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La donna
perfetta
Storia di Barbie
Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
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sono arrivate in Germania le immagini delle seducenti pin up
statunitensi.
Seno prosperoso, vita sottile, fianchi morbidi: il suo aspet-
to sembra compendiare quanto Joseph Goebbels, ministro
della propaganda del Reich hitleriano, aveva scritto, negli an-
ni Trenta, in un racconto giovanile.
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fermata con chiarezza sin dai primi anni del secolo. Nel 1914
Fritz Lenz, un eugenista ossessionato da un’imminente
«scomparsa» della «razza tedesca» dinanzi alla crescita di al-
tre popolazioni, teorizzò l’obbligo sociale per la donna di de-
dicare tutte le proprie energie, la propria forza e il proprio vi-
gore alla riproduzione. Secondo i suoi calcoli, si potevano
raggiungere livelli di fecondità incomparabili con quelli atte-
statisi ai due figli per coppia, cui la borghesia tedesca, in con-
sonanza con quanto accadeva contemporaneamente nel resto
d’Europa, cominciava a inizio Novecento ad attenersi.
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viste le condizioni in cui versava la Germania, il numero del-
le lavoratrici aumentava di concerto con l’inquadramento de-
gli uomini nelle file dell’esercito. Complici alcuni divieti uffi-
ciali, alle donne, nei servizi pubblici come nelle fabbriche, ri-
manevano gli incarichi più svantaggiosi, gli impieghi meno
remunerativi mentre ogni tentativo di migliorare la propria
posizione veniva regolarmente frustrato. Il lavoro fu così, per
le donne tedesche, una condanna che non redimeva da una
condizione oggettiva di inferiorità, dalla quale ci si poteva ri-
scattare solo con la procreazione.
Anche negli anni immediatamente successivi alla fine del
regime, le donne furono costrette a sopportare una situazio-
ne estremamente gravosa. In una Germania confusa, popola-
ta di reduci allo sbando, senza casa, senza famiglia, senza la-
voro, le donne affrontavano la durezza di una vita quotidia-
na che sembrava somigliare per molti aspetti a una lotta
darwiniana. Assenti gli uomini, perché morti o prigionieri, le
donne sopportavano le lunghe code per i rifornimenti ali-
mentari e si adattavano alle lunghe contrattazioni del merca-
to nero: ancor più di prima il lavoro diventò un fardello dif-
ficile da sopportare.
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te, grazie anche ai preziosi consigli della moglie del disegna-
tore, Erika Beuthin, Lilli si dedica alla cura del proprio aspet-
to e alle mille civetterie cui gli uomini tedeschi aspirano per
le loro donne, dopo quella che è sembrata un’interminabile
stagione di severità.
Grazie alla sua coquetterie, Lilli riscuote un grande suc-
cesso. Diviene un simbolo del «Bild Zeitung», che le affida
un’inedita missione pubblicitaria. A un anno dalla sua nasci-
ta, Reinhard Beuthin, pur continuando a disegnarne le av-
venture nelle strisce che arricchiscono la versione domenica-
le del quotidiano, si mette in contatto con Max Weissbrodt,
un progettista della ditta Hausser Elastolin di Neustadt, af-
finché la sua eroina acquisti tridimensionalità.
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sparmiata dagli attacchi aerei. Dai laboratori della ditta, che
si trovava nella zona occupata dalle truppe statunitensi, co-
minciarono così a venir fuori le miniature degli autocarri
americani. Tuttavia, ben presto, con il ritorno alla normalità,
il repertorio militare cessò di essere quello di maggiore im-
portanza per l’azienda, in cerca di ridefinizione malgrado la
grande professionalità.
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Chiusa in una scatola trasparente, che ne fa apprezzare la
linea voluttuosa delle forme, Lilli è destinata a un pubblico
maschile adulto: un regalo divertente per signori, un gadget
malizioso da acquistare in quei luoghi tradizionalmente riser-
vati agli uomini che sono le tabaccherie. Anche la versione in
miniatura, che misura diciotto centimetri, e che verrà com-
mercializzata di lì a poco, anch’essa chiusa in una scatola tra-
sparente e accompagnata da una copia del «Bild Zeitung» tut-
ta a lei dedicata, rimane riservata agli uomini, quale stuzzican-
te mascotte portafortuna. Con questo ruolo provocante Lilli
varca i confini tedeschi e comincia a essere distribuita in Au-
stria e in Svizzera, inconsapevole del destino di progenitrice di
un autentico mito.
È nata una stella
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decifrare la malizia tutta europea di Lilli, vuole assolutamen-
te uno degli esemplari in vetrina. Già immagina di continua-
re con quella bambola il gioco tante volte fatto con le bam-
bole di cartone, vestite con abiti di carta sempre diversi tenuti
da linguette. Per questo Barbara, abituata all’opulenza ame-
ricana, oltre la bambola vorrebbe almeno un vestito di ri-
cambio. Ma la commessa non può accontentare la ragazza.
Nell’Europa in cui anche nelle buone famiglie si rivoltano i
soprabiti e si risuolano più volte le scarpe, i singoli abiti non
sono in vendita e Barbara deve accontentarsi solo della Lilli
che le piace di più. I deliziosi vestitini alla moda disegnati da
Martha Maar Hausser non risultano in vendita neppure l’in-
domani a Vienna, dove la signora Handler acquista ancora
due Lilli, una per la figlia, l’altra per sé. La bambola l’ha
profondamente colpita, poiché rende palpabile una fantasia
a lungo coltivata in cui si fondono elementi contrastanti de-
rivati da una particolare vicenda biografica.
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sì trovata a lavorare fianco a fianco al marito. Elliott, tuttavia,
non era eccessivamente ricettivo ai consigli della moglie, che
avrebbe voluto ampliare l’attività dell’impresa familiare e
produrre un nuovo tipo di bambole. A Ruth riusciva diffici-
le spiegare perché non voleva immettere sul mercato un bam-
bolotto con le braccine paffute da bebè, simile a quanti tro-
neggiavano sugli scaffali dei negozi di giocattoli. Quando poi
gli capitava di descrivere la bambola adulta che aveva in men-
te, non trovava orecchie disposte ad ascoltarla. Eppure av-
vertiva che le bambine dell’età di sua figlia, o poco più pic-
cole, non trovavano eccessiva soddisfazione nel giocare alle
mamme con i pargolotti di plastica.
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neve cessano di essere gli unici ideali di cui le bambine aspi-
rano a vivere l’avventura romantica; la spigolosa Rossella
O’Hara, interpretata con ironia da Vivien Leigh, l’esplosiva
Rita Hayworth o l’accattivante Marilyn sembrano possedere
l’essenza più nascosta della femminilità.
Tutto ciò, probabilmente, non è ignoto alla signora Hand-
ler. Ma spiegare come le fantasie di bambine nutrite a latte e
cinema possano essere diverse da quelle delle bambine delle
generazioni precedenti appare particolarmente difficile in un
mondo conservatore quale quello della produzione di gio-
cattoli. A toglierla dall’impaccio giunge, per le strade di una
cittadina svizzera, la tedesca Lilli, che sembra compendiare
nei suoi formosi trenta centimetri scarsi l’essenza del divismo.
Delle icone del cinema Lilli ha lo sguardo ambiguo e amma-
liante, il broncio scarlatto e l’inconfondibile allure: è pronta
a proiettare mille fantasticherie infantili e adolescenziali sul
candido telo del gioco quotidiano.
Il viaggio da un continente all’altro non è dei più facili. Lil-
li non è un oggetto che un wasp – white-anglo-saxon-protestant
– metterebbe senza una qualche preoccupazione nelle mani
delle figlie innocenti. In Germania la bambola gode di una pic-
cante reputazione, che Ruth Handler, peraltro, ignorava total-
mente al momento del fatidico acquisto. Ma per una donna che
ha trascorso i suoi anni giovanili nella Hollywood dei grandi
studios, ciò non rappresenta certo un problema.
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baccanali e festini, dove non si risparmiava su alcol e cocai-
na. In realtà, quanto avveniva sui bordi delle piscine dei divi
non arrivava sulle pagine dei quotidiani, e le stelle del cinema
erano al tempo stesso personaggi da applaudire e modelli da
imitare. Gli spettatori volevano vestirsi, mangiare e divertirsi
come i divi che ammiravano: quando Clark Gable in Accad-
de una notte si tolse la camicia rimanendo con il torace nudo
crollarono le vendite delle canottiere; a Veronica Lake lo stes-
so governo chiese di modificare la pettinatura, perché diver-
se operaie che imitavano l’onda di capelli sul viso rimaneva-
no vittime di incidenti sul lavoro. Di tanto in tanto, però, la
cieca adorazione degli spettatori veniva scossa dagli scandali
che sulle prime pagine dei giornali gettavano un’ombra tetra
sulle figure dei divi. Sfrenatezze, droga, violenze, morti im-
provvise... Ma si trattava di fulmini che squarciavano un cie-
lo pronto a ritornare presto sereno. Come scriverà Kenneth
Anger, nel suo Hollywood Babilonia: «I fans adoravano ma
erano volubili, e se le loro divinità mostravano di avere i pie-
di di argilla le abbattevano senza pietà. Tanto, a un passo dal-
lo schermo, c’era sempre una nuova stella in attesa di sorge-
re». Con il passare del tempo, le grandi case cinematografi-
che affinarono le loro abilità e presto furono in grado di co-
struire a tutto tondo le figure dei divi e delle dive che voleva-
no lanciare, di dotarle di tutti quei pregi che la pubblica mo-
rale esigeva fossero patrimonio collettivo, di nascondere le in-
finite debolezze sotto la maschera sfavillante che sfoggiava-
no, di presentarli impeccabili al pubblico osannante.
Del resto gli studios non inventano nulla. Raffinano una pra-
tica nata con le stesse colonie americane, tanti secoli prima, e che
già Daniel Defoe aveva raccontato nel suo romanzo Moll Flan-
ders. La maggior parte degli abitanti del Nuovo Mondo, tra la
fine del Seicento e gli inizi del Settecento, non era certo classifi-
cabile nella categoria degli onesti borghesi. Si trattava di schia-
vi o di delinquenti tutti riconoscibili dal marchio a fuoco im-
presso sulla carne. Tuttavia, al di là dell’oceano si poteva avere
una nuova identità: «più di un uccello uscito dalla gabbia di
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Newgate diventa un grand’uomo, e qui abbiamo [...] diversi
giudici di pace, ufficiali di polizia, magistrati, che hanno il mar-
chio di fuoco sulla mano». La stessa Moll, protagonista del ro-
manzo «fu dodici anni prostituta, cinque volte moglie – e una
volta al suo stesso fratello –, dodici anni ladra, otto deportata in
Virginia, e alla fine diventò ricca, visse onesta e morì penitente».
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Diventare grandi
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accessori in miniatura di cui ben presto viene dotata, Barbie
non può non essere, oltre che una bambola come tutte le al-
tre da accudire e vezzeggiare, soprattutto un modello, in cu-
cina come in qualsiasi altro luogo. La bambina che sveste e
riveste Barbie, pettinandone i fluenti capelli di nylon, gioca
con quello che, inevitabilmente, sta diventando il proprio ar-
chetipo femminile. Come ha sottolineato recentemente Victor
Stoichita, nel suo L’effetto Pigmalione, «la bambina gioca con
il proprio modello femminile ideale e, di conseguenza, con la
propria madre, divenuta, almeno in virtù delle dimensioni,
bambina». Da principio, tra le mille attività che una madre
svolge dinanzi agli occhi attoniti della sua bambina, Barbie
predilige quelle connesse alla sua natura di feticcio della so-
cietà dei consumi: un tratto amplificato dalle prime campa-
gne pubblicitarie. A differenza di quelle della sua matrice Lil-
li, che nelle prime foto di presentazione al pubblico si mo-
strava nuda con le scarpe, in una posa che ne metteva in ri-
lievo la snodabilità, Barbie sin dal suo apparire esalta la sua
vocazione di manichino. Un’immagine propagandistica del
1959 la mostra come un multiplo: non una, ma sette Barbie,
con diverse acconciature e diverso abbigliamento, sono alli-
neate dinanzi all’obiettivo, che le inquadra controluce, met-
tendo in rilievo la lieve trasparenza degli abiti. È al tempo
stesso reale, nelle sue fattezze di plastica pronte a ogni rifini-
tura, e irreale, nel suo promettere alle bambine un futuro di-
nanzi allo specchio con nuovi abiti e nuovi rossetti. Barbie in-
segna quale, nell’ordinata società occidentale della fine degli
anni Cinquanta, sia l’autentico volto della donna: sempre
pronto al cambiamento sull’onda di una nuova sollecitazio-
ne. E la bimba che, ignara, continua a infiocchettarla per poi
sciogliere il nastro, nella rassicurante ripetizione dell’infan-
zia, apprende i rudimenti di quell’attenzione spasmodica al
proprio aspetto fisico che conserverà nei giorni a venire.
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le bambole in terracotta raffiguranti figure femminili adulte,
quasi sempre nude, avevano il compito di rappresentare, in
un certo senso, il culto della fertilità. La bambola veniva so-
lennemente abbandonata in un tempio al momento delle
nozze delle fanciulle di tredici o quattordici anni durante
una cerimonia che non segnava soltanto l’addio all’infanzia
ma anche l’addio alla verginità. Conservavano la loro bam-
bola, e venivano sepolte con essa, solo quante si consacra-
vano agli dèi.
L’avvento del cristianesimo eliminò i tratti sessuati nelle
bambole che, a partire dall’Alto Medioevo, riprodussero ge-
neralmente bambini in fasce, donne e uomini abbigliati se-
condo la moda del tempo, monaci e monache: si trattava di
giocattoli per bambini e bambine, al pari delle trottole di le-
gno e dei fischietti di terracotta, che in un qualche modo pre-
figuravano loro il futuro. La «sventurata» Gertrude manzo-
niana, monaca a Monza, che nel Seicento «rispose» agli inviti
del dirimpettaio scavezzacollo tuffandosi nel vortice della pas-
sione, veniva da un’infanzia in cui «bambole vestite da mona-
che furono i primi balocchi che le si diedero in mano. [...] Nes-
suno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era
un’idea sottintesa e toccata incidentemente».
Con le lontane bambole controriformistiche, che fanno
opera di convincimento, Barbie condivide la missione, anche
se apparentemente il suo compito è assai meno problematico
e tristo. Non deve piegare nessuno a prendere il velo e a spa-
rire dal mondo per il resto della vita, ma più semplicemente
forgiare le abitudini tipiche della donna di media estrazione
della società occidentale. Walter Benjamin, nelle poche pagi-
ne dedicate a Giocattolo e gioco, afferma che quest’ultimo «e
null’altro, è la levatrice di ogni abitudine» e che «l’abitudine
nasce come gioco, e in essa, anche nelle sue forme più rigide,
sopravvive fino alla fine un piccolo residuo di gioco». Non si
sa quanto Barbie sia consapevole di ciò, ma si appresta a svol-
gere una delicatissima fatica: illustrare alle bambine quanto
possa essere palpabile e come debba essere non solo ghermi-
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ta, ma posseduta e custodita, quella che in Occidente si chia-
ma «l’essenza della femminilità», un’essenza i cui tratti di-
stintivi sono l’arrendevolezza e la civetteria e i cui segni este-
riori si compendiano nei tacchi alti e nel rossetto sgargiante.
Vestendola e spogliandola, preparandola per una notte di ri-
poso o per una grande soirée, le bambine imparano a essere
sempre opportune, almeno dal punto di vista dell’abbiglia-
mento; ravviandole i capelli, ora sciolti ora in una coda di ca-
vallo ora in un vezzoso chignon, ripassandole il rossetto, si
scopre la severa disciplina sottesa all’aspetto curato, le preoc-
cupazioni continue che richiedono un’acconciatura impecca-
bile e un maquillage raffinato. Sollevate dalle fatiche dome-
stiche dal massiccio impiego degli elettrodomestici, per non
avvertire fastidiosi sensi di colpa o discutibili vuoti che po-
trebbero condurle a una pericolosa introspezione, le fanciul-
le americane apprendono prematuramente la fatica della bel-
lezza – di certo tipo di bellezza – considerandola connatura-
ta all’esistenza, e assimilano l’impegno necessario per preser-
varla e la concentrazione esclusiva per affrontare questo tita-
nico sforzo. Ancora libere dalle catene costituite dagli obbli-
ghi sociali, le bambine imparano a sopportarne il peso, tro-
vandolo magari gradevole, e a trasformarsi senza un guizzo di
adolescenziale ribellione nella «Signora Maggioranza Me-
dia», obiettivo principale dell’occulta persuasione di avidi
pubblicitari.
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Queste parole di Vincent Packard, scritte nel 1958 in The
Hidden Persuaders (I persuasori occulti), un anno prima della
nascita della bambola, senza sapere quanto utile ai fini
dell’occulta persuasione sarebbe stato il suo ingresso in so-
cietà, tratteggiano un idealtipo nel quale è facile per la bion-
da e formosa fanciulla ritrovarsi e riconoscersi. Barbie, con le
sue scollature e i suoi tacchi a spillo, mentre la lavastoviglie
compie il suo dovere in una cucina tirata a lucido, appare non
tanto un costrutto sociale ma una forma «naturale», immodi-
ficabile del vivere: autentico «mito d’oggi», nella sua formu-
la più compiuta teorizzata da Roland Barthes.
E non a caso, sostanzialmente immodificata Barbie attra-
verserà i suoi primi cinquant’anni, malgrado le mille imper-
cettibili variazioni non solo nell’aspetto fisico, ma anche nelle
inclinazioni che le apparenze lasciano trasparire. Totalmente
caduti nell’oblio i giorni in cui, sotto altro nome, era un licen-
zioso giocattolo per adulti, Barbie diverrà il giocattolo per di-
ventare grandi, grazie anche a tutta una serie di complicati og-
getti di cui verrà dotata. Con il trascorrere degli anni, acqui-
sterà tre sorelle e un fratello, un paio di cugine, un amico del
cuore, scalzato per qualche tempo da un avvenente surfista au-
straliano, un nutrito gruppo di amici di diverse etnie. Altret-
tanto numeroso sarà il suo gruppo di pets: sei cavalli, uno stal-
lone arabo, tre pony, un levriero afgano, un barboncino, tre ca-
gnolini non meglio identificati e un paio di mici. Barbie colle-
zionerà proprietà mobiliari (auto, barche e così via) e immo-
biliari (magioni in città e in campagna, in sobrio stile country
come nelle più sontuose linee dello stile vittoriano o di quello
coloniale, tutte magnificamente arredate e complete di grandi
e piccoli elettrodomestici), insieme a innumerevoli abiti da
giorno e da sera, tenute sportive e lingerie, nonché scarpe, bor-
se, acconciature, gioielli... A casa Mattel si esaudirà ogni suo
desiderio, prima ancora che venga pronunziato, in modo che
Barbie diventi simbolo dell’Occidente sazio e non smetta mai
di accumulare, senza derogare in alcun modo alle imprescin-
dibili leggi del mercato in nome di altri valori.
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Non a caso in lei Barthes ritroverebbe un archetipo del
giocattolo che prepara «gesti senza avventura, senza sorpre-
sa né gioia»; ma non è per le avventure che le bambine bor-
ghesi, in linea di massima, vengono allevate, almeno fino a
buona parte degli anni Settanta, ma per essere casalinghe e
consumatrici, sempre in cerca di qualche scontata e futile
gioia che dia senso a una vita che rischia di esserne priva.
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cio dei sarti, che dopo lo straordinario successo nella Parigi
di metà Ottocento di Charles Worth, il padre della haute cou-
ture, divennero incontrastati arbitri dell’eleganza, talvolta ag-
giunse nuove costrizioni all’abbigliamento femminile. I pan-
neggi delle gonne si stringevano sotto le ginocchia, avvitan-
dosi intorno alle gambe. Un abito così complicato, natural-
mente, faceva acquisire a chi lo indossava il romantico aspet-
to di una sirena, ma non le assicurava certo comodità e spe-
ditezza nei movimenti: l’infelice, benché à la page, era co-
stretta a una sostanziale immobilità, che si scioglieva solo nel
movimento ritmico e aggraziato del ballo.
Liberare le donne da tali rigide imposizioni non era sem-
plice; tuttavia, nel clima per molti versi artisticamente provo-
catorio che si respirava nella Parigi della Belle Époque, il gio-
vane sarto Paul Poiret propose alle signore della buona so-
cietà abiti fluidi e sciolti, che potevano essere indossati senza
il nascosto ausilio del corsetto. Le tuniche dagli inediti cro-
matismi che riecheggiavano le sperimentali tele degli artisti
squattrinati che vivevano nelle soffitte della Ville lumière eb-
bero nel mondo della moda lo stesso effetto dirompente. Co-
me affermò lo stesso Poiret, compiaciuto della propria auda-
cia e della sapiente interpretazione dello spirito dei tempi
pronti ad accogliere una novità assoluta che consigliava di
gettare alle ortiche un indumento da secoli presente nei bau-
li femminili: «Io non impongo la mia volontà nella moda. So-
no semplicemente il primo a percepire i desideri segreti del-
le donne e a esaudirli in anticipo. È stato in nome della libertà
che ho compiuto la mia prima rivoluzione, deliberatamente
prendendo d’assedio il corsetto».
Tuttavia, la «presunta» rivoluzione di Poiret non frantu-
mava le catene estetiche femminili. Il respiro a pieni polmo-
ni, che le signore potevano finalmente esalare, serviva sem-
plicemente a sbuffare perché le gonne disegnate dal couturier
erano tanto strette da impedire di camminare speditamente.
Ancora una volta, quella per la quale un sarto maschio dise-
gnava, era una donna quasi introvabile nella realtà, che si
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muoveva languidamente da un salotto all’altro. La nascente
società industriale, con la sua capacità di propagandare velo-
cemente ogni idea nuova, riuscì a fare delle lunghe tuniche
del sarto francese un’autentica moda, nei termini descritti da
Georg Simmel nel suo saggio La moda. Da principio solo le
signore dell’alta società si drappeggiarono negli abiti di Poi-
ret per distinguersi da quante continuarono a rimanere fede-
li a crinoline e corsetti; in breve, tutte, in tutti gli strati socia-
li, rinunciarono all’armatura ottocentesca per imbozzolarsi in
quella, più fluida, del nuovo secolo.
Poco male per le frequentatrici del jet-set, sempre alla ri-
cerca di novità pur di distinguersi: a soccorrerle nell’imper-
via fatica di cambiare nuovamente aspetto, continuando a li-
berarle da innaturali costrizioni, arrivò di lì a poco Coco Cha-
nel, una delle rare donne nell’ambiente della moda, domina-
to per la maggior parte da uomini. Mademoiselle Coco fu
protagonista di un’avventura umana, prima che stilistica,
estremamente singolare. Orfana, priva di dote e quindi esclu-
sa dal mercato matrimoniale, carina tanto da poter aspirare a
trovare un compagno facoltoso, Gabrielle Chanel a ventidue
anni andò a vivere con un allevatore di cavalli, che le offrì la
possibilità di frequentare il bel mondo: aristocratici, attori,
artisti affermati. Ma la lussuosa vita di mantenuta non si ad-
diceva a quella ragazza dal fisico spigoloso e dalla volontà fer-
rea, che presto chiese a un nuovo amante di finanziarle un’at-
tività che la rendesse indipendente e le permettesse di diven-
tare ricca. Gli abiti che realizzava nel laboratorio di rue Cam-
bon, a Parigi, per le concittadine dell’alta società furono un
autentico inno all’indipendenza femminile, al movimento, al-
la comodità. Orlo al polpaccio, gonne a pieghe, cardigan che
scendevano morbidi sui fianchi, tweed – un tipico tessuto
maschile – tinto in colori pastello, vistosi gioielli falsi: com-
plice lo scoppio del primo conflitto mondiale, Mademoiselle
Coco interpretava con charme tutto parigino il cambiamen-
to nell’immagine, e nella sostanza, che la guerra faceva speri-
mentare alle donne europee.
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Al di là dei dettami parigini, infatti, le donne che prende-
vano il posto di lavoro degli uomini al fronte rendevano più
semplice il loro abbigliamento, anche in rispetto di un prin-
cipio di sobrietà che mai prima di quel momento era entrato
fra quelli ispiratori della moda. Nella Russia rivoluzionaria
del 1917 il «Ωurnal dlja choziajek» (Rivista per le casalinghe)
invitava le donne di casa cui si rivolgeva ad attenersi a uno sti-
le rigoroso nell’abbigliamento.
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«Non si è mai ricchi né magri abbastanza», affermava snobi-
sticamente Wally Simpson, duchessa di Windsor, inauguran-
do la stagione degli immani sacrifici femminili sull’altare del-
la bilancia e confermando in maniera definitiva l’inscindibile
binomio «ricchezza-moda». Parallelamente, il cinema hol-
lywoodiano diffondeva con l’immagine ambigua e severa di
Marlene Dietrich, Greta Garbo, Katherine Hepburn e Joan
Crawford uno stile asciutto, severo, androgino, che cancella-
va le curve in nome di un’ambita parità fra i sessi.
Ma l’immagine della donna mascolina non ebbe successo
nell’Europa delle dittature. In Italia come in Germania, con
l’ascesa al potere rispettivamente di Mussolini e di Hitler,
certi suggerimenti della moda apparivano aberranti. In ot-
temperanza a quanto proclamano il duce e il Führer, le mo-
diste tornarono a sottolineare le forme del corpo femminile,
vagheggiando un’opulenza tizianesca che richiamava la fun-
zione materna. E mentre in Italia e in Germania la propa-
ganda continuava a mostrare signore eleganti nei completi di
raso, avvolte in sontuose stole di pelliccia e guarnite di tutti
quegli orpelli che le rendevano deliziosamente inadeguate a
svolgere qualsiasi attività lavorativa, la realtà costringeva le
donne ad adottare uno stile assai più sobrio (e triste). A que-
sto faticoso grigiore reagì la svampita Lilli, che sin dal suo ap-
parire non rinunciò ad alcun vezzo per dimenticare i giorni
appena trascorsi. Eppure, quando finalmente tacquero i can-
noni e sembrò aprirsi una nuova stagione per le donne e i lo-
ro diritti, il misogino mondo della moda non rinunciò a pro-
porre nuove sottili crudeltà, che rinverdirono un antico ada-
gio ormai dimenticato: «per essere belle bisogna soffrire».
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le loro case i parigini soffrivano il freddo, dato che mancava
il carbone per il riscaldamento e la razione quotidiana di pa-
ne era di appena 200 grammi. Tuttavia, quando il 12 feb-
braio, alle dieci e trenta, in avenue Montaigne, si aprirono le
porte della Maison Dior, alla ristretta cerchia degli invitati
sembrò primavera inoltrata. Il salone era decorato da una
profusione inimmaginabile di fiori – rose, mughetti e delphi-
nium blu – per presentare al pubblico la collezione Corolle:
novanta abiti dai vivi colori e dai nomi inusitati – Amour,
Tendresse, Bonheur... – che nella tetra atmosfera del dopo-
guerra apparvero estremamente innovativi. Rasentava l’inso-
lenza, la nonchalance con la quale, in anni di rinunce, il cou-
turier utilizzava metri e metri di stoffa pregiata. Sotto vitini di
vespa degni del miglior sadismo di Mamie e del miglior ma-
sochismo di Rossella O’Hara, si aprivano gonne gonfie come
mongolfiere, sorrette da strati di sottogonne inamidate. Nel
pieno di quel Novecento, che le aveva viste ritagliarsi uno
spazio in molti settori lavorativi, tornava a imporsi per le don-
ne una silhouette dal sapore ottocentesco: spalle delicate, se-
no enfatizzato, vita sottile, fianchi gonfiati da nuvole di tulle.
La statunitense Carmel Snow, cronista della rivista «Harper’s
Bazaar», colpita dal gusto scenografico che Dior dimostrava
malgrado i giorni grami, battezzò new look la linea che, pur
accentuandone le morbidezze, proibiva alle signore le ele-
mentari comodità conquistate durante la stagione bellica. Ma
il mondo voleva sognare, e i variopinti e leziosi abiti di Dior
sembravano quasi un inno alla speranza. Il sarto sembrava
preconizzare come «l’Europa, stanca delle bombe, volesse
sparare i fuochi d’artificio».
Non a caso le sue linee vengono incessantemente replicate,
anche dopo la sua morte nel 1957, per tutto il decennio suc-
cessivo, quando il boom economico fa dimenticare le ristret-
tezze belliche. Incuranti del bustino che torna a serrare la vita
e dell’obbligatorio tacco alto che slancia ulteriormente la fi-
gura, le fanciulle di tutte le età sono pronte a strizzarsi la vita
per permettere alle mille organze delle sottogonne di ondeg-
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giare con un fruscio che sa d’altri tempi. I fiduciosi anni Cin-
quanta vedono così il fiorire di centinaia di gonne a corolla e
le donne, per molti versi, tornano a interpretare un ruolo de-
corativo. Mentre le sartine dei sobborghi americani si affan-
nano a carpire i segreti di tagli ormai dimenticati e i direttori
delle case di moda dei quartieri alti aspettano con fibrillazio-
ne il momento per andare a Parigi a vedere le nuove collezio-
ni, le signore, come fiori troppo pesanti su steli troppo esili, co-
minciano a ondeggiare su altissimi tacchi a spillo, segno in-
confondibile del privilegio femminile di andare, se proprio si
deve, con lentezza, senza alcuna meta da raggiungere.
Barbie, con il suo 99-53-83 per un metro e settantacinque
di altezza, si rivela un’interprete ideale del new look. E non a
caso i disegnatori dei suoi abiti attraversano l’oceano due vol-
te l’anno per carpire quei particolari anche minimi in grado
di trasformare la ragazzona americana in una signora sofisti-
cata. Bastano pochi tocchi ed ecco che la nuova bambola si
rende perfettamente interprete di quell’eterno femminino
che a occhi nostalgici la crudeltà del nuovo secolo ha tentato
di cancellare, ma che è risultato – ahimè – impossibile da eli-
minare. Ammantandosi di sete e chiffon inequivocabilmente
passatisti, Barbie riesce a neutralizzare le sue forme scanda-
lose e a entrare a pieno titolo nel novero dei giochi usuali per
le bambine americane.
Chic!
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po l’elezione, si dedica al restauro della Casa Bianca: come
ogni donna americana anche Jacqueline si preoccupa della
gradevolezza e comodità del proprio salotto; e come ogni si-
gnora di provincia è orgogliosa di illustrare gli interventi por-
tati a termine: naturalmente non durante un tè con le amiche,
ma, sotto gli occhi delle telecamere della CBS. Questa fatica,
che le fa conquistare l’Emmy Award, l’Oscar televisivo, sci-
vola quasi in secondo piano di fronte all’impegno a fianco del
marito nei viaggi in Europa, India e Pakistan.
Gli americani sono incantati dai modi discreti e dall’ele-
ganza di Jacqueline. Colpisce la sua capacità di risultare sem-
pre a proprio agio, l’estrema naturalezza con la quale si mo-
stra, sia a un ricevimento ufficiale sia nella tranquilla intimità
della casa, sia durante i viaggi in qualità di first lady sia nel
tempo libero, a Long Island, con i figli. Essere inappuntabi-
le come lei diviene il sogno di tutte le americane.
Se è impossibile tentare di dotarsi del fortunato bagaglio
che i natali privilegiati hanno riservato a Jacqueline, si posso-
no certamente imitarne i modi garbati e l’eleganza. Non si
tratta però di un compito semplice, non tanto e non solo per-
ché la prima signora d’America può scegliere il proprio guar-
daroba fra un ventaglio di proposte irraggiungibili per la
maggior parte delle altre donne. L’irreprensibile signorilità di
Jacqueline sembra piuttosto essere il frutto del rispetto di una
serie di regole, note all’alta società ma sconosciute ai più, che
scandiscono tempi e modi dell’eleganza come di altre sfere:
un galateo trasmesso di madre in figlia, raramente trasgredi-
to, e in grado di assicurare a chi lo rispetta l’appartenenza a
una ristretta, raffinata ed esclusiva cerchia. La visione di Jac-
queline in gramaglie e del suo contegno durante la cerimonia
funebre del marito, assassinato a Dallas durante la fatale pa-
rata del 22 novembre 1963, amplifica non solo il rispetto de-
gli americani per la sua forza morale e le sue capacità perso-
nali, ma anche il desiderio di emulazione delle americane per
un portamento che neppure nelle circostanze più avverse e
dolorose viene abbandonato. I funerali la vedono ieratica ico-
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na di quella che di lì a poco verrà battezzata «mistica della
femminilità», mentre il piccolo John John fa bella mostra
dell’educazione impartitagli dalla madre, salutando militar-
mente il feretro del padre.
Disciplina e compostezza costituiscono una corazza diffi-
cilissima da scalfire, che gli abiti impeccabili della prima don-
na d’America rendono visibile e, per lo meno per qualche
particolare, imitabile. Ma non è un caso che i sarti presso cui
si serve la first lady siano europei o di origine europea, mal-
grado le critiche dei compatrioti, primo fra tutti il parigino
Oleg Cassini, che disegna per lei le mises più note. E non è
neppure un caso che sia per mano di una signora francese,
Geneviève Antoine Dariaux, che viene data alle stampe, nel
1964, a New York, una Guide to elegance. Nel testo, un au-
tentico dizionario le cui voci suonano di irresistibile frivolez-
za (A come Abbronzatura, abito intero, accessori...; F come
Figlie, fotografie, funerali...; N come Natale, négligé, nozze...;
S come Saldi, soprabiti, spiaggia...), l’autrice, direttrice fra gli
anni Cinquanta e gli anni Sessanta della casa di moda parigi-
na Nina Ricci, elargisce generosamente alle donne americane
consigli per essere raffinate e disinvolte.
Nel seguire rispettosamente sia i dettami stilistici che arri-
vano da Parigi sia i suggerimenti di cui sarti e modiste sono
prodighi, Barbie non è da meno delle sue compatriote. Un ge-
neroso aiuto le viene da Ruth Handler e dalle due creatrici di
moda – Charlotte Johnson, in opera fino al 1964, e Carol Spen-
cer, parte integrante dell’équipe Mattel dal 1963 – che ne di-
segnano gli abiti. La Johnson e poi la Spencer sono sempre
presenti alle sfilate parigine e assicurano a Barbie, non solo un
guardaroba ricco, ma anche la capacità di veicolare quelle co-
noscenze di bon ton necessarie a indossarlo. Le confezioni che
racchiudono gli abiti e gli accessori illustrano le occasioni in
cui vanno indossati e sembrano, per molti aspetti, ricalcare
quei principi che Madame Dariaux destina alle sue lettrici.
La prima regola da rispettare consiste nel portare abiti
consoni alla vita che si conduce e agli ambienti in cui ci si
31
muove: «Come è possibile essere ben vestite in ogni ora del
giorno e in qualsiasi ambiente con una sola toletta?». Ogni
abito ha la sua occasione, così come ogni più piccolo acces-
sorio: «non basta possedere una bella scelta di borsette; una
donna elegante deve anche saper scegliere la borsa giusta per
l’occasione giusta e il momento giusto». Barbie, con le sue de-
cine di abiti e gli svariati accessori, potrebbe apparire una
delle migliori allieve, se non la migliore, di Madame Dariaux.
I consigli che l’esperta francese enumera non riguardano so-
lo gli abiti, ma la cura della persona nel suo complesso: «Il
trucco è una sorta di vestito per il viso, e in città una donna
non penserebbe certo di mostrarsi senza trucco come non
penserebbe di camminare per strada nuda». E, infatti, l’ab-
bondanza di mascara sulle ciglia e il fresco carminio sulle lab-
bra impediscono a Barbie di dare pubblico scandalo. Allo
stesso modo, Barbie non danneggia la propria carnagione
esponendosi eccessivamente ai raggi solari: «Se una carna-
gione leggermente dorata dal sole dà una gradevole impres-
sione di buona salute, al ritorno in città alla fine dell’estate
un’epidermide simile a un arrosto bruciato invecchia terri-
bilmente ed è del tutto priva di eleganza».
Sin dal mattino, Barbie sembra rispettare il galateo del-
l’eleganza occidentale, nei termini in cui viene enunciato
dalla Dariaux. Lo stile che si addice a una signora che lavo-
ra deve essere improntato alla sobrietà e all’efficienza: «In li-
nea di massima, una donna in carriera dovrebbe evitare tut-
ti i fronzoli decorativi, i tessuti fantasia, i colori aggressivi, le
lane ruvide, i tessuti molto leggeri che prendono facilmente
le pieghe, gonne troppo corte, troppo larghe o troppo stret-
te: in breve, tutto quanto può sembrare volgare o eccessivo.
Nel corso delle ore lavorative, ancora di più che in qualsia-
si altro momento, è indice di buon gusto attenersi a uno sti-
le riservato e discreto». Così, quando le circostanze la vo-
gliono impegnata nel lavoro, Barbie non disdegna una certa
severità, indossando creazioni rigorose come Commuter Set,
un tailleur blu notte da completare con una camicia avorio
32
o in cotone stampato a quadretti e un eccentrico cappellino
rosso, o Career Girl, lineare tailleur di tweed con accessori
in tinta.
Madame Dariaux disprezza ogni tipo di sciatteria, soprat-
tutto quando si manifesta nell’ambiente della moda: «Le
donne che lavorano nel campo della moda hanno l’obbligo
verso se stesse di avere un aspetto particolarmente raffinato.
Potrebbe sembrare un’osservazione ovvia, ma vorrei che ve-
deste quante poche donne ben vestite si vedono a una sfilata
per la stampa. Certe volte mi sento molto perplessa... tanto
più quando si riflette che queste donne possono creare o di-
struggere con i loro articoli la reputazione di uno stilista».
Proprio a questo tipo di critica sembra rispondere il viva-
ce completo Busy Gal, in cui Barbie si presenta nelle vesti di
una disegnatrice di moda. L’aderente gonna e il giacchino av-
vitato di lino rosso sono portati con una camicia a righe ros-
se. L’insieme è completato da una grande cartella che contie-
ne i figurini.
La mattina, tuttavia, si può riservare ad altro tipo di attività
che non sia il lavoro. Quando gli impegni ufficiali obbligano
ad abiti meno sportivi, Barbie sfoggia Fashion Luncheon, com-
pleto di stoffa operata rosa, o Sunday Visit, tailleur candido
con gli accessori color oro, o Gold ’n Glamour, con giacca e
cappello bordati di pelliccia come Matinee Fashion. La scelta
si amplia quando si passa a impegni di più disinvolta informa-
lità: Suburban Shopper è un prendisole in cotone bianco e az-
zurro, completato da borsa e cappellino di paglia, che ha an-
che una versione in rosso, Busy Morning; Cotton Casual è il
classico abito estivo di cotone rigato, dal bustino stretto e dal-
la gonna ampia; Sheath Sensation, uno smilzo chemisier rosso
fuoco; Coffee’s On, un fresco modello con un motivo a farfal-
le. I rigori invernali possono essere affrontati con It’s Cold Out-
side, un avvolgente cappotto con cappello coordinato, mentre
fra le mura domestiche il completo ideale è Sweeter Girl, un
caldo twin-set sferruzzato dalla stessa Barbie, che ha a dispo-
sizione gomitoli e ferri da calza.
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Le regole dettate da Madame Dariaux si fanno più rigide
man mano che le ore passano: «Al mattino quasi tutte le don-
ne indossano un tailleur, e l’abito da pomeriggio è stato so-
stituito dall’insieme a due pezzi più giovanile e meno forma-
le, o addirittura da un golfino e una gonna. Ma, a partire dal-
le sei del pomeriggio, l’abito intero riprende i suoi diritti, co-
me l’abito da cocktail o da mezza sera. È il momento del
trionfo per il classico tubino nero, scollato, di lana o di crêpe
di seta, la cui eleganza sta tutta nel taglio». Il consiglio è pe-
dissequamente seguito da Barbie, che fra il 1962 e il 1964
sfoggia After Five, un abito nero con un ampio colletto di or-
ganza bianca e bottoncini dorati, alternandolo a partire dal
1963 con Black Magic Ensemble, un abito scollato, indispen-
sabile per le cene in città, completato da una cappa di organ-
za dello stesso colore, da guanti e scarpe nere e da una pre-
ziosissima pochette dorata.
«A un’ora più tarda è preferibile sostituire il nero con co-
lori più vivaci e con un tessuto più ricco, eventualmente rica-
mato o ornato di perline», consiglia Madame Dariaux. A
quell’ora Barbie può indossare Gay Parisienne, un abito dal-
la linea a palloncino, creata da Hubert de Givenchy, in taf-
fetà blu a pois bianchi e lunghi guanti bianchi con una stola
di candido lapin, o Easter Parade, un vestito aderente stam-
pato a pastiglie con un soprabito di faille nero, o Evening
Splendour, abito e soprabito in tessuto operato color oro con
le finiture in pelliccia, o Red Flare, un cappotto di velluto ros-
so con un cappellino pillbox – modello reso celebre proprio
da Jacqueline Kennedy – e scarpe in tinta: tutti completi da
cocktail adatti alle situazioni mondane che una signora della
buona società si può trovare a dover affrontare.
Non sempre però gli appuntamenti pomeridiani sono
contraddistinti dalla formalità. Negli Stati Uniti un’abitudi-
ne diffusa è quella dei ricevimenti in giardino per i quali si
richiede un abbigliamento vezzoso. Barbie si dimostra all’al-
tezza di ogni invito indossando Plantation Belle, un roman-
tico abito di plumetis rosa ricco di balze e nastri; o Friday
34
Nite Day, uno scamiciato in velluto indossato sopra una ro-
mantica camicia candida; o ancora Garden Party, un raffi-
nato abito di cotone stampato a pois e fiori che si apre so-
pra una sottogonna di pizzo sangallo.
Ma è naturalmente con gli abiti da ballo che Barbie riesce
a esprimere al meglio la proprietà del suo gusto. Del resto,
quello degli abiti da gran sera è l’ambito in cui più sentito è
l’entusiasmo femminile: «Per le occasioni formali, poi, l’abi-
to da sera lungo può essere splendido quanto volete. Nel mo-
mento in cui lo indossate dovreste avere l’impressione di su-
bire una magica metamorfosi: dovreste sentirvi una princi-
pessa. Anche la donna d’aspetto più comune è sempre più
bella in un abito da sera lungo. La sera è il solo momento del-
la giornata in cui una donna ha il diritto, seppure non il do-
vere, di richiamare l’attenzione. Per questo un lungo abito da
sera nero, spesso giudicato molto pratico, è una scelta tutt’al-
tro che sensata».
Barbie non si concede alcuna insensatezza. Soltanto uno
dei suoi primi abiti, Solo in the Spotlight, un attillato model-
lo in paillettes che si apre alle caviglie in una morbida balza
di tulle, con guanti, è nero: ma i luccichii del tessuto e un fou-
lard di seta rosa contribuiscono a illuminarlo e completano
l’immagine di Barbie, che per una sera si cimenta dinanzi al
microfono. Innumerevoli e splendidi, i suoi abiti da ballo so-
no un’autentica esplosione di colori: Enchanted Evening è ro-
sa cipria; Senior Prom alterna il verde acqua e l’azzurro cari-
co; Campus Sweethearth e Sophisticated Lady giocano con i
più diversi toni di rosa e rosso; Midnight Blue fa risaltare un
blu sontuoso grazie al contrasto con l’argento; Evening Gala
è turchese e oro; rosso fiammeggiante sono Magnificence e
Benefit Performance.
Intollerabile, per l’esigente Madame Dariaux, è la sciatte-
ria che alcune donne dimostrano nei momenti privati a fronte
dello splendore riservato alle occasioni pubbliche: «Una delle
più singolari incoerenze in donne per altri versi eleganti è il
modo in cui trascurano completamente la loro eleganza nelle
35
ore di intimità in casa propria, esattamente nel luogo e nel mo-
mento in cui soprattutto dovrebbero essere attraenti».
Ma Barbie può controbattere con Nighty-Negligee Set, un
completo formato da camicia da notte e vestaglia dalle rosee
trasparenze, che indossa stringendosi al cuore un cagnolino
di feltro rosa. Uguale cura Barbie dimostra con la biancheria,
ambito nel quale secondo la Dariaux non è concessa alcuna
negligenza: «Le donne commettono uno sbaglio se trascura-
no questo potenziale elemento di attrazione».
E Barbie, naturalmente, non commette un errore così
grossolano, sfoggiando sotto i sontuosi abiti Floral Petticoat,
una gonfia sottoveste ricamata con reggiseno a fascia e slip
coordinati, o Fashion Undergarments, un altro completo for-
nito di guaina.
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siede pochissimi completi di biancheria nello stesso momen-
to, ma li sostituisce spesso. Lo stesso vale per le scarpe e i
guanti, mentre le borse durano anni e anni. Rinnova ogni
estate soltanto il guardaroba per le vacanze, acquistando
spesso gli abiti estivi in un grande magazzino o in una bouti-
que non molto cara». Certo, la direttrice della casa di moda
francese non disconosce che un tale atteggiamento è un com-
portamento indotto, piuttosto che una naturale inclinazione:
«Non si può negare che l’americana sia costantemente cir-
condata da tentazioni e aggredita dalle più irresistibili pub-
blicità di moda. Inoltre, le viene insegnato che il suo ruolo
nell’economia nazionale è di acquistare e consumare in con-
tinuazione».
E, difatti, una certa frenesia nell’acquisto è quanto inse-
gna, in maniera neppure troppo sotterranea, Barbie. Nella
confezione di ogni singolo abito è presente un piccolo cata-
logo che presenta le altre creazioni, con le quali la singola
bambola sarà sempre più compiutamente abbigliata. Diffici-
le dire se tale accuratezza sia quell’ineffabile e indefinibile
qualità cui aspirano tutte le donne occidentali, l’essere chic,
«un dono degli dèi che non ha alcun rapporto né con la bel-
lezza né con la ricchezza», dono che Jacqueline Kennedy si-
curamente possiede e che risulta estremamente difficile da in-
segnare con un manuale o con una bambola che ne rispetti
pedissequamente le norme.
L’incubo di Betty Friedan
38
Così, la stampa femminile dedica ampio spazio alla moda e
alla bellezza, all’arredamento e alla cucina, alla posta del cuo-
re e ai bambini. Se in passato il grande escluso dei discorsi per
signore era tutto quanto riguardava la sfera del sesso, ora
molta della precedente pruderie viene abbandonata. Assolu-
tamente banditi nelle colonne delle riviste femminili sono
semmai tutti gli argomenti che possono in qualche modo ri-
mandare a un orizzonte extradomestico: politica, economia,
problematiche sociali e così via. Illecita, scandalosa, intolle-
rabile non è l’ammissione del desiderio sessuale ma la possi-
bilità che una donna sia in grado di essere intellettualmente e
economicamente autonoma, che possa anche solo aspirare a
una personalità indipendente. Assolutamente immorale è che
una donna eserciti una professione, costringendo il marito a
condividere le fatiche domestiche, invece di permettergli di
dedicarsi ai problemi della nazione e del mondo.
Malgrado la maggior parte delle lettrici abbiano comple-
tato gli studi superiori e abbiano frequentato, almeno per
qualche anno, il college, per le redazioni delle riviste esse ri-
sultano incapaci di dedicarsi ad altro che alle ricette dei muf-
fins o alla linea degli scamiciati con martingala, con eventua-
li deviazioni sulla confezione di coprifasce o sulla coltivazio-
ne dei rampicanti. Poco importa – rileva Betty Friedan – che
le signore condannate nei verdi sobborghi cittadini a un ri-
petitivo rituale quotidiano, scandito dagli orari scolastici dei
figli, dagli appuntamenti con le amiche e dalle attività bene-
fiche, si sforzino di ignorare quella voce interiore che dice:
«Voglio qualcosa di più del marito, dei figli, della casa» e di
sfuggire alla consapevolezza di vivere in un incubo vischioso.
Quando cercano di scantonare dal binario prestabilito in cer-
ca di svolte diverse, a impedirlo c’è lo spettro del pubblico lu-
dibrio. Mentre infatti si confeziona con ogni cura possibile la
figura femminile positiva, tutta casa, marito e figli, con al-
trettanto dispiego di mezzi si costruisce il profilo negativo, ti-
pico della donna che lavora. Se in precedenza la «donnaccia»
era colei che trascinava in un rovente e proibito gorgo pas-
39
sionale l’uomo, ora la donna da sfuggire è colei che dimostra
di avere una personalità autonoma e indipendente: essere ir-
reprensibili equivale a scongiurare il sogno, proibito, della
carriera.
Non a caso, i racconti che allietano le signore americane
hanno spesso come protagonista una casalinga minacciata da
una donna in carriera che tenta di sedurne il marito o il figlio,
per poi insinuarle nell’animo il tarlo dell’insoddisfazione per-
sonale e di un sogno di indipendenza, rischiando di farle per-
dere inevitabilmente e per sempre l’amore maschile. Alla fi-
ne la protagonista esorcizza il pericolo cancellando la propria
personalità: si realizza così, compiutamente, la togetherness,
condizione che vede la donna esistere solo per la felicità e la
soddisfazione del marito e dei figli.
I giornalisti non mancano di celebrare fulgidi esempi di sa-
crificio delle aspirazioni personali delle donne in nome della
felicità familiare. Anche le attrici, che svolgono una delle po-
chissime professioni che la «mistica della femminilità» con-
cede alle donne, vengono presentate sotto una luce che ne
amplifica i tratti teneri e materni. Le nuove dive non hanno
più il tratto volitivo e imperioso di Greta Garbo o di Bette
Davis, ma il dolce sorriso di Debbie Reynolds. Le pagine del-
le riviste non le ritraggono più durante le fatiche sul set o nel
momento dell’aspra lotta per raggiungere il successo, ma
quando divengono madri o si dedicano alla casa. Le dive al
culmine della carriera, poi, non fanno altro che dichiarare di
sentirsi fallite intimamente, come donne.
Il sacrificio di sé cui le donne vengono chiamate dalla so-
cietà negli anni Cinquanta e Sessanta Barbie sembra soppor-
tarlo piuttosto bene. E però fa capolino qualche vistosa esi-
tazione. Nel 1962, indossa la toga nera con il tocco e stringe
fra le mani il diploma infiocchettato: nella sua biografia uffi-
ciale leggiamo della frequenza presso la Willows High School
a Willows, nel Wisconsin, e del perfezionamento presso la
Manhattan International High School a New York. Forte
dell’istruzione ricevuta, Barbie graduate è pronta a tuffarsi
40
nel magico mondo delle professioni, in questo più simile alle
giovani degli anni Quaranta che a quelle degli anni Sessanta.
41
bero state in grado di lavorare e di disporre di denaro, oltre
che di un’autonoma posizione sociale, indipendente da quel-
la del marito anche se a essa simmetrica.
42
beramente fra i vari modelli di automobili, vestiti, profumi,
soprammobili... Proprio ora, assai più che in passato, inte-
ressa non tanto colpire la mente delle donne e contribuire al-
la loro indipendenza ma gonfiare il portafoglio degli inser-
zionisti che vogliono vendere detersivi e rossetti.
Così Barbie, che si appresta a diventare la bambola più fa-
mosa del mondo, malgrado la sua creatrice coltivi valori di-
versi e immagini proiettata la sua creatura su orizzonti pio-
nieristici, sembra non poter zittire totalmente le sirene del
suo tempo, che ha delimitato con precisione l’unico ambito
in cui la donna può e deve sentirsi protagonista. Una volta
conquistata la laurea, Barbie si tuffa a capofitto nel mondo
del lavoro, arrivando ad assumere un’aria consapevolmente
professionale. Nei momenti di riposo ama frequentare le
esposizioni artistiche e i teatri: il delizioso abito Modern Art,
completo di catalogo, è l’abbigliamento ideale per un vernis-
sage, così come Theatre Date, un completo di raso verde sme-
raldo con il cappellino in tinta, è perfetto per accomodarsi in
poltronissima. Ma, nonostante le predilezioni culturali e le
duttili capacità che si trova a poter agevolmente dimostrare,
Barbie durante gli anni Sessanta non può assumere l’aria di
una nuotatrice di lungo corso nell’avventuroso e appassio-
nante oceano che si estende fuori dalla porta di casa. Pronto
a essere indossato, nell’armadio, l’attende Barbie-Q Outfit,
un vaporoso abito da casa completo di ciabattine, ampio
grembiule, cappello da cuoco, presina in tinta, mattarello e
mestoli vari: un abbigliamento da cuoca perfetta, ad attesta-
re quali siano le doti che si ritengono necessarie a una donna
per realizzare in maniera completa le sue potenzialità.
L’incubo di Betty Friedan è servito: acconciando e ve-
stendo la donna-bambola con i preziosi consigli contenuti
nelle confezioni degli abiti, le bambine hanno imparato, me-
glio che con la lettura di una qualsiasi Madame Dariaux, qua-
li siano oneri e onori che le attendono una volta sostituite le
calze di cotone con il nylon del collant, e sanno che in ogni
caso il volto che dovranno assumere, non importa quanto ric-
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ca o complessa sia la loro personalità, è quello rassicurante
della donna di casa, felice dell’appagante pienezza della vita
domestica.
Del resto, anche la creatrice di Barbie rinuncia all’aura di
donna in carriera e ama presentarsi al pubblico curioso come
una semplice mamma che ha ideato una bambola esclusiva-
mente per far felice la figlia Barbara: peccato che quest’ulti-
ma abbia già diciotto anni quando la prima Barbie vede la lu-
ce e l’età la pretenda davanti allo specchio a sistemarsi le pie-
ghe dell’abito, anziché a sistemarle a una pupattola di plasti-
ca. Tuttavia, quel che l’età ha risparmiato alla giovane Hand-
ler toccherà in sorte a milioni di altre bambine che con Bar-
bie imparano a vestirsi, a sorridere, e soprattutto a rimanere
immobili nella propria trionfante e «mistica femminilità».
Domani mi sposo...
45
bie si drappeggia nelle immacolate trine dell’abito da sposa,
Ken cerca di non esserle da meno nel suo Tuxedo nero, com-
pleto di farfallino cremisi e di gardenia all’occhiello. Tuttavia
le nozze non vengono mai celebrate, ma posposte all’infinito.
E negli anni gli abiti da sposa si moltiplicano: velo corto, ve-
lo lungo, organze, chantilly, rasi, sete, velluti, perle, fiori
d’arancio, mughetti, gelsomini, rose. Tutto il repertorio tra-
dizionale viene periodicamente ricombinato per dar vita a un
nuovo, indimenticabile abito che alla collezione successiva
viene dimenticato a favore di uno diverso, dello stesso niveo
colore, fatto con gli stessi materiali, ma con un volant, una
pince, un fronzolo in più o in meno.
Barbie non sembra poter resistere al fascino dell’abito da
sposa. Tuttavia, la biografia della fanciulla, che la descrive
pronta a cedere di fronte a una vetrina che le propone un
completo all’ultimo grido, dice anche che è ferrea nella tute-
la della sua virtù. Peraltro, anche Ken non è certo il tipo di
ragazzo caparbiamente deciso a metterla in pericolo. Con la
sua aria dimessa, appare proprio uno dei tanti accessori del-
la sua dama, che lo pretende al suo fianco quando estetica-
mente necessario. Del resto, quando alla Mattel si è trattato
di deciderne le fattezze anatomiche, di fronte a tre prototipi
diversi si è scelto quello con appendice maschile meno evi-
dente, per evitare che la chiusura lampo dei calzoni lo faces-
se sembrare un superdotato, poco adatto al ruolo di cicisbeo.
Così i due piccioncini non si negano nessuno dei diverti-
menti che la morale corrente negli anni Sessanta ritiene giu-
sto debbano essere concessi alle giovani coppie. E anche se
Barbie ama spesso vestirsi in maniera provocante, sembra
non costarle eccessiva fatica attenersi pedissequamente a
quanto recitano in quegli anni i manuali di buone maniere
per giovinette.
Le regole del bon ton, naturalmente, sono state aggiorna-
te in conseguenza di nuove abitudini sociali. Si dà per scon-
tato che i teenager di entrambi i sessi frequentino le stesse le-
zioni e insieme vadano a balli, gite ed escursioni senza oc-
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chiuti chaperon. Ma, nelle occasioni di svago più che in altri
momenti, le ragazze di buona famiglia devono tenere un «me-
tro ragionevole di condotta». Ciò che più di ogni altra cosa
devono temere è quella che, con circospezione, nelle pagine
loro dedicate viene definita «eccessiva confidenza» o «torbi-
da familiarità»: devono quindi saper ben riconoscere il mo-
mento in cui l’allegria si trasforma in baldoria incontrollata;
devono evitare che abbigliamento, portamento e comporta-
mento possano incoraggiare facili libertà; devono preferire
amici e amiche che si comportino con compostezza; devono
evitare di bere fino a perdere l’equilibrio e devono saper la-
sciare la compagnia al momento opportuno. L’elenco fitto
dei doveri da rispettare serve alle ragazze a preservare quan-
to si ritiene abbiano di più prezioso: la verginità, che offri-
ranno solo al futuro sposo, dopo regolare contratto di matri-
monio, siglato in un turbinio di chiffon e taffetà, al suono
pomposo e familiare dell’organo parrocchiale.
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non sembrò più possibile celare il vizio privato dietro la
smagliante pubblica virtù.
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tuzione comincia a essere messo seriamente in discussione e
la sua critica si lega strettamente alla montante protesta con-
tro la guerra del Vietnam. La voce degli studenti si alza pri-
ma per denunciare la ristrettezza di vedute che sembra per-
vadere i loro programmi di studio. Ben presto, però, sembra
che niente sfugga ai vigorosi appunti del mondo studentesco.
La discussione comincia così a toccare i più svariati ambi-
ti – l’educazione, l’istruzione, la politica – fino a trasformarsi
in contestazione della società capitalistica nel suo complesso:
i retrivi valori borghesi vengono combattuti in nome di una
nuova libertà. Quello che sembra non venir meno nei gruppi
contestatari è il «sogno americano» di costruire una nuova
società fondata su valori antitetici a quelli del profitto e della
bellicosità; solo che esso viene interpretato con canoni liber-
tari e anticonformistici. I protagonisti della costruzione di
nuove comunità, gli hippy, credono fortemente che a partire
dalla loro esperienza sociale, caratterizzata dall’eguaglianza
sostanziale fra gli individui e dal rispetto reciproco, il mondo
possa effettivamente cambiare: sarà instaurata una nuova età,
quella che in astrologia viene chiamata l’era dell’Acquario,
pacifica e felice, luminosa e colorata. In apertura al musical
Hair, dedicato alle vicende di un gruppo di disertori della
guerra del Vietnam, scritto nel 1967 e rappresentato per la
prima volta l’anno successivo, si inneggia a questa nuova sta-
gione felice per l’umanità.
49
And the mind’s true liberation
Aquarius, Aquarius...
50
sconfiggere le inibizioni inculcate dall’educazione borghese in
nome di una nuova libertà, soprattutto sessuale.
Sodomy, fellatio,
Cunnilingus, pederasty,
Father, why do this words sound so nasty?
Masturbation can be fun.
Join the holy orgy kamasutra, everyone.
51
cisco. / Oh Donna, cerco la mia Donna. / Avete visto la mia sedi-
cenne tatuata? / Ho sentito dire che l’hanno scacciata per la sua
bellezza / [...] / Le farò vedere / quanto è dolce la vita sulla Terra.
/ Metterò ai suoi piedi la mia testa sballata / e farò l’amore con lei
/ finché il cielo non si oscura.
52
Ken non beve, non fuma e appare solidamente allergico a
ogni forma di erotismo. Non sappiamo cosa faccia quando
Barbie è lontana. Sicuramente, in sua presenza non si lascia
andare a niente che non sia più che consono al comporta-
mento di un gentiluomo nei confronti di una gentildonna.
Certo, di tanto in tanto può indossare una casacca sgargian-
te e a partire dai primi anni Settanta comincia a sfoggiare una
fluente capigliatura: ma questo non basta a trasformarlo da
perfetto fidanzato fifties a fascinoso ribelle, semmai a far en-
trare nell’ambito del convenzionalmente lecito quanto fino a
quel momento è stato visto come segno di rivolta.
Così Barbie può dimostrarsi solidale con tutti quei geni-
tori che sognano, come un tempo, il «matrimonio buono»
per le loro figlie e che, malgrado le evidenze che i tempi fan-
no segnare, continuano a figurarsele illibate fino al «grande
passo». E continua a essere felice di collezionare, stagione do-
po stagione, immacolati abiti da sposa che indossa con tutta
solennità, salvo poi lasciare solo – e libero – il suo povero Ken
a un passo dall’altare, in un gioco ripetitivo e interminabile.
Ma si tratta esclusivamente di un espediente: giusto il tempo
di aggiornare scollatura e acconciatura ed eccola ancora lì,
che prende per mano il suo promesso... ma solo per un mo-
mento.
L’età ingrata
54
fluenti della sorella e un guardaroba altrettanto numeroso.
Sempre nel 1964 Midge si fidanza con Allan Sherwood, il mi-
gliore amico di Ken.
L’allegra comitiva, così genuinamente americana, alla
metà degli anni Sessanta, può dirsi tranquilla e soddisfatta.
Come la maggioranza degli americani può cullarsi nell’ab-
bondanza dei beni materiali, assicurati da un’economia capi-
talistica in espansione. Nella semplice e sobria Dream house
del 1961, Barbie e i suoi amici gustano il piacere di compor-
tarsi da adulti: sui divani ci si siede a conversare, ma si pos-
sono anche conoscere cose nuove leggendo uno dei tanti li-
bri ben ordinati sugli scaffali, o rilassarsi ad ascoltare i nu-
merosi dischi poggiati sul mobiletto con stereo e televisore in-
cassati. Qualche anno più tardi gli ambienti di Barbie si am-
pliano con la Dream kitchen-dinette, la prima cucina com-
pleta di un angolo per la prima colazione e di un altro per il
pranzo, con i mobili in serie blu e gialli, l’ampio frigorifero, il
forno, la lavastoviglie e il tostapane: un’autentica american
kitchen, simbolo per tutti gli americani, sia di plastica sia in
carne e ossa, di quel benessere capitalistico che sembra in
grado di assicurare anche alle casalinghe fatiche più lievi e
una vita più appagante. Quella che si respira negli Stati Uni-
ti è un’atmosfera di piena fiducia nel futuro e nelle possibi-
lità dell’uomo di migliorare costantemente la propria condi-
zione: la tecnologia si dimostra in grado di risolvere i mille
piccoli e grandi problemi della vita quotidiana, garantendo
un benessere inimmaginabile anche solo una generazione
precedente. L’intero universo sembra a portata di mano, do-
po i primi viaggi spaziali e l’orma di Neil Alden Armstrong
sul suolo lunare.
55
versità americane si esprime con la contestazione studente-
sca, con il rifiuto dell’aggressività che la società capitalistica
occidentale dimostra contro i paesi più poveri del mondo,
con il miraggio di una palingenesi promossa dalla libertaria
cultura beat.
Dall’Atlantico le brezze rivoluzionarie raggiungono con
facilità l’Europa. Anche qui i disagi dell’abbondanza si vol-
gono presto in critica verso l’assetto perbenista e gerarchico
della società. Ma se in Francia e in Italia i venti di rivolta sof-
fiano nelle università, sollevando urgenze di cambiamento in
ambito politico e sociale, nel Regno Unito la «contestazione»
dell’ordine costituito e la «trasgressione» delle convenzioni
sociali assume un aspetto peculiare, apparentemente più at-
tento agli aspetti esteriori, ma in grado di incidere profonda-
mente e a lungo sui costumi collettivi.
La «swinging London» regala al teenager, un attore socia-
le appena inventato, caratterizzato dall’insoddisfazione e
dall’indole critica, dall’entusiasmo per quanto appare sopra le
righe e fuori dalle regole, un’immagine, un abbigliamento e un
aspetto peculiari, ma soprattutto l’assicurazione che quell’im-
magine, quell’abbigliamento, quell’aspetto sono esclusiva-
mente suoi, patrimonio di chi non ha più di venticinque anni.
Ormai, per i ragazzi non si tratta più di passare dai calzoni cor-
ti a quelli lunghi repentinamente, perdendo con il nuovo ab-
bigliamento la spensieratezza dell’infanzia e assumendo
un’aria indiscutibilmente seria, adulta; né per le ragazze di ab-
bandonare gli spessi calzettoni e le scarpe allacciate a favore di
calze di seta, tacchi alti e filo di perle. Per i giovani in quella che
sempre più spesso si sente definire «età ingrata», nelle bou-
tique di Carnaby Street e di King’s Road si trovano capi che
non li fanno sembrare fotocopie dei loro «imbalsamati» geni-
tori. Autenticamente rivoluzionaria è la proposta di una gio-
vane diplomata al Goldsmith College of Art che di nome fa
Mary Quant e che propone alle ragazze di accorciare decisa-
mente gli orli delle gonne e di evitare il nero e i pastelli a favo-
re di colori vivi e sgargianti.
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Una volta vinte le riserve, i creatori di moda fanno a gara
per proporre capi sempre nuovi, dalle linee avveniristiche,
dagli abbinamenti di colore impensati, dai materiali inusitati.
Se le passeggiate nello spazio e lo sbarco dell’uomo sulla Lu-
na fanno sembrare vicino e tangibile l’intero universo, il fran-
cese André Courrèges dedica all’età spaziale un’intera colle-
zione di abiti molto corti, funzionali e sobri, rigorosi nella bi-
cromia bianca e nera, completati da stivali candidi. Le mo-
delle indossano questi abiti con parrucche di capelli sintetici
dai colori inverosimili e con occhiali da sole bianchi, che le
fanno assomigliare a veri e propri astronauti in missione. Uno
stile cosmonautico è anche quello cui si ispirano negli stessi
anni Pierre Cardin, che utilizza spesso e volentieri il vinile per
le sue creazioni o Paco Rabanne che realizza in plastica e me-
tallo i suoi abiti futuristici.
Questi abiti, che scoprono i corpi in maniera impensata e
impensabile fino a qualche anno prima, scandalizzano i ben-
pensanti, né più né meno che i comportamenti che le giova-
ni generazioni cominciano a tenere pubblicamente. Ribelli al-
le convenzioni che li costringono a soffocare sogni e tempe-
ste ormonali, curiosi di ogni nuova esperienza, gli adolescen-
ti dei secondi anni Sessanta reclamano a gran voce di espri-
mere apertamente sentimenti e passioni e salgono alla ribalta
delle cronache, perché in grado di dare inedite e calzanti de-
finizioni al mondo.
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Nel novero di coloro che si rinnovano Barbie non inseri-
sce se stessa e il suo mondo, in rapido cambiamento per ri-
spondere prontamente alle sollecitazioni più diverse. Fino a
quel momento, infatti, pur essendo in giovane età, Barbie,
Ken e gli altri amici di casa Mattel si sono sempre vestiti e
comportati da adulti, riproponendo le abitudini in uso fino
all’avvento della moda della «swinging London». Ma l’aria
londinese, così allettante per chi come Barbie dimostra di
avere una sensibilità particolare per il rinnovamento estetico,
diviene irresistibile quando anche dagli Stati Uniti si guarda
con attenzione a quanto mettono in vetrina le boutique
all’ombra del Big Ben, snobbando gli abiti che fanno somi-
gliare le diciottenni alle loro madri. Così, anche le vecchie
amiche vengono impercettibilmente trascurate da Barbie per
nuove amicizie, che condividono con lei inedite linee di ve-
stiti dai colori inusitati. Nel 1966 fa il suo ingresso in società
una cugina di Barbie, Francie, che l’anno dopo si fa raggiun-
gere da un’amica, Casey. Fra le nuove amicizie c’è anche
Twiggy, riproduzione in vinile della più famosa modella del
momento, mentre nel 1968 entra a far parte del gruppo Sta-
cey, che non a caso giunge proprio da quella creativa Inghil-
terra che detta le regole del vestire alla moda.
Il nuovo quartetto che affianca Barbie ha un fisico più sot-
tile, forme meno accentuate, quasi infantili. Le loro fattezze ri-
propongono in miniatura il nuovo ideale di donna che, con la
nuova moda, si va imponendo e che è rappresentato non solo
da Twiggy, ma anche da Veruschka e da Jean Shrimpton: una
donna magrissima, quasi eterea, ma non per questo meno sen-
suale, grazie ai grandi occhi segnati dal kajal e alle labbra pe-
rennemente imbronciate. Scattanti, nervose, quasi androgine,
rispetto alla linea morbidamente femminile che continua a
contraddistinguere Barbie, le sue nuove amiche hanno il fisi-
co perfetto per valorizzare le linee semplici ed essenziali che le
nuove tendenze della moda propongono alle giovanissime.
Dietro il loro esempio, anche la formosa Barbie non rinuncia
a rinnovare il trucco, riproponendo l’affascinante broncio di
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Brigitte Bardot e lunghissime ciglia da cerbiatta: un volto no-
to anche come «viso a o» dato che le labbra della bambola sem-
brano pronunciare questa lettera. Felice anche della possibi-
lità di ruotare il busto, che un’innovazione tecnica le ha con-
cesso, Barbie Twist ’n Turn, cambia l’intero guardaroba se-
guendo il consiglio degli stilisti emergenti. Sempre in sintonia
con lei, anche Ken aggiorna la sua immagine, ispirandosi al fa-
scinoso Warren Beatty. La coppia assume così un’aria decisa-
mente più sbarazzina e meno formale: quello che oggi in mol-
ti chiamano aspetto mod, dall’inglese modern.
Tuttavia, malgrado le linee giovanili e i disparati materia-
li utilizzati, malgrado l’idea stessa che la formalità dell’abbi-
gliamento – al pari di tutte le altre noiose formalità – vada
combattuta, non sembra tramontare la tradizione sartoriale
delle creazioni destinate a Barbie, sempre contraddistinte da
un nome e da un’estrema cura di particolari: Sunflower ha
una scollatura inusuale e una stampa psichedelica; Lemon
Kick è un elegante completo pantalone plissettato; Jump into
Lace un raffinato pigiama palazzo di pizzo doppiato in rosa
ciclamino; Print a Plenty un asciutto abitino stampato a ret-
tangolini; Caribbean Cruise un completo pantalone giallo
sgargiante ornato di volant; Patio Party una tuta pantalone a
disegni vivaci completa di spolverino bicolore. Malgrado gli
abiti stessi, con i loro colori accesi e le loro fantasie appari-
scenti, quasi chiassose, vogliano sfidare le convenzioni, Bar-
bie insegna sempre a indossarli nel posto giusto al momento
giusto. Appare inutile quanto poi affermerà successivamen-
te, ricordando di aver colto lo spirito del tempo, scegliendo
abiti più semplici.
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Se una certa apparenza formale sembra aver perso ogni in-
canto agli occhi di Barbie che ora si riveste di abiti più sem-
plici e spiritosi, intatta rimane però la sua capacità di dettare
alle ragazzine un preciso galateo dell’abbigliamento, sugge-
rendo con il nome dei singoli abiti le occasioni in cui indos-
sarli. Anche il ventaglio delle attività cui dedicarsi rimane
piuttosto ristretto, e non sembra tener conto dei tempi che
cambiano. Nel 1968 Barbie Talking pronuncia sei frasi em-
blematiche:
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ducono a pensare che esca con il solito Ken. Barbie si annoia
nel suo incessante andirivieni da un party all’altro e, dotata di
ogni fantasia, ne propone uno in maschera, tanto per viva-
cizzare l’atmosfera. Barbie ama il suo mestiere di modella,
che le permette di indossare abiti sempre diversi, insufficien-
ti però a sciogliere il primordiale amletico dubbio con cui
inaugura la sua conversazione: «Cosa devo indossare per la
festa?». Il quesito, degno delle più attente premure, segna
l’intera vita di Barbie, costretta a una piatta routine festaiola
che solo il cambio dell’abito può contribuire, parzialmente, a
rianimare.
Pazienti, le bambine rispondono facendole indossare gli
abitini che hanno imparato da lei stessa a considerare oppor-
tuni. A Barbie sembra impossibile, anche in un periodo in cui
più forti si fanno le voci che invitano a non rispettare con-
venzioni che sembrano assurde, non continuare a impartire,
impossibile sapere quanto inconsapevolmente, lezioni di bon
ton. Peccato che le sue principali interlocutrici, le bambine
degli anni Sessanta, malgrado Barbie prometta loro un futu-
ro di occasioni centrate grazie al rispetto dei codici estetici,
non sognino che di diventare grandi per poter finalmente in-
frangere le regole, e non solo quelle della moda.
Black is black...
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conoscere come «uguali» cose assolutamente imparagonabi-
li dal punto di vista qualitativo.
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L’America bianca, che tenta di resistere a ogni possibile
innovazione in campo razziale, viene inoltre scossa da un epi-
sodio di cronaca che suscita grande clamore: a Montgomery,
in Alabama, una donna di colore, Rosa Parks, di ritorno dal
lavoro, rifiuta di cedere il suo posto in autobus a un bianco.
Il suo arresto segna l’inizio di un’azione di resistenza che
coinvolge l’intera comunità di colore della città. I neri boi-
cottano il servizio urbano fino a quando il tribunale non ri-
conosce le ragioni di Rosa Parks.
A partire da questo episodio nella provincia americana
degli anni Cinquanta i casi di neri che si impegnano in for-
me di resistenza non violenta aumentano. Al loro fianco è
schierato il governo centrale, che non tollera che vengano
disattese leggi federali e sentenze della Corte suprema.
Quando, nel 1957, alla Central High School di Little Rock,
in Arkansas, a nove studenti neri è impedito l’ingresso, vie-
ne inviato l’esercito a presidiare la cittadina affinché gli stu-
denti possano entrare regolarmente a scuola. Naturalmente,
queste misure vengono ritenute troppo drastiche dai molti
bianchi che ritengono giusta la separazione dai neri e che ri-
spondono in maniera altrettanto decisa. L’anno successivo,
la Central High School di Little Rock, pur di impedire l’in-
gresso ad allievi di pelle scura, non riapre i battenti.
Non basta però un portone chiuso a fermare l’avanzata,
tanto più che una volta fuori dai ghetti, nell’ansia di riscatto
e di promozione sociale, i neri promettono di diventare un
nutrito gruppo di consumatori. Sicuramente si tratta di una
fascia di mercato che, in molti settori, ha bisogno di prodot-
ti strutturalmente diversi da quelli usati dai bianchi. Soprat-
tutto le case produttrici di cosmetici devono ampliare la loro
offerta per far fronte alle esigenze della nuova clientela che
viene da subito considerata come una generosa fonte di pro-
fitti.
Anche chi vende sogni non può ignorare che essi possono
acquistare sfumature diverse da quelle che hanno avuto fino
64
a quel momento. Così la Mattel si trova ad allargare la pro-
pria produzione lanciando sul mercato bambole nere, con cui
le bambine di pelle scura possano identificarsi. Nel 1968 ap-
pare Christie, seguita a un anno di distanza da Julia, le cui fat-
tezze riproducono quelle della protagonista di un serial tele-
visivo dell’epoca, Diahann Carroll. Capelli neri e crespi,
grandi occhi castano scuro, pelle ambrata, Christie e Julia,
come Barbie e Midge, partecipano a una vita sociale piena di
impegni, dal ritmo serrato scandito dal frenetico cambio
d’abito: tornei di tennis e merende all’aperto, cocktail party
e prime teatrali, balli di beneficenza e vernissage, in cui non
si postulano gerarchie basate sulla distinzione razziale... Le
due fanciulle prendono parte alle medesime attività di Bar-
bie, non sono relegate nell’angolo né destinate a ruoli di ser-
vizio. Julia, addirittura, viene presentata con un dispositivo in
grado di farla parlare, al pari della Barbie che viene prodotta
in quella stagione.
Inoltre Christie e Julia non rimangono le uniche bambole
nere di casa Mattel. Nel corso degli anni, infatti, le amiche
afroamericane di Barbie aumentano: Cara frequenta Barbie
fra il 1975 e il 1978; Dee Dee nel 1986 suona nel gruppo del-
le Rockers, così come Belinda, che nel 1988 fa parte del grup-
po delle Sensation; l’anno seguente si aggiungono al gruppo
anche Devon e Stacie; nel 1994 è la volta di Shani, mentre nel
1999 quella di Nichelle. Certo, negli anni Ottanta la sponta-
neità dell’amicizia di Barbie appare un po’ offuscata dal so-
spetto di un certo interesse: le star di colore dominano il pa-
norama musicale e Barbie, che dà vita a una band, non può
certo prescindere dal loro apporto.
Del resto, anche Ken annovera amici neri fra le sue fre-
quentazioni: nel 1970 si accompagna a Brad; nel 1975 a Cur-
tis, fidanzato dell’amica di Barbie, Cara; nel 1988 a Steven,
boyfriend di Christie. Inoltre, i due fidanzati hanno provato,
letteralmente anche se temporaneamente, a «cambiar pelle».
Barbie nera debutta nel 1980: la sua pelle di ebano è valoriz-
zata – nella confezione originale di vendita – da un vestito
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rosso con dettagli e accessori di gusto etnico e di un lussu-
reggiante color oro. Ma si tratta dell’ebbrezza di un momen-
to, del piacere di vestire – oltre ai mille abiti adatti alle più di-
sparate occasioni – anche una pelle diversa: un brivido che
non intacca quella che nel corso degli anni è diventata una
tradizionale affezione per l’incarnato pallido, gli occhi celesti
e i capelli innaturalmente biondi.
66
trice Ruth Handler, che le bambine vengono aiutate trami-
te il gioco con Barbie a «esplorare il mondo circostante [...]
mostrando le infinite possibilità a loro disposizione [in mo-
do che possano] proiettare se stesse nei loro sogni di cresci-
ta e interpretare a modo loro il mondo dei grandi», le bam-
bine di pelle scura, dalle chiome felicemente crespe, posso-
no sin dalla più tenera età cominciare faticosamente a pren-
dere atto di come la vita sembri riservare maggiori soddisfa-
zioni a chi esibisce un incarnato pallido e una chioma dora-
ta rispetto a chi non può vantarli. Ancora oggi ad Harlem,
infatti, il «test della bambola», reso noto da Kenneth Clark
nel lontano 1954, ha confermato come le bambole più bel-
le, con le quali le bambine nere preferiscono giocare, sono
bianche e se viene chiesto loro perché esse siano più belle,
le bambine con sconcertante sincerità rispondono che lo so-
no proprio «perché sono bianche».
Una verità che Barbie ha sempre conosciuto, senza neces-
sità di ripetere il «test della bambola», e che, malgrado le più
disparate colorazioni di incarnato, chioma e iride, negli ulti-
mi anni in cui ha debuttato con abiti folcloristici come Barbie
nel mondo, non ha mai provato effettivamente a contestare.
Anzi. Una delle ultime imprese dell’infaticabile fanciulla si è
svolta in ambito storiografico: è, infatti, stato dato alle stam-
pe a firma Barbie il primo di una serie di tomi in cui vicende
«biografiche» sono intrecciate ai grandi avvenimenti della
storia degli Stati Uniti. Ciascun volume racconta un decen-
nio: il primo, dedicato agli anni Sessanta, si intitola Peace,
Love & Rock’n’Roll. La vicenda ha inizio nel gennaio del
1964, quando Barbie racconta del suo viaggio a Washington
come reporter per realizzare un servizio su Martin Luther
King. La memoria sembra, però, tradire la simpatica ragazza,
dato che, benché all’inizio del racconto siano passate solo sei
settimane dall’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, l’avve-
nimento – uno dei più sconvolgenti per l’intera America –
non viene neppure ricordato. Ugualmente sotto silenzio pas-
sano il conflitto in Vietnam o la Guerra Fredda.
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A uno sguardo più attento ci si accorge che la memoria ha
infierito con inaudita crudeltà sulla poco zelante storiografa,
la quale dimentica anche che la sua amica Christie ha la pel-
le nera. Un’immagine che raffigura le due ragazze, le presen-
ta con un identico colore della pelle, indubitabilmente chia-
ro... Del resto, se ancora oggi al «test della bambola», le bam-
bole nere risultano perdenti al confronto con quelle bianche,
perché condannare la cara Christie all’insuccesso sociale?
Yankee go home
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ti di accessori che Barbie è solita utilizzare nella sua monda-
na quotidianità: «Vestire Barbie è la cosa più facile e più di-
vertente perché, cambiandole d’abito, acquista di volta in
volta diversa eleganza e diversa personalità».
Tuttavia il gioco appassionante che dovrebbe entusia-
smarle è riservato solo a una fascia particolarmente ristretta
di fanciulline italiane. Nel 1965 il guadagno medio lordo di
una famiglia operaia si attesta sulle 70.000 lire mensili: una
semplice Barbie in costume da bagno e scarpe ne costa 1950;
la versione più sofisticata con tre parrucche, per permettere
alla bambola il cambio dell’acconciatura, addirittura 4500;
gli abiti più semplici costano 1600, mentre i più sontuosi pos-
sono superare le 3000 lire. Skipper, la sorellina di Barbie,
«con costume bianco-rosso, pettine, spazzola e cerchietto» e
Midge, l’amica di Barbie, «con costume in due pezzi e scar-
pe» costano ciascuna 1950 lire, mentre Ken, il fidanzato di
Barbie, e Allan, l’amico di Ken, ambedue in giacca di spugna,
costume da bagno a calzoncino e sandali, costano – privile-
gio della virilità – 2400 lire.
Preclusa la vendita alle bambine delle famiglie operaie per
ovvi motivi, neanche presso la media borghesia la bambola
riesce a riscuotere eccessive simpatie. Non si tratta solo delle
sue forme procaci, inadeguate ai giochi infantili secondo
l’opinione dei genitori che ritengono più educativi i bambo-
lotti, ma anche e soprattutto del fatto che Barbie non pro-
muove certo quei valori di sobrietà e discrezione che devono
diventare patrimonio delle bambine di buona famiglia. Il ca-
talogo che accompagna la Barbie recita infatti: «Tutta la
stampa ha parlato e continua a parlare di Barbie che è la Bam-
bola più fotografata e più reclamizzata di tutti i tempi».
Al contrario, il galateo corrente vuole che le signorine a
modo vivano lontane dalla luce dei riflettori, adatta esclusi-
vamente a quelle figure di dubbia moralità che sono le attri-
ci, e non dimostrino un facile orgoglio per la loro avvenenza.
Non sono solo le pubblicazioni più bigotte del periodo a con-
sigliare alle fanciulle una condotta modesta. Anche dalle pa-
70
gine dell’Enciclopedia della donna (1965), voluta dall’Unione
donne italiane, l’associazione vicina al Pci che promuove sul-
la Penisola l’emancipazione femminile, le giovani fanciulle
sono ammonite ad apprendere sin dalla più giovane età qua-
li debbano essere le doti da coltivare.
71
centro dell’attenzione, ma nello stesso tempo non appartarsi; 9.
non far sfoggio delle nozioni o delle abilità da poco conquistate ma,
nello stesso tempo, inserirsi nella discussione con i propri proble-
mi culturali e con le proprie opinioni; 10. non portare nelle di-
scussioni un eccesso di calore, pur sostenendo con fermezza il pro-
prio punto di vista; non voler intervenire in discorsi che esigono
preparazione e cultura superiore a quella che si possiede, ma ascol-
tare per apprendere e, nel caso, domandare chiarimenti e spiega-
zioni; 11. se c’è una persona di riguardo, non voler accaparrare la
sua compagnia anche se questa persona dimostra una cortese sim-
patia per noi.
72
a un passato inattingibile per gli americani e attutiti grazie ai
vincoli instauratisi con l’emigrazione italiana oltreoceano. A
segnare in maniera definitiva il distacco dell’Italia mussoli-
niana da eventuali simpatie atlantiche erano stati, in primo
luogo, l’alleanza con la Germania hitleriana e, in secondo luo-
go, lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Nelle vignette di Gino
Boccasile gli americani venivano rappresentati come sinistri
figuri capaci di ogni violenza sulla popolazione inerme. Que-
sta immagine si rafforzò, negli schieramenti di destra, all’in-
domani della Liberazione. Per i nostalgici del regime l’Italia
non era stata solo il teatro degli orrori dell’esercito a stelle e
strisce: gli Stati Uniti, fornendo gli aiuti del Piano Marshall,
vi imponevano un modello di vita decadente e dissoluto, se-
gnato dalla corruzione diffusa e dalla presenza ebraica nei
gangli vitali. Il teorico di destra Julius Evola segnalò come lo
sfacelo colpiva anche le più giovani generazioni, trascinan-
dole in abissi di nefandezza.
73
minform, nel quadro della lotta mondiale contro gli assetti
borghesi che si auspicava i diversi partiti comunisti affron-
tassero, gli Stati Uniti vennero indicati come il nemico impe-
rialista da sconfiggere. Fu sistematicamente svalutata quella
democrazia che fino alla stagione precedente era stata vista
con ammirazione: si sostenne anzi che il sistema americano
fosse falsamente democratico, in realtà dominato da poche
grandi famiglie estremamente facoltose, in grado di orienta-
re e dirigere l’intera sfera della politica statunitense.
74
Tuttavia, l’ambiente dove con maggior continuità matu-
ra l’avversione nei confronti degli Stati Uniti e di un certo
stile di vita è quello cattolico. Alla fine dell’Ottocento si
guardava con un sospetto tale alla democrazia e al liberali-
smo sviluppatisi in America che papa Leone XIII nel 1895
aveva emanato l’enciclica Longinqua oceani: si condannava
il tipo di civiltà di cui gli Stati Uniti erano latori perché
avrebbe potuto minare alla base i valori gerarchici sulla
quale secondo il pontefice si dovevano basare le società oc-
cidentali. Nel Novecento la punta di diamante dell’antia-
mericanismo vaticano era costituita dalla Compagnia di
Gesù, che dalle pagine della rivista «Civiltà cattolica» con-
dannava la materialistica ed edonistica società americana,
priva di ideali e di fede religiosa.
Più della metà dei cittadini degli Stati Uniti sono privi di ogni
Chiesa, fuori di ogni professione religiosa. È una massa che vive, se
non nell’ateismo, nel puro naturalismo [...]. L’idea di un’apparte-
nenza a un’istituzione religiosa; la necessità di consacrare con qual-
che pratica religiosa almeno i punti culminanti della vita – nascita,
matrimonio, morte; l’idea di dare ai figli, insieme con i primi rudi-
menti dell’educazione e dell’istruzione, anche qualche verità reli-
giosa che divenga parte della loro educazione fondamentale; tutto
questo insieme di riflessi religiosi nella vita quotidiana, per gran
parte della massa americana, non esiste.
75
l’affare si rivelerà cattivo esse spezzeranno ogni vincolo per andare
liberamente alla ricerca di un’altra combinazione.
76
tezza che quanti per dire «sì» dicono «yes» e uccidono ani-
mali indifesi per farne superflui beautycase non siano certa-
mente persone frequentabili.
In una tale atmosfera, la maggiorata e consumista Barbie,
così vistosa, provocante e superficiale da trattare il suo velo
da sposa come una qualsiasi acconciatura da utilizzare a pia-
cimento, non può essere certo vista di buon occhio. Anche se
non disdegna, com’è noto, di armeggiare in cucina, la bionda
statunitense sembra trovarsi troppo a proprio agio con gli
elettrodomestici che proprio in questi anni cominciano a pro-
mettere minore fatica alle casalinghe. Fornelli, frigoriferi, la-
vatrici, aspirapolvere, frullatori negli anni Sessanta, e poi la-
vastoviglie e televisore negli anni Settanta, fino al forno a mi-
croonde, al tostapane, alla pentola a pressione e alla friggitri-
ce negli anni Ottanta non vengono immediatamente recepiti
dal mercato femminile. La «rivoluzione del bucato», com-
piuta con l’ingresso delle lavatrici nelle case della classe me-
dia, offre nuove opportunità, liberando il tempo prima im-
piegato a mettere a mollo, strofinare, sciacquare, strizzare...,
ma in un primo momento atterrisce chi teme di perdere ogni
ruolo utile. Barbie, così sicura con le nuove tecnologie, così a
suo agio nella gestione del suo (tanto) tempo libero, appare
particolarmente inquietante: perciò ammicca dagli scaffali
dei negozi di giocattoli sola e altera, in attesa di un momento
migliore.
Crisi di crescita
78
Nei primi anni Settanta, infatti, in tutto il mondo occi-
dentale risulta saldamente costituito il movimento per la li-
berazione della donna. Si tratta di un movimento che nasce
nella seconda metà degli anni Sessanta dalla presa di co-
scienza da parte di molte donne, già impegnate nella conte-
stazione studentesca o per il riconoscimento dei diritti civili
ai neri, della loro esclusione dai luoghi decisionali. Come i ne-
ri, le donne sono costrette a lavorare ai margini o al di fuori
delle strutture di potere, anche all’interno dei gruppi nati per
lottare contro le esclusioni sociali e le gerarchie. La decisione
di gruppi di donne consapevoli della marginalità del loro ruo-
lo di staccarsi e di costituire i primi, autonomi consciousness
raising groups, i primi collettivi femministi, ha un precedente
in un episodio avvenuto nel 1966 ed entrato nella leggenda
del movimento femminista. In occasione della conferenza na-
zionale della Students of a Democracy Society, durante una
discussione sulla questione femminile, le donne abbandona-
no il dibattito comune per affrontare da sole, separatamente,
la questione: una scena che si ripeterà innumerevoli volte ne-
gli Stati Uniti e in Europa e che, in molti casi, segnerà la na-
scita dei collettivi femministi.
Negli Stati Uniti uno di questi gruppi inaugura la propria
attività con un’azione estremamente significativa: mentre si
svolgono le finali del concorso di bellezza più famoso del con-
tinente, l’elezione di Miss America, un gruppo di donne inco-
rona una pecora, getta nella «pattumiera della libertà» reggi-
seno, bigodini e cosmetici e celebra una cerimonia funebre al-
la «femminilità tradizionale» nel cimitero nazionale di Arling-
ton, in Virginia. Non è il solo, ma certamente il più plateale epi-
sodio, che testimonia come, a partire dalla prima denuncia di
Betty Friedan che aveva illustrato come la «mistica della fem-
minilità» avesse creato un eterno femminino afflitto da quel
«problema senza nome» che era l’insoddisfazione, si sia radi-
cata l’opinione che la libertà di cui le donne godono nel mon-
do occidentale è condizionata da una miriade di fattori, tutti
riconducibili alla sua posizione di inferiorità. Se Betty Friedan
79
aveva reclamato il diritto femminile al lavoro extradomestico,
nei gruppi di autocoscienza che vengono formandosi in ma-
niera spontanea negli Stati Uniti come in Europa, le tematiche
che sono discusse non interessano esclusivamente l’ambito la-
vorativo. Esso, anzi, rischia di risultare marginale di fronte al-
la riflessione più ampia e articolata che le donne avviano sul
corpo femminile, sulla sua proprietà, sull’uso che la società ne
fa privandole del diritto di disporne liberamente: partendo
spesso dal vissuto personale delle componenti, vengono ap-
profonditi i temi relativi alla sessualità, alla libera scelta della
maternità, all’aborto, al divorzio, alle varie forme di schiavitù
domestica che molte donne sono costrette a sopportare. Di
fronte alle battaglie delle femministe sull’aborto come sul di-
vorzio, sulla parità salariale come sulle politiche familiari, alla
lunga, il mondo politico occidentale non può non reagire. E
sebbene in tutti gli schieramenti parlamentari e anche nei mo-
vimenti politici extraparlamentari le battaglie femministe sia-
no viste con un atteggiamento di sufficienza, se non di fastidio,
nel corso degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta vengono
varate, anche se con molte timidezze e in mezzo ai mugugni dei
gruppi più conservatori, delle leggi in grado di fornire le pri-
me, immediate risposte alle esigenze femminili.
Ma è sul piano simbolico che la battaglia delle femministe
appare più difficile da combattere: finché non cambia l’idea
tradizionale della femminilità appare estremamente difficile
che, malgrado una legislazione più attenta ai bisogni delle don-
ne che in passato, le cose cambino effettivamente. I mezzi di
comunicazione di massa continuano a promuovere un’imma-
gine femminile caratterizzata dal precipuo interesse per le pro-
prie doti fisiche e per il loro miglioramento, nonché per la ca-
pacità di seduzione in grado di esercitare. Si tratta di un’im-
magine talmente pervasiva da giungere senza difficoltà alle
bambine, che la vedono ulteriormente amplificata dall’esi-
stenza di giocattoli come Barbie.
Articolare una critica verso la bambola che alla fine degli
anni Sessanta copre un’ampia fetta del mercato con un suc-
80
cesso sfolgorante, anche grazie a furbe operazioni pubblicita-
rie, non è un’operazione tanto complessa quanto quella di
scardinare convinzioni comuni sulla femminilità. Inoltre, la
censura nei confronti di Barbie poggia su argomenti che sono
stati affilati e perfezionati in cantieri non immediatamente ri-
conducibili all’area del movimento di liberazione della donna.
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riore della bambola, inoltre, si coniugano significativamente
con un bacino stretto: Barbie è quindi strutturalmente inca-
pace di maternità. Il suo seno prosperoso è solo in grado di
suscitare pensieri peccaminosi, non assolvendo ad alcuna al-
tra funzione. Il guardaroba fornito dei più svariati accessori
serve ad amplificare ulteriormente la civetteria della bambo-
la, demonizzata quasi quanto il reggiseno che le femministe
lanciano nei falò accesi in piazza.
Ma questa feroce propaganda negativa è sostanzialmente
caratteristica degli Stati Uniti. In Europa, mercato al quale
Barbie sta puntando in questo periodo, il movimento di libe-
razione della donna si concentra su mete più sostanziali, e so-
lo marginalmente risulta interessato a colpire una bambola.
La fanciulla, pertanto, non si lascia spaventare più di tanto
dagli strali femministi. Intimamente ferrea, esperta e spre-
giudicata conoscitrice di quello che è il mercato occidentale
almeno quanto nell’aspetto è romantica e svenevole, Barbie
inaugura una strategia in grado di farle vincere la sfida che i
tempi sembrano lanciarle. Se fino a poco tempo prima, con il
suo trucco sofisticato e gli abiti in tessuti pregiati, è stata de-
stinata a un pubblico di élite, adesso cambia aspetto e stile.
La carnagione chiarissima e il volto teneramente imbroncia-
to e marcatamente truccato, da seduttrice, vengono rimpiaz-
zati da una pelle lievemente abbronzata e da una nuova fac-
cia quasi senza trucco, in cui spiccano due occhioni turchini
che si fissano sull’interlocutore, mentre le labbra sono atteg-
giate a un sorriso aperto e gioviale. Barbie Malibu sceglie de-
finitivamente il biondo platino per la sua chioma e si presen-
ta vestita solo di un costume da bagno celeste. La sua tenuta
la rivela pronta al solito cambio di abiti: ma non si tratta più
di indossare le squisite creazioni sartoriali dei primi anni Ses-
santa né gli audaci abiti dell’epoca mod. Le confezioni degli
anni Settanta non presentano nessuna delle raffinatezze degli
abiti precedenti, a cominciare dal nome. Le contraddistingue
un generico best buy seguito da un numero. Allo stesso mo-
do, gli accessori diminuiscono in numero e qualità. In com-
82
penso, la bambola, venduta in semplici scatole rosa acceso (le
pink box), costa assai meno di prima.
In precedenza solo in un momento della sua esistenza Bar-
bie aveva goduto di una campagna promozionale a tutto cam-
po, e solo negli Stati Uniti: in occasione del lancio di Barbie
Twist ’n Turn, rendendo indietro la vecchia Barbie, ormai
fuori moda, con un dollaro e cinquanta, le bambine poteva-
no portarsi a casa la bambola con un trucco più aggiornato e
un aspetto più rispettoso dei dettami della moda, nonché ca-
pacità di movimento fino a quel momento inaspettate. Ma
adesso non si tratta solo di convincere le bambine a cambia-
re la propria bambola con una che abbia un aspetto più à la
page e che si riveli in grado di ruotare il busto. Bisogna con-
quistare un nuovo mercato, quello più marcatamente popo-
lare di tutti i paesi occidentali dove Barbie è già stata lancia-
ta senza troppo successo: un mercato sostanzialmente anco-
ra vergine perché fino a questo momento estraneo agli obiet-
tivi di casa Mattel, interessata a un target più esclusivo.
La strategia di Barbie è furba. Se sia negli Stati Uniti che
in Europa, le mamme di estrazione sociale medio-alta sono
generalmente più istruite e si rivelano più sensibili ai messag-
gi femministi (e quindi non permettono che le loro figlie gio-
chino con Barbie, giocattolo maschilista e capitalista, a favo-
re di tutta una serie di giocattoli che le coeve teorie psicope-
dagogiche ritengono adeguati a una crescita equilibrata e sen-
za derive sessiste), nelle fasce sociali più basse, desiderose di
ascesa, un simbolo di consumistica opulenza è più che ben-
venuto. Barbie viene così destinata alle bambine di famiglie
di provenienza sociale media e medio-bassa, anche grazie al
prezzo, ora decisamente più allettante.
Nei primi anni Settanta, quando in tutta Europa spirano i
venti della crisi economica e l’inflazione, insieme all’ascesa dei
prezzi del petrolio, rende ogni giorno più costosa la vita quoti-
diana, in Italia si può avere Barbie anche con duemila, poi con
mille e cinquecento e addirittura con sole mille lire, come reci-
tano le pagine pubblicitarie che presentano, a scanso di ogni
83
equivoco con la concorrenza sempre più insidiosa, «la vera Bar-
bie: la tua migliore amica». Anche gli abiti sono decisamente al-
la portata delle tasche meno gonfie: sempre in Italia, in partico-
lari periodi promozionali, al prezzo di un vestito le bambine
possono averne due fra i cinquanta che compongono la colle-
zione della bambola, grazie a un buono sconto di cinquecento
lire che viene offerto sulle pagine dei giornalini per ragazzi. Ve-
ro è che un intero esercito di mamme, nonne, zie, cugine e vici-
ne di casa si apprestano con forbici, ago, filo e ritagli di stoffa
per dotare le bambole di un guardaroba autarchico, ma gli slo-
gan pubblicitari parlano chiaro: «la tua Barbie vuole solo abiti
Barbie, perché gli abiti Barbie sono gli unici su misura per lei».
Dalle pagine del popolarissimo «Topolino» bordate di ro-
sa, dato che la neonata Tv dei ragazzi non è ancora interval-
lata da spot, Barbie, con la puntualità degna del direttore di
una grande azienda, incanta le bambine dei giorni dell’auste-
rity e del primo lassismo educativo, con l’ordinata abbon-
danza che offre, insieme all’agognata possibilità di sentirsi
adulte immedesimandosi con lei: «Sentiti grande. Grande co-
me la tua Barbie. Quante cose puoi fare con la tua Barbie!
Prima di tutto sentirti grande. Giocare grande. Sai che la Bar-
bie ha un’infinità di nuovi vestiti, tutti diversi, tutti bellissimi.
Un divertimento solo a guardarli e a ordinarli bene nella sua
elegantissima valigia».
Barbie sa come ammaliare e dalle pagine dei giornalini a fu-
metti, quale momentanea attrazione fra una storia e l’altra,
emana un fascino incomparabile, promettendo in un momen-
to difficile e cupo la speranza di una vita spensierata. Poco le
importa delle condanne emesse sul suo aspetto e sui valori che
trasmetterebbe alle bambine che giocano con lei. Tutto som-
mato, è sopravvissuta al rogo della sua più importante fabbri-
ca, ha ancora due occhi, due tette e due gambe, decine di pan-
taloni e gonne da indossare in ogni occasione e un desiderio
spasmodico di ricominciare ad avere la vita piena di tutti que-
gli oggetti che, ai suoi occhi di signorina statunitense nata negli
anni Cinquanta, risultano ancora assolutamente irrinunciabili.
84
Una nuova casa
85
ziosa ed elegante. Sei grandi locali completamente arredati
con l’ascensore [...] alta 1 metro e 10 cm». Qualora le bam-
bine restino basite di fronte a tanta meraviglia e non sappia-
no come utilizzare l’ingombrante giocattolo e le bambole già
in loro possesso, in uno spazio pubblicitario tanto ampio da
accogliere più fotografie e lunghe didascalie, e non importa
quanto costoso, Barbie racconta la sua prima giornata nella
nuova casa. Dal suo racconto le bambine potranno trarre
ispirazione per giocare in modo «corretto».
86
ma soprattutto non sono i soli. I confini del suo universo non
ricalcano le mura domestiche. Per le sue scorribande Barbie
ha diverse automobili: «una stupenda vettura color ciclami-
no» con cui può correre «all’impazzata sente[ndo] il vento
fra i capelli» ascoltando la musica proveniente dalla radio o
dal mangianastri posizionati sul cruscotto; una «Volkswagen
Golf Cabriolet [...] lunga ben 50 centimetri [con la] capote
per le giornate più fresche [e che] quando Barbie decide di
fare una gita all’aria aperta [...] viaggia completamente aper-
ta»; in più può contare su uno scooter per i «sentieri più im-
pervi, anche perché lo Scooter ben si presta a questo genere
di corsa libera [per andare] poi via allegramente al suono del
clacson».
Auto e moto le servono per raggiungere quello che per le
ragazze, secondo lei, dovrebbe essere uno dei luoghi più im-
portanti, il salone di bellezza.
87
bo, un cavallo che «con estrema agilità salta la siepe anche
perché Barbie sa guidarlo con perizia, stringendo le redini
perché è dotata di mani prensili»; il windsurf «in bikini a stri-
sce bianche e rosse [...] sulle onde lunghe del Grande Ocea-
no»; la vela, con un catamarano «agile, coloratissimo con un
albero alto 90 cm e con il timone perfettamente funzionan-
te»; lo sci e volteggiando sulle piste si fa vedere sulle pagine
pubblicitarie con didascalie che contraffanno le voci di com-
mento per la sua apparizione.
E quella che scende spericolata dalla pista più ripida? Sì, pro-
prio quella in gran completo sci con cappuccio in pelo... Ma è an-
cora lei, Barbie, insieme a Ken, sui campi da sci di Sun Valley, nel
Colorado. Bastoni, scarponcini, occhiali da neve: e pensare che ap-
pena la settimana scorsa faceva il surf ai Tropici!
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e tuffandosi dal trampolino, mentre a Skipper piace tuffarsi dallo
scivolo e fare «shciaf!» nell’acqua. Il sole è ancora caldo e Barbie
ne approfitta per mantenere la tintarella conquistata al sole estivo,
è comodamente sdraiata sul materassino e pensa a quanti metri ha
fatto nuotando, se ha percorso ben dieci volte la piscina che misu-
ra 40 cm.
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trovare «uno splendido purosangue bianco [che] guida la
Carrozza di Barbie, preziosa nelle sue decorazioni floreali e
nella lanterna, con il mantice regolabile ed i pannelli laterali
intercambiabili», oppure due nuovi amici di Barbie, Tracy in
«classico abito bianco lungo, velo in tulle e bouquet vario-
pinto» e Todd in «frac a due colori, camicia e farfallino»,
pronti a convolare a nozze.
90
zioni, a Chantilly, 60641 Cedex, l’indirizzo del club. La strut-
tura, che al compimento del quindicesimo anno, nel 1998, ha
meritato il Gran premio europeo per il marketing, secondo i
suoi responsabili ha il fine di incrementare le vendite.
92
movimentata società del tempo sembra aver dimenticato a fa-
vore di un pericoloso e inelegante permissivismo.
Il primo libro della biblioteca di Barbie si intitola La Casa
di Barbie e racconta del trasloco della fanciulla in una nuova
casa e della festa inaugurale. Sia nella trama del racconto che
nelle didascalie delle illustrazioni, Barbie, ormai definitiva-
mente bionda, non perde occasione per elargire consigli che le
madri dei figli maschi troverebbero disdicevoli se indirizzati
alla loro prole. I primi riguardano la cura della persona. Bar-
bie illustra la ginnastica «per snellire il collo, per migliorare il
busto [qualsiasi cosa ciò significhi] per rinforzare la spina dor-
sale, per snellire i fianchi, per assottigliare la vita, per elimina-
re la pancetta», svela «il segreto dei suoi capelli lucidi e mor-
bidi», che consiste nel risciacquarli con camomilla e succo di
limone; apostrofa come «sciocche le ragazzine che si mangia-
no le unghie o non si preoccupano di curarsi le mani», che so-
no «il nostro biglietto da visita»; snocciola con sicurezza «con-
sigli utilissimi antibrufoletti», che invitano le lettrici a stare at-
tente alla dieta, evitando salame, cioccolato, fritti, cibi piccan-
ti e aprendo la giornata con acqua minerale e yogurt, a usare il
latte detergente ogni giorno, a pulire ogni settimana il viso con
il vapore prima di stendere una maschera di bellezza.
Da perfetta padrona di casa quale nell’introduzione pro-
mette di essere, Barbie non si limita a fornire consigli sul-
l’aspetto fisico, ma suggerisce anche le ricette adatte per una
festicciola: frullato di pomodoro, spuma di latte, pesche alla
Melba, prugne in sorpresa, triangolini, frullato di uva, frulla-
to di pomodoro, tartine... Alcune pagine più avanti, mentre
scorre il racconto della festa, nelle didascalie Barbie continua
a elargire i suoi suggerimenti per decorare un tavolino rovina-
to e preparare fiori di carta, tovagliette decorate, contenitori
per la corrispondenza, tappeti di stoffa intrecciata e copriletti
fantasia, tutti da realizzare «con pazienza e con buon gusto».
Dopo il bricolage, c’è anche posto per il giardinaggio (con
l’istruttiva didascalia «Come coltivo i gerani», sotto l’illustra-
zione che vede Barbie e Ken comodamente seduti in giardino,
93
mentre Skipper si dà da fare con l’innaffiatoio). Quanto dopo
la lettura è stato appreso, ricorda la chiusa del testo, «è merito
di un trasloco e della nuova casa di Barbie». Ma quante sono
arrivate fino alla fine del volume non vengono graziate dal fi-
nale. Proprio all’ultima pagina, non a caso intitolata I consigli
di Barbie, la saputa fanciulla non può non concludere con le
sue ultime perle di saggezza: «Quando i denti crescono di tra-
verso, ci vuole un apparecchio apposta e più di un anno di pa-
zienza fra i dodici e i tredici anni. Quest’apparecchio dà un esi-
to straordinario e crea un sorriso perfetto». E ancora: «I ca-
pelli vanno spazzolati: dalla nuca verso la punta delle ciocche;
dalle tempie verso la punta delle ciocche; dalla fronte verso la
punta delle ciocche». Oppure: «Quando le scarpe si bagnano
per la pioggia occorre metterle dentro l’apposita forma, e
riempirle di carta di giornale. Quando sono asciutte, alla sera,
vanno lucidate per l’indomani». Bassa profumeria e alta eco-
nomia domestica si mescolano perfettamente, in un cocktail
tutto sommato assai poco pericoloso per chi lo trangugia, in
quanto non gli (o le) si chiede altro se non il rispetto di alcune
forme esteriori, di una precettistica impregnata di moralismo
ma fondamentalmente priva di ogni morale.
Sin dal loro primo apparire, nel 1558, nel Galateo di Gio-
vanni Della Casa certe norme di comportamento non aveva-
no mirato alla costruzione di azioni meritorie ed edificanti,
ma all’elaborazione di un modo gradevole di stare in società.
Giovanni Della Casa aveva scritto tenendo bene a mente le
necessità di «chiunque si dispone di vivere non per solitudi-
ni o ne’ romitori, ma nelle città e tra gli uomini». Egli aveva
sottolineato come nella quotidianità, i valori di magnanimità,
liberalità, «giustizia, fortezza e le altre virtù più nobili» solo
«rade volte» si è «constretti a dimostrare»; al contrario è ne-
cessario esercitare spesso «la dolcezza de’ costumi e la con-
venevolezza de’ modi e delle maniere e delle parole». Il testo
ospitava quelle norme necessarie alla convivenza sociale, sen-
za dettare alcun vincolo morale per quanti le esercitassero.
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La sostanziale amoralità del Galateo e il fatto che la pre-
cettistica che ospitava fosse esclusivamente formale, rifug-
gendo dal faticoso esercizio sostanziale della virtù, destinaro-
no il libro sin dal momento della sua comparsa a un enorme
successo in tutta Europa. Sulla base del suo contenuto si ela-
borano i protocolli cortigiani e diplomatici nonché le manie-
re del «vivere civile».
Come ogni grosso successo, non fu esente da imitazioni:
nel corso del Sei e del Settecento, e poi ancora con maggiore
vigore nell’Ottocento aumentarono i testi – detti non a caso
galatei – che insegnavano a lettori e lettrici le buone creanze.
Lasciando a Della Casa il compito di illustrare le norme ge-
nerali, altri autori si incaricarono di precisare le regole il cui
rispetto conveniva a singoli soggetti. Si tratta di una miriade
di pubblicazioni, sempre più puntigliose nel classificare for-
me, modi e luoghi, che accompagnano per secoli la storia eu-
ropea fino alla contemporaneità.
Fu proprio il passaggio alla società industriale a incre-
mentare in maniera esponenziale le pubblicazioni sui miglio-
ri modi di comportarsi nei diversi momenti, complice una
nuova mobilità e una ricca sociabilità che aumentava le occa-
sioni di incontro collettivo. Furono più spesso le donne a in-
caricarsi di stendere i decaloghi, che si moltiplicarono ulte-
riormente nel corso del Novecento fino a diventare, nell’Ita-
lia del boom, autentici successi editoriali. L’Italia che smet-
teva i panni contadini per vestire quelli cittadini sentiva il bi-
sogno di sgrezzarsi, di abbandonare le spicce maniere rurali
per modi urbani, signorili, che assai più di qualsiasi bene tan-
gibile legittimassero l’ascesa sociale e il nuovo benessere.
Un capolavoro del genere è Il saper vivere di Donna Letizia
di Colette Rosselli, edito nel 1960, che dipingeva tra le righe
un’Italia da jet-set: si tratta di un testo che, con i suoi corredi
di nozze contenenti otto tappetini per il bagno, diciotto asciu-
gabicchieri di lino e diciotto asciugapentole di canapa, nonché
con le occasioni di incontro con un’altezza reale («di Principi
oggi se ne incontrano un po’ dappertutto: ai ricevimenti, nei
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luoghi di villeggiatura e di cura, sui transatlantici»), serve più
a far sognare che a dare consigli di una qualche utilità. Una
quotidianità dorata è quanto mai lontana dalle fatiche che le
lavoratrici italiane, sempre più divise fra casa, figli e lavoro, de-
vono affrontare ogni giorno: se, quindi, il libretto di Donna
Letizia ha un grande successo, le lettrici spesso gli affiancano
i fascicoli, dall’orizzonte assai più modesto, della Grande enci-
clopedia della donna dei Fratelli Fabbri, che esce settimanal-
mente in edicola dal 27 ottobre del 1962 al primo ottobre del
1966. Ancora una volta, regole su regole si affastellano per di-
sciplinare signorine e signore italiane, alla ricerca di un equili-
brio fra i diversi obblighi: le faccende domestiche e le cure per
piacere al consorte, i fornelli e la vita professionale. Lo spirito
sotteso ai consigli che vengono generosamente elargiti dalle
pagine patinate della Grande enciclopedia della donna è im-
pregnato da una (sconcertante, visti i tempi) consapevolezza
della sostanziale minorità, fisica e psichica, della figura fem-
minile, la cui sudditanza nel mondo del lavoro come fra le mu-
ra domestiche è necessaria alla felicità collettiva.
Nei sovversivi e femministi anni Settanta un certo tipo di
pubblicazioni non scompare, ma viene fondamentalmente ri-
visitato. Latrice di uno sguardo scanzonato e provocatorio sul-
la congerie di norme che sono indirizzate alle donne e che po-
stulano una condizione di subalternità è la giornalista Brunel-
la Gasperini, autrice alla metà del decennio di una disinibita
Guida utile, divertente, aggiornatissima ai misteri del galateo
che cambia. Un ironico sorriso pervade l’intero scritto, che an-
nota i rapidi cambiamenti di costume della società italiana con
una partecipe bonarietà, come si può leggere nella premessa.
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gesti di rito, oggi svuotato d’ogni vitalità e d’ogni autentico signifi-
cato. Il ritmo, lo spirito, le situazioni del tempo in cui viviamo ri-
chiedono ben altre cose: cose come elasticità, immediatezza, buon
senso, spirito critico, ironia.
[...] Allora, il nuovo galateo, o controgalateo, vuol dire sovverti-
mento, distruzione, linciaggio del galateo? Ma no: non proprio, non
sempre, non del tutto. Vuol dire se mai revisione, aggiornamento, di-
scussione, demistificazione. Vuol dire riconoscere che la cortesia for-
male, senza il sostanziale contenuto di reciproco rispetto e disponi-
bilità, è un involucro vuoto, da buttare. Vuol dire, quindi, cercar di
sostituire buon senso, spontaneità, elasticità, umorismo a quelle rigi-
de e ormai logore sovrastrutture convenzionali che intralciano, inve-
ce di agevolarli, i rapporti umani così profondamente mutati.
Questo libro non ha pretese didattiche. È semplicemente una se-
rie di annotazioni basate sulla realtà, cioè sull’osservazione quoti-
diana del nostro prossimo, così come mi capita di vederlo e di sen-
tirlo nella pratica consueta del mio lavoro e della mia vita privata.
[...] Forse, anzi di certo, qualcuno si scandalizzerà: pazienza. Io
guardo la realtà com’è, non come si vorrebbe che fosse. È dall’os-
servazione della realtà, e non dai dogmi, che si può cercar di capire
che cosa funziona e che cosa non funziona più, che cosa bisogna di-
fendere, che cosa abolire, che cosa modificare, che cosa aggiungere.
In conclusione: se il galateo inteso tradizionalmente vuol dire
«guida al modo di apparire», il nuovo galateo, o controgalateo,
vuol dire «guida al modo di essere» e quindi di vivere il più sensa-
tamente possibile, in questo tempo per molti versi insensato.
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La «vie en rose»
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Negli anni Sessanta anche il rosa confetto è entrato a far parte
del mio guardaroba con un abito di satin con boa di struzzo che mi
faceva il solletico al naso, e con un superbo abito da sartoria bor-
dato in satin rosa: molto parigino! Il mio abito preferito degli anni
Settanta era a quadri bianchi e rosa con le maniche di organza e na-
stri di velluto nero al collo e ai polsi: lo conservo ancor oggi in un
portabito, naturalmente rosa! E un maglione che ho molto amato
è quello del 1986 con il collo a ruches, naturalmente color rosa
chewing-gum. Il rosa carico e il rosa shocking, e molte sfumature
del lavanda (il colore delle favole, cugino del rosa) sono entrati a
far parte del mio guardaroba negli anni Ottanta, un’epoca di colo-
ri più forti, più carichi, e il mio trench di un magenta esagerato del
1988 è portabile altrettanto bene con un abito senza spalline e con
una tuta.
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Negli anni Quaranta, nell’Europa ingrigita dal conflitto,
Edith Piaf cantava: «Quand il me prend dans ses bras / Il me
parle tout bas / Je vois la vie en rose» (quando lui mi prende
fra le braccia e mi parla sussurrando vedo rosa la vita). La vie
en rose è una vita priva di ennui, di malumori, di chagrin, di
rimpianti, piena di amore, di fiducia, di entusiasmo, di feli-
cità. Il colore rosa serviva nel testo scritto dalla stessa can-
tante a evocare quei particolari significati che all’interno del-
la cultura occidentale tradizionale generalmente sono attri-
buiti al rosso.
Il rosso è il colore per eccellenza. Per la cultura cristiana,
il rosso richiama il sangue, ossia ciò che dà la vita, che purifi-
ca e che santifica. Rosso è il sangue versato sulla croce da Ge-
sù Cristo; rossa la fiamma dello Spirito Santo. Rosso inoltre è
il colore del dinamismo: le sue vibrazioni sono tali che un og-
getto rosso sembra più vicino all’occhio di chi lo guarda di
quanto lo sia in realtà. Per la cultura progressista, rosso è il
sole dell’avvenire, speranza per gli sfruttati che sognano un
mondo migliore. Rosso acceso è il colore dell’infanzia, dei
giocattoli, delle confetture e dei frutti più golosi. Rosso, so-
prattutto, è il colore del lusso e della festa.
Nell’antichità il tessuto più prezioso era quello tinto con il
murice che gli conferiva un sontuoso color porpora e non a ca-
so, in molte occasioni, solo all’imperatore era concesso abbi-
gliarsi di quel colore. Nel Medioevo e in età moderna, in mol-
ti luoghi, le leggi suntuarie riservavano all’aristocrazia l’abbi-
gliamento scarlatto. I tessuti vermigli erano, infatti, i più pre-
ziosi, non solo per il valore simbolico del loro colore ma anche
perché le tecniche dell’arte tintoria non assicuravano buoni ri-
sultati per colori diversi dal rosso. Fino all’Ottocento inoltra-
to, quando vennero messi in uso coloranti sintetici, per i tes-
suti erano utilizzate tinture vegetali: il guado per ottenere il
blu, il granoturco o la ginestra per il giallo, l’ortica e le foglie di
betulla per il verde, le noci per il nero, le foglie di ontano per
il grigio e così via. Tuttavia, i colori ottenuti da queste materie
non penetravano bene nelle fibre del tessuto. Le stoffe blu,
100
verdi, gialle, nere, con la pioggia e con i lavaggi, con l’aria e con
il sole, sbiadivano facilmente e inesorabilmente, assumendo
un aspetto polveroso, velato. La robbia, colorante utilizzato
per ottenere il rosso, invece, garantiva risultati migliori: pene-
trava profondamente nelle fibre tessili e resisteva meglio
all’acqua, all’aria e alla luce. Non a caso rosse erano le stoffe
destinate agli abiti da cerimonia. Da qui e dal valore simboli-
co del rosso, dipendeva il fatto che gli abiti da sposa fossero,
fino al XIX secolo, generalmente rossi.
Tuttavia, il rosso ha un valore ambivalente. Le sfumature
scarlatte indicano l’errore, il pericolo: in rosso sono sottoli-
neati gli errori sui compiti scolastici; utilizza il rosso la se-
gnaletica stradale, ferroviaria, marittima, aerea per indicare i
divieti; rossa è una zona piena di insidie; rossa è la linea di at-
tacco durante i conflitti; nell’America che non riesce a di-
menticare la Guerra Fredda rosse sono le bandiere comuni-
ste; rosso il telefono per scongiurare un conflitto mondiale;
rosso l’allarme che indica l’emergenza estrema; rosse le fiam-
me dell’inferno. Anche in riferimento alla figura femminile i
toni scarlatti presentano significati negativi accanto a quelli
positivi: se rosso è l’abito nuziale, peccaminosamente rossa è
la biancheria delle prostitute e sgradevolmente rosso è anche
il sangue mensile che rende, nella credenza popolare, le don-
ne impure e la femminilità pericolosa.
101
proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione nel
1854, è il bianco. Inoltre, il fatto che questa abitudine sembri
più radicata nei paesi protestanti che in quelli cattolici ri-
marca il fatto che essa non può essere messa in relazione al
culto mariano.
La coppia azzurro/rosa può essere invece una declinazio-
ne della coppia blu/rosso. Si tratta di colori pastello, ovvero
bianchi leggermente colorati, in cui il bianco richiama la pu-
rezza e l’innocenza, legate alla nascita di un nuovo individuo,
mentre il viraggio diverso rispetto al sesso riprende una di-
stinzione nata alla fine del Medioevo: il blu è maschile e il ros-
so è femminile. La definizione di genere che il blu e il rosso
assumono e la loro opposizione si fondano su vaghe conside-
razioni simboliche e hanno valore solo quando i due colori
sono giustapposti: il blu è maschile nella misura in cui è ab-
binato al rosso e viceversa; soli, o associati ad altri colori, ros-
so e blu sono sprovvisti di questa connotazione. Invece cele-
ste e rosa, e soprattutto quest’ultimo, anche se non sono ap-
paiati, mantengono il loro significato legato al genere e in ba-
se a esso vengono attribuiti, indossati e utilizzati. E mentre il
celeste, malgrado indichi preferibilmente il maschio, può es-
sere portato anche dalle femmine, senza tema che l’identità
sessuale simbolica ne soffra, il rosa, quando è attribuito al
maschio, indica lo scherno, è beffa della virilità: non a caso,
rosa era il triangolo che nei campi di concentramento nazisti
gli omosessuali erano costretti a esibire sulla giubba.
Il rosa, quindi, nel Novecento, è il colore femminile per
eccellenza e nel corso del secolo arriva a rappresentare tutti i
valori positivi della femminilità, senza che conturbanti ba-
gliori amaranto ne vengano a ricordare possibili aspetti spia-
cevoli. Presente in natura in piccolissime quantità, quasi mai
in una tonalità uniforme, ma sempre compatto, il rosa, nelle
sue gradazioni più sature, è uno dei colori che conosce un
grande successo nella rivoluzione cromatica e del gusto ope-
rata dai movimenti hippy. Contro la «cromoclastia» di origi-
ne protestante, che viene ereditata dalla civiltà borghese di fi-
102
ne Ottocento e che in parecchi ambiti importanti della vita
religiosa e sociale (il culto, l’abito, l’arredamento, l’arte, gli af-
fari e così via) raccomanda ancora in pieno Novecento un si-
stema di colori interamente costruito attorno all’asse nero-
grigio-bianco, i figli dei fiori dimostrano un amore sviscera-
to, e naturalmente contestatario, per i colori accesi, carichi,
vibranti: giallo, arancio, verde erba e verde acido, turchese e,
naturalmente, rosa, nelle sue molteplici nuance. I maschi non
si fanno scrupolo di indossare abiti rosa: la loro ribellione è
accesa anche contro la rigidità borghese dell’identità sessua-
le. Vestirsi di rosa per un uomo significa far mostra di accet-
tare anche la propria parte femminile, di costituire quel per-
fetto insieme Tao in cui yin e yang, il maschile e il femminile,
il freddo e il caldo, il luminoso e l’oscuro si compenetrano,
formando un essere completo.
Tutto ciò non serve a sdoganare definitivamente il rosa dal
significato che ha assunto nell’immaginario occidentale. Se
nella sfumatura più tenue esso comincia a fare capolino nei
guardaroba dei gentiluomini degli anni Ottanta, è per testi-
moniare una sorta di anticonformismo; ma, in effetti, il rosa
continua a essere colore femminile, in qualsiasi modo si in-
terpreti la parola «femminilità». «Rosa» si intitola quel «qua-
derno di studio e di movimento sulla condizione della don-
na» che viene periodicamente pubblicato in Toscana fra il
1974 e il 1976 e che intende essere uno strumento di lotta po-
litica. Rosa è, però, anche il colore preferito della famosa
scrittrice Barbara Cartland e la nota cromatica più incisiva
nelle copertine dei suoi romanzi e di quelli della maggioran-
za delle sue emule (definiti «rosa», per l’appunto), che rac-
contano le disavventure di un’eroina sfortunata che deve su-
perare mille vicissitudini per coronare felicemente il suo so-
gno d’amore.
103
dossare gli occhiali rosa significa guardare alla vita con otti-
mismo, confidando nelle proprie capacità per raggiungere
gli obiettivi propostisi. Una dichiarazione di intenti, formu-
lata da Barbie a partire dalle pink box, le scatole rosa che le
fanno da cornice proprio negli anni Settanta, in uno dei mo-
menti più difficili della sua esistenza. Il rosa dell’involucro,
come quello dei mille particolari che compongono il suo
consumistico universo, altro non sono che la dichiarazione
della volontà di sopravvivere in un mondo sempre più insi-
dioso per le giovinette di narcisistici costumi degli anni Cin-
quanta. Poco importa se spesso le sfumature utilizzate ten-
dano a essere squillanti e un tantino vistose, volgari. Barbie,
che non ha mai nascosto la sua passione per i lustrini, non
teme la volgarità. Come non teme l’ambivalenza che carat-
terizza il rosa. Agli occhi dell’osservatore attento non sfug-
ge che rosea è la caramellosa sfumatura attraverso la quale
tutto, anche ciò che non lo è, appare bello e desiderabile:
Siegfried Kracauer, nel suo Gli impiegati, sin dal 1930, spie-
gava come per divenire un ingranaggio di una macchina bu-
rocratica nella società moderna «decisiva è piuttosto la car-
nagione moralmente rosa. Così desiderano coloro che han-
no il compito della selezione. Vorrebbero ricoprire la vita
con una vernice che nasconda la sua realtà tutt’altro che ro-
sea. Guai se la morale si spingesse sotto la pelle, e se il rosa
non fosse più abbastanza morale per impedire l’eruzione dei
desideri». Rosa sono spesso gli abiti delle reginette del liceo,
come la caramellosa vicenda di Grease ci insegna. Ma que-
gli stessi abiti, spesso leziosamente decorati da rose, fiocchi
e nastri, in un trionfo di ingenua abbondanza, sono anche
quelli indossati dalla sorridente Laura Palmer, che con l’af-
fettata ingenuità dei suoi completi contribuisce a celare
quanto di torbido si nasconde nella misteriosa cittadina di
Twin Peaks. E non a caso sempre rosa sono i golfini indos-
sati da Laura Dern e da Naomi Watts nei film di David Lyn-
ch Blue Velvet e Mulholland Drive: il colore serve a evocare
un’atmosfera superficialmente felice ma, allo stesso tempo,
104
con la sua dichiarata innaturalità ricorda come sotto ogni su-
perficie si possano nascondere oscure profondità abissali,
non sempre piacevolmente esplorabili.
Barbie sembra giocare con questa ambivalenza; reginetta
del ballo e, in spregiudicate interpretazioni della sua persona-
lità da parte di artisti buontemponi, irretiti dalle sue formosità,
disinibita intrattenitrice in fumosi, e non sempre raccoman-
dabili, luoghi del sottobosco urbano occidentale, la fanciulla
sembra nutrire una sola, grande paura: che un mondo dove vi-
ga una signorile sobrietà condanni lei, i suoi capelli a partire
da questo momento ossigenati (almeno nello stereotipo), le
sue forme procaci e la sua «vie en rose» alla scomparsa.
I mille volti dell’«american dream»
Tanta pervicace fiducia nel futuro paga. Nel 1986 Barbie su-
pera uno dei traguardi più ambiti della popolarità: i suoi occhi
sgranati e il suo sorriso vengono immortalati da Andy Warhol,
il modo più blasonato per essere riconosciuta come icona del-
la cultura popolare. E gli anni Ottanta sono ricordati da Bar-
bie con una gioia difficilmente contenibile. Finalmente la nar-
cisistica fanciulla che per tutti gli anni Settanta ha ignorato il
movimento per l’emancipazione delle donne, continuando a
interpretare l’aberrato stereotipo, ora che alcune rivendica-
zioni appaiono sostanzialmente accettate e che le discrimina-
zioni nei confronti delle donne destano sempre maggior scan-
dalo, almeno nella sfera pubblica, sembra convertirsi a un pa-
cato femminismo, come dichiara nell’intervista alla Jacobs.
106
Gli anni Ottanta, quindi, per Barbie comportano il vero
confronto con il mondo del lavoro, un confronto che in pre-
cedenza era stato sostanzialmente rimandato, anche se la fan-
ciulla non aveva rinunciato di tanto in tanto a vestire abiti
adatti a svolgere una determinata mansione. Nei primi anni
di vita, la professione di modella, che ufficialmente e ordina-
riamente svolge, era stata di tanto in tanto abbandonata per
altre esperienze.
107
il Re Topo, che Clara uccide tirandogli la sua scarpetta. Alla
morte del topo lo schiaccianoci si trasforma in un principe.
Clara e il principe intraprendono un viaggio verso la dimora
della Fata Confetto dove ha inizio una grande festa da ballo:
sono travolti dalle danze il caffè, il tè, i pasticcini, i fiori, finché
il sogno svanisce e Clara si risveglia con il suo schiaccianoci fra
le braccia.
Si tratta di una storia adatta a un pubblico infantile, che
Barbie interpreta con soddisfazione negli anni immediata-
mente successivi al suo debutto, non dimenticando di ricor-
dare alle bambine, che sognano tutù e applausi, che la danza
è una disciplina severa: le ballerine, quando smettono l’abito
di scena, indossano una tutina aderente per gli innumerevoli
esercizi preparatori. Del resto, in questa fase della sua vita
quando, lasciato in un angolo il vezzoso tutù della Fata Con-
fetto, Barbie è pronta a vestire altri panni professionali, come
le fanciulle in carne e ossa del periodo, lavora solo in ambiti
dove le qualità «femminili» per eccellenza vengono conside-
rate insostituibili: gli unici lavori concessi dalla «mistica del-
la femminilità», e per breve tempo, alle donne americane pri-
ma del matrimonio. Così Barbie, dal 1961 al 1964, si trova a
vestire l’uniforme di hostess come American Airlines Stewar-
dess, mentre nel 1966 lavora come Pan Am Stewardess: una
professione molto ambita nell’America kennediana, fiducio-
sa e aperta alle novità tecnologiche, ma nella realtà esercitata
solo da ragazze di bell’aspetto, in grado di servire un drink
con grazia all’uomo in viaggio di affari. Più accessibili sono
vesti e accessori di Registered Nurse: con il camice bianco con
tanto di crestina, la mantellina blu foderata, gli occhiali con
la montatura nera, la bottiglia dello sciroppo e la borsa
dell’acqua calda, Barbie promette di essere un’infermiera sol-
lecita e paziente, oltre che esperta e diplomata (a scanso di
ogni equivoco, porta con sé il «pezzo di carta» che ne garan-
tisce la professionalità). Un’occupazione molto comune fra le
ragazze che ancora studiano è quella di baby-sitter, che Bar-
bie svolge con il contenuto di Baby-Sits: un enorme grembiu-
108
lone, per mettere al riparo i vestiti da possibili esternazioni
dell’infante, che giace in una cesta foderata; telefono e pro-
memoria dei numeri per le urgenze – dottore, vigili del fuo-
co, polizia; biberon; e poi ancora occhiali, salatini, soda, sve-
glia e ben due libri per ingannare l’attesa: significativi i titoli,
How to Travel (Come si viaggia) e How to Lose Weight (Co-
me perdere peso), tanto per ricordare a sé e agli altri che non
si è mai abbastanza in linea. Meno male che il tomo che por-
ta con sé a lezione, quando è Student Teacher, si intitola mol-
to semplicemente Geography: con la bacchetta brandita con
estrema sicurezza e l’aria professorale, malgrado l’abito fa-
sciante e gli altissimi tacchi rossi, Barbie non vuole impartire
precetti per una sana e filiforme costituzione.
Hostess, infermiera, studentessa, baby-sitter per i neonati
e maestrina per i più grandicelli, cui insegna nozioni di geo-
grafia. Ma l’insegnamento più importante che Barbie dispen-
sa è che, nella vita pubblica, si devono ricoprire quei ruoli ri-
tenuti inadeguati per il sesso forte, per natura incapace di nu-
trire l’altruismo e la dedizione necessari alla cura degli altri.
Così, anche negli anni Settanta, quando non si lascia irretire
dalle sirene femministe, Barbie lascia il suo frenetico andiri-
vieni tra il mare e la montagna solo per vestire il camice ste-
rilizzato del chirurgo e continuare a servire, almeno quando
si misura in una professione, alla pubblica utilità.
Tanta silenziosa abnegazione viene meno con l’arrivo de-
gli anni Ottanta, quando le donne cominciano a ricoprire in-
carichi fino a quel momento preclusi. Del resto, è proprio una
signora, Lady Margaret Thatcher, primo ministro in Gran
Bretagna dal 1979 al 1990, a figurare fra le figure più rilevanti
del decennio. Il premier ha un ideale di pubblica felicità che
non contempla il sostegno statale alle fasce più deboli della
popolazione, credendo invece che il libero dispiegarsi dell’at-
tività economica dei singoli, secondo i propri interessi e sen-
za gli intralci dati dalle norme sui licenziamenti o sulla tutela
ambientale, possa far aumentare il benessere economico. Le
sue decisioni impopolari causano forti resistenze, cui da vera
109
iron lady, signora di ferro, risponde con durezza inusitata,
svelando un volto pubblico della femminilità decisamente
inedito.
Non è certo questa durezza a ispirare Barbie, ma sicura-
mente il fatto che sempre più spesso il mondo delle profes-
sioni si dimostri aperto all’ingresso femminile, senza che la
donna debba necessariamente dimostrare istinti altruistici, è
un buon incentivo. Così, nel 1985 fa il suo ingresso in società
Day-to-Night Barbie, una donna d’affari in tailleur doppio-
petto e valigetta ventiquattrore, naturalmente color fragola.
Il severo completo però può trasformarsi facilmente in una
mise da sera di chiffon e lamé: come non si stancano di ripe-
tere le riviste femminili, sotto il gessato, le donne in carriera
sono quasi obbligate a vestire sete seduttive e pizzi maliziosi.
Si è ormai spenta anche l’eco dei tamburi nei cortei di pro-
testa e i falò, dove si riunivano donne in cerca di liberazione,
non mandano più alcun barbaglio. La stagione dell’«impe-
gno», naufragata negli «anni di piombo» degli attentati e del-
la lotta al terrorismo, appare ormai archiviata. Dopo gli anni
dei timori, con il passaggio dai Settanta agli Ottanta, si inau-
gura una nuova fase, la cui caratteristica principale si riassu-
me nell’abusata parola «riflusso». La nausea per la politica si
mescola alla riabilitazione della sfera privata; un’economia
nuovamente fiorente e produttiva spalanca le porte alla pub-
blica esibizione del benessere. Se negli anni Settanta i figli dei
fiori avevano usato l’apparenza esclusivamente in senso pro-
vocatorio, vestendo colori sgargianti o evitando ogni possibi-
le contatto con il barbiere e sottolineando, anche attraverso
l’uso di allucinogeni, la ricerca dell’autentica interiorità uma-
na, un decennio dopo sembra che apparire ed essere, come
negli anni Cinquanta, tornino a coincidere: è il trionfo
dell’immagine, della bellezza dei canoni pubblicitari, del-
l’estetica. Gli «anni di panna» o «di pongo», agli yuppie che
hanno desiderio di ostentare le ricchezze inseguite con avi-
dità con i giochi borsistici, prospettano una ridda di locali
notturni, discoteche, ristoranti dove appare d’obbligo per le
110
signore, mollato il cipiglio decisorio tenuto dalle nove alle
cinque, farsi vedere in raso e paillettes vistosamente allusivi.
Gli «anni del riflusso» significano, per molti aspetti, un de-
ciso passo indietro, almeno in quegli aspetti formali che sono
la sostanza dell’effimero e in cui Barbie non ha mai smesso di
poter essere maestra. Del resto, Barbie, anche con le nuove ac-
conciature e il sorriso del nuovo modello Superstar, che non
ha mai sfoggiato in precedenza, conserva sempre la grazia di
ragazza degli anni Cinquanta, in fondo attenta solo alla piega
dei capelli. Vi unisce però un’inedita grinta post-femminista
che la conduce, dopo aver vestito i panni dell’executive, a in-
dossare a partire da quel momento, fino a oggi, quelli di istrut-
trice di aerobica, portavoce dell’Unicef, medico, ufficiale
dell’esercito, astronauta, ballerina televisiva, insegnante di lin-
guaggio dei segni, pilota nell’aviazione americana, ambascia-
trice di pace, tennista, cantante rock, diplomatica, stella del va-
rietà sul ghiaccio, protagonista di video musicali, pattinatrice,
insegnante di storia dell’arte, attrice cinematografica, ufficia-
le di marina, manager, sergente dei marines, musicista rap, uf-
ficiale di polizia, ginnasta, ufficiale medico nell’esercito, stella
del circo, chef, cantante del Radio City Music Hall, giocatrice
di baseball, pediatra, ufficiale durante l’operazione Desert
Storm, sommozzatrice, poliziotta canadese a cavallo (ma solo
in Canada), regista, pilota nei rally, insegnante di spagnolo,
cowgirl, capitano dell’aeronautica, ginnasta, pittrice, poliziot-
ta, pompiere, veterinaria, ingegnere, dentista, paleontologa,
maestra d’asilo ed elementare, negoziante... Finalmente il suo
fisico e il suo aspetto vistoso non sono più guardati con diffi-
denza. Con il trionfo dell’effimero comincia per ogni donna il
quotidiano, impari confronto con lo specchio. Dalle video-
cassette che invadono il mercato, Jane Fonda istiga al saltello
continuo, e migliaia di donne in carriera e madri di famiglia,
quanto mai lontane fino a questo momento quanto ad abitu-
dini e stile di vita, si trovano accomunate dalla tutina svelacu-
scinetto con lo scaldamuscolo in tinta, mentre il sudore ru-
scella dalle tempie come da una fonte di acqua sorgiva. In tut-
111
to il mondo occidentale si inaugura la gara a chi mostra il ven-
tre più piatto, il seno più alto, il gluteo più sodo: nessuna è
esente dal confronto, e poco importa se per mestiere ci si affa-
tica le pupille sui caratteri cuneiformi o si trapiantano bulbi di
piante tropicali in serre umide. Per tutte, ma proprio tutte, è
iniziata la corsa all’aspetto radioso: una corsa che ancora oggi
non si è fermata.
In questo, ça va sans dire, Barbie ha la meglio. Inoltre,
qualsiasi cosa faccia, riesce a non correre mai il rischio di in-
cappare nella critica dell’opinione pubblica, tendenzialmen-
te conservatrice, del decennio. Certo, vi sono dei pessimi sog-
getti in giro per il mondo che, complici le sue forme da pin
up, si divertono a farle indossare i panni succinti di coni-
glietta di «Play boy», di spogliarellista, di ballerina di lap dan-
ce, dando corpo a fantasie fetish, porno, sadomaso o lesbiche.
Non mancano inoltre quanti, stanchi del glamour delle sue
tenute, la costringono alla mancanza di maquillage e di coif-
feur, nonché a mestieri privi di qualsiasi attrattiva – contrab-
bandiera, donna delle pulizie in locali pubblici, precaria di
call center, bidella... Nessuno, naturalmente, pensa di farla
entrare dentro un archivio o una biblioteca e neppure in un
laboratorio o in un osservatorio astronomico. Casa Mattel,
infatti, vigila attentamente sulle sorti della sua creatura. E se
da una parte avversa tutte le rappresentazioni «forti» della
bambola, arrivando a combattere, peraltro spesso vittoriosa-
mente, anche con artisti di fama internazionale (da Cat Sass
a Tom Forsythe ad Albertina Carri) colpevoli di enfatizzare
la sua accentuata femminilità o di utilizzarla in maniera anti-
conformista, dall’altra rinuncia a farle svolgere attività che
comunemente sono ritenute noiose o inadatte alle donne. In
ogni momento la deliziosa fanciulla si uniforma alle aspetta-
tive generali, non osando mai un passo troppo lungo, ma fa-
cendo agevolmente vedere dove può arrivare l’alluce una vol-
ta tesa la gamba: una vera strategia dell’ammiccamento che le
procura sempre più apprezzamenti. E anche nei decenni suc-
cessivi non dimentica la lezione. Così, nel nuovo secolo, men-
112
tre impazzano le campagne presidenziali negli Stati Uniti e
con qualche timidezza si comincia a discutere della possibi-
lità di una signora alla scrivania della Stanza ovale, Barbie si
candida alle elezioni a capo di un Party of Girls, il partito del-
le ragazze, e, con un sobrio caschetto platinato che ben si ac-
corda al severo completo che indossa, si prepara a prendere
le decisioni più importanti per il pianeta. Il suo programma
elettorale è fondato su valori pacifisti e animalisti, anche se la
fanciulla dimostra di non avere alcun timore al momento op-
portuno a imbracciare le armi e servire nell’esercito, anche in
operazioni rischiose. In ogni momento Barbie si dimostra
all’altezza delle aspettative che aumentano nei suoi confron-
ti, sempre conforme alle direttive del mondo occidentale e
deliziosamente incurante delle contraddizioni.
113
da quello pionieristico pubblicato per la prima volta nel 1952
dal reverendo Norman Vincent Peale e destinato a diventare
un bestseller planetario, The Power of Positive Thinking (Il
potere del pensiero positivo, tradotto in Italia con il titolo Co-
me vivere in positivo, a sottolineare la natura di ricettario del
volume). Quasi seguendo pedissequamente il decalogo del
reverendo Peale, Barbie mostra di avere impressa «in mente
in modo indelebile un’immagine felice e fortunata» di se stes-
sa, di mantenerla viva con tenacia; soprattutto dà prova di
non dubitare mai dell’immagine di successo che ha costruito.
Sembra capace di formulare un pensiero positivo ogni volta
che la assale un dubbio sulle sue capacità personali e di eli-
minare le difficoltà. Ogni mattina, qualsiasi cosa succeda, si
dice «che tutto sta andando benone, che la vita è bella»: è
questa granitica certezza a regalarle la palma di migliore in-
terprete dell’«american dream», un sogno che si presenta
sempre uguale a se stesso, anche se può essere reso palpabile
attraverso i mille costumi diversi che Barbie conserva appesi
nell’armadio.
Barbie burqa
115
ne di 10 centimetri per 7,5 tenute insieme da due graffette in
costa? E non vi sono neppure sarte accurate, se nel 1963 la
Mattel decide di aprire uno stabilimento di Barbie a Taishan,
nell’isola di Taiwan, dove vengono confezionati rigorosa-
mente a mano gli abiti di cui la fanciulla californiana farà
sfoggio sotto ben altri cieli. Anche dopo la chiusura della fab-
brica di Taiwan nel 1987, c’è ancora chi, in quella che oggi è
una delle «tigri asiatiche» in pieno boom economico, con af-
fezione nostalgica continua a cucire abitini per la Barbie, ri-
cordando che la maggiorata statunitense offriva un’occupa-
zione a un terzo della popolazione del paese, spesso a intere
famiglie. Bambine comprese? La Mattel ha sempre e con sde-
gno respinto le accuse di sfruttamento del lavoro minorile. E
sicuramente negli stabilimenti statunitensi ed europei vi è
sempre stato un pedissequo rispetto della legislazione vigen-
te e una politica dei salari adeguata alle aspettative di operaie
e operai. Tuttavia ancora recentemente, nel Messico centra-
le, a proposito della fabbrica di Tepeji del Rio, vi sono sinda-
calisti che denunciano che in aziende satelliti del colosso pro-
duttore di giocattoli, vi siano minori – cui generalmente in
Messico non vengono pagati contributi e non viene garantita
l’assistenza sanitaria – che superano ampiamente il tetto del-
le sei ore lavorative al giorno, cucendo vestitini per la vanito-
sa yankee per ben oltre nove ore.
Se fosse vero, il giocattolo preferito delle bambine del
Nord del mondo sembrerebbe trasformarsi per molte del
Terzo mondo in un autentico incubo. Del resto, così facen-
do, la casa madre della signorina Barbie non si comportereb-
be diversamente da moltissime altre aziende con cervello sta-
tunitense e braccia e gambe disperse nei luoghi più recondi-
ti del pianeta, laddove le condizioni locali consentono, in as-
senza di forte rappresentanza sindacale, orari superiori alle
sessanta ore settimanali, la mancata osservanza del riposo set-
timanale, il lavoro dei minori e dei carcerati, il licenziamento
in tronco per le donne in gravidanza, lo sfruttamento incon-
trollato delle risorse naturali, discutibili standard di sicurez-
116
za e di salubrità sui luoghi di lavoro e così via: tutta una serie
di elementi che si uniscono a caratterizzare le condizioni di
produzione delle multinazionali nell’era della cosiddetta
«globalizzazione».
Protagonista di una faccia del fenomeno, quella caratte-
rizzata dalla delocalizzazione della produzione nelle più di-
verse lande del pianeta, Barbie non si esime dall’esserlo, e con
grande dispiego di mezzi, anche dell’altra, quella che la vede
presente sui mercati di tutto il mondo. Sempre uguale a se
stessa, Barbie occhieggia dalle vetrine di tutto il mondo, an-
che se in modo politicamente corretto non esita a vestire gli
abiti tipici dei paesi che la ospitano. Nel corso degli anni, a
partire dal 1987, Barbie è stata italiana, con un costume agli
occhi americani adatto ai saltelli della tarantella; francese,
con stivaletti allacciati, calze nere, gonna a balze di pizzo e
cappello piumato, pronta a sfrenarsi nel più parigino dei can
can; inglese, con un abito da cavallerizza ispirato a cacce alla
volpe ottocentesche; scozzese, con tanto di gonna e sciarpa in
tartan e berretto con pompon; cittadina di Hong Kong in la-
minato dorato e giacchino color porpora; indiana, con un sa-
ri rosso bordato d’oro e la fronte segnata dal caratteristico
bindi; spagnola, in severa mantilla nera con tanto di peineta
dorata; svedese; irlandese, con un vestito verde carico in ono-
re del lussureggiante paesaggio e una spilla a forma di trifo-
glio, simbolo nazionale dell’Irlanda; svizzera; greca; peruvia-
na, stretta nel coloratissimo serape, la sciarpa utile a coprirsi
e a stringere a sé i bambini; tedesca, con grandi trecce rac-
colte sulle tempie, scialle immacolato e grembiule sull’ampia
gonna rossa da ragazza di campagna; coreana, sontuosa nel-
lo sgargiante costume folcloristico; canadese, membro della
polizia a cavallo; russa, in rosso fiammeggiante e un cappello
che richiama il profilo delle cupole della chiesa moscovita di
San Basilio; messicana, le trecce scure accuratamente petti-
nate e l’abito nei colori nazionali, il bianco, il rosso e il verde;
nigeriana, in un trionfo di capelli crespi e un abito maculato;
brasiliana, pronta al più lungo carnevale del mondo e alle
117
sambe più audaci; malese, con lo smilzo sarong in seta stam-
pata e una giacca di taffeta rosa carico; cecoslovacca, tutta un
fruscio di pizzo sangallo candido che completa la mise in ne-
ro, giallo e rosso; giamaicana, i capelli raccolti in una banda-
na e un grembiule patchwork; pellerossa, ieratica nel suo co-
stume da cerimonia con il copricapo che ricorda un antico to-
tem; australiana, in partenza per una lunga cavalcata; olan-
dese, in zoccoletti bianchi e gonna inamidata in una sfuma-
tura di azzurro da porcellana di Delft; cinese, con un raffina-
to cheongsam di seta stampata a crisantemi, simboli di lunga
vita e le ampie maniche che richiamano gli abiti dei mandari-
ni di un tempo; kenyota, il collo circondato da una miriade di
collane di perline colorate in autentico stile masai; cilena,
pronta a domare i cavalli come i locali huasos; polinesiana,
con tanto di gonna di paglia svolazzante al vento e una ma-
gnifica collana di ibisco; giapponese, nel tradizionale kimono
stretto in vita da una larga obi e con i classici zori ai piedi; nor-
vegese, con il tipico bunad a fiori bianchi e rosa su fondo blu;
ghanese, in uno sgargiante abito a disegni geometrici e un al-
to turbante, a garantire l’altezza della posizione sociale; inuit,
avvolta nel caldo parka con il cappuccio bordato di pelliccia;
portoricana, con un abito bianco stretto in vita da una cintu-
ra a fiori tropicali; polacca, in un tripudio di fiori e nastri; ma-
rocchina, in fruscianti sete dai toni aranciati e una preziosa
collana di monete; austriaca, sobria e romantica nella sua
gonna stampata a fiori alpini e nel suo giacchino di lana cot-
ta; thailandese, pronta a danzare scalza malgrado la magnifi-
cenza dell’abito. Naturalmente, non sempre si è presentata
all’appuntamento con le rispettive tradizioni nazionali con la
pelle eburnea, la chioma platinata e le iridi azzurre; ogni vol-
ta le sue fattezze hanno ripreso quelle caratteristiche della po-
polazione indigena, rimescolando nelle più svariate combi-
nazioni carnagione chiara, olivastra e nera, capelli biondi,
rossi, neri, lisci, ondulati, crespi, sciolti e raccolti, occhi cele-
sti, marroni, tondi e a mandorla.
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Ma tanta buona volontà non è stata premiata, soprattutto
in Medio Oriente, dove Barbie ha tentato inutilmente di con-
quistare plauso e posizioni. A poco le è valso il travestimento
da Sherazade, regina delle Mille e una notte, insieme al fido
Ken nelle vesti di sultano. I suoi veli succinti hanno convinto
poco e non sono bastati a far dimenticare l’attitudine narcisi-
stica e consumistica che da sempre la caratterizzano. La poca
simpatia che si nutre in queste regioni per tutto quanto odora
di statunitense ha fatto il resto. In molti paesi mediorientali a
Barbie è precluso l’ingresso. La polizia religiosa saudita ha in-
detto una vera e propria campagna contro la bambola. È peri-
colosa perché, dopo averci giocato, le bambine fanno «strane
richieste»: «Mamma, mi compri i jeans, una T-shirt e un co-
stume da bagno come Barbie?». Così i ministri, memori anche
delle origini della signora Handler che ai loro occhi risultano
intrinsecamente colpevoli e nefaste, ammoniscono: «Le bam-
bole ebraiche di Barbie con i loro vestiti che lasciano vedere le
forme, le posizioni oscene, i differenti stili e accessori sono il
simbolo della decadenza e della perversione occidentale. C’è
da riconoscere il pericolo ed essere vigili».
In Iran rincarano la dose: «Ogni Barbie è più dannosa di
un missile americano». Così, l’Istituto per lo sviluppo intel-
lettuale dei bambini e dei giovani adulti – un’agenzia gover-
nativa affiliata al Ministero dell’Istruzione – ha messo allo
studio due bambolotti, Sara e Dara che, grazie anche alla con-
temporanea produzione di cartoni animati che ne mostrano
le avventure, dovrebbero far sparire dal mercato i letali Bar-
bie e Ken. Sara e Dara sono una sorella e un fratello di otto
anni dal sobrio guardaroba e con un forte attaccamento ai
tradizionali valori musulmani. Per Sara niente minigonne o
rossetto, né tanto meno lunghi capelli biondi. Tutti e quattro
i prototipi esistenti della bambola hanno in dotazione una
sciarpa bianca per coprire capo e riccioli rigorosamente ca-
stani o neri. La bambina poi può scegliere fra una camicia
arancione lunga fino al ginocchio, pantaloni blu e calze bian-
che, o una blusa a fiori o un chador a fiorellini lungo fino al-
119
le caviglie; il fratello Dara fra camicia bianca e pantaloni ne-
ri oppure camicia beige, pantaloni neri e giacca rossa.
Nell’attesa che Sara e Dara facciano il loro ingresso in so-
cietà, le bambine di credo islamico, che non possono trastul-
larsi con Barbie per i più svariati motivi, da qualche tempo
hanno a disposizione altri balocchi. Dal novembre 2003, in
Siria, Egitto e Qatar viene pubblicizzata come migliore ami-
ca di ogni bambina la bambola Fulla, «gelsomino», il cui
aspetto ricorda vagamente quello di Barbie, solo un po’ più
larga di fianchi, più modesta di seno e assai più scura di pel-
le e capelli, esce dalla scatola avvolta in un’abaya nera e con
il capo coperto dall’hijiab. I genitori, neppure sfiorati dal
pensiero di comprare Barbie alle loro bambine, acquistano
lieti Fulla, che ha un guardaroba dalle linee sobrie e possiede
un bel tappeto di feltro rosa per le orazioni quotidiane. Ful-
la non ha alcun fidanzato, ma è ben felice di seguire i detta-
mi paterni e materni, dimostrandosi onesta, dolce e premu-
rosa. Si dice che presto Fulla, che non disdegna cucinare o
leggere, diventerà una donna in carriera, ma solo come inse-
gnante e come medico, uniche professioni ritenute rispetta-
bili dagli ulema. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna le bam-
bine di famiglia islamica giocano con Razanne, il cui nome si-
gnificativamente evoca quella «scintillante modestia» che de-
ve essere patrimonio insostituibile delle donne musulmane.
Anche Razanne legge e rispetta il Corano e porta con inusi-
tata grazia un immacolato chador.
Né Fulla né Razanne incorreranno mai nella fatwa di con-
danna pronunciata in Kuwait contro Barbie, sin dal lontano
1994. Il funzionario religioso ha vietato la presenza di Barbie
dentro i confini nazionali perché essa «non ha niente a che
vedere con i bambini». Difficile dire se egli condanni usi e co-
stumi della bambola: il testo lapidario è supportato da una
lunga e articolata serie di motivi che potrebbero farla bandi-
re. Può darsi che egli veda in Barbie l’incarnazione di un pe-
ricoloso modello di bellezza occidentale; può darsi che non
approvi certe smanie consumistiche.
120
Di fatto le parti della pin up californiana sono state prese
da famose esponenti del movimento femminista di qualche
decennio fa. Secondo la sessuologa Shere Hite, autrice di
quel famoso Rapporto Hite la cui pubblicazione nel 1976 tan-
to contribuì al mutamento dei costumi sessuali, il bando
emesso contro Barbie altro non sarebbe che la manifestazio-
ne del fastidio che si prova nei confronti del pensiero di una
sessualità femminile attiva, non forzatamente legata alla pro-
creazione. Le culture religiose fondamentaliste ravvisano in
Barbie una bambola che ostentando seni e fianchi, pur man-
cando di genitali, aiuterebbe le bambine a prefigurare le for-
me di un corpo femminile adulto, orgogliosamente portato.
Ciò che più si teme, secondo la Hite, è che le bambine impa-
rino dalla bambola che indossa gli sfrontati abiti occidentali
anche quei comportamenti che all’abbigliamento sembrano
legati, soprattutto la possibilità di controllare e prendere de-
cisioni per quanto riguarda il proprio corpo, in campo ses-
suale e riproduttivo: un’autonomia che spaventa ogni inte-
gralista, a qualsiasi religione appartenga. Prova ne sia la ri-
sposta neoevangelica a Barbie, le bambole Elsie, Latlie, Mil-
lie e Violet del gruppo Mission City Press, tutte fornite di
Bibbia oltre che di ombrellini e cappelliere in omaggio alla vi-
sione di una femminilità quieta e sottomessa.
121
bligo di immaginarsi future casalinghe e, grazie alla capacità
di precorrere i tempi, provandosi in ruoli inediti per le don-
ne – primo fra tutti quello di presidente degli Stati Uniti – lan-
cerebbe un messaggio di emancipazione assai più efficace di
mille slogan. In più, il recente abbandono dello slavato Ken
a favore di una nuova libertà sentimentale e di un disimpe-
gnato flirt con un aitante surfista australiano, Blaine, svecchia
Barbie dalla patina di grigia fedeltà a un fidanzato tiepido che
ne offuscava lo splendore e le fa vestire gli invidiabili panni
di single, in un mondo sempre più a loro misura. Insomma,
Barbie, sulla soglia dei primi cinquant’anni, sembrerebbe
pronta a viverne altrettanti con l’inveterato entusiasmo delle
debuttanti.
Le smanie del collezionismo
123
Magic, che cambia il colore dei capelli e, andando indietro,
l’American Girl, dai capelli a caschetto, i diversi tipi di Swirl
Ponytail, la Fashion Queen, con le sue parrucche, la Miss,
l’unica a chiudere le palpebre, e poi ancora indietro le prime,
indicate solo con un numero, la n. 5 Ponytail, la n. 4 Ponytail,
la n. 3 Ponytail, la n. 2 Ponytail, fino alla debuttante, la n. 1
Ponytail. Due, tre, dieci, cento, duecento, cinquecento... fino
alle seimila (ma il numero è approssimato per difetto) che
vanta uno dei maggiori collezionisti italiani, tutte diverse, in
uno o più particolari, ma tutte uguali, tutte inconfondibili,
tutte Barbie.
124
ro abiti da sera gonfi come meringhe e scintillanti come lu-
ci al neon.
125
ri): esempio riuscito di marketing incrociato, riescono a tro-
vare appassionati anche fra coloro che collezionano quanto
appartenga al marchio giustapposto.
Fra le bambole più ambite dai collezionisti vi sono quelle
che celebrano il mondo hollywoodiano, dove Barbie imita
Rossella O’Hara dell’indimenticabile Via col vento, pavoneg-
giandosi nell’abito bianco e verde della festa alle Dodici
Querce, nello splendido abito verde realizzato con le tende
di casa o in quello sfrontatamente rosso con cui Rhett Butler
la conduce a un ricevimento; oppure rievoca l’amatissimo My
Fair Lady, prima con le umili vesti da fioraia e poi con i più
eleganti abiti indossati nel corso della commedia dalla prota-
gonista, Audrey Hepburn. Sempre alla Hepburn, nei panni
di Holly Golly di Colazione da Tiffany, è dedicata un’altra
bambola. Ma forse, gli abiti hollywoodiani che con maggior
piacere Barbie indossa sono quelli di Marilyn Monroe, da
quello rosso fuoco di Come sposare un milionario a quello ro-
sa acceso di Gli uomini preferiscono le bionde all’immortale
plissé svolazzante di Quando la moglie è in vacanza... La con-
sonanza fra le due dive, nate a pochi chilometri di distanza
l’una dall’altra, nella stessa assolata California, è tale che Bar-
bie non disdegna di cancellare i propri tratti, per assumere
quelli, pieni di innocente sensualità, di Marilyn, ricordando-
la con quel vestito scandalosamente cucito addosso un atti-
mo prima di intonare in un sussurro pieno di sottintesi
«Happy Birthday» al presidente Kennedy.
Ugualmente ricercate sono le bambole vestite e truccate
dalle grandi firme della moda attuale: Armani, Burberry,
Escada, Bill Blass, Oscar de la Renta, Ralph Lauren, Calvin
Klein, Donna Karan, Versus, Versace...
Troppo giovane per vestire un autentico Christian Dior,
che ispirò però i suoi primi sarti, ultimamente Barbie, per tut-
ti gli appassionati di moda, ripropone anche gli abiti che lan-
ciarono il new look, per i quali il suo fisico sembra creato.
Particolarmente amate dagli intenditori sono le bambole
truccate e vestite da Bob Mackie, un famoso costumista hol-
126
lywoodiano, che con Barbie come modella sembra aver tro-
vato un medium ideale di espressione. Abiti impressionanti,
ispirati ai disegni stilizzati e fantasiosi di Erté o ai più rutilanti
musical cinematografici, ricchi di ricami, di paillettes, di ra-
cemi, di volumi solidi che inventano imponenti colletti e rein-
ventano la figura femminile, coprono bambole con un truc-
co innovativo, che definisce nuovamente i lineamenti accor-
dando l’espressione alla magnificenza delle vesti.
Non tutte le bambole vengono prodotte nella stessa quan-
tità, né realizzate secondo la richiesta del mercato. Le diver-
se serie sono divise in quattro insiemi: pink, silver, gold e pla-
tinum. Le pink sono le più comuni, realizzate in numero illi-
mitato; solo 50.000 fortunati possono invece vantare il pos-
sesso di una bambola di classe silver; a 25.000 sono riservate
le gold; mentre croce e delizia dei collezionisti di tutto il mon-
do sono le platinum, rigorosamente prodotte in numero di
1000, per accendere quella smania di possesso che solo chi
colleziona conosce.
Rafforza la febbre il fatto che casa Mattel attua la vendita
non solo attraverso i canali tradizionali, ma anche per corri-
spondenza e con le televendite, commercializzando alcun mo-
delli solo in ambiti particolari (un fan club specifico, un sin-
golo mercato nazionale, un unico continente). In questo mo-
do si scatena la caccia spasmodica alle rarità e si fanno salire
ulteriormente le quotazioni di oggetti già estremamente cari
rispetto al prodotto riservato al normale gioco infantile. Ma i
collezionisti più entusiasti – e sono tanti –, oltre a seguire quan-
to promuove la casa madre, sono anche fra i promotori e i fre-
quentatori assidui di appuntamenti annuali irrinunciabili.
Grazie a un tam tam che l’utilizzo del web ha amplificato
e perfezionato, gli appassionati si riuniscono per mostrare,
vendere, comprare, scambiare bambole e accessori. In que-
ste fiere si aggirano genitori che, lasciati a casa i pargoli, non
vogliono assolutamente rinunciare ai propri balocchi. Aggi-
randosi fra soli adulti, non sono colpiti tanto dalle collezioni
«filologicamente» corrette. Naturalmente, dinanzi alla prima
127
Barbie, che occulta con il mitico costume bianco e nero del
suo debutto il marchio sulla natica destra
Barbie™
Pats. Pending
© MCMLVIII
by
Mattel
Inc.
128
ratterizzato da desideri «lussuosi», quando non «lussuriosi»,
ha creato una serie di bambole decisamente raffinata nel suo
genere. Con un nuovo materiale, pesante come la porcellana
e particolarmente voluttuoso al tatto, il silkstone, ha realizza-
to delle bambole che riprendono nei tratti del volto le Barbie
dei primi anni, rinverdendone oltremodo i fasti d’antan con
un guardaroba di taglio e realizzazione sartoriale, accurato
fin nei più insignificanti particolari. Per loro, in omaggio a
una particolare clientela, è concepito un nuovo packaging, in
cui il rosa decisamente pacchiano che contraddistingue la
maggior parte delle confezioni tradizionali non compare.
Una discreta scatola bianca e blu contiene quello che per
molti è un autentico oggetto del desiderio, tenuto da nastri di
raso che non ne possano scalfire la setosa superficie. A que-
ste bambole, particolarmente rifinite anche nella struttura del
corpo e già in elegante posa da mannequin, i creatori di OOAK
dedicano il meglio della loro fantasia per poi esporle e ven-
derle in apposite occasioni (fiere specializzate, concorsi, con-
vention a tema e così via). Non sfigurano accanto a queste le
OOAK derivanti da bambole che hanno visto giorni migliori e
che sembravano condannate a un presente squallido e a un
futuro infelice: bambole trovate per caso nelle soffitte o nei
mercatini, danneggiate da giochi energici o dagli inevitabili
sadismi infantili, che vengono riparate, ritruccate e rivestite
(«customizzate» si dice fra gli addetti ai lavori) per rivivere
una nuova gioventù con uno splendore di cui neanche appe-
na sfornate dalla fabbrica hanno goduto.
Nelle mani di questi spregiudicati creatori, Barbie si libe-
ra dalle remore giovanili e se pure non convola ad agognato
talamo, si scrolla di dosso l’aria candida con la quale ha con-
quistato (e tormentato) generazioni di ragazzine, per assu-
mere espressioni navigate che meglio si confanno a una fan-
ciulla da tanto tempo sotto la luce dei riflettori. Certo, a vol-
te i suoi magnifici costumi più che a una signora al ballo
dell’ambasciata rischiano di farla assomigliare a una drag
queen in pieno spettacolo: ma è un inconveniente che in mol-
129
ti sono disposti a correre, pur di appropriarsi di una di que-
ste pupe sopra le righe. Una volta ghermito il tesoro, il colle-
zionista può goderlo nel chiuso delle proprie mura; ma più
spesso ormai, complice la rete, gli appassionati allestiscono
vetrine dove mostrare orgogliosamente i propri pezzi unici,
oltre a tutto il resto. Le bambole eccezionali fungono spesso
da richiamo per piazzare presso acquirenti altrimenti irrag-
giungibili pezzi più ordinari, meno pregiati, ma non per que-
sto privi di un valore commerciale. Impossibile dinanzi a lo-
ro non pensare alla descrizione fatta da Walter Benjamin di
Eduard Fuchs, un collezionista non solo desideroso di in-
grandire la propria collezione ma, nell’era della riproducibi-
lità tecnica, di diffonderla sul mercato e di trarne un qualche
vantaggio economico. I collezionisti più generosi elargiscono
suggerimenti per gli acquisti o consigli per personalizzare le
proprie bambole; i più sentimentali arricchiscono le didasca-
lie con il racconto delle traversie incontrate per conquistare
l’amata, prima di ostentarla all’occhio dei più. E non manca
chi le fa recitare storie che si compongono scatto dopo scat-
to, facendone un’interprete di fotoromanzi cibernetici.
In queste personalissime vesti dotate dell’ineguagliabile
pregio dell’unicità, se non sempre e necessariamente del
buon gusto, Barbie – sia con il vezzoso broncio delle pregia-
te silkstone sia con il sorriso smagliante della dozzinale Su-
perstar – appare finalmente libera dall’obbligo di insegnare
qualcosa e rischia di apparire quasi affascinante al profano,
che dimentica il profluvio di rosa in tutte le sfumature e la
proliferazione bulimica di accessori per rimanere inebetito.
Quello che vive Barbie, una volta passata dalle mani di origi-
nali creatori, è la possibilità di nuove avventure, meno ste-
reotipate di quelle concepite in casa Mattel e più aderenti ai
sogni di un singolo. Proprio questo sembra muovere quanti
trascorrono il proprio tempo libero a disegnare nuove mises
per la loro bambola preferita, a realizzare accessori che ri-
producano come perfette miniature quelli al momento in vo-
ga, a costruire perfette ambientazioni dove posizionarla. Bar-
130
bie con il suo fisico iperrealistico offre la possibilità di creare
un mondo fittizio ma estremamente rappresentativo di quel-
lo reale: la distanza e la distorsione tra realtà e rappresenta-
zione stanno nell’eliminazione di ogni particolare che possa
turbare l’armonia voluta dal suo creatore. Il bizzarro mondo
che il customer realizza è pertanto estremamente sicuro, ma
al tempo stesso in grado di incantare uno spettatore qualun-
que. Quello che Barbie ha offerto e offre a quanti hanno or-
mai da tempo abbandonato l’età dei giochi è la possibilità di
una second life, dalla ricca tattilità e con il vantaggio di ap-
puntamenti periodici con i propri simili e un pubblico posi-
tivamente colpito. Come la Second Life che si affaccia dagli
schermi del computer è solo un gioco e non ha alcun senso
per i profani scandalizzarsi: si tratta di adulti. Consenzienti.
È bello ciò che è bello
132
quando non ostentate, poiché, come le regioni celesti, erano
degne della migliore attenzione; al pari di quelle, che aveva-
no nel sole il loro principale bagliore, esse erano come illu-
minate dalla chioma bionda.
Non casualmente, nella trattatistica riservata alle signore
del tempo, i consigli su come ottenere capelli biondi, folti e
ondulati si moltiplicavano. Caterina Sforza, nei suoi famosi
Experimenta pubblicati nel 1504, consigliava alle brune di il-
luminarsi utilizzando impacchi di fiori di lupino mescolati a
salnitro, zafferano e altre sostanze e avendo poi cura di far
asciugare i capelli al sole.
A Venezia si scomodò addirittura Tiziano per mettere a
punto la tintura per «capelli file d’ore», necessaria a ottenere
il cangiante «biondo veneziano» che le signore amavano sfog-
giare: 2 libbre di albume, 6 once di zolfo nero e 4 once di mie-
le distillato con acqua. Cosparso il capo con la mistura, le va-
nitose gentildonne si ritiravano sopra i tetti delle case, in «al-
cuni edifici di legno quadri, in forma di logge scoperte, chia-
mate altane». Qui, «con una sponzetta ligata alla cima di un
fuso» bagnavano ripetutamente le chiome presto asciutte a
causa del sole e dell’aria aperta, non temendo il «colmo del
gran calore del sole, sopportando molto per questo effetto».
Naturalmente biondi erano i boccoli dell’affascinante Lu-
crezia Borgia, che da un noto ritratto fissa lo spettatore con
un occhio limpidamente azzurro, altro segno di perfetta bel-
lezza che attraverso i secoli si manterrà costante, malgrado i
molteplici cambiamenti di gusto. Anche le forme di Barbie,
al di là delle esagerazioni, parlano all’occhio occidentale di
una «perfetta bellezza». Naturalmente, per riconoscerla qua-
le modello esemplare non occorre risalire fino a tempi mitici:
solo nel corso dell’Ottocento le curve femminili cominciaro-
no a divenire visibili in società e fu possibile rintracciare an-
che nelle linee del corpo il segno della bellezza. Naturalmen-
te furono i tempi, il dinamico Ottocento e il frenetico Nove-
cento, a dettare le condizioni della silhouette: non si trattò so-
lo della ricerca di una maggiore comodità a far indovinare
133
sotto i vestiti i profili femminili. La scoperta della villeggia-
tura marittima – magnifica invenzione della contemporaneità
– si accompagnò alla «scopertura» delle membra. Anche le
donne vollero un fisico asciutto, modellato dalla ginnastica e
dalla vita all’aria aperta, che non le facesse sentire goffe men-
tre si muovevano per la prima volta libere sulle spiagge.
134
volto e del corpo si possono scoprire messaggi reconditi, co-
me sostiene ancora nell’illuminato Settecento, in termini cer-
to polemici con il razionale spirito del secolo, ma non per
questo inascoltati, lo scrittore tedesco Johann Kaspar Lava-
ter, che afferma il valore euristico della fisiognomica.
135
tica. La carnagione chiara, leggermente rosata e altrettanto
lievemente abbronzata, è segno di una non comune capacità
di apprendimento. Soprattutto questa sfumatura rosea ri-
manda a Venere, dea della bellezza e della seduzione amoro-
sa, la cui influenza rende dotati di ogni fascino uomini e don-
ne. Le virtù, che la carnagione denota, sono amplificate quan-
do, come accade a Barbie, si accompagnano con sorridenti
occhi azzurri, segno di capacità superiori, quasi divine. Il tut-
to appare concluso e compendiato nella chioma bionda, sim-
bolo di altissime qualità umane e intellettuali.
137
cessori ne è una prova non larvata. Ma le frenesie d’acquisto
sono sempre dissimulate dal sorriso composto, che sottolinea
l’imprescindibilità esistenziale dell’ultimo acquisto: «Ma co-
me vuoi che guidi se non ho il fuoristrada con l’aria condizio-
nata e il lettore cd?»; «Si può vivere senza televisore al pla-
sma?»; «Devo assolutamente avere una piscina in tono con il
mio ultimo costume da bagno!».
Con falsa ma saputa modestia Barbie si emancipa da una
vita all’insegna della scomoda imprevedibilità, per adagiarsi
in una comoda quotidianità, tagliata su misura per i suoi tren-
ta centimetri scarsi e per i suoi sogni di fanciulla borghese con
nessun desiderio di rivolta. Il suo mondo, del resto, può solo
continuare a espandersi, in un’infinita bramosia d’accumulo:
il fatto stesso di essere di plastica lo rende in odor di eternità,
privo della facoltà di decomporsi, incorruttibile perlomeno
per un minimo di quattrocento anni: perfetto, al pari di colei
per la quale è stato edificato.
Non è un caso che sceneggiatori, scenografi e costumisti
del film La donna perfetta (tardo remake della Fabbrica delle
mogli, storia di una casalinga con una forte passione per la fo-
tografia, uscito nel 1975, in pieno rigoglio della protesta fem-
minista) sembrino ispirarsi a Barbie e al suo mondo per trat-
teggiare il mondo privo di pecche dove si rifugia la protago-
nista Joanna (la bionda Nicole Kidman), ex workalcoholic
scioccata da un insuccesso sul lavoro. La cittadina di
Stepford, dove Joanna viene portata dal marito insieme ai fi-
gli per ritemprarsi, è composta da lussuose ville circondate da
rigogliosi giardini; tutte le donne sono attraenti, curatissime
e tutte si dedicano interamente al marito, alla casa e alla fa-
miglia, consigliate dalla fondatrice della cittadina, Claire
Wellington (una splendida Glenn Close); gli uomini si riuni-
scono al circolo cittadino, dove trascorrono il tempo a gioca-
re a carte, bere alcolici e fare conversazione, sotto la carisma-
tica guida del marito di Claire, Mike. La donna in carriera che
è in Joanna è stupita e disgustata da quanto vede accadere a
Stepford: le riunioni al circolo culturale femminile, dove si
138
commentano capolavori letterari sull’arte degli addobbi na-
talizi o dell’inappuntabile cottura dei dolci, la ginnastica in
tacchi a spillo e i colori pastello immancabilmente scelti per
l’abbigliamento da tutte le sue concittadine. Ma ben presto il
mistero viene svelato: prima allo spettatore, poi a Joanna. Le
mogli di Stepford sono state sottoposte a un trattamento che
ne ha annullato la vera personalità e le rende zuccherose e
servizievoli robot: donne «perfette». Prima della lobotomia
erano persone di grande successo e carisma, sposate a uomi-
ni banali e inconsistenti, che dopo anni di frustrazioni assa-
porano, senza mai saziarsene, il gusto, mai provato, della su-
periorità. Anche Joanna, dopo giorni di permanenza nella cit-
tadina, appare trasformata: lasciati sulle grucce i severi com-
pleti neri da manager, eccola sbocciare da morbide gonne
mentre sulle spalle ondeggiano le lunghe chiome bionde; una
Barbie in carne e ossa, che con incedere gentile spinge il car-
rello del supermarket riempiendolo di ogni bendidio e ri-
sparmiando al consorte anche le più lievi fatiche domestiche,
prima – immaginiamo – di soggiacere arrendevolmente alle
sue voglie. Il colpo di scena finale assicura lo spettatore che
Joanna ha finto ogni docilità per smascherare la falsità del
mondo di Stepford, un mondo all’interno del quale le donne
sono «perfette» nella misura in cui assecondano i più biechi
desideri dei mariti, e assecondano i più biechi desideri dei
mariti nella misura in cui i loro naturali sensi sono obnubila-
ti costringendole a una vita di bambole.
Bambola plasticosa, sottomessa e festaiola, ridanciana
eroina di un fantastico mondo tutto di plastica è la protago-
nista dell’innocente canzoncina estiva Barbie Girl del gruppo
danese Aqua. Il loro leader Søren concepisce il ritornello pas-
sando dinanzi a un locale di Copenaghen dove fanno bella
mostra di sé delle bambole luccicanti nei loro vestiti di raso.
Hi Barbie!
Hi Ken!
Do you wanna go for a ride?
139
Sure Ken!
Jump in...
140
po sulla città, vaghiamo, andiamo a divertirci. / Puoi toccare, puoi
giocare, se lo dici sarò sempre tua. / Vieni Barbie andiamo a diver-
tirci. / Vieni Barbie andiamo a divertirci. / Oh mi sto divertendo
moltissimo! / Beh Barbie, abbiamo appena cominciato. / Oh ti amo
Ken!
141
una lettera aperta un ragazzo statunitense, che gestisce un si-
to dedicato agli Aqua:
142
tori, non può non sottrarsi alle ambiguità. L’ardito giovane
che osa puntare il dito contro casa Mattel non è un’eccezio-
ne nel mondo occidentale, dove Barbie ha talmente occupa-
to l’immaginario, infantile e non, da suscitare più diffidenza
che simpatia e, spesso, più odio che apprezzamento. Sicura-
mente, nella disincantata Europa, in parte indifferente grazie
al cattolicesimo ai turbamenti sessuali, in parte emancipata
dal femminismo, non sono le sinuosità di Barbie a scatenare
istinti distruttivi nei suoi confronti. Turba molto di più la sua
immarcescibile perfezione, la sua innata capacità di non pro-
vare mai un momento di imbarazzo o di non trovarsi mai fuo-
ri posto, come quelle «donne perfette», senza un ricciolo in
disordine o coreograficamente trasandate in lingerie di pizzo,
che sorridono dalle pagine dei giornali o dagli schermi della
televisione, assorte nella lettura di poderosi tomi nei momenti
di tempo libero, ma pronte ad agghindarsi per l’happy hour,
proprio il giorno prima di un colloquio di lavoro, che natu-
ralmente le vedrà magnificamente a proprio agio e in grado
di colpire favorevolmente l’interlocutore, per l’eleganza del
loro tailleur oltre che per la brillantezza dell’eloquio, in una
girandola di situazioni che vedrebbero le «donne normali»,
generalmente dotate di mutande dall’elastico slabbrato e del
buon proposito di andare dal parrucchiere più spesso, tre-
mare come foglie in vista del «d-day» con l’insano, e libera-
torio, desiderio di barrire al mondo la loro vera e vibrante im-
perfezione.
Ti odio!
144
renza chi per anni si è proposta come migliore amica e fidata
custode di tutti i segreti.
A poco serve il fatto che, per speciali occasioni come i com-
pleanni, Barbie sia anche disposta ad abbandonare le sue ro-
mantiche gonne fruscianti per vestirne una di pan di spagna,
marzapane e confettini. L’immagine di Barbie sorridente, an-
che se per metà coperta di sciroppo alla fragola e per l’altra
metà da un panettone glassato, che troneggia al centro di una
tavola imbandita, rimbalza da un sito all’altro per ispirare le
mamme in cerca di idee per festeggiare le figlie, ma altro non
sembra per la bionda nata e cresciuta con ben altre aspirazio-
ni che l’anticamera per quello che l’aspetta una volta cresciu-
ta la padroncina. Nel migliore dei casi Barbie viene lasciata a
marcire in un angolo (da dove forse in una fase particolare del-
la maggiore età verrà ripresa, vestita con più orpelli di una spo-
sa di provincia e truccata da travestito d’altobordo).
Ma può anche accadere che il congedo prenda la forma di
un rituale voodoo. Le cronache, sempre più spesso, fanno re-
gistrare Barbie con la testa rapata, il sorriso ridotto a sberleffo
con un pennarello, gli occhi pesti... per non parlare delle
braccia o delle gambe spezzate... o dell’arrostimento a colpi
di microonde... Nessun altro giocattolo ha subito e subisce
tante decapitazioni, scotennamenti e mutilazioni. L’accani-
mento con il quale tali pratiche sono state messe in atto, non-
ché la loro diffusione, il tutto unito alla notorietà di una bam-
bola che più di una volta si è attirata gli strali del mondo «cul-
to» e progressista, ha incuriosito frotte di ricercatori di psi-
cologia e li ha condotti a indagare sulle ragioni di un tale, pla-
teale, smaccato odio. E dato che la cosa si è ripresentata in
periodi diversi, in cui in maniera diversa Barbie dominava
mercato e giochi infantili, diverse sono state le diagnosi rila-
sciate. In passato, si è ipotizzato che tanto malanimo nei con-
fronti di un’imbelle pupattola al momento dell’abbandono
fosse causato proprio dal suo aspetto inequivocabilmente
adulto. Proprio l’obiettivo che la sua creatrice Ruth Handler
si era prefissa di raggiungere, quello di traghettare verso l’età
145
adulta le bambine, aiutandole tramite la bambola a prefigu-
rare il loro futuro, era alla base di un sadismo che trovava sfo-
go nella mutilazione. Sfigurando colpendo la prosperosa Bar-
bie, le bambine esprimevano tutto il loro dissenso nei con-
fronti di una crescita indesiderata e i timori per il passaggio a
quel «mondo dei grandi», dal quale non è possibile fare ri-
torno all’infanzia.
Oggi, gli eredi di quegli stessi ricercatori, osservando
l’estrema voluttà con la quale le bambine seviziano la loro
Barbie, danno della cosa un’interpretazione estremamente
differente. Sebbene immediatamente identificabile grazie al
bagliore del ciuffo biondo e all’indimenticabile rosa chewing-
gum, la moltiplicazione della bambola nelle sue mille versio-
ni, croce e delizia dei collezionisti, disorienta chi con Barbie
vuole solo giocare. La confusione che genera l’abbondanza
dei modelli è l’esatto contrario di ciò che deve necessaria-
mente possedere un giocattolo, tanto più se esso, come acca-
de per Barbie oggi, è indirizzato alla prima età scolare. Bar-
bie difetta di quella riconoscibilità che suscita l’affezione. E
da perfetta e indifferente sconosciuta, diventa il bersaglio di
tutte quelle crudeltà, che i bambini oggi possono sperimen-
tare direttamente dopo un’attenta osservazione in televisio-
ne. Afferma Agnes Nairn, autrice di uno studio sull’argo-
mento:
146
artistiche, di cui si dimostrano capaci gli adulti. Innumerevo-
li i motivi che conducono a colpire la fanciulla californiana e
a sottoporla a sevizie. In un Occidente satollo fino alla nau-
sea, l’indole consumistica di Barbie attira più di una critica.
Questa ragazzona mai contenta di quello che ha, e che a ogni
nuovo acquisto già pregusta il successivo, ancora più vistoso,
non può secondo i critici non influenzare negativamente
bambini e bambine: Barbie insegna ad acquistare non per
sovvenire a una necessità, ma semplicemente per acquistare
in sé e per sé, e incita all’acquisto continuo, interminabile, ar-
rivando ad assumere i tratti distorti e grotteschi di ancella del
consumismo. Accanto a una tale bramosa voracità, l’altro
motivo di rimprovero è la vieta riproposizione di luoghi co-
muni sulle donne e le loro facoltà intellettive: in una versione
parlante di qualche anno fa, Barbie afferma che «la lezione di
matematica è difficile», scatenando le ire di chi interpreta la
frase come «le ragazze non sono abbastanza intelligenti per
studiare matematica». Ulteriore antipatia scatenano quel suo
aspetto fisico inappuntabile e quel sorriso indelebile che nul-
la può scalfire.
La catarsi si può manifestare tramite gioielli che al posto
delle pietre ostendono brani del corpo di plastica dell’odiata
bambola come trofei di guerra: ciondoli con raggiere di nati-
che o di tette a formare un fiore, pendenti da cui ondeggia
un’ormai gelida manina, anelli con il noto sorriso e, si spera,
un valore apotropaico. Ma non sempre la brama di distru-
zione si accompagna a preoccupazioni estetiche e l’istinto di
profanazione e il bisogno di comunicazione possono manife-
starsi con insolite urgenze in coloro che, senza troppi com-
plimenti, espongono Barbie fatta a pezzi dentro un frullato-
re o sfigurata dal calore o dal vetriolo o, finalmente, mentre,
dovendo comunque proteggere la verginità, con doviziosa
lentezza si esercita in una fellatio con l’amato Ken, dalle pro-
tuberanze per una volta regolari.
Non mancano sfregi letterari, come quello, godibilissimo,
di Chiara Rapaccini, che in Povera Barbi, riporta la confes-
147
sione della bambola che dalle colline di Beverly Hills per ro-
vesci di fortuna, mai comunicati da casa Mattel, si è ritrovata
temporaneamente a vivere fra topi e cimici, abbandonata da
Ken fidanzatosi con una rivale.
148
Inutile dire che nel finale, Barbie lascia la discarica e tor-
na sulle colline di Beverly Hills, nuovamente con begli abiti e
con l’adorato Ken, nuovamente in tiro, pronta a riprendere
la solita vita e a riprendere le fanciulle di ogni età, nelle loro
quotidiane mancanze, con l’indice teso e un sorriso condi-
scendente. Certo, non è la sola a guardare dall’alto in basso
le ragazze che, per i più svariati motivi, hanno il girovita ap-
pesantito, il colletto della camicia gualcito, la calza sfilata...
Ancora oggi, i milioni di donne che nel mondo guidano au-
tobus e trattori, si destreggiano tra provette e manoscritti,
asfaltano strade e sminano campi, non riescono a dominare
l’angoscia che le assale per l’«imperfezione» del loro aspetto
fisico. Anche se da tempo hanno riposto le bambole, dalle pa-
tinate pagine delle riviste femminili, Barbie con il suo fisico
«perfetto» continua a tormentarle, come sottolinea Eve En-
sler, nel suo Il corpo giusto.
149
no femminino» elaborato dalla modernità. Affrancarsene è,
in verità, assai difficile, perché, come si chiede Fatema Mer-
nissi, autrice di L’harem e l’Occidente: «Come si fa a organiz-
zare una marcia politica credibile, e gridare nelle strade che i
tuoi diritti umani sono stati violati perché non riesci a trova-
re una gonna che ti va bene?». Eppure, è con quest’ultimo ca-
pestro che le donne, che hanno raggiunto per molti versi la
parità, sono vessate. L’accusa che in proposito lancia Ger-
maine Greer dalla pagine della Donna intera.
150
venire a sapere che da qualche tempo le bambine snobbano
la bionda californiana, anche se per rendersi più allettante ha
cominciato di nuovo a tingersi i capelli in diverse sfumature
e scopre l’ombelico (che prima non aveva) con abiti da tee-
nager. Non serve. Le bambine di oggi sono attratte da altre
bambole, da altri miti.
Prime della lista sono le cinque Winx, e non solo perché
ostentano un ombelico sicuramente meno stagionato di quel-
lo di Barbie. Nate in una nostrana Cartoonia e solo da poco
uscite dal piccolo schermo per approdare prima a quello
grande e poi al fantastico mondo dei giocattoli per bambine,
le apprendiste fate Bloom, Musa, Flora, Stella e Tecna vivo-
no in una dimensione extraterrestre che le esimerebbe da
ogni obbligo proiettivo nei confronti delle bambine che con
loro si intrattengono. Eppure a fronte di una Barbie in car-
riera, costretta a coltivare ora e sempre il proprio aspetto e a
rinunciare alla maternità, pur essendo ancora studentesse al
college delle fate Alfea, le cinque adolescenti Winx sembra-
no far preconizzare un futuro da «donne intere». Forti cia-
scuna di un proprio carattere, malgrado siano affascinate dal-
le mode e dalla moda (e, ahimè, anche dal rosa fucsia, ma nes-
suno è perfetto), si sforzano di sviluppare i loro singoli talen-
ti, che reggono il confronto con quelli dei loro accompagna-
tori, i quali – al contrario del povero e frustrato Ken – ci im-
maginiamo in un futuro prossimo felici papà di magici e sod-
disfatti poppanti.
Sfidanzate, e felici della loro autonomia, sono invece le
Bratz, monelle per l’appunto. Queste fanciulle, dall’aspetto
di chi è appena uscito da un ghetto ma è sicurissimo di tor-
narci, e non solo a dormire, non hanno letto molto; sicura-
mente ignorano ogni tipo di galateo. Vestono jeans strappa-
ti, calzano pericolosissimi trampoli e amano il trucco vistoso:
un affronto all’eleganza calcolata di Barbie, sempre attenta a
non portare accessori scoordinati, ma un sostanziale inno al-
la libertà nelle apparenze. Aggressive, sboccate, con i loro oc-
chi pesantemente bistrati e le labbra in evidenza, sicuramen-
151
te non si possono definire belle. Finalmente, nella distorsio-
ne della realtà che fa il giocattolo mimetico, viene a cadere
l’obbligo estetico, con un effetto – si spera – autenticamente
liberatorio. Le bambine, costrette all’apparecchio dentale o
latinamente brune, finalmente hanno trovato bambole che
non dicono loro come dovrebbero essere, cominciando
dall’aspetto fisico per finire a modi e maniere, ma bambole in
cui riconoscersi e delle quali, malgrado difetti e imperfezio-
ni, si può essere migliori: «le brave ragazze andranno pure in
paradiso, ma le cattive vanno dappertutto». Non è un caso
che le bambine di oggi adorino il menefreghismo delle Bratz,
trovando stucchevole e antiquata Barbie, che malgrado i ten-
tativi di ringiovanimento, sembra di nuovo destinata come la
sua lontana sorella maggiore Lilli a essere un giocattolo per
adulti.
Del resto che cosa può aspettarsi la nostra fanciulla che co-
me un Van Gogh appena riscoperto viene battuta da
Christie’s? Si consoli sapendo che nella versione numero
uno, datata 1959, può raggiungere l’astronomico prezzo dei
740.000 euro. Si rincuori sapendo che, in casa Mattel, si pen-
sa a risollevarla dall’insuccesso in cui è incorsa a inizio mil-
lennio, promuovendone l’ingresso nel mondo virtuale. E si
senta lusingata quando, al volante della sua decappottabile
con un bianco cappello da cowgirl, sorride a chi visita il Mu-
sée des Arts Décoratifs di Parigi.
Noi, adesso, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Barbie,
grazie al cielo, ormai è roba da museo.
Bibliografia
Lilli
Sulla figura di Lilli si sofferma M.-F. Hanquez-Maincent, Barbie
poupée totem, cit., pp. 18-43. La traduzione del testo di Joseph
Goebbels è tratta da www.olokaustos.org/saggi/saggi/donne/don-
ne1.htm; la traduzione del testo di Fritz Lenz è tratta da
www.olokaustos.org/saggi/saggi/donne/donne2.htm.
153
del cinema è rivelato da K. Anger, Hollywood Babilonia, Sugar, Mi-
lano 1960, la citazione si trova a p. 16; la vicenda di Moll Flanders
è al centro dell’omonimo romanzo di Defoe (D. Defoe, Moll Flan-
ders, Garzanti, Milano 1999, ed. or. 1722); la citazione, tratta dal
lungo sottotitolo dell’edizione originale, si trova a p. XIV.
Diventare grandi
99-53-83
154
lità dell’haute couture sono P. White, Poiret, Studio Vista, Londra
1973 (le parole di Poiret sono riportate a p. 29); A. Madsen, Cha-
nel. Una vita, un’epoca, Istituto Geografico De Agostini, Novara
1990; M.-F. Pochna, Christian Dior, Flammarion, Parigi 1994 (la
citazione si trova a p. 177). La citazione dal «Ωurnal dlja choziajek»
è tratta da H. Blignaut e L. Popova, Maschile, femminile e altro. Le
mutazioni dell’identità della moda dal 1900 ad oggi, Franco Angeli,
Milano 2005, p. 84.
Chic!
Domani mi sposo...
I testi noti come rapporti Kinsey sono A.C. Kinsey, W.B. Pomeroy
e C.E. Martin, Sexual Behaviour in the Human Male, W.B. Saun-
ders Company, Philadelphia-Londra 1948 e A.C. Kinsey, W.B. Po-
meroy, C.E. Martin, P.H. Gebhard, Sexual Behaviour in the Hu-
man Female, W.B. Saunders Company, Philadelphia-Londra 1953,
sui quali in Italia si può leggere L. Saffirio, Il rapporto Kinsey e le
differenze di comportamento fra la donna e l’uomo, in Il pensiero
americano contemporaneo, dir. da F. Rossi-Landi, Edizioni di Co-
munità, Milano 1958, 2 voll., II, Scienze sociali, pp. 223-298. Innu-
155
merevoli edizioni ha avuto sin dal suo apparire B. Spock, Il bambi-
no. Come si cura e come si alleva, Antonio Vallardi, Milano 2005
(ed. or. 1945). Emblema di un’epoca è S. Plath, La campana di ve-
tro, Milano, Mondadori 2007 (ed. or. 1963): la citazione è tratta
dalle pp. 70-71.
L’età ingrata
Black is black...
Yankee go home
156
Sulla percezione degli Stati Uniti in Europa si può leggere F. Ro-
mero, Dalla convergenza alla divaricazione: l’America nell’immagi-
nario dell’Europa occidentale, in Quale occidente, occidente perché,
a cura di T. Bonazzi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 189-
201. Dedicato all’antiamericanismo in Italia è M. Teodori, Male-
detti americani. Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio an-
tiamericano, Mondadori, Milano 2002, da cui sono tratte le cita-
zioni di J. Evola e di «Civiltà cattolica» (rispettivamente p. 64 e p.
105). Il parere di Carlo Levi è espresso in C. Levi, Discorso sul
Vietnam, in Id., Il dovere dei tempi. Prose politiche e civili, a cura
di L. Montevecchi, Donzelli, Roma 2005, p. 311. I passi sull’idea-
le comportamento femminile sono tratti da Enciclopedia della don-
na, a cura di D. Bertoni Jovine, Editori Riuniti, Roma 1965, 2
voll., I, pp. 348-349. Il testo della canzone Cocco e drilli è rintrac-
ciabile in www.filastrocche.it/nostalgici/canzoni/coccodri.htm.
Crisi di crescita
157
Buone maniere
Uno dei primi libri che Barbie dedica a se stessa in Italia è Dolly &
Gloria, La casa di Barbie, Giunti Marzocco, Firenze 1976. Matrice
di ogni libro sul comportamento da tenere in pubblico è, natural-
mente, G. Della Casa, Galateo, a cura di S. Prandi, introd. di C. Os-
sola, Einaudi, Torino 1994 (1a ed. 1558), generalmente contrappo-
sto al coevo B. Castiglione, Il libro del cortegiano, a cura di A.
Quondam, Garzanti, Milano 1981 (1a ed. 1528). Alla diffusione dei
galatei nell’Europa preindustriale è dedicato I. Botteri, Galateo e
galatei. La creanza e l’instituzione della società nella trattatistica ita-
liana tra antico regime e stato liberale, Bulzoni, Roma 1999; moltis-
sime edizioni ha avuto C. Rosselli, Il saper vivere di Donna Letizia,
Mondadori, Milano 1960; recentemente alcuni fascicoli dell’Enci-
clopedia della donna, pubblicati originariamente sciolti con caden-
za settimanale, sono confluiti nel centone La grande enciclopedia
della donna, Rizzoli, Milano 2006; non ha più goduto invece del
successo iniziale B. Gasperini, Il galateo di Brunella Gasperini. Gui-
da utile, divertente, aggiornatissima ai misteri del galateo che cam-
bia, Sonzogno, Milano 1975, la cui citazione è tratta dalle pp. 5-6.
La «vie en rose»
158
I mille volti dell’«american dream»
Barbie burqa
159
Le smanie del collezionismo
160
essere introdotta da L. Rodler, I silenzi mimici del volto. Studi sulla
tradizione fisiognomica italiana fra Cinque e Seicento, Pacini, Ospe-
daletto 1991. Gli approfondimenti novecenteschi sull’argomento
sono rinvenibili in R. Kassner, I fondamenti della fisiognomica. Il ca-
rattere delle cose, Neri Pozza, Vicenza 1997 (1a ed. 1922).
La donna perfetta
Ti odio!
161
giusto, Tropea, Milano 2005, p. 11; F. Mernissi, L’harem e l’Occi-
dente, Giunti, Firenze 2000, p. 171; G. Greer, La donna intera,
Mondadori, Milano 2000 (ed. or. 1999), p. 7. Sulla recente strate-
gia della Mattel per promuovere Barbie si veda E. Assante, Barbie,
l’icona delle teenager diventa hi-tech, in «la Repubblica Affari e Fi-
nanza», 14 aprile 2008.
Indice
Ringraziamenti VII
Lilli 3
Diventare grandi 16
99-53-83 22
Chic! 29
Domani mi sposo... 45
L’età ingrata 54
Black is black... 62
Yankee go home 69
Crisi di crescita 78
Buone maniere 92
163
La «vie en rose» 98
Ti odio! 144
Bibliografia 153