan-


do ne parlano, fanno sempre riferimento a scatole piene di Barbie,
per cui per loro la bambola è quasi diventata il simbolo dell’ecces-
so. Le Barbie non sono speciali: sono usa e getta e vengono butta-
te via e rifiutate. Nell’intimo, è diventata un oggetto inanimato. Ha
perso quel calore individuale che forse aveva quando veniva per-
cepita come un individuo singolo. Questo potrebbe spiegare la vio-
lenza e la tortura.

La foga con cui gli infanti si esercitano sulle bambole sbia-


disce a fronte di quello, elaborato fino ad assurgere a forme

146
artistiche, di cui si dimostrano capaci gli adulti. Innumerevo-
li i motivi che conducono a colpire la fanciulla californiana e
a sottoporla a sevizie. In un Occidente satollo fino alla nau-
sea, l’indole consumistica di Barbie attira più di una critica.
Questa ragazzona mai contenta di quello che ha, e che a ogni
nuovo acquisto già pregusta il successivo, ancora più vistoso,
non può secondo i critici non influenzare negativamente
bambini e bambine: Barbie insegna ad acquistare non per
sovvenire a una necessità, ma semplicemente per acquistare
in sé e per sé, e incita all’acquisto continuo, interminabile, ar-
rivando ad assumere i tratti distorti e grotteschi di ancella del
consumismo. Accanto a una tale bramosa voracità, l’altro
motivo di rimprovero è la vieta riproposizione di luoghi co-
muni sulle donne e le loro facoltà intellettive: in una versione
parlante di qualche anno fa, Barbie afferma che «la lezione di
matematica è difficile», scatenando le ire di chi interpreta la
frase come «le ragazze non sono abbastanza intelligenti per
studiare matematica». Ulteriore antipatia scatenano quel suo
aspetto fisico inappuntabile e quel sorriso indelebile che nul-
la può scalfire.
La catarsi si può manifestare tramite gioielli che al posto
delle pietre ostendono brani del corpo di plastica dell’odiata
bambola come trofei di guerra: ciondoli con raggiere di nati-
che o di tette a formare un fiore, pendenti da cui ondeggia
un’ormai gelida manina, anelli con il noto sorriso e, si spera,
un valore apotropaico. Ma non sempre la brama di distru-
zione si accompagna a preoccupazioni estetiche e l’istinto di
profanazione e il bisogno di comunicazione possono manife-
starsi con insolite urgenze in coloro che, senza troppi com-
plimenti, espongono Barbie fatta a pezzi dentro un frullato-
re o sfigurata dal calore o dal vetriolo o, finalmente, mentre,
dovendo comunque proteggere la verginità, con doviziosa
lentezza si esercita in una fellatio con l’amato Ken, dalle pro-
tuberanze per una volta regolari.
Non mancano sfregi letterari, come quello, godibilissimo,
di Chiara Rapaccini, che in Povera Barbi, riporta la confes-

147
sione della bambola che dalle colline di Beverly Hills per ro-
vesci di fortuna, mai comunicati da casa Mattel, si è ritrovata
temporaneamente a vivere fra topi e cimici, abbandonata da
Ken fidanzatosi con una rivale.

Per il pomeriggio, mi ero confezionata uno scamiciato in tela di


sacco con toppe di cartone (collezione «Barbi sfigata: vita nel fan-
go») che indossavo con un certo cappellino fatto di tappi di birra e
ai piedi lattine di pepsi legate tra loro e fissate sotto alla pianta del
piede con la corda. Ogni tanto infatti rimpiangevo i tacchi, che ren-
devano le mie gambe affusolate ancora più eccitanti. La sera lavo-
ravo ai ferri (letteralmente, erano due ferri pescati in una discari-
ca), un maglione per Skifer, un gilè per me, oppure calzerotti per
tutti e due. La lana l’avevo sostituita con lunghi fili di paglia che a
dire il vero non erano morbidissimi, ma in compenso isolavano ma-
gnificamente dall’umido.
Ma dove mi sbizzarrivo era nei gioielli. I tappi dorati delle bot-
tiglie, gli avanzi di lamiera, i turaccioli, i noccioli di pesca, le lische
di pesce, si trasformavano nelle mie mani in allegre collane, lunghi
orecchini a pendaglio, bracciali da indossare a tutte le ore del gior-
no (vedi «Barbi sfigata-gioielli», collezione «L’allegra poverella»).

Anche in queste pagine deliziosamente sarcastiche Bar-


bie non riesce, però, a non risalire la china, a non avere un
successo eclatante e naturalmente a non dettare uno stile,
lo stile.

Un giorno inciampai per la strada e la gonna si impigliò in uno


spunzone. Ci fu uno strappo terribile all’altezza del sedere e me ne
dovetti tornare a casa con le mutande bene in vista tra gli sguardi
divertiti dei passanti. Un fotografo (in quei giorni mi perseguitava-
no) appostato dietro l’angolo, mi immortalò con la gonna bucata e
sporca di terra e polvere.
Il giorno dopo ero in prima pagina sulla cronaca di Denver.
«Barbi non finisce di stupirci! Da oggi la gonna si porta strap-
pata sul sedere!» Da quel momento non feci che incontrare signo-
re che portavano le sottane lacerate a bella posta sul didietro e per
di più imbrattate di fango.

148
Inutile dire che nel finale, Barbie lascia la discarica e tor-
na sulle colline di Beverly Hills, nuovamente con begli abiti e
con l’adorato Ken, nuovamente in tiro, pronta a riprendere
la solita vita e a riprendere le fanciulle di ogni età, nelle loro
quotidiane mancanze, con l’indice teso e un sorriso condi-
scendente. Certo, non è la sola a guardare dall’alto in basso
le ragazze che, per i più svariati motivi, hanno il girovita ap-
pesantito, il colletto della camicia gualcito, la calza sfilata...
Ancora oggi, i milioni di donne che nel mondo guidano au-
tobus e trattori, si destreggiano tra provette e manoscritti,
asfaltano strade e sminano campi, non riescono a dominare
l’angoscia che le assale per l’«imperfezione» del loro aspetto
fisico. Anche se da tempo hanno riposto le bambole, dalle pa-
tinate pagine delle riviste femminili, Barbie con il suo fisico
«perfetto» continua a tormentarle, come sottolinea Eve En-
sler, nel suo Il corpo giusto.

L’attenzione delle donne è così occupata da pancia, glutei, co-


sce, capelli o pelle da non avere più spazio per la guerra in Iraq o
per qualsiasi altra cosa. Il modello del corpo perfetto è stato pro-
grammato in me fin dalla nascita. Ma al di là delle influenze cultu-
rali e delle pressioni esterne, sono stata io a impormi la preoccupa-
zione per il grasso di troppo, la dieta, l’esercizio e il tormento co-
stanti. Io compro le riviste, io credo in questo ideale, io sono con-
vinta che le ragazze bionde e magre conoscano il segreto.

Sicuramente Barbie conosce il segreto di cui parla Ensler,


ma anche con tutti i suoi ammennicoli che rendono la vita di
Barbie sempre più simile alla nostra, altro non è che una bam-
bola: plastica e vernice. Non carne e ossa, e da chi di carne e
ossa è fatta non può essere imitata. Impossibile dire se le don-
ne occidentali continueranno, anche inconsciamente, a voler
imitare Barbie, e a voler impersonare, al di là della professio-
ne svolta, quell’ideale accogliente, attraente, disponibile e ri-
gorosamente taglia 42 (una misura pesante da rispettare
quanto l’obbligo di portare il burqa), che equivale all’«eter-

149
no femminino» elaborato dalla modernità. Affrancarsene è,
in verità, assai difficile, perché, come si chiede Fatema Mer-
nissi, autrice di L’harem e l’Occidente: «Come si fa a organiz-
zare una marcia politica credibile, e gridare nelle strade che i
tuoi diritti umani sono stati violati perché non riesci a trova-
re una gonna che ti va bene?». Eppure, è con quest’ultimo ca-
pestro che le donne, che hanno raggiunto per molti versi la
parità, sono vessate. L’accusa che in proposito lancia Ger-
maine Greer dalla pagine della Donna intera.

Una donna che non vivesse per impersonare le fantasie sessua-


li maschili, che non confidasse su un uomo per acquisire identità e
status sociale, una donna che non fosse obbligata a essere bella, che
potesse essere intelligente e che invecchiando acquistasse sempre
maggiore autorità.
[...] Il marketing occidentale cominciò a blaterare su di lei ri-
correndo alla sua vasta panoplia di effetti spettacolari, proclaman-
do con sussiego e strombazzando ai quattro venti il vangelo alta-
mente seduttivo della salvazione secondo la Barbie senza fianchi,
senza utero e dalle tette dure. Le forti donne infilarono il loro pie-
de muscoloso nei tacchi a spillo e impararono a trottare. Stiparono
i loro utili seni nei reggipetti e invece del latte materno presero a
nutrire i loro figli con formule commerciali fatte d’acqua sporca;
spesero quei soldi di cui disponevano in rossetti e smalti per unghie
e vennero trasformate in donne moderne.

La Barbie è una donna moderna: spezzata, frigida e priva-


ta della maternità, ma in grado di affrontare mille mestieri
sempre con una manicure impeccabile, espressione palpabi-
le e vincente della sostanziale subalternità femminile odierna.

Mentre le femministe occidentali lottavano strenuamente per


conquistarsi una chiave d’accesso alle stanze da bagno del potere,
lo stereotipo femminile completava la sua conquista del mondo.

Naturalmente Barbie non è l’unica responsabile di come


vanno le cose, né la principale. Ma ha un che di rassicurante

150
venire a sapere che da qualche tempo le bambine snobbano
la bionda californiana, anche se per rendersi più allettante ha
cominciato di nuovo a tingersi i capelli in diverse sfumature
e scopre l’ombelico (che prima non aveva) con abiti da tee-
nager. Non serve. Le bambine di oggi sono attratte da altre
bambole, da altri miti.
Prime della lista sono le cinque Winx, e non solo perché
ostentano un ombelico sicuramente meno stagionato di quel-
lo di Barbie. Nate in una nostrana Cartoonia e solo da poco
uscite dal piccolo schermo per approdare prima a quello
grande e poi al fantastico mondo dei giocattoli per bambine,
le apprendiste fate Bloom, Musa, Flora, Stella e Tecna vivo-
no in una dimensione extraterrestre che le esimerebbe da
ogni obbligo proiettivo nei confronti delle bambine che con
loro si intrattengono. Eppure a fronte di una Barbie in car-
riera, costretta a coltivare ora e sempre il proprio aspetto e a
rinunciare alla maternità, pur essendo ancora studentesse al
college delle fate Alfea, le cinque adolescenti Winx sembra-
no far preconizzare un futuro da «donne intere». Forti cia-
scuna di un proprio carattere, malgrado siano affascinate dal-
le mode e dalla moda (e, ahimè, anche dal rosa fucsia, ma nes-
suno è perfetto), si sforzano di sviluppare i loro singoli talen-
ti, che reggono il confronto con quelli dei loro accompagna-
tori, i quali – al contrario del povero e frustrato Ken – ci im-
maginiamo in un futuro prossimo felici papà di magici e sod-
disfatti poppanti.
Sfidanzate, e felici della loro autonomia, sono invece le
Bratz, monelle per l’appunto. Queste fanciulle, dall’aspetto
di chi è appena uscito da un ghetto ma è sicurissimo di tor-
narci, e non solo a dormire, non hanno letto molto; sicura-
mente ignorano ogni tipo di galateo. Vestono jeans strappa-
ti, calzano pericolosissimi trampoli e amano il trucco vistoso:
un affronto all’eleganza calcolata di Barbie, sempre attenta a
non portare accessori scoordinati, ma un sostanziale inno al-
la libertà nelle apparenze. Aggressive, sboccate, con i loro oc-
chi pesantemente bistrati e le labbra in evidenza, sicuramen-

151
te non si possono definire belle. Finalmente, nella distorsio-
ne della realtà che fa il giocattolo mimetico, viene a cadere
l’obbligo estetico, con un effetto – si spera – autenticamente
liberatorio. Le bambine, costrette all’apparecchio dentale o
latinamente brune, finalmente hanno trovato bambole che
non dicono loro come dovrebbero essere, cominciando
dall’aspetto fisico per finire a modi e maniere, ma bambole in
cui riconoscersi e delle quali, malgrado difetti e imperfezio-
ni, si può essere migliori: «le brave ragazze andranno pure in
paradiso, ma le cattive vanno dappertutto». Non è un caso
che le bambine di oggi adorino il menefreghismo delle Bratz,
trovando stucchevole e antiquata Barbie, che malgrado i ten-
tativi di ringiovanimento, sembra di nuovo destinata come la
sua lontana sorella maggiore Lilli a essere un giocattolo per
adulti.
Del resto che cosa può aspettarsi la nostra fanciulla che co-
me un Van Gogh appena riscoperto viene battuta da
Christie’s? Si consoli sapendo che nella versione numero
uno, datata 1959, può raggiungere l’astronomico prezzo dei
740.000 euro. Si rincuori sapendo che, in casa Mattel, si pen-
sa a risollevarla dall’insuccesso in cui è incorsa a inizio mil-
lennio, promuovendone l’ingresso nel mondo virtuale. E si
senta lusingata quando, al volante della sua decappottabile
con un bianco cappello da cowgirl, sorride a chi visita il Mu-
sée des Arts Décoratifs di Parigi.
Noi, adesso, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Barbie,
grazie al cielo, ormai è roba da museo.
Bibliografia

La bambola Barbie è stata, sin dal suo apparire, protagonista di di-


versi saggi; da ricordare fra i più recenti e aggiornati Billyboy, Bar-
bie, Her Life and Times, Crown Publishers, New York 1992; M.G.
Lord, Forever Barbie. The Unautorized Biography of a Real Doll,
Avon Books, New York 1994; M. Tosa, Barbie. I mille volti di un mi-
to, Mondadori, Milano 1997; M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie
poupée totem. Entre mère et fille, lien ou rupture?, Editions Autre-
ment, Parigi 1998; M.F. Rogers, Barbie culture, Sage, Londra 1999;
I. Germano, Barbie, Castelvecchi, Roma 2000; M. Debouzy, La bam-
bola Barbie, in «Acoma», wwwesterni.unibg.it/acoma/2/11.pdf; A.
Scacchi, Barbie, da fidanzata d’America a icona pop, in Miti america-
ni oggi, a cura di C. Ricciardi e S. Vellucci, Diabasis, Reggio Emilia
2005, pp. 237-246. Si tratta, naturalmente, di una produzione in
qualche modo critica, mentre supervisionato dalla Mattel è il libro
Barbie. Guida completa fashion, Fabbri, Milano 2000, sorta di bio-
grafia autorizzata.

Lilli
Sulla figura di Lilli si sofferma M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie
poupée totem, cit., pp. 18-43. La traduzione del testo di Joseph
Goebbels è tratta da www.olokaustos.org/saggi/saggi/donne/don-
ne1.htm; la traduzione del testo di Fritz Lenz è tratta da
www.olokaustos.org/saggi/saggi/donne/donne2.htm.

È nata una stella


Le parole di Ruth Handler sono tratte da M.-F. Hanquez-Main-
cent, Barbie poupée totem, cit., p. 29; il volto oscuro della capitale

153
del cinema è rivelato da K. Anger, Hollywood Babilonia, Sugar, Mi-
lano 1960, la citazione si trova a p. 16; la vicenda di Moll Flanders
è al centro dell’omonimo romanzo di Defoe (D. Defoe, Moll Flan-
ders, Garzanti, Milano 1999, ed. or. 1722); la citazione, tratta dal
lungo sottotitolo dell’edizione originale, si trova a p. XIV.

Diventare grandi

Al tema del gioco con le bambole sono dedicati F. Gicca Palli, La


bambola. La storia di un simbolo dall’idolo al balocco, Convivio, Fi-
renze 1990 e Giocattoli. Produzione ed evoluzione dal XVIII al XX
secolo: dai manufatti artigiani alla bambola Barbie, Electa, Napoli
1998; in particolare, nel corso del testo vengono citati R. Caillois,
I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano
1981 (ed. or. 1967), p. 12; V.I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve
storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, Il Saggiatore, Milano
2006, p. 233; A. Manzoni, I promessi sposi, Mondadori, Milano 1999
(1a ed. 1840), p. 149; W. Benjamin, Giocattolo e gioco, in Il bambino
che gioca, a cura di M. Trinci, Bollati Boringhieri, Torino 1973, pp.
111-115; R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994 (ed. or.
1957), p. 52. Sui meccanismi che regolano la civiltà dei consumi un
insuperato classico rimane V. Packard, I persuasori occulti, Einaudi,
Torino 1989 (ed. or. 1958), puntualmente citato alla p. 111. Più in
generale, sull’argomento, si veda V. De Grazia, L’impero irresistibi-
le. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Ei-
naudi, Torino 2006, mentre su certo tipo di atteggiamento consu-
mistico definito come tipico delle adolescenti si può leggere Tiqqun,
Elementi per una teoria della jeune-fille, Bollati Boringhieri, Torino
2003.

99-53-83

Un’efficace introduzione al tema della moda è costituito da G. Sim-


mel, La moda, Editori Riuniti, Roma 1985 (ed. or. 1895). Un qua-
dro d’insieme sulla moda del Novecento si ricava da E. Morini, Sto-
ria della moda, Skira, Milano 2000; dedicate alle singole persona-

154
lità dell’haute couture sono P. White, Poiret, Studio Vista, Londra
1973 (le parole di Poiret sono riportate a p. 29); A. Madsen, Cha-
nel. Una vita, un’epoca, Istituto Geografico De Agostini, Novara
1990; M.-F. Pochna, Christian Dior, Flammarion, Parigi 1994 (la
citazione si trova a p. 177). La citazione dal «Ωurnal dlja choziajek»
è tratta da H. Blignaut e L. Popova, Maschile, femminile e altro. Le
mutazioni dell’identità della moda dal 1900 ad oggi, Franco Angeli,
Milano 2005, p. 84.

Chic!

Alcuni lati privati del carattere di Jacqueline Lee Bouvier Kennedy


emergono dalla lettura di M. Sgubin, Cucinando per Madam: ricet-
te e ricordi dalla casa di Jacqueline Kennedy Onassis, Campanotto,
Pasian di Prato 2002; i consigli sulle regole da seguire nell’abbi-
gliamento sono elargiti da G.A. Dariaux, Guida all’eleganza, Mon-
dadori, Milano 2005 (ed. or. 1964): per i passi citati passim.

L’incubo di Betty Friedan

L’opera più importante della famosa scrittrice femminista ameri-


cana è B. Friedan, La mistica della femminilità, Edizioni di Comu-
nità, Milano 1982 (ed. or. 1963).

Domani mi sposo...

I testi noti come rapporti Kinsey sono A.C. Kinsey, W.B. Pomeroy
e C.E. Martin, Sexual Behaviour in the Human Male, W.B. Saun-
ders Company, Philadelphia-Londra 1948 e A.C. Kinsey, W.B. Po-
meroy, C.E. Martin, P.H. Gebhard, Sexual Behaviour in the Hu-
man Female, W.B. Saunders Company, Philadelphia-Londra 1953,
sui quali in Italia si può leggere L. Saffirio, Il rapporto Kinsey e le
differenze di comportamento fra la donna e l’uomo, in Il pensiero
americano contemporaneo, dir. da F. Rossi-Landi, Edizioni di Co-
munità, Milano 1958, 2 voll., II, Scienze sociali, pp. 223-298. Innu-

155
merevoli edizioni ha avuto sin dal suo apparire B. Spock, Il bambi-
no. Come si cura e come si alleva, Antonio Vallardi, Milano 2005
(ed. or. 1945). Emblema di un’epoca è S. Plath, La campana di ve-
tro, Milano, Mondadori 2007 (ed. or. 1963): la citazione è tratta
dalle pp. 70-71.

L’età ingrata

Romanzo chiave per la comprensione di un’intera stagione è J.D.


Salinger, Il giovane Holden, Einaudi, Torino 2004 (ed. or. 1951).
Un’autobiografia della creatrice di moda più importante della
«swinging London» è M. Quant, Quant by Quant, Cassell, Londra
1966. Le parole di Barbie sono tratte da L. Jacobs, Barbie, Leonar-
do International, Milano 1997 (ed. or. 1994), p. 12. Le frasi pro-
nunciate da Barbie Talking sono riportate in M. Tosa, Barbie. I mil-
le volti di un mito, cit., p. 44.

Black is black...

Molto estesa è la bibliografia sulla questione razziale negli Stati


Uniti: una rapida e aggiornata sintesi dei principali avvenimenti si
trova in R. Petrignani, L’era americana. Gli Stati Uniti da Franklin
D. Roosevelt a George W. Bush, il Mulino, Bologna 2001. Sulla sto-
ria dell’America raccontata da Barbie si veda G. Giuliani, Barbie in-
segna la storia ma quante dimenticanze, in «la Repubblica», 9 apri-
le 2005, e B. Thompson, The World According to Barbie, in «The
Washington Post», 27 marzo 2005; sul «test della bambola», A.
Sacchi, La più bella? Quella dalla pelle bianca..., in «Corriere della
Sera», 9 agosto 2006.

Yankee go home

Per un primo approccio all’americanistica in Italia si veda F. Fa-


sce, American Studies in Italy, in «European Journal of American
Studies», EJAS 2006, http://ejas.revues.org/document404.html.

156
Sulla percezione degli Stati Uniti in Europa si può leggere F. Ro-
mero, Dalla convergenza alla divaricazione: l’America nell’immagi-
nario dell’Europa occidentale, in Quale occidente, occidente perché,
a cura di T. Bonazzi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 189-
201. Dedicato all’antiamericanismo in Italia è M. Teodori, Male-
detti americani. Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio an-
tiamericano, Mondadori, Milano 2002, da cui sono tratte le cita-
zioni di J. Evola e di «Civiltà cattolica» (rispettivamente p. 64 e p.
105). Il parere di Carlo Levi è espresso in C. Levi, Discorso sul
Vietnam, in Id., Il dovere dei tempi. Prose politiche e civili, a cura
di L. Montevecchi, Donzelli, Roma 2005, p. 311. I passi sull’idea-
le comportamento femminile sono tratti da Enciclopedia della don-
na, a cura di D. Bertoni Jovine, Editori Riuniti, Roma 1965, 2
voll., I, pp. 348-349. Il testo della canzone Cocco e drilli è rintrac-
ciabile in www.filastrocche.it/nostalgici/canzoni/coccodri.htm.

Crisi di crescita

Le parole di Barbie sugli anni Settanta sono tratte da L. Jacobs, Bar-


bie, cit., pp. 13-14. La letteratura sull’affermazione del movimento
femminista è copiosa: un primo approccio è possibile a partire dal-
la rivista «Genesis», in particolare Anni Settanta, III, 2004, 1 e Fem-
minismi e culture. Oltre l’Europa, IV, 2005, 2.

Una nuova casa

Innumerevoli sono i numeri di «Topolino» che contengono pub-


blicità di Barbie: è possibile vedere parte di questa produzione in
www.webalice.it/pisapia/cartolina.htm. Sull’atmosfera degli anni
Settanta in Italia un grande affresco d’insieme è dato da G. Crainz,
Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Don-
zelli, Roma 2003. Informazioni sul club francese delle amiche di
Barbie sono reperibili in M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie poupée
totem, cit., pp. 212-227.

157
Buone maniere

Uno dei primi libri che Barbie dedica a se stessa in Italia è Dolly &
Gloria, La casa di Barbie, Giunti Marzocco, Firenze 1976. Matrice
di ogni libro sul comportamento da tenere in pubblico è, natural-
mente, G. Della Casa, Galateo, a cura di S. Prandi, introd. di C. Os-
sola, Einaudi, Torino 1994 (1a ed. 1558), generalmente contrappo-
sto al coevo B. Castiglione, Il libro del cortegiano, a cura di A.
Quondam, Garzanti, Milano 1981 (1a ed. 1528). Alla diffusione dei
galatei nell’Europa preindustriale è dedicato I. Botteri, Galateo e
galatei. La creanza e l’instituzione della società nella trattatistica ita-
liana tra antico regime e stato liberale, Bulzoni, Roma 1999; moltis-
sime edizioni ha avuto C. Rosselli, Il saper vivere di Donna Letizia,
Mondadori, Milano 1960; recentemente alcuni fascicoli dell’Enci-
clopedia della donna, pubblicati originariamente sciolti con caden-
za settimanale, sono confluiti nel centone La grande enciclopedia
della donna, Rizzoli, Milano 2006; non ha più goduto invece del
successo iniziale B. Gasperini, Il galateo di Brunella Gasperini. Gui-
da utile, divertente, aggiornatissima ai misteri del galateo che cam-
bia, Sonzogno, Milano 1975, la cui citazione è tratta dalle pp. 5-6.

La «vie en rose»

La predilezione di Barbie per il rosa è documentata in L. Jacobs,


Barbie, cit., p. 16. Il testo della canzone La vie en rose è reperibile in
http://www.canzoni-mp3.net/testo_la_vie_en_rose.htm. Interamen-
te dedicato al significato dei colori è M. Pastoureau, Dictionnaire des
couleurs de notre temps: symbolique et société, Bonneton, Parigi
1992; sul dubbio significato del rosa S. Kracauer, Gli impiegati.
L’analisi profetica della società contemporanea, Einaudi, Torino 1980
(ed. or. 1930), la cui citazione è a p. 21. Schede sui film Blue Velvet e
Mulholland Drive si trovano rispettivamente in www.film.tv.it/
scheda.php/film/7662/velluto-blu/ e www.mymovies.it/dizionario/
recensione.asp?id=33782.

158
I mille volti dell’«american dream»

L’entusiasmo di Barbie per gli anni Ottanta è dichiarato in L. Ja-


cobs, Barbie, cit., p. 14. Sul conformismo statunitense testo di rife-
rimento rimane D. Riesman, La folla solitaria, il Mulino, Bologna
2006 (ed. or. 1950); a interessanti riflessioni conduce T.W. Ador-
no, Minima moralia, Einaudi, Torino 1954; innumerevoli ristampe
ha avuto sin dal momento della sua uscita N.V. Peale, Come vivere
in positivo, Bompiani, Milano 2002 (ed. or. 1952).

Barbie burqa

Notizie sulla politica di produzione della Mattel si trovano in M. To-


sa, Barbie. I mille volti di un mito, cit. I diversi modelli di Barbie so-
no raffigurati e descritti in Barbie. Guida completa fashion, cit. Le no-
tizie sulla produzione taiwanese si ricavano da S. Pucci, In a Chine-
se Barbie World, in «Din Sum. The British Chinese community web-
site», 9 dicembre 2006, www.dimsum.co.uk/culture/in-a-chinese-
barbie-world.html; sul lavoro minorile in fabbriche produttrici per
conto Mattel si legga I vestiti della Barbie cuciti dalle bambine, in
«Corriere della Sera», 24 maggio 2005, consultabile anche sul sito
www.romaeconomia.it/attachment/163894Vestiti%20delle%20b
arbie%20cuciti%20da%20bambine_24-5-07.pdf. La descrizione
di Sara e Dara si trova in Licca Chan, Sara e Dara: il giro del mondo
in ottanta bambole, 8 aprile 2002, www.dispenseronline.rai.it
/show.php?id=500 mentre a Fulla, Razanne e alle bambole neoe-
vangeliche sono dedicati K. Zoepf, Fulla, la Barbie con il velo che fa
impazzire il Medio Oriente, in «la Repubblica», 23 settembre 2005 e
M.N. De Luca, Barbie, Violet e Razanne le bambole tra Bibbia e cha-
dor, in «la Repubblica», 23 novembre 2005. La difesa di Barbie da
parte dell’autrice del Rapporto Hite (Milano 1976) si trova in Shere
Hite, Questioni erotiche. Barbie fuori legge, in «D. la Repubblica del-
le donne», 14 aprile 1998.

159
Le smanie del collezionismo

Le ossessioni collezionistiche sono magistralmente descritte in W.


Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L’opera d’ar-
te nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di mas-
sa, Einaudi, Torino 2000 (ed. or. 1936), pp. 79-123. Tutte le serie
di bambole richiamate sono rintracciabili in www.barbie.it. Un au-
tentico prontuario per chi voglia cominciare a collezionare Barbie
è costituito da J. Fennick, Barbie: guida per collezionisti, Idea libri,
Rimini 2000 (ed. or. 1998); molteplici sono i siti che gli appassio-
nati di Barbie dedicano alla loro beniamina: particolarmente accu-
rato, fra gli altri, risulta www.mistergiuseppe.it, all’interno del qua-
le alcune pagine sono riservate alla fruizione per soli adulti.

È bello ciò che è bello

Il verso di Petrarca è tratto da F. Petrarca, Il canzoniere, testo criti-


co e introd. a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1964, p. 123, XC.
Sul significato nella società occidentale dei capelli biondi si veda
J. Pitman, Tutto sulle bionde, Longanesi, Milano 2004; importante
testimonianza sui procedimenti di bellezza in uso nel nostro Rina-
scimento è il manoscritto degli Experimenta, compilato da Caterina
Sforza nel 1504 e conservato presso la Biblioteca Nazionale di Fi-
renze; le parole di Tiziano sono tratte da D. Calanca, Storia sociale
della moda, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 54; l’immagine del-
la bionda svampita si cristallizza a partire da A. Loos, Gli uomini pre-
feriscono le bionde, Sellerio, Palermo 2001 (ed. or. 1925); una sche-
da sull’omonimo film si può reperire su www.mymovies.it/diziona
rio/recensione.asp?id=26506 mentre su www.mymovies.it/dizio
nario/recensione.asp?id=33888 si può leggere quanto relativo a La
rivincita delle bionde. Sulla bellezza e i mutamenti nella sua conce-
zione è oggi consultabile G. Vigarello, Storia della bellezza, Donzel-
li, Roma 2007 (ed. or. 2004); sull’argomento si veda anche V.I. Stoi-
chita, L’effetto Pigmalione, cit. La definizione della bellezza è tratta
da C. Ripa, Iconologia, Tea, Milano 1992, (1a ed. 1598), p. 38. Sulla
fisiognomica testo principe è G.B. Della Porta, Della fisonomia
dell’uomo, Ugo Guanda, Parma 1988 (1a ed. 1610), la cui lettura può

160
essere introdotta da L. Rodler, I silenzi mimici del volto. Studi sulla
tradizione fisiognomica italiana fra Cinque e Seicento, Pacini, Ospe-
daletto 1991. Gli approfondimenti novecenteschi sull’argomento
sono rinvenibili in R. Kassner, I fondamenti della fisiognomica. Il ca-
rattere delle cose, Neri Pozza, Vicenza 1997 (1a ed. 1922).

La donna perfetta

Su Barbie come modello stereotipato di bellezza G. Jacomella, Una


mostra trasforma le donne in tante Barbie, in «Corriere della Sera»,
1° agosto 2005; una scheda sul film La donna perfetta si può leggere
in www.film.it/cinema/schedafilm.php?id=13854 mentre notizie
sugli Aqua e l’intero testo della canzone si trovano in J. Tysk, Il
mondo degli Aqua, Arcana editrice, Padova 1998, pp. 33-39.

Ti odio!

Un esemplare di torta Barbie si può ammirare in www.gennari


no.org/tortabarbie.htm. Sul disagio sull’omologazione dei giocat-
toli e delle Barbie in particolare si legga R. Denti, Gioco, paura, di-
vertimento: conversazione e consigli sulla letteratura giovanile, in Da
Cenerentola a Barbie. Percorsi nella letteratura dell’infanzia, a cura
di L. Zoffoli, Giunti, Firenze 1996, pp. 54-60. Le notizie sulle sevi-
zie riservate alle loro Barbie da alcune bambine inglesi si trovano
in La dura vita delle Barbie: «Le bambine in realtà le odiano», in
«City», 19 dicembre 2005. Notizia del lavoro di Agnes Narn si può
ricavare dal sito http://www.bath.ac.uk/news/articles/releases/
barbie161205.html. Sul fatto che Barbie possa essere un giocatto-
lo «pericoloso» si veda R. Caprile, Israele, basta Barbie negli asili,
in «la Repubblica», 6 settembre 2005. Sulla crisi di tutti i giocatto-
li del boom si veda E. Livini, Polistil & C., Il crac dei giochi anni ’70,
in «la Repubblica», 14 novembre 2005. Un ritratto totalmente dis-
sacrante di Barbie è quello fatto da C. Rapaccini, Povera Barbi, El,
Trieste 1997, da cui sono tratte le citazioni passim. Alcune Barbie
politicamente scorrette sono presenti in www.trailertrashdoll.com.
Nel corso del testo vengono inoltre richiamati E. Ensler, Il corpo

161
giusto, Tropea, Milano 2005, p. 11; F. Mernissi, L’harem e l’Occi-
dente, Giunti, Firenze 2000, p. 171; G. Greer, La donna intera,
Mondadori, Milano 2000 (ed. or. 1999), p. 7. Sulla recente strate-
gia della Mattel per promuovere Barbie si veda E. Assante, Barbie,
l’icona delle teenager diventa hi-tech, in «la Repubblica Affari e Fi-
nanza», 14 aprile 2008.
Indice

Ringraziamenti VII

Lilli 3

È nata una stella 10

Diventare grandi 16

99-53-83 22

Chic! 29

L’incubo di Betty Friedan 38

Domani mi sposo... 45

L’età ingrata 54

Black is black... 62

Yankee go home 69

Crisi di crescita 78

Una nuova casa 85

Buone maniere 92

163
La «vie en rose» 98

I mille volti dell’«american dream» 106

Barbie burqa 115

Le smanie del collezionismo 123

È bello ciò che è bello 132

La donna perfetta 137

Ti odio! 144

Bibliografia 153

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