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Sandro Barbera - Giuliano Campioni nietzscheana

saggi
13

Il genio tiranno
Ragione e dominio
nell’ideologia dell’Ottocento:
Wagner, Nietzsche, Renan

Edizioni ETS
L
a filosofia di N ietzsche si colloca, nell’an alisi proposta in
questo volume, in un contesto di d iscu ssio n e che coinvol­
ge Schopenhauer e Burckhardt, e, soprattutto, Wagner e
Renan. Il tragitto di Nietzsche viene seguito in relazione, innanzi
tutto, all’evoluzione teorica di Wagner e, in particolare, alla svolta
da «O pera e dram m a» alla m etafisica della m usica assoluta, inte­
sa come «sogno vero» e p o ssib ilità di mitizzazione totale della
realtà. Inoltre si vede come, insieme al mito wagneriano, incentra­
to intorno alla m agia tirannica del genio, Nietzsche smonti il mito
renaniano di un’aristocrazia scientifica, élite che sostiene un rigo­
roso progetto signorile, costringendo i linguaggi sociali entro
un’oppressiva teleologia laica, segnata da una forte commistione
di positivism o e romanticismo. La filosofia nietzscheana acq u isi­
sce, nel confronto, il valore di una radicale demitizzazione, che la ­
vora a sottrarre all’ideologia romantica il suo fondamento metafisi­
co. Liberato dalle risoluzioni mitiche, il moderno si apre in e ssa al
riconoscim ento di una pluralità di forze che richiedono forma e
senso e che giungono ad esprim ersi in una forma non costrittiva.
E ssa raccoglie i vari sensi parziali e diviene una relazione di con­
trari i quali, pur non tendendo alla conciliazione, non hanno valo­
re reciprocam ente distruttivo. La «volontà di potenza» è attraver­
sata nel profondo da questa intenzione liberatoria che Musil ha in­
dicato per primo tra i lettori novecenteschi enunciando, attraverso
Nietzsche, una nozione di forma come sintesi di nuove possibilità.

ISBN 9 7 8 - 8 8 4 6 7 2 5 9 5 - 0

€ 18,00 788846 725950


La lettura analitica [di Barbera e Campioni],
coi suggestivi accostamenti dei testi tra loro,
con le scoperte fdologiche nascoste tra le note
piè di pagina ... richiede a sua volta una lettura paziente,
che non mancherà di essere premiata da un continuo
arricchimento di prospettive su ciò che gli autori
chiamano la «duplice relazione di assimilazione
e di distacco dalle immagini che l’epoca offriva»
a Nietzsche.

Mazzino Montinari
S andho B arbera (B ie lla 1 9 4 6 - P is a 2 0 0 9 ).
L aureato con N icola B ad alo n i, è stato un p ro­
fondo c o n o scito re d e lla letteratu ra e d e lla fi­
lo so fia te d e s c a . H a in se g n ato S to ria d e lla
le tte ratu ra ted esc a a ll'U n iv e rs ità di P isa .
G oethe, Sc h o p e n h a u e r e N ietzsch e son o stati
al cen tro d e lle s u a ric e rc h e su c u i, nel co rso
d egli an n i, h a dato a lle sta m p e p rezio si sag gi
e m on og rafie tra cui rico rd iam o i volum i
Goethe e il disordine. U na filo so fia d e ll'im m a­
gin azion e (M arsilio 1990); ‘Il mondo come vo­
lo n tà e ra p p re sen taz io n e ’. In troduzion e a l l a
le ttu ra (C a ro c c i 1 9 9 8 ); Une p h ilo so p h ie du
conflit. E tudes su r Sch open hauer (P U F 2 0 0 4 ).
P e r le E d iz io n i E T S h a c u ra to , n e lla c o lla n a
« N ie tz sc h e a n a », che ha fondato con C am p io ­
ni e Volpi, du e racco lte di sa g g i su lla fortuna
di N ie tzsc h e . N egli ultim i tem p i e ra p a rtic o ­
larm en te im pegn ato n elT im portan te progetto
Sch o p en h au er Sou rce m irato a m ettere a d is ­
p osizion e attrav erso Internet la più am p ia of­
fe rta p o s s ib ile di fonti p e r lo stu d io d el p e n ­
siero e d e ll’opera d el filosofo ted esco.

G iu l ia n o C a m p io n i (P e sc ia 1 9 4 5 ). L au reato
con N icola B a d alo n i, ha in segn ato a ll’U n iver­
sità di L e cc e e di P isa dove attualm ente è pro­
fe sso re di S to ria d e lla filo s o fia . È cu rato re e
re sp o n sa b ile del com pletam en to e revision e
d e ll’ed izio n e ita lia n a C olli-M on tin ari d e lle
Opere e de\Y E p isto la rio di N ie tzsc h e e d e lla
nuova edizion e dei F ram m en ti p ostum i 1 8 6 9 -
1 8 8 9 in 21 voll. (A delph i). H a com piuto con
con tin u ità stu d i su lla filo so fia e su lla cu ltu ra
ted esch e e fran cesi dell’ Ottocento e del N ove­
cento, con p articolare riferim ento a N ietzsch e
ed alla su a fortuna, m irando a illum inare gen e­
si e sig n ific ato sto rico d elle categorie cen trali
del filo so fo ted esco , an ch e attraverso il com ­
p lesso rapporto con la cultura dell’epoca. Tra le
p u b b licazio n i recen ti; la cu ra d e lle Lettere d a
Torino di Friedrich N ietzsch e (A delphi, 2 0 0 8 )
e degli Scritti filo so fic i di E rn est Renan (Bom ­
p ia n i, 2 0 0 8 ); la m on ografia D er fran zö sisch e
Nietzsche (de G ruyter, 2 0 0 9 ) e Nietzsche. L a
m orale d e ll’eroe (Edizioni E T S , 2009).
nietzscheana
13
collana diretta da
Giuliano Campioni, Maria Cristina Fornari

fo n d ata da
Sandro Barbera, Giuliano Campioni e Franco Volpi
Sandro B arb era - G iuliano Cam pioni

Il genio tiranno
Ragione e dominio
nell’ideologia dell’Ottocento:
Wagner, Nietzsche, Renan

Prefazione di
Mazzino Montinari

Edizioni ETS
www.edizioniets.com

© Copyright 2010
EDIZIONI ETS
P iazza C arrara, 16-19,1-56126 P isa
info@ edizioniets.com
www.edizioniets.com

Distribuzione
PD E, Via Tevere 54,1-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN 978-884672595-0
a Irene e Michele

I
1
Nota alla presente edizione

Con l’amico Sandro Barbera, prematuramente scomparso il 5 feb­


braio 2009, tornando sui nostri comuni inizi, più di una volta aveva­
mo pensato di dare nuovamente alle stampe questo testo giovanile a
cui ci legava un comprensibile affetto. Lì si trovano premesse e spunti
per varie ricerche che avremmo in seguito approfondito in più dire­
zioni e in più modi. Certamente gli esiti del nostro successivo lavoro,
sia individuale che legato a interessi comuni, rendevano problematica
la riproposizione del Genio tiranno senza l’impegno di un aggiorna­
mento e di una revisione. Più volte abbiamo pensato di metter mano
a questo lavoro: ora, la scomparsa dell’amico fraterno mi spinge a ri­
proporre, nella sua stesura originaria, il volume da molto tempo non
più reperibile. Spero che quest’atto di omaggio alla sua memoria,
mettendo nuovamente a disposizione degli studiosi uno scritto per
molti aspetti pionieristico, possa rivelarsi ancora utile alla ricerca su
Nietzsche.

Giuliano Campioni

15 gennaio 2010
Avvertenza

Questo volume è uscito, nella sua prima edizione, nel 1983, nella
collana «Lavoro filosofico» (Franco Angeli, Milano).
Per gli scritti di Nietzsche abbiamo, fatto riferimento a Opere di
Friedrich Nietzsche, ed. it. condotta sul testo critico originale stabilito
da G. Colli e M. Montinari, Milano, edizioni Adelphi 1964 e sgg. e
aVi’Epistolario, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, edizioni
Adelphi 1976 e sgg. Per quei frammenti di Nietzsche all’epoca non an­
cora tradotti (indicati nel testo con la sigla N F seguita dall’anno relati­
vo), il riferimento è all’edizione tedesca Werke. Kritische Gesamtausga­
be herausgegeben von G. Colli und M. Montinari, Berlin, 1967 e sgg.
Ho ritenuto infatti opportuno, in questo caso e per i testi che allora
non avevano un’edizione italiana, mantenere la nostra traduzione. Le
sigle adoperate per indicare le singole opere di Nietzsche sono le stesse
usate nell’edizione critica:
AC l i Anticristo
BA Sull’avvenire delle nostre scuole
CV Cinque prefazioni
DD Ditirambi di Dioniso
DS David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore
DW La visione dionisiaca del mondo
EH Ecce homo
FW La gaia scienza
GD Il crepuscolo degli idoli
GM Genealogia della morale
GMD Il dramma musicale greco
GT La nascita della tragedia
HL Sull’utilità e il danno della storia per la vita
JGB A l di là del bene e del male
10 I l genio tiranno

M = Aurora
MA = Umano, troppo umano
NW = Nietzsche contra Wagner
PH G = La filosofia nell’epoca tragica i
SE = Schopenhauer come educatore
ST = Socrate e la tragedia
VM = Opinioni e sentenze diverse
WA = Il caso Wagner
WB = Richard Wagner a Bayreuth
WM = «Der Wille zur Macht»
WS = Il viandante e la sua ombra
Za = Così parlò Zarathustra

Abbiamo inoltre usato le seguenti abbreviazioni:


Epistolario I = Epistolario 1850-69
Epistolario II = Epistolario 1869-74
FP = Frammenti postum i

Per E. Renan abbiamo usato le Œuvres complètes d’Ernest Renan,


ed. définitive par Henriette Psichari, Paris, 1947-1961, che abbiamo
abbreviato con la sigla OC seguita dal numero di volume in numeri
romani. Solo per i Dialogues philosophiques abbiamo usato la prima
edizione dell’opera, Paris, 1876.
Per R. Wagner abbiamo citato, salvo ulteriori indicazioni, da Ge­
sammelte Schriften und Dichtungen, Leipzig, 1888.
Nell 'Appendice le opere di Musil sono sempre citate con queste
sigle:
USQ = Duomo senza qualità, trad. it. di A. Rho, Torino, 1972.
Diari = D iari 1899-1941, a cura di A. Frisé, Intr. e trad. di E. De Angelis,
Torino, 1980.
MoE = Der Mann ohne Eigenschaften, in Gesammelte Werke, herausgebe-
gen von A. Frisé, Reinbek bei Hamburg, 1978 (solo per i passi non
tradotti in USQ).
PS = Erosa und Stücke. Kleine Prosa, Aphorismen, Autobiographisches,
Essays und Kritik, in Gesammelte Werke (c.s.).

Ringrazio il dott. Francesco Petruzzelli per l’aiuto che mi ha dato


nella messa a punto editoriale del testo per la stampa.
Prefazione
di Mazzino M ontinari

La lettura storica, cioè filologica, dei testi nietzscheani qui propo­


sta da Sandro Barbera e Giuliano Campioni si apre l’accesso al mon­
do di un pensatore protagonista quale Nietzsche fu, ricostruendo i
problemi, gli interrogativi suoi e dei suoi contemporanei e immediati
predecessori - Schopenhauer e Wagner, Stendhal e Taine, Bourget e
Renan - ai quali egli cercò di dare una propria risposta. Non perché
in tal modo si voglia trasferire il lettore nello spirito del tempo in cui
Nietzsche visse, per superare col miraggio di una oggettività storico­
filologica le suggestioni del presente che, in quanto tale, sarebbe sepa­
rato dal passato come da un abisso. Ma proprio perché sappiamo che
quell’abisso, quella separazione non esiste, e che anzi non è mai riu­
scito a nessuno, nemmeno allo storicista più puro, di raggiungere
quell’obiettivo (inesistente) di rivivere un’epoca passata escludendo le
preoccupazioni o le suggestioni del presente. Quell’abisso non esiste,
esso è al contrario riempito dalla tradizione vivente che noi stessi sia­
mo. Se è vero che un testo può essere inteso soltanto se si è prima in­
tesa la domanda a cui esso risponde, è altresì vero che la domanda in
tal modo ricostruita non può trovarsi nel suo orizzonte originario,
perché questo orizzonte storico è inscritto, compreso, abbracciato
dall’orizzonte del nostro presente. Vi è dunque un solo orizzonte nel
quale i presunti due orizzonti (quello del passato e quello del presen­
te) si trovano fusi: il problema storico non sussiste di per sé, ma deve
trapassare nel problema che la tradizione è per noi.
Detto tutto ciò, più o meno con le stesse parole di un grande teori­
co dell’interpretazione, H .G . Gadamer, osserveremo che nella dire­
zione qui indicata si è, per quanto riguarda Nietzsche, ancora agli ini­
zi di un vasto e faticoso lavoro, forse perché deve ancora essere rico­
struita in concreto e pezzo per pezzo la discussione di Nietzsche con
la cultura del suo tempo, poniamo con i filosofi «inferiori» ma terri-
12 II genio tiranno

bilmente significativi, che egli ha letto, come Diihring, Hartmann,


Mainländer, oppure - soprattutto per gli anni ’80 della sua vita - l’at­
tenzione appassionata che egli riservò ai suoi veri interlocutori, tutti a
Parigi, mai tedeschi: Stendhal, de Custine, Doudan, Balzac, Sainte-
Beuve, Flaubert, Baudelaire, i Goncourt, Renan, Taine, Bourget e tut­
to uno stuolo di storici, critici, filologi ormai dimenticati (senza di­
menticare Dostoevskij e Tolstoj, letti solo in francese).
Non è mia intenzione ripetere qui in poche righe i risultati che Bar­
bera e Campioni espongono nella loro analisi, portata fino a un esem­
pio illustre di recezione di Nietzsche, quale fu quello di Robert Musil.
Questo anche perché la loro lettura analitica coi suggestivi accosta­
menti dei testi tra loro, con le scoperte filologiche nascoste tra le note
a piè di pagina (per esempio, la parafrasi di W. Roux nella Genealogia
della morale) richiede a sua volta una lettura paziente, che non man­
cherà di essere premiata da un continuo arricchimento di prospettive
su ciò che gli autori chiamano la «duplice relazione di assimilazione e
di distacco dalle immagini che l’epoca offriva» a Nietzsche.
1.
Il genio e la città: Schopenhauer,
Wagner, Nietzsche

1. Una fine a Parigi

Credetemi, una volta io ero troppo infatuato dall’idea


di vivere in campagna. Per fare di me un uomo radical­
mente sano, mi recai due anni fa ad uno stabilimento
idroterapico; ero disposto a rinunziare all’Arte e a tutto,
pur di ritornare un figlio della natura. Ma, mio buon ami­
co, dovetti ridere della mia ingenuità, quando m’accorsi
che ero quasi impazzito. Nessuno di noi toccherà la Terra
Promessa; morremo tutti nel deserto.
Richard Wagner

Un tema che Baudelaire accenna appena nei suoi diari, «mia eb­
brezza nel ’48», è variato in tutti i modi nelle pagine che Wagner de­
dica, nell’autobiografia, alle giornate rivoluzionarie di Dresda. Già
nella lettera del ’49 a Devrient l’osservatore «distaccato» della batta­
glia guarda lo spettacolo dal campanile1: ma «spettacolo» e crescente
«eccitazione» definiscono nell’autobiografia lo stile della sua parteci­
pazione alle giornate di Dresda. Il suono richiama una trasformazione
della sensibilità cromatica:

Anche in me il suono di quella campana vicinissima destò un’impressione


formidabile ... Tutta la piazza davanti a me mi apparve illuminata da una luce
giallo-scura, quasi bruna, simile a quella che avevo visto a Magdeburgo du­
rante un’eclissi di sole. La sensazione che se ne sprigionava era quella di un

1 Lettera a Eduard Devrient (17 maggio 1849) in R. Wagner, L’arte e la rivoluzione


(e altri scritti politici) 1848-1851, a cura di M. Mangini, Rimini 1973, p. 145. In realtà,
come spiega M. G regor-D ellin (Richard Wagner. Sein Leben, sein Werk, sein
Jahrhundert, München 1980, p. 268) Wagner era salito sulla torre campanaria perché «il
suo compito era quello di osservare il movimento di truppe e riferirne al Municipio».
14 II genio tiranno

gran de, trab occan te piacere; sentii una im provvisa voglia di giocare con ciò
che fino ad allora m ’era p a rso così grave2*.

Eccitazione estetica, eccezionalità spettacolare, forza cromatica


(come nell’incendio delle gallerie che fa contorcere le lamiere in «me­
ravigliose onde azzurre») culminano nella coincidenza percettiva tra
eventi reali e rappresentazione teatrale.
In m ezzo alla straordin aria agitazione delle strade osservai particolarm ente
un g ru p p o con siderevolissim o, che scend eva p e r tutta la largh ezza della stra­
d a lu n go la R osm arin gasse, e che m i ricordò, se pu re in proporzion i in gran di­
te e con tinte più vive, quella com pagn ia che allora in teatro m ’aveva chiesto i
biglietti d ’in gresso p e r il R ie n z f.

Ma l’esperienza di «angoscia, ripugnanza e spavento» che Benja­


min ha individuato nello sguardo di Baudelaire sulla metropoli e la
folla metropolitana, e che in realtà è un’esperienza di orrore e incan­
tesimo suscitati insieme dalla città («Dans les plis sinueux des vielles
capitales, / Où tout, même l’horreur, tourne aux enchantements») la
ritroviamo in Wagner, nello sguardo veggente che intravede il deserto
della vita cittadina. La Lettera a Stein - ne dovremo sottolineare poi
l’importanza per la teoria drammatica del tardo Wagner - si apre con
la descrizione di un’esperienza visionaria nell’ultimo giorno dell’E ­
sposizione universale di Parigi del 1867. La fantasmagoria delle merci
che segna il trionfo della civiltà moderna è interrotta dalla vista di file
interminabili di scolari parigini in visita all’Esposizione. Nell’«esercito
di giovani, che stava a rappresentare tutto un futuro» Wagner vede il
destino di vuoto della metropoli;

Tutto m’aveva riempito di orrore ed angoscia: vedevo in anticipo tutti i vi­


zi della popolazione della grande città, debolezza e morbosità, ottusità e desi­
derio malvagio, stupidità e repressione della vitalità naturale, terrore e paura,
accanto a sfrontatezza e perfidia4.

Parrebbe, a prima vista, di trovarsi di fronte a un’esasperata prose­


cuzione di quel «cruento odio per l’intera nostra civilizzazione, di­
sprezzo per tutto ciò che ne deriva e nostalgia per la natura» che ha
costituito a lungo il centro dell’ideologia anticapitalistica di Wagner,

2 R. Wagner, La mia vita, a cura di M. Mila, Torino 1960, vol. I, pp. 482-483.
5 Ivi, pp. 484-485.
4 Gesammelte Schriften, X , p. 319.
Il genio e la città: Schopenhauer; Wagner, Nietzsche 15

che trovava un supporto forte nella filosofia feuerbachiana del sensi­


bile. Una singolare espressione di tale ideologia si legge ad esempio
nella celebre lettera del 22 ottobre 1850 a Uhlig dove Wagner dichia­
ra che ogni autentica rivoluzione non può che cominciare con l’incen­
dio di Parigi, il centro della corruzione moderna, «stalle d’Augia il cui
letame non si può rimuovere altrimenti, per purificare l’aria»5.
L’analisi più matura di Nietzsche su Wagner considera però il ger-
manesimo e Videalismo di Bayreuth e l’ideologia dell’arte tedesca come
un pesante involucro di deformazione e falsificazione. Benché essi ap­
partengano, come mostra Ecce homo, ai tratti fondamentali del feno­
meno Wagner, possono tuttavia essere spiegati soltanto, in profondo,
come risultati della genuina natura di Wagner in quanto artista della
decadenza e della grande città. «E infine, per quanto riguarda Richard
Wagner si tocca con mano, se non forse coi pugni, che Parigi è il terre­
no appropriato per Wagner»67si legge in Nietzsche contra Wagner e ne
Il caso Wagner l’analogia tra le eroine wagneriane e madame Bovary
continua assegnando a Wagner la natura di artista metropolitano: « ...
sembra che Wagner non si sia interessato di alcun altro problema salvo
quelli che interessano oggi i piccoli décadents parigini. Sempre a quat­
tro passi dall’ospedale! Niente altro che problemi modernissimi, pro­
blemi assolutamente da grande citta»1. Ma solo su questa base si com­
prende perché Nietzsche applichi a Wagner la nozione di decadenza
che Bourget modellava nel suo saggio su Baudelaire. La «incapacità di
plasmare organicamente ... la sua incapacità di giungere allo stile»,
che si accompagna alla ammirevole invenzione del dettaglio, fa di Wa­
gner «il nostro più grande miniaturista musicale che rinserra in uno
spazio estremamente esiguo un’infinità di sensi e di dolcezza». Il com­
plesso di questa argomentazione de 11 caso Wagner è però organica-
mente formulato nella lettera a Carl Fuchs di metà aprile 1886:

5 Lettera a Uhlig (22 ottobre 1850) cit. in H. Mayer, Richard Wagner, trad. it. di B.
Bianchi, Milano 1967, p. 20. Sull’atteggianiento di Wagner verso Parigi vedi C. Cases, I
tedeschi e lo spirito francese, in Saggi e note di letteratura tedesca, Torino 1963, pp. 36 ss.
6 NW, p. 401. Ma cfr. anche FP 1888, pp. 197-198: «Schiller è tanto tedesco
quanto Wagner francese... L a cosa che oggi si vuol sentir dire meno di tutte è il debito
di gratitudine che Wagner ha verso la Francia, in qual misura egli stesso appartenga a
Parigi».
7 WA, p. 30. Cfr. anche p. 41: «Indubbiamente la cosa più sinistra resta lo sfacelo
dei nervi. Si attraversi di notte una città abbastanza grande: si sentirà ovunque stru­
menti violentati con solenne furore - il tutto inframezzato da selvaggi ululati. Che sta
succedendo? - i giovani sono in adorazione di W agner...».
16 II genio tiranno

L a form u la w agn erian a «m e lo d ia infin ita» esprim e nel m o d o più am abile


il pericolo, la corruzion e dell’istinto, e anche la tranquillità della coscienza in
m ezzo a tale corruzione. L ’am bigu ità ritm ica, p er cui non si sa più, non si de­
ve p iù sapere, se una cosa è c ap o o coda, è senza d u b b io un trucco artistico
m edian te il quale si otten gono effetti m eravigliosi - il Tristano ne è ricco
m a com e sintom o di u n ’arte è e rim ane il segn o del dissolvim ento. L a parte
im pera sul tutto, la frase sulla m elodia, l ’attim o sul tem p o (anche sul tem po
m usicale), il path os su ll’ethos (carattere o stile com e lo si voglia chiam are), e
finalm ente Vesprit sul pen siero. Scu si! M a quello che io credo di scorgere è
un cap ovolgim en to della prospettiva: si vede m olto, tro p p o m inutam ente il
particolare; m olto, tro p p o con fu so l ’insiem e. In m usica la volon tà è tesa verso
q u est’ottica sovvertitrice, e p iù della volon tà l’ingegno. E q u esto è décadence-,
un a p aro la che tra gente com e noi, s ’intende, non giu d ica m a defin isce8.

Già qui Nietzsche adopera la nozione di decadenza profilata da


Bourget. Essa è un fenomeno di decomposizione di qualunque tipo di
organismo (animale, sociale) che libera dalla gerarchia e dalla subor­
dinazione al lavoro coordinato della totalità - che definisce invece il
grande stile - l’autonomia della cellula, e genera così «anarchia».
«Uno stile di decadenza - concludeva Bourget - è quello in cui l’unità
del libro si decompone per lasciare il posto all’indipendenza della pa­
gina, in cui la pagina si decompone per lasciare il posto all’indipen­
denza della frase, la frase a sua volta all’indipendenza della parola»9.
La décadence di Bourget deve il suo carattere alla nozione positivistica
di malattia, in particolare nei termini che aveva fissato Taine: la malat­
tia è processo di disgregazione di una forma, dove però l’elemento
particolare, acquistando autonomia «morbosa» e sottraendosi alla su­
bordinazione funzionale al tutto, produce anche incremento di visibi­
lità. Essa è perciò, secondo le iniziali indicazioni di Claude Bernard,
un esperimento non costruito, ma offerto spontaneamente dalla natu­
ra che fornisce la stessa procedura di isolamento del fenomeno pro­
pria dell’esperimento scientifico.
L’acutezza di sguardo, la precisione nel dettaglio e nella definizio­
ne del particolare in Baudelaire nasce da questa necessaria vicinanza
malattia-visibilità. Nell’analizzare l’analogia tra il Wagner di Nietz­
sche e il Baudelaire di Bourget, Ernst Bertram (che ha poi esteso alla

8 Epistolario 1865-1900, a cura di B. Allason, Torino 1962, p. 223. La lettera di


Nietzsche è qui datata 1884-85. La nuova datazione in base a Nietzsche, Briefwechsel.
Kritische Gesamtausgabe, hrsgb. von G. Colli und M. Montinari, III/3, p. 176.
9 P. Bourget, E ssais de psychologie contemporaine, Paris 1883, p. 25.
Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 17

pagina di Nietzsche stesso la perdita dell’unità di stile) ha citato l’at­


tenzione di Nietzsche al momento allucinatorio nell’arte wagneriana
(«all’inizio sta l’attimo, il lampo mistico, il momento isolato e assolu­
to»)10. Ma proprio lo stile allucinato dell’esperienza è visto da Bour­
get come caratteristico dei poeti della metropoli che tende fino allo
spasimo e frammenta la sensibilità. Essi sono, come Baudelaire, figli
della «vita di Parigi» e della scienza, poiché città e scienza hanno as­
solto allo stesso compito di disgregazione degli organismi totalizzanti
basati sulle grandi illusioni:

scrittori d’eccezione che, come Edgar Poe, hanno teso la loro macchina
nervosa fino a diventare allucinati, sorta di retori della vita torbida e già «ve­
nata dall’asprezza della decomposizione» (Gautier). Dovunque balena ciò che
egli stesso, con espressione strana ma necessaria, chiama la «fosforescenza
della putrefazione», egli si sente attirato da un magnetismo invincibile11.

Il modello di Bourget era, anche qui, la psicologia che Taine aveva


formulato in egual misura nell’opera filosofica De l’intelligence e nella
descrizione della follia rivoluzionaria nelle Origines de la France con­
temporaine. In particolare la dottrina tainiana della sensazione come
«allucinazione vera» ritaglia il campo della percezione corretta della
realtà come un caso particolare, eccezionale e precario del processo
morboso deH’allucinazione. La costituzione della personalità come
centro saldo di percezione realistica dipende dall’obbedienza a regole
e criteri socialmente costruiti che i grandi fenomeni di disgregazione
delle civiltà (di cui le «convulsioni di Parigi» sono un esempio terrifi­
cante che la Comune ha messo sotto gli occhi di tutti indicando i con­
fini labili di ragione e follia) spazzano via dissolvendo l’unità di stile
percettivo e di comportamento che costituisce la persona umana. Il
soggetto si perde così in una successione di sensazioni e di atti senza
centro e prive di criteri correttivi, che le Origines interpretano in chia­
ve politica. Qui le forme di rettifica dell’allucinazione, della propen­
sione spontanea all’irrealismo della follia, si incorporano nell’esistenza
di una élite sociale adeguata, cioè capace di controllare, frenare e re­
primere l’espandersi dell’immaginazione sociale, e il conseguente
comportamento collettivo di tipo allucinatorio. Negli Essais Bourget
assegnava a Parigi una forza disgregante rispetto alla personalità:

10 E. Bertram, Nietzsche. Versuch einer Mythologie, Bonn 19658, p. 241.


11 P. Bourget, Essais, cit., pp. 30-31.
18 II genio tiranno

Questa città è il microcosmo della nostra civilizzazione... Dite ora se è


possibile conservare un’unità di sentimenti in questa atmosfera sovraccarica
di correnti elettriche, in cui le informazioni multiple e circostanziate volteg­
giano come una popolazione di atomi invisibili. Respirare a Parigi è bere que­
sti atom i...12.

Nietzsche ha descritto come caratteristica dell’esperienza decaden­


te il richiamarsi reciproco della disgregazione sotto lo choc della gran­
de città e la fuga verso appagamenti allucinatoti. Il tardo romantici­
smo francese nasce come «esperienza per una “realtà” mancata
disdegno contro i boulevards». La sottomissione agli stimoli forti del
milieu da parte della personalità debole suscita «un mondo di hashi­
sh, di vapori esotici, pesanti, avvolgenti, di ogni specie di esotismo e
simbolismo dell’ideale, solo per liberarsi una buona volta della propria
realtà». Anche il nazionalismo e l’ideologia di Bayreuth, col suo pe­
sante e grigio simbolismo, sono «palude» che, lungi dall’essere l’anti­
tesi genuina e pura dell’innaturale metropolitano, nascono proprio
dalla «palude» delle città:

Un certo cattolicesimo dell’ideale soprattutto è, in un artista, quasi la di­


mostrazione che egli disprezza se stesso, che sta nella «palude»: il caso di
Baudelaire in Francia, il caso di Edgar Allan Poe in America, il caso di Wa­
gner in Germania (FP 1888, p. 367).

In quest’ultimo periodo Nietzsche insiste anche su una lettura fi­


siologica della décadence approfondendo il tema positivistico della de­
generazione. Il caso Wagner è inteso appunto nella sua caratterizza­
zione medico-fisiologica. L’esperienza della grande città è al centro
dei processi di disgregazione del soggetto. Utilizzando le immagini
del nutrimento e della digestione, Nietzsche contrappone ad un atteg­
giamento attivo, che accumula le energie attraverso una selezione e
una digestione prolungata («incorporazione») di stimoli, la sottomis­
sione al « prestissimo» delle impressioni accelerate, contraddittorie e
puntuali della modernità:
ne risulta un indebolimento della capacità di digestione. Subentra una
specie di adattam ento a questo eccessivo accumularsi delle impressioni:
l’uomo disimpara ad agire-, si limita ormai a reagire agli eccitamenti dall’e­
sterno. Spende la sua energia in parte assim ilare, in parte nel difendersi e

12 Ivi, pp. 73-74.


Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 19

iti parte nel replicare. Profondo indebolimento della spontaneità... (FP 1887,
pp. 114-115).

È lo stesso motivo che guida la critica di Nietzsche alle ideologie


darwinistiche. Il darwinismo è da lui inteso come un’ideologia della
lotta in cui il soggetto è completamente subordinato alla struttura po­
lemica ed è incapace di signoreggiare autonomamente il milieu attra­
verso una originaria forza plastica di assimilazione.
La teoria del milieu, oggi la teoria parigina per eccellenza, è essa stessa la
prova di una rovinosa disgregazione della personalità. Quando il milieu co­
mincia a formare e la situazione è tale che è lecito intendere i talenti di primo
piano come mere concrescenze del loro ambiente, allora è finito il tempo in
cui si poteva ancora radunare, am m ucchiare, raccogliere - è finito
l’avvenire... L’attimo divora ciò che produce - e guai! Ciononostante rimane
affamato... (FP 1888, p. 255).

Nel continuo confronto che Nietzsche instaura con i décadents pa­


rigini, questi appaiono come gli estremi prodotti di un’epoca di tran­
sizione, che fanno comunque parte di un impetuoso movimento di
crescita del reale. La percezione della crisi rilevata dalla décadence è in
Nietzsche nettamente diversa dalla dominante prospettiva positivisti­
ca, nella quale i processi degenerativi di una forma di civiltà sono ri­
dotti e padroneggiati nei termini di una regressione a livelli atavici.
Ciò che prima non si sapeva, ciò che oggi si sa o si potrebbe sapere, sta nel
fatto che una trasformazione regressiva, un ritorno, in qualsiasi senso e grado,
non è affatto possibile... Nessuno ha la libertà di essere gambero. Non giova
a nulla: si deve andare avanti, voglio dire un passo dopo l’altro più oltre nella
décadence (questa è la mia definizione del moderno «progresso»...). Si può
intralciare questo sviluppo e, intralciandolo, arginare, concentrare, rendere
più veemente e più improvvisa la degenerazione stessa: di più non si può
(GD, p. 143).

Al fondo, la décadence rivela una duplice caratteristica: da un lato


l’incapacità di signoreggiare il processo di crisi della forma, la subordi­
nazione al milieu, dall’altro la visibilità sul reale implicita nella malattia.
Per quanto riguarda il secondo lato, Nietzsche rielabora qui, per cer­
ti versi, e ripensando la sua giovanile teoria del sogno e dell’estasi13, la
coppia positivistica regressione-modernità. La disgregazione della for-

15 Su questo, vedi il cap. III.


20 II genio tiranno

ma e dello «stile», fa comparire alla superficie della vita stati psichici di


rammemorazione di epoche remote dell’umanità, che sembravano del
tutto cancellate e che trovano capacità espressiva nel linguaggio musica­
le e nell’estasi dell’ebbrezza. «Talvolta la musica suona come il linguag­
gio di un’età scomparsa in un mondo stupito e nuovo» - Nietzsche
scriveva già in Umano troppo umano II (VM, p. 65) là dove vincolava
l’espressione musicale ad un sentimento del passato; e ricordando le
«feste delle memorie» degli Elleni morenti, incalzati dai barbari e pros­
simi alla distruzione della loro civiltà:
il meglio di noi è stato forse ereditato da sentimenti di epoche anteriori, a
cui per via diretta quasi non possiamo più giungere; il sole è già tramontato,
ma il cielo della nostra vita arde e risplende ancora di esso, sebbene non lo
vediamo più (MA, p. 158).

Ma nei frammenti del 1888 il tema è ripreso con maggiore radicali­


smo, giacché l’arte wagneriana non appare più come il medium che
trasmette all’estenuazione moderna le immagini e le energie delle epo­
che anteriori. La gratitudine per questa funzione dell’arte è ora total­
mente convertita in vivisezione dei processi della modernità che per­
mettono il ritorno del rimosso. Ne II caso Wagner la sua arte è in
quanto malattia, visibilità accresciuta di tali processi, «la prima cosa
che la sua arte ci offre è una lente d’ingrandimento: si guarda den­
tro ...» (WA, p. 10). Nel frammento La religione nella musica, rim ­
pianto mitico religioso del Parsifal, riproduce l’essenziale funzione
rammemorativa, ma la isola dalla modernità, e dunque rende invisibili
i processi che l’hanno generata rinchiudendosi in uno spazio sacro:

Che la musica possa prescindere dalla parola, dal concetto - oh, come ne
trae vantaggio, questa astuta santarella, che riconduce, anzi seduce a tornare a
tutto quanto fu una volta creduto!... La nostra coscienza intellettuale non ha
bisogno di vergognarsi - perché ne resta fuori - quando un qualche antico
istinto beve, con labbra tremanti, da calici proibiti... (FP 1888, p. 30).

Ma il frammento immediatamente successivo accosta musica ed


ebbrezza insistendo sull’elemento della visibilità:
Con l’alcool e la musica ci si riporta a gradi di cultura e incultura che i no­
stri progenitori avevano già superato; in questo senso niente è più istruttivo,
niente «più scientifico» dell’inebriarsi (ivi, p. 31).

Al primo lato della decadenza è connesso il tema dell 'épuisement e


Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 21

della sostituzione della velleità alla forza plasmatrice, del désir alla vo­
lontà. La visione può sorgere, oltre che per sovrabbondanza di ener­
gia nell’artista dionisiaco, ed è il caso di Zarathustra che Nietzsche ri­
badisce in Ecce homo, anche come espediente reattivo contro il senti­
mento del vuoto, come fuga per debolezza dal caos delle sensazioni
forti e disgreganti: «Dietro la contrapposizione tra classico e romanti­
co non si nasconde la contrapposizione tra attivo e reattivo?... » (FP
1887, p. 56). Lo stesso atteggiamento anarchico, distruttore è visto da
Nietzsche come risposta immediata e subalterna allo stimolo esterno
di chi gli è sottomesso ed è incapace di signoreggiarlo: impotenza
quindi che produce il sogno di una natura originaria buona, che sta,
disponibile, al di là delle macchine complicate della civilizzazione.
Anche l’aspetto «istrionico» di Wagner, commediante e Cagliostro
che si adegua all’epoca dominandola con una sublimazione teatrale
della disgregazione, è agli occhi di Nietzsche - che raccoglie in questi
anni la critica corrosiva cominciata nei frammenti del ’74, dove Wa­
gner è visto come fenomeno di cesarismo - politica decadente della cri­
si, in cui l’ideale (il mito) non è presente come leva di cambiamento,
ma come conferma dell’esistente, poiché la sua autentica natura riba­
disce e rafforza l’elemento estatico e di «ebbrezza» della sensibilità
decadente. Vi è in questi anni un’innegabile mossa autocritica di
Nietzsche che analizza e scompone ora, come prodotto del moderno,
della metropoli, quel momento estatico e produttore di miti rigene­
ranti, che nel periodo giovanile della metafisica dell’artista era il mo­
mento sorgivo di protesta e di rifiuto della corruzione civilizzatoria. Il
genio, che nella Nascita della tragedia ha una «patria metafisica» di
impronta schopenhaueriana e wagneriana, si dissolve ora nell’analisi
del commediante, che lo mostra come ricostituzione falsa e tirannica
della pienezza del soggetto. Anche l’analisi di Wagner come «comme­
diante» e «attore» non dimentica la funzione rammemorativa assegna­
ta alla musica: cosicché l 'ideologia non è ridotta da Nietzsche nei ter­
mini della falsificazione consapevole (la teatralità, il «mettere in sce­
na»). La sua critica dell’ideologia è radicale perché ricostruisce i mec­
canismi materiali e gli stili di vita - la forma di vita metropolitana -
che generano il bisogno di mito, e nello stesso tempo perché delinea il
mito come costruzione deformante che però mantiene in sé un nucleo
non eliminabile di verità. Nell’istante in cui fa riverberare la seduzio­
ne di un passato non risolto, ma soltanto rimosso, il mito dà forma e
consistenza alla nostalgia genuina per una vita sottratta alla miseria
22 II genio tiranno

del presente, in cui sta del resto la ragione del suo insorgere. Ma la fe­
deltà al presente come ricchezza di prospettive virtuali e proprio nella
sua disgregazione, è il punto di vista da cui Nietzsche conduce la sua
critica a Wagner:
A noi sono concesse, come mai ancora a nessun uomo, prospettive in tutte
le direzioni, e da nessuna parte si vede la fine. Abbiamo, perciò, il vantaggio
di un sentimento di vastità immane; ma anche di immane vuoto: e l’inventiva
di ogni uomo superiore consiste, in questo secolo, nel venire a capo di tale
terribile sentimento del deserto (FP 1884 pp. 7-8).

Al culmine della critica a Wagner, l’effetto del mito come totalità


che pretende una dedizione esclusiva, fino alla macchinalità istintiva,
alla «negazione di sé», è quello di una destorificazione illusoria, che
pietrifica il presente nella sua attualità disgregata, cancellandone nel­
l’esclusivo sentimento del passato le prospettive virtuali.
Ora, comunque, l’ideale metafisico può avere continuità di svolgi­
mento e apparenza di unità soltanto nella teatralità della rappresenta­
zione, nel suo «mettersi in scena». Ed è proprio nell’elemento tiranni­
co, del dominio, che l’attore della decadenza ricostruisce l’apparente
unità: la forza dell’espressione, il sovraccaricare le tinte («naturalismo»
alla Zola, alla Taine)14 sono strumenti con cui i deboli vengono soggio­
gati. Ma la reale mancanza di unità di stile drammatico, che lascia vive­
re i singoli elementi nella loro autonomia, mostra la totalità come ideo­
logia, mito, come postulato della debolezza e del désir, perciò nel ge­
nio commediante (Wagner, Carlyle, Hugo) il pubblico metropolitano
si riconosce e si sublima nella miseria della sua disgregazione. E il lin­
guaggio improntato allo «spirito di vendetta» che caratterizza la scim­
mia di Zarathustra davanti alla grande città. Il pazzo furioso che rovina
l’elogio della follia di Zarathustra, che sputa veleno verso la città, e di
cui Zarathustra disprezza il disprezzo, è però, in alcuni riferimenti ri­
velatori, anche il Wagner metropolitano. Così l’immagine della «palu­
de» cittadina, della melma in cui vivono “le rane e i rospi”, sono cita­
zioni dalla breve novella giovanile di Wagner, Una fine a Parigi15. Nella

14 In più frammenti dell’ultimo periodo Nietzsche accosta Taine, il naturalismo di


Zola, i Goncourt e Wagner come esempi di un’arte moderna che «tiranneggia» con la
«brutalità dei colori» e il forte rilievo dei lineamenti. Cfr. ad es. FP 1887, p. 123.
15 Cfr. Za, p. 216: «Perché hai abitato così a lungo presso la palude, tanto da di­
ventare tu stesso rana e rospo?» e Una fine a Parigi, in R. Wagner, Ricordi battaglie vi­
sioni, trad. it. di E. Pocar, Milano 1955, p. 120: «Oh, beato il naufrago che perisce nella
I l genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 23

melma della «mostruosa Parigi»16 e della sua corruzione naufraga il


musicista, consumandosi nelle anticamere e sperimentando nella fiu­
mana della folla, che gli impedisce di evitare il suo antagonista («non
potevo evitarlo, la folla ci spinse l’uno contro l’altro ... fu costretto a
cadérmi tra le braccia che avevo sollevato per farmi largo tra la folla.
Lo strinsi saldo contro il mio petto, attraversato da mille paurosi senti­
menti», p. 122) il carattere eminente della civilizzazione, il costringere
le interiorità a una comunicazione inautentica segnata dai percorsi del­
l’astrazione (il linguaggio, il denaro) ai quali la città dà spettrale consi­
stenza. Dallo squallore delle anticamere e dei boulevards nasce il sogno
inautentico, interno alla realtà da cui vuole evadere:
In queste anticamere ho sognato un anno bello della mia vita, ho sognato
cose meravigliose come fiabe delle M ille e una notte, ho sognato uomini e be­
stie, oro e sudiciume. Sognavo dèi e contrabbassisti, tabacchiere con brillanti
e prime donne, giubbe di raso e milordi innamorati, coriste e pezzi da cinque
franchi (p. 120).

Il vero sogno redentore è solo nell’istante della morte, quando scat­


ta, con una suggestione hoffmanniana, la sinestesia che annuncia l’ar­
monia delle sfere in cui scompare la «dissonanza» provocata dalla civi­
lizzazione: «.. .1 devoti discepoli dell’arte saranno trasfigurati in un cele­
ste tessuto di dolci suoni olezzanti e permeati dei raggi solari, e saranno

burrasca! Io invece affondai nel fango e nelle paludi. Questo pantano circonda tutti i
superbi e solenni palazzi dell’arte ai quali noi poveri pazzi andiamo in pellegrinaggio
con tale fervore come se vi potessimo acquistare la salvezza dell’anima. Beato il facilone
che con una sola capriola ben riuscita riesce a valicare il pantano! Beato il ricco: il suo
buon destriere basta che senta un colpo degli speroni d ’oro e tosto lo porta dall’altra
parte. Guai invece all’entusiasta che, prendendo la palude per un prato fiorito, vi affon­
da inesorabilmente in pasto ai rospi e alle rane».
16 Ivi, p. 110. Numerose sono le testimonianze, nelle lettere agli amici, della
profonda repulsione di Wagner verso Parigi la «grande fogna comune» e della sua no­
stalgia per la campagna. La città comporta una necessaria degenerazione: « ... è super­
fluo tutto quanto contengono le mura d’una città. Tutti noi che viviamo in una città sia­
mo condannati al più miserabile dei suicidi» (lettera a Uhlig del 27 ottobre 1850). Nel­
l ’autobiografia, di contro all’eccitazione che gli aveva procurato la pur «mostruosa»
Londra, città da conquistare, Wagner descrive il sentimento di immediata delusione e
impotenza verso Parigi: «.. .mi rammaricai molto, sulle prime, di non ricevere da questa
città la grandiosa impressione che Londra m ’aveva procurato. Tutto mi sembrava più
stretto, più soffocato; specialmente dei celebri boulevards io m ’ero immaginato cose co­
lossali... dalle finestre guardavamo con crescente ansietà sull’immenso formicaio delle
strade, né io riuscivo più a capire cosa mai vi fossi venuto a cercare» (La mia vita, cit.,
pp. 225-226).
24 II genio tiranno

riuniti in eterno alla fonte divina di ogni armonia» (pp. 126-127).


La scimmia di Zarathustra intesse l’invettiva con temi dell’ideolo­
gia di Bayreuth, dal dominio dell’oro e dei mercanti, all’opinione
pubblica, ai giornali, alla piccola schiavitù generalizzata, all’alcooli-
smo, ma soprattutto per il continuo riferimento al sangue («Qui il
sangue scorre sempre marcio tiepido e schiumoso per tutte le vene:
sputa sulla grande città che è la grande cloaca dove tutta la feccia si
raduna schiumeggiante!», Za, p. 215).
L’immagine del sangue, ossessiva nell’ultimo Wagner, diventava
una vera e propria figura di filosofia della storia in Arte e religione.
Qui, con una caratteristica deformazione, Wagner amplifica il tema
schopenhaueriano di annientamento del mondo storico della rappre­
sentazione e quello della redenzione accelerata attraverso il dolore e
lo fa culminare in una filosofia della storia che congiunge la fine dei
tempi all’origine di una natura pacificata. L’iniziale degradazione del­
l’origine attraverso un salto, una caduta, è proseguita nel processo di
civilizzazione, manifestazione della volontà e della volontà di potenza,
che porta le sue conseguenze fino all’estremo dell’autodistruzione. La
civilizzazione può culminare in una catastrofe generata dallo stesso
parossismo della volontà:

Già i monitori corazzati, contro cui la fiera e magnifica nave a vela non
può più nulla, ci offrono una spettrale e orribile immagine. Uomini obbedien­
ti fino al silenzio, che però non hanno più l’aspetto di uomini, servono a que­
sti mostri e non ne abbandoneranno neppure le spaventose caldaie. Ma come
tutto nella natura ha il suo contrario che lo distrugge, così anche l’artificialità
costruisce nel mare le torpedini, e dovunque dissemina dinamite e simili ordi­
gni. Si potrebbe credere che tutto questo, insieme con l’arte, la scienza, il co­
raggio e il punto d’onore, la vita e la proprietà, tutto salterà in aria per una di­
strazione non calcolata (Ges. Schriften, X, p. 252).

L’iniziale degradazione dalla bontà originaria è un evento storico


legato a una trasformazione tellurica di grandi dimensioni. Con una
contaminazione positivistico-naturalistica, non inusuale in Wagner,
del mito della caduta di Adamo, Religione e arte introduce l’ipotesi di
rivoluzioni geologiche che hanno sorpreso l’uomo preistorico. La cre­
scita del deserto e gli sconvolgimenti della superficie terrestre hanno
gettato l’umanità in uno stato di «fame di cui possiamo figurarci l’or­
rore, quando ci vengono descritte le sofferenze terribili dei naufragi,
che di cittadini perfettamente civilizzati hanno fatto degli antropofa-
Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 25

gi» (ivi, p. 237). Il «paradiso perduto», il primitivo equilibrio pacifica­


to con la natura e tra gli uomini vegetariani, è rotto dalla loro trasfor­
mazione in carnivori ansiosi di sangue, «animali da preda», cacciatori.
A ttacco e difesa, m iseria e guerra, vittorie e sconfitte, dom in azion e e sch ia­
vitù, e tutto ciò m acch iato di sangue, è quello che d a allora ci presen ta la sto ­
ria delle razze u m a n e... In qu esta degen erazion e sem pre più p ro fo n d a il san ­
gu e e i cadaveri sem bran o essere l’unico n utrim ento degn o del con quistatore
del m on do. Il b an ch etto di T ieste sareb b e stato im possib ile in India: m a con
tali im m ag in i sp a v e n to se p o te v a b e n g io c a re l ’im m ag in az io n e u m a n a d a
q u an d o si era ab itu ata ad uccidere uom ini ed anim ali (ivi, p. 227).

Il percorso della civiltà carnivora è segnato dalla degenerazione:


mentre l’animale da preda non progredisce dal suo stato di crudeltà,
l’uomo da preda decade proprio in virtù della sua nutrizione estra­
nea alla natura e «cade in malattie che si mostrano solo in lui, depe­
risce e non raggiunge più la sua età naturale e neppure una morte
dolce, ma è tormentato da sofferenze e miserie, sia corporali, sia spi­
rituali note a lui solo, e per tutta la sua vana esistenza fino ad una
morte che gli causa sempre terrore» (ivi, p. 238). Nel giovane Wa­
gner il carattere di modello del mondo greco era già incrinato dal-
l’obbiezione della schiavitù; ora la civiltà greca non solo è prevalen­
temente impegnata a dominare con il gioco delle illusioni artistiche
l’orrore del sangue, essa stessa «nel suo odio sanguinario per il suo
vicino» è il punto d ’avvio di una lineare espansione della brutalità
che culmina nei «cannoni giganteschi e muraglie corazzate che si in­
grandiscono di giorno in giorno» (ivi, p. 230). Ma culmina insieme
nella grande città, che offre quotidianamente ai suoi abitanti, come
nel «mattatoio parigino nella sua attività mattutina» (ivi, p. 227)
l’immagine ultima della degradazione civilizzatoria; e la scimmia di
Zarathustra recita puntualmente: «Non senti già l’odore dei macelli
e delle bettole dello spirito? Non esala questa città miasmi di spirito
macellato?» (Za, p. 214).
26 II genio tiranno

2. La campana di vetro del genio

Quando scorsi l’insicurezza dell’orizzonte della civiltà


moderna, fui colto dall’angoscia. Pur vergognandomi un
po’, mi misi a lodare la civiltà sotto la campana di vetro.
Alla fine mi feci coraggio e mi gettai nel libero mare del
mondo.
F. Nietzsche

Nella filosofia di Schopenhauer il tragitto dalla percezione della


modernità come spettacolo al coinvolgimento del soggetto è avvertito
come rischio ed evitato: essa ha elevato lo spettacolo a rango metafisi­
co e costruito, con la teoria del genio, la feste Burg che arresta gli as­
salti dell’ormai diffuso processo di disgregazione contro la pienezza
del soggetto. Schopenhauer ha reso plasticamente, in un capitolo dei
Parerga, Del chiasso e dei rumori, questa situazione, descrivendo il di­
sagio del pensatore immerso nei rumori della città. La città rumorosa
è qui il luogo che aggredisce l’individuo costringendolo al contatto
con il Gemein11, annulla il pathos della distanza, dà

a qualsiasi villano che sta portando via un carro di sabbia o di concime...


il privilegio di soffocare ogni pensiero... Martellate, abbaiare di cani e strilli
di bambini sono orribili; però il vero e proprio assassino dei pensieri è soltan­
to lo schioccare con le fruste (Parerga, p. 1385).

Il colpo di frusta «nelle vie rumorose della città, che toglie alla vita
ogni quiete ed ogni intimità», espressione estrema di un tumulto che
enfatizza tutti i vizi della socialità, paralizza il pensiero interrompen­
dolo e spezzettandolo, facendo perdere cioè l’elemento di totalità ed
unità che gli è essenziale:
come un esercito, se viene spezzato, cioè sciolto in piccoli gruppi, non è
più capace di agire; così anche un grande spirito non riesce a produrre più di
ciò che produce una mente comune, appena viene interrotto, disturbato, di­
stratto; poiché la sua superiorità è condizionata dal fatto che egli concentra17

17 Cfr. Parerga e Paralipomena, trad. it. di E. Amendola Kühn, G. Colli e M. Mon­


tinari, Torino 1963 (d’ora in poi citato come Parerga), p. 703: «L a comunità resta pur
sempre un essere “comune”». Questo atteggiamento è all’origine del nietzscheano
pathos della distanza: «O gni comunità rende in qualche modo, in qualche cosa, in
qualche momento “volgari”» (JGB, p. 199).
Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 27

tutte le sue forze come uno specchio concavo concentra tutti i suoi raggi, su
un unico punto ed oggetto; ed appunto le interruzioni rumorose impediscono
di concentrarsi (pp. 1383-1384)18.

L ’in tera analisi degli A fo rism i, dove in m o d o p iù d iffu so S c h o ­


penhauer si fa erede della tradizione m oralistica francese, d a P ascal a
C ham fort, ha com e m eta una saggezza di vita vista com e insiem e di
accorgim enti protettivi p er salvaguardare la pienezza dell’in dividua­
lità ricca dal torm ento del presente. Q ui la stessa solitudine che carat­
terizza l’uom o di genio, ed è capacità di sop p ortare la noia che spinge
invece l ’u om o com une verso il rum ore, la gregarietà ed il calo re19,
verso la socialità com e specchiarsi reciproco della m iseria delle indivi­
dualità com uni («tutti i m iserabili sono socievoli, fino a far p ietà»),
non è un im pulso originario e afferm ativo, m a la difesa dagli assalti
portati alla pienezza del soggetto (cfr. P arerga, p. 536). Q u e st’ultim a si
afferm a vincendo la costante tendenza d ell’in dividuo a risolversi in
pu ra reattività al m ondo degli stimoli, cioè al pieno dom inio del tu ­
m ulto cieco della volontà:

Al loro spirito manca la forza propulsiva per conquistare un movimento


autonomo: essi cercano quindi un potenziamento attraverso il vino, e molti
diventano per questa via degli ubriaconi. Proprio per questo motivo essi han­
no bisogno di un costante eccitamento dall’esterno, e più precisamente dallo
stimolo che proviene dagli esseri loro simili, che è il più forte. Senza di questo
il loro spirito si affloscia sotto il proprio peso e sprofonda in un pesante letar­
go (Parerga, p. 529).

Ma il tumulto della volontà da cui l’individualità si difende non è


caos indistinto. Attraverso il «dissidio» e la lotta, la volontà realizza
una finalità che si esprime però (con una rispondenza al «tempo» del­
la società capitalistica che basterebbe da sola ad escludere ogni riferi-

18 Nietzsche nelle conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole caratterizza il vec­


chio filosofo solitario, dagli inconfondibili tratti schopenhaueriani, anche per l ’odio
verso il rumore inutile: «I vostri rumorosi divertimenti sono un vero attentato contro la
filosofia» ecc. (BA, p. 99).
19 I socievoli procedono «di preferenza alla maniera di un gregge: “thè gregariou-
sness of mankind”» e «D el resto si può anche considerare la socievolezza come un reci­
proco riscaldarsi spirituale degli uomini, simile a quello corporeo provocato dalla calca,
quando il freddo è grande. Chi però ha in se stesso molto calore spirituale, non ha biso­
gno di questi aggruppamenti» (Parerga, pp. 530-531). Temi ed espressioni che saranno
largamente sviluppati in Nietzsche.
28 II genio tiranno

m olto ad una presunta arretratezza «feudale» di Schopenhauer20) in


una ripetizione infinita che fa coincidere storia e natura:

Sempre e dappertutto il vero simbolo della natura è il circolo, perché esso


è lo schema del ritorno: questo è infatti della natura la forma più generale,
che essa adopera in tutto, dal corso delle stelle fino alla morte ed alla nascita
degli esseri organici, e per cui soltanto nell’incessante fluire del tempo e del
suo contenuto è pure possibile una costante esistenza, cioè una natura (Sup­
plem enti a II mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez
e D. De Lorenzo, Bari 1928, vol. II, pp. 582-583).

Questa circolarità del tempo sottomette la realtà storica a forme di


automatismo a cui è interamente ridotta, per chi sa penetrare gli in­
terni meccanismi, tutta la ricchezza della vita umana:
gli uomini somigliano ad orologi, che vengono caricati e camminano, sen­
za sapere il perché; e ogni volta, che un uomo viene generato e partorito, è
l’orologio della vita umana di nuovo caricato, per ancora una volta ripetere,
frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa mu­
sica già infinite volte suonata (Il mondo, p. 400).

La stessa analisi dei tipi e delle passioni storicizza in modo accen­


tuato il costellarsi dei caratteri sociali, attraverso il tema del dominio
dell’astrazione. L’intero spettro dei tipi, la «colossale mascherata» del-

20 Tale interpretazione è stata riproposta in Italia da un competente studioso di


Schopenhauer come I. Vecchiotti, che parla di una filosofìa «legata ad esigenze patriarcali
e semifeudali» (Arthur Schopenhauer. Storia di una filosofia e della sua «fortuna», Firenze
1976, p. 11 e passim ). Anche se non è qui il luogo di affrontare distesamente la questione,
ricordiamo almeno che l’interpretazione di Vecchiotti è contraddetta in modo forte dalla
intera filosofia schopenhaueriana del diritto, basata sulla polemica contro la proprietà
ereditaria che si risolve in mero godimento senza applicazione di lavoro utile, alla rivendi­
cazione della lockiana dipendenza della proprietà legittima dal lavoro, e da tutta la sua
polemica illuministica contro l’«oscurantismo», il «fanatismo» e i residui di costume feu­
dale nella società moderna (il duello, l’onore ecc.). Ci sembrano invece più convincenti le
pagine di Lukàcs ne L a distruzione della ragione e di M. Cacciati, Dialettica e critica del
politico. Saggio su Hegel, Milano 1978, pp. 55 ss. Ma l’interpretazione più raffinata e per­
suasiva rimane quella del vecchio dialogo di D e Sanctis, che legge la filosofia di Scho­
penhauer come tutta compresa entro una dilacerazione interna della ideologia borghese.
De Sanctis sente l’urgenza di polemizzare da liberale democratico contro le posizioni rea­
zionarie che stanno diffondendosi sempre più tra la borghesia. L’interlocutore del dialogo
è un ex liberale pentito reso accorto e scettico dall’esperienza del ’48, che trova nella filo­
sofia del Wille la giustificazione della frattura tra idea e fattualità. Proprio su questo ele­
mento di «impotenza» dell’ideale, D e Sanctis valorizza la filosofia di Schopenhauer, ma
correggendola fortemente con un complesso recupero del pessimismo leopardiano.
Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 29

la moderna civilizzazione mota intorno all’astrazione per eccellenza


del denaro - «felicità umana in abstracto» - cosicché
vi si trovano cavalieri, preti, soldati, dottori, avvocati, sacerdoti, filosofi e
che altro ancora! Ma essi non sono ciò che rappresentano: non sono altro che
maschere dietro le quali di regola stanno degli speculatori (moneymakers)
(Parerga, p. 864).

Ma la stessa astrazione penetra nella natura della passione e ne


esaurisce completamente il carattere, come nella magistrale analisi
dell’avarizia. Qui si esercita al massimo grado la schopenhaueriana
freddezza del moralista dove l’analisi delle passioni umane è anzitutto
incremento di conoscenza e ogni «segno di particolare scelleratezza o
stupidità» viene considerato allo stesso modo in cui «il mineralogista
può vedere un esempio assai caratteristico di un minerale, che gli ca­
piti sottocchio» (Parerga, p. 569): è l’aspetto «illuministico» di distru­
zione delle illusioni sociali che Nietzsche ha soprattutto apprezzato,
contrapponendolo all’esito del IV libro de II mondo21. Schopenhauer,
dopo aver messo in luce gli aspetti di vantaggio sociale che il tipo del­
l’avaro produce, la sua necessità per il funzionamento del sistema del­
l’accumulazione, ne mostra poi i più intimi meccanismi con una carat­
terizzazione che va nel profondo: quando l’uomo
per debolezza fisica o per età, è giunto al punto che i vizi che egli non è stato
in grado di abbandonare finalmente lo lasciano essi stessi, in quanto è perita la
sua capacità di godere con i sensi, allora, se egli si volge alla avarizia, l’avidità
spirituale sopravvive a quella carnale. Il denaro, in quanto rappresentante di
tutti i beni del mondo, in quanto ente astratto che li rappresenta, diviene ora il
secco ramo al quale si aggrappano i suoi desideri estinti, in quanto egoismo in
abstracto. Essi ora si rigenerano nell’amore per Mammona. Il fugace piacere dei
sensi è diventato brama riflessa e calcolatrice di denaro, che, proprio come il
suo oggetto ha una natura simbolica e, com’esso, è indistruttibile. L’avarizia è
l’amore ostinato, e per così dire sopravvissuto a se stesso, per i piaceri del mon­
do, rincorreggibilità perfetta, la carnalità sublimata e spiritualizzata, l’astratto
punto focale nel quale sono confluiti tutti i piaceri, e rispetto ai quali, perciò,
sta come il concetto universale alle cose singole (Parerga, p. 862).

Ma al genio è concesso di sottrarsi dal mondo delle merci e dal

21 «L o Schopenhauer vivo non ha nulla a che fare con i metafisici. Egli è essen­
zialmente un volterriano, il quarto libro gli è estraneo» (FP 1878, p. 277); cfr. anche
ivi, p. 300.
30 II genio tiranno

principio di prestazione che lo domina interamente, sicché «essere


inutile appartiene al carattere delle opere del genio: è la loro patente
di nobiltà» (Supplementi, p. 475). Se si osservano i tratti del genio nel­
le pagine dei Supplementi, che ne offrono la definizione più compiuta
e sistematica, non si fatica a scorgere che il discorso di Schopenhauer
è sostenuto sulla coppia principale totalità-distanza. La totalità è il
termine del percorso di emancipazione del genio dal carattere stru­
mentale dell’intelletto, dove il legame stretto con l’«interesse», espres­
sione del comando della volontà, frantuma la totalità del mondo in
una serie prospettica di conoscenze parziali in funzione utilitaria:
Così, per es., a chi viaggi in fretta e furia, il Reno con le sue rive appare solo
come una linea da attraversare, ed il ponte su di esso come una linea che lo ta­
glia. Nella testa dell’uomo occupato dai suoi scopi il mondo appare così come
una bella contrada sulla carta di un campo di battaglia (Supplementi, p. 466).

La serie prospettica non ha solo un carattere selettivo ma anche


deformante poiché «l’interesse falsifica quasi ogni passo dell’intellet­
to, ora come paura, ora come speranza» (Parerga, p. 698). Ma l’eman­
cipazione dall’intelletto strumentale - ribadito da Schopenhauer co­
me mechané della volontà che caratterizza la massa, in cui «la testa è
solo al servizio del ventre» - , e dunque la sottrazione dell’idea alla
frantumazione a cui il tempo la sottopone («il tempo è semplicemente
l’immagine divisa e spezzettata che un essere individuo ha delle idee»)
(Il mondo, p. 219) attraverso il vincolo con il corpo, è liberazione dal
tempo di lavoro mediante l’eliminazione della costrittività dell’utile,
come nell’immagine che impressionerà il giovane Nietzsche:

L’intelletto, infatti, è, per sua natura, un salariato di manifattura che ha da


fare un lavoro difficile, e che il suo esigente padrone, la volontà, tiene occupa­
to da mane a sera. Ma se, tuttavia, questo schiavo giunge in un’ora di riposo a
compiere da sé volontariamente una parte del suo lavoro, per proprio impul­
so e senza mire secondarie, solo per proprio divertimento e soddisfazione: al­
lora si ha un’autentica opera d’arte, anzi nel caso più nobile un’opera del ge­
nio (Parerga, pp. 701-702).

La separazione di soggetto e oggetto che vige nel mondo della rap­


presentazione genera in Schopenhauer una nostalgia per la concilia­
zione che trova appagamento contemplativo nell’intuizione geniale
delle idee, intesa come capacità visiva di riappropriarsi del tutto,
mentre l’uomo comune
I l genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 31

è immerso nel vortice e nel tumulto della vita, a cui per sua volontà appar­
tiene: il suo intelletto è pieno delle cose e delle vicende della vita: ma egli non
si accorge di queste cose e della vita stessa, nel loro significato obiettivo; co­
me il mercante nella Borsa di Amsterdam, intende perfettamente quello che
dice il suo vicino, ma non sente affatto il brusio di tutta la Borsa, simile al fra­
gore del mare, di cui l’osservatore lontano si stupisce (Supplementi, p. 467).

Quantunque descritta come intuizione in cui «l’individualità si è


perduta» essa non ha a che fare con la terrificante e completa perdita
dell’individuazione che l’uomo prova di fronte alle eccezioni dell’e­
sperienza perturbante,
quando pare che si produca una mutazione senza causa, o un morto ritor­
ni, o in qualsiasi maniera il passato o il futuro si faccian presenti, o il lontano
vicino. L’orribile sbigottimento per tali cose si fonda sul fatto che essi si smar­
riscono rispetto alle forme conoscitive del fenomeno, le quali sole tengono di­
stinto il loro proprio individuo dal resto del mondo (Il mondo, p. 440).

Anzi conferma la pienezza del soggetto come «puro occhio del mon­
do» libero da turbamenti, che si realizza assorbendo la totalità nella di­
stanza della contemplazione22. La distanza fissa il mondo in una dimen­
sione spettacolare, che garantisce in modo definitivo l’estraneità da esso
del genio, proteggendolo da ogni aggressione coinvolgente:

L’intelletto dell’uomo normale, strettamente legato al servizio della vo­


lontà, quindi propriamente occupato soltanto dalla ricezione dei motivi, si
può considerare come il complesso di fili, con cui ciascuno di questi pupi vie­
ne messo in moto sul teatro del m ondo... Invece si potrebbe paragonare il ge­
nio, col suo intelletto svincolato, ad un uomo vivente agente tra le grandi ma­
rionette del famoso teatro di pupi di Milano, il quale tra quelle sarebbe l’uni-

22 Qui il platonismo e spinozismo di Schopenhauer è fortemente connesso alla


goethiana Anschauung della Teoria dei colori in cui si esprime, contrapposto alla mate-
matizzazione della natura, un rapporto con le cose che ha in sé una enorme ricchezza di
esperienza soggettiva. In due passaggi carichi di implicazioni interpretative, Nietzsche
ha contribuito ad illuminare questo tratto della filosofia di Schopenhauer. In Aurora, ha
contrapposto alla pretesa contemplativa del genio di Schopenhauer l’«occhio puro, pu­
rificante» di Goethe. Anch’esso non è un immediato, non è stato donato, e c’è «un
esercizio e una propedeutica del vedere». Eppure sorge da un affrancamento rispetto al
temperamento individuale che ne qualifica l’estraneità rispetto a Schopenhauer, dove la
virtù geniale della contemplazione mantiene un legame polemico, nella forma di subli­
mazione, verso un «temperamento» da cui non si è mai realmente affrancato. Nella Ge­
nealogia della morale Nietzsche vede conservato, nella forma sublimata della distanza,
l ’infinito desiderio della pulsione sessuale.
32 II genio tiranno

co capace di percepire il tutto e perciò si allontanerebbe volentieri qualche


volta dalla scena, per godersi dai palchi lo spettacolo: questa è la riflessione
geniale (Supplementi, p. 473).

Schopenhauer ha usato più volte l’immagine della marionetta per


caratterizzare la dipendenza stretta dai comandi della volontà. «Cer­
vello» e «nervi» sono i fili e i meccanismi che ne trasmettono gli ordi­
ni in una compiuta eteronomia. E una «corda breve» quella che nel­
l’uomo lega intelletto e volontà. Ciò vale nel caso dei lazzaroni napo­
letani, dove una spontaneità animalesca non deformata dalla civilizza­
zione sottomette l’esistenza al «bisogno dell’ora», «...tutto sommato,
dunque, un’attività ottusa, poco cosciente, o meglio una passività»
(Parerga, p. 1327); ma non meno per il «talento», in cui l’intelletto è
al servizio della civiltà sviluppata e all’altezza dei «bisogn i del
tempo»23. Nella civiltà moderna la dipendenza agli ordini si accentua
perché il mondo frantumato in concetti - cioè in abbreviazioni di un
rapporto strumentale con le cose che non ne toccano l’essenza - è ri­
solto in pure relazioni funzionali. Il loro complicarsi ed ispessirsi ren­
de l’uomo schiavo dello specialismo (la professione), «classificato e
trattato commercialmente», e delle mille correlazioni che costituisco­
no la macchina della civiltà. In una pagina de II mondo viene istituita
l’antitesi tra serenità del genio dallo sguardo disinteressato e tranquil­
lo sulle cose e sul «sempre significativo spettacolo della vita in tutte le
sue scene» e l’uomo comune, «merce all’ingrosso delia natura», che
la volontà spinge a inseguire la versione strumentale del mondo, nel
cui occhio «quando non sia, come è il più spesso, opaco o insignifi­
cante, si osserva facilmente il vero contrapposto della contemplazio­
ne, il cercare»:
non s’indugia a lungo l’uomo comune nell’intuizione pura, e quindi non
poggia a lungo lo sguardo sopra un oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto
ciò che gli si offre soltanto il concetto, al quale la cosa va ricondotta, come l’ac­
cidioso cerca la sedia e non se ne interessa più oltre (Il mondo, pp. 234-235).

Lo stesso divertimento diventa un aspetto della dipendenza:

Egli si sobbarcherà come una specie di lavoro forzato, e nel modo più

23 «G li uomini semplicemente di talento giungono sempre a tempo opportuno:


giacché, come essi sono stimolati dallo spirito del loro tempo e provocati dal bisogno di
esso; così sono anche capaci di appagare solamente questo» (Supplementi, p. 478).
Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 33

sbrigativo possibile, quelli tra i godimenti di tale specie che gli sono imposti
dalla moda o dall’autorità (Parerga, p. 433).

Qui emerge come una percezione fondamentale della filosofia di


Schopenhauer quel tema del dominio implicito nell’astrazione che
culmina nelle pagine de La libertà del volere. La «libertà relativa» per
l’intervento della ragione e dei concetti, che generano l’illusione di li­
bertà del volere, è drasticamente riconfermata come necessità della
stessa natura di quella che domina negli animali. Nel delineare la fa­
coltà dei concetti e del linguaggio come conferma del comando della
volontà, Schopenhauer ha combattuto nella filosofia hegeliana l’idea
di un incremento di libertà legato all’accumulo di relazioni astratte
nella civiltà borghese moderna:

I personaggi di un dramma nulla sanno di quanto è accaduto in un altro,


nel quale tuttavia agivano anch’essi: quindi, malgrado tutte le esperienze dei
drammi precedenti, Pantalone non diviene più destro e generoso, Tartaglia più
onesto, Brighella più audace e Colombina più costumata (Il mondo, p. 229).

Perciò, infine, il destino del filisteo è quello di trovarsi accomuna­


to, come «bestia severa», all’animale nell’incapacità di ridere. La se­
rietà è l’atteggiamento adeguato alla completa sussunzione del mondo
nella rete dei concetti. L’animale non ride perché è privo di concetto,
l’uomo serio perché la cosa è scomparsa nella deformazione strumen­
tale delle relazioni: laddove il riso è la crisi della sussunzione e la ri­
vincita della cosa sul dominio dell’astratto24. L’atteggiamento del ge­
nio verso di mondo come spettacolo è fondato su una tecnica di estra­
neazione, che fa parte anche dell’esperienza vissuta di Sch o­
penhauer25. Il genio conduce una «doppia vita» che lo rende simile a

un attore, il quale ha recitato la sua scena, e, fino al momento di ricompa­


rire, prende posto tra gli spettatori; donde contempla indifferente qualunque
cosa possa accader nel dramma, foss’anche la preparazione della propria

24 II ridere è sempre connesso in Schopenhauer all’apparire della cosa nella sua


pienezza intuitiva. Così nel par. 21 della Quadruplice radice il sorridere radioso dei
bambini annuncia il passaggio dallo stato di stupore, di immersione nel caos indistinto
della sensazione, al riconoscimento dell’oggetto nell’intuizione intellettuale (A. Scho­
penhauer, Sämtliche Werke, hrsgb. v. A. Hübscher, Wiesbaden 19723, vol. I, p. 72).
25 «Nei miei anni giovanili io ebbi un periodo, in cui ero continuamente affaticato,
a vedere me e il mio agire dal di fuori ed a descrivermelo; probabilmente per renderlo
gradevole» (Supplementi, p. 454).
34 II genio tiranno

morte. Poi, al momento dato, toma sulla scena e agisce e soffre come deve (Il
mondo, p. 109).

Vi è qui la conferma di un intero stile filosofico: la totalità del reale


si impone come un dato, un positivo non modificabile né trascendibi­
le da parte del filosofo. Egli lascia ad altre esperienze il compito prati­
co di una redenzione e resta chiuso nella conoscenza del mondo, «ol­
tre a questo, nulla deve, nulla può». A differenza di quella del santo,
la negazione filosofica del mondo è un atto di estraneazione e di di­
stanza che ne lascia sussistere in una considerazione «pura di ogni
moto»26 l’orrore positivo. Ma proprio quella precisione e cautela del
linguaggio commerciale, in cui Horkheimer ha visto l’irriducibilità di
Schopenhauer all’apologià, tradisce, sotto la costruzione di un’ideolo­
gia della distanza, l’appartenenza al mondo del genio, estraneo ai con­
temporanei perché «quasi sempre si respinge la merce autentica per
cercare quella apparente»27.
Nel suo dialogo su Schopenhauer e Leopardi (1858) Francesco De
Sanctis ha dato una curiosa versione del celebre aneddoto del com­
portamento del filosofo nelle giornate rivoluzionarie:
.. .mentre nel ’48 gli uomini correvano come impazziti gli uni contro gli al­
tri, se ne stava osservandoli con un cannocchiale e se la rideva sotto i baffi, e
diceva: Fatevi ammazzare voi, ch’io me ne sto qui a contemplare il Wille2*.

La vicenda si era svolta in modo ben diverso, come narra lo stesso


protagonista29, ma questo stile di percezione distanziata non è stato
estraneo a Schopenhauer, come ci dice la lettera del 26 settembre
1851 a Frauenstädt (che contiene anche una dichiarazione sull’impor­
tanza della sua teoria del genio), in cui il rumore degli eventi storici è

26 Lo stesso «vacuo nulla», alla fine del IV libro, non va ammantato «come fanno
gli Indiani, in miti e parole privi di senso, come sarebbero l’assorbimento in Brahma o
il Nirvana dei buddisti» (Il mondo, p. 512).
27 Proprio nel cuore della sua teoria della conoscenza, a proposito della distinzio­
ne tra intuizione e concetto, Schopenhauer fa puntualmente scattare la metafora del da­
naro: «Sotto questo rispetto il nostro intelletto somiglia ad una banca di cambio, che,
per essere solida, deve avere contanti in cassa, per potere, in caso di bisogno, scontare
tutte le sue polizze presentatele: le intuizioni sono i contanti, i concetti le cedole» (Sup­
plementi, p. 88). Ma la metafora è frequentissima.
28 F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di P. Arcari, Milano 1914, vol. I, p. 265.
29 II binocolo da teatro era stato consegnato all’ufficiale per poter meglio sparare
sulla «canaglia dietro la barricata». Così nella lettera a J. Frauenstädt del 2 marzo 1849
(A. Schopenhauer, Gesammelte Briefe, hrsgb. v. A. Hübscher, p. 234).
I l genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 35

allontanato con fastidio e l’unico effetto notevole della rivoluzione


viene visto nell’«aver rinnovato i numeri delle case»30.
I Souvenirs ci mostrano un Tocqueville che nelle giornate di feb­
braio e giugno del ’48 fa incessantemente la spola tra la casa, l’assem­
blea e la piazza, risoluto in ogni modo a «penetrare fino a dove anco­
ra si combatteva e si sentiva il rumore delle cannonate». E non per
combattere, aggiunge Tocqueville, ma per «giudicare con i miei occhi
lo stato delle cose ... un’aspra curiosità si faceva luce in mezzo a tutti i
sentimenti che mi riempivano l’anima e, a tratti, li dominava»31. Lo
spasimo conoscitivo di Tocqueville ci ha dato però, oltre alla più fa­
mosa descrizione degli eventi parigini, ima analisi dei sintomi di di­
sgregazione del soggetto che guarda e vive quelle giornate. Anche nel­
le sue pagine si insinua la catastrofe della persona e dei suoi riferi­
menti intellettuali e morali che Flaubert - lo stesso Flaubert che, se­
condo la testimonianza dell’amico Maxime Du Camp, girava eccitato
per Parigi per non perdere nulla dello «spettacolo» rivoluzionario, e
addirittura per poter assistere alla prima inaugurale fucilata - ha con­
segnato alle pagine de Leducazione sentimentale. Dove si descrivono i
giorni in cui «la ragione umana era turbata come dopo grandi scon­
volgimenti di natura. Uomini intelligenti furono idioti per tutto il re­
sto della vita»; dove il vecchio Roque uccide a sangue freddo il giova­
ne prigioniero per intenerirsi poi, la sera, sulla propria sensibilità di
padre. Per placare la Guardia nazionale, per lo più fatta di quei tran­
quilli artigiani dai «costumi dolci e un po’ molli» che «non sognavano
tuttavia che distruzione e massacro», Tocqueville annuncia che saran­
no prese le misure più drastiche:
Aggiunsi che non bisognava fucilare nessun prigioniero, ma bisognava am­
mazzare sul campo chiunque facesse l’atto di difendersi... Continuando il
cammino, non potei impedirmi di ritornare su me stesso, meravigliandomi
della natura degli argomenti che avevo appena usato, e della prontezza con
cui io stesso mi ero familiarizzato con quelle idee di inesorabile distruzione e
di rigore che naturalmente mi erano così estranee32.

In parallelo, un «piccolo fatto» come il viso stravolto della vecchia


che gli sbarra la strada, diventa il «grande sintomo» dello sgretolarsi
della personalità nell’urto coi sommovimenti sociali. L’imputazione di

30 Briefe, cit., p. 266.


31 A. de Tocqueville, Souvenirs, a cura di L. Monnier, Paris 1978, p. 242.
32 Ivi, p. 249.
36 II genio tiranno

follia alle azioni popolari che attentano all’ordine diventerà poi uno
dei luoghi ricorrenti, e in modo addirittura straripante dopo la Comu­
ne, negli esercizi della sociologia positivistica sulla «follia popolare»
come apice della «patologia sociale». Ma Tocqueville aveva già incri­
nato anche le barriere protettive del soggetto savio, mettendo in que­
stione la sicurezza con cui la ragione può identificarsi con l’opposto
della follia, da essa separata. Così, quando il repubblicano Trélat, con
la certezza che gli viene dall’essere «il medico meritevole che dirigeva
allora uno dei principali ospedali di folli di Parigi» dichiara tutti fuori
di ragione i suoi vecchi amici politici («tutti folli, signori, che dovreb­
bero essere alla mia Salpetrière, e non qui») viene colpito da una dra­
stica obbiezione: «Avrebbe sicuramente aggiunto se stesso alla lista, se
si fosse conosciuto così bene come conosceva i suoi vecchi amici»33.
Certamente in questi anni comincia ad annullarsi la distanza dalla
massa che garantiva il valore e l’autenticità del soggetto delimitato
nelle categorie sicure e immediatamente identificabili di una raziona­
lità storicamente salda, perché legata ad una crescita di consapevolez­
za. Il turbamento di una pratica ordinata e garantita ne rimescola il
rapporto con la teoria, mettendo radicalmente in discussione l’auto­
noma certezza del suo riferimento.
Ci proponiamo, nei capitoli che seguono, di verificare alcuni esiti di
questa crisi, attraverso percorsi parziali, delimitati ma che ebbero una
risonanza eccezionale ed assolutamente privilegiata nelle ideologie di
fine secolo, e che si richiamano reciprocamente. «L a contraddizione
schopenhaueriana tra teoria e prassi è insostenibile»: di fronte all’«insi-
curezza dell’orizzonte della civiltà moderna» Nietzsche esprime un at­
teggiamento di accentuato attivismo ed agonismo, cristallizzato intor­
no alla giovanile metafisica dell’artista e cerca di utilizzare gli elementi
«inattuali» di Schopenhauer respingendone le sicurezze degli esiti me­
tafisici. La «superstizione del genio» che all’ombra di Wagner gli appa­
re nel primo periodo il necessario fondamento di una nuova civiltà,
verrà poi criticata come via d ’uscita privilegiata e immediata, ma illu­
soria, dalla cattiva modernità. Schopenhauer aveva scritto che «il genio
arriva nel suo tempo, come una cometa nelle orbite dei pianeti, al cui
ordine semplice e ben regolato è estraneo il suo corso completamente
eccentrico» (Supplementi, p. 478). Questo era il suo destino: il rappor­
to con la massa era di necessaria estraneazione, la sua opera era una

33 Ivi, p. 195.
Il genio e la città: Schopenhauer, Wagner, Nietzsche 37

fruizione solitaria del valore, inattingibile e non funzionalizzabile dal


mercato. Nietzsche riprende l’immagine della cometa, ma per afferma­
re che solo nel mondo moderno, della civilizzazione, «il filosofo è una
cometa imprevedibile, che perciò incute paura», mentre nel caso di ci­
viltà-modello come quella greca in cui il genio è capace di ristabilire
un legame con il popolo, di redimere la massa dando un significato su­
periore al suo «duro servizio», «egli risplende nel sistema solare della
civiltà, come una stella di prima grandezza» (PHG, p. 275). Il genio
«miracolo» sarà poi oggetto di una scomposizione che ne smonta la
falsa immediatezza ed unità, mostrandolo come simulacro e costruzio­
ne, postulato delle debolezze romantiche:
Anche il genio non fa nient’altro che imparare, prima a porre la pietra e
poi a costruire, che cercar sempre materiale e plasmarlo continuamente. Ogni
attività dell’uomo è complicata fino a sbalordire, non solo quella del genio:
ma nessuna è un «miracolo» (MA, p. 129).

Anche il genio come punto di riferimento per la ricostruzione del


soggetto è insostenibile ed essa deve passare attraverso la «lunga pa­
zienza» dell’accumulazione di energia e dell’ordinamento di un cam­
po di pluralità disseminate, di potenzialità istintive non represse. La
stessa conoscenza viene implicata profondamente nei processi mate­
riali che travolgono la distinzione schopenhaueriana:
Teoria e pratica. Sciagurata distinzione, come se ci fosse un istinto peculiare
conoscitivo che, senza curarsi dei problemi di utilità e di danno, puntasse cie­
camente alla verità: e poi, separato da quello, tutto il mondo degli interessi
pratici (FP 1888, pp. 114-115).

L 'anteiligere, non solo non è lontano dalle passioni e dagli istinti,


ma appare a Nietzsche soltanto «un certo rapporto degli impulsi tra di
loro»i4.
La solitudine di Zarathustra, la sua distanza dalla grande città, è
una scelta per il «gelo della conoscenza» contro il calore del piccolo
uomo e delle sue menzogne, un volontario esercizio di autodisciplina
che segna il «cammino del creatore». A partire da Umano troppo uma­
no la solitudine diviene per Nietzsche necessaria per l’esercizio della3 4

34 FW, p. 181, e cfr. anche FP 1879, p. 384: «H grande errore fondamentale di


Schopenhauer è di non aver visto che la brama (la «volontà») è solo una specie del cono-
scere e nient’altro».
38 II genio tiranno

critica, contro l’attività macchinale della professione e del ruolo socia­


le e la bugiarderia dell’idealismo che questi producono come narcoti­
co. La «fortezza» di Nietzsche è presupposto di un «contromovimen­
to» rispetto al moderno e il suo atteggiamento si definisce e si precisa
nel confronto a fondo con le antitetiche espressioni della città, della
décadence. E se il percorso di Nietzsche può precisare il suo senso so­
lo nello sfondo storico3536,la dissezione dei fenomeni del moderno ser­
ve a illuminarne il significato.
La posizione di Wagner e Renan, nella loro diversa radicalizzazio-
ne del mito per la ricomposizione della crisi, è svelata come ideologi­
ca dalla critica di Nietzsche: al mago, Zarathustra riconosce solo Yau­
tenticità del suo infrangersi e la nausea come unica verità. Il tentativo
di Renan di una aristocrazia di savants è tutto chiuso nella macchina
sociale, e la sua mitizzazione della scienza si fa erede dei vecchi valori
religiosi e di collaudati stili di dominio. Anche l’«ideale» di Renan na­
sce dalla grande città ed è sintomo di debolezza. Wagner deve accen­
tuare romanticamente gli aspetti metafisici, di miracolo, del genio
schopenhaueriano, unicamente capace della visione vera del mondo, e
fargli assumere gli attributi del santo, in una volontà attiva di reden­
zione che non interessa solo l’individuo, come è in Schopenhauer, ma
coinvolge la Gemeinschaft^. Ciò è possibile solo con la radicalizzazio-
ne del mito estetico in continuità, su questo, con l’atteggiamento gio­
vanile: è la falsa risoluzione della crisi in gesto ed espressione, in tea­
tro. «Sul mercato si persuade coi gesti. Le ragioni, invece, rendono
diffidente la plebe». E Nietzsche, con una «garbata cattiveria» di Re­
nan, ne II caso Wagner riassume il perché di quella scelta: «La philo­
sophie ne suffit pas au grand nombre, il lui faut la sainteté».

35 Ci richiamiamo qui, come in tutto il corso di questo lavoro, allo stile di lettura
di M. Montinari presente oltre che negli apparati dell’edizione critica, nel suo recente
Nietzsche lesen, Berlin 1982.
36 L a deformazione wagneriana di Schopenhauer nel senso di una dimensione so­
ciale della redenzione ha come premessa quella divaricazione di Kultur e Zivilisation
che è del tutto estranea a Schopenhauer, come abbiamo visto. Questo aspetto è colto
con esattezza da H .S. Chamberlain, Riccardo Wagner, trad. it. di G . Cogni, Milano
1947, pp. 242 ss.
2.
Il romanticismo e la macchina

1. La forza produttrice di miti. Wagner lettore di Renan

In un frammento della primavera-autunno 1873, Nietzsche con­


trappone il Gesù di Strauss a quello di Renan: «E stata cosa sfacciata
da parte di Strauss l’offrire al popolo tedesco la Vita di Gesù in antite­
si al molto più grande Renan» (NF 1873, p. 587). Tale antitesi era
presente, come vedremo, nelle discussioni che si tenevano a Trib­
schen, nell’ambiente wagneriano. L’attacco di Nietzsche è condotto
contro il tentativo di distruggere il cristianesimo dimostrandone la na­
tura mitica. Ma proprio questo dimostra la totale incomprensione di
Strauss per il fenomeno religioso: «M a la natura della religione sta
proprio in questo: di avere forza produttrice di miti e libertà. Le con­
traddizioni con la ragione e la scienza odierna sono il suo motivo di
superiorità. Egli non presagisce nulla della fondamentale antinomia
dell’idealismo e del senso estremamente relativo di ogni scienza e ra­
gione» (ìbidem; su Renan v. anche ivi, p. 804).
Nel capitolo conclusivo della Vie de Jésus, Renan riassumeva i ca­
ratteri del Cristo charmeur e dotato di volontà eroica1 in una polemica
di metodo il cui indubbio obiettivo è Strauss. Per Strauss il mito è
non un’invenzione individuale, ma l’invenzione generale e superiore
di un popolo propria di un’epoca dominata dall’immaginazione e che

1 Oltre ai vari luoghi nella Vie de Jésus, sul carattere «charmeur» di Gesù si veda
l’importante lettera del 28 agosto 1863 a Ernest Bersot: «Quanto al fascino di Gesù, è
ciò che lo ha principalmente distinto, molto più che la ragione o anche la grandezza»
(OC X, p. 385). Nietzsche negli appunti preparatori per Vanticristo, fra gli estratti da
Ma Religion di Tolstoj riporta la frase «un doux rêve du “charmant docteur” - Renan»
(FP 1887-88, p. 301). Le pagine di Tolstoj conducono una serrata polemica contro gli
storici delle religioni «gli Strauss, i Renan» che in questo modo riducono a ideale inat­
tuale la carica rivoluzionaria del Cristo (Ma Religion, Paris 1885, p. 45).
40 II genio tiranno

la nostra cultura, con la sua attitudine «critica», difficilmente è in gra­


do di figurarsi. Proprio questa origine collettiva del mito è, secondo
Renan, una delle «due impressioni ugualmente funeste alla buona cri­
tica storica» perché in questo modo «si attribuisce a una azione col­
lettiva quello che spesso è stato l’opera di una volontà possente e di
uno spirito superiore»2. Nella figura di Gesù, genio ed eroe, si con­
densava in modo inequivocabile la decisa accentuazione aristocratica
della diade genio-popolo che Renan faceva subire a un fondo di teorie
romantiche a cui resterà sempre vincolato, e a cui aveva aderito in
gioventù, ad esempio quando aveva espresso il suo entusiasmo per le
lezioni di Ozanam sulla poesia popolare, esempio storico di una co­
spirazione tra creazione geniale e spirito del popolo per la realizzazio­
ne dell’«ideale» del tutto sconosciuta alla meschinità materialistica
della moderna vita «meccanizzata». Anche quest’ultimo3 spunto ro­
mantico riviveva nella Vie de Jésus : il restare nella prospettiva delle
mediocri condizioni sociali a cui siamo abituati è infatti all’origine del
secondo impedimento per una comprensione storica di Gesù, e in ge­
nere della «energie surprenante» dei fondatori di religioni. In tale
prospettiva quelle anime

...ci appaiono come i giganti di un’irreale età eroica. Errore profondo!


Quegli uomini erano nostri fratelli; erano come noi, sentivano e pensavano
come noi. Ma in loro il soffio di Dio era libero; in noi invece, è incatenato dai
legami di ferro di una società meschina e condannata a una irrimediabile me­
diocrità (Vie de Jésus, OC IV, p. 365).

Il doppio motivo del genio e della lotta tra ideale e mediocrità ma­
terialistica sono al centro dell’apprezzamento di Wagner per Renan,
l’unico a salvarsi dalla indiscriminata e cieca avversione per la cultura
francese, intensificatasi dopo il 70:

2 Vie de Jésus, O C IV, p. 365. La critica a Strauss era già nettamente formulata in
questi termini da Renan nel 1849 in Les historiens critiques de Jésus (OC VII, pp. 136 ss.).
3 Cfr. Cahiers de jeunesse, O C IX, pp. 81, 86. Sull’importanza di Ozanam per Re­
nan ha scritto pagine definitive George Sorel, Le système historique de Renan, Paris,
s.d. (ma 1906), pp. 230 ss. L a critica romantica al nivellement del mondo meccanizzato
era stata assunta da Renan, prima ancora che attraverso Michelet, grazie alla mediazio­
ne dello scrittore bretone Emile Souvestre, autore del romanzo «utopico» Le monde tei
qu’il sera (assai apprezzato da Renan per la critica alla vita meccanizzata: cfr. ad es.
Cahiers de jeunesse, O C IX, p. 72) in cui l’industrialismo dei saintsimoniani assumeva i
contorni di un’utopia negativa e sfociava nella descrizione di uno spettrale stato futuro
in cui un governo dispotico usa la tecnica per annullare e opprimere la vita umana.
Il romanticismo e la macchina 41

Parigi rimane certo per il mondo un gran bazar, ma non dovremmo nem­
meno dimenticare che fu un francese, Renan, a scrivere il libro migliore sulle
cose che ci interessano4.

I Diari di Cosima Wagner testimoniano un interesse costante per i


volumi delle Origines, letti e commentati con continuità a partire dal
73, quando Nietzsche procura a Cosima il Saint Paul5. L’attenzione
di Wagner è rivolta esclusivamente, sulla scia dell’interesse scho-
penhaueriano per il cristianesimo primitivo, al Renan storico delle re­
ligioni, avvertendone l’immediato significato sociale e politico, esplici­
to del resto nelle ricostruzioni di Renan (così, ad esempio, trova «del
tutto infantile» il dramma Caliban, dove le costruzioni ideologiche di
Renan sono in primo piano)6.
Renan «ama Gesù, mentre Strauss no» e proprio su questo si basa
la fecondità della sua ricostruzione7 e la superiorità sul «noioso»
Strauss, che ha soprattutto demitizzato Gesù, togliendo alla fede il
suo centrale carattere di venerazione per il mistero del genio8. In con­
sonanza con l’atteggiamento del suo ultimo periodo, Wagner apprez­
za in Renan il tema del genio fondatore di religioni, capace di unifica­
re con la forza del mito e dell’ideale la comunità in lotta contro la me­
diocrità livellatrice e i pericoli dissolventi dell’egoismo materialistico
della Zivilisation. Meditando il paragone di Renan tra la società mo­
derna senza fede e i movimenti automatico-macchinali di un animale
decerebrato, la cui vita ha un breve futuro, Wagner mostra di acco­
gliere un tema centrale di Renan: la necessità di illusioni religiose che
unifichino gli elementi sociali - altrimenti soggetti alla dinamica di­
sgregatrice del «godimento» - in un comportamento orientato teleo-
logicamente, di «devozione verso l’ideale»9. La lettura che Wagner fa­

4 C. Wagner, Die Tagebücher, Bd. II (1878-1883), hrsgb. von Martin Gregor-Del-


lin und Dietrich Mack, München-Zurich 1977, p. 249 (4 dicembre 1878).
5 C. Wagner, Die Tagebücher, cit., Bd. I (1869-1877), p. 697 e F. Nietzsche, Epi­
stolario II, p. 449.
6 Die Tagebücher, cit., Bd. II, p. 120 (19 giugno 1878).
1 Die Tagebücher, cit., Bd. II, p. 133 (7 luglio 1878).
8 Die Tagebücher, cit., Bd. I, p. 657, a proposito di Vecchia e nuova fede di Strauss
(18 marzo 1873).
9 Die Tagebücher, cit., vol. II, p. 221 (7 novembre 1878). L’immagine si trova nella
prefazione ai Dialogues philosophiques, p. X IX . I Diari proseguono: «Venerdì 8... a co­
lazione egli (R. Wagner) ritorna sulle riflessioni di Renan e io gli dico che non posso im­
maginarmi come qualcuno dei nostri celebri scrittori tedeschi d ’oggi potrebbe esprimere
42 II genio tiranno

ceva della Vie de Jésus e in genere delle Origines è in consonanza con


una intenzione profonda dell’opera di Renan. Quest’ultimo aveva det­
to a chiare lettere, proprio in polemica con l’atteggiamento critico pu­
ramente distruttivo di Strauss, che liberare la religione di Gesù dai
miracoli, circoscrivere il cristianesimo a pura «religione dello spirito»
significava rendere un servizio durevole alla religione, che intanto Re­
nan giudicava strumento indispensabile per diffondere l’etica della
devozione e del sacrificio all’ideale tra le classi popolari. Se però con­
servare la religione, con il suo intatto valore di strumento privilegiato
per la coesione sociale, significa limitare socialmente il carattere criti­
co-distruttivo della scienza, occorre anche liberarla dal «pericoloso»
legame con i miracoli della rivelazione, insostenibili in un’epoca che
dà credito crescente ai risultati delle scienze storiche e naturali.
Che faccia piacere o no - scriveva nel 1862 - il soprannaturale scompare
da questo mondo; solo le classi che non sono al passo col loro secolo ci credo­
no seriamente. Significa che la religione debba crollare con esso? No, no. La
religione è necessaria. Il giorno in cui scomparisse sarebbe il cuore stesso del­
l’umanità che si disseccherebbe... Trasportare la religione oltre il soprannatu­
rale, separare la causa sempre trionfante della religione dalla causa persa del
miracolo significa dunque rendere un servizio alla religione; significa distac­
carla da un vascello che affonda... lo dico con fiducia: un giorno la simpatia
delle anime veramente religiose sarà dalla mia parte (La chaire d’hébreu au
Collège de France, OC I, pp. 169-170).

In Wagner è costante la preoccupazione di salvare il cristianesimo


nella sua forma sentimentale e immediata (lo Himmelsreich interio­
re)10 i cui effetti sono analoghi a quelli liberatori della musica. Wa-

queste idee. Egli risponde: “sono troppo presi dall’idea di progresso " , e prosegue
“Nietzsche avrebbe potuto averle”» (pp. 221-222). Su Renan cfr. anche ivi, p. 119.
10 E un altro aspetto di consonanza tra Wagner e Renan: «Spesso dichiara che il
regno di Dio è già cominciato, che ognuno lo porta dentro di sé e può, se è degno,
gioirne, che questo regno ciascuno lo crea silenziosamente attraverso la vera conversio­
ne del cuore. Il regno di Dio non è allora che il bene, un ordine di cose migliore di
quello che esiste, il regno della giustizia che il fedele, secondo le sue possibilità deve
contribuire a fondare, o ancora la libertà dell’anima, qualcosa di analogo alla “libera­
zione” buddistica, frutto del distacco» (Vie de Jésus, O C IV, p. 262). Il parallelo Cristo-
Budda, che non doveva certo dispiacere a Wagner che interpretava la figura di Cristo
con un atteggiamento fortemente schopenhaueriano, veniva a Renan da Pierre Leroux.
Nella voce Egalité dell’Encyclopédie nouvelle (che Renan legge nell’edizione separata
del 1848) Leroux interpretava Gesù come «Budda occidentale» distruttore delle caste e
propugnatore della dottrina dell’uguaglianza. Cfr. su questo J. Viard, George Sand et
Il romanticismo e la macchina 43

gner rovesciava così la sua giovanile interpretazione, fortemente im­


pregnata di elementi feuerbachiani. Allora il cristianesimo, visto come
abdicazione dell’umano sensibile in favore dell’aldilà, esprimeva lo
stesso principio della Zivilisation, che avvilisce la pienezza della natu­
ra umana rendendola strumento della macchina, sicché

vediamo con orrore lo spirito del cristianesimo sinceramente personificato


in un cotonificio modello: in favore dei ricchi Dio si è fatto industria e questa
mantiene in vita il povero lavoratore cristiano soltanto finché le celesti costel­
lazioni del commercio provocano la generosa necessità di farlo passare in un
mondo migliore11.

Nel Beethoven, cristianesimo e musica condividono invece la natu­


ra di Himmelsreich interiore, che espandendosi spezza i vincoli della
Zivilisation:

Come il cristianesimo si è fatto avanti al tempo della civiltà universale ro­


mana, così ora dal caos della civiltà moderna erompe la musica. L’una e l’altra
proclamano: «Il nostro regno non è di questo mondo», che vuol dire: noi ve­
niamo dal di dentro, voi dal di fuori, noi abbiamo la nostra origine nell’essen­
za, voi nell’apparenza delle cose12.

Ma l’entusiasmo di Wagner per l’opera storica di Renan comincia


decisamente a declinare alla lettura del Marc Aurèle: ancora una volta
Wagner sottolinea con favore il tema del genio13, ma intanto Renan
aveva corretto la tesi della rottura storica tra Vecchio e Nuovo Testa­
mento, accentuando invece gli elementi di continuità:

Mai fondatore di religioni ha avuto seguaci che gli somigliassero di me­


no. Gesù è molto più un grande ebreo che non un grand’uomo; i suoi disce­
poli hanno fatto di lui ciò che vi è di più anti-ebraico: un uomo-Dio (OC V,
p. 1142).

Michelet disciples de Pierre Leroux, «Revue d ’histoire littéraire de la France», LXXV,


1975, p. 754. L’intera discussione è ripresa da Nietzsche ne L’anticristo con l’arricchi­
mento tematico che gli veniva dalla lettura di Tolstoj e Dostoevskij. «Il “regno dei cieli”
è una condizione del cuore, non qualcosa che giunge “oltre la terra” o “dopo la mor­
te” ... Il “regno di D io” non è qualcosa che si attende: non ha un ieri e un dopodomani,
non giunge tra “mille anni” - è l’esperienza di un cuore; esiste ovunque e in nessun luo­
g o ...» (AC, pp. 209-210).
11 R. Wagner, L’arte e la rivoluzione, in Ricordi, cit., p. 315.
12 Ivi, p. 286.
13 Die Tagebücher, cit., Bd. II, p. 881 (28 gennaio 1882).
44 II genio tiranno

Wagner è colpito negativamente, soprattutto dalla osservazione di


Renan che la condanna dell’usura da parte del cristianesimo ha impe­
dito lo sviluppo della «civilisation»14. Per la categoria di giudaismo che
domina in modo parossistico l’ultimo Wagner, il torto di Marc Aurèle è
di non vedere più nell’idealismo cristiano l’avversario principe della
Zivilisation legata indissolubilmente allo spirito ebraico15. Le motiva­
zioni che determinavano in Schopenhauer la separazione tra giudai­
smo e cristianesimo, tra religione dell’ottimismo che vede tutta la natu­
ra come creazione di un Dio personale e affermatrice di un mondo a
misura dei bisogni egoistici (t o c v t a xaXà Xtau) e religione del pessimi­
smo scaturita dalla saggezza indiana, della rinuncia e della redenzione,
sono operanti nell’accusa che Wagner rivolge a Renan di «ottimismo
giudaico»16. All’interno del contrasto irriducibile, bellum ad interne-
cionem, che Schopenhauer vede tra scienza e religione - e da Wagner
risolto in una valorizzazione del mito religioso come produttivo di ef­
fetti comunitari contro il carattere civilizzatorio-disgregante della
scienza - vengono attaccati gli atteggiamenti falsamente conciliatori
dei «razionalisti attuali» (il cui prototipo è Rousseau) che vogliono
ricondurre il cristianesimo ad un arido, egoistico e ottimistico ebraismo
con l’aggiunta di una morale migliore e di una vita futura, quale la esige l’otti­
mismo spinto alle sue ultime conseguenze, affinché, appunto, tutte le magnifi­
cenze della vita non finiscano troppo presto e sia liquidata la morte, che grida
troppo forte contro la concezione ottimistica e, simile al convitato di pietra,
alla fine si avvicina all’allegro Don Giovanni (Parerga, pp. 1071-1072).

14 Ivi, p. 879 e cfr. anche R. Wagner, Das braune Buch. Tagebuchaufzeichnungen


1865-1882, hrsgb. v. J. Bergfeld, Zürich 1975, p. 243. Cfr. Renan, OC V, p. 1122.
15 Die Tagebücher, cit., Bd. II, p. 1108 (7 febbraio 1883) dove Wagner accoglie con
sfavore la notizia che Renan ha tenuto una conferenza «in cui nega l’esistenza di una
razza ebraica». Nel 1883 Renan aveva tenuto due conferenze di questo tenore sull’e­
braismo: Le judaïsme comme race et comme religion e Le judaïsme et le Christianisme,
quest’ultima alla presenza del barone Alphonse de Rotschild. I forti elementi di antise­
mitismo serpeggianti negli scritti di Renan venivano sconfessati in queste conferenze.
La svolta di Renan fu accolta come un vero e proprio tradimento dal maggiore antise­
mita francese, Edouard Drumont (vedi ad es. di Drumont: La France juive, Paris, s.d.,
XV III ed., vol. I, pp. 14-15). Sulla complicata questione dell’antisemitismo di Renan e
delle sue ritrattazioni cfr. Dora Bierer, Renan and bis interpreters: a study in french intel-
lectuals warfare, «Journal of Modera History», 1953, fase. 3, pp. 375-389.
16 Die Tagebücher, cit., Bd. II, pp. 879, 881 (26 e 28 gennaio 1882).
Il romanticismo e la macchina 45

2. «Sentimento di autunno della civiltà»

La critica schopenhaueriana all’ebraismo che diventa rassicurante


filosofia della storia è presente anche in Burckhardt, che nelle Lezioni
sulla storia d’Europa si sofferma sullo stesso brano renaniano sulla
condanna cristiana dell’usura che aveva attirato l’attenzione polemica
di Wagner. Negli anni ’80, dunque, il Renan che «nel suo Marc Aurèle
si dà a conoscere in più modi»17 è per Burckhardt l’esponente di una
filosofia della storia il cui razionalismo antistorico si esprime nella
pretesa di giudicare le epoche passate secondo il metro degli ideali
moderni specialmente diffusi dalla Rivoluzione francese, di libertà in­
dividuale e dominio della razionalità. Ma in Sullo studio della storia
aveva mostrato di apprezzare il metodo storico di Renan, che conosce
«in concreto» le condizioni sociali e psicologiche che determinano le
origini delle religioni18. Burckhardt, che le lezioni mostrano lettore at­
tento soprattutto delle Questions contemporaines, valorizza l’afferma­
zione di Renan che «la religione è un prodotto dell’uomo normale»
contro la tesi dei «sofisti italiani del XVI secolo» che la religione era
stata inventata dai semplici e dai deboli, integrandola nel senso scho-
penhaueriano di risposta ad un inconscio bisogno metafisico (anche
se Burckhardt arricchisce e complica queste prospettive, inserendo
tra le cause della nascita delle religioni il timor e il feuerbachiano sen­
timento di dipendenza dalla potenza esteriore della natura). Questo
momento di vicinanza - sentito anche da Wagner - tra le tesi di Re­
nan e quelle di Schopenhauer, era certo determinato anche dalle af­
fermazioni, contenute nel saggio E avenir religieux des sociétés moder­
nes, circa il carattere intimamente ebraico di ogni filosofìa della storia
e la «forte originalità» del cristianesimo nei confronti del giudaismo,
cosicché esso appare non tanto «continuazione» bensì «una reazione
contro lo spirito dominante del giudaismo» (OC I, p. 237) tesi che
sarà appunto smentita da Marc Aurèle, dove Gesù è «vero ebreo». Ma
qualunque sia stata l ’entità effettiva dell’attenzione dedicata da
Burckhardt all’opera storica di Renan19 è comunque evidente che il

17 J. Burckhardt, Lezioni sulla storia d’Europa, trad. it. di M. Carpitella, Torino


1959, p. 60.
18 J. Burckhardt, Sullo studio della storia, trad. it. di M. Montinari, Torino 1958,
p. 59.
19 Cfr. la lettera a Preen del 30. V. 1877: «Mi rallegra molto il fatto che a lei piaccia
46 II genio tiranno

testo che più lo ha interessato sono le Questions contemporaines. Nel­


le lezioni su Le crisi storiche si legge:
Quant à la pensée philosophique elle n’est jamais plus libre qu’aux grands
jours de l’histoire - dice Renan. La filosofia fiorì in Atene, nonostante le au­
dacie e la tensione della vita ateniese, che in fondo si svolgeva in una continua
crisi e in un continuo terrore, nonostante le guerre, i processi per alto tradi­
mento e per empietà, le denunce dei sicofanti, i pericolosi viaggi nei quali si
poteva essere venduti come schiavi, eccetera20.

È la parafrasi di un brano dell’articolo Réflexions sur l’état des


esprits, frammento dell’opera giovanile L’avenir de la science, che
Renan aveva inserito nella raccolta di saggi del ’68 (cfr. OC I, p.
210). C ’è una forte consonanza tra alcuni aspetti di queste pagine di
Renan e il centrale tema burckhardtiano della grande crisi storica
capace di liberare «energie insospettate» che giacevano latenti, co­
sicché «la crisi dev’essere considerata un nuovo nodo dello svilup­
po». È un tema ricorrente in Burckhardt, che nelle Lezioni sulla sto­
ria d’Europa riprende l’immagine tocquevilliana della nave in balia
delle onde (la società che vive nell’instabilità permanente aperta dal­
la Rivoluzione francese) per caratterizzare l’epoca di crisi come pos­
sibilità di accrescimento conoscitivo e ampliamento inaudito di oriz­
zonti intellettuali:
Appena ci stropicciamo gli occhi, ci accorgiamo di stare vagando a bordo
di una nave più o meno fragile su una delle onde - e sono milioni - poste in
moto dalla Rivoluzione. Noi siamo quest’onda stessa. Con ciò non ci viene fa­
cilitata la conoscenza obbiettiva... Tutta questa congerie deve essere per noi
non una conclusione, bensì un patrimonio spirituale; dobbiamo trovarvi non
un’afflizione, bensì un tesoro21.

Renan contrapponeva alla generazione attuale, abituata a un mon­


do dominato dalla «sécurité» e dai «tièdes milieux» e che funziona
come «una macchina regolarmente organizzata» (ma segna anche, se­
condo Pantiborghesismo romantico di Renan, l’epoca della medio-

Taine... le Origines di Renan le ho appena prese in mano» (Briefe, Bd. VI, Basel-Stutt­
gart, pp. 135-136). Sulla lettura di Renan da parte di Burckhardt si veda W. Kaegi, Ja­
cob Burckhardt. Eine Biographie, Bd. V, Basel-Stuttgart 1973, p. 583, che insiste sul ben
maggiore apprezzamento dello storico svizzero per Taine.
20 J. Burckhardt, Sullo studio della storia, cit., p. 223.
21 J. Burckhardt, Lezioni sulla storia d’Europa, cit., p. 370.
Il romanticismo e la macchina 47

crità e del livellamento)22, la generazione intellettuale del 1815, cre­


sciuta in mezzo ai grandi pericoli e che dunque aveva potuto approfit­
tare «di quei tempi straordinari in cui gli elementi dell’umanità in
ebollizione appaiono volta a volta alla superficie» (OC I, p. 212).
Va subito sottolineato questo primo aspetto del ruolo che
Burckhardt assume in questi anni nella percezione nietzscheana della
crisi, in funzione antitetica al peso dell’influenza wagneriana. La co­
struzione nietzscheana di una metafisica dell’artista, legata strettamen­
te al progetto wagneriano, ha il compito di opporsi, attraverso il mito
e la forza rigeneratrice della musica, al «caos atomistico» moderno, e
coglie l’elemento di disgregazione in termini negativi. Ma tale quadro
presenta già qua e là delle crepe significative legate alla contempora­
nea influenza di Burckhardt e alla sua interpretazione della crisi come
sviluppo delle energie in campo. La lotta e il pluralismo dei centri di
forza, sia pure proiettati nella lontananza della bella grecità, sono
espressione superiore di una società più ricca rispetto alla «esclusività
del genio in senso moderno» (CV, p. 251). La necessità del genio uni­
ficante appare quasi espressione della debolezza dei tempi, mentre l’i­
dea greca è che «in un ordine naturale delle cose, esistano sempre pa­
recchi geni, i quali si stimolino vicendevolmente all’azione e del pari si
mantengano vicendevolmente entro il limite della misura» (ibidem) e
che le facoltà si sviluppino attraverso la lotta. La bella forma presup­
pone il gioco agonistico delle forze, tema che è legato strettamente alla
connotazione burckhardtiana della cultura greca, espressione della
pluralità e della violenza delle lotte tra le pòleis, e convive in maniera
non consapevolmente contraddittoria con gli elementi apologetici e di
fuga dalla realtà nel mito wagneriano della comunità.
Mentre l’influenza del Wagner giovanile è qui leggibile soprattutto
nella identificazione tra vita greca e senso del limite, della forma chiu­
sa contro r«infinità» delle moderne relazioni di vita che riducono
l’uomo all’impotenza:

Nell’antichità, perciò, gli individui erano più liberi, poiché i loro fini erano
più vicini, più alla portata. L’uomo moderno per contro è sempre ostacolato
dall’infinità, come il veloce Achille nell’immagine di Zenone di Elea: l’infinità
lo trattiene ed egli non può neppure raggiungere la tartaruga (CV, p. 252).

22 Cfr. J. Burckhardt, Sullo studio della storia, cit., p. 229: «secondo Renan, dal
1840 si potè constatare chiaramente un generale crescente involgarimento».
48 II genio tiranno

La valorizzazione della pluralità e dei momenti contraddittori avrà


poi significativo sviluppo quando Nietzsche si contrapporrà all’atteg­
giamento di pura condanna della decadenza in nome di ideali e valori
compiuti per valorizzare invece in essa il carattere di Zwischen­
zustand, in connessione anche con l’immagine positivistica della ma­
lattia (Renan stesso parla in termini naturalistici della crisi come di
«maladie» e «fièvre» di cui occorre limitare gli accessi affinché non
uccidano il malato) come deformazione patologica che ha valore di
esperimento spontaneo, eccesso che rende visibili elementi nascosti
nell’equilibrio normale dell’organismo.
Il complesso di problemi che le Questions contemporaines aprivano
non poteva non suscitare (certo più delle soluzioni che Renan propo­
neva) l’interesse di Burckhardt. Anzitutto l’opera era animata da una
Stimmung di liberalismo conservatore con forti simpatie per la libertà
germanica contrapposta alla libertà rivoluzionaria, quest’ultima impli­
cata nel meccanismo centralizzatore e livellatore dello stato. Renan
accoglieva la tesi di Tocqueville sulla continuità di una tradizione sta­
talista francese dalla monarchia assoluta di Luigi XIV alla Rivoluzione
e allTmpero (tesi che Burckhardt apprezzerà soprattutto nella forma
datale da Taine). Scriveva Renan:

L’aberrazione di Luigi X IV comporta come conseguenza immediata la Ri­


voluzione francese, la pura concezione dell’antichità riacquista forza. Lo stato
ridiventa sovrano assoluto. Ci si abbandona all’illusione che una nazione deb­
ba essere felice, purché abbia un buon codice. Si vuole prima di tutto fondare
uno stato giusto, e non ci si accorge che si distrugge la libertà, che si fa una ri­
voluzione sociale e non una rivoluzione politica, che si pone la base di un di­
spotismo simile a quello dei Cesari dell’antica Roma. Il mondo moderno sa­
rebbe ritornato agli errori antichi, e la libertà sarebbe perduta per sempre se
il movimento che trascinava la Francia verso la concezione dispotica dello sta­
to fosse divenuto universale (OC I, p. 39).

Ma il senso del liberalismo antistatalistico di Renan è quello di


diffondere nella società civile una pluralità di centri di resistenza e di
potere in grado di resistere alle ondate rivoluzionarie. L’accentramen­
to del potere nello stato fa invece sì che:
l’edificio che un tempo posava su una gran quantità di sostegni, molti dei
quali potevano indebolirsi nello stesso tempo senza perciò provocarne la ca­
duta, non poggia ormai che su un punto solo: un attacco alla base è sufficien­
te per gettare a terra il colosso dalla testa smisurata (OC I, p. 65).
Il romanticismo e la macchina 49

Lo stato-macchina, che fa valere la sua potenza atomizzando e li­


vellando, distruggendo cioè la possibilità di riferirsi a gerarchie so­
ciali tradizionali (implicita invece nella libertà germanica) è, tanto in
Renan quanto in Burckhardt, il terreno privilegiato per il crescere
della democrazia materialistica: spezzando i vincoli della «devozio­
ne» che lega l’individuo a superiori realizzazioni ideali, lo lancia nel­
l’incessante mobilità dell’autoaffermazione solitaria, della «jouissan­
ce». Entro questa comune immagine di una società tesa all’america­
nismo circolano poi temi specifici, le cui risonanze sul giovane Nietz­
sche sono tutt’altro che secondarie. Così è per il problema dell’istru­
zione pubblica, in cui Renan e Burckhardt non sono che due voci
(ma la prima particolarmente ascoltata, anche per l’assiduità con cui
si era occupata del tema) in uno sterminato dibattito a livello euro­
peo che le vicende della Comune intensificano ancora di più. L’opi­
nione di Renan era, nel ’68, che il nodo della questione stava tutto
nello sviluppo dell’istruzione superiore come centro di formazione
dell’alta cultura:
L’insegnamento superiore è la fonte dell’insegnamento elementare. Sacri­
ficare il primo al secondo significa commettere un errore, andare contro lo
scopo che ci si propone. Un milione economizzato sull’alta cultura può arre­
stare del tutto il movimento intellettuale di un paese; dato all’istruzione ele­
mentare, questo milione avrà uno scarso effetto... Finché non si sarà distrut­
ta in Francia questa idea falsa che l’educazione serve solo per la posizione
sociale, solo per coltivare ed istruire il povero - ciò che significa far nascere
in lui bisogni e ambizioni impossibili da soddisfare - nulla sarà conquistato
in modo definitivo. La forza dell’istruzione popolare in Germania deriva dal­
la forza dell’istruzione superiore. E l’università che fa la scuola. Si è detto
che a Sadowa ha vinto il maestro elementare. No: a Sadowa ha vinto la scien­
za tedesca, la virtù tedesca, il protestantesimo. Hanno vinto Lutero, Kant,
Fichte, Hegel. L’istruzione del popolo è un effetto dell’alta cultura di certe
classi (OC I, p. 14).

Nella Préface alle Questions contemporaines era già formulata, in


modo sintetico ma non certo ambiguo, la strategia elitaria che Renan
esporrà distesamente nella Réforme e nei Dialogues philosophiques.
Proprio le pagine sull’istruzione pubblica rendono manifesta la tra­
sformazione che Renan aveva fatto subire alla sua teoria del progresso
come marcia divina dell’umanità. HéH'Avenir de la science il progres­
so coinvolge tendenzialmente l’intera umanità attraverso la diffusione
della cultura, l’educazione popolare, e si basa su una immagine fìdu-
50 II genio tiranno

dosa dell’espansione sodale della sdenza (capace di creare per le


masse simboli sostitutivi di quelli religiosi); nelle Questions contempo­
raines invece la prospettiva è rimpicciolita in una nozione di progres­
so come approssimazione all’ideale che riguarda i savants, la parte ari­
stocratica dell’umanità, diventa accumulazione e trasmissione elitarie
delle energie intellettuali. La dinamica progressiva nel suo complesso,
con gli effetti di libertà e mobilità che richiama, viene ora assorbita in­
teramente da Renan nella libertà dei savants. Essi sono i rappresen­
tanti di una estrema criticità di vertice che suppone l’illibertà delle
masse, chiuse in una prospettiva che oscilla tra l’ottuso materialismo
della jouissance e il sacrificio cieco ad un ideale per esse incomprensi­
bile. L’istruzione primaria è la prima a far le spese di questo progetto
di separazione radicale tra alta cultura e popolo. Essa corrisponde al­
l’illusione «che facendo balbettare qualche parola razionale all’essere
informe che la luce interiore non illumina, ne facciamo un uomo» (La
Réforme intellectuelle et morale de la France, OC I, p. 71) e dà voce
alle aspirazioni della «machine brutale», ne alimenta la «jalousie» de­
mocratica con spaventosi effetti sociali. Per il popolo, la via d’accesso
all’ideale, con il suo carattere socialmente coesivo perché suscitatore
dei «sacrifici» necessari all’opera comune, è assicurata ora dalla reli­
gione: una laicizzazione dell’insegnamento che diffonda socialmente i
risultati della scienza è pericolosa per l’homme de la foule, che non
può e non sa sostenere l’effetto critico e disgregatore della scienza
perché non possiede la dura disciplina ascetica del savant, quella che
consente di ricomporre l’elemento critico nella tensione all’ideale. E
in questo disegno di fondo, appunto, che vanno collocate le preoccu­
pazioni di Renan sull’avvenire religioso della società moderna disse­
minate nelle Questions contemporaines e nella Réforme. Anche
Burckhardt, con la sua enfasi sulla massificazione dei valori e sulla
perdita d ’intensità da parte della cultura a favore di una diffusione le­
gata all’accelerazione della vita dominata dal denaro, «la grande misu­
ra delle cose», vede nell’istruzione generalizzata un momento di cre­
scente appiattimento di valori che comporta mortali conseguenze. L’i­
struzione è uno dei veicoli attraverso cui la miseria cessa di essere
«politicamente muta», i bisogni indotti artificialmente aumentano, l’e­
goismo materialistico legato all’illusione del progresso realizza

lo spaventoso regno di questo mondo, l’ottimismo che straripa dappertut­


to, senza risparmiare nessuno, e raggiunge, in basso, anche gli operai, i quali
Il romanticismo e la macchina 51

vaneggiano di potersi conquistare un benessere assoluto e sproporzionato allo


stato generale della società23.

Burckhardt si muove in una prospettiva fortemente improntata a


Schopenhauer: così per il tema centrale del prevalere del godimento
materialistico dovuto al trionfo del «nefando ottimismo» che fa del
mondo «scopo a se stesso», e che per Burckhardt provoca lo scatena­
mento aperto degli egoismi individuali e di gruppo realizzando nella
società e nella storia la teoria darwiniana della lotta per l’esistenza.
Entro la comune visione dei destini della civiltà europea vi è una deci­
siva differenza di atteggiamento: quello che in Renan è percezione
della crisi come modificazione delle forme storiche in cui la teodicea
si realizza, aggiustamento di una filosofia della storia che mantiene la
sua volontà di intervento politico, nello schopenhaueriano
Burckhardt è ideologia della rassegnazione e del distacco, in cui il sal­
vataggio del patrimonio della cultura è realizzato in un ordine stretta-
mente spirituale, senza pretese di egemonia sul mondo. E tuttavia vi
sono implicate altre consonanze tematiche. Per i popoli incapaci di ri-
generazione morale, scriveva Renan,
tra cent’anni, non vi saranno che arditi avventurieri che giocano tra loro il
gioco sanguinoso delle guerre civili, e la marmaglia per applaudire il vincitore
del giorno. Le scene che accompagnavano i cambiamenti di regno nell’impe­
ro romano del I e del III secolo si ripeteranno... L’uomo coperto di sangue,
di perfidie e di crimini che tornerà vincitore dei suoi rivali sarà proclamato
salvatore della patria24.

23 Lettera a F. von Preen del 19 settembre 1875, in Carteggio Nietzsche-Burckhardt,


a cura di M. Montinari, Torino 1961, p. 117.
24 E. Renan, O C I, p. 28. L’aspetto qui accennato di una ripetizione di epoche tra­
scorse è probabilmente una ripresa dell’opera del Romieu Itère des Césars (Paris, 1850)
che aveva introdotto nella pubblicistica dell’epoca la categoria di cesarismo. A una vi­
sione progressiva della storia, espediente di retori, Romieu contrapponeva l’immagine
di un ciclo, «route étemelle que parcourent le générations» e al cui primo gradino l’E u­
ropa stava tornando. In questa operetta, che ci sembra avere avuto un certo peso sulle
meditazioni renaniane intorno agli anni ’70, Romieu interpretava il futuro cesarismo
come inevitabile ricorso alla brutalità della forza di fronte al dilagante materialismo:
«M asse minacciose si avanzano gridando: “Felici coloro che godono” e con questo
motto muovono all’assalto della società che glielo ha insegnato. Conoscete, contro que­
sta invasione, altro soccorso che non sia la forza?». «L ’unique pouvoir de la force» è l’e­
sito di un’epoca in cui la quiete politica e sociale delle masse è stata distrutta, soprattut­
to a causa del «désordre de notre éducation» dal prevalere della ragione sulla fede, uni­
ca sorgente di devozione ed attaccamento all’ideale.
52 II genio tiranno

Il pericolo di cesarismo come sbocco della sfrenatezza materialisti­


ca della società e delle convulsioni politiche che ne derivano era deli­
neato in Renan in connessione con la distruzione delle autorità tradi­
zionali da parte dello stato-macchina; come per Burckhardt poi, l’ap­
parato statale si trasforma in oggetto di conquista e strumento nelle
mani di avventurieri demagoghi. Un altro elemento di vicinanza a
Burckhardt sta nella tesi dell’incapacità da parte del governo che vie­
ne dal basso (e quindi anche delle forme cesaree della democrazia) di
assicurarsi una continuità dinastica.

3. ha «guerre savante»

E noto che la guerra franco-prussiana indurrà sempre più


Burckhardt a identificare futuro cesaristico e militarismo, a interpre­
tare il futuro nei termini di un assoggettamento dispotico della società
ad uno stato che si muova come sapiente macchina militare nel vuoto
nichilistico dei valori. Il cesarismo appare dunque come sussulto della
crisi che ne perpetua le tendenze nichilistiche completamente chiuse
dentro la logica schopenhaueriana dell’apparenza e dell’insensato
Streben delle volontà egoistiche, schiave dell’ottimismo e della conse­
guente ideologia del progresso. Alcuni aspetti della polemica di Scho­
penhauer verso lo statalismo hegeliano assumono, tramite la categoria
di cesarismo, una forma acuta, ed esprimono il timore che l’eticità
dello stato copra la pretesa di uniformare le altre «potenze» (religione
e cultura) al modello dello stato-macchina. In una celebre lettera a
Preen si legge:

Per lei... la cosa più interessante da osservare è come la macchina statale


e amministrativa sarà trasformata in senso militare; ... Io ho un presentimen­
to che suona ancora come pura follia e che tuttavia non mi lascia mai: lo sta­
to militare diventerà una grande impresa industriale. Quelle masse di uomini
nelle grandi officine non possono rimanere in eterno nel loro stato di biso­
gno e di avidità; un grado determinato di miseria con promozioni e in
uniforme, una vita giornaliera regolata dallo squillo della tromba saranno la
logica conseguenza25.

25 J. Burckhardt, Briefe, cit., Bd. V, pp. 160-161 (26 aprile 1872). Su questi aspetti
dell’ideologia di Burckhardt, cfr. K. Lowith, Significato e fine della storia, trad. it. di F.
Tedeschi Negri, Milano 1965, pp. 44 ss.
Il romanticismo e la macchina 53

Sulla base della macchina militare si viene dunque realizzando, per


Burckhardt, una regolazione dispotica degli egoismi individuali dove
la devozione alla totalità del soldato prussiano sostituisce la devozione
spontanea, non costretta dalle ruote della macchina, delle epoche di
cultura. L’attenzione critica di Burckhardt è rivolta all’utilizzazione
«americanistica» del tema romantico della comunità organica che na­
sconde il macchinismo dispotico in una falsa spontaneità. Anche da
qui deriva la diffidenza continua dello storico verso Wagner, attore
che domina sulle debolezze dell’epoca presentando illegittimamente i
suoi miti lontani dalla «spontaneità spirituale» come realizzazione
«dell’autentica anima del popolo»26. Vedremo poi l’importanza di
questo riferimento di Burckhardt. Intanto, la preziosa testimonianza
resaci dai Diari di Cosima ci mostra di continuo un Wagner teso, du­
rante la guerra, a sistemare gli eventi nei termini del suo disegno cul­
turale. Ma se in precedenza l’opera d ’arte portava in sé sola il caratte­
re di prefigurazione, la potenza unificatrice capace di far sorgere la
comunità nuova, ora la vittoria della Prussia è il segno e la prova di
una comunità tedesca già operante e funzionante. L’auspicato bom­
bardamento di Parigi, liberazione del mondo «dalla pressione di tutto
quanto è malvagio»27 realizza per proprio conto quella vittoria sulla
«sfacciata moda», il lusso e la corruzione della Zivilisation che spetta­
va prima all’arte, e ne prepara la conciliazione con la potenza materia­
le del Reich. La coralità, già prefigurazione della comunità del futuro,
diviene ora immediata trasfigurazione e sublimazione della potenza
guerriera:
Ieri R ichard] diceva, a proposito del corale che i nostri soldati cantavano
dopo le battaglie: se qualcuno mi domandasse, esiste un Dio? io gli risponde­
rei: Non lo senti? In questo momento, dove queste migliaia di uomini lo can­
tano, là vive Dio, là è presente28.

Il motivo romantico della comunità è pronto a trasferirsi per subli­


marlo, nell’organismo artificiale della macchina militare. Esso si ap­

26 J. Burckhardt, lettera a Preen del 31 dicembre 1872, in Carteggio Nietzsche-


Burckhardt, Appendice, cit., p. 119.
27 Die Tagebücher, cit., vol. I, p. 272 (18 settembre 1870); Wagner manifesta l’in­
tenzione di scrivere a Bismarck perché dia ordine di distruggere Parigi. In tal modo il
sogno anarchico giovanile di bruciare la sede della corruzione borghese, cambia netta­
mente di segno e cerca una potenza disposta a realizzarlo.
28 Ivi, p. 308 (2 novembre 1870).
54 II genio tiranno

propria così della virtù feudale di devozione, in antitesi allo spirito ri­
voluzionario francese.
Wagner contrappone ai «popoli romantici» accecati dalla rivolu­
zione francese e che attendono dalla realizzazione della repubblica la
«felicità in terra», l’assenza di illusioni del popolo tedesco. Con la fi­
gura dell’ufficiale prussiano che intende «il significato del sentimento
del dovere» quest’ultimo realizza una «comprensione più profonda»
del mondo29.
Le idee di Wagner non erano certo originali: si inserivano in un di­
battito sulla vittoria prussiana come conseguenza della superiorità di
un ordine sociale solidamente gerarchizzato rispetto a una società per­
petuamente ammalata di spirito rivoluzionario, che occuperà a lungo
intellettuali francesi e tedeschi30. L’esito della guerra e soprattutto la
Comune, alimentavano una discussione che, al di là delle argomenta­
zioni patriottiche, militari, strettamente politico-diplomatiche, concer­
neva trasformazioni profonde dei modelli di direzione sociale. In que­
sto dibattito, Renan poteva vantare un diritto di primogenitura.
Nelle Questions contemporaines l’esito vittorioso della guerra mo­
derna (in riferimento a Sadowa) diventa la pietra di paragone della vi­
talità di un assetto sociale:

L’apparizione improvvisa e trionfante della Germania nel campo della


grande battaglia europea ha ispirato l’idea di imitare le armi e le istituzioni
militari che hanno prodotto tanta superiorità... La guerra, essendo diventata
nei tempi moderni un problema scientifico e morale, un affare di devozione e
di industria scientifica, è un buon criterio di ciò che vale una razza... la vitto­
ria definitiva spetterà al popolo più istruito e più morale, intendendo per mo­
ralità la capacità di sacrificio, l’amore del dovere (OC I, pp. 23-24).

La guerre savante sarà il veicolo privilegiato dell’immagine di so­


cietà che Renan vagheggia in questi anni31. La superiorità militare del­
la Prussia è superiorità di un modello sociale che assume valore di te­
rapia per i mali della Francia e che dipende dalla raggiunta sintesi tra
modernità scientifico-industriale e struttura feudale ancien régime,
L’enorme dinamica della macchina militare (che è poi una metafora

29 Ivi, pp. 321-322 (9 dicembre 1870).


30 Su questo vedi almeno C. Digeon, ha crise allemande de la pensée française
(1870-1914), Paris 1959.
31 Su questo vedi R. Pozzi, G li intellettuali e il potere. Aspetti della cultura francese
dell'Ottocento, Bari 1979, p. 215.
Il romanticismo e la macchina 55

della società m oderna, com e dim ostra il paragone con gli «ou tillages
industrielles») dim ostra la capacità di direzione dell’élite scientifica,
m a dim ostra anche che il funzionam ento p resu p p o n e ingranaggi d o ci­
li, la cui autoafferm azione egoistica è com pletam ente sacrificata alla
«fe d eltà» alla «fu n zio n e»32. M a il carattere di docilità e devozione è
tipico della società d i ancien régime:

la guerra è essenzialmente una cosa di ancien régime. Essa suppone una


grande assenza di riflessione egoistica poiché, dopo la vittoria, quelli che più vi
hanno contribuito, cioè i morti, non ne godono; essa è il contrario di quella
mancanza di abnegazione, di quell’asprezza nel rivendicare i diritti individuali,
che è lo spirito della nostra democrazia moderna. Con tale spirito non c’è guer­
ra possibile. La democrazia è il dissolvente più forte dell’organizzazione milita­
re. L’organizzazione militare è fondata sulla disciplina; la democrazia è la nega­
zione della disciplina... La vittoria della Germania è stata la vittoria dell’uomo
disciplinato su chi non lo è, dell’uomo rispettoso, attento, metodico su chi non
lo è; è stata la vittoria della scienza e della ragione, ma nello stesso tempo la vit­
toria dell 'ancien régime, del principio che nega la sovranità popolare e il diritto
delle popolazioni a decidere delle loro sorti {La Réforme, OC I, p. 249).

32 In un articolo del settembre 7 2 sulla «Revue des deux mondes», De la manière


d’écrire l'histoire en Trance et en Allemagne depuis cinquante ans, che imputava alla
«scuola liberale» di aver costruito, in odio all’Impero, il mito di una «Germania sempre
laboriosa, virtuosa, intelligente», Fustel De Coulanges riprendeva questo legame tra
scienza e vittoria militare, disegnando la differenza tra storiografia francese e tedesca.
Mentre la prima è vincolata ad un patriottismo di tipo partitico, è animata da odio per
parti e classi della antica Francia, ed è perciò sempre costretta a rompere con la totalità
della tradizione, la scienza storica tedesca è «disciplina e vero patriottismo», e il lavoro
scientifico segue qui lo stile di funzionamento dell’esercito e della moderna civiltà indu­
striale, la disciplina cieca e il frazionamento obbediente dei compiti: «Con tali abitudini
e tali costumi scientifici, si capisce la potenza della scienza tedesca. Essa procede come
le armate della stessa nazione: è grazie all’ordine, all’unità di direzione, alla costanza de­
gli sforzi collettivi... che produce i suoi grandi effetti e vince le sue battaglie. La disci­
plina è qui meravigliosa... Ogni drappello ha il suo dovere, la sua parola d ’ordine, la
sua missione, il suo obiettivo. H grande piano d ’insieme è tracciato, ed ognuno ne ese­
gue una parte. Il piccolo lavoratore non sa sempre dove Io si conduca, e tuttavia segue
la strada indicata. Ci sono molto poca iniziativa e merito personale, ma nessuno sforzo
va perduto. Una volontà comune ed unica circola in questo gran corpo scientifico, che
ha un’unica vita e un’unica anima...» (F. de Coulanges, Questions contemporaines, Paris
19193, pp. 10-11). In tal modo, se la storia perde il suo carattere propriamente scientifi­
co, perché rinuncia in partenza a quel «fascino di perfetta imparzialità» che fa «la ca­
stità della storia», diventa però mezzo di governo, e arma di guerra. Soprattutto grazie
ad essa la Germania - e qui le osservazioni di Fustel de Coulanges sembrano toccare il
nodo di problemi che è anche quello del «germanesimo» della Réforme - ha sostituito
alla centralizzazione amministrativa, di tipo francese, una ben più potente ed efficace
«centralizzazione morale», strumento indispensabile di direzione della società moderna.
56 II genio tiranno

Per questo l’avvenire è delle «razze feudali, piene di forze vive in


riserva, che comprendono il dovere come Kant e per le quali la parola
rivoluzione non ha alcun significato» {ibidem). In questo senso la
Stimmung politica della Réforme è tutt’altro che una nostalgia di re­
staurazione di forme passate (anche se questo è l’aspetto più appari­
scente e quello che ha determinato la sua fortuna nei circoli legittimi­
sti e ne\YAction française).
Il tema romantico del popolo portatore di ingenue ed intatte virtù
non contaminate dal materialismo dell’etica borghese, è inserito nel
tema della macchina sociale in quanto funzione docile dell’ingranag­
gio artificiale e sfocia in una accettazione dell’americanismo discipli­
nato dalla struttura gerarchica dell’esercito.
3.
L’illusione e la musica

1. Wagner: forma e rivoluzione

Solo il Tristano sarà interessante per Lei, ma: giù gli


occhiali! Niente altro che l’orchestra Ella deve sentire.
Wagner a Nietzsche, 1872

La filosofia comincia come Xouverture del Don G io­


vanni, con un accordo in minore.
Arthur Schopenhauer

L’«analogia onirica» introdotta fin dalle prime pagine de La nascita


della tragedia libera una costellazione concettuale complessa, che so­
stiene la giovanile metafisica dell’artista. I concetti di estasi, visione,
mito, rapporto tra dionisiaco ed apollineo, musica e dramma, suono e
parola, hanno coerenza ed unità nel precisarsi di una teoria del sogno.
Non puramente metaforica è la dichiarazione che si legge in Zarathu­
stra sul giovanile periodo di oscuramento romantico - ma già pieno di
sotterranee tensioni verso una disaggregazione analitica del mito

Un tempo anche Zarathustra gettò la sua illusione [Wahn] al di là dell’uo­


mo, come tutti coloro che abitano un mondo dietro il mondo. E allora il
mondo mi sembrò l’opera di un dio sofferente e torturato.
Un sogno mi sembrò allora il mondo e l’invenzione poetica di un dio; il
fumo variopinto davanti agli occhi di un essere divinamente insoddisfatto
(Za, p. 30. Cfr. anche FP 1881-82, p. 326).

Nel lungo Frammento di una forma ampliata della Nascita della tra­
gedia l’antitesi tra sogno e vita desta è posta alla base della «nascita
del genio» come fenomeno fondamentale della vita ellenica:
Dopo quel che abbiamo notato sul significato preponderante del sogno
3.
L’illusione e la musica

1. Wagner: form a e rivoluzione

Solo il Tristano sarà interessante per Lei, ma: giù gli


occhiali! Niente altro che l’orchestra Ella deve sentire.
Wagner a Nietzsche, 1872

La filosofia comincia come Youverture del Don G io­


vanni, con un accordo in minore.
Arthur Schopenhauer

L’«analogia onirica» introdotta fin dalle prime pagine de La nascita


della tragedia libera una costellazione concettuale complessa, che so­
stiene la giovanile metafisica dell’artista. I concetti di estasi, visione,
mito, rapporto tra dionisiaco ed apollineo, musica e dramma, suono e
parola, hanno coerenza ed unità nel precisarsi di una teoria del sogno.
Non puramente metaforica è la dichiarazione che si legge in Zarathu­
stra sul giovanile periodo di oscuramento romantico - ma già pieno di
sotterranee tensioni verso una disaggregazione analitica del mito

Un tempo anche Zarathustra gettò la sua illusione [Wahn] al di là dell’uo­


mo, come tutti coloro che abitano un mondo dietro il mondo. E allora il
mondo mi sembrò l’opera di un dio sofferente e torturato.
Un sogno mi sembrò allora il mondo e l’invenzione poetica di un dio; il
fumo variopinto davanti agli occhi di un essere divinamente insoddisfatto
(Za, p. 30. Cfr. anche FP 1881-82, p. 326).

Nel lungo frammento di una forma ampliata della Nascita della tra­
gedia l’antitesi tra sogno e vita desta è posta alla base della «nascita
del genio» come fenomeno fondamentale della vita ellenica:

Dopo quel che abbiamo notato sul significato preponderante del sogno
58 II genio tiranno

per l’Uno originario, possiamo vedere tutta la vita desta del singolo uomo co­
me una preparazione al suo sogno; ora dobbiamo aggiungere che l ’intera vita
di sogno di molti uomini è a sua volta la preparazione del genio (NF 1869-
1872, pp. 348-349).

e di natura «completamente apollinea» è il genio «come l’uomo


non desto e solo sognante». Ma in un frammento dello stesso periodo
il ruolo determinante del Beethoven di Wagner per La nascita della
tragedia è sottolineato da più richiami espliciti, tra cui affiora, per
chiarire la natura dell’universo musicale e del suo rapporto con il
«mondo della visione», un richiamo alla «teoria schopenhaueriana del
sogno vero» (NF, p. 383). Se non lasciamo cadere questa rapida indi­
cazione, ci sarà forse possibile valutare la risonanza di Schopenhauer
e Wagner ne La nascita della tragedia (GT, p. 106), assumendo le di­
chiarazioni di Nietzsche nella loro letteralità, che indica un’autentica
filiazione concettuale, non solo l’allineamento in un comune fronte di
lotta culturale.
Nella lettera di risposta all’invio del Beethoven da parte di Wagner,
Nietzsche afferma che in quest’opera è espressa «la filosofia della mu­
sica», e così la accoglie:
Ma temo che ai critici dei nostri giorni lei apparirà come un sonnambulo
che non è consigliabile, anzi è pericoloso e soprattutto impossibile seguire.
Anche i conoscitori della filosofia di Schopenhauer, per la maggior parte non
saranno in grado di tradurre in concetti e sentimenti il profondo accordo tra i
Suoi pensieri e quelli del loro maestro. E così il Suo scritto è nello stesso tem­
po «edito e non edito», come dice Aristotele dei suoi scritti esoterici. Credo
che in questo caso il seguire il Suo pensiero sia possibile soltanto per colui al
quale si è dissuggellato più di ogni altra cosa il significato del Tristano (Episto­
lario II, pp. 150-151).

Nel Beethoven (1870) Wagner raccoglieva in modo sistematico gli


elementi di svolta nella sua concezione dei rapporti tra musica e
dramma dopo l’incontro con la filosofia di Schopenhauer. In Opera e
dramma (1851), come negli altri scritti teorici giovanili, la preoccupa­
zione centrale è quella di una rinascita del mito visto come essenziale
alla coerenza comunitaria, contro la corrotta Zivilisation e il dominio
nel mondo moderno dell’astrazione, del lusso e dell’«arbitrio» statale,
che piegano le arti alla loro innaturalità convenzionale, ne fanno «di­
strazioni» per lenire la miseria dello schilleriano uomo scisso. Il recu­
pero del mito, che raccoglie la necessità dell’inconscio conservato dal
Uillusione e la musica 59

popolo «sotto quel rigido manto di neve, che è la sua civilizzazione»1,


esige l’evocazione di un linguaggio vero, antagonistico a quello delle
arti separate, degradate a téchnai, e capace di restituire la «consonan­
za» sentimentale, necessaria espressione dell’inconscio naturale.
La meccanizzazione civilizzatoria dell’arte, che significa una degra­
dazione del carattere espressivo dell’immediatezza sentimentale a
«descrizione» del sentimento, è affrontata, ad es., in Opera e dramma
a proposito del passaggio dalla voce umana nel coro alle canne d ’or­
gano fino ai martelli del pianoforte. La degradazione espressiva fa
tutt’uno con la perdita della coesione comunitaria:

Ma come avvenne che il musicista si contentò, in fine, di un istrumento, che


non dà l’accentuazione del suono? Per nessun’altra ragione, che per fare della
musica tutt’affatto soli, da per sé, senza la cooperazione di alcuno (p. 150).

Il mito di Antigone, feuerbachianamente descritta come puro amo­


re dell’elemento generico, animata dalla «imperiosa necessità di an­
nientare se stessa per cagione di simpatia» (Opera e dramma, p. 236),
esprime la necessaria dissoluzione dello stato, la rinascita della comu­
nità vera contro la cattiva convenzione e l’arbitrio. In Antigone, a cui
poi Wagner accosterà la Elsa del Lohengrin, la distruzione dello stato
significa «cercare che la società abbia coscienza di ciò che vi è di inco­
sciente nella natura umana» (Opera e dramma, p. 241). La funzione
del dramma dell’avvenire nella costellazione di mito, popolo e arte,
Wagner la trova pienamente prefigurata nella tragedia greca. Essa tra­
scrive la liberazione di desiderio insita nella creazione popolare delle
figure mitiche in una forma di necessità, in «un’azione unica, necessa­
ria e decisiva». All’identica dinamica di fissazione della soddisfazione
del desiderio in forma necessitante e vincolante per la comunità, cor­
risponde il nesso tra testo drammatico e musica nel dramma dell’av­
venire: qui
Il fenomeno finalmente presentato [sulla scena] corrisponde alle aspetta­
zioni che il pezzo di musica preannunziativo ha esercitato in noi. In conse­
guenza, il fenomeno reale ci si presenta come un desiderio soddisfatto... L’or­
chestra esprime la stessa sensazione piena di attesa, la sensazione che ci domi­
na prima che l’opera appaia; ... essa dirige ed eccita la nostra sensazione,
straordinariamente tesa, convertendola in un presentimento, che un fenome­

1 Opera e dramma, trad. it. di L. Torchi, Torino, 1929, p. 325; d ’ora in poi cit. nel
testo come Opera e dramma.
60 II genio tiranno

no determinato e voluto di necessità deve infine soddisfare (Opera e dramma,


pp. 414-421).

Benché sia la fase in cui per l’opera d’arte è prevista una funzione
propulsiva per la rivoluzionaria necessità del cambiamento, fin da ora
essa realizza uno spazio sostitutivo dell’azione reale. A ciò cospirano la
richiesta di una «partecipazione attiva» dello spettatore alla formazio­
ne del dramma, di un atteggiamento «volenteroso» di concentrazione
che distolga l’attenzione dalle «sensazioni della vita ordinaria» e so­
prattutto il fatto che il dramma acquieta lo Streben individuale e rea­
lizza il desiderio nel «miracolo» di una formata pienezza comunitaria.
Proprio nell’analogia tra opera d ’arte e miracolo è trasparente la
forte dimensione onirica che Wagner già ora assegna alla funzione del
dramma. Ne L'essenza del cristianesimo, Feuerbach aveva definito il
miracolo un’oggettivazione dell’onnipotenza del desiderio umano,
«realizzazione di un desiderio che oltrepassa i limiti della natura», e
ne aveva visto la corrispondenza al sentimento nel fatto che appaga i
desideri «senza sforzo, senza lavoro». La credibilità del miracolo è le­
gata al suo linguaggio per immagini sensibili, che, escludendo l’inter­
vento razionale, ne mascherano la contraddizione. Erano tutti ele­
menti di caratterizzazione che Wagner trasferiva in Opera e dramma
per definire il miracolo dell’opera d ’arte. Soltanto l’esclusione dell’e­
lemento sovrannaturale tipico del miracolo «ebraico-cattolico» lo di­
stingue da questo. Nel miracolo di Wagner abbiamo quella sostituzio­
ne del modo ottativo con la contemplazione appagante di «immagini»
che definisce la trasformazione del lavoro onirico, e nulla ne riprodu­
ce la funzione meglio della definizione del sogno che Freud ci fa leg­
gere in Über den Traum:

Esso mostra il desiderio come già appagato, raffigura questo appagamento


come reale e presente, e il materiale della rappresentazione onirica consiste
prevalentemente - anche se non esclusivamente - in situazioni, in immagini
sensoriali per lo più visive2.

Già nel Lohengrin, la visione di Elsa che traduce in appagamento


nel «dolce sonno», con un atto di fede, la dissonanza del suo grido di
aiuto, diventa miracolo con la presenza del cavaliere che si impone
contro l’indagine razionale nell’immediatezza dell’epifania e mostra il

2 S. Freud, Il sogno , trad. it. E. Lusema, Torino 1975, p. 33.


U illusione e la musica 61

legame stretto tra soddisfazione onirica e miracolo3.


La tragedia greca rappresenta per Wagner un modello: in essa non
solo è negata l’arbitraria separazione delle arti, giacché vi opera «la
sublime idea poetica che le univa tutte in un centro per creare il
dramma, la più alta opera d’arte che si possa pensare»4, ma l’indivi­
duo ritrova immediatamente nell’eroe, nel dio che agisce sulla scena,
se stesso potenziato nella verità dell’elemento umano generico, veden­
do realizzata nel dramma la sua destinazione comunitaria. Il greco è
qui, con una significativa analogia organica, «uomo splendidamente
divino, vivente nella comunità come la comunità viveva in lui, una di
quelle mille fibre che nella vita unica della pianta sorgono dal terreno
e si slanciano nell’aria per produrre un unico fiore e diffondere il deli­
zioso profumo dell’eternità» (L’arte e la rivoluzione, p. 301). Grazie
alla chiarezza della parola di Apollo - dio della serenità e della misu­
ra, dio ordinatore per avere ucciso Pitone, il drago del caos - il poeta
tragico ispirato da Dioniso fìssa in una «perfetta espressione» la mo­
bilità sentimentale dello spettatore, coagula in «realtà» le tensioni del­
la fantasia desiderante (ivi, pp. 298-299). Il nesso di immagine mitica
e parola tragica allude dunque a una perfetta soddisfazione della vita
greca nella forma e nel limite, l’inclusione dell’individuo nella totalità
della specie. Ne L’opera d’arte dell’avvenire Wagner sviluppa, attraver­
so le metafore della inquieta profondità del mare e del rassicurante
navigare sotto costa proprie dei greci, il contrasto che Feuerbach ave­
va tematizzato tra paganesimo che riposa sul limite e la liberazione
cristiana del desiderio illimitato, che non si appaga in dèi finiti. L’indi­
viduo che si libera della mediazione del genere, proietta il suo Streben
in una cattiva e vuota infinità che non risolve la scissione e mette se
stesso a rischio del naufragio.
I cristiani - scrive W agner - ab b an d o n aro n o le rive della vita. E sp lo raro n o
i m ari p iù lontani all’infinito, b ram an d o essere soli su ll’ocean o e non vedere
altro che i cieli e le a c q u e ... C o n un a rab b ia d ’am ore fu riosa e in ap p ag ab ile i
cristiani sollevarono le p rofon d ità del m are contro il cielo in accessibile: sete

3 L’elemento miracolistico del Lohengrin sarà poi interpretato da Nietzsche nella


sua componente cristiana: «Il Lohengrin contiene una solenne messa al bando di ogni
indagine e di ogni domanda. Wagner rappresenta in tal modo il concetto cristiano “tu
devi e non puoi fare a meno di credere” . E un crimine contro l’Altissimo, contro il San­
tissimo, essere scientifici...» (WA, p. 12).
4 L’arte e la rivoluzione (1849), in R. Wagner, Ricordi battaglie visioni, cit., p. 299.
D ’ora avanti cit. nel testo come Harte e la rivoluzione.
62 II genio tiranno

inestinguibile d’un amore e d’un desiderio che dovevano amarsi e bramarsi


eternamente e senza una meta, abissi dell’inferno inesorabile d’un egoismo fe­
roce, che s’estende, brama e vuole all’infinito ma che non può eternamente
desiderare e volere se non se stesso5.

Il modello greco proietta una nostalgia della forma che si traduce in


progetto costruttivo. La riforma del dramma è una ricostituzione del
centro mitico in cui il «mare» dell’inconscio sonoro, che la musica ri­
flette nella sua natura femminile come «quantità infinita di possibilità
fluttuanti», si sottomette e si riconosce nella forma univoca della paro­
la necessaria, aderente al linguaggio originario6, non reso malato dalla
convenzionalità e dalla potenza dell’astrazione. La sua materia primiti­
va, nella «radice della parola», è la voce sonora, sentimento interno in­
corporato (espressione necessaria, cioè, dell’interiorità inconscia, del
«cuore»). Ad essa appartiene una magica capacità coattiva di mettere
in consonanza i sentimenti degli uomini secondo una modalità che
consente una comunicazione sentimentale diretta e «congiuntiva» al di
qua della estenuazione «descrittiva» della «lingua intellettuale» che se­
para e conferma la cattiva individualità. Un atto di tracotanza signorile
presiede, in Opera e dramma, alla scissione dell’unità. La simultaneità
di musica e poesia nel Volkslied che il Gesamtkunstwerk vuol ripro­
durre, è spezzata dall’ascolto del signore che sente i villani dalle stanze
del castello e del canto popolare rimane la melodia, mentre «le parole
si perdevano laggiù nell’eco lontana» (Opera e dramma, p. 55); è l’ini­
zio dell’aria d’opera, dove la melodia diventa «profumo», oggetto per
l’uso di lusso. Sotto il dominio della civilizzazione, in cui l’arte è degra­
data a divertimento o è il corrispettivo dell’arbitrio statale e conferma
la trasformazione del popolo in massa, si spinge agli estremi il processo
di decomposizione dell’opera d ’arte totale (la tragedia greca); le arti

5 Lopera d’arte dell’avvenire, trad. it. A. Cozzi, Milano 1963, pp. 66-67 (d’ora in
poi cit., come Lopera d’arte). Sulla metafora del «mare infinito» in cui ondeggia il senti­
mento liberato dal cristianesimo cfr. anche Una comunicazione ai miei amici (1851) in R.
Wagner, Gesammelte Schriften, IV, p. 291, dove è importante l’insistenza di Wagner sul­
l’impossibilità del cristianesimo di produrre miti: il carattere «cristiano-romantico» del
Lohengrin è una «esteriorità casuale» e l’opera, come pure L’Olandese volante, di cui
Wagner dichiara la filiazione dal mito di Ulisse, è in realtà una ripresa del mito antico, in
cui l’inconscio del genere fissa il proprio desiderio in figure determinate ed appaganti.
6 Si tratta del linguaggio in cui Adorno ha denunciato la presunzione di una re­
staurata parola dell’Essere: cfr. Th. W. Adorno, Versuch über Wagner, in Gesammelte
Schriften, 13, Frankfurt a.M. 1971, p. 56.
U illusione e la musica 63

seguono il destino del mondo frantumato dalla divisione del lavoro. La


musica si autonomizza e diviene, da tessuto connettivo delle arti, «ma­
re» che congiunge il continente mitico e quello poetico, «mare aperto»
delle possibilità da esplorare senza riferimento ad una necessità forma­
trice. Nel perfetto combaciare di destino della Zivilisation e destino
della musica moderna proposto nella prima parte di Opera e dramma,
vi è l’implicito programma, non di una restaurazione nostalgica della
sintesi primitiva, ma di un riassorbimento del campo di possibilità sen­
za centro rivelato dalle avventure della musica «assoluta»: «ogni ritor­
no all’antico, ovunque si manifesti, non è naturale, ma è soltanto artifi­
ciale» (Opera e dramma, p. 358).
L’inferno della Zivilisation è, contemporaneamente, apertura per il
desiderio e il sentimento di territori non più revocabili, che occorre
invece attraversare e dominare, come conferma l’inequivocabile di­
stinzione tra il decorso, pienamente asservito alla cattiva modernità,
da Rossini a Meyerbeer e il tentativo dell’orchestra di Berlioz di riag­
gregare la frantumazione in una unità «macchinale» da un lato, e dal­
l’altro il percorso da Mozart a Beethoven, punto di estrema crisi che
diventa nostalgia della nuova sintesi:

Le ali potenti del genio di Mozart avevano in realtà lasciate intatte le forme
dell’opera: egli non aveva fatto che dirigere in queste forme il torrente di fuo­
co della sua musica; ma esse erano tuttavia impotenti a contenere questo tor­
rente, per modo che egli le infranse e si versò là dove allargarsi e scorrere
sempre più libero, finché noi lo troviamo potentemente ingrossato e diventa­
to un mare immenso nelle sinfonie di Beethoven. Mentre la musica spiegava e
sviluppava la sua potenza smisurata nel campo delle specie strumentali pure,
quelle forme dell’opera restarono come muri arsi, come pareti nude e fredde
nel loro aspetto antico, aspettando il nuovo ospite che vi fissasse la sua fugge­
vole dimora (Opera e dramma, p. 53).

Beethoven è per Wagner il nuovo Colombo, colui che dopo aver


sperimentato tutti i limiti e le possibilità del mare della musica, sco­
prendo un nuovo mondo, ha richiuso la dispersione delle infinite pos­
sibilità in cui fluttua l’inconscio del desiderio, dando con la parola
schilleriana la risposta necessaria che è contemporaneamente il «nuo­
vo limite» che modera la «facoltà infinita». La profondità marina tro­
va nuovamente il sorriso della superficie:

Con forza gettò l’ancora, e quest’ancora fu la parola. Ma non quella parola


qualunque, insignificante che i cantori alla moda si ruminavano in bocca co­
64 11 genio tiranno

me semplice cartilagine del suono della voce; era la parola necessaria, onnipo­
tente, che tutto raccoglieva, ove la piena dei sentimenti che traboccavano dal
cuore poteva riversarsi intera, era il porto sicuro del viandante irrequieto, la
luce che irradia la notte del desiderio infinito, la parola che l’uomo del mon­
do, redento, cacciò dal cuore dell’universo, e che Beethoven pose come una
corona ai culmini della sua creazione. « Gioia!» era questa parola, e per essa
così gridava agli uomini: «Abbracciatevi, o milioni di esseri! Sia il bacio dell’in­
tero universo!» Questa parola sarà il linguaggio dell’opera d’arte dell’avvenire.
L’ultima sinfonia di Beethoven è la redenzione della musica dal suo ele­
mento più peculiare verso l’arte universale. E il vangelo umano dell’arte del­
l’avvenire. Dopo di essa non è più possibile alcun progresso, perché non può
seguirla immediatamente che l’opera più perfetta: il dramma universale, di cui
Beethoven ci ha fornito la chiave artistica (L’opera d’arte, pp. 80-81)7.

L’inno alla gioia nella nona sinfonia prefigura non solo l’opera
d ’arte dell’avvenire, ma anche la nuova comunità di uomini tragici de­
gni di tale opera, la cui pienezza di vita sia capace di sopportare la po­
tenza dell’espressione musicale, uomini di statura «tanto splendida
che i suoi ritmi melodici potessero trascinarli, ma non spezzarli» (L'o­
pera d’arte, p. 79).

2. Il «sogno vero». La filosofia della musica

Uno scenario teorico completamente modificato si presenta nel


Beethoven, in cui Wagner aveva riversato un primitivo progetto di rie­
saminare la natura della musica alla luce della filosofia di Scho­
penhauer8. È caratteristico che nel celebre passo in cui Wagner chiari­
sce il valore di svolta che la lettura di Schopenhauer assume nella sua
biografia politico-intellettuale, sottolinei con vigore la sua resistenza

7 Così in Opera e dramma, p. 353: « ... questa melodia, tal quale essa appare, è
precisamente quella, che dalla immensa profondità della musica di Beethoven si spinse
alla sua superficie, per salutare, nella IX sinfonia, la luce chiara del giorno ... Solamen­
te il verso del poeta era in grado di arrestarla a quella superficie, sulla quale essa, altri­
menti, si sarebbe manifestata sol come una fuggevole apparizione, per risommergersi
rapidamente, senza questo sostegno, nella profondità del mare». Cfr. anche L’opera
d’arte, p. 66 e il Rapporto sull’esecuzione della «Nona sinfonia» di Beethoven a Dresda
nel 1846 col relativo programma, in Ricordi battaglie visioni, cit., pp. 194-195.
8 Cfr. E. Newmann, The life o f Richard Wagner, vol. IV, Cambridge U.P., 1979, p.
135, e soprattutto C. v. Westernhagen, Wagner, trad. it. di M. Montanari, Milano 1977,
pp. 230 ss.
L’illusione e la musica 65

ad abbandonare il primato della «visione greca» («dalla quale avevo


guardato alla mia opera d’arte dell’avvenire»)9.
L’adesione alla filosofia di Schopenhauer implicava l’abbandono
dell’ottimismo come affermazione della volontà di vita, che però
Schopenhauer vedeva realizzata nel grado più alto proprio nel popolo
greco. Ne II mondo egli lo rende popolo affermatore per eccellenza
della volontà di vita, nella sua versione più naturale e spontanea (ad
esempio nell’«impetuoso ardore vitale» che induce i Greci ad adoma­
re i sepolcri di «gruppi voluttuosi»). Cadeva quindi l’antitesi, di origi­
ne feuerbachiana, tra la serenità e l’universalità greche e l’utilitarismo
ebraico: in entrambi i casi vale un atteggiamento ottimistico ed affer­
matore, anche se il popolo greco è esente da utilità, ed esprime un’af­
fermazione estetica della natura-volontà.
La frattura che Schopenhauer produce è interna alla stessa teoria
del Gesamtkunstwerk, poiché l’accezione schopenhaueriana della mu­
sica come oggettivazione diretta della volontà che rifiuta ogni media­
zione linguistica legata comunque al mondo fenomenico, ribadisce la
musica assoluta, spezza la subordinazione alla parola necessaria e re­
dentrice, e dunque la ragione stessa del primato greco, della perfezione
tragica. E quanto Nietzsche stesso ha indicato parlando della «assoluta
contraddizione teorica» tra il Wagner pre- e post-schopenhaueriano:
Quel che forse maggiormente ci sorprende è che da quel momento [1870]
modificò senza riguardi il suo giudizio sul valore e sulla posizione della musi­
ca stessa: che cosa gliene importava di aver fatto di essa, sino ad allora, un
mezzo, un medium, una «donna», la quale, per ben svilupparsi, aveva assolu­
tamente bisogno di uno scopo, di un uomo - vale a dire del dramma - ! Si re­
se improvvisamente conto che con la teoria e la innovazione schopenhaueria­
na c’era da fare qualcosa di più in majorem musicae glorìam, cioè con la sovra­
nità della musica, come la intendeva Schopenhauer: la musica, con un suo po­
sto a parte rispetto alle altre arti, l’arte indipendente in sé, che non già, come
queste, offre riproduzioni della fenomenalità, ma piuttosto parla la lingua del­
la volontà medesima, cavandola direttamente dall’«abisso» come la sua più
vera, più originaria e più diretta rivelazione (GM, p. 305).

Ma tale «contraddizione» è visibile anche nello sviluppo degli


scritti che portano a La nascita della tragedia e che ripercorrono l’iti­
nerario da Opera e dramma al Beethoven. Così, ne 11 dramma musicale

9 R. Wagner, Mein Leben, vol. II, hrsgb. v. M. Gregor-Dellin, München 1969, p.


522.
66 II genio tiranno

greco, Nietzsche si muove ancora sulle orme della prima teoria wagne­
riana dell’unità di musica e parola, e adducendone a modello «i nostri
canti popolari» scrive:

la vera musica greca in contrapposizione alla musica asiatica, che è pura­


mente strumentale, è unicamente musica vocale: il legame naturale tra lin­
guaggio parlato e linguaggio cantato non si era ancora infranto, e ciò è tanto
vero, che il poeta era necessariamente il compositore musicale della sua poe­
sia. I Greci non imparavano una poesia se non attraverso il canto: anche nel-
l’ascoltare essi sentivano la profondissima unità di parola e suono... noi tro­
viamo tollerabile anche il testo più assurdo, purché la musica sia bella: qual­
cosa del genere sarebbe sembrato ad un greco una vera barbarie10.

Ma ne II mondo come volontà e rappresentazione, l’alterità espressi­


va della musica rispetto al discorso concettuale è precisata anche co­
me capacità di produrre visioni e fantasmi (il «mondo di spiriti, che
direttamente ci parla»), mentre il compositore rivela l’intimo del
mondo operando nell’atmosfera di un sonno ipnotico «come una son­
nambula magnetica dà rivelazioni di cose delle quali da sveglia non ha
concetto alcuno» (Il mondo, p. 324)11. Nel Beethoven il tema della
musica come espressione diretta del cuore del mondo è soltanto uno
sfondo generale su cui si innesta, come suggestione teorica ben più
puntuale e pregnante, la dottrina schopenhaueriana del sogno e del
sonno dei Parerga. Facendola interamente propria12, Wagner può

10 GM D, pp. 21-22. Sulla radicale trasformazione del rapporto poesia-musica nel­


la teoria di Wagner, e sulla importanza della teoria schopenhaueriana del sogno per le
sue nuove formulazioni cfr. K. Kropfinger, Wagner und Beethoven. Untersuchungen zur
Beethoven-Rezeption R. Wagners, Regensburg 1975, pp. 149-156. Sul modificarsi degli
scritti nietzscheani che conducono alla Nascita della tragedia cfr. K.-D. Bruse, Die grie­
chische Tragödie als «Gesamtkunstwerk»-Anmerkungen zu den musikästetischen Re­
flexionen des frühen Nietzsche (relazione presentata al seminario internazionale di studi
Grundfragen der Nietzsche Forschung, Berlin 12-14 luglio 1982).
11 «Se quindi si vuol troppo adattare la musica alle parole, e modellarla sui fatti,
ella si sforza a parlare un linguaggio che non è il suo» (Il mondo, p. 326). «Datemi la
musica di Rossini, che parla senza parole», scrive nei Parerga, aggiungendo che «genui­
namente musicale» è proprio «il noncurante disprezzo con cui Rossini tratta il libret­
to». La voce umana è essenzialmente «suono modificato», e solo in via accidentale an­
che organo del linguaggio. Perciò «le parole sono e rimangono per la musica un acces­
sorio estraneo, di valore subordinato» (cfr. Supplementi, p. 548).
12 Come ha visto con precisione Ernst Bloch nella parte di Spirito dell’utopia su Fi­
losofia della musica-, «L a teoria del visionario di Wagner e di Schopenhauer ci dà la
chiave per scoprire come dietro a tutti i sogni viva ancora una sorta di intimissimo so­
gno verace, il cui inizio è legato al velarsi del volto e che permette l’apparizione delle
L’illusione e la musica 67

riformulare in termini radicalmente nuovi, e coerenti col primato del­


la musica assoluta, l’unità del Gesamtkunstwerk. La voce umana della
nona sinfonia non sosdene più la parola necessaria e subordinatrice,
ma è continuazione della musica con altri mezzi, «musica vocale»:
In verità all’entrata della voce umana, non siamo presi dal significato della
parola ma dal carattere di questa voce... E evidente che le parole di Schiller
sono aggiunte in qualche modo, e neanche molto abilmente, alla melodia
principale: questa melodia, infatti, si è svolta in tutta la sua ampiezza da sola,
eseguita da soli strumenti, e ci ha infuso l’ineffabile commozione della gioia
per la riconquista del paradiso13.

L’unità dell’opera d ’arte totale si ricostituisce ora a partire dalla


musica, grazie alla sua capacità di produrre visioni. Su queste si basa
l’intimità di musica e dramma. Shakespeare esprime in altro modo,
«come visionario ed evocatore di spiriti», la stessa trama di visioni
oniriche; sulla scena agiscono fantasmi ed immagini che, come il suo­
no, sono materializzazione diretta della volontà. Se il territorio poeti­
co e quello musicale sono scissi dalle «condizioni formali» della loro
appercezione, «la più perfetta forma d ’arte [il Gesamtkunstwerk] do­
vrebbe quindi nascere partendo dal punto limite dove quelle leggi po­
tessero toccarsi (Beethoven, p. 274). Vedremo più avanti come l’assi­
milazione della musica al «sogno vero» e del dramma al sogno mattu­
tino (in connessione alla riflessione schopenhaueriana) chiarisca ulte­
riormente questi temi. La parola comunque assume ora un ruolo ines­
senziale rispetto alla visione, e Wagner applica all’arte drammatica di
Shakespeare lo stesso che accadeva, secondo Schopenhauer, alla son­
nambula di Bendsen e alla veggente di Prevorst: la «creatività dram­
matica della veggente» è accentrata nella purezza visionaria ed evoca­
tiva, mentre i «dialoghi» e gli «intrecci» sono una sovrapposizione
inautentica che appartiene all’ordine della accidentalità storica e per­

forine spettrali nel più remoto sfondo del mondo onirico interiore» (Spirito dell’utopia,
trad. it. di V. Bettolini e R. Coppellotti, Firenze 1980, p. 165). Ma l’opera di Bloch è in­
comprensibile se non si vede la continua utilizzazione in chiave utopica di temi teorici
wagneriani (ripresi fin nelle analisi particolari) e soprattutto del Beethoven. La prefe­
renza accordata da Bloch al Wagner «interiore» e visionario spiega la valorizzazione del
Tristano e del Parsifal nei confronti della «torbida ferinità» d Æ Anello.
13 Beethoven (1870), in Ricordi battaglie visioni, p. 267 (d’ora in poi cit. come
Beethoven). Ugualmente a proposito della Messa Solenne: «Le voci del canto vi sono
trattate esattamente come strumenti umani nel senso che Schopenhauer attribuiva loro
giustamente» (p. 269).
68 II genio tiranno

sonale (Parerga, p. 393). Nella Lettera a Heinrich von Stein, del gen­
naio 1883, Wagner tornava ancora sullo Shakespeare veggente, dal cui
«sublime silenzio» prende le mosse «il dramma inteso alla nostra ma­
niera», definendosi come terso riflesso della «silenziosa interiorità».
Qui la eliminazione della parola, nella sua dimensione descrittiva e
rumorosa, adeguata soltanto ad esprimere le Anschauungen equipara­
te alle Meinungen, i punti di vista della pubblica opinione, linguaggio
delle apparenze del theatrum mundi, è drastica. Chi veramente «ve­
de» non può parlare, ed unicamente il «silenzio veggente ... fa germi­
nare la forza di rappresentare ciò che è stato visto» (Gesammelte Sch­
riften, X, p. 319).
Ma è un aspetto che, strettamente connesso al Tristano e alla medi­
tazione su Schopenhauer, compare almeno fin dal ’59. In una lettera
alla Wesendonck del 19 gennaio di quell’anno, il «chiaroveggente» si
sottrae alla follia nel silenzio; e alla stessa, il 21 dicembre 1861:
Ho l’occhio soltanto per distinguere il giorno dalla notte, la luce dall’oscu­
rità. Per quanto riguarda i rapporti con l’esterno, è proprio la morte: io vedo
soltanto immagini interiori, e solo queste reclamano il suono14.

L’adesione ai temi schopenhaueriani (in particolare l’enfasi sull’in­


teriorità cristiana) comporta ora la valorizzazione crescente della mu­
sica religiosa - e soprattutto le Grandi Passioni di Bach - che accom­
pagna il rito sacro15. Essa sfocia nelle dichiarazioni di Religione e arte,
secondo le quali non la pittura, capace di illustrare solo le allegorie
del dogma cristiano, né la poesia, prigioniera del linguaggio che
«esprimendosi per mezzo dei concetti» corrisponde all’irrigidimento
dogmatico della fede interiore, ma

Unicamente grazie alla musica il lirismo cristiano divenne arte autentica: la


musica religiosa fu cantata sulle parole del concetto dogmatico; ma nella sua
azione essa dissolveva tali parole, così come sono fissate dai concetti, in modo
da renderle inintelligibili, e comunicava quasi esclusivamente il contenuto
emotivo puro al sentimento entusiasmato (Gesammelte Schriften, X, p. 221).

14 Richard Wagner an Mathilde Wesendonck. Tagebuchblätter und Briefe (1853-71),


Berlin 190418, p. 289.
15 Sul cristianesimo che ridà vita aH’«anima della musica» cfr. Beethoven, pp. 286-
287. Sulla valorizzazione di Bach in questo periodo cfr. Curt v. Westemhagen, Wagner,
cit., pp. 628-629, che utilizza in questo caso i Viari di Cosima e soprattutto P. Wapnew-
ski, Der traurige Gott. Richard Wagner in seinen Helden, München 19822, pp. 250 ss.
ILillusione e la musica 69

L’importante osservazione di Thomas Mann e di Leo Spitzer, che il


richiamo wagneriano al Volkslied come origine normativa dell’opera
totale sia del tutto sviarne, poiché essa rimanda in realtà al modello
del dramma liturgico16, trova un esatto riferimento nella seconda fase
della teoria di Wagner. La soppressione del linguaggio descrittivo-
concettuale delle parole comporta ora un accentuato primato (e non
solo in sede teorica) dei modelli liturgici e rituali come superficie
espressiva dell’inconscio. Assistiamo cioè alla dilatazione del tema, già
presente in Opera e dramma, dell’accompagnamento gestuale del suo­
no, a cui poi Nietzsche dedicherà una particolare attenzione per dis­
sezionare criticamente e geneticamente l’immediatezza «magica» del
complesso mitico-rituale del «dominio» wagneriano.
Ma al di là dell’invenzione scenica e gestuale del linguaggio del ri­
to, che incontra sempre un ostacolo di ineliminabile materialità, in
Wagner rimane l’ideale di una paradossale purezza espressiva, esclusi­
vamente affidata alla visione che germina direttamente dal suono:

quando penso che queste figure, come Kundry, dovranno venire imbacuc­
cate, mi vengono subito in mente le repellenti feste artistiche; dopo aver crea­
to l’orchestra invisibile, vorrei scoprire anche il teatro invisibile!17

È un tema che si esprime anche nella tensione nichilistica sottesa


alla categoria di «redenzione» nell’ultimo Wagner. Quando Parsifal
interrompe l’incanto di Klingsor su cui poggia la fantasmagoria del
mondo, il castello «sprofonda» con tutte le apparenze dell’«inganne-
vole splendore». Così nell’ultima pagina de II Mondo come volontà e

16 L. Spitzer, Harmonia del mondo. Storia semantica di un’idea, trad. it. di V. Poggi,
Bologna 1967, pp. 215-217, con il richiamo a Mann.
17 Die Tagebücher, vol. II, p. 181 (23 set. 1878). Nella sua lettura di Wagner, Mal­
larmé aveva avanzato l’immagine di un teatro ideale, senza attori e senza scene, che vie­
ne in tal modo a confondersi con il libro (cfr. G. Macchia, Baudelaire critico, Firenze
1939, p. 273). L’amico Andrea Zambrini ha richiamato la nostra attenzione sulla centra­
lità di questo aspetto nei Commentari di Boulez alla messa in scena del Siegfried, dove
la richiesta di Wagner viene individuata in una eccedenza della immaginazione dello
spettatore rispetto alla «rappresentazione materiale»: «Riunire così nella stessa rappre­
sentazione il teatro immaginario e la drammatizzazione visiva è uno dei problemi prin­
cipali dell’opera, e più specificamente del dramma wagneriano... Più si va avanti nel
dramma, più la struttura musicale è serrata, densa; più essa si basa su una rigorosa or­
ganizzazione dei motivi musicali, con l’esclusione, quasi, dei motivi secondari o aned­
dotici, e più l’ equivalente scenico diventa difficile, perfino impossibile» (P. Boulez-P.
Chéreau, Commentaires sur «Mythologie et idéologie», Bayreuth 1977).
70 II genio tiranno

rappresentazione la soppressione della volontà dissolve la realtà la­


sciandoci di fronte «il vacuo nulla»18. Ma inoltre, nell’ultimo Wagner,
alla purezza espressiva di suono-visione ci si approssima attivamente
attraverso tecniche sceniche che tendono all’annichilimento della
realtà sensibile e che si fondano su rilevati presupposti filosofici. Wa­
gner ha sottolineato l’importanza della «drammaturgia scenica» per
creare l’effetto del sogno, in cui i legami fenomenici di tempo e spazio
possono essere spezzati. In concomitanza con il cambiamento a vista
della scena nel primo atto, Gumemanz spiega a Parsifal, che ha l’im­
pressione di muoversi appena e tuttavia di aver percorso un lungo
tratto di cammino: «Tu vedi, figlio mio / qui il tempo diventa spazio»
(w. 327-328). L’espediente del cambiamento di scena a vista, pratica­
to a Parigi per ottenere effetti naturalistici19, è invece subordinato da
Wagner all’illusione onirica:
Sotto l’impressione della musica che accompagnava il cambiamento di
scena, dovevamo essere guidati, come nel rapimento del sogno, e solo per
gradi insensibili, attraverso vie non tracciate, verso il castello del Graal. In tal
modo, la leggendaria irreperibilità, per il non predestinato, dei sentieri, passa­
va nel dominio della rappresentazione drammatica20.
La lezione di Hoffmann, che alla cooperazione «magica» di poeta
e musicista per estrarre lo spettatore dal mondo reale verso la «prov­
videnziale illusione» contrapponeva i pericoli di disillusione estra­
niarne sempre connessi alla visibilità delle macchine scenografiche,
ma ancor più era attenta all’«impiego di macchine dagli effetti inspie­
gabili, addirittura magici»21, si unisce ora in Wagner alla sospensione

18 Anche lo «sprofondare» nel Canto di morte di Isotta rimanda a una estetizza-


zione del nichilismo che Wagner ha sottolineato nella citata Lettera a Steitr. «Se siamo
determinati a sparire con tutto quello che esiste, vogliamo anche riconoscere in questa
sparizione un fine, e lo collochiamo nella dignità e bellezza di tale sparizione» (Gesam­
melte Schriften, cit., vol. X , p. 320).
19 Cfr. E. Newman, Le opere di Wagner, trad. it. D. Spini, Milano 1981, p. 752, che
riporta al proposito una testimonianza di Börne. Le parole di Gumemanz sono com­
mentate da Nietzsche in un frammento dell’estate 1878 come «Profondità applicata ad
una frase oscura ma magniloquente di Wagner» (p. 317).
20 Das Bühnenweihfestspiel in Bayreuth 1882, in Gesammelte Schriften, cit., vol. X,
p. 305. Su questo cfr. P. Wapnewski, Der traurige Gott, cit., pp. 211 ss., che però identi­
fica la fonte di Wagner in alcune osservazioni dei Frammenti di Novalis sul tempo e lo
spazio.
21 E.T.A. Hoffmann, I l macchinista perfetto, nei Vezzi di fantasia alla maniera di
Callot, in Romanzi e racconti, a cura di C. Pinelli, vol. I, Torino 1969, p. 52.
L’illusione e la musica 11

schopenhaueriana del mondo dell’apparenza. Il tema di Hoffmann,


perfettamente congeniale a Wagner, non è quello di una eliminazione
delle macchine, ma di un loro uso magico subordinato alla «organi­
cità» della creazione poetica, in cui scompaia del tutto la loro visibi­
lità22. Das Bühnenweihfestpiel in Bayreuth continua infatti indicando
il pericolo maggiore in un non perfetto nascondimento della macchi-
nalità subordinata entro l’incanto onirico dell’opera d’arte, e che (co­
me in Hoffmann la corda che il macchinista distratto fa inaspettata­
mente penzolare sulla scena) può produrre una «distrazione» causata
dall’«attesa per il cambiamento di scena», dunque per il procedimen­
to tecnico in sé. In questo testo Wagner ripropone ciò che in sede po­
litica aveva valorizzato fin dal 7 0 a ridosso della guerra franco-prus­
siana, come totale devozione dell’uomo-ingranaggio alla totalità, al
genio che esprime la compattezza «organica» della comunità utiliz­
zandone e nascondendone il funzionamento meccanico. Lo Zauber
del creatore può coinvolgere lo spettatore a patto di disporre della
«massima abnegazione» e devozione allo «scopo superiore» da parte
dei collaboratori subordinati (macchinisti di scena ecc.), che in quel­
l’incanto riconoscono la loro realizzazione rinunciando all’autonomia
del lavoro servile.
Quest’atteggiamento viene accettato e sublimato come necessario
alla costituzione geniale della nuova comunità dal giovane Nietzsche,
allorché valorizza nelle Conferenze il ruolo magico e demiurgico del
«vero genio» che solleva l’automaticità e la ripetitività del gesto servi­

22 II problema della presenza di Hoffmann nell’opera teorica di Wagner, che solo


in parte è stato affrontato dalla critica, non può essere qui neppure accennato. Credia­
mo che esso andrebbe indagato proprio a partire dal nesso desiderio-sogno-realizzazio­
ne musicale. Ci limitiamo a ricordare, entro il tema delle macchine, che la stessa figura
hoffmanniana del musicista-mago è stata pienamente accolta da Wagner. D mago è for­
nito di un potere magnetico di comunicazione (dai Diari di Cosima sappiamo che II
magnetizzatore è una delle novelle che più hanno impressionato Wagner, fin da giova­
nissimo) e la sua attività si presenta come un’enorme potenziamento dell’inconscio na­
turale che usa le macchine, l’artificialità meccanica, stravolgendone l’uso al servizio
dell’«organico»-spontaneo. Il tema hoffmanniano della musica come suscitatrice di «vi­
sioni», e della sinestesia, è alla base dell’interpretazione che Baudelaire dà di Wagner.
«Nessun musicista eccelle, come Wagner, nel dipingere lo spazio e la profondità, mate­
riali e spirituali... Egli possiede l’arte di tradurre con gradazioni sottili tutto quanto vi è
di eccessivo, immenso, ambizioso, nell’uomo naturale. Sembra talora, ascoltando que­
sta musica ardente e dispotica, di ritrovar dipinte su un fondale di tenebre, strappate
dalla rêverie, le concezioni vertiginose dell’oppio» (Richard Wagner et «Tannhäuser», in
Œuvres complètes, Paris 1964, p. 1214).
72 II genio tiranno

le (i suonatori d ’orchestra) in un’operazione piena di senso perché in­


serita in una totalità:

Sembrerà quasi che per una fulminea trasmigrazione delle anime questo
genio sia entrato in tutti quei corpi semi-animaleschi, e che ormai guardino
attraverso un unico occhio demonico... Se considerate ora nuovamente l’or­
chestra sublimemente tumultuosa o intimamente lamentosa, se in ogni suo
muscolo indovinate un’agile tensione e in ogni suo gesto una necessità ritmi­
ca, sentirete allora anche voi che cosa sia un’armonia prestabilita fra colui che
guida e coloro che sono guidati, e comprenderete che nell’ordinamento degli
spiriti tutto tende a costruire una siffatta organizzazione (BA, p. 206).

Ne ha visione dionisiaca del mondo Nietzsche si richiama all’uso


delle macchine teatrali vedendovi il mezzo per creare la parvenza che
non viene goduta per se stessa dallo spettatore tragico, ma che, sim­
bolica della verità, porta in sé «una certa indifferenza verso l’illusione
(Schein)»:

La verità viene ora simboleggiata, si serve dell’illusione, può e deve quindi


usare le arti delPillusione. Già qui si rivela, tuttavia, una grande differenza ri­
spetto all’arte precedente: ora i mezzi artistici dell’illusione sono chiamati in
aiuto tutti assieme, e la statua cammina, gli apparati scenici dipinti si sposta­
no, e con lo stesso sfondo scenico viene presentato di fronte agli occhi ora il
palazzo ora il tempio (DW, p. 69).

La scena diviene ora il «regno del miracolo» grazie all’effetto magi­


co della musica che depotenzia la forza della parvenza a simbolo.
Lo scritto wagneriano dell’82 conferma la continuità dell’attribu­
zione di un carattere eccezionale, sacrale, al musicista, per produrre
un allontanamento dal mondo fenomenico, dell’inganno, non risolto
in puro nichilismo:

Del resto, il Parsifal stesso doveva solo alla fuga da questo mondo la sua
origine e la sua vita! Chi potrebbe per tutta una vita guardare con sensi aperti
e libero cuore a questo mondo di delitti e di rapine organizzate legalizzate
dalla menzogna, dall’inganno e dall’ipocrisia senza distogliersi da esso, a trat­
ti, con disgusto pieno d’orrore? Dove va allora il suo sguardo? Il più delle
volte alla profondità della morte. Ma a chi per diversa vocazione è stato scelto
ed isolato dal destino, sembra invece che la più veritiera immagine del mondo
stesso sia Fammonimento della sua anima più intima, che gli profetizza la re­
denzione. Dimenticare davanti a questa immagine, che è come un sogno vero,
questo mondo reale di menzogna, sembra essere allora la ricompensa della
LIillusione e la musica 73

sincerità piena di dolore con cui egli ha riconosciuto che questo mondo è pie­
no di disperazione (Das Bühnenweihfestspiel, cit., p. 307).

Era il perno attorno a cui ruotava il Beethoven. Ancora, in quest’ul­


timo scritto, è fortissima la presenza di Hoffmann, proprio nella pre­
sentazione dell’attività del musicista come attività di un veggente, evo­
catore di «spiriti» e «visioni». Il carattere schiettamente «romantico»
di Beethoven che può esprimersi solo nella musica strumentale, men­
tre la sua «non altrettanto felice riuscita nella musica vocale» denuncia
l’inadeguatezza della parola (che delimita «affetti precisi») ad espri­
mere «sensazioni indefinite»; il Beethoven che come Mozart ci condu­
ce nel «regno degli spiriti»23, ma più di Mozart traduce in «gigante­
sche immagini fluttuanti» e redime nella «estasi della veggenza» la pe­
na del mondo; infine il parallelo cogente tra visionarietà di Shakespea­
re e quella di Beethoven, sono tutti elementi hoffmanniani che diven­
tano costitutivi del discorso di Wagner la cui presentazione di Beetho­
ven culmina nel paragone con Tiresia, «il veggente accecato»:
A Tiresia, cui si è chiuso il mondo dei fenomeni, cui però l’occhio interio­
re rivela il fondamento di tutti i fenomeni, assomiglia ora il musicista sordo
che, senza essere frastornato dai rumori della vita, ascolta soltanto le armonie
della mente e dalle sue profondità parla soltanto a quel mondo che... non ha
più niente da dirgli. Così il genio è liberato da tutto quanto è fuori di lui, così
è tutto presente a se stesso. Chi avesse veduto allora Beethoven con lo sguar­
do di Tiresia, avrebbe scorto un miracolo: un mondo aggirantesi tra uomini, il
mondo fattosi uomo! (Beethoven, p. 257).

E ora l’occhio del musicista s’illumina dall’interno (Beethoven, p.


257). Il musicista è capace del «sogno vero»: la sua attività è essenzial­
mente onirico-visionaria. Se anche su questo sono visibili influssi pun­
tuali di Hoffmann, il supporto filosofico è offerto invece dal Saggio
sulle visioni di spiriti e su quanto vi è connesso dei Parerga, da cui pure
è totalmente assente il tema della musica, e in cui sfocia la costante at­
tenzione di Schopenhauer per i fenomeni del magnetismo animale.
Esso appare a Schopenhauer - con un termine che è tolto dalle inten­
se discussioni romantiche sull’argomento —come una possibile «meta­
fisica sperimentale» che dimostra l’azione della volontà al di là delle
condizioni di spazio, tempo e causalità (mentre, d ’altro canto, egli

25 E.T.A. Hoffmann, Kriesleriana, in Romanzi, cit., p. 273; cfr. anche la recensione


alla V sinfonia, in Schriften zur Musik, Darmstadt 1968, soprattutto pp. 36 ss.
74 II genio tiranno

sottolinea con enfasi particolare che solo la metafisica della volontà


esposta nel Mondo può dissipare razionalmente il mistero del magne­
tismo)24. Le pagine dei Parerga riconducono l’intera costellazione dei
fenomeni legati al magnetismo, il sonno ipnotico, il sonnambulismo,
le apparizioni di spiriti, la mantica al fondamento di una fisiologia del
sogno. Così, anzitutto, la caratteristica primaria dell’esperienza visio-

24 «Il magnetismo animale... è la metafisica empirica o sperimentale. Poiché inol­


tre nel magnetismo animale si manifesta la Volontà come cosa in sé, vediamo subito va­
nificato il principium individuationis (spazio e tempo) che si riferisce alla pura e sempli­
ce esperienza; le sue barriere, che separano gli individui, vengono spezzate: fra magne­
tizzatore e sonnambula lo spazio non costituisce in alcun modo separazione, si stabili­
sce una comunione dei pensieri e dei movimenti della volontà: lo stato di chiaroveggen­
za mette l’individuo fuori e al di sopra dei rapporti che appartengono alla semplice fe­
nomenalità, determinati da spazio e tempo, ossia vicinanza e lontananza, passato e futu­
ro» (La Volontà nella Natura, trad. it. di I. Vecchiotti, Bari 1973, p. 160. Cfr. anche p.
168 e Parerga, p. 386). Nei frammenti postumi dell’estate 1878, Nietzsche, prendendo
partito per lo Schopenhauer «volterriano» contro il metafisico, vede tra i suoi effetti ne­
gativi: «la scienza più pura sporcata dallo spiritismo - storie di spettri; - crede nei mira­
coli come la signora W lagner]...» (p. 300). Gli appunti del luglio 1870 sul Braune Buch
dal titolo Beethoven und die deutsche Nation confermano la dipendenza dalla teoria
schopenhaueriana del sogno. Qui però Wagner si appoggia sullo Schopenhauer de II
mondo, e ancora non si sofferma sulla connessione di sogno, visionarietà e comunica­
zione magica che i Parerga rendono invece esplicita né su quella di musica e dramma su
tale base. Il «punto di partenza» è la distinzione tra coscienza «rivolta all’esterno» e co­
scienza «rivolta all’interno»: «E a partire da questa seconda che il musicista crea. Gran­
de diversità. Teoria del sogno (lato diumo-Goethe. Lato notturno-Beethoven). Signifi­
cato del sogno. Musica [è] l’immagine immediata del sogno. La forza più intima di cui
inconsapevolmente si nutrivano i nostri poeti, che divinavano e cercavano di spiegare.
Immediatamente creatrice in Beethoven» (Das braune Buch, cit., p. 210). L’equivalenza
tra filosofia schopenhaueriana e musica di Beethoven («Beet = Schop: la sua musica tra­
sferita in concetti darebbe questa filosofia») ha il suo riferimento nel capitolo dei Sup­
plementi: Sulla metafisica della musica dove (e attraverso una citazione quasi letterale
della già ricordata recensione di Hoffmann alla V sinfonia) le sinfonie di Beethoven
vengono descritte come compresenza di tumulto ed ordine, lotta e pacificazione, rerum
concordia discors che ci dà «un’immagine fedele e perfetta dell’essenza del mondo» che
si conserva immutabile entro la produzione e distruzione incessanti delle sue innumere­
voli figure: «ne è la semplice forma, senza sostanza, come un semplice mondo di spiriti,
senza materia» (ivi, p. 551). In polemica con il formalismo di Hanslick, il bello musicale
(ma artistico in genere) viene qui relativizzato da Wagner come funzione del sublime:
«L ’effetto della musica è sempre quello del sublime: ma la sua forma quella della bellez­
za, cioè anzitutto liberazione dell’individuo dalla rappresentazione di ogni causalità». Il
bello musicale è la redenzione in «gioco» del sublime, e quest’ultimo è suscitato dal ter­
rore del contatto col mondo interiore; il suo effetto è la «condizione per l’ingresso del­
l’effetto autentico dell’opera d’arte, cioè del sublime». Sciolto dalla relazione col subli­
me, il bello resta pura «Spielerei», giocosità frivola alla maniera francese e italiana:
«N on da Elena, ma da Grätchen Faust viene redento».
L ’illusione e la musica 75

naria, che «è semplicemente la presenza di una immagine nel suo in­


telletto intuente, indistinguibile dall’immagine che ivi è determinata,
attraverso la mediazione della luce e dei suoi occhi, da corpi esterni, e
tutto ciò senza la presenza reale di tali corpi» (Parerga, p. 295), è co­
stitutiva anche di quel «fenomeno alla portata di tutti» che è il sogno.
Esso mostra come «realmente possano sorgere nel nostro intelletto in­
tuente, ossia nel nostro cervello, delle immagini perfettamente uguali
e indistinguibili rispetto a quelle ivi determinate dalla presenza, agen­
te sui sensi esterni, dei corpi, senza peraltro che quest’ultimo influsso
sussista» (ivi, p. 298). Restrizione estrema del campo della coscienza
desta dotata di memoria, e in questo simile alla follia, «breve pazzia»,
il sogno è inoltre un’esperienza eterogenea all’associazione di pensieri
con le rappresentazioni della veglia. Con l’interruzione delle normali
funzioni animali, nel sonno la forza vitale si concentra nella «vita or­
ganica», e si ripiega su se stessa sospendendo i legami col mondo
esterno, per rigenerare il proprio patrimonio di energie. Scho­
penhauer accoglie da Bichat la distinzione tra funzioni organiche ed
animali, e ad essa equipara quella tra intelletto e volontà; l’interruzio­
ne delle seconde significa dunque una perdita dell’individuazione.
L’enigma dell’attività onirica è riferito al prevalere del sistema nervoso
del gran simpatico, o «sistema nervoso interno», non avvertibile du­
rante la veglia per il dominio del «sistema nervoso esterno» (il cervel­
lo rivolto al mondo), così da restare «tutt’al più un influsso segreto o
inconscio» (Parerga, p. 322). Q uando il cervello è «in una pace
profonda» le «figure di sogno», le «immagini», obbediscono al preva­
lere di questo «eccitamento dall’interno». Nelle pagine di Scho­
penhauer è costante il riferimento (certo sulla scia delle idee di Caba­
nis sulle «impressioni interne» nel sogno e nel delirio, che rivelano,
non rettificate dal contatto con la realtà esterna, le disposizioni segre­
te dell 'homme intérieur) a una descrizione fisiologica, fino all’ipotesi
di una attività come «movimento in senso contrario» delle fibre del
cervello che - e Schopenhauer segue ancora Cabanis - «lavora ora co­
me a rovescio»25. Wagner lasciava cadere tutta l’argomentazione fisio­

25 «Poiché, come si è detto il cervello riceve durante il sonno il proprio stimolo a


intuire figure spaziali dall’interno, invece che dall’esterno, come durante la veglia, tale
determinazione dovrà dunque operare su di esso in una direzione contraria a quella so­
lita, che giunge dai sensi. In conseguenza di ciò anche tutta la sua attività, cioè la vibra­
zione e l’ondeggiamento interno delle sue fibre, prende una direzione opposta a quella
solita, si trova cioè per così dire in un movimento antiperistaltico» (Parerga, p. 322).
76 II genio tiranno

logica di Schopenhauer, mentre gli interessava l’ipotesi dell’esistenza


di uno specifico «organo del sogno» come
la facoltà di vedere dove la nostra coscienza sveglia e rivolta al giorno sen­
te soltanto oscuramente il potente sostrato dei nostri affetti volitivi; da questa
notte, invece, anche il suono entra nella percezione realmente desta, come di­
retta manifestazione della volontà (Beethoven, p. 232).

Wagner stabilisce un rapporto di analogia tra sogno/veglia e «mon­


do del suono»/«mondo della luce». Tramite l’udito si percepisce «un
altro mondo» separato e
come il mondo intuibile del sogno può formarsi soltanto attraverso una
particolare attività del cervello, così anche la musica entra nella nostra co­
scienza soltanto attraverso una simile attività cerebrale; ma questa è altrettan­
to diversa dall’attività guidata dalla vista quanto l’organo cerebrale del sogno
si distingue dalla funzione del cervello eccitato durante la veglia da impressio­
ni esterne (Beethoven, p. 233).

Wagner individua su questa base due modalità di espressione arti­


stica, l’una legata alla luce, propria delle arti plastiche, in cui «la vo­
lontà individuale... è ridotta al silenzio dalla pura contemplazione», e
l’altra, specifica della musica, che procede direttamente dalla notte
dell’inconscio e in cui «la volontà individuale... si desta nel musicista
come volontà universale e, al di là di ogni intuizione, si riconosce co­
me tale e consapevole di sé» (ivi, p. 236). Mentre la contemplazione
plastica è una interruzione dello Streben della volontà con effetti di
quiete che rimane alla superficie dell’apparenza e non distrugge l’in­
dividuazione (nell’arte figurativa «il vero e proprio elemento è l’im­
piego dell’illusoria parvenza del mondo steso davanti a noi ad opera
della luce, in virtù di un giuoco sommamente avveduto con questa
parvenza, al fine di manifestare l’idea del mondo da essa parvenza ce­
lato») (ivi, p. 234), nella musica l’inabissarsi della volontà individuale
in quella universale è simultaneamente un irrompere della «onnipo­
tenza» della volontà non limitata nello spazio e nel tempo.

3. Apollineo e dionisiaco: una fisiologia del mito

Quando La nascita della tragedia, richiamandosi al Beethoven rias­


sume i principi dell’apollineo e del dionisiaco, ne vede la «enorme an-
U illusione e la musica 77

titesi» esattamente nei termini wagneriani:


Apollo mi sta innanzi come il genio trasfiguratore del principium indivi-
duationis, grazie a cui soltanto si può conseguire davvero la liberazione nell’il­
lusione; per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’indivi­
duazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’es­
senza intima delle cose (GT, p. 105).

La protezione apollinea di fronte all’erompere nell’ebbrezza dioni­


siaca del tremendum del mondo è avvicinata da Nietzsche al rapporto
di parola, immagine e musica nel Tristano. La forza apollinea del mito
salva l’individuo dalla dissoluzione connessa alla «suprema eccitazio­
ne musicale». Senza parola ed immagine, «puramente come un im­
menso movimento sinfonico» il terzo atto del Tristano risulterebbe in­
sopportabile alla forma individuale, come già aveva sottolineato Wa­
gner26, perché il «miserabile involucro vitreo dell’individualità uma­
na» non è in grado di contenere la risonanza del cuore del mondo.
Non solo la sua intensità di dolore è insopportabile, ma è proprio la
dissonante simultaneità dei suoi estremi inconciliati di gioia e dolore
(Urlust-Urschmerz) che si fa «spasmodica tensione di tutti i sentimen­
ti». Distaccandosi da Schopenhauer, Nietzsche propone dunque l’in­
dividuazione, l’elemento apollineo, non come causa ma come risultato
e redenzione del dolore originario (NF, p. 174). Il testo di Nietzsche è
sempre fortemente allusivo a quello di Wagner, che vede nella musica
di Beethoven la «danza del mondo stesso» come inestricabile legame
di opposti che richiede, nella sua tensione estrema, la fuga verso l’ele­
mento protettivo della Dichtung (Beethoven, p. 263). Il procedimento
artistico della IX sinfonia, apparentemente «inaudito» perché porta
fuori del «cerchio magico» della musica,

somiglia al repentino risveglio dal sogno; noi sentiamo però ad un tempo il


suo benefico effetto sull’uomo estremamente spaurito dal sogno stesso: infatti,
nessun altro musicista prima di lui ci aveva fatto vivere il dolore del mondo in
maniera così spaventevole ed infinita. Fu dunque realmente un salto disperato a
far entrare il Maestro divinamente ingenuo, pieno soltanto della sua magia, nel

26 In una lettera alla Wesendonck del 10 aprile 1859 si legge: «Fanciulla! Questo
Tristano diviene qualcosa di terrihile\ Questo ultimo atto! ! ! Temo che quest’opera sia
vietata - a meno che la cattiva rappresentazione non riduca il tutto ad una parodia - so­
lo mediocri rappresentazioni possono salvarmi! Quelle completamente buone rende­
ranno pazzo ruditorio... E di una tragicità tremenda che tutto travolge!» (Richard Wa­
gner an Mathilde Wesendonck, cit., p. 123).
78 II genio tiranno

nuovo mondo luminoso dal cui terreno gli sbocciava la melodia umana tanto
cercata, divinamente dolce, pura e innocente Beethoven, pp. 266-267).

Il carattere redentore e salvifico dell’elemento apollineo non è tut­


tavia, né in Wagner né in Nietzsche, affidato alla parola, bensì all’im­
magine prodotta direttamente dalla musica come sua stessa possibilità
di redenzione. Con l’ausilio di quello Shakespeare visionario richia­
mato da Wagner, La nascita della tragedia propone una prevalenza
dell’elemento visivo, dell’immagine, nel mito stesso: «i loro eroi parla­
no in certo modo più superficialmente di quanto non agiscano; nella
parola pronunciata il mito non trova affatto la sua oggettivazione ade­
guata» (GT, p. 112). In Nietzsche la visione onirica, l’allucinazione,
scaturisce direttamente dall’Ur-Eine, dalla musica come sua traspa­
rente espressione, Ur-Musik. La visione apollinea e il mito rompono
lo stato letargico che questa tensione produce e costituiscono possibi­
lità di protezione e ripresa rispetto all’annullamento nirvanico impli­
cito nella letargia. L’elemento tragico allo stato puro è nichilistico e
orientale, e il mito-illusione permette un ritorno all’azione e alla con­
servazione della vita (GT, pp. 55-56). Di qui, come vedremo più avan­
ti, l’implicito carattere di filosofia della storia (il «ripugnante odore
hegeliano» che Nietzsche vedrà poi nell’opera) che La nascita della
tragedia appoggia sul meccanismo delle allucinazioni visionarie come
Wahnvorstellungen, come mito. Per fondare filosoficamente questa
dinamica, Nietzsche traccia una teoria dei «punti d’indifferenza», che
certamente riprende la connotazione schopenhaueriana del Nunc
stans come «eterno meriggio» e che Nietzsche lega in un importante
frammento al sorgere di una «realtà di sogno» armonica, all’opera
d’arte come risoluzione della dissonanza, a partire da attimi estatici di
arresto del dolore:

La volontà come supremo dolore produce da se stessa un’estasi, che è


identica col puro vedere (Anschauen) e con la produzione della opera d’arte.
Qual è il processo fisiologico? Occorre che da qualche parte si produca
un’assenza di dolore, ma com e?... Qui si produce la rappresentazione, come
mezzo per quell’estasi suprema... Il mondo è, ora, entrambe le cose insieme,
come nocciolo la terribile Volontà una, come rappresentazione il mondo che
ne è sgorgato della rappresentazione, della estasi. L a musica indica come la
totalità di quel mondo, nella sua molteplicità, non viene più sentito come dis­
sonanza (NF, p. 174).

Questi momenti estatici da cui germinano le immagini sono nella


Liillusione e la musica 79

Visione dionisiaca del mondo e ne La nascita della tragedia gli istanti


panico-meridiani: Archiloco sprofonda «nel sonno (il sonno come è
descritto da Euripide nelle Baccanti, il sonno sugli alti pascoli alpestri,
nel sole di mezzogiorno) ed ecco che Apollo gli si accosta e lo tocca
con l’alloro». Nell’elemento meridiano Nietzsche ha indicato l’essen­
ziale momento destorificante del mito, l’arresto del decorso tempora­
le. Come ha notato Kerényi riprendendo la connessione stabilita da
Rohde tra la leggenda di Epimenide e la testimonianza aristotelica sui
dormienti Sardi, il mitologema dello svincolarsi dal tempo è essenzial­
mente legato al pieno meriggio, quando con la culminazione del sole
«si ha l’impressione che il tempo cessi»27. L’attenzione di Nietzsche a
queste anomalie del tempo storico rimane costante. Basta pensare al
tema del mezzogiorno e della mezzanotte in Zarathustra; ma in un
frammento della primavera dell’86 si legge:

C’è una parte della notte in cui il solitario dirà: «ascolta, ora il tempo è ces­
sato!». In tutte le veglie notturne, soprattutto quando ci si trova in insoliti
viaggi e camminate di notte, si prova uno strano sentimento di stupore riguar­
do a questa parte della notte (intendo le ore tra l’una e le tre), una specie di
«troppo breve!» oppure «troppo lungo!», in breve l’impressione di un’anoma­
lia nel tempo. Forse che in quelle ore noi, in quanto eccezionalmente svegli,
dobbiamo espiare il fatto di trovarci di solito durante tale periodo nel caos
temporale del mondo del sogno? Basta, dall’una alle tre di notte non abbiamo
più l’«orologio nel cervello». Mi sembra che proprio questo era espresso an­
che dagli antichi con «intempestiva nocte» «èv àwpovuxrL» (Eschilo), quindi
«in quel punto della notte dove non esiste il tempo» (FP 1885-87, p. 166).

Ma la ripresa mitico-visionaria che consente di uscire dall’elemen­


to distruttivo dell’ebbrezza dionisiaca e di riallacciare i fili della pre­
senza umana nel mondo fenomenico è proprio al centro della figura
risolutiva che il Beethoven presenta, il musicista drammatico creatore
dell’opera d’arte totale. Egli risale dal regno delle Madri in cui l’ha
trasportato la chiaroveggenza della musica assoluta, l’occhio rivolto

27 K. Kerényi, Il mitologema dell’esistenza atemporale nell’antica Sardegna (1948),


in Miti e misteri, trad. it. di A. Brelich, Torino 1979, pp. 405 ss. Ricordiamo che nell’i-
dentificare una leggenda migrante del sonno senza tempo nelle sue varie versioni,
Erwin Rohde aveva citato le saghe nordiche dei viaggi alla ricerca degli eroi dormienti
nelle montagne, e con esse la leggenda di Frau Venus e Tannhäuser, per il quale «un an­
no era un’ora» (Sardinische Sage von den Neunschläfern, 1880, in Kleine Schriften, II,
Tübingen u. Leipzig 1901; rip. Darmsatdt 1969, p. 200). Il tema della contrazione del
tempo è presente, come è noto, nel Tannhäuser di Wagner.
80 11 genio tiranno

puramente all’interno e che Wagner assimila allo schopenhaueriano


«sogno vero» (cioè il sogno del sonno profondo, del sonnambulismo,
del sonno ipnotico, in cui sono totalmente tagliati i legami con il mon­
do fenomenico dello spazio e del tempo e che svela quindi l’orrore
del fondo) e appropriandosi del carattere tipico dell’arte plastica, si
riavvicina al mondo dell’individuazione, ma in modo potenziato dal
contatto con la realtà, attraverso la visione drammatica che si aggiun­
ge alla musica assoluta come il sogno mattutino al sogno vero:

Abbiamo visto che nelle altre arti l’ispirazione della volontà a diventare in­
teramente conoscenza può essere appagata solo in quanto persiste silenziosa
nel suo intimo: sembra che essa dal di fuori attenda una notizia liberatrice sul
proprio conto; se questa non le basta, si mette da sé in stato di chiaroveggen­
za e così, oltre ogni limite di tempo e spazio, riconosce se stessa come princi­
pio dell’universo. Ciò che essa vede in questo caso non è comunicabile in al­
cuna lingua; come il sogno che facciamo nel sonno più profondo può essere
tradotto soltanto nel linguaggio di un secondo sogno allegorico, precedente
l’attimo del risveglio, può cioè segnare il passaggio alla coscienza desta, così la
volontà per la diretta immagine della visione di sé, crea un secondo organo di
comunicazione che, mentre con un lato è rivolto alla sua introspezione, con
l’altro tocca il mondo esterno riemergente al risveglio attraverso la diretta e
simpatica manifestazione del suono. La volontà chiama, e nella risposta si ri­
conosce: cosi, la chiamata e la controchiamata diventano per essa un gioco
confortante e infine incantevole (Beethoven, pp. 237-238).

La redenzione giocosa del dolore originario è dunque estesa, attra­


verso il dramma, all’intera comunità, e l’arte assume un valore vitale,
non nirvanico. Nella lettera alla Wesendonck del 5 ottobre 1858 (sulla
cui importanza per la definizione wagneriana del rapporto di arte e
vita ha scritto Thomas Mann), Wagner riesamina le figure scho-
penhaueriane del santo e dell’artista vedendo nel legame stretto tra
arte (intesa come rapimento dell’«immagine») e vita l’impossibilità di
arrivare alla completa liberazione del santo, al buddismo28. La com­
passione del musicista drammatico verso la comunità incapace di sol­
levarsi da sé alla liberazione (e che si estende anche agli animali, chiu­

28 «Fanciulla mia, certo il sublime Budda aveva ragione a escludere rigorosamente


l’arte. Chi sente più di me che questa arte disgraziata è ciò che mi immerge per sempre
nel tormento della vita e in tutte le contraddizioni dell’esistenza? Se non avessi questo
dono meraviglioso, questo predominio così forte della fantasia creatrice di immagini,
potrei... diventare santo...» (Richard Wagner an Mathilde Wesendonck, cit., p. 59).
U illusione e la musica 81

si in un dolore muto e senza senso)29, porta alla trasformazione del


«grido», in cui il dolore del mondo risuona immediato, nell’incanto
realizzato dall’opera d ’arte totale. Alla fioritura spontanea del Volk­
slied come unità perfetta di melodia e parola, Wagner sostituisce ora
il richiamarsi fino a una fusione all’unisono del «rauco lamento» dei
gondolieri della Venezia notturna, che stabilisce una immediatezza di
comunicazione (Beethoven, p. 238 e La mia vita, p. 718). L’opera re­
dentrice del musicista drammatico è capacità «magica» di trasferire la
rete di questa immediata comunicazione in una condizione estatica li­
berata dal dolore. Ciò è possibile, nel Beethoven, unificando appunto
la capacità visionaria del musicista con quella dell’autore drammatico,
di «proiettare davanti agli occhi della persona sveglia l’immagine vista
soltanto da lui». L’incanto visionario in cui la comunità viene traspor­
tata è un atto di magia, non in senso metaforico, ma nel senso letterale
della teoria di Schopenhauer. La magia è actio in distans della volontà,
rapporto tra volontà senza collaborazione del mondo fenomenico
«cosicché il tempo e lo spazio non separano più colà gli individui, il
cui isolamento, e il cui spezzettamento, basato per l’appunto su quelle
forme, non pongono ormai più un limite insuperabile alla trasmissio­
ne dei pensieri e all’influsso immediato della volontà» (Parerga, p.
341). Commentando l’azione della bacinella magnetica nel suscitare
l’ipnosi collettiva, Schopenhauer si soffermava poi sull’aspetto della
comunicazione visionaria, visio in distans:

... la co sa p u ò con durre anche a una spiegazion e del con tagio del son n am ­
b u lism o in genere, com e p u re d ell’an aloga com un icazione di u n ’im m ediata
attività della secon d a vista, attraverso il con tatto reciproco delle perso n e che
p o sse gg o n o tale dote, e infine della trasm ission e, e quin di della com unione,
delle visioni in generale (Parerga, p. 338).

Schopenhauer si soffermava a lungo sui temi della comunicazione


immediata ed inconscia, fino a quell’estremo fenomeno di visio ed ac-

29 Ma proprio nella compassione rivolta alle esistenze più umili è visibile in Wa­
gner quel meccanismo di potenza che Nietzsche ha più volte sottolineato nel sentimen­
to di compassione. Così, ad esempio, in una lettera alla Wesendonck la pietà suscitata
dal grido dell’animale è ampliamento della propria personalità: «L a mia compassione fa
della sofferenza degli altri una verità. Quanto più è piccolo l’essere di cui provo com­
passione, tanto più esteso e comprensivo è il campo della mia sensibilità - vi è qui quel
tratto del mio carattere, che agli altri può apparire come debolezza» (Richard Wagner
an Mathilde Wesendonck, cit., p. 52).
82 II genio tiranno

tio ad un tempo, e «magico» per eccellenza, che è l’apparizione dei


defunti:

Solo attraverso questa potenza magica in ogni caso il defunto potrebbe


esercitare ancora ciò che poteva compiere eventualmente anche durante la vi­
ta, cioè una vera actio in distans, senza alcun aiuto materiale e potrebbe quin­
di agire direttamente su altri senza alcuna mediazione fisica, impressionando
il loro organismo in modo che dovessero presentarsi intuitivamente al loro
cervello delle figure, quali altrimenti sono prodotte solo in conseguenza di un
eccitamento esterno sui sensi (Parerga, pp. 391-392).

4. Wagner a Bayreuth. Burckhardt contra Wagner

In un testo tormentato ed ambiguo come è 'Wagner a Bayreuth, già


attraversato dall’antagonismo verso Wagner (dal necessario «guardar
contro»), Nietzsche ha riesposto questa intera costellazione di idee.
Ritorna il tema della vis medicatrix e funzionale alla vita dell’illusione
tragica come «sogno ristoratore». L’arte è riposo reso possibile dal-
l’immergersi dello spettatore nell’«apparenza» di un mondo semplifi­
cato rispetto a quello reale. La funzionalità alla vita, il carattere attivo
della compassione, rimane come motivo centrale, ma ora Nietzsche
insiste anche sul carattere di falsificazione che è implicito nel passag­
gio attraverso il mito tragico e lo Zauber visionario del musicista
drammatico, poiché viene offerta una più immediata via d’uscita ri­
spetto alla complicazione agonistica della realtà; il mito tragico porta
in sé il rischio di continuare quella letargia dissolutrice rispetto alla
quale si disponeva, nella Nascita della tragedia, come strumento esclu­
sivo di ripresa. L’uomo tragico, che ha sperimentato l’effetto salutare
del drammaturgo ditirambico non è più colui che ha un contatto pri­
vilegiato con il fondo vitale, ma colui che, ristorato dal sogno sempli­
ficatore, torna nella lotta quotidiana dove alla necessità ed unicità del
sogno tragico, alla via unica di redenzione percorsa dall’eroe, si con­
trappone la precarietà delle molteplici vie di ricerca, «frammenti stra­
namente isolati di quelle esperienze totali, la cui coscienza ci spaven­
ta». Il pericolo è che «il sogno vuol sembrare quasi più vero della ve­
glia, della realtà». Wagner appare per la «demoniaca trasmissibilità»
della sua natura, come drammaturgo ditirambico, il «grande mago e
apportatore di felicità fra i mortali»;
l i illusione e la musica 83

Il suo sguardo scende chiaroveggente, cauto e insieme amorevolmente di­


sinteressato: e là dove egli dirige la raddoppiata forza illuminante del suo
sguardo, la natura è indotta a scaricare tutte le sue forze con terribile rapidità,
a rivelare i suoi più occulti segreti: a ciò spinta dal pudore. E più di un’imma­
gine, dire che egli con questo sguardo ha sorpreso la natura, che l’ha vista nu­
da: ed ecco che essa ora vuol rifugiarsi vergognosa nei suoi opposti. Ciò che
finora era invisibile, interiore, si salva nella sfera del visibile e diventa appa­
renza; ciò che finora era solo visibile, fugge nell’oscuro mare del suono: così la
natura, volendo nascondersi, svela l’essenza dei suoi opposti (WB, pp. 43-44).

Ma come mostrano i frammenti della primavera del 7 4 , proprio in


questa magia comunicativa, che si presenta come compassione reden­
trice, è implicita la forte volontà di dominio di Wagner, basata sulla
dissoluzione onirica della realtà. L’esito di fuga implicito come rischio
nella «semplificazione» artistica è qui chiaramente imputato a Wa­
gner, il cui scopo non appare più un «miglioramento della realtà» ma
l’«annichilimento o l’illusione» su di essa. «L’arte diventa religione: il
rivoluzionario si rassegna».
L’accostamento tra Gesamtkunstwerk e tragedia greca risulta ora
insostenibile agli occhi di Nietzsche proprio per l’effetto nirvanico e
nichilistico ricercato da Wagner, e che qui Nietzsche riconosce come
centrale30. Nel giovane Nietzsche c’è infatti anche il tentativo, giocato
sulle ambiguità del Beethoven nel rapporto tra vita e arte, di legare
strettamente il primo Wagner, affermatore del mondo greco e della
«sana e fresca sensualità»31 con quello approdato a Schopenhauer, e
che attraverso quella filosofia arriva a una concezione religiosa dell’ar­
te come strumento di completo abbandono del mondo fenomenico.
Abbiamo già visto che in Wagner la sacra rappresentazione tende alla
giubilante dissoluzione, all’estetismo della fine. Lo scopo è quello del­
la letargica vittoria della noluntas-, il mondo della visione deve soppri­

30 «E ssa ha un che di fuga da questo mondo, lo nega, non lo trasfigura [...] In tale
collocazione dell’arte sta la sua forza e la sua debolezza: è cosi difficile tornare poi in­
dietro alla semplice vita. H miglioramento della realtà non è più lo scopo...» (NF 1874,
pp. 381-382).
31 II tentativo di annettere Wagner all’affermazione greca (il tema della Heiterkeit)
contro il buddismo schopenhaueriano e la superficialità ottimistica della civilizzazione
è sviluppato particolarmente nell’Abbozzo di dedica del febbraio 1871. L’alternativa tra
India e Grecia è intesa e chiarita come alternativa tra Schopenhauer e Wagner. Cfr. NF,
p. 367 ss.; e inoltre NF, p. 297: «Il mondo greco come l’unica e più profonda possibilità
di vita. Riviviamo il fenomeno che ci spinge o verso l’India o verso la Grecia. Questo è
il rapporto tra Schopenhauer e Wagner».
84 II genio tiranno

mersi senza ritorno nella profonda interiorità del suono, permettendo


quella serenità che Schopenhauer riteneva possibile solo per chi ha
annichilato il mondo tagliando «le mille fila del valore» che ad esso lo
legano:

Sereno e sorridente egli si volge ora a guardare le finte immagini del mon­
do, che un tempo sapevano scuotere e affliggere anche l’animo suo, ma ora
gli stanno innanzi indifferenti come i pezzi di una scacchiera a gioco finito, o
come al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui parvenze ci ave­
vano stuzzicati ed eccitati la notte di carnevale. La vita e le sue forme ondeg­
giano oramai davanti a lui come una fuggitiva visione, o come appare nel dor­
miveglia un lieve sogno mattutino, attraverso il quale già traluce la realtà, e
che più non perviene ad illuderci: e appunto come questo sogno svaniscono,
senza un brusco passaggio (Il mondo, p. 486).

Il sogno mattutino rimanda alla letargia del sogno vero, come in


Wagner rimanda alla letargia del suono. In un finale non musicato del
Crepuscolo degli dèi si legge:

Se ora non vado più


alla rocca del Walhalla,
sapete dove vado?
Lascio la casa del sogno
fuggo per sempre la casa dell’illusione;
dell’eterno divenire
le porte aperte
chiudo dietro di me:
alla sacra terra d’elezione
senza illusioni e sogni,
meta del viaggio terreno,
si avvia colei che sa.
Dell’eternità
la beata fine
sapete come la ottenni?
Di un triste amore
il profondo dolore
mi fece aprire gli occhi:
vidi finire il mondo32.

Già l’affermazione di vita propria del mondo greco (la «cosmodi-

32 Cit. in H. Mayer, Richard Wagner, trad. it. B. Bianchi, Milano 1967, p. 223.
L’illusione e la musica 85

cea» de La nascita della tragedia) si era imbattuta al suo interno con la


tensione nichilistica del modello wagneriano, allorquando Nietzsche
afferma che lo sguardo potenziato dello spettatore tragico non si arre­
sta alle belle illusioni plasticamente vive sulla scena, ma deve «rifu­
giarsi di nuovo in grembo alla vera e unica realtà» attraverso l’anni-
chilimento degli eroi individuali. Il mondo trasfigurato della scena
viene visto da uno sguardo che «desidera essere cieco», aspira cioè al­
la chiaroveggenza musicale e Nietzsche rinvia il nuovo dissolversi del­
l’individuazione apollinea al canto di morte di Isotta.
Il lavoro di demitizzazione dei frammenti del 7 4 procede su un
doppio asse che qui brevemente riassumiamo. Cade anzitutto l’unità
visionaria di musica e dramma (così il frammento 32 [47]: «Shake­
speare e Beethoven l’uno accanto all’altro - l’idea più azzardata e paz­
zesca») e l’unità del Gesamtkunstwerk è vista ora come sottomissione
di espressioni artistiche irriducibili alla violenza legislatrice di una na­
tura di «attore», che sfocia poi in «teatrocrazia». Dell’incanto onirico
Nietzsche sottolinea ora l’effetto nichilistico, che deforma decisamen­
te la dialettica tra agone e riposo, costitutiva della semplificazione ar­
tistica: «il miglioramento della realtà non è più lo scopo, scopo diven­
ta l’annichilare il reale, o l’illudere su di esso».
Le linee portanti della critica a Wagner nei frammenti del 7 4 ri­
mandano tuttavia a una determinante attenzione di Nietzsche per
Burckhardt. Lo sfondo di questa discussione sul significato della
guerra dà ragione di alcune mosse intellettuali di Nietzsche in questo
periodo. Entro il tema dominante della «metafisica dell’artista» che
segna la sua consonanza con Wagner, si aprono progressivamente in­
crinature sotterranee, la cui origine va individuata soprattutto nella
presenza di un influsso burckhardtiano33. Nella prima Inattuale, met­
tendo in questione l’esistenza di una Kultur tedesca che si sarebbe
manifestata nella vittoria, Nietzsche scrive
secondo tutti i giudizi imparziali e infine secondo gli stessi Francesi il van­
taggio decisivo è stato riconosciuto proprio nel più ampio sapere degli ufficia­

33 La stessa Förster-Nietzsche coglieva la «grande e moderatrice influenza» eserci­


tata sul fratello dallo storico che «fu sempre considerato da Nietzsche uno dei rappre­
sentanti più geniali della cultura romanza» (la testimonianza è citata anche in Carteggio
Nietzsche-Burckhardt, a cura di M. Montinari, Torino 1961, p. 91). Sul rapporto Nietz-
sche-Burckhardt cfr. M. Montinari, Il «grande, grandissimo maestro», in Su Nietzsche,
Roma 1981, pp. 30-34.
86 II genio tiranno

li tedeschi, nel maggior grado di istruzione delle truppe tedesche, nella più
scientifica condotta di guerra. Ma in qual senso potrebbe ancora pretendere
di aver vinto la «cultura» tedesca, se si volesse separare da essa l’istruzione te­
desca? In nessuno: giacché le qualità morali di più severa disciplina e di più
severa obbedienza non hanno niente a che fare con la formazione, e distin­
guevano per esempio gli eserciti macedoni di fronte agli eserciti greci, incom­
parabilmente più coltivati (DS, pp. 170-171).

Lo scoppio della guerra franco-prussiana è subito sentito da Nietz­


sche come un crepuscolo di valori, un avvenimento capace di porre in
crisi ogni progetto di rinnovamento della Kultur. La distanza dall’en­
tusiasmo freddo di Tribschen è evidente anche solo dal tono antieroi-
co che domina le sue lettere dalla Francia:
Questa lettera reca il ricordo di quel campo di battaglia orrendamente de­
vastato, disseminato di innumerevoli tristi resti, emanante un forte lezzo di
cadaveri34.

L’atteggiamento complessivo risente direttamente delle parallele


considerazioni di Burckhardt, come mostra una lettera a Gersdorff
del novembre 1870: all’adesione com pleta (all’om bra di Sch o­
penhauer) per i temi espressi dallo storico, succede una preoccupata
dichiarazione sull’immediato futuro della cultura:
...spero solo che non si debbano pagare troppo cari gli inauditi successi
nazionali in un campo dove io per lo meno non intendo accettare perdita al­
cuna. In confidenza: penso che l’odierna potenza della Prussia sia molto peri­
colosa per la cultura {Epistolario II, p. 149).

Di fronte alla successiva santificazione della vittoria militare,


Nietzsche esprime la necessità di mantenersi freddi e critici in mezzo
all’«ubriacatura generale». Per ora la critica di Nietzsche è rivolta so­
prattutto all’esito più esteriore dell’apologià: la « nuova fede» di
Strauss, che unendo hegelismo e scienza si fa portavoce del filisteismo
tedesco più piatto e materialistico. Questa polemica è ancora in con­
sonanza con la lotta di Wagner per Bayreuth contro la Zivilisation.

54 Epistolario II, p. 132. Per la qualità dell’entusiasmo di Tribschen, cfr. la lettera


di Cosima del 9 agosto 1870, dove si dice che «L ’esercito è lì in tutto il suo splendore,
come espressione delle supreme manifestazioni di forza di un’intera nazione» e non ha
bisogno di dilettanti come Nietzsche. «In questo momento sono più apprezzati dei
contributi, e offrendo un centinaio di sigari farete un’azione molto più utile che offren­
do voi stesso, e tutto il vostro patriottismo e dedizione» (KGB, II, Bd. 2, p. 237).
U illusione e la musica 87

Ma i primi motivi di distacco da Wagner (e di una sua progressiva


smitizzazione rispetto alla completa idealizzazione del genio del pri­
mo anno di Tribschen)35 sono già implicite nel diverso atteggiamento
verso la vittoria. Il nazionalismo è un pericolo, una forma di ripiega­
mento che rischia di santificare e sublimare un elemento dell’attualità
in contrapposizione al carattere in divenire della comunità estetica.
Proprio perché essa non è già realizzata, Nietzsche insiste sull’eroi­
smo della lotta contro le potenze stabilite, mentre l’appoggiarsi sul già
dato (il «non si deve più cercare» è «la parola d’ordine del filisteo»
(DS, p. 177). Lo spirito tedesco è quello che cerca «con seria perseve­
ranza ciò che il filisteo colto vaneggia di possedere, ossia la genuina,
originaria cultura tedesca» (DS, pp. 175-176). Per la figura del fili­
steo, Nietzsche utilizza fin dal ’69 la caratterizzazione di Scho­
penhauer (i filistei come «gli individui continuamente affaccendati nel
modo più serio attorno a una realtà che non è tale»), ma burckhard-
tianamente interpreta il regno dell’apparenza in cui il filisteo è immer­
so come quello in cui la ricca mobilità della cultura è irrigidita in “po­
tenze” stabili. La nozione nietzscheana di Kultur, come già per alcuni
aspetti la figura del filosofo, risente del carattere eminente di mobilità
che Burckhardt assegnava alla cultura rispetto alle potenze stabili. Ol­
tre che energia di unificazione del genio-artista contro i pericoli del
caos atomistico e ricorso alle forze del sovrastorico e dell’antistorico,
la metafisica dell’artista è anche lotta contro l’apparenza di ciò che si
presenta immediatamente come realtà, e quindi forza critica e disgre­
gatrice. La duplicazione schopenhaueriana di realtà profonda e appa­
renza fa sì che l’ideale, poiché non si dà in modo immediato e traspa­
rente, tenda a identificarsi con lo Streben e l’inquietudine della ricer­
ca. La potenza statale e degli «affaristi» che dominano la società attra­
verso il denaro, e che tendono a sottomettere alle esigenze del loro
egoismo gli istituti dell’educazione per creare sudditi, funzionari e
«uomini correnti» {courantes) sono, com’è noto, per il Nietzsche di
questo periodo, i principali avversari accanto all’organizzazione della
scienza, di colui che ricerca una nuova cultura. Il tema agonistico per­

35 Cfr. la lettera a Gersdorff del 4 agosto ’69: «Inoltre ho conosciuto un uomo che
come nessun altro mi fa manifesta l’immagine di ciò che Schopenhauer chiama “il ge­
nio” , e che è tutto compenetrato di quella filosofia meravigliosamente interiore... È do­
minato da una così assoluta idealità... che accanto a lui mi sento come vicino al divino»
{Epistolario II, p. 34; cfr. anche pp. 13, 17).
88 II genio tiranno

corre da cima a fondo le Inattuali e le Conferenze dove Nietzsche ten­


de, schopenhauerianamente, a identificare nell’hegelismo e nella sua
filosofia della storia una «teologia mascherata», lo strumento ideolo­
gico che sanziona e sublima l’esistente, scambiando l’apparenza con
la sostanza. Questa accettazione della critica di Schopenhauer a H e­
gel, accusato di filisteismo, indica sia in Nietzsche che in Burckhardt
(anche se in quest’ultimo prevale l’atteggiamento di rassegnazione)
una dimensione e un significato più profondi e veri della realtà36.
In questo periodo lo sforzo di costruzione della cultura, il dare un
senso alla storia, è affidato alla categoria ampia di Erziehung, educazio­
ne, sviluppato in contrapposizione all’elemento letargico dell’arte. La
liberazione dal provvidenzialismo storico, consente di riconoscere e
analizzare accanto a un fondo immutabile e tragico dell’esistenza an­
che un campo di mobilità che, liberato così dalle strutture metafisiche,
è plasmabile in un’opera di ordinamento di lungo periodo, e dunque
ostile agli elementi di immediatezza propri dell’ideologia wagneriana:
L’educazione è innanzitutto una dottrina del necessario, ed in seguito una
dottrina di ciò che si trasforma ed è modificabile. Si pone il giovane di fronte
alla natura, ed ovunque gli si mostra il dominio di leggi; in un secondo tem­
po, gli si presentano le leggi della società civile. A questo punto si agita già la

36 Nel Tentativo di un’autocritica (GT), Nietzsche tenta di presentare già quest’o­


pera giovanile come liberata, attraverso l’arte, «la vera attività metafìsica dell’uomo»,
dalla morale e di vedervi annunciato «forse per la prima volta, un pessimismo “al di là
del bene e del male”» (GT, pp. 9-10). In tal modo l’opera arriverebbe a porre il mondo
come scopo a se stesso e sarebbe dunque ostile alla propensione di Schopenhauer per
una giustizia universale, un’etica cosmica. Ma bisogna ricordare che la dimensione este­
tica acquistava, alla luce della tonalità schilleriana delle teorie di Lange (oltre che per
l’accettazione dei temi romantici di Wagner) un indiscutibile significato etico che, pro­
prio nell’agonismo e nel tema della «serietà della vita», è diffuso in tutte le opere del
prim o periodo. In un fram m ento del ’75, N ietzsche inserisce il pessim ism o di
Burckhardt in una prospettiva che, partendo dalla negazione del filisteismo della storia
scritta «dal punto di vista del successo» e aprendola alla pluralità dei germi non svilup­
pati afferma il valore di questa prospettiva per un intervento capace di dare un significa­
to alla realtà: «...d ove sono gli storici che considerino le cose senza essere dominati dal­
le fandonie correnti? Non ne vedo che uno solo, Burckhardt. Ovunque regna un diffu­
so ottimismo nella scienza. L a domanda: “che cosa sarebbe accaduto, se non si fosse
presentata questa o quest’altra cosa?” viene respinta quasi concordemente, e tuttavia è
proprio la domanda cardinale, attraverso cui tutto si trasforma in qualcosa di ironico...
la storia intesa come sarcasmo dei vincitori; sentimenti servili e devozione di fronte ai
fatti: e oggi si chiama ciò “interesse per lo stato” ! Come se avesse avuto ancora bisogno
di essere istillato! Chi non comprende, quanto la storia sia brutale e priva di senso, non
comprenderà certo l’impulso a dare un senso alla storia» (FP 1875, pp. 124-125).
a llu sio n e e la musica 89

questione: doveva essere così? A poco a poco il giovane sente il bisogno della
storia, per apprendere in che modo le cose hanno preso questo corso. Con
ciò tuttavia egli impara, che le cose possono anche andare diversamente. In
che misura l’uomo esercita un potere sulle cose? Questa è la domanda, in
ogni educazione. Ora, per mostrare come le cose possano seguire un corso
del tutto differente, si indichino come esempio i Greci. I Romani servono per
mostrare come le cose abbiano preso un certo corso (FP 1875, pp. 126-127).

Nietzsche rimane comunque ostile, in consonanza con le scelte di


Burckhardt e Renan, ad una educazione che si espanda socialmente:
la sua proposta «educare gli educatori!» (ivi, p. 116) significa la for­
mazione attraverso la tensione e l’agonismo, di individui, svincolati
dalla rassicurante rigidezza comunitaria (portatori quindi di nuovi va­
lori) e il cui modello è ancora la civiltà greca. Questa duplicità tra
Streben per la costruzione della Kultur e acquietarsi di esso nel regno
delle apparenze, è dunque al centro dell’agonismo riformatore di
Nietzsche, ed è uno dei motivi guida del Wagner a Bayreuth. In que­
st’opera ambigua, dominata dal tentativo di sottomettere Wagner ad
una prospettiva che gli è sostanzialmente estranea, l’arte è interpretata
come consolazione e sonno: le sue «sante ombre» si dissolvono quan­
do il giorno riporta la lotta.
L’arte non è certo una maestra e un’educatrice per l’agire immediato; l’ar­
tista non è mai in questo senso un educatore e un consigliere; gli oggetti a cui
mirano gli eroi tragici non sono senz’altro di per sé le cose più degne d’essere
desiderate...
Le lotte che essa mostra sono semplificazioni delle reali lotte della vita; i
suoi problemi sono abbreviazioni del calcolo infinitamente complicato dell’a-
gire e del volere umani. Ma proprio in ciò sta la grandezza e indispensabilità
dell’arte, che essa suscita l’apparenza in un mondo più semplice, di una solu­
zione più breve degli enigmi della vita. Nessuno che soffra della vita può fare
a meno di questa apparenza, come nessuno può fare a meno del sonno (WB,
pp. 24-25).

Ma i Frammenti del 1874 delineano con decisione un Wagner che


deforma questa dialettica tra riposo e agone, semplificazione e tumul­
to della realtà:

In tale collocazione dell’arte sta la sua forza e la sua debolezza: è così diffi­
cile ritornare da qui alla semplice vita!
Lo scopo non è più il miglioramento della realtà, ma l’annichilimento o il­
lusione sul reale. La forza sta nel carattere settario: essa è estrema ed esige
90 II genio tiranno

dall’uomo una decisione incondizionata (NF 1874, p. 382).

Il carattere antialessandrino dell’unificazione wagneriana - la sua


funzione di dominare il «caos nazionale» - è in secondo piano rispetto
all’effetto nichilistico. All’interno di questo spazio svuotato di realtà,
che oscilla tra illusione e annichilimento, che nega la trasformazione
(«Wagner non è un riformatore») Nietzsche sottolinea il carattere «ti­
rannico» del protagonismo artistico di Wagner. La congiunzione che i
frammenti stabiliscono tra «semplificazione» e tirannide, mostra come
Nietzsche utilizzi la connotazione burckhardtiana di “cesarismo” (i
moderni Cesari come terribles semplificateurs) per definire l’affermarsi
di Wagner come potenza. Il riferimento a Burckhardt è dimostrato an­
che dall’attribuzione a Wagner di alcuni caratteri tipici del “cesari­
smo”. Anzitutto la mancanza di tradizione e la ricerca di legittimazio­
ne congiunta all’incapacità di creare una continuità dinastica:

La «falsa onnipotenza» sviluppa in Wagner qualcosa di «tirannico». Il sen­


timento di essere senza retaggio, perciò egli cerca di dare alla sua idea di
riforma la maggiore ampiezza possibile e di darsi una successione tramite
adozione. Aspirazione alla legittimità.
Il tiranno non lascia valere nessuna altra individualità che la sua e quella
dei suoi fidi (NF 1874, pp. 378-379).

Ma soprattutto il concetto di teatrocrazia, utilizzato contro Wagner,


con il suo aspetto di rozzezza e semplificazione nel sollecitare i senti­
menti immediati delle masse, ripete lo schema di derivazione del tiran­
no cesareo dalla “democrazia”37. Nella preoccupazione che emerge dai

,7 «Wagner tenta di rinnovare l’arte partendo dall’unica base ancora presente, il


teatro: in questo modo, certo, può ancora essere stimolata una massa e non si dà ad in­
tendere nulla, come nei musei e nei concerti. Certamente è una massa molto rozza, e
dominare la teatrocrazia si è dimostrato ancora una volta impossibile... Qui è insita
l’importanza di Wagner, egli tenta la tirannide con l’aiuto delle masse del teatro» (NF
1874, p. 389; trad. it. in Carteggio Nietzsche-Wagner, a cura di M. Montinari, Torino
1959, pp. 147-148). Su ciò cfr. in genere il gruppo di frammenti inizio-primavera 1874.
Qui Nietzsche analizza già il rapporto teatro-democrazia che sarà un momento centrale
della successiva critica a Wagner. Cfr. ad es. La gaia scienza, p. 245: «A teatro si è onesti
soltanto in quanto massa: come singoli si mente, si mente a se stessi... Qui si è popolo,
pubblico, gregge, femmina, fariseo, mandria elettorale, democratico, prossimo, uomo
sociale; qui la coscienza personale si sottomette inoltre all’incantesimo livellatore del
“maggior numero” ...». L’accezione di democrazia, che anche Renan e Burckhardt ac­
coglievano, è quella che si sviluppa in Francia da parte di élites intellettuali e in riviste
quali la «Revue des deux mondes», il «Journal des D ébats» ecc.
LJillusione e la musica 91

frammenti e dalla stessa Inattuale per la conciliazione wagneriana con


la potenza del Reich, si inserisce poi ancora la distinzione burckhard-
tiana tra cultura e stato-nazionalismo, ed il riferimento a Burckhardt è
esplicito in una serie di frammenti dello stesso periodo38.
Nella definizione drastica contenuta nel frammento 32 [33], di
Wagner come «uomo moderno» che «non crede di riposare nella ma­
no di una buona natura, ma crede in se stesso», il nesso tra arte wa­
gneriana e riforma della cultura tedesca attraverso la rinascita della
tragedia è definitivamente spezzato.

5. L’illusione e la comunità

La nascita della tragedia inizia con la citazione delle parole di Hans


Sachs nei M aestri cantori-.
Amico mio, proprio questa è l’opera del poeta,
che egli interpreti e noti il suo sognare.
Credetemi, la più vera illusione [Wahn] dell’uomo
gli viene aperta nel sogno:
ogni arte poetica e poesia
non è che interpretazione del sogno vero.

La connessione di sogno e Wahn39 rinvia a quella, costitutiva per il


progetto di riforma culturale legato alla promessa di una rinascita tra­
gica, tra genio «sempre sognante» e genio che cattura compassione­
volmente la comunità nella «rete di illusioni», di Wahngebilde, imma­
gini illusorie, che ad essa getta. La celebre prima scena del terzo atto è
uno dei punti più trasparenti dell’ambivalenza di Wagner nel combi­
nare elementi nichilistici e costruttivi, basati entrambi sul motivo del­
la rinuncia. Attraverso la rinuncia Hans Sachs riconosce il mondo co­
me tessitura del Wahn, ma la rinuncia gli consente di assumerne le di­

38 Cfr. ad es. N F 1874, p. 394: «Contro la sopravvalutazione dello stato, dell’ele­


mento nazionale. J[acob] B[urckhardt]» e inoltre pp. 398,405.
39 Sul significato della parola Wahn in Wagner (a proposito di «Wahnfried» la villa
di Wagner a Bayreuth) cfr. H. Mayer, Richard Wagner a Bayreuth (1876-1976), trad. it.
di M. Tosti-Croce, Torino 1981, pp. 11 ss., dove viene notata l’oscillazione della parola
dal significato di aspettazione illusoria, immagine chimerica, fino al significato forte di
follia. Manca però qui il determinante collegamento con la teoria schopenhaueriana del
Wahn. Su tale connessione è invece fondamentale il vasto studio di E. Sans, Richard
Wagner et la pensée schopenhauerienne, Klincksieck, Paris 1969.
92 II genio tiranno

stanze per padroneggiarlo: se attraverso l’«antico Wahn» «niente può


avvenire / può andare o stare», «ora vediamo come fa Hans Sachs /
per dirigere astutamente la follia». Qui il rapporto con Schopenhauer
è stretto, ma sfocia in una serie di essenziali deformazioni.
Il Wahn è in Schopenhauer la struttura astuta della volontà, attra­
verso cui si realizza una mano invisibile che mantiene il disegno gene­
rale di conservazione della vita ingannando gli individui:

La natura può raggiungere il suo scopo, solo insinuando nell’individuo


una certa illusione, in grazia della quale a lui appare come un bene per lui
stesso ciò che in verità è un bene solo per la specie, cosicché egli serve questa,
mentre s’illude di servire se stesso; nel quale processo una semplice chimera,
che rapidamente sparisce, ondeggia innanzi a lui e gli si offre come motivo al
posto di una realtà (Supplementi, p. 656).

Il Wahn è radicato nella vita istintuale degli animali e dell’uomo,


anzi identificato nell’istinto quale si manifesta soprattutto nell’amore
sessuale come momento primario di conservazione della specie. La
tensione infinita del desiderio mostra la sua natura di Wahn in quanto
espressione dell’infinità della specie che sovrasta l’individuo ed usan­
dolo raggiunge lo scopo di perpetuarsi:

Quel desiderio stava dunque a tutti gli altri suoi desideri nello stesso rap­
porto, in cui la specie sta all’individuo, ossia come una cosa infinita ad una fi­
nita. L’appagamento invece risulta propriamente solo a vantaggio della specie
e non cade quindi nella coscienza dell’individuo, il quale qui, animato dalla
volontà della specie, serviva con ogni sacrificio ad uno scopo, che non era il
suo proprio (ivi, p. 659).

In tal senso la lettura di Schopenhauer trasforma in profondità il


feuerbachiano regno del sensibile che Wagner accoglieva nel periodo
giovanile. Non solo la dialettica di genere ed individuo viene risolta in
un meccanismo di inganno; ma la stessa struttura del desiderio, che in
Opera e dramma rimane tuttavia tensione per realizzare i «bisogni ve­
ri» della comunità popolare contro la corruttela del lusso disciplinata
dalle «astrazioni» della Zivilisation e del potere statale, diventa strut­
tura onirica. L’equivalenza di Wahn e sogno sulla base della loro iden­
tica natura allucinatoria è un cardine del discorso di Schopenhauer.
Gli insetti che seguono esclusivamente le guide dell’istinto (e nei quali
dunque esso non entra in contraddizione con le complicazioni del
comportamento secondo «motivi») possono essere definiti «sonnam­
I l illusione e la musica 93

buli naturali» e l’azione su comando del magnetizzatore serve a illu­


minarne la condotta, perché un identico meccanismo fisiologico - la
prevalenza del sistema nervoso «interno» - presiede alla creazione
onirica e all’istinto:
Negli animali fortemente dominati dall’istinto, specialmente negli insetti, ci
si presenta una preponderanza del sistema nervoso gangliare, cioè subiettivo,
su quello obiettivo o cerebrale; da cui si deve dedurre, che essi sono guidati,
non tanto dalla comprensione esatta, obiettiva, quanto dalle rappresentazioni
subiettive, suscitanti desiderio, che nascono dall’azione del sistema gangliare
sul cervello, e quindi sono dominati da un certo vaneggiamento (Wahn): e
questo sarà il processo fisiologico in ogni istinto (Supplementi, p. 660).

La rinuncia di Hans Sachs non va però nella direzione «ascetica»


del genio schopenhaueriano, che sospende l’affermazione vitale nel
mondo: la compassione, assunta da Wagner in una accezione afferma­
tiva, rende il genio equivalente piuttosto allo schopenhaueriano «ge­
nio della specie» che manovra con astuzia le illusioni individuali. Il
presupposto di questa deformazione va ricercato tra l’altro nella
estrema semplificazione eseguita da Wagner. Anche se Schopenhauer
ha insistito su una teatralizzazione della storia umana come spettacolo
della ripetizione di maschere sempre uguali, combinazione di «carat­
teri» non modificabili (eadem sed aliter)\ anche se Hans Sachs usa le­
gittimamente dell’equivalenza schopenhaueriana tra Weltchronik e
Stadtchronik40, in nessun modo si può riferire a Schopenhauer una ri­
duzione della storia umana a vicenda del Wahn istintuale, poiché la
fantasmagoria della vanitas opera (come mostra soprattutto il tema
della noia) entro la complicazione dell’intelletto strumentale, del cre­
scere dei bisogni artificiali e del corrispondente stratificarsi dei «moti­
vi» che modificano l’azione ed elevano «l’edificio così alto e compli­
cato della felicità e infelicità umana» (Parerga, p. 962). Responsabile
della drastica semplificazione di Wagner è, in fondo, la antinomia as­
soluta stabilita dalle opere giovanili tra mondo della buona naturalità,
intatta organicità dei bisogni veri, e Zivilisation ridotta a cattiva astra­
zione e corruzione totale dell’istinto. Wagner attribuisce ora al fonda­
mento stesso della realtà, prima visto come natura buona da liberare

40 Proprio perché non vede il riferimento di Wagner a Schopenhauer, il Newman


(Le opere di Wagner, cit., pp. 393 ss.) può parlare di una incoerenza drammatica, dovu­
ta alla permanenza di un precedente progetto.
94 II genio tiranno

contro l’artificialità storica, la produzione ingannevole del Wahn che


porta comunque al naufragio e che fa sparire la ricognizione scho-
penhaueriana sui meccanismi della vanità nel mondo storico. Esso ap­
pare a Wagner pura ripetizione del Wahn istintuale, come già nella
lettera a Liszt del 7 giugno 1855, dove l’intelletto è organo delle fun­
zioni animali che rinchiude l’uomo comune nel cerchio invalicabile
della logica istintuale. L’opera indirizzata nel 1864 al re Ludwig, Stato
e religione (e che Nietzsche valorizza più di una volta)41, inserisce in
questa concezione della storia, vicenda insensata della «cecità» assolu­
ta del puro istinto animale teso all’autoconservazione, una vanificazio­
ne della politica come attribuzione di finalità costruttive all’intelligen­
za umana, e denuncia in ciò l’errore fondamentale dei «riformatori
del mondo». La giustificazione del suo passato rivoluzionario sta nella
distinzione che attraversa la personalità poetica tra inconscia ed «inti­
ma intuizione della natura del mondo» e «conoscenza astratta e con­
sapevole». Alla seconda appartengono le parole rivoluzionarie, alla
prima il contemporaneo progetto poetico d zWAnello-.
Con questo progetto avevo inconsciamente confessato a me stesso la verità
sulle cose umane. Qui tutto è assolutamente tragico e la volontà, che voleva
fare un mondo in accordo al suo desiderio, alla fine non può raggiungere sod­
disfazione maggiore se non quella di spezzare se stessa in una fine degna42.

Wagner parte qui dalla riduzione dello stato a strumento di regola­


zione degli egoismi in vista della «stabilità», in netta opposizione ad
ogni ipotesi di eticità. Sotto questo livello, che è quello dello stato-
guardiano di Schopenhauer, il politico più abile è colui che calcola

41 Si veda almeno la lettera di Nietzsche a Gersdorff del 2 marzo 1873, e soprat­


tutto quella, allo stesso, del 4 agosto 1869 che testimonia la forte impressione suscitata
dalla lettura del manoscritto, redatto nel 1864 ma pubblicato solo nel 1873 nella raccol­
ta di opere (Epistolario II, p. 35).
42 Gesammelte Schriften, cit., voi. V ili, p. 6. Cfr. anche Mein Leben, cit., vol. II, p.
523 dove Wagner afferma che la filosofia di Schopenhauer gli fece comprendere per la
prima volta il significato della figura di Wotan. Sulla redenzione attraverso Scho­
penhauer daU’«ottimismo scellerato», dalla volontà rivoluzionaria espressa nell’^4«e//o,
scrive Nietzsche: «E tradusse l’Anello in stile schopenhaueriano. Tutto va storto, tutto
va in sfacelo, il mondo nuovo è malvagio quanto l’antico - il nulla, la Circe indiana, va
ammiccando... Brunilde, che secondo la primitiva intenzione doveva accomiatarsi con
un canto inneggiante al libero amore, riempiendo il mondo di belle speranze in una
utopia socialista, con la quale “tutto diventa buono” , ha ora qualcosa di diverso da fare.
Deve innanzitutto studiare Schopenhauer; deve mettere in versi il quarto libro del
Mondo come volontà e rappresentazione. Wagner era redento» (WA, p. 15).
U illusione e la musica 95

solo il «bisogno dell’attimo», giocando sulla pura animalità. Al di là


di questa regolazione puramente esterna e costrittiva, c’è però un
meccanismo di coesione dell’atomismo della società civile frantumata
in egoismi, attraverso un più alto uso mitico del Wahn. Tale grado
non è reso possibile dalla macchinalità costrittiva dello stato, ma dalla
«fede» nell’autorità assoluta del re. La persona del re è collocata sul
terreno dell’assolutamente generico - di cui è «rappresentante»43 - li­
bera dall’utilità dei bisogni egoistici, e volta esclusivamente all’ideale,
legittima e fonda la macchina statale. «Tragica» è la figura del re, il
suo Beruf, perché propria nella sua massima effettualità mitica, pro­
duttrice di coesione comunitaria, il Wahn che egli incarna tocca il li­
mite estremo della genericità e diventando «trasparente» a se stesso si
converte in consapevolezza. Il re emana l’illusione da sé come massi­
ma figura del Wahn in un atto di rinuncia, per la tragica consapevo­
lezza della nullità di ogni ideale: ed è in questo pura Haltung, che si
muove in una «posizione sovrumana» vivendo «completamente e fi­
no in fondo la vera tragicità della vita, in posizione eretta» (Stato e re­
ligione, p. 19). Qui non tanto la politica di Wagner ci interessa, anche
se bisogna osservare che dietro questa auratica proposta di neoasso­
lutismo, si cela la visione moderna di una politica fondata sull’uso di­
sincantato e strumentale del mito, quanto l’analogia tra compassione
e comunicazione «per grazia» del re e quella dell’artista tragico. En­
trambi hanno un rapporto con la religione, con la figura scho-
penhaueriana qui evocata del santo, capace di vivere e intuire in una
esperienza solitaria e indicibile nel linguaggio comune, la vera essen­
za del mondo. Ma la «rivelazione» può essere compassionevolmente
trasmessa agli uomini attraverso le vie privilegiate di un simbolismo
sottratto alla discorsività ed al legame parola-concetto, analogo a

43 Questa posizione del re rimanda probabilmente ancora alla affermazione di


Feuerbach che «Il sovrano è il rappresentante dell’uomo universale» (Tesi provvisorie
per una riforma della filosofia, in Principi della filosofia dell’avvenire, a cura di N. Bob­
bio, Torino 1946, p. 67). Ciò spiega in certa misura il paradossale atteggiamento espres­
so nel primo scritto politico di Wagner, Come conciliare tendenze repubblicane e princi­
pato?, in cui la rivoluzione e l’emancipazione «repubblicana» doveva procedere dall’al­
to, contro la nobiltà, per iniziativa sovrana (cfr. R. Wagner, Harte e la rivoluzione (e altri
scritti politici), cit., pp. 39-48). Sulla fondamentale ambiguità della posizione politica di
Wagner fin dall’inizio, ha scritto pagine decisive Th. W. Adorno, nel già citato Versuch
über Wagner. Sul significato della tragicità del sovrano, nelle sue implicazioni con l’uni­
verso artistico tedesco, cfr. anche Arte e politica tedesca, in particolare gli ultimi capito­
li, in Gesammelte Schriften, cit., vol. V ili.
96 II genio tiranno

quelle della comunicazione liturgica e allegorica del sacro:


Il santo, il martire, è dunque il vero mediatore del sacro; nell’unico modo
che gli è comprensibile, il popolo riconosce in lui di quale contenuto debba
essere l’intuizione di cui esso stesso può diventar partecipe solo per fede, ma
non ancora per sua propria, immediata conoscenza (ivi, p. 26).

In Stato e religione è già formulato con chiarezza il primato della


comunicazione onirica, e l’affinità di sogno e di Wahn. Come il sogno
vero, la rivelazione ha luogo soltanto:
nella più profonda, santa interiorità dell’individuo... Questa è la natura
della vera religione: essa, lontana dall’ingannevole parvenza diurna del mon­
do, riluce solo da tale profondità, nella notte della più profonda interiorità
del sentimento umano, come un’altra luce, totalmente diversa, dalla solarità
del mondo, e tuttavia percepibile (ivi, p. 25).

e può comunicarsi solo tramite «allegorie», allo stesso modo che la


chiaroveggenza artistica si comunica nelle visioni del sogno mattuti­
no. Ma nella conclusione dello scritto, Wagner approda a una distin­
zione tra gradi del Wahn che ne stabilisce una gerarchia, che Nietz­
sche riprenderà, in cui solo all’arte tragica è affidata la capacità di to­
tale redenzione. A differenza del Wahn religioso, che porta fuori dal
mondo e di quello regale, che si fissa nel dolore della consapevolezza
di sé, il Wahn artistico redime la «serietà» del mondo convertendola
in giuoco dell’apparenza.
...L a sua forza specifica deve esercitarla in questo: nel porre il Wahn con­
sapevole al posto della realtà. Questa è la funzione dell’arte, e congedandomi
dal mio Venerato Amico gliela indico come la gioiosa risanatrice, che però
non porta realmente e completamente fuori della vita, ma che all’interno della
vita solleva sopra di essa e ce la fa apparire come un gioco. Un gioco che, per
quanto possa apparirci serio e terribile, ci viene mostrato, daccapo, solo come
immagine di Wahn che in quanto tale ci consola e ci distoglie dalla comune e
verace miseria... e guardando estatico questo meraviglioso gioco del Wahn gli
ritornerà finalmente alla vista con limpida chiarezza l’indicibile immagine di
sogno della rivelazione più santa... (ivi, pp. 28-29).

Ma come sarà in Nietzsche, il giuoco dell’apparenza rimanda con­


tinuamente alla trasparenza del fondo vitale. Anche in Wagner l’arte
che ha «beneficamente risolto la realtà in Wahn» non falsifica il mon­
do, anzi ne mostra in modo non distruttivo la natura: «L a nullità del
mondo è qui aperta, innocente, ammessa come in un sorriso: giacché
L’illusione e la musica 97

il fatto che volevamo volontariamente ingannarci ci condusse a rico­


noscere senza inganno la realtà del mondo». Il tema del sorriso e del
giuoco compare nei Frammenti della fine del 7 0 e inizio del 7 1 44, che
mostrano una trama complicata, talora anche contraddittoria nel suo
sviluppo, ma che comunque ha come filo rosso il riferimento al tema
schopenhaueriano e wagneriano del Wahn. L’intera metafisica dell’ar­
tista rimanda a una struttura dell’Uno originario ( Ur-Eine) che scarica
la sua intima natura contraddittoria nella proiezione allucinatorio-
estatica di Vorstellungen, Wahnvorstellungen, Wahngebilde. Allo Ur­
schmerz, Urwiderspruch corrisponde questa «immensa facoltà artisti­
ca» del mondo che spezza il suo dolore originario:
Il nostro dolore e la nostra contraddizione sono il dolore e la contraddi­
zione originari, spezzati dalla rappresentazione (che produce piacere)... (NF,
p. 213).

La rappresentazione è l’estasi del dolore, attraverso la quale esso viene


spezzato. In questo senso il dolore più forte è tuttavia un dolore, spezzato,
rappresentato, di fronte al dolore originario della Volontà unica...
Le Wahnvorstellungen come estasi, per spezzare il dolore (NF, pp. 224-225).

La realtà assume il carattere di una rete di Wahnvorstellungen, in


cui l’intero mondo fenomenico - incluso il suo momento conoscitivo -
è riportato ad istinto estetico, sottoposta però continuamente alla pre­
carietà, all’urto distruttivo della dinamica contraddittoria dell’Ur-Eine.
Ne La visione dionisiaca del mondo, la zona intermedia di unificazione
tra apollineo e dionisiaco «si rivela in un giuocare con l’ebbrezza, non
già nell’essere assorbiti da essa». Emerge qui la figura dell’attore, «uo­
mo dionisiaco rappresentato» e il giuoco della rappresentazione viene
visto da Nietzsche come una costruzione che permette di scaricare e
controllare ritualmente l’immediatezza distruttiva del dionisiaco:
Quel canto e quella danza non sono più l’ebbrezza istintiva della natura: la
massa corale eccitata dionisiacamente non è più la massa popolare còlta in­
consciamente dall’impulso primaverile (p. 69).

Nel Wahnmechanismus e nelle sue «leggi» si rivela l’enorme e serio


compito dell’arte come «vera attività metafisica» secondo le indicazio­

44 Confronta ad es. il frammento 7 [27] «In senso oggettivo: il bello è un sorridere


della natura, un sovrappiù di forza e un sentimento di piacere dell’esistenza: si pensi al­
la pianta» e 7 [29] (NF, pp. 152-153).
98 II genio tiranno

ni di Wagner che Nietzsche richiama nell’introduzione alla Nascita


della tragedia. Fin dai primi capitoli dell’opera, è su questo meccani­
smo che viene legittimata la costruzione della civiltà greca e l’appa­
rente «ingenuità» della montagna incantata:
L’«ingenuità» omerica è da intendere solo come la perfetta vittoria dell’il­
lusione apollinea: è questa un’illusione come quella che la natura così spesso
impiega per il conseguimento dei suoi fini. Il vero scopo viene coperto da
un’immagine illusoria: tendiamo le mani verso questa, e la natura raggiunge
quello attraverso il nostro errore (GT, p. 34).

Ma il carattere mitico-rituale dell’espressione magica reca in sé due


aspetti congiunti, quello costruttivo e quello affermativo-antiletargico.
Il mondo greco come immediatezza e bella unità con la natura, così co­
me appare alla nostalgia dei moderni, è una falsificazione basata su
un’ideologia dell’originario e della roussouiana natura buona: là dove si
incontra l’ingenuo schilleriano, c’è in realtà una cultura apollinea che
ha lottato con fatica contro l’informe e il barbarico per imporre la sua
immagine. In un frammento del 70-71 (NF, p. 214) si afferma la neces­
sità di «rafforzare» i concetti di ingenuo e sentimentale, e l’ingenuo è
«compiuto velamento attraverso meccanismi di inganno». Anche il
concetto schilleriano di cultura come unità di stile nella vita di un po­
polo passa attraverso la costruzione e la manipolazione del Wahn:
Cos’è educazione? Il fatto che si comprende subito tutto il vissuto sotto de­
terminate Wahnvorstellungen. Il valore di tali Wahnvorstellungen determina il
valore delle culture e delle educazioni... Cultura: in base al carattere di Wahn­
vorstellungen. Come è trasmissibile la cultura? Non per pura conoscenza, ma
attraverso la potenza dell’elemento personale. L a potenza dell’elemento perso­
nale sta nel suo valore per la volontà (quanto più è ampio e grande il mondo
che domina). Ogni nuova creazione d’una civiltà attraverso forti nature esem­
plari in cui si producono di nuovo le Wahnvorstellungen (NF, p. 126)45.

In questi frammenti, oltre al tema della comunicazione geniale, che


oltrepassa le categorie dell’intelletto agendo attraverso un «influsso

45 Ancora nella Inattuale sulla storia, con un significativo rimando al monologo di


Hans Sachs («tutte le cose grandi “che mai riescono senza un po’ d’illusione”») Nietz­
sche afferma per il maturare di una civiltà il «bisogno di una tale illusione avvolgente,
di una tale nube che vela e protegge», una vita quindi «dominata dagli istinti e da robu­
ste illusioni» di contro alla pericolosità della storia e della scienza (Sull’utilità e il danno
della storia per la vita, p. 316).
l i illusione e la musica 99

magico da persona a persona», si sviluppa il tema dell’istinto in cui si


esprime direttamente una volontà che sottomette con l’inganno l’indi­
viduo. Ne Lo stato greco la «vergogna», accompagna necessariamente
la creazione artistica, la produzione di una «forma superiore di esi­
stenza», che qui è descritta in analogia ai termini della schopenhaue-
riana metafisica dell’amore sessuale, e indica la consapevolezza del­
l’uomo greco di essere comunque «soltanto uno strumento di feno­
meni della volontà infinitamente più grandi di quanto egli possa con­
siderare se stesso, nella figura singola dell’individuo» (p. 226). Nietz­
sche individua il valore di una Kultur nella capacità di avvicinare in
modo non distruttivo il fondo vitale, e ciò avviene quando l’arte tragi­
ca con l’ausilio del mito alza il suo edificio incantato con la nascosta
consapevolezza dell’orrore àéìl’Ur-Eine. Il postulato iniziale di Nietz­
sche è l’impossibilità pratica della negazione della vita, e un prendere
posizione verso la schopenhaueriana «nostalgia del nulla»:

...N on vogliamo più vivere ed agire, dicono altri. E tuttavia agiscono, an­
che il quietismo è un minimum d’azione; ed è indifferente se si vive molto o
poco. Agiamo quindi in piena autoaffermazione, dicono altri: serviamo il pro­
cesso universale. La conoscenza che il singolo non può sottrarsi, ci trattiene
(NF, p. 105).

La Weltcorrektion che qui Nietzsche propone passa attraverso la


trama saldamente intrecciata delle illusioni, il cui filo è tirato, per vera
compassione verso la comunità, dal genio tragico. Si tratta di un tipo
di organizzazione mitica della Kultur opposto a quelli alessandrino o
buddistico, e in cui la costruzione piramidale della civiltà che ha al
suo culmine la fioritura geniale, consente una gerarchia dei gradi di il­
lusione vitale che la vincola in modo saldo al terreno dell’istintività.
Tale vicinanza significa fedeltà aìl’Ur-Eine che, proprio nel genio, sod­
disfa in modo potenziato la sua capacità artistico-rappresentativa. L’a­
deguarsi, attraverso un enorme sforzo costruttivo, della cultura all’in­
conscia teologia deü’Ur-Eine, significa anzitutto l’incondizionata su­
bordinazione al genio:

Ogni uomo, con tutta la sua attività, acquista una dignità solo in quanto
sia coscientemente o incoscientemente, uno strumento del genio; onde si può
dedurre senz’altro la conclusione etica che l’«uomo in sé», l’uomo in assoluto,
non possiede né dignità, né diritti, né doveri: solo come essere pienamente
determinato, al servizio di scopi ignoti, l’uomo può giustificare la propria esi­
stenza (CV, p. 236).
100 II genio tiranno

La crisi della comunità greca emerge quando il Wahn-istinto viene


distrutto anche ai livelli inferiori, della schiavitù (quando cioè l’inda­
gine socratica svincola la condizione servile dall’istintività): in tal mo­
do la cooperazione delle forze verso il culmine della piramide si di­
sperde e si complica nell’artificialità. Se le forze non vengono raccolte
e organizzate nella direzione del genio, l’unico in grado di cementare
e trattenere in senso vitale, con la costruzione apollinea, l’orrore
deìl’Ur-Eine, la società - come nel caso della cultura alessandrina con
il suo ottimismo della conoscenza e dell’azione, e di quella puramente
tragica, orientale - va incontro a una perdita di forma che la condanna
all’autodistruzione. Su questa richiesta della forma, che apparenta in
profondità il clima intellettuale de La nascita della tragedia soprattutto
agli scritti teorici del primo Wagner e alla loro esigenza di classicità
(ad essi Nietzsche non cessa di far riferimento, in una visione dello
sviluppo di Wagner come continuità, solo più tardi riconosciuta inso­
stenibile) è in gran parte basata l’implicita filosofia della storia del pri­
mo periodo: si tratta di ricondurre all’unità formale «tragica» uno svi­
luppo di contraddizioni sempre più vasto e complesso. L a forza risa­
natrice dell’arte interviene quando una trama di allucinazioni ha esau­
rito la sua funzione coesiva, e diventa distruttiva facendo emergere di
nuovo la pura informalità del tragico. Così il socratismo, spingendo
agli estremi il suo ottimismo conoscitivo, incontra il suo limite interno
e produce di nuovo conoscenza tragica, letargica («il mare aperto»
della scienza porta al naufragio). Con un riferimento al Kant di Scho­
penhauer, che limita la conoscenza possibile al mondo fenomenico, e
mostra come nella conoscenza del mondo in sé «non si sarebbe fatto
un passo avanti, ma ci si sarebbe solo mossi come lo scoiattolo nella
ruota» (Il Mondo, p. 522) Nietzsche mostra la finale conversione tra­
gico-letargica dello sforzo socratico. Il laissez-aller nei confronti dell’i-
stintualità, legata alla maschera individuale o espressione di Wahn in­
feriori, che sottomettono l’individuo a organizzazioni puramente
egoistiche (stato, apparato di fabbrica ecc.) porta al caos distruttivo di
ogni cultura organica. In primo piano vengono infatti le «allucinazio­
ni concettuali», astrazioni antivitali in quanto misconoscono l’essenza
tragica del fondo vitale e distruggono con ciò la base di ogni civiltà.
Esse sono una deviazione nella dinamica privilegiata del Wahn, per
cui forme inferiori dell’esistenza, vicine all’animalità e puramente
strumentali all’economia di forze che realizza l’individuo superiore,
pretendono esse stesse all’individuazione e all’autonomia del signifi­
L illusion e e la musica 101

cato. Riprendendo la pagina dove Schopenhauer attacca la kantiana


dignità deH’uomo come puro nome che nasconde l’assenza del con­
cetto46, Nietzsche scrive ne Lo stato greco-.
Nell’epoca moderna le idee generali sono fissate non già dall’uomo che ha
bisogno dell’arte, bensì dallo schiavo, il quale, per sua natura, deve designare
tutti i suoi interessi con nomi ingannevoli, per poter vivere. Tali fantasmi, co­
me la dignità dell’uomo e la dignità del lavoro, sono i miseri prodotti di una
schiavitù che vuole nascondersi a se stessa. Epoca infelice, in cui lo schiavo ha
bisogno di tali concetti, e in cui egli è stimolato a riflettere su di sé e al di là di
sé (p. 224).

La costruzione della forma tragica deve dunque padroneggiare


non una mera ripetizione del caos primitivo, ma un’informalità poten­
ziata ed allargata dagli esperimenti di civiltà che hanno costruito di­
menticando o deviando il contatto con il fondo vitale. Non vi sono in
questa fase del pensiero di Nietzsche fratture con il senso e gli stru­
menti della battaglia culturale di Wagner: questa consonanza che, co­
me abbiamo cercato di mostrare, si basa sull’affinità di varie figure
concettuali, sarà però di breve durata. Già l’emergere della figura del
filosofo, con il suo «pathos della verità», e nella sua volontà di sveglia­
re il dormiente, esce fuori dall’universo wagneriano.

6. La civiltà dello spirito libero

Sul pathos della verità presenta il filosofo come figura doppia. Con
la metafisica il filosofo può potenziare il carattere narcotico dell’arte,
ma esiste anche, sullo sfondo, come possibilità minacciosa, il filosofo
che assume il peso della conoscenza come funzione nichilistica, che
mostra l’uomo sognante «sospeso, per così dire, sul dorso di una ti­
gre». « “Lasciatelo stare” esclama l’arte. “Risvegliatelo” esclama il filo­

46 A. Schopenhauer, Memoria su l fondamento della morale, in I due problem i fon­


damentali dell’etica, a cura di G. Faggin, Torino 1961, p. 245. Va in generale sottolinea­
to che Nietzsche già in questo periodo, attraverso una radicalizzazione del fenomeni­
smo di Lange, opera una riduzione della morale al mondo fenomenico dominato dai
meccanismi del Wahn. Cosi, nel frammento 5 [80], assai importante per l’intera temati­
ca di cui ci occupiamo, il dovere contrapposto alle rappresentazioni è «un inganno»: «I
veri motivi di movimento della volontà vengono celati da queste rappresentazioni del
dovere» (NF, p. 116).
102 II genio tiranno

sofo, nel pathos della verità. Ma egli stesso sprofonda, mentre crede di
scuotere il dormiente, in un magico sonno ancora più profondo - for­
se egli sogna le “idee” oppure l’immortalità. L’arte è più potente della
conoscenza, poiché essa vuole la vita, mentre la conoscenza raggiunge
come suo fine ultimo soltanto - l’annientamento» (CV, p. 217). Que­
sta seconda, minacciosa potenzialità del filosofo è presentata come
realizzata in Eraclito con l’immagine (cara anche a Schopenhauer) del
filosofo desto, antitetico all’artista-santo, privo di rapporto compas­
sionevole con l’umanità:
Il suo agire non si rivolge mai ad un «pubblico», all’applauso delle masse
e al coro osannante dei contemporanei. Il percorrere la strada da soli rientra
nell’essenza del filosofo... Da lui non sgorga nessun sentimento strapotente
di commozione compassionevole, nessun desiderio di aiutare, risanare e sal­
vare. Egli è un astro privo di atmosfera... Fra gli uomini Eraclito era, come
uomo, incredibile (PHG, pp. 304-305; cfr. CV, p. 213).

Quando il distacco da Wagner sarà consumato del tutto, Nietzsche


sentirà l’esigenza, fin dai primi aforismi di Umano troppo umano, di
analizzare storicamente il significato del sogno: «Nelle epoche di ci­
viltà rozza e primordiale l’uomo credette di conoscere nel sogno un
secondo mondo reale-, è questa l’origine di ogni metafisica» (MA, p.
18). Nietzsche conduce una intensa critica all’intreccio Sch o­
penhauer-Wagner, leggibile soprattutto attraverso il filo rosso dell’in­
terpretazione del sogno la cui origine viene scomposta e riportata an­
zitutto a termini fisiologici. Qui la fisiologia schopenhaueriana del so­
gno (chiaramente ripresa da Nietzsche nell’aforisma 13, Logica del so­
gno) anziché condurre, come è in Schopenhauer, al salto metafisico,
dà la spiegazione genetica di questo salto. Così l’eccitazione del siste­
ma nervoso, «per molteplici cause interne», la insolita posizione del
corpo, gli intestini che «si torcono», «i piedi che, scalzi, non premono
il suolo con le piante, causano il senso dell’insolito, altrettanto che il
diverso abbigliamento dell’intero corpo - tutto ciò, secondo il suo
mutamento e grado quotidiano, eccita con la sua straordinarietà tutto
quanto il sistema fin nella funzione cerebrale: e così si danno cento
occasioni per lo spirito di guardarsi intorno con stupore e di cercare
ragioni a questa eccitazione: ma il sogno è la ricerca e la rappresenta­
zione delle cause per quelle sensazioni eccitate, ossia delle presunte
cause. Chi per esempio si cinge i piedi con due cinture, sognerà che
due serpenti si attorcigliano intorno ai suoi piedi: questa è dapprima
L ’illusione e la musica 103

un’ipotesi, poi una fede, accompagnata dalla rappresentazione e dal­


l’invenzione di un’immagine: “questi serpenti devono essere la causa
di quella sensazione che io, dormiente, provo”, così giudica lo spirito
del dormiente. Il passato prossimo così interpretato diventa per lui,
attraverso la fantasia eccitata, il presente» (MA, pp. 22-23). Proprio
questa imputazione fantastica di cause assegna il sogno a uno stile pri­
mitivo di pensiero:

come l’uomo ancora oggi ragiona in sogno, così l’umanità ragionò anche
nella veglia per molti millenni: la prima causa che si presentava alla mente per
spiegare qualcosa che abbisognava di spiegazione, le bastava ed era ritenuta
verità... Nel sogno continua ad agire in noi questa antichissima parte di uma­
nità, poiché essa è la base sulla quale si sviluppò e ancora si sviluppa in ogni
uomo la superiore ragione; il sogno ci riporta indietro in remoti stadi di ci­
viltà umana e fornisce il mezzo per comprenderli meglio (ivi, p. 24).

Nel rievocare stati anteriori dell’umanità il sogno lavora però come


l’artista, che attribuendo alle sue disposizioni cause «non vere» ricor­
da «uno stato antico dell’umanità e può aiutarci a comprenderla» (ivi,
p. 24). In questa chiave l’elogio della filologia, che ritorna con Umano
troppo umano, assume una funzione antischopenhaueriana e combatte
le vie privilegiate di comprensione, la pretesa di penetrare intuitiva­
mente l’essenza del mondo:

si attribuisce loro [ai geni] una visione immediata dell’essenza del mondo,
come attraverso un buco nel mantello dell’apparenza, e si crede che grazie a
tale miracolosa, profetica visione, essi possano comunicare, senza la fatica e il
rigore della scienza, qualcosa di definitivo e di decisivo sull’uomo e sul mon­
do (ivi, p. 131).

Tali vie sono in realtà basate su ima causalità fantastica e lo stesso


sdoppiamento della realtà in significato profondo e apparenza, è frut­
to di una cattiva lettura della natura:

Ci vuole moltissima intelligenza per applicare alla natura la stessa specie di


severa esegesi, quale oggi i filologi hanno creato per tutti i libri: con l’inten­
zione di comprendere semplicemente ciò che il testo vuol dire, non già di sco­
vare o addirittura presupporre un doppio senso (ivi, p. 19).

Con la fine delle vie privilegiate e del simplex sigillum veri, il filo­
sofo si allontana dal mito dell’Ur, dall’apologià del primitivismo e dei
suoi stili di pensiero, ed esige uno sguardo desto adeguato alle «più se­
104 II genio tiranno

vere esigenze di pensiero che vengono poste dalia più alta civiltà» (ivi,
p. 22). Il sogno viene ricondotto ai suoi termini di «riposo per il cer­
vello» rispetto all’impegno agonale del giorno. La sfida evolutiva della
conoscenza è in primo piano in questo periodo: lo spirito libero cerca
di coniugare la «verità» con un tipo di esistenza alternativa a quella
inconscia della comunità primitiva:

Gli uomini possono consapevolmente decidere di svilupparsi oltre in una


nuova civiltà, mentre prima si sviluppavano inconsciamente e a caso: essi pos­
sono adesso creare migliori condizioni per la nascita degli uomini, per la loro
alimentazione, la loro educazione, la loro istruzione, amministrare economi­
camente la terra come un tutto, vagliare le une con le altre e coordinare le for­
ze degli uomini in genere. Questa nuova civiltà consapevole uccide quella an­
tica, che, considerata come un tutto, ha condotto una vita inconscia da ani­
male e da pianta; essa uccide anche la diffidenza verso il progresso: esso è pos­
sibile. Voglio dire: è avventato e quasi insensato credere che il progresso deb­
ba seguire necessariamente; ma come si potrebbe negare che esso è possibile?
(MA, pp. 33-34).

Le «verità» garantite dalla scienza e dalla ragione critica sostengo­


no una battaglia liberatrice e definitiva contro la precedente scelta an­
tivitale della metafisica dell’artista, contro la pericolosa superstizione
del genio. La verità appare più utile, anche se comporta una rottura
dolorosa con le illusioni ed il pericolo di una perdita delle fonti di
energia costituite dalla creduta garanzia trascendente dei valori. Il ca­
rattere demistificante della scienza e della storia è in primo piano (si
tratta di riportare in basso ciò che era stato posto in alto): ma la via
della negazione non viene intrapresa fino in fondo.

Noi esigiamo che il bene dell’umanità costituisca il punto limite del domi­
nio della ricerca della verità (non il pensiero-guida, ma quello che traccia de­
terminati confini) (FP 1877, p. 447).

L’orizzonte dell’umanità e dei suoi vantaggi costituisce il limite en­


tro cui deve svolgersi il processo scientifico, legato al sorgere di nuove
aurore. Non c’è infatti alcuna armonia prestabilita tra il progresso
della verità e il bene dell’uomo. Si tratta di tornare «buoni vicini delle
cose prossime», fare a meno dei dogmi ideali, delle religioni che han­
no bloccato e impedito, sulla base di menzogne antivitali, lo sviluppo
sociale e umano. È necessario finirla con i narcotici e le consolazioni,
con l’impurezza metafisica: alla lunga il rovesciamento del mondo, il
L’illusione e la musica 105

privilegiamento dell’aldilà (sia esso Dio, essere, la volontà ecc.) com­


porta una completa e radicale svalutazione dell’unico mondo reale:
del flusso di forze in divenire da seguire e interpretare nei suoi svilup­
pi «storici». La fine delle consolazioni scatena nuove (anche pericolo­
se) energie: il compito è quello di canalizzarle in una direzione di svi­
luppo ordinato, la ragione e la scienza sono, in questa prospettiva, «le
forze umane più alte di tutte» (FP 1877, p. 448) che non conoscono
compromessi col mito religioso: «vivono su pianeti diversi». La scelta
per la scienza appare una scelta per la comunicazione e quindi, in sen­
so relativo, per una costruzione sociale «ragionevole». Si aprono mete
umano-ecumeniche: per realizzare la prospettiva ecumenica è neces­
sario partire dai bisogni dell’umanità tenendo realisticamente conto
delle basi della civiltà. Questo realismo lascia lo spazio per etemizzare
alcune contraddizioni ineliminabili (la parte dell’esistenza che nei
frammenti sull’educazione veniva posta come immodifìcabile). Si riaf­
ferma quindi con chiarezza la divisione di «casta» (del lavoro forzato
e del lavoro libero) come strumento necessario per la civiltà superio­
re. L’ideologia di fondo è quella dell’«uomo» alla cui ottica «generi­
ca» si riportano le idealità trascendenti. Questo il residuo idealistico
per cui in un frammento del ’77 Nietzsche scriverà: «Necessario assu­
mere tutto il positivismo in me, e pur tuttavia essere il rappresentante
dell’idealismo» (FP 1877, p. 388). Il cammino di Nietzsche sarà, co­
me vedremo, la distruzione di questo supporto a favore della comple­
ta immanenza del flusso di forze. Se il rinnovamento vitale e l’inseri­
mento di elementi razionali nella forma sociale sono affidati all’indivi­
duo, la cui libertà trova ostacolo nello spessore del pregiudizio della
massa «vincolata», tale attività è pur sempre affermata nella direzione
di un reale e ragionevole utile del complesso. Il viandante, pur proce­
dendo da solo sulla via della riflessione e della critica, si porta dietro
la sua ombra sociale. Contro il carattere inquietante del reale, che nul­
la garantisce nella sua estrema indifferenza per l’uomo, Nietzsche
sembra fare appello alla solidarietà della forza umana:

Forse che non si trova nella testa ciò che lega gli uomini: la comprensione
per l’utilità e lo svantaggio comuni, e nel cuore ciò che li divide: il cieco sce­
gliere e brancolare nell’amore e nell’odio, la devozione per uno a spese di tut­
ti e il disprezzo, da ciò derivante, dell’utilità generale? (VM, p. 77).

Attraverso il “rischiaramento” delle forze positive, a disposizione


dell’uomo, si perde il fascino estetico del fondo vitale. Nietzsche af­
106 11 genio tiranno

ferma pacatamente e anche, in certi momenti, con grigiore disincanta­


to, il valore della conoscenza scientifica.
E la guerra, ma una guerra senza polvere da sparo e senza fumo, senza po­
se guerresche, senza pathos né membra contorte; tutto questo sarebbe ancora
«idealismo». Un errore dopo l’altro viene tranquillamente messo sul ghiaccio,
l’ideale non viene confutato, congela (EH, pp. 331-332).

Cosi si esprime Nietzsche, in Ecce homo, sull’atteggiamento di que­


sto periodo. La disumanizzazione della natura (il completo riportare
all’uomo la forza artistica già attribuita al fondo vitale) sembra com­
portare all’inizio una povertà desolata. La scienza ha come disseccato
le cose privandole della linfa magica che l’uomo vi aveva immesso. In
tal modo ha dato però un potere effettivo: l’uomo è diventato il «dio
delle macchine», ha reso praticabile la natura accontentandosi degli
schemi e delle astrazioni del meccanicismo. La scienza ci deve avvici­
nare alle cose prossime: la saggezza antica volava verso gli dèi impove­
rendo gli uomini.
Qui è annidato l’errore di tutta una direzione del pensiero. Si trascura pro­
prio ciò che è piccolo, debole, umano, illogico, difettoso: eppure soltanto stu­
diando con la massima cura tutto ciò, si può diventare saggi (FP 1877, p. 455).

C ’è la scelta costretta dello spirito libero verso le piccole cose dopo


l’ubriacatura degli ideali romantici di una ricchezza debordante.
Nietzsche constata la perdita del talento per la “gioia festiva” propria
dell’antichità: la sua spiegazione del fenomeno va a favore dei tempi
moderni che cercano non un palliativo al dolore (la festa) ma la modi­
ficazione delle cause della sofferenza attraverso l’invenzione di mac­
chine e la soluzione di problemi scientifici.
Noi siamo profilattici, gli antichi erano palliativi. Le nostre feste saranno
giustamente feste della cultura e, nel complesso, rare (FP 1877, p. 455).

Nietzsche coglie ora l’elemento consolatorio nella festa antica, già


esaltata ne La nascita della tragedia. Qui non troviamo ancora svilup­
pato il tema della “sperimentazione” legato alla ricerca di una radicale
alternativa all’uomo “generico” e al suo sentire. Questo comporterà
anche, come vedremo, una relativizzazione del valore della scienza at­
tuale in quanto sperimentazione bloccata nella direzione della sicu­
rezza della specie e del fantasma «uomo». La riflessione dello spirito
libero, più che nella sperimentazione trova la sua forza nel sapere sto­
L’illusione e la musica 107

rico: ancora una sintesi di risultati da assicurare e da assimilare più


che un’attività alternativa e creatrice che presupponga tale assimila­
zione per andare più in alto. Lo spirito libero deve «assimilare la
scienza» farla parte di se stesso ed essere in questo modo vivente for­
za critica delle illusioni. In questo contesto, la demolizione di Nietz­
sche colpisce soprattutto la pretesa della «musica assoluta» di parlare
direttamente all’interiorità dall’interiorità, e tenta una ricostruzione
genetica della comunicazione musicale a partire dall’imitazione dei
gesti.

Sembra che nelle epoche passate si sia già prodotta sovente la stessa cosa
che oggi avviene sotto i nostri occhi e orecchi nello sviluppo della musica,
specialmente della musica drammatica: mentre in un primo tempo la musica,
senza danza e mimo (il linguaggio dei gesti) esplicanti, è vuoto rumore, l’orec­
chio, attraverso una lunga abitudine a quella unione di musica e di movimen­
to, viene educato ad interpretare immediatamente le figure musicali, e giunge
infine a un grado di rapida comprensione, in cui non ha più affatto bisogno
del movimento visibile per comprendere il musicista. Si parla allora di musica
assoluta, cioè di musica in cui tutto viene inteso simbolicamente senza altri
sussidi (MA, p. 149).

La forza del discorso di Nietzsche sta nel voler tradurre in senso di


vita non solo l’atteggiamento e la freddezza critica ma anche i concreti
risultati delle moderne scienze della natura. Non il servire la scienza
(proprio del dotto-strumento) ma l’asservire la scienza attraverso una
superiore assimilazione dei contenuti è la via per la liberazione. È ne­
cessario valutare a fondo l’importanza che Nietzsche dà al motivo del­
l’assimilazione del vero di contro all’accumulazione ed incorporazio­
ne di errori e di illusioni pietrificati in “costume” e al servizio della
violenza comunitaria. Questi temi solo nelle opere successive trove­
ranno più maturi sviluppi con la lotta aperta alla comunità ed ai suoi
residui nella moderna civiltà.
In questa prospettiva Nietzsche affida all’intellettuale, come pro­
duttore di coscienza critica, il ruolo centrale di guida. L’intellettuale è
lontano qui da ogni connotazione geniale e totalizzante, ma ha piutto­
sto i caratteri del portavoce della moderna civiltà scientifica: il medi­
co, l’economista, il naturalista ecc. Si teorizza un progresso realistico:
una luce che tenga conto dell’ombra «che tutte le cose mostrano
quando il sole della conoscenza cade su di esse». Abbandonata ogni
prevaricazione antropocentrica sulla realtà naturale (la metafisica del­
108 II genio tiranno

l’artista) c’è ora la volontà modesta di fare della commedia umana so­
lo un episodio trascurabile sullo sfondo di vicissitudini cosmiche:
la goccia di vita che è nel mondo è senza importanza per il carattere totale
del mostruoso oceano di divenire e trapassare... Forse la formica nel bosco
immagina altrettanto fortemente di essere meta e scopo della esistenza nel bo­
sco, come facciamo noi quando alla fine dell’umanità, nella nostra fantasia, ri­
colleghiamo quasi involontariamente la fine della terra: anzi siamo ancora
modesti quando ci fermiamo a ciò e non organizziamo, per i funerali dell’ulti­
mo uomo, un crepuscolo universale del mondo e degli dèi. Anche l’astrono­
mo più spregiudicato quasi non può immaginare la terra senza vita altro che
come lo splendente e fluttuante tumulo dell’umanità (WS, p. 142).
4.
Il romanticismo e la scienza:
Nietzsche, Wagner, Renan

1. La barbarie del lavoro diviso

La lettura nietzscheana di Renan è una chiave per valutare il suo


atteggiamento nei confronti della cultura francese, la valorizzazione
degli aspetti “forti” di analisi e “vivisezione” (secondo una linea che
va da Stendhal a Taine) in contrapposizione alla debolezza di volontà
del “ romanticismo” . Essa dà inoltre elementi indispensabili per chia­
rire la complessa posizione di Nietzsche nei confronti della cultura
positivistica.
Nel dibattito ottocentesco sulla natura della scienza, Nietzsche e
Renan si dispongono in un contesto di significative coincidenze ed al­
trettanto significative divaricazioni che sforeranno nel confronto anta­
gonistico di Nietzsche verso i Dialogues philosophiques e di cui voglia­
mo ricostruire la preistoria. Scienza è intanto, agli inizi della riflessio­
ne di entrambi, la filologia e una serie di metafore comuni mostrano
che la nozione di scienza è attraversata dalla preoccupazione di fornire
un modello di società che superi in una dimensione organica la disper­
sione “analitica” e gli effetti disgreganti della divisione del lavoro. Al
centro di questa preoccupazione c’è il rapporto scienza-genio. Il pri­
mo movimento critico di Nietzsche verso la sua pratica filologica ha in
Schopenhauer il catalizzatore. La figura del genio schopenhaueriano,
libero dalla pressione egoistica della volontà e capace della prospettiva
universale, della comprensione della totalità, si oppone a quella dello
“scienziato” specializzato che «somiglia all’operaio di fabbrica, il qua­
le, durante tutta la vita, non fa altro che fabbricare una certa vite o un
certo gancio, o un noto manico di un certo arnese o di una certa mac­
china, e in questo ramo raggiunge, certo, un incredibile virtuosi­
sm o...» (Parerga, p. 1187). Nietzsche riprende letteralmente la me­
tafora dell’operaio di fabbrica più volte applicandola al lavoro del filo-
110 II genio tiranno

logo sia nelle lettere precedenti la venuta a Basilea sia nelle conferenze
Sull’avvenire delle nostre scuole. In una lettera a Deussen del ’68, il fi­
lologo è legato a un ruolo produttivo limitato, e anche per i «nostri
massimi talenti filologici» vale la loro assimilazione a «operai» subor­
dinati al genio filosofico che si identifica con il «datore di lavoro», co­
lui che indica lo scopo e conosce la destinazione della cooperazione di
fabbrica (Epistolario I, pp. 622-623). La divisione del lavoro, legata al
trionfo degli specialismi e allo sviluppo unilaterale delle facoltà umane
è l’apice della moderna «barbarie» civilizzatoria, a cui Nietzsche con­
trappone la schilleriana cultura come «unità di stile nella vita di un
popolo». La schiavitù si espande a tutta la società nel momento in cui
l’apice strumentale e limitato ha perso il riferimento e la subordinazio­
ne al senso, tipica del mondo greco, in cui tutto è funzionale al genio
che realizza la coesione comunitaria. A differenza della visione para­
digmatica del mondo greco in cui non domina una divisione meccani­
co-artificiale del lavoro, ma ogni professionalità è legata spontanea­
mente, per “istinto”, all’inconscio fondo vitale ed appare come fatum-,
nei frammenti postumi del 1869-70, ad es., si legge:
La schiavitù dei barbari (cioè la nostra).
Divisione del lavoro è principio della barbarie, dominio del meccanismo.
Nell’organismo non vi è alcuna parte separabile.
L’individualismo dell’epoca moderna e l’opposto nell’antichità. L’uomo
completamente isolato è troppo debole e viene preso nei lacci della schiavitù:
p. es. di una scienza, di un concetto, di un vizio (NF 1869-1870, p. 73).

Col mondo moderno, e ha nascita della tragedia vede in Socrate il


Wendepunkt di questo processo, viene meno la «ingenuità degli antichi
nella divisione di schiavi e liberi» (Ibidem). Lo schiavo, «cieca talpa
della cultura», acquista con Socrate voce proprio perché l’intellettuali­
smo socratico disancora la divisione greca del lavoro dal suo carattere
di naturalità e istintività1. Socrate colpisce l’eccellenza del mondo gre­
co che si basa sul nascondimento della genesi materiale e servile della
bella totalità, tema questo che sarà centrale anche in Burckhardt dove1

1 Nietzsche mette in luce la forza dissolutrice della criticità di Socrate, nelle sue
peregrinazioni, verso l’esercizio istintivo delle varie attività nella polis. Nietzsche fa ve­
dere inoltre come con Socrate ed Euripide trionfi il carattere borghese fino al suo do­
minio completo con la commedia dell’intrigo: «L ’attimo e l’arguzia sono le sue divinità
supreme; predomina ora, almeno secondo i sentimenti, il quinto stato, quello dello
schiavo» (SGT, p. 30).
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 111

la schiavitù e il mondo del lavoro costretto sono la base necessaria per


il fiorire della Kultur, che ne costituisce la sublimazione e l’unica giu­
stificazione possibile. La scienza è il sintomo di quella inversione «bar­
barica» che il mondo moderno ha effettuato rispetto al mondo greco;
la genesi che restava nascosta e subalterna agli scopi superiori della
Kultur permea ora di sé tutte le forme della vita e il carattere strumen-
tale-servile domina interamente. Il tema della vivisezione critica pro­
pria della scienza e dell’impulso alla verità («è vietata la vivisezione»)
(NF 1873, p. 638), che verrà poi assunto da Nietzsche in positivo co­
me necessità dell’esperimento doloroso per la liberazione, in questi an­
ni compare in un contesto di adesione alle teorie di Wagner sull’antite­
si arte-scienza. La vita non può essere sottoposta all’osservazione
scientifica senza smembrare ed uccidere l’aspetto di immediata pro­
duttività e totalità, che si esprime nell’opera d’arte. La polemica scho-
penhaueriana contro la pratica della vivisezione diventa in Wagner la
metafora di una hybris contro la natura, contro l’immediatezza organi­
ca che - romanticamente - non può essere smembrata, propria della
cospirazione tra atteggiamento scientifico-analitico e atomismo disgre­
gato e macchinale della Zivilisation2. Nell’Opera d’arte dell’avvenire
Wagner vincola la coppia Zivilisation-Kultur, scienza-vita/arte alla no­
zione di «arbitrio». L’arbitrio, cioè la sfera della seconda natura, antite­
tica alla necessità ed immediatezza della natura e dei suoi «veri biso­
gni» produce il lusso, la moda, il bisogno artificiale «questo bisogno
insensato senza bisogno, questo bisogno del bisogno, questo bisogno
del lusso» (L’opera d’arte dell’avvenire, p. 25) che non può essere sod­
disfatto perché privo di riferimento alla dialettica naturale bisogno-
soddisfazione. La lettura di Schopenhauer conferma, ma con una forte
sanzione metafisica, i temi feuerbachiani del primo Wagner: il mondo
dei bisogni corrisponde ora all’insensato Streben della volontà che cer­
ca nelle apparenze fenomeniche l’impossibile risoluzione di sé, con il
continuo trapassare da un bisogno all’altro. Il motivo di continuità tra
il Feuerbach e lo Schopenhauer di Wagner sta anche nella comune cri­
tica all’astrazione hegeliana in nome dell’immediatezza. La Zivilisation
e i bisogni artificiali sono il dominio dell’astrazione, che schopenhaue-
rianamente culmina nella identificazione col denaro:

2 «Ancora troppa vivisezione!» si commenta a Wahnfried a proposito della prati­


ca analitica della scienza francese (Claude Bernard), che è coerente con il paese domi­
nato dalla Zivilisation (Cosima Wagner, Tagebücher, II, p. 399) (18 agosto 1879).
112 II genio tiranno

È tuttavia naturale, anzi inevitabile, l’amare ciò che in ogni momento è


pronto, come un instancabile Proteo, a trasformarsi nell’oggetto eventuale dei
nostri così mutevoli e così molteplici bisogni. Ogni altro bene può soddisfare
soltanto un solo desiderio, un solo bisogno: i cibi sono buoni soltanto per gli
affamati, il vino per i sani, le medicine per i malati, una pelliccia per l’inverno,
le donne per la gioventù, eccetera. Questi sono dunque tutti soltanto a y a llà
îtpôç t i , cioè beni solo relativi. (Il denaro soltanto è il bene assoluto, poiché
non soddisfa unicamente un bisogno in concreto, ma il bisogno in genere in
abstracto (Parerga, p. 437).

L’artificialità che perverte la buona necessità della natura trasforma


il popolo in massa: la figura di questa corruzione è in Wagner la mac­
china che, pura strumentalità senza scopo, è opposta all’opera d’arte.
Nell’Oro del Reno la supremazia della macchina è proposta nel tema
ritmico delle fucine, dove il martellare ossessivo sulle incudini nell’o­
scurità delle caverne, sottolinea una servitù meccanica in cui l’umanità
vede avvilita la gioiosa destinazione del lavoro artigianale-artistico:

Fabbri, privi d’affanno,


foggiavamo altra volta
ornamento alle nostre donne
deliziosi gioielli,
gioioso passatempo dei Nibelunghi;
sereni sorridevamo alla fatica.
Ora ci costringe il malvagio
a strisciare nelle caverne
per lui solo
a sempre faticare

allora dobbiamo spiare,


rintracciare, scavare,
la preda fondere,
e il getto temprare,
senza riposo, né tregua,
per crescere al signore il tesoro3.

3 R. Wagner, Loro del Reno, a cura di G. Manacorda, Firenze 1974, pp. 107-108
Sulla contrapposizione lavoro-arte è da confrontare il brano di Arte e rivoluzione (p. 314)
e la figura di Wieland il fabbro in Lopera d’arte dell’avvenire. Su questo ha scritto pagine
importanti F. Orlando, Proposte per una semantica del Leit-motiv nell’«Anello del Nibe-
lungo», «Nuova Rivista musicale italiana», anno IX, n. 2, apr.-giu. 1975, pp. 230-247.
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 113

E lo stesso Mime che pronuncia queste parole, costretto a foggiare


l’elmo magico, svela poi che il popolo diventato massa servile non ha
possibilità di liberazione, e pensare di riappropriarsi del prodotto del
lavoro alienato significa restare nella logica dell’artificialità:

Accorto bene io osservai


quale forza poderosa
fosse propria dell’opera,
che io di bronzo costruivo;
e però per me tenere
l’elmo volevo;
con l’incantesimo suo
alla stretta d’Alberico sottrarmi:
forse... sì forse,
il soverchiatore stesso soverchiare
in mio potere ridurlo,
l’anello strappargli,
affinché, come io servo oggi al prepotente
(stridulo)
a me libero egli dovesse venire!
(w. 1055-1068)

A Mime Siegfried appare dumm proprio perché rappresenta la for­


za inconscia della natura e dell’arte, non piegata ai meccanismi della
Zivilisation, e Siegfried è veramente libero perché non toccato dalla
maledizione del possesso:
einzig erbt’ ich
den eignen Leib;
lebend zehr’ ich den auf.

(Unico mio retaggio / il mio proprio corpo; / vivendo io lo consumo) (Cre­


puscolo degli dèi, w. 405-407).

Nietzsche afferma il valore di «un nuovo creare attraverso il raffor­


zamento dell’inconscio»4 del dummer Siegfried contro la conoscenza
degli dèi che porta all’annientamento. La conoscenza astratta con la
sua carica di innaturalezza e di artificio trova solo nell’annientamento

4 N F 1869-70, p. 75. Nietzsche continuerà a valorizzare la figura del Uberissimo


Siegfried per il carattere anticattolico e antiromantico della sua forza (su questo cfr. al­
meno JG B , pp. 173-174), ed è l ’unico personaggio wagneriano che egli ritiene adeguato
al carattere della sua filosofia.
114 II genio tiranno

la sua redenzione. La connessione wagneriana tra scienza e Zivilisa­


tion è certamente presente nella connotazione di Nietzsche sugli «ef­
fetti barbarizzanti della scienza» dove quest’ultima è significativamen­
te riferita, nella sua dispersione alessandrina, al modello del laissez fai­
re economico5. Il legame tra scienza e trionfo del mondo servile, indi­
cato nella figura di Socrate, viene ampliato nella Inattuale Sull’utilità e
il danno della storia per la vita dove la polemica contro la torsione
pratica della scienza sfocia in una analogia tra lavoro scientifico e la­
voro di fabbrica:

Credete a me: quando gli uomini devono lavorare e diventare utili nella
fabbrica della scienza prima di essere maturi, la scienza è in breve tanto rovi­
nata quanto lo sono gli schiavi impiegati per troppo tempo in questa fabbrica.
Io deploro che sia ormai necessario servirsi del gergo dei padroni di schiavi e
dei datori di lavoro per designare quei rapporti che di per sé dovrebbero esse­
re pensati liberi da utilità, sottratti alle miserie della vita; ma involontariamen­
te vengono in bocca le parole «fabbrica», «mercato del lavoro», «offerta»,
«utilizzazione» - o comunque suonino i verbi ausiliari dell’egoismo - quando
si vuol descrivere la generazione di dotti più recente (HL, pp. 318-319).

Tuttavia non c’è piena coincidenza con la soluzione wagneriana:


Nietzsche non cancella il valore della scienza (il cui carattere conosci­
tivo di Aufklärung e la cui forza liberatrice era stata assunta emblema­
ticamente nella figura di Democrito, negli studi giovanili) con un ge­
sto che riabilita la totalità della vita. L’attacco è prevalentemente rivol­
to alla degradazione civilizzatoria, priva di centro, della figura dello
scienziato:
La solida mediocrità si fa sempre più mediocre, la scienza sempre più utile
nel senso economico... A coloro che hanno continuamente in bocca il moder­
no grido di battaglia e di sacrificio «divisione del lavoro! In fila!», è da dire
chiaro e tondo: se vorrete promuovere la scienza con la maggior rapidità possi­
bile, la distruggerete anche con la maggior rapidità possibile... (HL, p. 319)6.

5 Cfr. NF, 1872-73, p. 13, dove Wagner e Schopenhauer sono unificati nel tentati­
vo di superare l’alessandrinismo.
6 Ibidem. Questo è l’aspetto che in Ecce homo Nietzsche vede al centro dell7»a/-
tuale sulla storia: «L a seconda Inattuale (1874) mette in luce quanto c’è di pericoloso,
di corrosivo e venefico per la vita nel nostro modo di praticare la scienza: la vita malata,
a causa di questo ingranaggio e meccanismo disumanizzato, a causa della “impersona­
lità” del lavoratore, di questa falsa economia della “divisione del lavoro”. Si perde lo
scopo, ossia la civiltà - e il m ezzo, cioè la pratica scientifica m oderna, viene
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 115

Queste pagine sembrano risentire della lettura di Über die Natur


der Cometen di Zöllner (Leipzig, 1872), cioè della preoccupazione di
correggere la preminenza dell’atteggiamento induttivo, puramente
sperimentale, nel campo scientifico (tipico della cultura scientifica in­
glese) che conduce a una proliferazione di specialismi senza unità,
senza altro scopo che non sia la subordinazione alla pratica e all’indu­
stria7. Rivendicando il ruolo dell’atteggiamento deduttivo nella scien­
za, Zöllner pensa di liberarla dal riferimento ai motivi pratico-egoisti­
ci, di renderla espressione e strumento dell’ideale, di impulsi antiegoi-
stici e universalizzanti.

Incrollabile - scriveva dopo aver citato «le profetiche opere di Schiller» -


vive in me la fede in un’epoca ventura dominata dalla conoscenza deduttiva
del mondo... Solo la Germania è chiamata a diventare la portatrice e lo sce­
nario di una tale epoca, perché solo lo spirito germanico racchiude nella sua
profondità quella pienezza di esigenze e capacità deduttive indispensabili per
padroneggiare fino in fondo con successo il materiale induttivo accumulato
dalle scienze esatte8.

L’opera di Zöllner traduceva in termini di riforma della comunità


scientifica il tema schilleriano (allora ampiamente diffuso nella cultura

barbarizzato...» (EH, p. 325). Una volta recuperata pienamente la direzione di Aufklä­


rung e distruttiva di miti, Nietzsche vedrà nella fuga dalla verità della scienza un sinto­
mo di momentaneo oscuramento e di debolezza: «Alla mia scienza mancavano comple­
tamente le realtà, e le “idealità” chissà a che diavolo servivano! - Mi prese una sete ad­
dirittura ardente: da quel momento in poi, di fatto, non ho praticato altro che fisiolo­
gia, medicina, scienze naturali - persino ai veri e propri studi storici sono tornato sol­
tanto quando il mio compito mi ci costrinse imperiosamente» (ivi, p. 334).
7 «Queste osservazioni basteranno a rendere visibile la confusione concettuale di
coloro che si sforzano di presentare l’attività intellettuale al servizio dell’industria come
un’attività scientifica e di attribuire a tale attività tutti quegli attributi che gli uomini so­
no sempre stati disposti a riconoscere alla scienza in quanto attività relativamente non
egoistica. Certe parti della scienza naturale hanno conosciuto questo avvilimento servile
al dominio dell’industria, soprattutto presso quei popoli che, per il loro realismo, sono
più portati alle tendenze pratiche della vita anziché a quelle ideali. Per i popoli forniti di
superiore aspirazione scientifica si tratta di respingere energicamente tali pretese del­
l’intelletto pratico. Non è il metodo o la quantità di acume applicata nelle operazioni
dell’intelletto a determinare il loro carattere scientifico o non scientifico, ma solo e uni­
camente lo scopo per cui tali operazioni vengono intraprese» (F. Zöllner, Über die
Natur, cit., p. 228). Un altro aspetto della presenza di Zöllner in queste pagine dell’7-
nattuale sulla storia è ravvisabile probabilmente nella polemica di Nietzsche contro gli
scienziati che si dedicano alla popolarizzazione della scienza.
8 F. Zöllner, Über die Natur, cit., p. LX X .
116 II genio tiranno

tedesca) di un consapevole sforzo per un’armonica unità della Kultur


contro la tendenza «manchesteriana» della società moderna, domina­
ta dalla dispersione del laissez faire e della divisione del lavoro, dal
gioco antagonistico degli egoismi non regolati dall’ideale. «Ciò che
Zöllner lamenta, lo sperimentare senza fine e la mancanza di forza lo­
gico-deduttiva, è presente anche nelle discipline storiche» - scrive
Nietzsche e poco più avanti, applicando ancora la polemica di Zöllner
alla storia, parla di «insensato sperimentare»9. Lo sperimentare è lega­
to direttamente alla debolezza dell’uomo moderno, schopenhaueriana
e wagneriana concrezione di bisogni artificiali, maschera variopinta
che nasconde il vuoto. La richiesta dell’uomo moderno alla scienza è
di soddisfare, in una degradazione faustiana, i bisogni molteplici e in­
dotti che comunque lo confermino nella realtà data (dunque una ri­
cerca che sfocia nel filisteismo e nel museo): di qui il movimento in­
sensato dello sperimentare. La situazione è analoga nel campo della
storia (che Nietzsche identifica con la scienza), in cui l’uomo moder­
no va alla ricerca di una forma e di un costume di vita e per interiore
debolezza subisce l’eccesso di stimoli che preme dal passato, ma che
in realtà riflette il caos disgregato dell’attuale situazione. Ma le pagine
conclusive d ^ l’Inattuale sulla storia sono attraversate da una caratte­
ristica tensione da un lato tra il pathos distruttivo della verità che
emerge come risultato della scienza, espressiva della forza dinamica
della Zivilisation - il terremoto che sconvolge la saldezza dei riferi­
menti10 - e di cui Nietzsche subisce il fascino e dall’altra la ribadita
volontà di rimanere fedeli al progetto wagneriano di fondare l’organi­
cità della Kultur sulla base delle forze antistoriche e sovrastoriche, l’o­
blio che comporta la limitazione dell’orizzonte e

le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà


all’esistenza il carattere dell’eterno e delFimmutabile, l’arte e la religione. La

9 NF, 1873, pp. 243, 280. Quando il carattere eroico dello sperimentare verrà in
primo piano, troverà ancora espressione nel termine «vivisezione»; «L a vivisezione è
una prova : chi non la sopporta non è dei nostri (e di solito vi sono anche altri segni, per
esempio Zöllner)» (FP 1884, p. 78).
10 «Allo stesso modo che per un terremoto le città crollano, si spopolano e l’uomo
costruisce solo tremando e di nascosto la sua casa su un suolo vulcanico, così anche la
vita si abbatte su se stessa, diventando debole e scoraggiata, se il terremoto di idee che
la scienza provoca toglie all’uomo il fondamento di tutta la sua sicurezza e la sua pace,
la fede in ciò che perdura ed è eterno. Ma la vita deve dominare sulla conoscenza, sulla
scienza, oppure la conoscenza sulla vita?» (HL, pp. 351-352).
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 117

scienza invece odia l’oblio, la morte del sapere, come pure cerca di eliminare
tutte le delimitazioni dell’orizzonte e getta l’uomo in quel mare infinito e illi­
mitato di onde luminose, nel mare del divenire conosciuto (HL, p. 351).

Nietzsche risolve questa tensione ancora una volta nell’antitesi «b i­


sogni veri»-«bisogni apparenti». La cultura appare, sul modello dei
greci, «una nuova e migliorata physis»:

I Greci impararono a poco a poco a organizzare il caos, concentrandosi,


secondo l’insegnamento delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri, e
lasciando estinguere i bisogni apparenti (HL, p. 354).

Nel tema dell’organizzazione del caos si può intravedere già chia­


ramente una sottolineatura del carattere costruttivo (che ha nel tema
dell’educazione e dell’attività riformatrice il suo centro) in antitesi alla
wagneriana ideologia dell’immediatezza. La conquista della seconda
natura è già ora conseguenza di una volontaria costrizione alla for­
ma11. Ma questa operazione resta vincolata alla garanzia ordinatrice
di una «naturalità» del bisogno che presuppone il wagneriano «cono­
sci te stesso» rivolto al popolo.

2 . La metafisica come «vacuum». La dissoluzione


del fondamento romantico

Una serie di frammenti che precedono la Nascita della tragedia te­


stimoniano il carattere particolare del fondamento su cui edificare la
nuova comunità:

Rendere onore al vino, cioè rendere onore al narcotismo. Questo è un


principio idealistico, una via verso l’annientamento dell’individuo. Straordi­
nario idealismo dei Greci nell’onorare il narcotismo (NF 1872, p. 72).

L’accostamento tra narcotico e ideale (che diverrà poi elemento co-

11 BA, p. 129: la perdita del passo «naturale» causa dapprima, nel soldato che im­
para a marciare, il terrore di aver disimparato addirittura a camminare, «poi all’improv­
viso ci si accorge che i movimenti imparati ad arte si sono già trasformati in una nuova
abitudine e in una seconda natura, e che l’antica sicurezza e l’antica forza del passo ri­
tornano ormai rinvigorite, e accompagnate persino da una certa grazia: ora si sa anche
quanto sia difficile camminare, e ci si può prender giuoco di chi nel camminare è un
rozzo empirico, oppure un dilettante che creda di muoversi elegantemente».
118 II genio tiranno

stitutivo della critica al romanticismo di Wagner) fa conoscere aperta­


mente come, perduto ogni carattere conoscitivo, alla costruzione me­
tafìsica resti un puro valore «edificante», di illusione necessaria alla
vita. E un elemento centrale della nietzscheana metafisica dell’artista,
presente fin dagli anni della lettura della Geschichte des Materialismus
di Lange. In una lettera a Deussen delTaprile-maggio 1868, Nietzsche
scrive che da Kant in poi, in una direzione confermata dalle ricerche
della fisiologia:

11 regno della metafisica, e con esso l’area della verità «assoluta», è stato
innegabilmente inserito in un’unica categoria insieme con la religione e la
poesia. Chi vuole conoscere qualcosa, si limita ora ad una conoscenza della
cui relatività egli stesso è consapevole, come per esempio tutti i famosi studio­
si di scienze naturali. Per alcuni la metafisica appartiene dunque alla sfera dei
bisogni dell’anima, è essenzialmente edificazione. Per altro verso essa è arte,
quella cioè della poesia concettuale. Una cosa è certa però: la metafisica, sia
come religione che come arte, non ha nulla a che vedere con il cosiddetto
«vero o essere in sé» (Epistolario I, pp. 575-576).

La presenza dei temi caratteristici del kantismo schilleriano di Lan­


ge (in particolare la tensione all’unità attraverso l’ideale) è visibile nei
frammenti del ’72-’73, in cui il valore paradossale del kantismo sta
nell’avere dissolto ogni pretesa conoscitiva della metafisica, salvando
così un territorio dall’effetto dissolvente del sapere. La critica kantia­
na non permette più nessuna religione, ma ha delimitato quello «spa­
zio vuoto» su cui Nietzsche vuole inserire l’attività del filosofo-artista
con le sue poetiche costruzioni per rispondere al bisogno metafisico,
che altro non è se non la necessità vitale di rassicurarsi con un fonda­
mento, sia pure illusorio. Nel capitolo conclusivo della Geschichte des
Materialismus Lange aveva valorizzato il kantiano «naturale impulso
alla metafisica» come bisogno umano di oltrepassare il finito e il feno­
menico, regno della lotta degli egoismi descritto dal Lange con gli
schemi del darwinismo sociale12. Ma questa «libera attività dello spiri­
to» non deve poi essere costretta ad utilizzare i supporti delle scienze
naturali, in quanto sempre connesse ad un carattere analitico-distrut-

12 Più tardi, Nietzsche interpreterà questi presunti istinti metafisici verso un ideale
saldo come «gli istinti di esseri angosciati, che sono ancora dominati dalla morale: essi
agognano un signore assoluto, qualcosa di amabile, che dica la verità - insomma questo
desiderio degli idealisti deriva, dal punto di vista morale-religioso, dalla mentalità degli
schiavi» (FP 1884, p. 82).
I l romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 119

tivo e produttrici del m aterialism o che offusca l’ideale. L a via è stata


indicata invece dalle «p o esie filosofich e» di Schiller, che hanno tra­
sform ato l ’originale im pulso m etafisico in autentica religiosità. Signifi­
cativam ente L an ge u sa p er Schiller il term ine centrale nel giovane
N ietzsche di «redenzione estetica», grazie alla quale « l ’elevazione del­
lo spirito nella fede diventa una fu ga verso il p aese delle idee di b e l­
lezza, in cui ogni fatica trova riposo, ogni lotta trova p ace ed ogni b i­
sogno sod d isfazio n e»13.
D un q ue per N ietzsche la via produttiva dell’ideale e del m ito, cioè
la costruzione di una Kultur che superi la barbarie civilizzatoria, è in ­
trap resa con la «cattiva coscien za del m etafisico » e una volontaria,
«gesu itica» costrizione alle illusioni.

Ogni specie di cultura - scrive Nietzsche - comincia con questo, che una
quantità di cose viene velata. Il progresso degli uomini è legato a questo na­
scondimento, la vita in una sfera pura e nobile e il porre fine agli allettamenti
più comuni... Se noi utilizziamo i grandi individui come nostre stelle guida,
noi copriamo con un velo molto in loro, anzi noi nascondiamo tutte le circo­
stanze e i casi che hanno reso possibile il loro sorgere, noi ce li isoliamo per
poterli venerare (NF 1872-73, p. 23).

L’occultamento, la parzialità sono indispensabili all’ideale, così co­


me nello stato greco la classe privilegiata, sottratta alla materialità del­
la lotta per l’esistenza, propone un modello di Kultur in cui il lavoro
servile è nascosto come vergogna necessaria. Già s’è visto come lo
scandalo di Socrate, il «dio delle macchine e dei crogioli», consistesse
nel portare alla luce e far trionfare il momento strumentale. Il caratte­
re «miracoloso» e immediatistico dell’opera d’arte, che deve suscitare
venerazione, è già in Wagner basato sul nascondimento della genesi e
degli apparati costruttivi che ne sostengono l’esecuzione. All’ascolta­
tore devono essere nascosti «i movimenti macchinali dei suonatori e
tutta la movimentata apparecchiatura di un’esecuzione orchestrale»
per passare «ad occhi aperti in quello stato che sostanzialmente somi­
glia alla chiaroveggenza dei sonnambuli (Beethoven, p. 239). Il movi­
mento di Aufklärung proprio della Zivilisation e della scienza, che il
Nietzsche di questo periodo ha, come abbiamo visto, già delineato,
ma rifiutato come elemento da annullare in favore dell’ideale estetico,

15 F.A. Lange, Storia del materialismo, trad. it. di A. Treves, Milano 1932, vol. II,
p. 570.
120 II genio tiranno

sarà poi, proprio contro il romanticismo wagneriano, fatto valere in


tutta la sua forza. L’antitesi netta tra il «creare» e il «conoscere» che è
al centro della problematica di questo periodo ha dunque come pre­
supposto «la metafisica come vacuum» (NF 1872-73, p. 31). Distrutto
il pathos dell’autentico intorno al fondamento, rimane la necessità per
il filosofo di fondare dall’alto, per compassione verso la comunità, mi­
ti vitali: la filosofia è, anche qui con una forte presenza di Lange:
La poesia al di fuori dei limiti dell’esperienza, prosecuzione dell’impulso
mitico... Profondissima affinità dei filosofi e dei fondatori di religioni (NF
1872-73, p. 27).

Ne risulta implicitamente travolta anche la metafisica del bisogno


vero su cui Wagner fondava in senso forte la tematica della Gemein­
schaft, della totalità organica: ristretta nella sfera del mito come neces­
saria illusione, la prospettiva romantica ha già perso, per Nietzsche, la
persuasività dell’autentico.

3 . Un modello scientista di società: l’«Avenir de la science»

L’analogia tra scienza moderna e società dominata dagli effetti del­


la divisione del lavoro è al centro della meditazione di Renan. NellVl-
venir de la science, l’opera che pubblicherà per la prima volta nel 1890
tal quale aveva scritta nel ’48, e che costituisce il grande serbatoio di
temi filosofici a cui Renan attingerà di continuo e con coerente fedeltà
fino alle ultime opere14, lo specialismo filologico è descritto come l’o­
pera di travailleurs il più delle volte «completamente sprovvisti del
senso della loro opera e del suo valore ideale» (OC III, p. 823). Acca­
de però a questi operai, chiusi nella prospettiva settoriale, di lavorare
a un edificio che una mano invisibile e provvidenziale rende coerente
unificando i risultati del lavoro diviso:
E forse necessario che l’operaio che estrae i blocchi dalla cava abbia l’idea
del monumento futuro di cui faranno parte? Tra i diligenti lavoratori che han­
no costruito l’edificio della scienza, parecchi non hanno visto che la pietra

14 Per questo aspetto, sul quale hanno richiamato l’attenzione illustri commentato-
ri ÔÆAvenir de la science (Michel Bréal, Léon Brunschvicg ecc.), cfr. almeno D. Paro­
di, Ernest Renan et la philosophie contemporaine, «Revue de métaphysique et de mora­
le», XXV I, 1919, pp. 41-66.
I l romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 121

ch’essi tagliavano, o tutt’al più la regione limitata dove essi la piazzavano. Si­
mili a formiche, essi apportano ciascuno il proprio tributo individuale, rove­
sciano qualche ostacolo, si incrociano senza posa, in apparenza in un disordi­
ne completo e non facendo che intralciarsi l’un l’altro. E tuttavia succede che,
attraverso i lavori riuniti di tanti uomini, senza che vi sia stato un piano stabi­
lito prima, una scienza si trova organizzata nelle sue belle proporzioni. Un ge­
nio invisibile è stato l’architetto che presiedeva all’insieme e faceva concorre­
re gli sforzi isolati verso una perfetta unità (OC III, p. 824).

È una metafora assai cara a Renan, che ne usa continuamente, ad


esempio per delineare, nel ’57, la figura di Etienne Quatremère, «un
operaio laborioso, che ha reso servizi immensi alla costruzione di un
edificio, di cui il piano, la destinazione e le proporzioni non gli appar­
vero mai» (OC I, p. 129). Eppure questa divisione del lavoro, nei suoi
effetti, non è totalmente garantita dal genio invisibile: essa porta in sé
anche i caratteri di una dispersione di energie, di una ripetizione e
spreco che ne rendono necessaria la subordinazione allo «esprit phi­
losophique», l’interprete autorizzato e consapevole dei nascosti dise­
gni architettonici. Assai precocemente, almeno dagli anni ’45-’46, Re­
nan aveva espresso l’esigenza di oltrepassare la prospettiva delle
«scienze sperimentali» con il loro angusto «positivismo» per arrivare
a una sistemazione organica e totalizzante del sapere15. L’influenza
che la filosofia di Cousin ha esercitato su Renan non ha solo un gran­
de rilievo, per così dire, quantitativo, ma tocca il fondo stesso delle
idee renaniane16. La connessione tra dispersione critico-analitica della
scienza - e per analogia della società - moderna industriale, e ricerca
di una nuova sintesi organica che ne disciplini i risultati in una forma
corrente è modellata sulla coppia cousiniana riflessione/spontaneità,
epoche critiche/epoche organiche. Sulla scia delle idee di Cousin, Re­
nan risolve la tensione tra momento analitico e momento sintetico in

15 Cfr. Cahiers de jeunesse, OC IX, p. 307, dove la prospettiva dell’unificazione è


ancora espressa in termini esclusivamente estetico-religiosi. Cfr. anche ivi, p. 321: «L o
spiritualismo è evidentemente vero, solo esso è degno dell’uomo. Ma anche la scienza
materialista è vera. Tutto ciò, sono disposto a giurarlo, sarà conciliato. H o appena in­
travisto il nodo del problema in un lampo. Cabanis e Gali saranno mantenuti riguardo
ai fatti, alla scienza; Cousin e Hegel per il modo di vedere. Tutto ciò è simultaneamente
vero nel suo ordine».
16 Sull’enorme importanza di Cousin per Renan cfr. M. Soman, Ernest Renan. Sa
formation philosophique d'après des documents inédits (1843-1849), Paris 1914, soprat­
tutto pp. 67 ss.
122 II genio tiranno

una filosofia che presenta lo sviluppo della storia umana come esplici-
tazione di originari ed oscuri germi spontanei, che l’analisi non fa che
togliere dal primitivo inviluppo rispettandone però la destinazione. In
tal modo il «morcellement» analitico della vita è riconducibile ad un
disegno ideologico che ne garantisce la disponibilità alla nuova riap­
propriazione sintetica. Nella prima versione dell’Origine du langage,
in cui il debito verso Cousin è ancor più evidente, è alla «psychologie
du spontanée» di Cousin che Renan affida la spiegazione dell’origine
e sviluppo del linguaggio. Essa offre una versione accettabile della tesi
bonaldiana del linguaggio come rivelazione divina, traducendola in
termini panteistici:
Il primo fatto psicologico racchiude implicitamente tutto ciò che è nel fat­
to più avanzato. Questo non contiene nulla di più del fenomeno che per pri­
mo rivelò l’uomo a se stesso. E forse successivamente che l’uomo ha conqui­
stato le sue diverse facoltà? Chi oserebbe soltanto pensarlo? Ora noi siamo
autorizzati a stabilire una rigorosa analogia fra i fatti relativi allo sviluppo psi­
cologico e i fatti relativi allo sviluppo del linguaggio. È altrettanto ridicolo
supporre che il linguaggio arrivi faticosamente alla conquista delle sue parti,
quanto che lo Spirito umano cerchi le sue facoltà le une dopo le altre. Tutto
ciò che è costituito come un tutto vivente, tutto ciò che è organizzato, è com­
pleto fin dai primi istanti della sua esistenza. Non vi sono che le unità fittizie
e artificiali che risultino da somme e aggiunte successive17.

Ma il rapporto spontaneità/riflessione ha poi un esito ben diverso


da quello proposto da Cousin. Esso non trova la sintesi in una rivalu­
tazione del senso comune come portatore di «vérités premières» im­
mediatamente disponibili e conciliabili con i risultati della critica. Il
riferimento al buon senso è per Renan una regressione di tipo «retori­

17 De l’origine du langage, in «Liberté de penser», set. 1848, p. 377. Il riferimento


Renan è soprattutto al Cours del 1818. Negli anni 1817-1818 Cousin è impegnato a co­
struire il rapporto spontaneità-riflessione come costitutivo dell’intelligenza umana, nel
senso appunto di uno sviluppo continuo: «Spontaneità, riflessione: ecco le due grandi
forme dell’intelligenza. L’una non è l’altra ma, dopo tutto, questa non fa che sviluppare
quella; esse contengono al fondo le stesse cose, solo il punto di vista è differente. Tutto
ciò che è spontaneo è oscuro e confuso; la riflessione porta con sé una visione chiara e
distinta» {Du Vrai, p. 116). Il tema della spontaneità creatrice e della riflessione come at­
tività esclusivamente analitica era ribadito nel saggio del 1817, De la spontanéité et de la
réflexion, nei termini del preformismo: «Aggiungete che la riflessione, in quanto opera­
zione retrograda, chiarisce ciò che era sviluppato prima del suo intervento, ma non crea,
e di conseguenza tutto ciò che appare nel punto di vista riflessivo preesiste inviluppato
nel punto di vista spontaneo» (Premiers essais de philosophie, Paris 18624, p. 308).
I l romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner; Renan 123

co» rispetto alle esigenze del «metodo sperimentale». Invece la conci­


liazione è affidata all’apparire di savants in grande stile, che sanno ri­
proporre l’unità del cosmo maneggiando la dispersione analitica; che
sono, dunque, filosofi e spécialisa ad un tempo. È questo il senso del­
la valorizzazione che Renan compie nel ’48 di Cosmos di Alexander
von Humboldt:
Humboldt si presenta come il più vicino erede del Timeo; ma non crediate
che sia possibile un ritorno indietro a piacere. Questo Timeo della scienza
moderna presuppone e racchiude due secoli di analisi e di pazienti lavori. L’i­
dea propria di Humboldt è la veduta generale del mondo: la sua originalità
sta nel riflettere l’unità dell’universo, e nel forzare dati sparsi nelle regioni di­
verse della scienza a ravvicinarsi nella sua vasta erudizione... Non è l’anato­
mista, è il disegnatore che sa meravigliosamente bene l’anatomia18.

Le Peuple di Michelet offriva intanto a Renan una forte drammatiz­


zazione romantica del contrasto tra spontaneità-istinto, e macchini­
smo legato alla sterilità dell’analisi. In Michelet le macchine dell’indu­
stria e la «science barbare» cooperanti in una funzione di separazione
e “smembramento”, corrompono la grande Francia muta, che sta in
basso, della piccola proprietà contadina, «vasta e profonda legione di
contadini proprietari soldati, la più forte base che una nazione abbia
avuto a partire dall’impero romano»19 in mezzo a cui l’industria ha
fatto crescere «un miserabile piccolo popolo di uomini-macchina che
vivono a metà... che non generano che per la morte, e non si perpe­
tuano che assorbendo senza sosta altre popolazioni che si perdono là
per sempre»20. Da Le Peuple, Renan assume l’idea del genio come co­
lui che dà voce al popolo «muto», ma che soprattutto ha la potenza di
conciliare l’intatta spontaneità creatrice dei «simples» da un lato e
dall’altro «i doni della critica» in una nuova unità produttrice supe­
riore alle «anatomie fittizie» della scienza. Ma insieme, assume l’idea

18 Cosmos de M. De Humboldt, «Liberté de penser», II, nov. 1848, p. 569. (L’arti­


colo è parzialmente ripreso in L Avenir de la science). Ma va ricordato che lo stesso
Cousin indicava in Alexander von Humboldt, spirito tanto francese quanto tedesco,
uno sforzo di ricondurre a sintesi i risultati dispersi della riflessione (Cours de l’histoire
de la philosophie (Cours de 1829), vol. I, Paris 1829, p. 23). La Staël cita in De l’Allema­
gne - altro testo canonico Per il giovane Renan - Alexander von H um boldt come
esempio di influenza del filosofico «spirito di universalità» sugli scienziati (IIIe panie,
cap. X).
19 J. Michelet, Le peuple, éd. orig., publiée par Lucien Refort, Paris 1946, p. 45.
20 Ivi, pp. 58-59.
124 II genio tiranno

che è nel genio che si concentra l’identità autentica del popolo, la de­
stinazione divina chiusa nella istintiva spontaneità creatrice al di là
della sua forma storica effettiva, che è solo un’alterazione della sua
natura profonda21. La «belle science» àÆAvenir, portata dai geni cui
sottostà la folla degli ouvriers scientifici, realizzazione dell’ideale in
cui si esplicita teleologicamente il disegno architettonico del “Dio na­
scosto” nel gran corpo dell’umanità, è dunque tesa - in un modo che
resterà sempre caratteristico di Renan - tra aspirazione romantica a
una nuova totalità religiosa e aspirazione scientista a un’enciclopedia
come collaborazione armonica dei saperi speciali gestita da una casta
sacerdotale di savants-geni:
Son riuscito a far ben capire la possibilità di una filosofia scientifica, di una
filosofia che non sarebbe più una vana e vuota speculazione intorno ad ogget­
ti privi di realtà, di una scienza che non sarebbe più secca, arida, esclusiva,
ma che, divenendo completa, diverrebbe religiosa e poetica? L a parola ci
manca per esprimere questo stato intellettuale, dove tutti gli elementi della
natura umana si riunirebbero in un’armonia superiore, e che, realizzato in un
essere um ano, costituirebbe l ’uom o perfetto. Io lo chiamo volentieri,
sintesi... (OC III, p. 968).

Ma il nucleo filosofico dell’Avenir de la science sta nello sviluppo


di un’idea che è la base di legittimazione della tesi fondamentale dei
Dialogues philosophiques, cioè il predominio di una casta aristocratica
di savants che schiavizza l’umanità. Il sogno dei Dialogues non è un
esasperato paradosso letterario, ma lo sviluppo conseguente del tenta­
tivo, già tutto presente nelVAvenir, di presentare il corpo organizzato
di un’ideale comunità scientifica come un modello perfetto di orga­
nizzazione della società moderna. Quella che il giovane Renan chiama
la réforme morale et scientifique capace di indirizzare razionalmente la
società, è legittimata dal fatto che il funzionamento stesso della scien­
za si propone come esempio di comportamento etico e sociale. La tar­

21 «Il popolo, nella sua idea più alta, si trova difficilmente nel popolo. Dovunque
guardi, non di lui si tratta, ma di una certa classe, di una certa forma parziale del popo­
lo, alterata ed effimera. Nella sua verità, nella sua potenza più alta, non è presente altro
che nell’uomo di genio; in lui risiede la grande anima... Tutti si stupiscono al vedere le
masse inerti che vibrano al suo minimo cenno; il rombo dell’oceano che si tace davanti
a questa voce, l ’onda popolare trascinarsi ai suoi piedi... Ma perché meravigliarsi?
Questa voce, è la voce del popolo; in sé muto, esso parla in quell’uomo, e Dio con lui»
(Le peuple, cit., p. 187). Così ne UAvenir l’umanità non è l’umanità storica, ma il sup­
porto materiale del nucleo divino che in essa si espande.
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 125

da pubblicazione dell’Avenir non è certo un atto di vanità letteraria,


ma si spiega proprio con la grande coerenza che l’opera possiede con
i risultati del pensiero renaniano successivi al ’70. Da un lato è ovvio
che i suoi caratteri di apertura «democratica» (il programma di edu­
cazione popolare, l’elogio della Rivoluzione, la notevole disponibilità
verso le riforme dell’assetto proprietario) servivano a motivare il suo
sforzo di conciliazione con la III Repubblica, ma ciò che più importa
è che essi erano perfettamente coerenti con il suo sforzo attuale, di
conciliare la democrazia (ora accettata come evento inevitabile) con
una gestione aristocratico-signorile della società. Lo stesso tentativo è
testimoniato dal Marc Aurèle, dove la descrizione dell’élite politica
della Roma imperiale travolta dal cristianesimo e dai barbari, traspa­
renti metafore del socialismo e della democrazia, fa capo agli interro­
gativi di Renan sulla possibilità di conciliare le vecchie aristocrazie
con le forme emergenti di società.
Il primato della Germania come nazione scientifica animata da una
morale del dévouement è un’idea precoce di Renan. Nel ’45, dando
conto alla sorella Henriette dei suoi studi di scienza e letteratura tede­
sca, ne tesseva le lodi in questi termini:

Ho creduto di entrare in un tempio, quando ho potuto contemplare que­


sta letteratura così pura, così elevata, così morale, così religiosa, prendendo
questa parola nel senso più alto. Quale alta concezione dell’uomo e della vita!
Quanto sono lontani dalle vedute meschine in cui il fine dell’umanità è ricon­
dotto alle miserabili proporzioni del piacere e dell’utile! Essi mi sembrano
costituire nella storia dello spirito umano la reazione immediata contro il
XVIII secolo in quanto sostituiscono la morale pura e l’ideale alle concezioni
troppo reali e al positivismo di quest’ultimo22.

È proprio su questo sfondo di etica sociale della devozione che l’a­


nalisi della filologia come specialismo e le metafore degli «ouvriers»

22 22 set. 1845, in O C IX, p. 791. Sono termini che ripetono uno dei motivi cen­
trali di De l’Allemagne. A Cousin e alla Staël Renan non deve solo l’iniziazione alla
Germania ma anche la permanenza di una griglia di giudizi guida, tra i quali spicca
quello sulla superiorità della morale kantiana (connaturale allo spirito e costumi tede­
schi) su quella (francese e inglese) dell’«mteresse». Entro la polemica antiutilitaristica e
antiedonistica, la Stael inseriva poi quella divaricazione tra bonheur e perfectionnement
che sarà centrale nella strategia di Renan. Fin dal 1845, l’etica del dovere è vista da Re­
nan come distintivo aristocratico del culto dell’ideale, che separa dal «volgo insipido»,
dal «disgustoso positivismo» del gran numero.
126 11 genio tiranno

viene sviluppata daII’Avenir de la science in tutto il suo valore di mo­


rale sociale. Il settoriale «travail des monographies» è reso possibile,
intanto, da una rinuncia ascetica allo sviluppo di altri aspetti della
personalità23. Ma soprattutto la scienza è essa stessa perfetta manife­
stazione del sacrificio perché dedizione totale all’opera, il cui senso
trascende la visibilità e l’esecuzione individuali: realizza la conversio­
ne dell’individuo e dell’attività umana a strumento di una radicale
eteronomia.

La dedizione - scrive inoltre Renan nei Dialogues contrapponendo alla


«rilassatezza» della democrazia la connessione tra etica e scienza - è indispen­
sabile alla scienza; in un paese immorale o superficiale non si possono forma­
re veri scienziati; uno scienziato è il frutto dell’abnegazione, della serietà, dei
sacrifici di due o tre generazioni; egli rappresenta un’immensa economia di
vita e di forza (Dialogues, p. 102).

L’immagine dei Dialogues degli schiavi costruttori di piramidi, che


collaborano ciecamente al disegno divino, è la continuazione di quella
à<AYAvenir, degli ouvriers che costruiscono l’edificio complessivo
«sfruttati nei grandi ateliers scientifici» (OC III, p. 992). La valorizza­
zione della «leggenda eroica» di Napoleone, che Michelet vedeva in
Le Peuple come mito coesivo, religione laica capace di suscitare il sa­
crificio al comune ideale patriottico24 ha una risonanza forte in Re­

23 È questo il tema principale dell’abbozzo del romanzo epistolare del 1848 Ernest
et Béatrix. H protagonista, seminarista tormentato da dubbi filosofici, soffre dell’impos­
sibilità di realizzare un «ideale multiplo» che sviluppi tutto lo spettro degli elementi vi­
tali, ed è soprattutto combattuto dall’antagonismo tra scienza e «dolci impressioni»;
l’opzione a favore della prima è sacrificio ascetico della vita sentimentale e sensibile
(OC IX, p. 1506). In un significativo frammento del ’45, pubblicato da Jean Pommier,
il tema della rinuncia è connesso a quello della scienza come vocazione sacerdotale se­
gnata dalla castità. L a rinuncia al sensibile genera una anomalie che è un incanalamento
unidirezionale di energie funzionale allo sviluppo del tutto: «M a il bisogno dell’uma­
nità, che esige che l’individuo sia esclusivo per essere lei completa, scusa tutto ciò»
(Travaux et jours d’un séminariste en vacance (Bretagne 1845), in Cahiers renaniens, n. 2,
A.-G. Nizet, Paris 1972, pp. 144-145). Ne L’Avenir la separazione sacerdotale del sa­
vant dal mondano è ribadita di continuo e in modo caratteristico dove si nega che il
piacere dei dilettanti possa legittimamente inserirsi nell’universo scientifico. «Perché
essi si divertono, cercano il loro piacere, come l ’industriale cerca il suo profitto. Il pia­
cere, essendo essenzialmente personale e interessato, non ha nulla di sacro, nulla di mo­
rale» (OC III, pp. 827-828).
24 «Che cosa volete fare in questo mondo senza il sacrificio?... In quale secolo si
sono viste armate così grandi, tanti milioni di uomini, soffrire, morire, senza ribellarsi,
con dolcezza, in silenzio?» (Le peuple, cit., p. 228).
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 127

nan. NelYAvenir la ricorrente immagine dell’esercito in marcia appli­


cata all’umanità e allo sviluppo della scienza, e culminante nell’auspi­
cato avvento di un Napoleone della politica e della scienza, indica
quest’etica di devozione all’opera complessiva spinta fino all’estrema
rinuncia delle aspirazioni individuali, ridotte, com’è nel soldato, a
partecipazione silenziosa e riflessa della gloire napoléonienne. La forza
dell’immagine renaniana dell’esercito sta dunque - come già s’è ac­
cennato a proposito della guerre savante —nella funzione che essa as­
sume di indicare una cospirazione dei caratteri potenzialmente disgre­
gatori della divisione del lavoro, e dell’incremento di forze da essa su­
scitato, verso la finale totalità dell’organismo sociale.
Con la stessa funzione, l’immagine compare in Nietzsche. Nello
Stato greco l’esercito, con la sua Rangordnung, è presente come mo­
dello sociale necessario che dissolve con la sua realtà di violenza ogni
idealistica e mistificante «dignità dell’uomo». L’uomo guerriero ha
senso solo in quanto strumento del genio militare, e come tale non è
«semplice e naturale» ma risultato di un processo di dressage:
Il fine inconscio di tutto questo movimento soggioga ogni individuo, e an­
che rispetto a nature eterogenee produce una trasformazione per così dire chi­
mica delle loro qualità, sinché esse diventano affini a quello scopo (CV, p. 235).

Se l’esaltazione del genio guerriero è in Nietzsche momentanea, e


comprensibile solo nell’adesione al pathos della Gemeinschaft di Wa­
gner (da cui però già si distacca quando non vede nelle virtù del sol­
dato dati naturali, ma piuttosto i risultati di una costruzione artificia­
le, «wirkliche Convention»), il modello continua però a conservare la
sua efficacia. Il tema qui solo accennato di una struttura castale della
società legata alla perfetta prestazione istintuale e al macchinismo
schiavistico della cineseria - elemento che costituirà, come vedremo,
uno dei punti centrali di confronto con i Dialogues di Renan - compa­
re già nello Stato greco:
Noi vediamo che l’effetto più generale della tendenza guerriera è un’im­
mediata separazione e divisione della massa caotica in caste militari, onde si
forma la costruzione della «società guerriera» in guisa di una piramide pog­
giata su di una vastissima base di schiavi (CV, p. 235).

La prospettiva generale di Nietzsche è in questo momento molto


vicina alle conclusioni di Renan, in quanto ha al fondo la «cosmodi-
cea» estetica della metafisica dell’artista, che sublima in una dimen­
128 II genio tiranno

sione superiore il sacrificio e il dovere. Nessuno, meglio dello stesso


Renan in una lettera a Sainte-Beuve del ’62, ha riassunto il senso di
quest’etica della dedizione assoluta e della gioire:

Le opere di ciascuno: ecco dunque la sua parte immortale, Opera, eorum


sequuntur illos. Quest’esistenza ideale, l’uomo l’ha immediatamente nella co­
scienza dell’umanità; la gloria non è una vana parola... Certo questo tipo di
esistenza non è tutto. Gli uomini migliori sono restati oscuri; forse esistono
spiriti ben più profondi e penetranti di quelli di cui ammiriamo le opere. E
agli occhi di Dio, di cui l’umanità non è che un interprete spesso inesatto, che
la giustizia è ristabilita. E in Dio che l’uomo è immortale. Inutile dire che vi è
in queste espressioni una parte di antropomorfismo e di metafore. Ma quello
che mi sembra risultare dallo spettacolo generale è che si costruisce un’opera
infinita, in cui ognuno inserisce la propria azione come un atomo. Questa
azione, una volta posta, è un fatto eterno. Ognuno resta nell’infinito per la
sua idea, per il suo tipo ideale, che non è la sua coscienza individuale, insepa­
rabile dal cervello, ma la sua vera persona, assolutamente indipendente dalle
condizioni del tempo e dello spazio (OC X, p. 353).

Secondo YAvenir, dalla Rivoluzione, vista come scoppio immenso


di energie ed età di transizione per eccellenza, è scaturita una duplice
e contraddittoria tendenza. Da un lato l’89, l’«anno santo», ha segnato
l’avvento della «riflessione» nel governo dell’umanità e con ciò la pos­
sibilità di «organizzare scientificamente l’umanità»-, dall’altro però ha
aperto la via al trionfo della borghesia, al regno del materialismo egoi­
stico dominato dalla jouissance tipico del «prosaico industriale, capace
di seguire per vent’anni uno stesso pensiero di fortuna» o degli «insi­
pidi mercanti» i quali non capiscono che il fanatico che si fa stritolare
la testa con gioia sotto le ruote del carro sacro è «più bello» di loro
(OC III, p. 797). La stessa ostilità di Flaubert alla stupidità e volgarità
della vita borghese anima le pagine di Renan contro le forme d’esi­
stenza non illuminate dall’ideale, in cui le energie umane si disperdo­
no nel rapporto circolare bisogno-godimento, come del resto è comu­
ne ad entrambi l’origine romantica del disprezzo per la prosaicità del­
la vita borghese. U Avenir presenta una divaricazione molto netta,
pressoché assoluta tra scienza e vita comune, esistenza materiale. La
scienza è legittimata a proporre un diverso fondamento etico ai com­
portamenti umani perché non è compromessa con il mondo sensibile:
Sapere è di tutte le azioni della vita la meno profana, perché è la più disin­
teressata, la più indipendente dal godimento... È fatica persa provarne la san­
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 129

tità perché possono sognarsi di negarla solo quelli per i quali non vi è nulla di
santo (OC III, p. 741).

La non profanità della scienza è garantita da un bisogno intellet­


tuale di conoscenza originariamente separato dagli altri bisogni. Re­
nan mostra di accogliere questa tesi comtiana, anche dove distingue
l’attività scientifica dalle sue applicazioni pratiche:
Le abitudini della vita pratica indeboliscono l’istinto della pura curiosità...
Ci si accorge di solito della scienza solo per i suoi risultati pratici e i suoi effetti
civilizzatori... Questo è verissimo; ma è porre la tesi in un modo pericoloso. E
come se, per stabilire la morale, ci si limitasse a presentare i vantaggi che essa
procura alla società. La scienza come la morale, ha il suo valore in se stessa e
indipendentemente da ogni risultato vantaggioso (OC III, p. 745).

Non vi è connessione alcuna tra lavoro materiale e lavoro intellet­


tuale, “carne” e “spirito”, e lo stesso miglioramento materiale, affidato
alla attività strumentale, è una condizione necessaria per collocare la
attività intellettuale in uno spazio non disturbato dalla pratica, perché:
quando l’umanità fa una cosa, non ne fa un’altra.,. Lo spirito umano non
sarà realmente libero se non quando sarà del tutto liberato dalle necessità ma­
teriali che lo umiliano e lo arrestano nel suo sviluppo25.

Su questi presupposti Renan era indotto ad accentuare la frattura


tra scienza e senso comune, e l’abbandono di questo aspetto della fi­
losofia eclettica è una mossa strategica di primaria importanza. Renan
condivide l’immagine dell’intellettuale come figura superiore alla par­
zialità delle scelte sociali. L’eredità dell’eclettismo, che Cousin propo­
neva come «philosophie de la Carte», filosofia cioè di una politica di
conciliazione tra le parti sociali e politiche nell’età della Restaurazio­
ne, rivive interamente nella figura renaniana del savant, in cui il rifiu­
to contemplativo della pratica a favore della contemplazione è so­
prattutto rifiuto della partiticità necessariamente connessa all’azione.
In Renan la separazione dei savants dalla circolazione sociale delle
idee assume i caratteri di una netta frattura, e la stessa curvatura «de­
mocratica» ôÆ Avenir de la science è condizionata da questa assoluta
separazione:

25 Ivi, p. 793. In questo senso Renan valorizza il sogno aristotelico degli strumenti
che lavorano da soli senza intervento umano, trasferendo interamente alle macchine il
lavoro servile (ivi, p. 1046).
130 II genio tiranno

Che cosa ci sta a fare in questo mondo di sottigliezza e di delicatezza infi­


nita questo volgare buon senso con la sua pesante andatura, la sua voce gros­
solana, la sua risata soddisfatta?... Il tono di sufficienza che esso si permette
verso i risultati della scienza e della riflessione è per il pensatore uno dei moti­
vi di irritazione più rilevanti (OC III, p. 789).

Il successivo sviluppo delle idee di Renan, pur così duttile e dispo­


nibile a variare le sue opzioni politiche (da qui l’accusa generalizzata
dei contemporanei di «dilettantismo», che coglieva anche l’aspetto
«erasmiano» con cui Renan si presentava, di intellettuale appunto su­
periore alle parti) non verrà però mai meno ad una forte coerenza. Il
suo progetto era teso a confinare il patrimonio conoscitivo accumula­
to in una circolazione di tipo castale dotata di estrema libertà critica
anche nei confronti del potere politico. L’intenzione era di impedire
che lo sviluppo della democrazia politica e delle aspirazioni popolari
potesse appropriarsi di un sapere in grado di spezzare la mentalità mi­
tica (le «illusions») in cui rimane rinchiuso il buon senso, di diventare
strumento di autonoma direzione sociale. Ma l’idea di consentire la
democrazia, sottraendole però gli strumenti intellettuali per gestire lo
sviluppo sociale (nei Dialogues: «Se si vuole immaginare qualcosa di
solido, bisogna pensare un piccolo numero di ottimati che reggono
l’umanità con strumenti di cui essi soli detengono il segreto e dei qua­
li la massa non potrebbe servirsi, perché supporrebbero una dose
troppo forte di scienza astratta») trova già i suoi meccanismi di legitti­
mazione nelle pagine del ’48. In un curioso brano dell’Avenir la parte­
cipazione della società civile al sapere si riduce al pagamento di tasse
per la sovvenzione statale agli istituti scientifici:

Si dà così al contribuente, spesso materialista incallito, l’occasione, per lui


rara, di compiere un atto idealista... Ciò espia il suo egoismo e santifica il suo
patrimonio, spesso mal acquisito e di cui egli fa cattivo uso... L’imposta è og­
gi ciò che era, nelle antiche costumanze, la parte che ognuno dava «per la sua
povera anima», alla chiesa e alle opere pie. Per il bene stesso del contribuen­
te, bisogna cercare di rendere tale parte più grande possibile, ma senza spie­
gare al contribuente le vere ragioni, che lui non capirebbe (OC III, p. 1138).

La separazione della scienza dal regno della carne rafforza il suo


carattere di pedagogia sociale, le consente di delineare un modello di
società che funziona in modo alternativo a quella materialistico-bor-
ghese del godimento, e anche a quella dei progetti socialisti e comuni­
sti. I socialisti sono infatti accusati di indulgere a un’etica materialisti­
I l romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 131

ca del godimento analoga a quella borghese. \IAvenir ha di mira, cer­


tamente, soprattutto Fourier e Cabet, ma anche la sansimoniana «ria­
bilitazione della carne». E stata più volte indicata dagli interpreti la
dipendenza della filosofia della storia di Renan da un’opera come De
l’Humanité del sansimoniano Pierre Leroux, soprattutto per quanto
concerne l’idea di una umanità come corpo unitario che tende alla
realizzazione dei germi divini in essa impliciti, alla “perfection”. Il re-
naniano «realizzare D io» risente certo del «D io immanente nell’uni­
verso, nell’umanità e in ogni uomo» di Leroux, che si manifesta spez­
zando il «cerchio immutabile» della ripetizione in un cammino pro­
gressivo verso l’ideale26. Ma più che segnalare questa affinità, è inte­
ressante individuare le modificazioni a cui Renan sottoponeva la filo­
sofia della storia di Leroux. Così, quando egli scrive che:
lo scopo dell’umanità non è che gli individui vivano bene, ma che le forme
belle e caratterizzate siano rappresentate e che la perfezione si incarni

qui vi è certamente una ripresa della tesi di Leroux («le creature


non sono fatte per essere felici, ma per vivere e svilupparsi... verso un
certo tipo di perfezione»)27 ma in realtà con una radicale revisione. Là
dove Leroux intende colpire un’immagine di felicità individuale come
quietistico equilibrio di piaceri e dolori, indifferente ai destini dell’u­
manità, ma in conformità alle idee solidaristiche della scuola sansimo­
niana rivaluta poi pienamente le aspirazioni al bonheur dell’«egoismo
santo e necessario» (cosicché tutta quanta YHumanité è interpretabile
come ricerca di una grammatica dei rapporti sociali che consentono
un’espansione universale, non elitaria della felicità), Renan utilizza in­
vece l’iniziale divaricazione tra bonheur e perfection in vista di una to­
tale estinzione delle aspirazioni individuali al godimento. In tal modo
la tensione universalistica al progresso non è, come in Leroux, solida­
le accrescimento di felicità e benessere individuale, ma anzi è possibi­
le solo come sacrificio dell’individuo agli scopi dell’umanità, e la filo­
sofia renaniana della storia può sfociare in una ideologia della schia­
vitù giustificata. Illegittimi sono schiavitù e sfruttamento esercitati
dalla borghesia, perché finalizzati al godimento, ma la società scienti­

26 De l’Humanité, de son principe et de son avenir...,Vans 18452,p .4 0 .


27 Leroux combatte un’immagine dell’umanità come ideale astratto, in quanto tale
privo di «vera esistenza». L’umanità non va feticizzata in una specie di natura collettiva,
ma va colta nella collaborazione solidaristica degli «esseri particolari e individuali» (De
l’Humanité, p. 249).
132 II genio tiranno

ficamente organizzata in vista della perfezione prevede «schiavi del­


l’umanità, schiavi dell’opera divina», proprio in virtù del fatto che «il
principio: non ci sono che individui, è vero come fatto fisico, ma non
come proposizione teologica. Nel piano delle cose l’individuo spari­
sce; sola degna di considerazione è la grande forma disegnata dagli in­
dividui»28. La relazione con Leroux indica dunque un modo di ap­
propriarsi della dottrina sansimoniana isolando l’attenzione ai mo­
menti organizzativi e produttivi, e soprattutto alla capacità attribuita
alla scienza di dirigere la società. Renan elimina invece drasticamente
l’attenzione dei sansimoniani alla crescente capacità da parte delle
forze produttive, di soddisfare i bisogni dell’umanità ed al tema con­
nesso della socializzazione del lusso.
Non è dunque difficile vedere ne&’Avenir de la science già netta­
mente disegnati i temi dei Dialogues, e soprattutto come il renaniano
rifiuto del sensibile a favore dell’ideale proponga un’immagine della
società organicamente finalizzata al primato della produzione, dove la
devozione umana significa disponibilità a far sparire il momento del
consumo, della soddisfazione dei bisogni.
In un importante testo dell’88, YExamen de conscience philosophi­
que, così Renan riassume la sua metafisica, riprendendo ancora la me­
tafora dei costruttori di piramidi e rendendone trasparenti le intenzio­
ni sociali:

Le volontà divine sono oscure. Noi siamo uno dei milioni di fellah che la­
vorano alle piramidi. La piramide è il risultato. L’opera è anonima, ma dura;
ognuno degli operai vive in essa. Non sarebbe affatto ingiusto esigere ciò che
esigono gli operai delle manifatture: essere associati all’opera dell’universo
tramite una partecipazione agli utili, per godere almeno qualcosa del risultato
del nostro lavoro. Ora, noi siamo ammessi ai lavori non ai dividendi, non sap­
piamo nemmeno se ce ne sono, se il nostro salario è basso. Altri si mettereb­
bero in sciopero; noi, andiamo lo stesso al lavoro.

Anche nei momenti in cui Renan attenuerà in senso più realistico

28 OC III, p. 1031. «Se un giorno - scrive Renan - l’umanità avesse bisogno di es­
sere governata al vecchio modo, di subire un codice alla Licurgo, ciò avverrebbe a
buon diritto... Sarebbe cosa comprensibile, dal momento che si attribuisce all’umanità
un fine oggettivo, cioè indipendente dal benessere individuale: la realizzazione del per­
fetto, la grande deificazione. La subordinazione degli animali all’uomo, di un sesso al­
l’altro, non turba nessuno, perché è opera della natura e dell’organizzazione fatale delle
cose».
Il romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 133

l’estremismo di questo sogno sociale modellato sul dévouement scien­


tifico lo farà badando bene che la richiesta di soddisfazione di bisogni
avanzata dalla pressione «democratica» non determini un incremento,
un accumulo di energie vitali razionalmente controllabili: il consumo
deve restare puro spreco, momento in perdita dell’energia umana, se­
condo le riflessioni del patrizio di Le prêtre de Nemi, che concede alle
classi popolari un incremento di jouissance, purché essa sia riversata
sui circenses.
5.
Il caso Renan. «Due antipodi»

1. La società devota

Il confronto con Renan si fa più serrato e diretto negli ultimi anni,


quando Nietzsche legge nel dilettantismo “voluttuoso” del francese,
nel suo «idealismo» cristiano l’espressione più conseguente di una
malattia della volontà che caratterizza l’epoca moderna ed è diffusa
soprattutto in Francia. L’anticristo, come testimoniano i frammenti
preparatorii, ha tra gli obbiettivi polemici il tentativo renaniano di sal­
vare la forza ideale del cristianesimo sulla base del Gesù genio ed eroe
charmeur, tentativo visto da Nietzsche come sintomo di corruzione
della ragione e degli istinti più profondi1. Del colore verbale, come1

1 «Gesù. Dostoevskij. Conosco solo uno psicologo che abbia vissuto nel mondo
in cui il cristianesimo è possibile, in cui un Cristo potrebbe nascere in ogni momento. E
questi è Dostoevskij. Egli ha indovinato Cristo: - ed è stato principalmente ciò che lo
ha istintivamente preservato dall’immaginarsi questo tipo con la volgarità di Renan... E
a Parigi si crede che Renan soffra di troppe finesses\... Ma si può sbagliare in modo più
grossolano, quando di Cristo, che era un idiota, si fa un genio? Quando di Cristo, che
rappresenta il contrario di un sentimento eroico, si fa un eroe?» (FP 1888, p. 199). Cfr.
AC, pp. 201 ss. In particolare il termine «impérieux», usato da Renan in Les Evangiles
(OC V, p. 86: cfr. il brano trascritto da Nietzsche in FP 1886-87, pp. 188-189) «da solo
già annulla il tipo» (p. 205). Una analisi puntuale del rapporto tra la storia renaniana
del cristianesimo (la cui presenza è avvertibile anche nello scritto di Tolstoj Ma religion)
sarebbe proficua - al di là del contrasto di fondo - per la definizione di particolari. B a­
sti ricordare il già accennato tema dell’Himmelsreich, la centralità della categoria di
«ebionismo», la funzione e il significato del martirio: «D i fatto, si muore per delle opi­
nioni, non per delle certezze; perché si crede, non perché si sa. L o scienziato che ha
scoperto un teorema non ha bisogno di morire per attestarne la verità. N e da la dimo­
strazione e tanto basta... il martire non prova affatto la verità di una dottrina; prova
l’impressione che essa fa sulle anime, e questo è ciò che importa per il suo successo»
(L’Église chrétienne, O C V, p. 576; cfr. AC, pp. 239-240) etc. fino allo spunto della valo­
rizzazione della superiorità ironica di Pilato: «Prendere sul serio un affare tra Ebrei - è
una cosa di cui non riesce a convincersi. Un ebreo di più o di meno - che importa?... Il
136 II genio tiranno

pure di certi giudizi spietati, Nietzsche è debitore verso la contempo­


ranea letteratura francese: da Doudan a Barbey d ’Aurevilly, dai Gon-
court a Lemaître2.
In particolare Nietzsche deve molto, anche in questo caso, a Paul
Bourget, per l’attribuzione a Renan del carattere «morbide» e in fon­
do nichilistico del «dilettantismo epicureo», di una sensibilità religio­
sa «tendre», «mélancolique» dovuta all’eredità del sangue celtico che
ne determina l’idealismo3 legata anche all’aria elettrica della disgrega­
ta Parigi «microcosme de notre civilisation». Ma mentre Bourget su-

nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso


della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un
valore - la quale è la sua critica, persino il suo annullamento-, “che cos’è verità?”» (AC,
p. 229). Cfr. Renan; «Indifferente alle dispute intestine degli Ebrei, in tutti questi movi­
menti di settari non vedeva altro che effetti di intemperanze della fantasia e di cervelli
sconvolti. In generale, non amava gli Ebrei... il loro fanatismo angusto, i loro odii reli­
giosi ripugnavano a quell’ampio sentimento di giustizia e di governo civile che il più
mediocre dei Romani portava ovunque con sé... Poi Gesù gli avrebbe spiegato la natu­
ra del suo regno, che si riassumeva tutta nel possedere e nel proclamare la verità. Pilato
non capì nulla di quel superiore idealismo... L a totale assenza di proselitismo religioso
e filosofico nei Romani di allora faceva sì che considerassero la devozione alla verità co­
me una chimera» (Vie de Jésus, O C IV, pp. 334-337).
2 La derivazione da Doudan è provata dalla trascrizione di un significativo brano
restituito dall’edizione critica in FP 1884, p. 24. Ma in particolare la piena consonanza
è con i giudizi di Barbey d’Aurevilly di cui Nietzsche ammira raffermata «energia»
contro le debolezze, le indecisioni di Renan (la «souplesse») incapace di un ateismo ra­
dicale, di una «empietà netta e squadrata» legata ad una «scienza erculea». Alla lettura
della Vie de Jésus si attendeva un «Anté-Christ»: «M a no, neanche per scherzo, perché
è insipido e noioso». D cattolico d’Aurevilly rimpiange la forza dell’ateismo di Voltaire
ed arriva alla crudeltà del portrait-. «N on c’è nessuna virilità di temperamento, nessuna
ombra di muscolatura in questo talento molle... La sua debolezza corrispondeva alla
debolezza del secolo: due anemie analoghe! L’eunuco grasso e rosa era fatto per Bisan­
zio» (Barbey d’Aurevilly, Le XIXe siècles. Des œuvres et des hommes, Choix de textes
établi par Jacques Petit, t. II, Paris 1966, pp. 328-329. Cfr. anche pp. 28-30, 266-268.
Cfr. anche J. Petit, Barbey d ’Aurevilly critique, Paris 1963, pp. 319 ss.). Su Renan «eu­
nuco» cfr. GM , pp. 406-407.
3 Paul Bourget enfatizzava il carattere «celtico» dell’idealismo di Renan ricordan­
done lo studio La poesie des races celtiques (cfr. P. Bourget, Essais de psychologie contem­
poraine, Paris 1883, p. 47). In A l di là del bene e del male Nietzsche ricorda il «sangue
celtico» di Renan per il suo impasto di scetticismo e devozione, aggiungendo che «i Cel­
ti... hanno fornito il miglior terreno perché si contraesse, nel nord, l’infezione cristiana»
(JGB, p. 57). Nella letteraria rievocazione delle tradizioni bretoni dei Souvenirs (che
Nietzsche possedeva nella sua biblioteca nella II ed., Paris 1883) Renan presentava un
popolo non contaminato dal «vulgaire» della civiltà moderna, e di cui attribuiva a se
stesso il carattere. I folli liberamente vaganti per le strade di Tréguier all’epoca della sua
fanciullezza sono i testimoni di «razze viventi di sogno, logorantisi a perseguire l’ideale».
Il caso Renan. «D ue antipodi» 137

bisce il fascino di questa forma di vita della «décadence», in Nietz­


sche la contrapposizione alla corruzione e falsità dell’istinto renania-
no, come all’indecisione del suo dilettantismo4 è aperta, fino a fare di
Renan «in cui basta un niente di tensione religiosa per far perdere, ad
ogni momento, l’equilibrio della sua anima, in un senso più sottile vo­
luttuosa e amante della vita comoda» (e che significativamente Nietz­
sche accosta a Comte), il suo « antipode» 5. Ai Dialogues philosophiques
(pubblicati nel ’76 ma scritti per la maggior parte nel ’71 come rispo­
sta ideologica diretta alla scossa sociale della Comune), un’opera di
cui ha subito una inconfessata influenza, Nietzsche allude più volte
mettendo in luce la inconciliabilità del progetto aristocratico renania-
no con il proprio. Lo sfondo filosofico dà infatti un significato diverso
anche ai punti di indubbia e significativa vicinanza. È presente in Re­
nan, come anche in Nietzsche («L’umanità - ima macchina che fun­
ziona disordinatamente, con enormi energie») (FP 1877, p. 376) il pa­
ragone dell’umanità con una macchina in cui, dal punto di vista del­
l’economia, l’effetto utile è molto più piccolo rispetto alla massa ener­
getica impiegata: «l’universo è come un’officina in cui su centomila
quintali di carbone bruciato, un quintale basterebbe. L’uomo utile è
appena uno su un milione» (Dialogues, p. 73). L’impulso materialisti­
co ed egoistico alla jouissance è il fattore di spreco, che disperde le
energie utili, mentre l’intelletto scientifico le accumula in un crescen­
do costante annullando la minaccia àÆépuisement delle forze, che
incombe sempre sullo sfondo secondo una tensione nichilistica co-

4 Va osservato che in una lettera a Doss del 1 marzo 1860 (cit. in R.-P. Colin, Scho­
penhauer en France: un mythe naturaliste, Lyon 1979, p. 107) Schopenhauer dà un giudi­
zio su Renan (riferendosi all’articolo La métaphysique et son avenir (1860), ripubblicato
in appendice ai Dialogues philosophiques e che ha al centro il rapporto tra specialismo
degli ouvriers filologi e generalità filosofiche) che anticipa quello di Nietzsche sul dilet­
tantismo di Renan, incapace di pronunciare un sì o un no decisi (cfr. GD , p. 107).
5 JG B , p. 57. In questa pagina Nietzsche cita il passo dell 'Avenir religieux des so­
ciétés modernes in cui si afferma che la religione è un prodotto dell’uomo normale (OC
I, p. 280), che aveva attirato anche l’attenzione di Burckhardt. Non si può dedurne una
lettura dell’opera da parte di Nietzsche, giacché l’intera citazione si trova anche in
Bourget, Essais, cit., pp. 78-79. Naturalmente Nietzsche utilizza gli elementi della ricca
analisi di Bourget senza condividerne l’adesione all’idealismo renaniano. Un solo esem­
pio: la «raillerie» secondo Bourget fuori luogo con cui è stata raccolta l’equazione di
Renan Dio-Ideale (cit., p. 91) e l’identificazione erotica con la divinità, sintesi di bello,
bene, vero, è in Nietzsche pienamente giustificata: «Scherno contro gli idealisti, i quali
credono che “ verità” si trovi là dove essi si sentono “buoni” o “elevati”. Classico è il ca­
so di Renan, citato da Bourget» (FP 1885, p. 395).
138 II genio tiranno

stante in Renan e che corrisponde (malgrado i miti storiografici sulla


enfasi progressiva delle ideologie positivistiche) ad un atteggiamento
ampiamente diffuso soprattutto a partire dagli anni 7 0 nella cultura
europea. In entrambi la costruzione dispotica di un enorme macchini­
smo, l’affermazione della «cineseria» generalizzata è la risposta neces­
saria alle tendenze allo spreco, all’assurdità dell’«ottimismo economi­
co». «Ogni classe della società è una ruota, un braccio di leva in que­
sta immensa macchina», scrive nei Dialogues Renan (p. 132) in paral­
lelo al tema della Réforme di uno sfruttamento planetario delle ener­
gie delle razze non-europee, al quale i cinesi, «race d’ouvriers» e di
uomini-macchina, sono già predisposti. In un’analoga prospettiva pla­
netaria, in Nietzsche un’affermata repressione addizionale deve porta­
re l’umanità ad un «meccanismo sempre più saldamente intrecciato
degli interessi e delle prestazioni» che renda possibile una « secrezione
di un sovrappiù di lusso dell’umanità». L’umanità complessiva deve di­
ventare sempre più simile a un’enorme macchina, a

un enorme ingranaggio di ruote sempre più piccole, sempre più finemente


«adattate»... un tutto di immensa forza, i cui fattori particolari rappresentano
forze minime, valori minimi... Per parlare in termini morali, quella macchina
totale, la solidarietà di tutte le ruote, rappresenta un massimo nello sfrutta­
mento dell’uomo (FP 1887, pp. 113-114).

Si tratta per Nietzsche di spingere agli estremi il “gesuitismo di­


spotico” disponibile nell’assetto democratico e nella sua direzione,
che segna il trionfo degli specialismi funzionali attraverso la divisione
del lavoro, che comporta l’uguale valore delle singole ruote per il tut­
to e il mediocrizzarsi dei singoli in una virtù macchinale. La democra­
zia per Nietzsche è uno sforzo per costruire l’«uomo durevole», il «ci­
nese», vincolato a funzioni uniformi e fìsse simili all’istinto bloccato
delle specie animali che ormai non si modificano più mentre «l’uomo
si trasforma ancora - è in divenire» (FP 1881, p. 304).
In Nietzsche come in Renan la tendenza democratica alla medio­
crità livellatrice, all’americanismo, non va dunque contrastata, ma di­
sciplinata e funzionalizzata al disegno della ragione signorile: la mac­
china così costruita deve scaricare l’energia economizzata nella pro­
duzione dei devas renaniani («...creare degli dèi, degli esseri superio­
ri, che il resto degli esseri coscienti adorerà e servirà, felice di servir­
li» [Dialogues, p. 101]) e del superuomo nietzscheano che dà «senso»
allo sfruttamento raccogliendo le forze economizzate dall’enorme
Il caso Renan. «D ue antipodi» 139

m acchina6. M a già in questi elem enti di in discutibile vicinanza si p u ò


avvertire la differenza di fon d o nelle prospettive. I Dialogues in sisto­
no sul m otivo, tipico dell’ultim o Renan, della necessità vitale delle il­
lusioni; la religione m orente riverbera ancora q uesto residuo di forza
sull’um anità:

Noi viviamo nell’ombra di un’ombra. Di cosa si vivrà dopo di noi? ... Una
cosa sola è sicura, che l’umanità farà emergere da sé tutto quanto è necessario
in fatto di illusioni per adempiere i suoi doveri e compiere il suo destino. Fi­
nora non è venuta meno al compito, e non vi verrà meno nell’avvenire7.

L a curvatura nichilistica di questo p assaggio è evidente, m a in R e­


nan la necessità dell’illusione non rivela, com e è nel giovane N ietz­
sche un vacuum m etafisico, anzi è la via p er recuperare una com piuta
«te o d ic e a». L ’illusione fa p arte delle « r u se s» di un D io-n atu ra m a­
chiavellico che ci inganna p er im porre i suoi fini:

Nei confronti dell’uomo l’universo ci appare come un tiranno astuto, che


ci assoggetta ai suoi fini con marchingegni machiavellici e che fa in modo che
pochi riescano a vedere queste astuzie; poiché se tutti le vedessero, il mondo
sarebbe impossibile (Dialogues, pp. 30-31).

N elle pagine sulla “teod icea” Renan riprende l ’idea del grande im ­
broglione che gioca coi dadi truccati, usata d a G aliani com e argom en­
to per sostenere un finalism o m achiavellico della natura contro il d e ­
term inism o m aterialistico:

il male sta nel rivoltarsi contro la natura, quando si è visto ch’essa ci ingan­
na; ma sottomettiamoci. Il suo fine è buono; vogliamo ciò che essa vuole. La
virtù è un amen ostinato detto ai fini oscuri che la Provvidenza persegue at­
traverso di noi8.

6 Cfr. ad es. FP 1887, pp. 9, 113.


7 Dialogues, cit., p. XIX. Nietzsche adopera la stessa metafora in FW, pp. 118, 205.
8 Dialogues, cit., p. 46. Per la derivazione di brani dei Dialogues dai Mémoires di
Morellet che riportano una conversazione di Galiani cfr. Ch. Vincens, Les Dialogues
philosophiques de M. Renan, «Revue bleue», 2e série, 10 juin 1876, p. 560. In questo pe­
riodo c’è una forte presenza nella cultura francese di Galiani, soprattutto per l’aspetto
del «cinismo» e dell’antiroussivismo, che Nietzsche recepisce in larga misura (macchi­
nismo sociale, dressage educativo, donna come animale malato ecc.) valorizzando nel­
l’abate napoletano il « monstre gai». Ricordiamo poi che anche qui, di contro a Renan
che vede nell’istinto sessuale l’inconsapevole presenza di un istinto altruistico che oltre­
passa ed usa l’individuo, per Nietzsche l’importanza dell’istinto sessuale non è «una
conseguenza della sua importanza per la specie», ma sta nel fatto che esso è la maggior
140 II genio tiranno

L’errore di Schopenhauer, che pure ha indicato questo meccani­


smo di “ruse” a proposito dell’istinto sessuale, sta nell’aver assunto un
atteggiamento di rivolta morale da «uomo non rassegnato alla natura,
che pretende di contrastarne la volontà»9. È proprio l’aspetto di one­
sto ateismo, di sguardo volterriano privo di consolazione, che Nietz­
sche valorizza nella filosofia di Schopenhauer, pubblicamente a parti­
re da Umano troppo umano, portandone agli estremi le conseguenze
anche contro i residui “morali” e romantici che essa manteneva:
La natura non inganna noi individui, e non promuove i suoi scopi abbin­
dolandoci; bensì siamo noi, gli individui, a costringere tutta l’esistenza in me­
tri individuali, cioè sbagliati (FP 1881, p. 280).

Lo stesso spreco della natura non è in Renan, come in Nietzsche


espressione del Chaos sive natura e della cieca tensione alla potenza,
non conclude alla casualità. La prodigalità della natura alla quale po­
co importano le forze perdute «seminatore che getta la semente a ca­
so, senza preoccuparsi del chicco che cade sulla pietra» (Dialogues, p.
71) è recuperata in un disegno finalistico. Le forze apparentemente
sprecate hanno in esso un ruolo determinante perché costituiscono
quella estesa massa disponibile allo sfruttamento che rende possibile
l’aristocrazia dei savants.
In questi aggiustamenti provvidenziali, del resto, non esistono vittime.
Tutti servono ai fini superiori. Nel pugno di sementi che il seminatore getta in
aria, anche i chicchi che vanno perduti hanno una funzione (p. 104).

Probabilmente i Dialogues, con la teoria dell’immenso nisus della


natura finaliz. ato allo spirito, tengono presente lo schopenhaueriano
impulso cieco alla vita che è volto alla realizzazione delVidea e che
comporta un enorme sperpero di individui verso cui la natura mostra

manifestazione di potenza dell’individuo («naturalmente giudicando non a partire dalla


coscienza, ma dal centro di tutta quanta l’individuazione», FP 1886-87, p. 281). Per la
teoria dell’istinto sessuale in Renan Nietzsche cita il riassunto che dei Dialogues (pp.
91-92) fa Fouillée ne La science sociale, Paris 1880. Cfr. FP 1887-88, p. 277.
9 Dialogues, cit., pp. 41-42. Nel gennaio 1861 era uscita sulla «Revue germani­
que» la traduzione Métaphysique de Vamour (cfr. R.-P. Colin, Schopenhauer, cit., p. 58).
Il Colin fa l’ipotesi molto verisimile che Renan sia stato decisamente influenzato nell’in­
terpretazione di Schopenhauer fornita dai Dialogues, da Charles Dollfus, che già nel
1859, sulla stessa rivista, aveva pubblicato l’articolo Schopenhauer et sa philosophie in
cui si sottolineava l’atteggiamento di rivolta «delle volontà contro la volontà» di Scho­
penhauer (ivi, p. 57).
Il caso Renan. «D ue antipodi» 141

una fredda indifferenza10. La selezione che Renan propone è l’esplica­


zione dei presupposti del nisus iniziale, l’esplicitarsi del Deus abscon-
ditusn . Esiste perciò una garanzia metafisica che solo il vero e la co­
scienza si affermino sempre più come potere. L’accrescimento della
realtà e della potenza significa incremento della coscienza fino alla
realizzazione di un sensorium commune, di cui i savants sono le mole­
cole, a cui tende la totalità della materia, il trionfo delVesprit sulla
chair —e che è il termine con cui i Dialogues traducono l’averroistico
intelletto separato attivo12. Nella prospettiva di Nietzsche, il senso­
rium comune termine evolutivo dell’umanità è la trascrizione metafisi­
ca di una morale gregaria. La selezione è garantita e rigidamente vin­
colata, presupponendo già la direzione di sviluppo dell’“uomo”. Non
a caso Renan è per Nietzsche una sintesi forte che svela con chiarezza
i presupposti che guidano le mosse della filosofia positivistica, vista

10 «Tutta la natura dimostra il disprezzo per l’individuo» (ivi, p. 72). 0 tema, già
presente nel giovane Renan, viene però da De l’Allemagne («la natura dispiega le sue
magnificenze spesso senza scopo, con un lusso che i partigiani dell’utilità chiamerebbe­
ro prodigalità», IIIe partie, cap. IX) dove vale come argomento antiutilitaristico, per di­
mostrare fondata l’esistenza dei comportamenti estetici e disinteressati.
11 Lo stesso darwinismo è accolto da Renan facendo della lotta per l’esistenza l’eli­
sione reciproca dei fattori che ostacolano lo sviluppo delle potenzialità germinali, è
dunque piegato al preformismo, a una interpretazione finalistica dell’evoluzione. Cfr.
soprattutto Les sciences de la nature et les sciences historiques. Lettres a M. Berthelot
(1863) dove Renan espande in termini di cosmologia la sua teoria della marcia progres­
siva (Dialogues, pp. 177 ss.),
12 Cfr. Averroès et l’Averroïsme (I ed. 1852), in O C III, pp. 117-118: «Una umanità
vivente e permanente, tale sembra dunque il senso della teoria averroistica dell’unità
dell’intelletto. L’immortalità dell’intelletto attivo non è altro che la rinascita eterna del­
l’umanità e la perpetuità della civiltà. La ragione è costituita come qualcosa d’assoluto,
di indipendente dagli individui, come una parte integrante dell’universo; e l’umanità, la
quale non è altro che l’atto di una tale ragione, come un essere necessario ed eterno». È
in questa direzione che i Dialogues contrappongono la protesta di Schopenhauer al
punto di vista di Fichte che afferma «la rassegnazione, addirittura la riconoscenza, e l’a­
more per lo scopo ignoto» (p. 41). Renan riprende qui il tema della Missione dell’uomo
in cui determinante è la garanzia di una volontà provvidenziale che sostiene e riassume
gli sforzi individuali. L’aspetto averroistico che la Staël sottolineava nella dottrina fich-
tiana dell’Io è assunto da Renan per una valorizzazione del sacerdozio scientifico legato
alla realizzazione del Dieu caché e al sacrificio ascetico dell’aspetto materiale che anima
lo scienziato, di una sanzione metafisica del corso del mondo verso la perfezione. Lo
scritto di Fichte è infatti animato dalla connessione di questi tre temi centrali: la vita
dell’infinito che si rivela all’occhio religioso e scioglie la consistenza della amorfa massa
materiale; la «missione» del dotto come strumento di un fine ignoto, legata all’etica del
dovere; il superamento di un andamento ciclico e ripetitivo del mondo in una rettilinea
tensione all’infinito.
142 II genio tiranno

da Nietzsche come mascherata erede della teleologia romantica. Il co­


ronamento sociologico dei sistemi positivistici - Comte, Mill, Spen­
cer, Guyau ecc. - con il tema dell’altruismo, è per Nietzsche la laiciz­
zazione di una teologia dell’umanità che svilisce la stessa probità
scientifica di questi sistemi. Un frammento del 1888 contiene una si­
cura allusione a Renan e alla teoria dei Dialogues per cui il sacrificio
degli individui alla specie voluto dalla natura è una mossa finalizzata
alla produzione di specie e tipi superiori che tendono ad agglutinarsi
ad un unico essere che si identifica con la divinità. Nietzsche scrive:
Trovo la «crudeltà della natura», di cui tanto si parla, altrove: la natura è
crudele contro i suoi figli felici, essa risparm ia e protegge e ama les
h um b les.. P .

A causa della fragile perfezione dell’organismo superiore, macchi­


na complicata e perciò stesso vicina alla decadenza, e del dominio dei
mediocri attraverso un piano sociale gregario che opprime le eccezio­
ni, la selezione darwiniana non garantisce affatto, attraverso la lotta, la
sopravvivenza del privilegiato. La caratterizzazione renaniana del cri­
stianesimo come religione del dévoument e del sacrificio, specie di fi­
losofia del dovere kantiano adeguata al popolo per garantirne la sot­
tomissione al fine superiore, è, su questi presupposti, rovesciata da
Nietzsche. Sacrifìcio e dovere sono sì distruzione dell’individuo a fa­
vore della «specie», ma nel senso che la mediocrità gregaria elide l’in­
dividualità superiore: il cristianesimo

ha indebolito la forza di sacrificare uomini-, ha voluto ridurre la responsabi­


lità al sacrifìcio di se stessi; ma proprio questo assurdo altruismo personale non
ha valore alcuno dal punto di vista della selezione. Si rimarrebbe gabbati, se si
volesse restare ad aspettare quelli che vogliono sacrificarsi per conservare la
specie... Tutti i grandi movimenti, le guerre, ecc. inducono gli uomini a sacrifi­
carsi: ma sono i forti che diminuiscono continuamente il loro numero in questo
m odo... Al contrario i deboli possiedono un tremendo istinto che li induce a
risparmiarsi, a conservarsi, a sostenersi reciprocamente... (FP 1888, pp. 10-11).

La costruzione del superuomo nietzscheano passa attraverso l’af­


fermazione del Chaos sive natura, confermato dall’ipotesi dell’eterno
ritorno come prospettiva di un divenire innocente che nel suo radica-13

13 FP 1888, p. 85. Per l’allusione al renaniano évangile des humbles cfr. M. Monti­
nari, Kommentar zur KSA, KSA 14, p. 461.
I l caso Renan. «D ue antipodi» 143

le immanentismo distrugge ogni residua “ombra di Dio” e valorizza


ogni attimo dell’esistenza. L’onestà scientifica che vince lo spirito reli­
gioso afferma un’energia finita che non può impedirsi la ripetizione,
la ricaduta in una delle forme già trascorse. Se in Nietzsche rimane ta­
lora il termine «D io» è per caratterizzare un culmine di potenza a cui
segue necessariamente un processo di sdivinizzazione (Entgottung):
«Dio» come momento culminante: l’esistenza una continua divinizzazione e
sdivinizzanione. Ma in ciò non un culmine di valore, bensì un culmine di poten­
za... Il regresso dal culmine nel divenire (dalla suprema spiritualizzazione della
potenza sulla base massimamente servile) da presentare come conseguenza di
questa forza suprema che, rivolgendosi contro se stessa, poiché non ha più nien­
te da organizzare, adopera la sua forza a disorganizzare... (FP 1887, p. 6).
L’affermazione del ciclo (ostile a rettilinee filosofie del progresso,
comunque mascherate) ha una funzione selettiva in vista del superuo­
mo: come, in luogo della sociologia, Nietzsche propone «una teoria
dei prodotti del dominio», così al posto della metafisica, della religione
e della teleologia che ne è necessaria conseguenza, «la teoria dell’eter­
no ritorno (questa come mezzo di allevamento e di selezione)» (Ibi­
dem). Si tratta di vincere il «terribile sentimento del deserto» (FP
1884, p. 8) che si apre davanti agli orizzonti liberi, alla «prospettiva in
tutte le direzioni» (Blicke nach allen Seiten ) che si ha con la fine delle
vie prefissate: la prova di forza sta nel confrontarsi affermativamente
col nichilismo che discende dalla teoria dell’eterno ritorno.
La disgregazione, dunque l’incertezza, è propria di quest’epoca... Tutto è
Uscio e pericoloso sul nostro cammino; e intanto il ghiaccio che ancora ci so­
stiene è diventato così sottile... (ivi, p. 5).
La ricorrente metafora del ghiaccio usata da Nietzsche, e che qui
richiama le pagine di Bourget sul nichilismo flaubertiano e renaniano,
mostra, a una attenta lettura, che l’intento di Nietzsche nei confronti
di Renan non è solo quello di attaccare una interpretazione teleologica
che gli è antitetica, ma di evidenziarne il carattere di estrema consola­
zione metafisica nei confronti di un persistente fondo nichilistico. E
valga in Renan, oltre alla insistenza dei Dialogues sull’épuisement delle
forze vitali dell’universo, già ricordata, la netta affermazione che:
L’ordine sociale, come l’ordine teologico, provoca la domanda: chi sa se la
verità non è triste? L’edificio della società umana poggia su un grande vuoto.
Noi abbiamo osato dirlo. Nulla di più pericoloso del pattinare su una crosta
144 II genio tiranno

di ghiaccio senza immaginare come questa sia sottile (OC III, p. 530).

Nietzsche sempre più attribuisce un valore selettivo al “pensiero


dei pensieri” che diviene
Il martello: una dottrina che, scatenando il pessimismo avido di morte, operi
una selezione dei più atti alla vita... Allo stesso modo ogni specie di pessimismo
e di nichilismo diventa nella mano del più forte soltanto un martello e uno stru­
mento in più, per acquisire un nuovo paio di ali (FP 1885-86, p. 98).

L’instabilità dell’uomo, che continuamente vieta l’irrigidirsi della


specie a un dato livello attraverso il fissarsi degli istinti in relazione al­
l’ambiente, proprio degli altri animali, è un presupposto comune: al
nietzscheano uomo animale malato («l’uomo è più malato, più insicu­
ro, più mutevole, più indeterminato di qualsiasi altro animale, non v’è
dubbio - è l’animale malato», GM, p. 325) corrisponde l’ipotesi rena-
niana della «instabilité» secondo cui «l’umanità non raggiungerà mai
l’equilibrio, che è la fine del progresso, come le api, le formiche che
hanno trovato il loro punto fermo» (Dialogues, pp. 69-70). Ma mentre
in Renan l’attività sta nell’adeguarsi dei pochi ai disegni della totalità,
in Nietzsche si risolve completamente nella sperimentazione aperta
legata a una visione del mondo come laboratorio:
PROGRESSO
Non illudiamoci! Il tempo va avanti e noi vorremmo credere che anche
tutto ciò che è in esso vada avanti... che lo svolgimento sia uno svolgimento
in avanti... L’«umanità» non avanza, essa non esiste nemmeno... L’aspetto
globale è quello di un immenso laboratorio sperimentale, dove alcune cose
riescono, disperse in tutti i tempi, e infinite altre falliscono, dove manca ogni
ordine, logica, legame e obbligo di legame... (FP 1888, p. 198).

Al renaniano «organiser Dieu», che stringe le maglie del divenire


in una totalità fornita di direzione, Nietzsche contrappone, con una
evidente allusione a Renan, la necessità di sbarazzarsi del tutto:
Mi sembra importante che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità, di una qua­
lunque forza, di un incondizionato; non si potrebbe fare a meno di prenderlo
come istanza suprema e di battezzarlo «D io». Bisogna mandare il tutto in
frantumi; disimparare a rispettare il tutto; riprendere per le cose prossime e
nostre ciò che abbiamo dato all’ignoto e al tutto... Dunque: non c’è un tutto,
manca il grande sensorio o inventario o magazzino di forze14.

14 F P 1886-87, pp. 301-302. Il riferimento polemico di Nietzsche al sensorìum e al-


I l caso Renan. «D ue antipodi» 145

Proprio attraverso questo passaggio è possibile cogliere un primo


importante momento della differenza di fondo tra il nietzscheano
“ascetismo dei forti” e la renaniana ascesi dei savants. Il sensorium
commune si afferma in virtù di un assorbimento di energie che depau­
perano all’estremo la materia, il corpo, fino all’ipotesi paradossale di
una concentrazione di tutta la forza nel cervello («trasformarla tutta in
cervello») grazie ad una antropotecnica che atrofizza a tal fine gli altri
organi (Dialogues, pp. 115-118). E l’estrema formulazione del caratte­
re ascetico dell’ideale scientifico che significa una soppressione del
sensibile e che Nietzsche ha colpito con l’immagine del Renan prete,
la cui castità è un valore antivitale e non l’accumulo di energia proprio
della castità dell’artista, alla Stendhal15. La frantumazione della tota­
lità e la congiunta critica all’ascesi come ideale, che la Genealogia della
morale combatte nelle sue forme di vita e varie maschere, sfocia in una
piena rivalutazione del corpo, che non significa in alcun modo riap­
propriazione mistica o espressione di immediatezza vitalistica. Come
modello di costruzione di dominio, il corpo propone la ricerca di una
sintesi non garantita di una pluralità di forze in movimento. Il funzio­
namento del corpo mostra una unità di dominio non originariamente
data, ma raggiunta attraverso un ripetuto dressage-, per Nietzsche ciò
significa ascetismo in quanto esercizio di volontà e aumento di ener­
gia. Ma sempre in Nietzsche il processo ascetico verso il dominio ri­
mane materialisticamente vincolato a una “storia del corpo ” ed ogni
forma di idealismo nasce dalle sofferenze e contraddizioni del corpo,
può essere dunque scomposta nelle sue componenti genetiche mate­
riali, al di là della finzione della coscienza semplificatrice:
È la fase della modestia della coscienza... Detto in breve: in tutto lo svilup­
po dello spirito si tratta forse del corpo-, è la storia che diventa AVVERTIBILE,
che si forma un corpo superiore... La nostra brama di conoscenza della natura
è un mezzo con cui il corpo vuol perfezionarsi... (NF 1883, pp. 697-698).

la fede in un tutto-organismo è assai frequente. Si veda almeno: FP 1887-88, pp. 176-


177,248,276.
15 FP 1888, p. 85. Sul proprio carattere «pretesco» tornava più volte lo stesso Re­
nan nei Souvenirs (cfr. ad es. pp. 129 ss.: «Non fui prete di professione, lo fui di spiri­
to. .. Io ero nato prete a priori, come tanti altri nascono militari, magistrati»). Si trattava
del resto di una connotazione corrente nei portraits contemporanei. Per quelli sicura­
mente noti a Nietzsche, cfr. J. Lemaître, Les Contemporaines, cit., p. 204 e il III vol. del
Journal dei Goncourt, pp. 209-210, che parla a proposito di Renan della «haute et in­
telligente amabilité d’un prêtre de la science».
146 II genio tiranno

2. Tiranni artisti, tiranni positivisti

Ma la curvatura materialistica dell’atteggiamento di Nietzsche è vi­


sibile anche in una interpretazione complessiva della scienza che se­
gna il massimo distacco dalla ideologia renaniana della ascesi scientifi­
ca. Già nelle pagine della III Inattuale dedicata alla vivisezione dei vi-
visettori Nietzsche mostra che «lo scienziato è fatto di un complicato
intreccio di istinti e di stimoli diversi, è un metallo assolutamente im­
puro» (SE, p. 422). È totalmente estranea a Nietzsche quella idea di
un istinto cognitivo originario separato dalle forme comuni di vita che
legittima in Comte e Renan - da Nietzsche spesso avvicinati - l’equa­
zione scienza-sacerdozio. La scienza è implicata nel meccanismo degli
interessi vitali e non esiste una scienza ma un insieme di pratiche di
cui Nietzsche sottolinea sempre l’origine strumentale, dove i tratti di
questa origine si conservano e si tramandano nell’atteggiamento dello
scienziato:

L’origine della scienza: si faccia attenzione. Essa nasce non presso i preti e i
filosofi, suoi avversari naturali. Nasce presso i figli di artigiani e di uomini
d’affari di ogni sorta, presso gli avvocati, ecc.: gente per la quale l 'abilità di un
mestiere e i suoi presupposti si sono trasferiti a quei problemi e alla loro solu­
zione (FP 1888, p. 36).

La probità scientifica sviluppa, secondo Nietzsche, una potenzia­


lità nichilistica incurante di tutti i valori; la scienza diventa strumento
deU’Umwertung se sottratta alla forma di vita impoverita che è tipica
dello scienziato, il quale opera con audacia sperimentale e nichilistica
solo all’interno del suo specialismo. In questa direzione Nietzsche è
vicino alla immagine tainiana di scienza, probità ascetica che distrug­
ge i miti e le consistenze metafisiche e di valori (coagulati secondo
Taine delle illusioni politiche democratiche e rivoluzionarie del senso
comune)16. Anche Renan aveva insistito sul carattere nichilistico della

16 È il senso del forte apprezzamento nella GM e in generale nelPultimo Nietzsche


verso il nichilismo radicale di Taine, la cui «impavidità» (GM, p. 344) è contrapposta
alla malattia della volontà dominante in Francia e soprattutto alla sua compiuta espres­
sione nel «parfum Renan». Anche in questo caso la mediazione nella formulazione dei
giudizi critici è da ricercare nel saggio su Taine di Paul Bourget che insiste sul carattere
nichilistico ed energico della religione tainiana della scienza, in contrasto con «il vacil­
lare della volontà, compromesso sofistico della coscienza» proprio di Renan. È noto
che Taine, riconosciuto se stesso nel Sixte del Disciple protestava con Bourget per que-
Il caso Renan. «Due antipodi» 147

scienza positiva distruttrice della fede ma per assorbirlo poi, neutra­


lizzandone la carica distruttiva, in una scienza che assume il ruolo di
nuova religione e che soprattutto sa farsi valere come modello etico. E
una strategia che Nietzsche qualifica come «cristiana» in un aforisma
della Gaia Scienza dove viene sottolineato che l’elemento di novità è
che ci possa essere un «eroismo della conoscenza» non subordinato e
limitato all’orizzonte morale, cosicché la scienza si emancipa dalla na­
tura di mezzo della virtù (FW, pp. 128-129). Da questo insieme di va­
lutazioni antitetiche discende la distanza tra il deva di Renan e l’im­
magine del superuomo di Nietzsche. L’accumulo di energia porta, nel
progetto dei Dialogues, al massimo potenziamento delle facoltà date:
a «esseri decuplicati in valore rispetto a ciò che noi siamo», dove la
scienza nella sua forma di antropotecnica continua l’opera della natu­
ra, combinando gli elementi dati. Lo scienziato tiranno è in funzione
di assoluto dominio sulla massa degli iloti («esseri che si serviranno
dell’uomo così come l’uomo si serve degli animali») (p. 119), ma è
egli stesso funzione devota del grande macchinismo che seceme il
piano divino, è parte costitutiva della logica macchinale della divisio­
ne del lavoro: «ognuno ha le sue virtù. Noi siamo tutti funzioni dell’u­
niverso; il dovere sta nel fatto che ognuno compia bene la sua funzio­
ne» (p. 132). Mentre in Nietzsche il dominio del superuomo realizza
un «contromovimento» rispetto alla cineseria17 il savant-dio renania-
no ne continua la direzione.
Una metafora di Caliban mostra come i nuovi dèi siano una figura
potenziata dell’esistente cineseria, fino al punto di trasformarsi essi
stessi in macchine in una rêverie che segna una congiunzione solo ap­
parentemente paradossale di rifeudalizzazione della società e accogli­
mento delle forme più estreme di americanismo.
(Prospero) Ariele, è il momento di mostrarci gli dèi dell’avvenire.
A sinistra appaiono giganti con braccia e gambe enormi, di polito acciaio. Le
loro giunture si muovono grazie a possenti articolazioni eccentriche... Dopo
aver messo in fuga gli dèi di carne, gli dèi d’acciaio si battono tra loro. Il mondo
si riempie d’uno spaventoso rumore metallico (OC III, p. 403).

sta versione nichilistica della scienza, negando in particolare l’antagonismo scienza-mo­


rale (H. Taine, Sa vie sa correspondance, IV, p. 292. Sull’episodio si veda anche M. Man-
suy, Un moderne. Paul Bourget, Paris 1960, pp. 511-513).
17 Sulla necessità di una «superiore forma di aristocratismes» del futuro come «con­
tromovimento» cfr. FP 1887, pp. 9,78-79,113-114.
148 11 genio tiranno

Nei Dialogues l’attività dei savants è totalmente assorbita in escogi­


tazione tecnica - anche il Prospero dei drammi filosofici è un mago -
e questa nella costruzione di macchine funzionali al dominio capaci di
sostituire all’impostura religiosa spaventosi ordigni distruttivi. Non
solo i «tyrans positives» non avrebbero scrupolo di «allevare in qual­
che sperduta regione dell’Asia un manipolo di Bacchiri o di Calmuc­
chi, macchine obbedienti, prive di ogni ripugnanza morale e pronte a
tutte le ferocie» (p. I l i ) ma verrà il giorno in cui la verità sarà pura
forza e l’equivalenza sapere-potere - «la cosa più bella che si sia det­
ta» - diventerà compiuta identificazione dei due termini in
un tempo in cui la forza fonda realmente il regno della ragione, senza bi­
sogno di ricorrere all’impostura: poiché l’impostura non è che l’arma dei de­
boli, un succedaneo della forza. Il culto della ragione sarebbe allora una ve­
rità. .. Le forze dell’umanità sarebbero così concentrate in un numero di mani
piccolissimo, proprietà di una lega capace di disporre dell’esistenza del piane­
ta e di terrorizzare con questa minaccia il mondo intero... Primus in orbe deos
fecit timor (p. 113).

Il sogno tecnocratico dei Dialogues, dunque, non è solo una esa­


sperazione del tema antigiacobino, assai diffuso nella cultura positivi­
stica francese del secondo Ottocento, della «politica sperimentale»,
con l’aspirazione a una scientifizzazione del governo politico, ma rive­
la fino a che grado la «scienza» è, in Renan, una compiuta metafora
del dominio sociale.
Questa figura del genio - uomo superiore funzionale ed interno al­
la divisione del lavoro e alla cineseria - è spesso oggetto della polemi­
ca di Nietzsche. L’uomo tutto cervello appare completamente deter­
minato, nella logica di Zarathustra, dalla storia quale si è svolta finora,
che ha prodotto solo «frammenti e membra e orrida casualità». Colo­
ro che agli occhi del popolo sono geni, sono invece per Zarathustra
uomini cui manca tutto, se non che hanno una sola cosa di troppo - uomi­
ni che non sono nient’altro se non un grande occhio o una grande bocca o un
grande ventre o qualcos’altro di grande, - costoro, io li chiamo storpi alla ro­
vescia (Za, pp. 168-169).

L’uomo superiore, in questa prospettiva, è ridotto a essere «pasto­


re», cioè guida ma in ultima istanza funzione del gregge (come nel
caso esemplare del papato scientifico di Comte). Si comprende per­
ciò la connessione da Nietzsche stabilita, a proposito delle pretese
Il caso Renan. «Due antipodi» 149

aristocratiche di Renan, tra scienza e democrazia:


Egli vorrebbe, ad esempio, annodare insieme la science e la noblesse; ma la
science appartiene alla democrazia: lo si tocca con mano. Con non piccola
ambizione desidera rappresentare una aristocrazia dello spirito: ma nel con­
tempo si prostra in ginocchio, e non soltanto in ginocchio, di fronte alla dot­
trina opposta, all 'évangile des humbles. ..18

Le pretese di dominio sociale della scienza non sono giustificate


perché essa è pienamente solidale con la virtù cristiana, nemica del
corpo e del godimento, nell’operare una mediocrizzazione estrema
dell’uomo, nel renderlo strumento docile del macchinismo che per
Nietzsche, come abbiamo visto, è identificabile con la democrazia. La
genesi della scienza si può trovare nell’istinto di rassicurazione del­
l’uomo generico, (nasce dalla paura) e proprio per questo la dimen­
sione tecnica è sempre in primo piano.
L’uomo che prende la natura al suo servizio e la sopraffa. L’uomo scientifi­
co lavora con l’istinto di questa volontà di potenza e si sente giustificato. Pro­
gresso nel sapere come progresso nella potenza (ma non come individuo).
Piuttosto questo uso schiavistico dello scienziato abbassa l’individuo (FP
1881, p. 390).

L’uomo si consolida, attraverso la scienza, nella relazione con le al­


tre forze; si stabilizza ma anche si mediocrizza irrigidendo gli errori,
che hanno permesso una forma di vita, in istinti stabili (le «facoltà»).
Il valore della scienza sta solo nell’essere strumento perfetto nelle ma­
ni delle eccezioni che ne usano liberamente le forze prodotte e, incor­
porandone i risultati, ne trasformano il metodo in autonoma criticità.
Accanto all’utilizzazione economica della scienza Nietzsche propone
un’utilizzazione economica della virtù.
L’imperativo morale - formalizzato dal «fanatismo» di Kant, il «ci­
nese di Königsberg» - che per Nietzsche è l’istinto che una società ha
di affermare se stessa, ha il compito di sublimare e confermare la mac-
chinalità, basata sul carattere stabile, regolare e ripetitivo degli affetti:
Una DIVISIONE DEL LAVORO per gli affetti all’interno della società, in modo
che gli individui e le classi riescano a formare il tipo di anima incompleto, ma
appunto perciò più utile... Posto che questi stati d’animo e affetti coinvolga­
no ingredienti dolorosi, si deve trovare un mezzo per superare questo ele-

18 GD, p. 107. Cfr. anche FP 1887-88, pp. 10-11.


150 11 genio tiranno

mento penoso con una rappresentazione di valore, per far sentire il dispiacere
come pregevole, dunque in senso superiore, come un piacere. In una formula:
« qualcosa di spiacevole come diventa piacevole?»... Che si facciano volentieri
le cose spiacevoli, tale è lo scopo degli ideali19.

L’imperativo etico deve imporsi come assoluto per nascondere la


sua genesi «umana troppo umana» come è accaduto con il Codice di
Manu, su cui Nietzsche torna a più riprese nell’ultimissimo periodo
vedendovi una sperimentazione di millenni nascosta da una dichiarata
origine divina e da essa bloccata. L’automatismo istintuale delle caste
è stato creato da leggi e codici morali sanzionati dalla «pia fraus» del­
la genesi religiosa: meccanismi di violenza, la durezza dei castighi e
delle pene che procedevano dal potere sacerdotale, hanno tenuto coe­
so l’insieme. Causalità fantastiche hanno creato la salda eticità: si pre­
sta obbedienza all’autorità e alla tradizione non perché comandano
l’utile ma perché sono imperativi; l’azione è giusta solo se conforme
alla legge, il senso religioso è in primo piano: andare contro la legge
significa essere atei ed empi. L’etica renaniana del dovere cui obbedi­
scono anche i «tiranni positivisti» ricade dunque, per Nietzsche, pro­
prio per il suo carattere di teologica assolutezza, all’interno della cine­
seria, è espressione della «morale degli schiavi», dei sottomessi che in­
capaci di autonoma legislazione individuale, hanno bisogno di una
determinazione di valori dall’esterno:

Si considerino le età di un popolo in cui il dotto appare in primo piano:


sono tempi di stanchezza, spesso di crepuscolo, di decadenza; la forza sovrab­
bondante, la certezza di vita, la certezza d 'avvenire se ne sono partite. L a pre­
ponderanza dei mandarini non significa mai nulla di buono.. 20.

19 FP 1887, p. 110. Cfr. anche: ivi, pp. 110-111: «K compito è quello di rendere
l’uomo utile il più possibile e avvicinarlo, fin dove si può, a una macchina infallibile; a
tal fine dev’essere fornito delle virtù di una macchina (deve imparare ad apprezzare gli
stati, in cui opera con l ’utilità di una macchina, come quelli di maggior pregio...) Una
tale esistenza ha bisogno forse più di ogni altra di una giustificazione e trasfigurazione
filosofica; i sentimenti di piacere devono essere svalutati da una qualche istanza infalli­
bile come se fossero di rango inferiore; il «dovere in sé», forse addirittura il pathos della
venerazione per tutto quanto è spiacevole - e questa esigenza si esprime imperativa­
mente, come al di là di ogni utilità, diletto, opportunità... L a forma di esistenza mac­
chinale come suprema, rispettabilissima forma di esistenza, che adora se stessa. (Tipo:
Kant come fanatico del concetto formale “tu devi”)».
20 GM , p. 359. H termine «mandarino» è usato anche da Flaubert (il cui epistola­
rio con la Sand è noto a Nietzsche: Paris, 1884, BN ) per esprimere il suo consenso con
le idee aristocratiche di Renan. Nella lettera a Renan in cui dichiarava di essere rimasto
Il caso Renan. «Due antipodi» 151

Il termine «mandarino» può essere ripreso da Flaubert, ma è cor­


rente nelle discussioni della pubblicistica politica contemporanea sul
dispotismo dello stato-macchina orientale.
Il percorso di Nietzsche verso il superuomo rinuncia a scorciatoie,
vie uniche santificate da garanzie metafisiche e teologiche in nome di
un machiavellismo «sans mélange», che ha «l’assoluta volontà di non
crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà - non nella
“ragione” e meno ancora nella “morale” ...» (GD, p. 156). Preliminare
è la distruzione nichilistica di tutte le posizioni che mantenevano al
centro l’uomo generico come fantasma ideologico, ombra di dio e de­
gli strumenti che - solidali con la prospettiva gregaria - sono arrivati al
dominio nel mondo moderno. Accanto al lucido procedere della disse­
zione analitica, Nietzsche presenta nelle sue proposte un complesso di
livelli da cui risulta comunque chiara la decisione di uscire dal domi­
nante dispotismo della ripetizione e della cineseria. Al centro di questo
«contromovimento» nell’ultimo periodo c’è l’arte, intesa come «gran­
de stimolante della vita» legata all’accrescimento della potenza: ai ti­
ranni positivisti di Renan, Nietzsche contrappone tiranni artisti21 capa­
ci di dare un senso nuovo all’energia accumulata dal macchinismo, e
che attraverso un continuo esercizio di «superamento» arrivano ad
una pienezza di forma perché la ricchezza di istinti che ne è la base ne­
cessaria non sia caos distruttivo. Il mondo del macchinismo deve esse­
re regolato da forme di dominio dure e prive di mistificazione, fino ad
una gerarchizzazione completa di funzioni sul modello del corpo che
realizzi un ilotismo generale di perfetti strumenti: «frammenti di uomi­
ni - questo contrassegna gli schiavi». A questo livello Nietzsche pro­
pone la figura del tiranno capace di foggiare gli uomini come argilla,
nell’esercizio di una volontà artistica come il Napoleone di Taine:

«edificato» alla lettura dei Dialogues (19-26 mar. 7 6 in Correspondance 1873-1876, pp.
297 ss.) Flaubert sottolinea il suo accordo sulla necessità del sacrificio. Anche in Flau­
bert il tema del dévouement, che distingue il popolo non ancora corrotto dall’istruzio­
ne, dal materialismo del borghese, è in primissimo piano (si pensi al personaggio di Fé­
licité, il «demi-siècle de servitude» incorporato in Catherine-Nicaise-Elisabeth Leroux
ecc.). E tuttavia Flaubert rifiuta la trasposizione del « dévouement aveugle» che è «fana­
tisme de l’homme pour l’homme» nella «idée abstraite et sèche du devoir» (cfr. lettera a
L. Colet, 27-28 febbraio 1853, Correspondance, III, p. 104, cit., in A. Cento, La «dottri­
na» di Flaubert, Napoli 1967, che dedica all’argomento pagine assai penetranti).
21 Cfr. ad es. FP 1885-86, p. 76: «una nuova, enorme aristocrazia, edificata sulla
più dura autolegislazione, in cui sarà conferita una durata di millenni alla volontà di
violenti uomini filosofici e di tiranni artisti...».
152 11 genio tiranno

Da nature come quelle di Cesare e Napoleone si può avere un’idea di un


lavoro «disinteressato» sul marmo, qualunque sia 0 sacrificio in uomini che
comporta. In ciò sta l’avvenire degli uomini più alti: portare la più grande re­
sponsabilità e non spezzarsi22.

Ma esiste anche, alla fine di un faticoso percorso selettivo delle for­


ze, una diversa dimensione estetica in cui sopravvive, decantata da
ogni idealismo morale, la lezione di Schiller nelPimmagine del fanciul­
lo eracliteo che gioca, nella libera comunità elitaria dell’uomo super­
fluo, che vive del macchinismo ma ne sta completamente al di là. È la
riproposizione di
Non solo una razza di signori, il cui compito si esaurisca nel governare; ma
una razza con una propria sfera di vita, con un sovrappiù di forza per la bel­
lezza, il valore, la cultura, il comportamento, sino a ciò che è più spirituale;
una razza affermatrice, che possa concedersi ogni lusso..., abbastanza forte
per non aver bisogno della tirannia, dell’imperativo, della virtù, abbastanza
ricca per non aver bisogno della parsimonia e della pedanteria, al di là di be­
ne e male; una serra per piante speciali e scelte (FP 1887, p. 79).

L’antitesi con la prospettiva aristocratica di Renan è netta: proprio


dove il progetto nietzscheano è al culmine della sua tensione signorile
di dominio, rivela anche una dimensione, che non può essere celata,
di liberazione e fuoriuscita dalle maglie schiavistiche della società. Il
rêve di Nietzsche arriva a immaginare dèi epicurei liberi da affetti ag­
gressivi, svincolati dal compito di ordinare duramente il macchinismo
e di governarlo, che siano il senso più alto con la loro forma solare e
piena. La dimensione estetica appare non più nell’esercizio forte del
dare una forma agli altri uomini e a se stessi, ma come pienezza e in­
cremento di vita in cui la molteplice realtà corporea è già ordinata.
Nell’immagine del «Cesare romano con l’animo di Cristo», YHimmel-
sreich, la piena libertà interiore, viene raggiunta non più come nel Cri­
sto idiota per effetto dell’épuisement e della degenerazione fisiologica,
ma come espressione di una ricchezza di forza e della riconquistata li­
bertà del gioco da parte degli istinti educati.

22 FP 1885-86, p. 17. Nietzsche valorizza l’immagine di Napoleone proposta da


Taine sulle pagine della «Revue des deux mondes»: monstre di forza, « moi» colossal
erede dei condottieri del Rinascimento, con l’energia e il realismo del Borgia e di Ma­
chiavelli, capace di dare, da artista, una forma al caos. Nietzsche nei frammenti postu­
mi del 1887 cita dalla prima parte del saggio pubblicata nel numero del 15 febbraio
1887 (pp. 721-752), FP 1887, pp. 211-212. Cfr. Taine, cit., p. 752: « c ’est sur l’homme
vivant, sur la chair sensible et souffrant que celui-ci a travaillé».
Il caso Renan. «D ue antipodi» 153

3 . Egemonia e lotta: approssimazioni alla «volontà


di potenza»

Il confronto di Nietzsche con il darwinismo (che non è in generale


con le opere o la specifica teoria di Darwin: egli si misura piuttosto, in
modo che spesso rende difficile operare distinzioni, con la pressione
del “darwinismo” inteso come polimorfo fenomeno e clima culturale)
può forse offrire un filo rosso particolarmente ricco di indicazioni per
una approssimazione alla “volontà di potenza” e al suo rapporto con
l’immagine del superuomo. Naturalmente non più di una traccia, che
però conferma come i nodi concettuali della filosofia di Nietzsche si
precisino sempre entro una duplice relazione di assimilazione e di di­
stacco dalle immagini che l’epoca offriva.
Il giovane Nietzsche precisa il suo atteggiamento iniziale verso il
darwinismo soprattutto attraverso l’incontro con due opere: la Storia
del materialismo di Friedrich Albert Lange e Vecchia e nuova fede di
David Friedrich Strauss.
Nella polemica con Strauss Nietzsche delinea una prima versione
sistematica del rapporto tra scienza darwiniana e sua utilizzazione so­
ciale. In un periodo in cui ancora opera in Nietzsche l’ideologia di
Bayreuth, il darwinismo autentico è visto come la compiuta ideologia
manchesteriana, cioè l’affermazione del conflitto degli egoismi senza
risoluzione comunitaria. Di qui il carattere «pericoloso» della corretta
applicazione etico-sociale della scienza darwiniana, gli effetti deleteri
della sua verità quando si diffonde nel popolo. L’idea è ancora ribadi­
ta nella II Inattuale-.

Se invece le dottrine del divenire sovrano, della fluidità di tutte le idee, i


tipi e le specie, della mancanza di ogni diversità cardinale fra l’uomo e l’ani­
male - dottrine che io ritengo vere ma micidiali - saranno scagliate nel popolo
ancora per una generazione nel furore di istruzione oggi abituale, nessuno si
dovrà poi meravigliare se il popolo andrà in rovina a causa di ciò che è egoi­
sticamente piccolo e miserabile, della ossificazione e dell’amore di sé, se cioè
andrà in pezzi e cesserà di essere popolo: al suo posto poi compariranno forse
sulla scena dell’avvenire sistemi di egoismi particolari, affratellamenti a scopo
di rapace sfruttamento dei non fratelli e consimili creazioni di utilitaristica
bassezza23.

23 H L, pp. 339-340. E cfr. anche per la «spaventosa conseguenza del darwinismo,


che del resto ritengo vero», il frammento 19 [132] del 1872-73, in NF, p. 49.
154 11 genio tiranno

La teoria di Darwin è «vera» ed assume nel periodo delle Inattuali


addirittura il ruolo di simbolo della scienza, intesa come forza dagli
effetti devastatori e nichilistici verso le consistenze mitiche e l’imme­
diatezza dell’ideale, dunque come verità dannosa per la necessaria il­
lusione. Una volta abbandonata la tematica dell’illusione e dell’ideale
come terapeutica della vita, resterà fermo ed anzi si potenzierà questo
carattere della scienza: Darwin comparirà allora, accanto ad Hegel,
come affermatore di una integrale scienza del divenire, senza ricorsi
mitologici all’essere:

Prendiamo poi il piglio sorprendente con cui Hegel tagliò corto con tutte
le consuetudini e i vizi della logica, allorché osò insegnare che i concetti di
specie si sviluppano l’uno dall’altro-, con questa proposizione gli spiriti in Eu­
ropa furono preformati per l’ultimo grande movimento scientifico: il darwini­
smo, perché senza Hegel non ci sarebbe Darwin (FW, p. 227; ma cfr. anche
FP 1885, p. 121).

Il tentativo di Strauss in Vecchia e nuova fede di ricomporre gli


aspetti conflittuali dello sviluppo storico nella giustificazione di una
«cosmodicea» progressiva (dove la lotta per l’esistenza, secondo mo­
duli naturalistici tipici del darwinismo sociale è il meccanismo che
sanziona il progresso e produce risultati utili al potenziarsi dell’ele­
mento generico della specie uomo) è attaccato da Nietzsche come
deformazione apologetica del vero darwinismo. Perché in Strauss il
carattere distruttivo delle certezze e dei valori proprio della scienza
integralmente storica, viene stravolto a ideologia della sicurezza, del
successo e del progresso garantito proprio del filisteo tedesco dopo
Sedan (l’accostamento straussiano tra Bismarck e il «Darwin benefat­
tore»). L’idea che attraverso la lotta e la selezione si fissino necessaria­
mente i caratteri utili allo sviluppo progressivo della specie, è dissolta
da N ietzsche attraverso il reagente di Schopenhauer. L o Sch o­
penhauer qui accostato alla intrepida serietà di Hobbes e di Darwin è
quello delle pagine del Mondo sull’universale contesa tra le forme che
si sottraggono vicendevolmente la materia:

Questa lotta universale raggiunge la più chiara evidenza nel mondo ani­
male, che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale: ed in cui inoltre
ogni animale diventa preda e nutrimento di un altro; ossia deve cedere la
materia, in cui si rappresentava la sua idea, per la rappresentazione di una
idea diversa, potendo ogni animale conservar la propria esistenza solo col
sopprimerne costantemente un’altra. In tal modo la volontà di vivere divora
Il caso Renan. «Due antipodi» 155

perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nutre di sé, finché da ultima


la specie umana, avendo trionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per
proprio uso. E nondimeno questa stessa specie umana ... rivela ancora con
terribile evidenza in sé medesima quella lotta, quel dissidio della volontà; e
diventa homo homini lupus2-11.

Ricordiamo invece che a Nietzsche rimarrà sempre estraneo lo


Schopenhauer lamarckiano de La volontà nella natura, dove la Vo­
lontà si sviluppa finalisticamente nella creazione di forme superiori
sempre più complesse. Fin da ora Nietzsche interpreta la categoria
dell’utile come strumento privilegiato di un rassicurante teleologismo
storico, che in questi anni vedrà impersonificato anche da Hartmann
e più tardi soprattutto da Spencer. La filosofia spenceriana è una mor­
tificazione della pluralità degli sviluppi possibili, nella quale un tipo
medio-generico (il mercante inglese) viene presentato come fine del­
l’unica evoluzione attraverso la selezione e l’accumulazione garantita
dei caratteri utili. Siamo già al centro della Genealogia della morale,
attraversata dalla polemica verso le contaminazioni utilitaristiche del
darwinismo, oltre che da una decisa presa di distanza dall’impianto
naturalistico di alcuni concetti base del darwinismo sociale come
quello di «istinti sociali», di cui Nietzsche smonta genealogicamente
la presunta immediatezza biologistica. E questo il significato dell’at­
tacco a L'origine dei sentimenti morali di Paul Rèe, che traduceva in24

24 II mondo, p. 186. L’accostamento Schopenhauer-Darwin doveva essere ben pre­


sente nel circolo wagneriano, se ad esempio Cosima, riferendo delle intense letture
darwiniane di Wagner a partire dal 1872, scrive nei suoi Diari: «L a sera, cominciamo
L’Origine delle specie e Richard osserva che qui tra Schopenhauer e Darwin è successa
la stessa cosa che tra Kant e Laplace: Videa l’ha avuta Schopenhauer, Darwin la esegue
probabilmente senza conoscere Schopenhauer, come certamente Laplace non ha cono­
sciuto Kant» (10 febbraio 1873, C. Wagner, Die Tagebücher, Bd. I, p. 638). La vicinanza
tra Darwin e Schopenhauer sul tema della lotta per l’esistenza era un topos nel diffon­
dersi della filosofia schopenhaueriana. Ricordiamo soltanto l’articolo-resoconto Une vi­
site à Schopenhauer di F. Morin, comparso nel 1864 sulla «Revue de Paris», in gran par­
te dedicato allo «sfruttamento armato di tutti da parte di tutti», dove vengono riferite
queste osservazioni di Schopenhauer: «Signore, le piante sono tutte quante più feroci
ancora degli uomini, e io non posso camminare nei boschi senza orrore: ne escono esa­
lazioni di omicidi continui... Diffidate delle metafisiche dolciastre. Una filosofia le cui
pagine non sono scosse dai pianti, dai gemiti, dallo stridor di denti e dal formidabile
frastuono metallico dell’omicidio reciproco e universale, non è una filosofia» (ora in A.
Schopenhauer, Gespräche, hrsgb. v. A. Hübscher, Stuttgart/Bad-Cannstatt 1971, pp.
334, 337). Nietzsche aveva inoltre letto e apprezzato l’opera di E. du Mont, Der Fort­
schritt im Lichte der Lehren Schopenhauers und Darwins, Leipzig 1876.
156 II genio tiranno

termini naturalistici la compassione schopenhaueriana e richiamando­


si al tema di Darwin e Brehm degli istinti sociali nel regno animale, ri­
conduceva le categorie morali a disposizioni istintive per «azioni egoi­
stiche» o «altruistiche»25. Nella Genealogia della morale, e ancora in
una polemica diretta con Spencer, solo la liberazione dalla finalità
precostituita rende possibile l’autentica considerazione genealogica.
La lotta per l’esistenza come meccanica dello sviluppo storico viene
tradotta in conflitto e trasformazione entro un universo pluralistico di
centri di energia che si organizzano in una successione di forme intese
come strutture di egemonia, non di esclusione.

«Evoluzione» di una «cosa», di un uso, di un organo, quindi, è tutt’altro che


il suo progressus verso una meta, e meno ancora un progressas logico e di brevis­
sima durata raggiunto con un minimo dispendio di forza e di beni, bensì il sus­
seguirsi di processi di assoggettamento svolgentisi in tale cosa, più o meno spin­
ti in profondità, più o meno indipendenti l’uno dall’altro, con l’aggiunta delle
resistenze che continuamente si muovono contro, delle tentate metamorfosi di
forma a scopo di difesa e reazione, nonché degli esiti di fortunate controazioni.
La forma è fluida, ma il «senso» lo è ancor di più (GM, pp. 276-277).

Il succedersi delle forme di egemonia deposita sulle cose l’ininter­


rotta catena di segni che consente di decifrare il senso, la logica inter­
na di sviluppo. Qui la volontà di potenza è il criterio di interpretazio­
ne, il «capitale punto di vista della metodologia storica» che consente
di ricostruire il senso dello sviluppo plurale, equidistante sia dall’e­
sclusivismo della teleologia della direzione unitaria (trasposizione de­
gli ideali dominanti) sia dalla «assoluta casualità». Non si tratta certo
di vedere in questo una rarefazione metodologica dell’ideologia legata
alla volontà di potenza, se nella stessa pagina, ad esempio, viene riaf­
fermato il tema del necessario sfruttamento della umanità. Qui come
altrove, è nei punti estremi del progetto signorile che emergono gli
elementi liberatori della filosofia di Nietzsche. È una coincidenza in­
quietante che non si può eludere indebolendone o nascondendone

25 Cfr. ad esempio Paul Rèe, Der Ursprung der moralischen Empfindungen, Chem­
nitz, 1877, pp. 6, 9. Per Nietzsche la scomposizione genealogica non può trovare un
punto fermo in istinti originari. Questo è il limite delle genealogie «inglesi» (di cui Rèe
è un esponente), che ricostruiscono la storia della morale sulla base degli istinti di un
uomo attuale eternizzato: «D a mettere in testa: anche gli istinti sono divenuti; essi non
dimostrano niente per il soprasensibile, nemmeno per l’animale, nemmeno per il tipica­
mente umano» (FP 1885, p. 123).
I l caso Renan. «D ue antipodi» 157

alcune componenti, magari appoggiandosi alla suggestione di tradu­


zioni semplificatrici. Ma inoltre la nozione di volontà di potenza sotto-
linea qui gli aspetti di attività interna, di forza plastica spontanea degli
organismi, «attività in senso proprio», scrive Nietzsche contrapponen­
dola a quella forma secondaria di attività, «reattività», che è l’adatta­
mento all’ambiente in cui ancora prevale la considerazione finalistica:
si è definita la vita stessa come un intrinseco adattamento, sempre più fi­
nalistico, a circostanze esteriori (Herbert Spencer). Ma viene disconosciuta,
in tal modo, l’essenza della vita, la sua volontà di potenza; ci si lascia sfuggire
la priorità di principio che hanno le forze spontanee, aggressive, sormontanti,
capaci di nuove interpretazioni, di nuove direzioni e plasmazioni, alla cui effi­
cacia l’«adattamento» viene solo dietro; si nega così nell’organismo il ruolo
egemonico esercitato dai più alti detentori delle sue funzioni... (GM, p. 278).

L’enfasi posta sul principio dell’attività spontanea come produttri­


ce della variazione e la critica ai due aspetti connessi dell’utilità e del
condizionamento ambientale dei meccanismi di selezione deriva dal
capitolo su darwinismo e teleologia nella Storia del materialismo di
Lange, un testo che ha profondamente inciso, nelle sue edizioni, sulle
riflessioni su Nietzsche26. Ciò che lo interessa nelle pagine di Lange è
l’interpretazione della selezione naturale come momento esclusiva-
mente regolativo e negativo. Essa spiega perché si conservino alcune
variazioni rispetto a un numero indefinito di sviluppi possibili, ma
non ne spiega la produzione. Deve dunque coniugarsi - entro quella
che Lange qualifica come una «riabilitazione di Lamarck» (per l’a­
spetto della forza plastica interna), appoggiata dall’autorità di Fech-
ner (con l’ipotesi di uno sforzo psichico produttore di variazione or­
ganica), Kölliker e Nägeli (di cui Nietzsche si è ampiamente interessa­
to) - con la ricerca di uno sviluppo degli organismi legato al dispie­
garsi di qualità embrionali che il principio di utilità e di adattamento
non può manipolare né tantomeno produrre. Lange presenta questa
prospettiva come «completamento della teoria darwiniana». Essa la­
scia del tutto impregiudicata la questione del prodursi della variazio­
ne, ancora avvolta nel mistero che però occorre non abbandonare, e
c’è qui una forte polemica con Hartmann, alle fantastiche risoluzioni

26 Sul rapporto di Nietzsche con Lange cfr. soprattutto J. Salaquarda, Nietzsche


und Lange, «Nietzsche-Studien», VII (1978), pp. 236-260; Id., Der Standpunkt des
Ideals bet Lange und Nietzsche, «Studi tedeschi», X X II (1979), pp. 133-160.
158 II genio tiranno

della teleologia. Lange scriveva tra l’altro:

La legge di sviluppo ci dà le forme possibili; la selezione naturale sceglie


neH’immensa (moltitudine di tali forme quelle che sono reali; ma essa non
può produrre nulla che non sia racchiuso nel piano degli organismi, e il sem­
plice principio dell’utilità diviene in realtà impotente se gli si vuol chiedere
una modificazione del corpo animale opposta alla legge dello sviluppo. Ma
qui Darwin non è colpito perché egli si limita a scegliere ciò che è utile fra le
variazioni che si producono spontaneamente27.

Ma in Lange il tema della pluralità delle forme coinvolge la costitu­


zione interna dell’organismo individuale: coniugando Goethe con
Virchow, Lange fa sua l’ipotesi di una forma individuale come costel­
lazione dinamica delle parti. Nietzsche recepisce assai presto questa
scomposizione dell’individuo-sostanza: già nel commentario a Diih-
ring dell’estate del 1875, parla dell’«uomo come pluralità di esseri,
una riunione di parecchie sfere», ma poi il tema della dissoluzione del
soggetto e delle facoltà come sostanze non cessa di complicarsi attra­
verso l’assimilazione della contemporanea psicologia francese di deri­
vazione idéologique (la linea Stendhal-Taine), il precisarsi di una teo­
ria del linguaggio e infine la critica alla volontà unica di Scho­
penhauer: eppure sempre a contatto stretto e in discussione con la let­
teratura sul darwinismo. Proprio nelle ultime formulazioni del fram­
mento Antidarwin, Nietzsche riprende alcune ipotesi formulate da
Wilhelm Roux ne La lotta delle parti nell’organismo (1881) come ap­
poggio alla tesi che vede nella forma individuale una risultante dina­
mica della relazione conflittuale delle parti28.
Per spiegare la «corrispondenza allo scopo operante nell’organi­
smo. .. esclusivamente in base a principi meccanici» e rispondere alla
questione lasciata insoluta da Darwin del prodursi della variazione,
senza però introdurre finalità «esterne», Roux sostituisce all’adatta­
mento, all’utilità ed alla pressione ambientale il principio di una ge­
staltende Kraft, una forza formatrice dell’organismo regolata da prin­
cipi meccanici della lotta tra le cellule, i tessuti, gli organi, che Roux

27 F.A. Lange, Storia del materialismo, cit., vol. II, p. 295.


28 L’importanza dell’opera di Roux per Nietzsche, che era già stata indicata dal-
l’Andler e dal Mittasch, è stata recentemente analizzata da W. Müller-Lauter (D er Orga­
nismus als innerer Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux au f Friedrich Nietzsche,
«Nietzsche-Studien», V II (1978), pp. 189-223) soprattutto per l’aspetto della lotta delle
parti e in vista di una ricostruzione dell’idea di volontà di potenza.
Il caso Renan. «D ue antipodi» 159

chiama «lotta interna». Nella lotta esterna, tra gli individui (la darwi­
niana lotta per l’esistenza), si afferma l’organismo predisposto, quello
che dispone di ima forma individuale, vista come equilibrio dinamico
risultante dalle parti in lotta, che consente l’accumulo di un sovrappiù
di energia, un lusso che eccede la quantità di energia consumata nei
processi di conservazione e riproduzione, da spendere vittoriosamen­
te contro gli altri organismi.
Ma ciò che interessa in particolare Nietzsche è il fatto che nel trac­
ciare la natura dei fenomeni organici di «durata» e di crescita, Roux
insiste sul fatto che la capacità di assimilazione da parte dell’organi­
smo è essenzialmente assimilazione del surplus («assimilano più di
quanto hanno bisogno»); l’organismo libera poi le forze eccedenti, al­
le quali non può essere riconosciuto il carattere funzionale all’auto-
conservazione. Paragonando i processi organici alla combustione,
Roux distingueva così tra Leistung (impiego antiutilitario del lusso
energetico) e Funktion: «la produzione di luce è dunque una mera
prestazione (Leistung) della fiamma, o più esattamente della combu­
stione, non è affatto una sua funzione (Funktion). Infatti non è affatto
utile, è una mera emissione inutile, così come lo è la produzione ter­
mica troppo forte»29. I cardini delle pagine di Nietzsche svAAnti-
darwin (i noti, grandi frammenti dell’88) - la scomposizione della for­
ma individuo; il prevalere sulla lotta per l’esistenza e sul condiziona­
mento ambientale della lotta interna e della forza formatrice «enorme
potere creatore di forme dall’interno» - sono desunti da Roux così
come lo è, nel frammento 7 [44] del 1886-87,l’eliminazione del prin­
cipio dell’utile a favore del «sentimento del di più, sentimento del di­
venire più forte, prescindendo del tutto dall’utilità della lotta», che ri­
manda alla tematica antiutilitaria di Roux. In questa dimensione,
Nietzsche riprende spesso per definire aspetti della sua teoria della
volontà di potenza, le osservazioni di Roux sull’assimilazione, ad
esempio nel frammento 14 [174] della primavera del 1888:
...il protoplasma allunga i suoi pseudopodi per cercare qualcosa che gli si
opponga, non per fame, ma per volontà di potenza. Poi fa il tentativo di vin­
cerlo, di assimilarlo, di incorporarselo; ciò che si chiama nutrimento è solo un
fenomeno conseguente, un’applicazione particolare di quella volontà origina­
ria di diventare più forte... Non si tratta assolutamente di riparare ad una per-

29 W. Roux, Der Kam pf der Theile im Organismus, Leipzig 1881, p. 219,


160 II genio tiranno

dita; solo tardi, in seguito alla divisione del lavoro, d o p o che la volontà d i p o ­
tenza h a im parato ad im b occare altre vie p e r sod d isfarsi, il b iso gn o di assim i­
lazion e d ell’organ ism o viene ridotto alla fam e, al b iso gn o di sostituire e recu­
perare il p e rd u to (F P 1888, p. 150).

Ma per cogliere l’importanza del testo di Roux per la strategia del


progetto signorile di Nietzsche - la comparsa del superuomo come
forma che sfrutta il risparmio energetico della grande macchina fatta
di individui addestrati ad un’unica funzione - occorre prendere le
mosse dal noto passo della Genealogia dove Nietzsche descrive come
«la più radicale tra tutte le metamorfosi che abbiamo mai vissuto» la
trasformazione dell’animale acquatico in animale terrestre. Qui Nietz­
sche quasi trascrive una pagina di Roux30. Per Roux il passaggio degli
esseri viventi dall’ambiente acquatico a quello terrestre ed aereo com­
porta la trasformazione di un complesso numerosissimo di funzioni e
di organi «tutti in una volta»; ma la selezione darwiniana non può
spiegare l’introdursi simultaneo di tante mutazioni correlate in milio­
ni di parti perché può far emergere solo poche proprietà in una volta,
«variazioni singole». Anche in Nietzsche la selezione, nella forma di
selezione artificiale, Dressur o plasmazione di individui unilaterali vale
verso il basso, verso la massa servile da sfruttare (ma anche qui con li­
miti che impediscono una plasmazione fino in fondo, e non consento­
no una perfetta macchinalità, come era nei sogni di contemporanee
ingegnerie sociali positivistiche), ma in nessun caso verso il “tipo su­
periore”. Va intanto sottolineata la costante preoccupazione di Nietz­
sche di separare la determinazione del tipo superiore dal meccanismo
della lotta per l’esistenza. Già nel 1875 il progresso verso il tipo supe­
riore è caratterizzato non dalla lotta ma piuttosto dalla capacità di as­
similazione del nuovo, che permette al tipo la permanenza di struttu­
ra e insieme la capacità di dominare la trasformazione. Nei frammenti
Antidarwin Nietzsche parla paradossalmente di una «lotta per resi­
stenza inversa a quella insegnata dalla scuola di Darwin»; riprenden­
do il tema, assai diffuso soprattutto in versioni antielitarie del darwi­
nismo sociale avverse ad una rigida assimilazione del mercato alla lot­
ta per l’esistenza, di una falsificazione della lotta naturale attraverso le
concrezioni del milieu artificiale («i mezzi dei deboli per tenersi a gal-

30 La puntuale coincidenza di queste due pagine va segnalata: W. Roux, op. cit., p.


41 e GM , pp. 283-284.
Il caso Renan. «Due antipodi» 161

la sono diventati istinti, “umanità”, sono diventati “istituzioni”» scri­


ve Nietzsche) egli afferma la necessità di difendere i tipi superiori nel­
la e dalla lotta contro l’elemento gregario, contro la forza coesiva del­
l’elemento generico. La separazione di evoluzione verso il tipo supe­
riore e lotta per l’esistenza è tematizzata chiaramente là dove Nietz­
sche definisce il ressentiment come reattività, costituzione polemica di
chi è incapace di affermazione e attività spontanea, che è invece un
sovrappiù di forza plastica. Il tipo superiore creatore dei valori e del
linguaggio non ha bisogno del nemico e della lotta per definirsi. Qui
la distanza di Nietzsche dall’ideologia naturalistica del conflitto pro­
pria del darwinismo sociale è netta.
La formazione del tipo superiore è invece connotata come emer­
genza'. la forma non si costituisce attraverso modificazioni indotte dal­
la lotta o dall’ambiente, ma è un venir fuori improvviso, per salti, di
un senso complessivo che raccoglie senza costrizioni o interventi sem­
plificanti, in un lento processo di formazione, tutta la pluralità dei
sensi parziali. La forma è affermazione della pluralità, una relazione
di contrari che non hanno però un valore distruttivo né tra loro né
verso la forma, e che neppure tendono alla conciliazione. Ci limitiamo
qui a richiamare almeno due passaggi. Il primo nella prefazione alla
Genealogia, in cui l’unicità di «senso» si definisce come un «crescere
e concrescere» di sensi parziali, cementati, senza semplificazione at­
torno ad una «comune radice»; il secondo nello straordinario brano
di Ecce homo in cui gli strumenti genealogici vengono da Nietzsche
applicati a se stesso per mostrare «come si diventa ciò che si è»:

Bisogna che tutta la superficie della coscienza - la coscienza è una superfi­


cie - sia mantenuta pura da qualsiasi grande imperativo. E attenzione anche
alle grandi parole, ai grandi atteggiamenti! Sono tutti pericoli che l’istinto «si
capisca» troppo presto. Intanto, nel profondo, cresce sempre più l’«idea» che
organizza, l’idea chiamata al dominio - essa comincia a comandare, lentamen­
te guida i passi indietro dalle deviazioni, dalle vie perdute, prepara qualità e
capacità singolari, che poi si dimostreranno indispensabili come mezzi per il
tutto - elabora successivamente tutti i poteri subalterni, prima di far trapelare
qualcosa del compito dominante, della «meta», del «fine», del «senso». - Vi­
sta da questa parte la mia vita è semplicemente meravigliosa. Forse per il
compito di una trasvalutazione di tutti i valori erano necessari poteri maggiori
di quelli che mai si sono ritrovati in una stessa persona, e soprattutto poteri
opposti, che però non possono disturbarsi, né distruggersi. Gerarchia dei po­
teri; distanza; l’arte di dividere senza inimicare; non mescolare, non «concilia-
162 11 genio tiranno

re» nulla; una enorme molteplicità, che però è l’opposto del caos - tutto que­
sto è stata la condizione preliminare, il lungo segreto lavoro e artificio del mio
istinto. Il suo alto patronato si è dimostrato tanto forte che non ho mai neppu­
re presagito che cosa crescesse in me - e così tutte le mie capacità sono saltate
fuori un giorno all’improvviso, mature, nella loro massima perfezione. - Non
riesco a ricordare di essermi mai sforzato - nella mia vita non si rintracciano
segni di lotta, io sono l’opposto di una natura eroica (EH, p. 303).
Appendice
Robert Musil: una lettura
«inattuale» di Nietzsche

1. «Morale matematica» o la forma delle contraddizioni

Il modo di sedere a tavola durante i pasti, l’uso delle


posate ecc. si è mantenuto identico da due secoli a questa
parte. Così come da secoli non è cambiato il modo di fis­
sare o di togliere le viti dal legno, per cui non si è avuto al­
cun cambiamento nella forma del cacciavite. D a centocin-
quant’anni abbiam o le stesse posate. D a centocin-
quant’anni le stesse sedie.
Adolf Loos

«Anche tu sei per l’ordine, lo si capisce da tutto ciò che dici». Il


generale Stumm vede nella forza di Ulrich l’elemento ordinatore ri­
spetto alle secche dell’Azione Parallela, e lo interpreta come manife­
stazione di una «mano forte» capace di rispondere al «bisogno di ri­
solutezza» dei tempi.
«Ulrich rise - Sai che cosa faccio adesso? Non verrò mai più qui! -
rispose felice!» (USQ, p. 1004). L’annessione tentata da Stumm non è
però immotivata: al generale, Ulrich aveva spiegato una pratica della
scienza e la vita dei sentimenti borghesi come ordini della ripetizione,
alle quali la caserma offre un inarrivabile modello (USQ, p. 365).
Una forte presenza (e mescolanza) di temi nietzscheani viene ela­
borata nel personaggio di Ulrich: sia nel rifiuto del generico-ripetitivo
che accomuna morale e intelletto, sia nella costruzione della «morale
matematica» espressiva di nuovi ordini e possibilità. In realtà il carat­
tere dell’«uomo teoretico» che entusiasma Anders e che lo distacca
dalla svalutazione nietzscheana della scienza come «segno della deca­
denza. .. una sottile legittima difesa contro la verità, una scappatoia»1,

1 MoE, 1778. Cfr. GT, p. 4.


164 II genio tiranno

è improntato esso stesso a temi della filosofia di Nietzsche.


Il tema dell’ordine come ripetizione è già presente nel quaderno 4
dei Diari, quando commentando l’aforisma 228 de La gaia scienza,
Musil nota che

lo sviluppo intellettuale si è basato finora sulla «mania di veder tutto simi­


le ed uguale», cioè sugli stessi errori di fondo che secondo Nietzsche favori­
scono il sopravvivere della specie2.

Musil vede la relazione istituita da Nietzsche tra scienza e prospetti­


va dell’uomo «generico». In base ad essa sono gli errori iniziali più
grossolani, la cui originaria casualità ha reso possibile la conservazione
vitale della specie (la fissazione del flusso in «cose durevoli», la compa­
razione di «cose uguali», l’invenzione delle sostanze) che hanno per­
messo, una volta assimilati, incorporati e trasmessi, il consolidamento
dell’uomo, e vengono perciò ripetuti per paura dell’ignoto: la scienza
nasce dalla paura, il conoscere è sempre un rassicurarsi basato sulla
trasformazione in proposizioni cognitive di «norme» di comportamen­
to3. Questa tematica è sviluppata nello Zarathustra con la figura del
«coscienzioso dello spirito» la cui virtù (la scienza) è originata dalla
paura (Za, pp. 367-368). Nell’universo della ripetizione come strumen­
to di rassicurazione, Nietzsche lega in modo stretto legge morale e leg­
ge scientifica: entrambe nascono come discipline di «modi di vita»,
consolidati per lunga esperienza e debbono il permanere del loro ca­
rattere normativo, di dominio (non conoscenza, ma schematizzazione
del flusso in cui la logica e la legge morale sono comprensibili come
forme di volontà di potenza) a una dimenticanza della origine speri­
mentale aperta, e quindi mobile, non univocamente garantita4. Il tema
nietzscheano della sospensione dell’esperimento e del conseguente ir­
rigidirsi della forma segna il dominio dell’uomo «medio»-«generico»,

2 Diari, pp. 36-37. II tema dell’errore ecc. non è contenuto nell’aforisma 228 della
FW ma trova il suo sviluppo, nei termini adoperati da Musil, soprattutto negli aforismi
110 (Origine della conoscenza) e 111 (Origine del logico), oltreché nei frammenti postu­
mi del periodo.
3 «L a scienza non fa altro che prolungare il processo che ha costituito l’essenza del­
la specie, quello, cioè, di rendere endemica la fede in certe cose, e di espellere e far mori­
re chi non ci crede. La raggiunta analogia della sensazione (per lo spazio, il sentimento
del tempo oppure il senso del grande e del piccolo) è diventata una condizione di esi­
stenza della specie, ma non ha nulla a che fare con la verità» (FP 1881, pp. 362-363).
4 WM (= GA XVI), pp. 26-28. Cfr. FP 1888, pp. 72-73, 122-124.
Robert Musil: una lettura « inattuale» di Nietzsche 165

che realizza la coesione gregaria contro ogni individuale affermazione


di forme di vita autonomamente legislatrici, legate a una fruizione
«idiosincratica» del flusso. La proliferazione automatica di tecniche di
dominio della natura sulla base degli «errori» originari per il consoli­
damento e l’accrescimento del benessere gregario (l’enorme «macchi­
nismo» sociale corrispettivo dei miti positivistici) va di pari passo con
la fissazione e ripetizione di valori umano-generici. Questo comporta
socialmente un rimpicciolimento dei supporti, una esaltazione della
«piccola felicità» nella «piccola virtù», propria della figura dell’«ulti-
mo uomo» nello Zarathustra, che raccoglie la continua meditazione di
Nietzsche su quest’aspetto della decadenza.
Nel triangolo Ulrich, Clarisse, WalterI*5, quest’ultimo è costruito su
una fitta serie di allusioni al tema delT«ultimo uomo», e in contrap­
punto con questa figura si delinea il rifiuto ulrichiano dell’umano-ge-
nerico. Alla connotazione nietzscheana degli ultimi uomini che «han­
no lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si
ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore» (Za, p.
11) corrisponde in Walter l’enfasi della vita comune che trasuda calo­
re (Clarisse ne «derideva il calore “da lavanderia a vapore”»)6.
I discorsi di Uli son tutti disumani. Ti assicuro, io ce l’ho il coraggio,
quando vengo a casa, di prendere semplicemente il caffè con te, di ascoltare il
canto degli uccelli, di fare una passeggiata, di scambiare qualche parola coi
vicini e di lasciar tranquillamente passare il giorno: la vita umana è questo!...
Quando Walter le fu a lato, emanava calda dolcezza come una stufa di terra­
cotta (USQ, p. 62).

La ricerca della sicurezza è soddisfatta in Walter dall’ancoraggio

5 Per l’espressione «Triangolo Anders-Clarisse-Walter» cfr. MoE, p. 1756. La


complessa relazione tra questi tre personaggi è in gran parte mediata dall’interpretazio­
ne musiliana di Nietzsche. L o stesso dono di Ulrich delle opere complete di Nietzsche,
lungi dall’essere una liberazione da elementi nietzscheani visti come succhi irrazionali­
stici da scaricare su Clarisse, è come vedremo l’instaurarsi simbolico di un rapporto tra
modi diversi di leggere e vivere Nietzsche, che coinvolge l’intero triangolo («se fossi
Walter sfiderei Nietzsche a duello»: USQ, p. 44) ed esprime l’opposizione, diversamen­
te orientata, all’elemento decadente sostenuto, in Walter, dalla «narcosi» wagneriana
(USQ, p. 63).
6 USQ, p. 48. Si tratta di un Leitmotiv che accompagna la presenza di Walter. Così,
soprattutto nel cap. 118, dove la decisione di Walter di partecipare al corteo contro l’A­
zione Parallela è ricerca del calore determinato dalla vicinanza dei corpi in una esaltazio­
ne «e tica» che trascende e trascina i singoli nella direzione di una rinnovata
Gemeinschaft.
166 II genio tiranno

(klagesiano) all’elemento tellurico-materno, come presenza salda e in­


corrotta al di sotto dell’artificialità della Zivilisation, che resiste alla
«dispersione» e alla hybris intellettualistica di Ulrich: «Un uomo così
non è un uomo» in antitesi agli uomini che «da diecimila anni con­
templano il cielo, sentono il calore della terra e non pensano a smem­
brarli come non si smembra la propria madre» (USQ, p. 61). Nei Dia­
ri Musil affida alla funzione disgregatrice dello spirito il compito di
intaccare il mito di saldezza della terra-madre:

Secondo caute valutazioni ci sono circa 9000 terremoti l’anno, dunque


uno ogni due ore. Di questi circa 5000 sono avvertibili e circa 220 gravi e de­
vastatori... pro domo. Esempio del cambiamento progressivo dell’immagine
del mondo ad opera dell’intelligenza (sismologia). Per la tensione fra l’idea
dotta e quella popolare, che proprio ora vede nella terra (nel suolo patrio) la
quintessenza della pace e del principio materno. Nuova idea dell’uomo, che
procede su una corda che ondeggia o vive in mezzo a una costante inquietu­
dine. Rimpicciolirsi, accanto a queste, delle catastrofi specificamente umane.
Morale eroica (Diari, pp. 1116-1117).

Viene dunque valorizzata la metafora nietzscheana del funambolo


che ha fatto del pericolo un mestiere7, e in generale si può pensare al
paesaggio simbolico di Nietzsche fatto di dirupi, alture scoscese,
ghiacciai, all’affermata necessità di costruire città sulle pendici del Ve­
suvio, e comunque al tema del «vivere pericolosamente» legato al ca­
rattere inquietante di una natura mobile e distruttiva, caos «non uma­
no» lontano dalla sicurezza della pianura (la piattezza tedesca)8.

7 GD , p. 57. L’aforisma viene riprodotto integralmente da Musil nel Quaderno 4


(Diari, p. 49) e viene successivamente riferito a Clarisse. Per il ricorrere dell’immagine
in Nietzsche cfr. anche FP 1888; Za, p. 14.
8 Ma si ricordi l’elogio del terremoto contenuto nella lettera al barone von Seyd-
litz del 24 febbraio 1887: «Q ui, nel paese del sole, Nizza ha ancor festeggiato il suo
Carnevale internazionale, e appena finito, sei ore appena dall’ultima girandola, ecco
nuove e rare delizie della vita terrena. Siamo infatti nell’interessante attesa di perire in
massa. E ciò in grazia di un benigno terremoto, che non solo fece urlare tutti i cani dei
dintorni. Ma che diletto quando tutte le vecchie case crocchiano come tanti macinini
da caffè, e i calamai diventano autonomi, e le strade si riempiono di figure semivestite
con nervi in subbuglio! Stanotte, tra le due e le tre, ho fatto un giro d ’ispezione in varie
parti della città, per vedere dove c’era maggior fifa. Infatti la maggior parte della popo­
lazione bivacca all’aperto, militarmente. Vedessi poi gli alberghi, dove ci furono molti
crolli e quindi regna il panico. H o trovato tutti i miei amici ed amiche pietosamente ste­
si sotto gli alberi fronzuti, avviluppati nella flanella poiché fa molto freddo, e ad ogni
scosserella cupamente pensosi della fine... G ià iersera gli ospiti del mio albergo rifiuta-
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 167

È un’ulteriore forte presenza di Nietzsche: paura e debolezza spin­


gono l’uomo generico a stabilizzare un equilibrio con le forze ostili
dell’ambiente vitale: gli animali lo hanno raggiunto da lungo tempo in
una fissità di istinti regolati. Ma l’individuo, nella sua inquietudine,
appare come Inanimale malato» che turba l’equilibrio del genere, a
cui si aprono perciò, nello stesso momento, innumerevoli prospettive
di sviluppo. L’eternizzazione che Walter compie dell’ultima figura di
uomo quale lo sviluppo della tecnica ha determinato (vuol essere «la
piccola parte di un grande tutto») gli fa sublimare la sicura ristrettez­
za del suo milieu a unicità esemplare, fino all’identificazione col pe­
sce, «borghese acquatico» secondo l’acuta e polemica percezione di
Clarisse:
Il fascino dei pesci sta nel fatto ch’essi non appartengono a due elementi,
ma a uno solo... si muovevano nel mezzo che li muoveva, come all’uomo av­
viene soltanto in sogno o forse nello struggente desiderio di ritrovare la tene­
rezza protettrice del grembo materno (USQ, p. 539).

In Nietzsche gli anfibi sono assunti come gli animali simbolici del­
l’esperimento poiché
mai si pretese di più dalle creature viventi che durante il formarsi della ter­
raferma; esse dovettero allora, avvezze ed equipaggiate per la vita in mare,
mutare e stravolgere il loro corpo ed i loro costumi, e fare in tutto qualcosa di
diverso da quanto erano state abituate a fare fino ad allora; nessun mutamen­
to è stato finora più memorabile sulla terra9.

Walter è l’uomo medio («W. di contro - come uomo medio - per


la saldezza e la pseudototalità») (MoE, p. 1724) che afferma se stesso
come fine e si consolida imponendo la sua piccola morale a norma
universale «...bisogna essere come tutti gli altri ... s’augurava di su­
perare ancora in mediocrità la grande mediocrità umana su cui si reg­
ge la vita». Per vivere il piccolo uomo deve attaccarsi all’immediata
saldezza di una falsa totalità che evita le contraddizioni: il personag­
gio Walter è una miscela parodistica delle principali manifestazioni
della pseudototalità dell’ultimo uomo: da giovane l’aspirazione al tifa­

rono assolutamente di sedere alla table d ’hôte, e, tranne una vecchia pia signora, con­
vinta che D io non può farle del male, io ero l’unico uomo sereno fra larve» (Epistolario
1865-1900, cit., p. 258). Cfr. anche Za IV, p. 258.
9 FP 1888. Cfr. anche WM (= G A XVI), p. 102, ora in FP 1887, p. 298.
168 II genio tiranno

nismo della potenza101, quindi la saldezza di un’immobile legge morale


che si deve imporre agli elementi cattivi della natura (tema più ampia­
mente sviluppato da Musil nelle figure dei «pedagoghi») e la rassicu­
razione di un mito primordiale. In contrapposizione alla psicologia
forte del vivisecteur, la morale del mediocre comporta un attento au­
scultare e amplificare il proprio accadere, con la certezza della calda
cerchia di corrispondenze nel sentire comune (USQ, p. 1170). Le
condizioni di vita ristrette e univoche alïépuisement del decadente (in
contrapposizione alla forza vitale di Ulrich) hanno bisogno, per affer­
marsi, del travestimento morale e dell’ebbrezza dell’idealismo, e l’a­
biezione dell’ultimo uomo va trasfigurata nell’«ondeggiante musica
corticale dell’incantatore sassone» (USQ, p. 597). Il tema del wagneri-
smo espressione di decadenza e narcotico per gli esauriti, della vita è
di evidente ascendenza nietzscheana, come confermano anche i Diari
(che riportano estratti dal Caso Wagner e dal Crepuscolo degli idoli in
connessione alla décadence)n . Per Nietzsche l’opera d’arte totale è te­
nuta insieme dalla intenzione etica e da una aspirazione riflessa al
grandioso, vuole apparire come immediata e naturale nascondendo il
processo e le macchine della sua costruzione artificiale («il perfetto
non sarebbe divenuto»).
La prossimità alla terra di Walter ha i caratteri ideali di una estre­
ma rassicurazione, è l’inverso del «siate fedeli alla terra» di Nietzsche
che è invece rivolto contro la fissità e lontana staticità dell’ideale, è la
costrizione della «bestia nana» schiacciata verso il basso dallo «spirito
di gravità» (il peso dei piccoli doveri quotidiani di cui non riesce a li­
berarsi e quindi sublima in idealità). Walter:

tornò a sedersi sullo sgabello del pianoforte e contemplò soddisfatto le sue


scarpe a cui erano attaccate zolle di terra. Pensò: «Perché alle scarpe di Ulrich
non si attacca la terra? Essa è l’ultima salvezza dell’uomo europeo». Ulrich in-

10 Ibidem , e USQ, p. 596: «era chiaro che la sua decisione duramente conquistata
di unirsi alla maggioranza umana era continuamente combattuta da un’aspirazione vio­
lenta e repressa a una condizione fuor del comune». Nel Quaderno 3 dei Diari si legge:
«Egli il “Walter reale” confessa a Hugo che Tristano e il superuomo lo attiravano come
modello, - già allora», Diari, p. 168. Le aspirazioni di Walter al titanismo e al prome-
teismo sono un ennesimo richiamo parodistico al modello Goethe, ma il tutto è soste­
nuto dalla decisa critica di Nietzsche al culto del genio romantico come esigenza della
debolezza.
11 Diari, pp. 42 ss. Anche la femminilità di Walter ha una corrispondenza tra l’al­
tro con l ’ultimo Wagner foemininigeneris di Nietzsche. MoE, p. 217.
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 169

vece guardava le gambe di Walter, sopra le scarpe; eran rivestite di calze nere di
cotone e avevano la forma non bella di gambe flosce di ragazza (USQ, p. 209).

È sullo sfondo delle cantilene di Walter che Ulrich colloca il suo ri­
fiuto della ripetizione e del «vecchio pregiudizio» deH’eternamente
umano.
«M a quando penso che cinquemila anni fa le donne scrivevano ai loro
amanti le stesse identiche lettere di oggi, non posso più leggere una di queste
lettere senza chiedermi se non bisognerebbe cambiare!» Clarisse si mostrò di­
sposta al consenso. Walter invece sorrise come un fachiro deciso a non batter
ciglio mentre gli trafiggono le guance con uno spillone. «Questo vuol dire in
poche parole che tu fino a nuovo ordine ti rifiuti di essere uom o!» Egli com­
mentò, «Pressappoco. Ammetterlo ha uno spiacevole sapore di dilettanti­
sm o!» (USQ, pp. 206-207).

Ulrich non si riferisce solo alla parodia del dilettantismo aristocra­


tico di Goethe eseguita da Walter (che evoca il goethiano uomo com­
plessivo, intero e in realtà non riesce in nulla) ma anche ad Arnheim
che Walter difende contro Ulrich. Le figure di Walter e Arnheim sono
anche da intendere, nella logica di correlazione dei personaggi che
Musil costruisce, come complementari: il dilettantismo geniale, il tita­
nismo, l’aspirazione all’uomo intero che in Walter sono nostalgie non
realizzate, in Amheim diventano luminosa mimesi di totalità nell’ap­
parenza di una sintesi. E la simpatia di Walter è per l’affine quantun­
que «in formato grande»12. Anche la figura di Arnheim (limitatamen­
te agli aspetti che qui ci interessano, e che beninteso non esauriscono
la stratificata complessità del personaggio), in quanto motivata espres­
sione della décadence, è costruita su indicazioni nietzscheane. L’ele­
mento della decadenza è segretamente percepito da Arnheim nell’in­
quietudine verso la «forza primitiva» del padre che egli non riesce a
toccare con tutto il suo apparato di sintesi riflessa e che mette in rela­
zione all’intatta energia di Ulrich, anch’essa inquietante per la totalità
costruita da Arnheim:
Tuttavia v’era nell’uomo [Ulrich], preso nel suo complesso, qualcosa di in­
tatto, di libero, e Arnheim confessò esitando a se stesso che gli ricordava ad­
dirittura «il segreto del tutto» che lui stesso possedeva e che da quest’altro

12 «Arnheim è l’uomo moderno in formato grande. Perciò egli possiede il contatto


con la realtà, e ne ha bisogno» (USQ, p. 457).
170 II genio tiranno

sentiva rimesso in questione. Come sarebbe stato altrimenti possibile, se si


fosse trattato soltanto di ciò che è accessibile all’intelligenza misuratrice, ap­
plicare a un simile uomo dell’irrealtà la stessa sgradevole sensazione di argu­
zia che Amheim aveva imparato a temere in quel troppo preciso conoscitore
della realtà che era suo padre! (USQ, p. 532).

Il desiderio di conquistare Ulrich (la «pietruzza» che incrina la


lampada panciuta e rimane ostinatamente estranea all’incanto della
sua seduzione) è un tentativo di assimilare e neutralizzare l’elemento
di forza che manca a questo uomo della realtà, affermatore non per
autonoma energia ma perché del contatto con la realtà «ha bisogno»
(USQ, p. 457), conformemente al tema nietzscheano del petit fatali­
sme del decadente che deve rassicurarsi con le realtà date, perché in­
capace di trascenderle. Nietzscheano è il tema della rassicurazione
che Amheim trasfigura nella filosofia della storia («nella storia del
mondo non accade nulla di negativo») (USQ, p. 190) e nella sintesi
spirituale del sapere dell’epoca in cui vengono accuratamente mutilati
gli aspetti eversivo-sperimentali degli specialismi rispetto alla ripeti­
zione quietistica del «generico»:

Andarono a passeggio tutti e tre, e Ulrich in mezzo a quella campagna


sconvolta dal disgelo dovette spiegare a Clarisse gli scritti di Amheim. Vi si
trattavano le serie algebriche e gli anelli di benzolo, il materialismo storico e
l’universalismo, i pilastri di ponti, l’evoluzione della musica, lo spirito dell’au­
tomobilismo, il 606, la teoria della relatività, la teoria atomica di Bohr, la sal­
datura autogena, la flora dell’Himalaja, la psicoanalisi, la psicologia indivi­
duale, quella sperimentale, quella fisiologica, quella sociale, e tutte le altre
conquiste che impediscono all’epoca da esse illustrata di produrre uomini ve­
ri, buoni e normali. Ma nelle opere di Amheim tutto questo era descritto in
maniera molto rassicurante, perché egli asseriva che tutto quel che non si ca­
pisce è semplicemente uno sviamento di forze intellettuali, infruttuose, men­
tre il vero è sempre la semplicità, la dignità umana e l’attrazione verso le ve­
rità superumane, a cui ognuno può attingere purché viva semplicemente e sia
in armonia con le stelle (USQ, pp. 205-206).

Ulrich prosegue adoperando l’espressione, tratta da Aurora, «pas­


sione della conoscenza» e fa di quest’ultima «un atteggiamento illeci­
to, in fondo, perché come la dipsomania, l’erotismo e la violenza an­
che la smania di sapere foggia un carattere che non è equilibrato» co­
sicché il ricercatore:

è un dipsomane della realtà e questo foggia il suo carattere, e non gliene


Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 171

importa un fico che dalle sue scoperte venga fuori qualcosa di completo, di
umano, di perfetto o di checchessia. È una creatura piena di contraddizioni,
passiva e tuttavia straordinariamente energica! (USQ, p. 207).

L’antitesi tra Ulrich e Arnheim è dunque modellata su quella pro­


posta da Nietzsche tra l’uomo della conoscenza e il rappresentante
del «dilettantismo»; il primo spinge agli estremi la sua probità e il suo
rigore specialistico senza vincoli di ordine morale (in senso lato) e fa
valere avventurosamente capacità e inventiva legate a un lungo accu­
mulo di energia e forza disciplinata, il secondo invece è il «mille-pie­
di» e «mille-tentacoli», costretto dallo sviluppo degli specialismi a
una volontaria semplificazione, «a voler diventare il grande comme­
diante, un Cagliostro della filosofia e un accalappiatore degli spiriti,
insomma un seduttore» (JGB, p. 108). Alcuni temi di Arnheim: l’ele­
gia della terra, sostenuta dalla sufficienza del signore terriero13, la
consonanza con gli altri, come risplendente autoaffermazione sulla
scena del mondo, il mito della semplicità e dell’uomo integro, come
risultato della «grande» filosofia, sono anche i temi di Walter ma, in
un gioco speculare, il comune terreno dell’uomo «generico» diventa
in Walter mediocrità disposta all’assoggettamento («passività passi­
va»), in Arnheim strumento di una politica di potenza e questo tema
ne accompagna costantemente la figura. La ripetizione e l’affermazio­
ne pessimistica di una immutabilità antropologica diventano strumen­
ti di dominio. Il «bisogno di univocità, ripetibilità e solidità» essenzia­
li al successo tecnico implicano, se trasferite «nel campo spirituale»,
una «forma di violenza»; su questa riflessione Amheim enuncia una
ingegneria delle passioni fissate a facoltà stabili poiché
le intenzioni più nobili sono infide, contraddittorie e fuggevoli come il
vento. L’uomo, cosciente che prima o poi bisognerà reggere le nazioni come
fabbriche, guardava laggiù il brulichio di uniformi, di facce boriose piccole
come uova di pidocchio con un sorriso in cui si mescolavano superiorità e tri­
stezza (USQ, p. 493).

Arnheim si muove interamente nel campo della ripetizione: la


stretta connessione tra normatività morale e univocità logica costitui­

13 «Sua Signoria il conte Leinsdorf ha fede nella forza educatrice della terra e dei
tempi, - egli spiegò gravemente. - Mi creda, questo è un effetto della proprietà terriera.
La terra semplifica, come l’acqua purifica. Io stesso l’ho sperimentato in ogni mio sog­
giorno nel mio modestissimo podere. L a vera vita ci rende semplici - » (USQ, p. 312).
172 17 genio tiranno

scono l’orizzonte determinato della sua azione. Il denaro rappresenta


la «razionalità» e la morale a livelli alti e realizzati proprio per il suo
carattere di ripetibilità certa, per la sua capacità di scomporre «tutti i
piaceri del mondo in quelle mattonelle di capacità d ’acquisto con le
quali ci si può costruire quel che si vuole». Nella riproposizione ironi­
ca della parabola dostoevskijana del Grande Inquisitore (in cui Musil
mette parodisticamente a colloquio Amheim e Dio) Amheim rivela la
violenza e la forma di dominio presenti nella razionalità-moralità: pro­
pone a Dio di sostituire al carattere diretto degli «ingenui sistemi
coercitivi» il denaro, strumento ben più efficace nell’ordinare e deter­
minare i rapporti umani come «forza spiritualizzata, una duttile evo­
luta e fantasiosa varietà della forza» (USQ, p. 494).
Arnheim appartiene completamente all’epoca di decadenza pro­
prio perché non sa accettare il nietzscheano «machiavellismo pur, sans
mélange, cru, vert, dans toute sa force»14 ed è egli stesso imprigionato
- sia pure in funzione di guida - nell’insensatezza del grande macchi­
nismo. La ripetitività dell’esistenza macchinale, che Nietzsche lega al
«fanatismo» del concetto morale kantiano, portata agli estremi con la
divisione del lavoro, ha bisogno per sopportare se stessa di una giusti­
ficazione e trasfigurazione filosofica15: «Quella divisione del lavoro
esisteva anche nello stesso Arnheim» che prende le sue vacanze spiri­
tuali nel castello brandeburghese dove «l’anima c’era». Il complesso
rapporto con Diotima rappresenta anche un elemento di fuga, anzi­
ché di sublimazione del macchinismo, che arriva fino alla vagheggiata
santificazione àe\Y idiota (con un’ulteriore presenza di temi nietz­
scheani)16 e l’incapacità di deciderlo rinchiude Arnheim nella raziona­
lità in grande dell’uomo «generico». Nella sua aspirazione di confer­
ma del borghese, Amheim è anche Thomas Mann:

14 p p 1387-88, p. 237. Cfr. WM (= G A XV), pp. 365-367. Questo frammento è te­


nuto presente da Musi], con altri, per definire l’«immoralità della morale» che si affer­
ma attraverso strumenti «immorali». Cfr. USQ, p. 989.
15 Ma si veda anche la caratterizzazione nietzscheana della mediocrità in formato
grande (il «grande finanziere») in WM (=G A XVI), pp. 864 ss.; cfr. FP 1888, pp. 154
ss. I deboli vincono per la loro lontananza dagli estremi, per la vicinanza alla potenza at­
tuale, non virtuale, per l’aurea mediocritas di ciò che brilla - l’oro - e perciò «acquista
spirito, arguzia, genio - diventa divertente, seduce...».
16 USQ, pp. 495-496. Cfr. FP 1888, p. 90: « ...l’uomo che ama diventa un asino di
magnanimità e di innocenza; crede nuovamente in Dio e crede nella virtù, perché crede
nell’amore; e d ’altra parte a quest’idiota della felicità spuntano le ali...».
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 173

In fin dei conti è un periodo storico che tramonta, no? «Sì, certo, - rispo­
se Arnheim, - ma le semplici virtù, coraggio, cavalleria e autodisciplina, che
quella casta ha esemplarmente coltivato conserveranno sempre il loro pregio.
Il signore, in una parola! Anche nella vita degli affari ho imparato ad attribui­
re un valore sempre più grande all’elemento signore!» «Allora il signore sa­
rebbe in ultima analisi un equivalente della poesia?» - chiese Diotima soprap­
pensiero. - «Lei ha detto una cosa meravigliosa! - esclamò il suo amico. —È il
segreto della vita gagliarda. Con la sola intelligenza non si può esser morali né
fare della politica. L’intelligenza non basta, i fatti decisivi si svolgono al di so­
pra di essa. Gli uomini che han fatto grandi cose hanno tutti amato la musica,
la poesia, la forma, la disciplina, la religione e la cavalleria. Starei quasi per di­
re che solo chi ama tutto ciò può aver fortuna! Perché sono i cosiddetti im­
ponderabili che fanno il signore, l’uomo, e anche neH’ammirazione del popo­
lo per l’attore se ne scopre ancora un oscuro vestigio»17.

Arnheim si entusiasma per l’analogia manniana tra Haltung bor­


ghese-signorile frutto di ascesi, e carattere professionale dell’arte. Ma
è ancora attraverso una differente lettura di Nietzsche («Il diverso ef­
fetto di Nietzsche su di me, e su Th. Mann. I migliori allievi sono ne­
mici») (PS, p. 899) che l’opposizione di Musil a Mann, fatto rappre­
sentante e pedagogo di una rarefatta conferma formale della civiltà
borghese, acquista senso. Musil rimprovera a Mann un’edulcorazione
kantiana dell’immoralismo di Nietzsche18, colpisce cioè l’immagine

17 USQ, pp. 312-313. Per altri elementi manniani di Amheim si veda ad es. USQ, p.
260 con il motivo della decadenza della «casa» e poco sopra il riferimento al contrasto tra
forza vitale del padre e decadere di essa nel figlio: «Io ho studiato economia politica e tut­
te le scienze possibili e immaginabili; lui le ignora, e non ci si può assolutamente spiegare
come fa, ma certo è che non commette mai uno sbaglio. Questo è il segreto della vita
semplice, forte, nobile e sana!», dove la citazione goethiana, qui come altrove, ha un valo­
re parodistico verso il Goethe di Mann. Il dilettantismo geniale di Amheim va letto anche
come ironia verso il virtuosismo di Mann nella riproduzione dei linguaggi tecnici e scien­
tifici, soprattutto ne La montagna incantata. Un indiscutibile riferimento a Mann si legge
nel brano dove Amheim vede la «sintesi di rivoluzione e conservazione, potere e civiltà
borghese... ragionevole rischio e coerente sapere, e ancora più in fondo una figurazione
simbolica della democrazia che si stava preparando» nel «gran commerciante». Sulla
idealizzazione acritica di Mann per i «commercianti» cfr. Diari, p. 1207, dove ironicamen­
te, contro Mann, Musil echeggia le teorie dell’ultimo Nietzsche sull’arte: «M a amore si­
gnifica far belli!», cfr. WM (= G A XVI), pp. 230-234; FP 1887, pp. 195-197 e FP Estate
1887, pp. 309-311. L’accettazione di questa teoria nietzscheana si trova anche in Diari, p.
1025: «Cosi sono arrivato a pensare che tutto quel che si ama diventa bello nell’arte. La
bellezza non è proprio altro che l’espressione del fatto che qualcosa è stato amato».
18 PS, p. 989. Cfr. anche Diari, pp. 1942-1943 e Diari, p. 1064 sulla immoralità re­
sa innocua a proposito di Hans Castorp.
174 II genio tiranno

costruita da Mann di un Nietzsche anello di una tradizione borghese­


tedesca che egli salva dal canto di morte della dissoluzione romantico­
musicale e consegna al futuro fissata in una forma universalistica, ot­
tenuta attraverso quella dura ed incessante «ascesi terrestre che costi­
tuisce la forma etica della rivoluzione»19. Malgrado Nietzsche abbia
«combattuto con tutto il suo genio gli “ideali ascetici”», è questo
aspetto kantiano ciò che fa di lui, per Mann, «un veggente e una gui­
da verso un nuovo avvenire dell’umanità», colui cioè che consegna al
futuro la civiltà borghese attraverso una estrema tensione alla forma20.
Quello che Musil contesta al Nietzsche di Mann è di essersi mantenu­
to all’interno di una forma e tradizione di civiltà (da Lutero a Goethe
a Mann stesso) per confermarla anziché sottolinearne i momenti «spe­
rimentali» e di rottura (indicazione che sarà invece, come vedremo,
del Nietzsche di Musil). Negli estratti commentati delle Considerazio­
ni di un impolitico, che pure sottolineano elementi di consenso, Musil
fa implicitamente valere il suo Nietzsche psicologo sperimentatore
contro Mann mettendo in luce la carica disgregatrice che quest’ultimo
attribuisce alla psicologia (tutta com presa nel cam po della
Zivilisation, strumento di letteratura e di esprit, ma estranea e ostile
alla Kultur e all’arte)21. Seguendo una comune lettura di Nietzsche sia
Mann che Musil dichiarano l’apoliticità, ma mentre l’ironia manniana
(più consona alla matrice schopenhaueriana del tema) è in funzione
della conservazione e continuità dei valori, l’ironia di Musil vuole ave­
re un segno «agonistico»22*. Deriva da questa consapevole divaricazio­
ne il modo in cui Musil caratterizza Mann scrittore del e per il presen­
te (« Thomas Mann e simili scrittori scrivono per uomini che ci sono;
io scrivo per uomini che non ci sono!», dove è ancora caratteristico il
passaggio attraverso il nietzscheano scrivere «per un genere di uomini

19 Th. Mann, In onore di Nietzsche (1924), in Scritti minori, Milano 1958, p. 543.
20 Ìbidem . In termini analoghi, le Considerazioni di un im politico collocano il
Nietzsche «m oralista» come catalizzatore supremo della serie calvinismo-borghesia-
eroismo.
21 «L a cultura lega, la civilizzazione porta il dissolvimento... L a psicologia dunque
non agisce affatto come formatrice di cultura, bensì come processo di disgregazione e
di civilizzazione ad altissima potenza» (Th. Mann, Considerazioni di un impolitico, a cu­
ra di M. Marianelli, Bari 1967, p. 147).
22 Sull’ironia intesa come «forma di lotta» e non come «gesto di superiorità» cfr.
l’intervista rilasciata a Oskar Maurus Fontana del ’26 (PS, p. 941; Diari, p. 1568). Cfr.
anche D iari, pp. 1382-1383.
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 175

che ancora non esiste»)23 consono al tempo e suo portavoce, ordina­


tore dell’esistente (Diari, pp. 1127-1128). Di qui il senso dell’avversio­
ne, aspra fino all’ingiustizia, agli aspetti «pubblici» della figura di
Mann con l’accusa aperta di «filisteismo».
Contro il «fantasma ideologico» dell’uomo generico, le cui facoltà e
caratteri sono l’irrigidimento di un ordine possibile, e cioè dell’ordine
attuale che però non è l’esclusivo, Ulrich odia secondo le parole di
Nietzsche, gli uomini incapaci «di patir fame nell’anima per amore
della verità», coloro che tornano sui propri passi, che si perdono di co­
raggio, i fiacchi che si consolano l’anima con vaniloqui sull’anima e la
nutrono - perché l’intelletto, si dice, le dà sassi invece di pane - di sen­
timenti religiosi, filosofici e fittizi, simili a panini ammolliti nel latte24 e
sviluppa ima costellazione di idee nietzscheane, che culmina nella va­
lorizzazione della morale matematica («Morale matematica: l’eredità di
Nietzsche») (PS, p. 899). Cerchiamo di seguirne la interna coerenza.
Il tema ulrichiano dei mezzi e dell’origine immorale della morale,
strumento/motivazione del dominio di un gruppo, che però «in appa­
renza indipendente come il cielo di Dio, si stende sopra tutte le cose»
sicché «tutto è morale, ma la morale stessa non è morale»25, raccoglie
la lezione della Genealogia della morale in cui Nietzsche, sistematiz­
zando il lavoro «storico» iniziato con Umano troppo umano, mostra
gli effetti produttivi del potere, le macchine che non appaiono, i mez­
zi con cui l’animale libero e senza memoria cosciente diventa l’indivi­
duo capace di vivere in società, e in cui il procedimento genealogico
colpisce le semplificazioni e il feticismo degli ideali che occultano il
processo per perpetuare errori vantaggiosi al dominio26.

Ancora oggi - scrive Musil - l’impronta preistorica del tabù sostiene la no­
stra etica. Noi rendiamo stabili gli ideali come le idee platonico-pitagoriche
immobilizzandole e rendendole immodificabili, e se la realtà non le segue,
proprio in questo possiamo indicare il tratto caratterizzante dell’idealità: la
realtà non è altro che la loro realizzazione «impura». Ci sforziamo di adegua­
re alla curva - difficilmente calcolabile - dell’esistenza il rigido poligono trac­
ciato passando per i punti fissi della morale, spezzando ad ogni angolo del

25 Diari, p. 1301 e WM (= G A XVI), p. 340, ora in FP 1884, p. 41.


24 USQ, p. 41. La citazione da Nietzsche è in Za, p. 23.
25 Cfr. la nota 14.
26 Cfr. G. Campioni, Le am biguità della «liberazione» nella filosofia di Nietzsche,
«Idoc», V ili (1977), nn. 9-10, p. 86.
176 II genio tiranno

poligono la retta dei nostri principi, senza riuscire mai, tuttavia, ad ottenere la
curva. Può darsi che la vita interiore abbia lo stesso bisogno di punti fissi di
riferimento che ha il pensiero; ma nella sua dimensione di ideale l’abbiamo
condotta ad un punto in cui non può più andare avanti: come tutti sanno,
ogni ideale costringe a tante limitazioni e ritrattazioni per approssimarsi alla
realtà, che non ne rimane più niente.

Sotto la rigidità platonica degli ideali Musil scopre una dimensione


plastica, aperta ad ogni possibile direzione:
Una morale che oggi non voglia essere soltanto un rattoppo - secondo me
una morale puramente da «civilizzazione» con la rinuncia al bell’atavismo
della «civiltà»... - deve per forza edificarsi sulla deformità derivata dalla civi­
lizzazione europea e dall’immensa crescita delle sue relazioni. Penso che quel
che s’è vissuto a partire dal 1914 ha insegnato ai più che dal punto di vista eti­
co l’uomo pressappoco è un che di informale, suscettibile di tutto, plastico in
modo inatteso, in lui buono e cattivo hanno la stessa oscillazione che ha l’in­
dicatore di una bilancia sensibile27.

Nietzscheana (oltreché machiana) è anche, all’interno della strategia


distruttiva di Ulrich verso le motivazioni dell’uomo generico, l’elimina­
zione dei supporti che ne hanno consolidato la natura - attraverso la
forza costrittiva, in direzione metafisica, del linguaggio (le parole che
diventano cose) - e in particolare l’idea dell’Io sostanza28. Liberato

27 Die Nation als Ideal und als Wirklichkeit (1921), in PS, p. 1072. La plasmabilità
dell’uomo determinata dall’esperienza bellica è un tema dell’epoca: su altri versanti ba­
sta pensare a Der Arbeiter di Jünger. In Musil ricorre spesso in questi anni, ad esempio
in Und Nationalismus. Internationalismus (1919-20): «L ’uomo non è buono per il solo
fatto che gli si tolgono i giochi del kaiserismo, del militarismo, del capitalismo ecc. E
neppure è cattivo: è una massa liquida che deve essere formata» (PS, p. 1348). Qui e
nei Diari, quando afferma a proposito dei socialisti «essi credono che l’uomo nuovo sia
un uomo vecchio da liberare» (Diari, p, 981) Musil riprende un’argomentazione di
Nietzsche che passa attraverso il confronto tra l’uomo buono per natura di Rousseau e
l’uomo cattivo di Voltaire per negare entrambi in nome del divenire delle forze plasti­
che. Cfr. Diari, p. 1137 e per Nietzsche ad esempio WM (= G A XVI), pp. 195-196, ora
in FP 1884, p. 223: «Quanto son ridicoli per me i socialisti con il loro sciocco ottimi­
smo delT“uomo buono” che è lì pronto ad aspettare, purché sia liquidato l’“ordina-
mento” passato e tutti gli “istinti naturali” siano liberati».
28 USQ, p. 460. Per Nietzsche cfr. ad es. WM (= GA XVI, pp. 34-35); ora in FP
1886-87, pp. 182-183: «...O ra leggiamo nelle cose disarmonie e problemi, perché pen­
siamo solo nella forma della lingua - quindi crediamo alla “verità eterna” della “ragio­
ne” (per esempio soggetto, predicato ecc.). Noi cessiamo di pensare se non vogliamo far­
lo nella costrizione linguistica, giungiamo persino al dubbio di vedere qui una frontiera
come frontiera».
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 177

dalla fissità di sostanza, dall’irrigidimento in facoltà e caratteri che so­


no l’impronta del milieu, l’individuo è mobile verso nuovi ordini, si ri­
conosce come complesso di energie non isolate dall’ambiente e forma­
tore di inedite legalità. Nietzscheana nel percorso di Ulrich non è tanto
o soltanto l’eliminazione dell’Io sostanza - il tramonto del soggetto è
del resto un tema assai diffuso nella psicologia sperimentale e nella
cultura positivistica della seconda metà dell’Ottocento (e Nietzsche
stesso è consapevole del suo debito culturale)29 - quanto il suo caratte­
re propedeutico alle sperimentazioni di nuovi possibili (le molte auro­
re che ancora devono risplendere) che comunque non siano preda del­
l’informe e del caos, ma passino attraverso le severe discipline legate
allo sviluppo degli specialismi. Essi rendono possibile, secondo Pindi-
cazione di Nietzsche, la conquista di un perfetto autom atism o
istintuale, danno all’uomo una capacità inconsapevole di adeguare il
corpo alle situazioni vitali30 che mostrano nella persona il risultato co­
struttivo di un duro e ripetuto dressage, mettendo così in crisi l’imma­
gine idealistica ed antistorica dell’Io sovrano. La connotazione musilia-
na della genialità (il «cavallo geniale», il boxeur ecc.) riassume dunque
gli elementi della polemica di Nietzsche verso il genio-intuizione dei
romantici che rimanda a una patria metafisica e a cui viene contrappo­
sta l’accumulazione di capitale energetico che si esprime nella sicurez­
za dell’istinto. La Zivilisation non è per Ulrich (come per i nostalgici
dell’Ur o i ricercatori dell’anima) solo proliferazione ripetitiva e insen­
sata di tecniche, anzi proprio la «deformità» che essa produce offre,
con lo specialismo, il punto d’appoggio per sporgere fuori di essa.

29 I riferimenti sono soprattutto alla psicologia francese che prende le mosse da De


l’Intelligence di Taine. Lo stesso patrimonio teorico è utilizzato in questa linea da M a­
ch: ne Danalisi delle sensazioni, ad esempio, l’attacco al «concetto sostanzialistico» di
Io utilizza Les maladies de la personnalité di Théodule Ribot.
30 « ... il corpo quando è molto allenato ha il predominio e con i suoi movimenti
divenuti automatici risponde a ogni stimolo senza aspettare ordini, e con tale sicurezza
che al proprietario rimane soltanto la sinistra impressione di star lì con un palmo di na­
so mentre il suo carattere lo tradisce, complice una qualsiasi parte del suo corpo».
USQ, p. 25. Cfr. anche USQ, pp. 40-41. Per Nietzsche cfr. per es. JG B , pp. 86-87: « ...
tutto quanto esiste o è esistito sulla terra di libero, di sottile, di ardimentoso, di danzan­
te e di magistralmente sicuro... si è sviluppato in virtù della “tirannide di tali leggi arbi­
trarie” ... L’essenziale “in cielo e in terra” è, a quanto sembra, per dirlo ancora una vol­
ta, che si ubbidisca a lungo e in una sola direzione: ne risulta e ne è risultato, a lungo an­
dare, sempre qualcosa per cui vale la pena di vivere sulla terra, per esempio virtù, arte,
musica, danza, ragione, spiritualità, - qualche cosa di trasfigurante, di raffinato, di deli­
rante e di divino...».
178 II genio tiranno

Questa vicinanza al nietzscheano «abbiamo bruciato le navi» distan­


zia Musil dal ricorso all’autentico che è presente anche nelle forme di
polemica contro la Zivilisation più lontane da idoleggiamenti romantici.
In un’analisi delle Osservazionifilosofiche di Wittgenstein che coinvolge
anche Musil, A. Gargani ha individuato un atteggiamento fondamenta­
le della cultura austriaca dell’epoca nella ricerca del «centro», «non per
incrementare la molteplicità delle strutture [della civiltà moderna], ma
per considerare ed ispezionare sempre le stesse cose, per cogliere il nu­
cleo dei fenomeni» (Razionale e razioide, in Stili d ’analisi, Milano 1.980,
p. 65). Musil non rinuncia alla ricerca del centro, ma essa attraversa e
rovescia, utilizzandola, la dispersione portata all’estremo, non la mette
da parte. Su questo terreno e dentro una comune circolazione di cultu­
ra può essere interessante rilevare la distanza del suo atteggiamento da
quello di Adolf Loos, con il quale pure ha molti tratti comuni. In en­
trambi è centrale il tema dell’applicazione economica dell’energia e del­
la lotta allo spreco. Ma l’attività rivoluzionaria di Loos contro l’orna­
mento, lo stile e l’imitazione (che mortifica nell’unità di un linguaggio
artificioso la pluralità dei veri linguaggi) è vincolata a valori di autenti­
cità. Non è tanto la ricorrente polemica contro lo sradicamento - che è
comunque sempre sradicamento dal proprio tempo - che svela la pro­
pensione di Loos verso un’ideologia dell’autentico, ma piuttosto l’inter­
pretazione della funzionalità come fedeltà al linguaggio univoco e «vo­
luto da Dio» dei materiali. L’enfasi di Loos sulla nudità del materiale,
sulla figura dell’artigiano come mediatore rispettoso di un linguaggio
adattabile ma non modificabile lega ad una fissità naturale la coerenza
della funzione. In Loos l’autentico non si manifesta in uno spazio di im­
mediatezza, è anzi conquista, frutto del lavoro della civiltà (ma lavoro
eminentemente distruttivo verso ciò che occulta il materiale - il lavoro
dei minatori), e di qui discende la sintesi apparentemente paradossale
di difesa della tradizione e apologia dell’operaio americano in tuta, ma è
l’autenticità che vincola ad un criterio saldo di distinzione tra lo spreco
energetico della Zivilisation e l’economicità della Kultur. L’autenticità
tradotta in funzionalità condanna una parte della vita umana - e un’in­
tera parte dell’umanità, come si ricava dall’ideologia della Siedlung - al­
la ripetizione, comportamento economico che permette l’accumulo del­
l’energia da utilizzare in una audacia sperimentale riservata ad altri
campi, quelli dell’invenzione e dell’arte31.

31
Questo aspetto decisivo di Loos è stato messo in luce da un nemico della filoso-
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 179

In antitesi ad Arnheim, che parla tutti i linguaggi ma non ne cono­


sce veramente nessuno (USQ, pp. 181, 183), e ritiene con Hölderlin
che «in Germania non vi sono più uomini, ma soltanto professioni»32,
Ulrich elogia il dipsomane, il «coraggio dell’unilateralità», e valorizza
il carattere eroico-sperimentale dell’attività specialistica propria di
quegli «uomini strettamente legati alle loro tavolette da disegno,
amanti della loro professione e in essa ammirevolmente valenti; ma
proporre loro di applicare l’audacia dei loro pensieri a se stessi invece
che alle loro macchine sarebbe stato come pretendere che facessero di
un martello l’uso contro natura che ne fa un assassino» (USQ, p. 34). I
vari temi contenuti nell’allusione al rapporto instaurato da Ulrich tra
specialismo e morale vengono elencati in successione da Musil in uno
schema di progetto sull’«atteggiamento induttivo»: carattere creatore­
disgregatore (verso l’acquisito, il certo) dello spirito, sua funzione pro­
pedeutica all’atteggiamento morale-eroico («Il suo duro non-anco-
ra!»), di ostilità a «legge, cosa, carattere, Io, ordine», il commercio di
Ulrich con la scienza «come preparazione e training» e infine la cen­
tralità in Ulrich del tema del laboratorio e dell’esperimento33. Il pro­
blema di Ulrich è inoltre quello di passare dalla attuale dispersione
(«Lo spirito diviene sempre più grande, ma privo di centro») ad un
nuovo centro, ma trasferendo alla morale il perfezionamento di ener­
gia e l’atteggiamento di audacia sperimentale acquisiti nelle discipline
specialistiche. È questa applicazione d ’energia che fa nascere nella
realtà il senso della possibilità, in alternativa all’atteggiamento dell’i­
dealista, che nietzscheanamente è il «tipo debole, che non sa capire la
realtà o la fugge temendo di farsi male, per cui dunque l’assenza del
senso della realtà è davvero una mancanza» (USQ, p. 12).
Uno dei primissimi spunti di Musil per l’idea ulrichiana della «co-

fia dell’autentico come Adorno (Funzionalismo oggi, 1966, in Parva Aesthetica, trad. it.
di E. Franchetti, Milano 1979).
32 USQ, p. 192; cfr. Diari, p. 981 e Diari, p. 555.
33 MoE, p. 1882. Centrale, per la comprensione del personaggio Ulrich, l’immagi-
ne del laboratorio che toglie alla realtà ogni rigidezza e ogni possibile teleologia ma che
presuppone anche la tensione continua del conoscere e dello sperimentare nella dire­
zione dell’altro uomo. «Il paragone tra il mondo e un laboratorio aveva ridestato in lui
una vecchia immagine. Come un vasto locale d ’esperimenti, dove si provano i sistemi
migliori per essere uomo e se ne inventan di nuovi, egli, anni innanzi, si era sovente raf­
figurato la vita, quale doveva piacergli. Che il laboratorio lavorasse un po’ a casaccio e
che mancassero i direttori e i teorici, quella era un’altra faccenda» (USQ, p. 144). L’im­
magine ricorre in Nietzsche ed ha lo stesso senso: cfr. in questo volume p. 144.
180 II genio tiranno

noscenza come passione-dipsomania» è in un commento all’aforisma


23 di A l di là del bene e del male. Il tema ripreso da Nietzsche è quel­
lo dell’intelletto che riesce ad affermare, qui nella forma della psicolo­
gia, la propria carica di coraggio sperimentale anche nel campo (quel­
lo dei giudizi morali più certi ed ovvi) dove dominano le resistenze
esercitate dai valori meno problematici, che si presentano come im­
mediati e sorgivi perché il soggetto è stato più a lungo plasmato dalla
familiarità con essi34.
In una lettera a Overbeck del 30 luglio 1881 Nietzsche chiama Spi­
noza suo precursore:

Ed ecco che la tendenza generale della sua filosofia è identica alla mia: fare
dell’intelletto la passione più poderosa; poi io mi ritrovo ancora in cinque pun­
ti capitali della sua dottrina; questo pensatore, il più abnorme e solitario che
sia esistito, è appunto il più vicino a me in queste cinque argomentazioni: egli
nega il libero arbitrio; la finalità; l’assetto morale del mondo; il disinteresse; il
male35.

L’analogia di Ulrich tra passione della conoscenza e passione eroti­


ca, la sua caratterizzazione come «passiva» eppure «straordinariamen­
te energica» è calcata sull’aforisma 429 di Aurora. In quest’opera vie­
ne abbandonata la prospettiva di Umano troppo umano, dove ancora
l’elemento sperimentale della scienza è rinchiuso e limitato entro l’o­
rizzonte rassicurante dell’umano-generico, in modo che «il bene del­
l’umanità costituisca il punto limite nel dominio della verità (non il
pensiero guida, ma quello che traccia determinati confini)».
L’irrequietezza dello scoprire e dell’indovinare - si legge nell’aforisma 429

34 Adolf Frisé trasforma il rimando a Musil a A l di là del bene e del male in un ri­
mando generico alla Genealogia della morale aggiungendovi una barocca «ipotesi» co­
municatagli da K. Schlechta (cfr. Tagebücher, hrsgb. v. A. Frisé, Reinbeck bei Hamburg
1976, Bd. II, p. 21, n. 120). Ma neH’aforisma 23 di JG B non c’è solo l’elogio di «Neid,
Absucht, Herrsucht» (JGB, KGW, p. 32, trad. it., p. 28) (in Musil «N eid, Absucht
ecc.», Tagebücher, cit., Bd. I, p. 24; Diari, p. 38), ma l ’intera argomentazione viene ri­
prodotta con fedeltà da Musil. Nell’aforisma di Nietzsche viene sottolineato il coraggio
sperimentale dell’intelletto che si muove «verso lo sterminato regno... di pericolose co­
noscenze», con la ricorrente metafora del navigatore avventuriero. Cfr. anche Tagebü­
cher, Bd. I, p. 23 e l’aforisma 283 di FW, p. 163 dove Nietzsche saluta «tutti i segni di
un età virile e guerriera» un’età «che porta l’eroismo della conoscenza e nuove guerre
per amore delle idee e delle loro conseguenze».
35 Epistolario 1865-1900, cit., pp. 158-159. «L ’analisi e la vivisezione» delle passio­
ni è legata da Nietzsche stesso a Spinoza ancora in JG B .
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 181

- è divenuta per noi affascinante e indispensabile come l’infelice amore per


chi ama: a nessun prezzo egli lo scambierebbe con uno stato di indifferenza; -
anzi, forse anche noi siamo amanti infelici! In noi la conoscenza si è tramutata
nella passione che non teme nessun sacrificio, e in fondo di nulla ha paura se
non del suo proprio estinguersi... Forse potrà anche darsi che l’umanità peri­
sca per questa passione per la conoscenza - ma anche questo pensiero non ha
alcun potere su di noi3637.

Le stesse metafore dell’atteggiamento sperimentale ed eroico di­


struttivo delle saldezze etiche e comunitarie, come pure la individua­
zione delle figure che storicamente ne preparano l’emergenza, ricor­
rono in Nietzsche e in Musil. Se per Ulrich la passione della cono­
scenza porta con sé il senso dell’illecito e del diabolico ed «era pro­
pria soltanto dei guerrieri, dei cacciatori e dei mercanti, cioè dei tem­
peramenti astuti e violenti» (USQ, p. 292), dove il carattere immorale
di questi precursori diventa la successiva «virtù» intellettuale, almeno
fino da Aurora Nietzsche propone la identificazione tra gli «indagato­
ri» dalla moralità temeraria e «i conquistatori, gli scopritori, i naviga­
tori, gli avventurieri», per arrivare ne\YAnticristo all’accostamento tra
il carattere nomadico, ibrido e fuorilegge dei chandala e la mentalità
scientifica che aveva contro di sé «l’intero pathos dell’umanità: si era
considerati “nemici di Dio”, come spregiatori della verità, come “os­
sessi”» (AC, p. 179). Si potrebbe continuare con i rimandi, ma impor­
ta sottolineare che lo stesso complesso dei temi che Ulrich propone
contro l’uomo generico - virtù propedeutica dello specialismo, carat­
tere «geniale» dell’istinto come espressione di energia accumulata e
lungamente plasmata, la scienza come training ecc. - è presente in un
gruppo di frammenti postumi della cosiddetta Volontà di potenza*1.
Nell’ultimo Nietzsche l’uomo di scienza appare espressivo più di
una esuberante «molteplicità di cultura», di energia diffusa e in movi­
mento, piuttosto che di decadenza e di épuisement (come è invece il
filosofo «tipico»):

36 M, pp. 215-216. Su questo aspetto della filosofia di Nietzsche si è soffermato


più volte M. Montinari. Cfr., ad es., M. Montinari, Nietzsches Philosophie als «Leiden­
schaft der Erkenntnis», «Studi germanici», nn. 2-3, 1969.
37 WM (= G A XV), pp. 469 ss. ora in F P 1888, pp. 103-104, 210-211. Nietzsche
parla di scientificità «come Dressur o come istinto». «Quando, dopo essere stata eserci­
tata da tutta una serie di generazioni, la morale è stata per così dire immagazzinata - e
cioè la finezza, la prudenza, il valore, l’equità - la forza complessiva di questa virtù ac­
cumulata si irradia fin nella sfera in cui la probità più raramente si irradia, nella sfera
mentale... Il genio sta nell’istinto...».
182 II genio tiranno

Problema: se l’uomo scientifico sia ancor più del filosofo un sintomo di de­
cadenza - egli non è staccato come tutto , solo una parte di lui è assolutamente
dedita alla conoscenza, addestrata per un angolo e un’ottica - egli ha bisogno
qui di tutte le virtù di una forte razza e di salute - grande rigore, virilità, ac­
cortezza. - Qui si potrebbe parlare di una ripartizione del lavoro e di un ad­
destramento che sono molto vantaggiosi per la totalità e sono possibili solo là
dove c’è un altissimo grado di cultura. E più un sintomo di alta molteplicità
della cultura che della stanchezza di quest’ultima. L’erudito decadente è un
cattivo erudito. Mentre il filosofo della decadenza è stato considerato, almeno
finora, come il filosofo tipico38.

Tuttavia Nietzsche affida poi a «nuovi filosofi» il compito di trarre


la piena conseguenza dello sperimentare diffuso, di impedire che esso
diventi un motivo di pura disgregazione; A l di là del bene e del male
mantiene la valutazione positiva dell’uomo di scienza (per la sua pro­
bità intellettuale), che tuttavia, per avere un senso, deve diventare un
perfetto strumento nelle mani dell’«educatore cesareo» e «violentato-
re della cultura»39. L’uomo di scienza, coraggioso ed estremo nella
sua pratica specialistica, per il resto è infatti preda delle valutazioni
dominanti: la sua filosofia spontanea è subalterna ai valori del gregge.
In Nietzsche, l’esito della sperimentazione, distruttrice delle saldezze
comunitarie e dei valori dati, è quindi assimilato e raccolto a livelli alti
da una élite (monstrum di energia) capace di imporre una nuova for­
ma al caos. Questo esercizio di potenza è legato, e Nietzsche non lo
nasconde, ad una volontà di semplificazione. Dare forma è comunque
un irrigidire il flusso e bloccare la sperimentazione nell’urgenza del
decidere e dare leggi nei termini di una ragione signorile che trova la
sua legittimazione nel futuro. Cade qui il punto saliente della lettura
musiliana. di Nietzsche: il problema di trascinare nella sperimentazio­
ne le forme di vita comune che disperdono energia nella ripetizione,
di applicare cioè alla morale la «genialità» acquisita nello specialismo.
Ma Musil rifiuta la volontà di potenza come momento di semplifica­
zione legato al decisionismo. Il tratto inattuale dell’interpretazione/
utilizzazione di Musil rispetto alle contemporanee letture di Nietzsche

38 WM (= GA XV), p. 473, ora in FP 1888, pp. 53-54.


39 «L ’uomo oggettivo, che non impreca e non inveisce più come il pessimista, il
dotto ideale in cui l’istinto scientifico, dopo mille completi e parziali insuccessi, attinge
infine il suo apogeo e il suo tramonto, è indubbiamente uno dei più preziosi strumenti
esistenti: ma è nelle mani di qualcuno più potente. È soltanto per così dire uno stru­
mento: uno specchio - non già “scopo a se stesso”» (JGB, pp. 110-111).
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 183

(da quello dionisiaco e schopenhaueriano di Klages, «politico» di


Baeumler o mitico e «über-deutsch» di Bertram, a quello di Mann,
che contro l’«equivoco» stesso di Nietzsche, toglie via il preteso
aspetto vitalistico del superuomo perché era lo spirito che doveva
essere difeso contro la barbarie della vita40) sta nell’avere valorizzato
gli aspetti intellettualistici e costruttivi della filosofia di Nietzsche,
quelli per cui, a partire da Umano troppo umano, gli istinti non sono
più un primum ma appartengono alla storia, divengono e sono passi­
bili di costruzione; mantenendone lo sfondo energetistico, Musil
strappa alla volontà di potenza la sottostante tematica della Dressur
costruttiva, dell’accumulazione e potenziamento energetico. Questo
Nietzsche, che porta all 'altro uomo e non al superuomo, la cui valo­
rizzazione Musil intende come «paradosso» «contro la plebaglia da
lui realizzata» {Diari, p. 1257), viene slegato dal Nietzsche della ver­
sione signorile del potenziamento energetico (e anche, come si ve­
drà, della soluzione «dionisiaca» alla Klages, che sfocia anch’essa in
esercizio di potenza) perché per Musil la potenza è una forma di ir­
rigidimento in falsa immediatezza, quindi «geschlossene Ideologie»
rispetto agli elementi sperimentali che lo stesso Nietzsche ha messo
in movimento.
Vogliamo avanzare l’ipotesi che, aU’interno di questo complesso di
problemi, sia stato un aspetto dell’influenza esercitata da Mach su
Musil quello che ha contribuito a questa particolare lettura. Nel Qua­
derno 25 dei Diari (Tentativi di trovare un altro uomo), Musil annota:
In primo luogo devo mostrare perché penso in maniera diversa. Ciò di­
pende dal fatto che sono un ingegnere. Se un muratore non riesce a inserire
nella compagine un mattone nel senso della lunghezza, cerca di ficcarcelo per
traverso. Lo stesso fa una donna di servizio con un ceppo di legno che non
riesce a spingere attraverso lo sportello della stufa. Perfino un cane che non
riesce a passare tra due ostacoli con un bastone in bocca gira la testa fino a
trovare la posizione giusta. Pare che questo mutare a casaccio e poi pianifica­
to tentare sia una delle «poche» qualità cui l’umanità deve la sua ascesa. Solo
nel campo del diritto e del costume è proibito41.

40 Th. Mann, La filosofia di Nietzsche, in Nobiltà dello spirito, Milano 1973, p. 825.
41 Diari, pp. 950-951. Cfr. USQ, pp. 105-106, dove ritorna l’esempio del cane col
bastone in bocca. Il capitolo presenta altri significativi riferimenti alle teorie gnoseolo­
giche di Nietzsche: il carattere di apparente immediatezza dell 'ispirazione e dell’intui­
zione, in realtà frutto di un’accumulazione e di un lungo lavoro inconscio («una specie
di colica di tutte le circonvoluzioni del cervello») che si traduce in qualcosa di comuni-
184 II genio tiranno

Gli esempi del cane col bastone in bocca e della cameriera sono uti­
lizzati da Mach in Conoscenza ed errore per legare il comportamento
sperimentale anche a un ambito istintivo o irriflesso42. È una idea ri­
corrente di Mach che esista uno sperimentare diffuso nella vita organi­
ca, dai procedimenti istintivi di prova-errore nell’animale, all’«esperi-
mento mentale» che interessa anche il pensiero comune, sollecitato dai
paradossi a uscire daU’abitudinarietà fino all’esperimento metodico
(ma il cui successo resta legato al caso e comunque non dipende total­
mente da una presunta onnipotenza del metodo precostituito) e raffi­
nato della scienza. In conformità alla tesi secondo cui

il pensiero scientifico deriva dal pensiero comune del popolo. Così il pen­
siero scientifico chiude la linea comune di evoluzione biologica che ha inizio
con le prime semplici manifestazioni vitali43.

Conoscenza ed errore ripercorre i gradi di crescente consapevolez­


za, economicità e potenza delle procedure sperimentali, e costruisce
una grande tavola genetica della scienza in cui le operazioni più sofi­
sticate ed astratte sono rinviate - grazie anche ai frequenti riferimenti
etnologici ed etologici - alle origini lontane dello sperimentare istinti­
vo prima, artigianale e professionale poi44. In una costante polemica
con il kantismo, Mach presenta i comportamenti pratici e cognitivi
come forme storiche di adattamento alle determinazioni ambientali,

cabile, esteriore, appartenente all 'essenza sociale «che congiunge il singolo individuo
con gli altri uomini e cose».
42 Per l ’esempio del cane con il bastone in bocca cfr. E. Mach, Conoscenza ed erro­
re, trad. it. S. Barbera, Torino 1982, pp. 71-72, per quello della cameriera (ma riferito
ad una più complicata operazione) p. 181. Mach vede gli esordi dell’atteggiamento spe­
rimentale ed inventivo nell’acquisizione corporea di un’abilità istintiva: «Una volta, co­
stretto ad usare una mano sola, volevo tirare su la tenda e potevo farlo solo a più ripre­
se a causa della lunghezza della tenda. Ma all’improvviso, senza averci riflettuto in mo­
do consapevole e intenzionale, mi trovai in possesso di una procedura più comoda. La
mano si arrampicava un tratto lungo la corda afferrandola alternativamente tra il polli­
ce e l’indice e tenendola ferma con le altre dita. Una volta raggiunta l’altezza massima
accessibile, tiravo la corda e ripetevo l ’operazione» (ivi, p. 181).
43 E. Mach, Conoscenza ed errore, cit., pp. 3-4.
44 Sull’origine servile dell’atteggiamento scientifico cfr. Conoscenza ed errore, cit.,
p. 87 : «Le scienze naturali debbono essere derivate dall’opera manuale come prodotti
accessori. Gran parte del carattere ingenuo, confuso e illusorio della scienza antica si
spiega con il disprezzo che il mondo antico nutriva per l’opera manuale e il lavoro cor­
poreo in genere: gli schiavi che lavoravano, che osservavano la natura, vivevano rigoro­
samente separati dai signori che speculavano dilettandosi nell’ozio, e che spesso cono­
scevano la natura solo per sentito dire».
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 185

sia naturali sia artificiali. Nella sua versione del darwinismo, l’operare
scientifico costituisce un modello di accelerazione del passaggio dal­
l’inconsapevole al consapevole (cioè ad un uso economico e potente,
senza sprechi, delle risorse energetiche dell’uomo), che è la caratteri­
stica dominante dell’«evoluzione» della specie umana. La scienza è
diventata
il fattore biologicamente e culturalmente più propizio. Si è assunta il com­
pito di sostituire all’adattamento inconsapevole, che procedeva a tastoni, un
adattamento più rapido, chiaramente consapevole e metodico (ivi, p. 456).

Conoscenza ed errore termina auspicando il superamento dei resi­


dui di ancora incombente barbarie e oscurantismo in un ordinamento
etico razionale che interessi tutta l’umanità. Anche Mach propone
quindi a Musil il problema di sollevare e coinvolgere in una forma po­
tente di sperimentazione l’energia latente, dispersa e sprecata nella vi­
ta dell’umanità, ma senza legarlo a soluzioni di dominio. Ne Lanalisi
delle sensazioni, Mach interpreta la nozione del superuomo come ri­
costituzione illegittima del soggetto, e quindi riproposizione di cate­
gorie «forti» in funzione di dominio. Invece la consapevolezza che «è
impossibile salvare l’io» fonda un’etica razionale di confronto e rico­
noscimento tra le pluralità dei centri di forza: «Si rinuncerà dunque
volentieri all’immortalità individuale e non si attribuirà a ciò che è se­
condario più valore che a ciò che è principale. Si perverrà così ad una
concezione più libera e radiosa della vita, che ci eviterà l’errore di di­
sprezzare l’io degli altri e di sopravvalutare il nostro. L’ideale etico
che si fonderà su tale concezione della vita sarà altrettanto lontano da
quello dell’asceta, ideale che risulta biologicamente insostenibile per
lui stesso e che si spenge con lui alla sua morte, e da quello dell’impu­
dente “superuomo” nietzscheano, che i suoi simili non possono sop­
portare e che speriamo non sopporteranno»45.
Nell’Uomo senza qualità, l’esercizio dello specialismo chiuso in sé,
sfocia nella congiunzione con l’idiozia nell’episodio della dottoressa
Strastil, la cui abilità professionale è circondata dallo «stato di vacan­
za», nel falso immediatismo di una adesione alla semplicità della natu­

45 E. Mach, Lanalisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, trad. it. di L.
Sosio, Milano 1975, p. 54. Su questo aspetto del rapporto tra Mach e Nietzsche ha ri­
chiamato l’attenzione N. Badaloni, Storia della filosofia e ideologia, in «Atti del X X V
Congresso nazionale di filosofia», Roma 1975, pp. 104 ss.
186 II genio tiranno

ra, fino all’identificazione con la materia inorganica («Poteva stare tre


giorni coricata sul prato senza muoversi: come una rupe! proclamò»)
e nella quale, a differenza di Ulrich, la scienza non è diventata eserci­
zio e disciplina propedeutica ad altro, ma fine a se stessa. Per questo
la dottoressa Strastil non è in grado di capire il suo interlocutore, che
le dà un saggio di scomposizione critica della presunta immediatezza
sentimentale:
Non era in grado di capirlo; la sua esperienza nell’investigazione dei con­
cetti puri non le serviva a niente, ella non poteva né congiungere né disgiun­
gere le idee con le quali egli pareva soltanto baloccarsi lestamente; immagina­
va che egli chiacchierasse senza riflettere46.

Eppure, è ancora all’ombra di Nietzsche che Musil ha formulato -


con la nozione della «morale matematica» - il problema di applicare
l’energia accumulata e disciplinata ai comportamenti vitali, alla mora­
le. In un brano de II Redentore, Anders, che ancora conserva altri
tratti nietzscheani che passeranno poi, come vedremo, a Clarisse,
«aveva anche disposizione alla logica libera, fredda, chirurgica del
pensiero matematico. Tutto ciò l’aveva portato avanti. Ma sapeva che
erano soltanto esercizi preparatori» e «l’amore per la matematica, co­
me prototipo del sentimento e non solamente di una specializzazione
del pensiero, gliel’aveva ispirato Nietzsche, il grande, ambiguo mae­
stro della sua generazione»47. La definizione di «morale matematica»
non dipende da una propensione di Musil (e quindi da una sua possi­
bile scelta di specialismo) ma trova la sua origine nella connotazione
nietzscheana della matematica come propedeutica mentale privilegia-

46 USQ, p. 837. Per una critica di Nietzsche alla pratica della scienza specialistica
«senza prospettive sconvolgenti, senza audacie, senza una sfida solitaria lanciata a tutti i
demoni e gli dèi... aspirazione alla conoscenza senza eroismo, come mestiere, utile im­
piego delle forze dell’intelletto, e così via», cfr. F P 1881, p. 447.
47 USQ, pp. 1118-1119. In questo testo inedito, valorizzato da E. De Angelis, in
Robert Musil. Biografia e profilo critico, Torino 1982, p. 73, si legge: «L a morale del fisi­
co e del matematico. Al modo in cui nella matematica si è capovolto tutto da cima a
fondo e nella fisica si richiede di negare delle concezioni divenute care, con la stessa
gioia si deve procedere nella morale. Questo è stato l’aspetto positivo di Nietzsche. Cer­
tamente in matematica e fisica questo processo viene sanzionato post festum dal succes­
so. In morale occorre in prima linea espungere il concetto di legge». Questo frammento,
richiamando il rovesciamento di principii operato dalle scienze matematiche e fisiche,
mette in luce l’aspetto di Umwertung della nuova «gaia scienza» («con la stessa gioia si
deve procedere nella morale») che ha alla base la distruzione del concetto di legge che
comporta un operare su astrazioni ed imporre quindi rigidamente il comando.
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 187

ta per stabilire una relazione non fluttuante e caotica con la realtà. Si


tratta del tema, che dall’81 si caratterizza in termini spinoziani, del
trattamento «geometrico» delle passioni: e anche in Musil alla morale
matematica è congiunta la fredda chiarezza intellettualistica della vivi­
sezione, polemica verso il calore rassicurante del pathos etico. Nel­
l’aforisma 246 della Gaia scienza, opera cara a Musil, si legge:
Matematica. Vogliamo introdurre in tutte le scienze la sottigliezza e il rigo­
re della matematica, almeno quel tanto che è possibile: non nella convinzione
che per questa strada si possano conoscere le cose, ma per stabilire con ciò la
nostra relazione umana con le cose. La matematica è soltanto lo strumento
dell’universale e ultima conoscenza umana (FW, p. 155).

La lettura di un gruppo di pagine della cosiddetta Volontà di po­


tenza aiuta a capire la pluralità e connessione di significati che Musil
ha dato all’espressione «morale matematica», e soprattutto la relazio­
ne che in essa si instaura tra il momento dell’esattezza e dell’ordine
non semplificatore da un lato, e dall’altro il momento della libertà
dell’esperimento sganciato dai condizionamenti fattuali (cioè «l’uto­
pia dell’esattezza» del cap. 61 dell’Uomo senza qualità). Proseguendo
la sua polemica col concetto kantiano di esperienza, Nietzsche ribadi­
sce che le forme a priori dell’esperienza non sono che sublimazioni
metafisiche e irrigidimenti di forme storiche di appropriazione e di
adattamento al flusso. Il Kant morale della legge etica universale spie­
ga il Kant della teoria della conoscenza, ma nel frammento 530 Nietz­
sche utilizza il valore kantiano della matematica (come dimostrazione
della possibilità di giudizi sintetici a priori) rovesciandone la destina­
zione in senso antimetafisico: la matematica come gioco della pura ra­
gione fa intrawedere una forma di pensiero ordinatrice, non vincolata
alla fissità e costrizione dell’esperienza. L’affermazione di Nietzsche
che «ogni conoscenza umana è o esperienza o matematica» viene ri­
badita nel Crepuscolo degli idoli in cui si fa intrawedere il valore co­
struttivo e di esperimento mentale della matematica: accanto alla
scienza che ha affinato e perfezionato i sensi per un orientamento uti­
litario nell’ambiente, esiste la «scienza formale, teoria dei segni: come
la logica, e quella logica applicata che è la matematica. In esse non
compare affatto la realtà neppure come problema»48.

48 GD , VI, p. 76 (VI, t. Ili, p. 71). L’aforisma è citato testualmente nel quaderno 4


dei Diari, p. 51.
188 II genio tiranno

Il tema della morale matematica si lega strettamente all’utopia del


saggismo: si tratta di coniugare l’esattezza di indagine svincolata dalla
fattualità già chiusa in un ordine, all’apertura infinita di orizzonti che
il prospettivism o nietzscheano (presente nel saggism o) com porta.
Musil utilizza ancora una volta il Nietzsche che lascia aperte le pro­
spettive virtuali49 contro il Nietzsche che le richiude in una Rangord­
nung determinata dalla potenza per volontà di forma. In un significa­
tivo frammento Musil assegna alla morale matematica un compito or­
dinatore che rispetta la possibilità di convivenza degli elementi con­
traddittori:

Analogica: il contradditorio può essere non vero, ma può essere vitale.


Abbiamo in noi le contraddizioni vitali. Antitesi a Nietzsche, che in ciò vede­
va una décadence: bisogna ordinarle con l’ausilio di una morale matematica.
Due persone significative possono non contraddirsi tra loro50.

Musil prende le distanze dall’idea di Nietzsche che il caos degli


istinti, caratteristica dell’uomo moderno, erede di molteplici esperien­
ze in più direzioni, da potenziale ricchezza diventi motivo di decaden­
za, se non è dom inato da una forte energia. E ssa necessariam ente
semplifica e gerarchizza secondo il modello del corpo, in cui la plura­
lità degli organi e delle funzioni è sottoposta a un unico principio for­
male, per quanto mobile («Il contrario dell’anarchia atomistica, dun­
que una form azione d i dominio che significa un’unità, ma non è una
cosa sola») (FP, 1885-86, p. 92).

Dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma: a


diventare logico, semplice, univoco, matematica, legge-, è questa qui, la grande
ambizione51.

L a penetrante lettura di M usil è piuttosto tesa a privilegiare un


Nietzsche meno clamoroso, quello che presenta il predominio della
forma ordinatrice come una lenta emergenza, non sollecitata da sem­

49 Cfr. ad es. l’aforisma 374 della FW II nostro nuovo «infinito». FW, pp. 253-254.
50 PS, p. 901. Confronta, già nel quaderno 4 dei Diari, la generalizzazione del te­
ma: «C i sono delie verità ma non la verità. Posso benissimo asserire due cose del tutto
opposte e aver ragione in entrambi i casi. Le intuizioni non vanno confrontate fra loro
—ognuna è una vita a sé. Vedi Nietzsche. Che fiasco quando in lui si vuol trovare un si­
stema al di fuori di quello dell’arbitrio spirituale dell’uomo saggio», Diari, p. 21. Va no­
tata anche l’ostilità contro ogni tentativo di rinchiudere Nietzsche in un sistema.
51 FP 1888, p. 37 anche in WM (= GA, XVI), p. 260.
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 189

plificazioni di dominio consapevole né da imperativi esterni alla pro­


pria logica di formazione, che rispetta e anzi suscita una «enorm e
molteplicità».

2 . L ’incantatore sasson e: m usica e volontà d i potenza

Sinistra è l’esistenza umana e ancor sempre priva di


senso: un pagliaccio può esserle fatale.
Friedrich Nietzsche

N on c’è un Nietzsche univoco neWUomo senza qualità, monopoliz­


zato da un personaggio o da una tesi. Tra il Nietzsche «dionisiaco» di
Clarisse e il Nietzsche della morale matematica c’è un incessante gio­
co delle parti, una serie di antagonismi e affinità che avverte di una
lettura stratificata di Nietzsche da parte di Musil, e soprattutto di una
difficile scomposizione della lezione nietzscheana in elementi che ven­
gono fatti agire a contrasto. Il risultato a cui Musil è pervenuto, di
una separazione tra il Nietzsche sperimentale e prospettico e il Nietz­
sche della volontà di potenza, non deriva da un gusto immediato, ma
piuttosto da un lungo lavoro di cui vogliamo almeno segnalare i p as­
saggi più rilevanti.
Nel singolare e complesso testo giovanile Fogli dal nottario di Mon­
sieur le Vivisecteur, possiam o individuare una lezione di Nietzsche
che mantiene ancora uniti gli elementi che successivamente costitui­
ranno i poli di questa dialettica. Il «tipo cerebrale dell’avvenire», la
crudeltà dell’esperimento (caratterizzato col termine nietzscheano di
«vivisezione») si accompagnano qui ancora all’elemento notturno52.

52 Oltre ai rimandi indicati da Frisé all’uso nietzscheano del termine «vivisezione»


«vivisettore» ( Tagebücher, cit., II, pp. 4-5) vale la pena di prendere in considerazione
anche l’aforisma 212 di A l di là del bene e del male in cui il tema della vivisezione si ac­
compagna alla critica «giullaresca» dei valori stabiliti ed alla sperimentazione di nuove
condotte possibili. «Sono sempre più indotto a credere che il filosofo, come uomo ne­
cessario del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni tempo in contraddizione
con il suo oggi: il suo nemico fu ogni volta l’ideale dell’oggi. Sinora tutti questi eccezio­
nali fautori dell’uomo, ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si sentirono ami­
ci della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi - hanno
trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, inevitabile compito, e infine la gran­
dezza del loro compito, nel costituire essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vi­
visezionando col coltello proprio il cuore delle virtù del tempo, tradirono quel che era il
190 II genio tiranno

L a glacialità della notte del Vivisecteur è metafora di dissoluzione del


suo carattere romantico. Il richiamo al Tristano di Wagner («nulla pe­
netra di certe responsabilità del giorno, che spuntano col sole e tra­
montano col sole») non termina nell’estasi dell’unificazione e nella
rottura della fallace barriera dell’individuazione; è anzi il giorno il re­
gno del Gemein e dell’altruismo: «D i notte: - nel momento in cui ci
chiudiamo alle spalle la porta pesantemente ricoperta lasciamo fuori
tutti gli altruismi - essi ora non assolvono più alcuno scopo - reclama
i suoi diritti l’altro lato della nostra personalità - l’egoismo» {Diari, p.
8). Del notturno romantico resta l’elemento grottesco e dissolutore (il
riso del Vivisecteur che, come il riso di Zarathustra, è assolutamente
distante dal riso «com ico»)53, e tutte le indicazioni di questo testo,
dalla «orrida aria dell’isolamento» rafforzata dal gelo come simbolo
mitico-psicologico di un rifiuto di investimento affettivo sul mondo
(così anche nel binomio gelo-nichilismo di Nietzsche: «qui è neve, la
vita qui è ammutolita; le ultime cornacchie che fanno udire qui il loro
verso, dicono: “a che scop o ?” “Invano!” “N ad a !”»)54, alla dissoluzio-

loro strano segreto: conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova strada non
ancora mai battuta per il suo innalzamento...» (JGB, p. 120). Cfr. anche G M , pp. 295-
296. Sul singolare testo giovanile di Musil cfr. l’analisi di Ferruccio Masini, La metafora
intellettuale in Robert Musil. (Osservazioni sul «Libro notturno» di Monsieur le Vivisec­
teur), «Paragone» (giu. 1978), pp. 3-13.
53 Nella sua analisi dell’opposizione tra grottesco romantico e popolare Bachtin ha
fortemente valorizzato i temi del riso, dell’isolamento, della maschera, della notte e del­
la follia nelle Nachtwachen von Bonaventura (testo probabilmente non ignoto a Nietz­
sche). Il carattere saliente del grottesco romantico è, secondo Bachtin, il divenire
«estraneo» e spaventoso del mondo, verso cui il riso assume un valore liberatore ma
non più rigeneratore, come è invece nella cultura popolare, che con il riso «avvicina il
mondo all’uomo e gli fa prendere corpo» (M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura
popolare, trad. di M. Romano, Torino 1979, p. 46). Per i temi del Vivisecteur le indica­
zioni di Bachtin sono essenziali. Si veda ad esempio l’inizio del terzo notturno di Bona­
ventura: «In verità noi guardiani di notte e poeti, assai poco ci occupiamo dell’umano
daffare diurno; ognun sa che con la luce gli uomini si fanno altamente quotidiani, men­
tre solo quando sognano valgono qualcosa» (/ Notturni di Bonaventura, trad. it. di F.
Filippini, Milano 1950, p. 23).
54 Nietzsche riecheggia qui da vicino la caratterizzazione di Bourget del nichilismo
di Flaubert. E il tema ritorna con frequenza. Ad esempio, nei testi poetici, la «verschn-
neite Seele» («anima coperta di neve»), e ancora «Versteck’, du Narr / Dein blutend
Herz in Eis und H ohn!» («nascondi, o pazzo, / il tuo cuore sanguinante nel ghiaccio e
nello scherno!») in Der Freigeist, dove ü motivo è dominante (VI, t. IV, pp. 142, 150).
Ma la metafora del ghiaccio ricorre nell’Ottocento ad indicare l’incrinatura tenacemen­
te aperta anche nei momenti di massima efficacia ed espansione delle filosofie del pro­
gresso. Per la cultura francese a cui Nietzsche fa riferimento si può menzionare, oltre a
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 191

ne dell’im m ediatezza dell’interiorità sm ontata dal doppio sguardo


dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno, concorrono tra l’al­
tro a un distanziamento ironico dal dionisiaco, la cui ebbrezza può es­
sere suscitata artificialmente e a buon mercato dalle sigarette algerine
e che compare degradato - come oggetto di esperimento per il «risoli­
no canzonatorio» del Vivisecteur - in Rosa, disposta a perdere la sua
diffidenza nella «m orbida notte calda». Ma il vivisettore si caratteriz­
za anche per l’invenzione continua di «storie», rinchiudendosi quasi
in un mondo d ’irrealtà. Alla domanda «M a chi è lei veramente?» ri­
fiuta in modo deciso di essere confinato nel mondo delle apparenze,
di legare l’aspetto giullaresco e poetico all’esilio dalla verità e dall’a­
zione e rovescia in una negazione l’affermazione di Nietzsche «Soltan­
to giullare, soltanto poeta». Il richiamo a questo ditirambo di Dioniso
(presente anche nello Zarathustra con poche modifiche) è significati­
vo. Q ui Nietzsche assimila il poeta a un «animale astuto, rapace, insi­
nuante, / che deve mentire», predatore e avido della molteplicità delle
apparenze, ma necessariamente bandito dal vero perché rinchiuso da
«menzogneri ponti di parole, [...] arcobaleni di bugie / tesi tra falsi
cieli». Il suo gioco di maschere è distruttore dei «tem pli» di virtù e
della morale consacrata (è l’aquila avversa a «tutte le anime d ’agnel­
lo») ma la finale caduta nella notte significa anche il definitivo esilio
dall’azione (DD, pp. 1-11). L a dichiarazione del Vivisecteur di non es­
sere né giullare né poeta lo toglie dall’ambiguità di questo gioco so­
speso tra reale e irreale, almeno a livello di decisione «etica»: la scelta
è per l’immoralismo dell’azione. «N o , voglio attenermi alla verità, ma
lei deve credermi: sono l’assassino di ragazze che hanno impiccato ie­
ri» {D iari, p. 13).
«Dimenticare i doveri del giorno» significa per la piccola gente (la
prospettiva qui è dall’alto, dalla finestra verso «la gente laggiù») l’ac­
coglimento della tentazione a «lasciarsi andare». L’egoismo della not­
te è per loro l’affermazione di «rapporti intimi» che raddoppiano la
vita ma la sensazione di calore è frutto di artificio: «Q u el che poi si ri­
desta dal sonno è diverso - per la gente laggiù possono essere istinti e

Flaubert, una traccia continua che va dalla futura «âge glacée» di Le Peuple di Michelet,
alla notte eterna popolata dalla «procession funèbre» dei pianeti spenti, «cadavres sidé­
raux» di Léternité par les astres di Blanqui, al ghiaccio come manifestazione fisica della
morte della civiltà in Renan, fino a quel curioso opuscolo di Gabriel Tarde (Fragments
d’histoire future, 1905) dove il progressivo raffreddarsi della crosta terrestre costringe
gli uomini a ricercare nellè viscere del pianeta il calore necessario alla sopravvivenza.
192 II genio tiranno

m oti d e ll’anim o anche assai triviali, sem plicem ente gioia per la
confortevole casa o sensualità nutrita da un vino cattivo» (Diari, p. 8).
Di contro, la pratica fredda del dotto che al microscopio analizza se
stesso, e che dopo aver posto dalla sua «prospettiva di internato» la
distanza dalla falsa, impossibile immediatezza, fa giustizia deU’ultimo
residuo romantico, cioè della vanità della «po sa», della consolazione
del poeta che ha scelto per sé il «bellissimo nome: M onsieur le Vivi­
secteur» (D iari, p. 1). L’Umwertung del Vivisecteur dunque, è affidata
al binom io vivisezione-assassinio di ragazze e l ’analisi in direzione
sperimentale è connessa al tema zarathustriano della follia/veggenza e
a quello del grande criminale, cosicché M onsieur le Vivisecteur, con­
tiene in sé l’alternativa Ulrich-Clarisse, le due «nature forti» che cer­
cano una via d ’uscita.

«Lei guarda tutti sarcastico e tuttavia trasognato, come se volesse dire: Voi
siete dei preparati del tutto innocui ma nelle vostre latebre i nervi sono di ful­
micotone. Guai se l’ampolla si rompe. Ma ciò può avvenire soltanto nella paz­
zia. In mezzo alla folla, lei diventa un apostolo, un predicatore. L’investe un’e­
stasi interiore, però senza lo sbavare e l’imperversare dello spirito degli esta­
siati. Lei è un veggente. Quel che giace alla fine dello spirito, la parte di lei at­
traverso la quale l’anima passa soltanto in folle volo quando l’alletta già la
pazzia che nell’attimo seguente tornerà a spegnere tutto - tutto questo lei lo
vede con occhio chiaro, sempre seguitando a sapere che 2 per 2 fa 4, e gode
impunemente del colossale senso di superiorità su tutti gli altri e sull’uomo
che finora lei era».

È la follia fredda e libera che qui viene evocata come capace di ve­
dere, «con occhio chiaro», nuove possibilità e di allontanare dalle va­
lutazioni gregarie, sulla via dell’altro uomo, una follia che pone in
consonanza con gli spiriti liberi che vivono nel crepuscolo, al tramon­
to dei valori: «L ei sente la religione di chi non ha religione, il cordo­
glio di coloro che già da lungo tempo hanno deposto ogni cordoglio,
l’arte di coloro che oggi sorridono quando sentono la parola arte -
quello di cui hanno bisogno i più raffinati cui già tutto è venuto a
n oia!» (Diari, p. 17).
Uno dei fili privilegiati per leggere l’evoluzione nell’interpretazione
musiliana di Nietzsche dal Vivisecteur all’Uomo senza qualità, è la pro­
gressiva divaricazione dei due elementi - ma come il Vivisecteur anche
il protagonista de II Redentore avvolge nell’ambiguità del sogno l’azio­
ne immoralistica che dissolve musicalmente la realtà («la bufera di una
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 193

grande azione lo travolge nel suo vortice. Intanto la sventurata donna


era una massa bianca insanguinata che si dibatteva in un angolo, giran­
do intorno a una nota rauca e lacerante, al troncone vacillante d ’un
suono») (USQ, p. 1113) - fino al grottesco del fallimento di Anders
nella liberazione di Moosbrugger, dall’inizio non creduta e di cui fa i
preparativi «convinto che l’esecuzione era impossibile», e che culmina
con la simpatia per i guardiani che fanno «il loro dovere» nella lotta
con Biziste (USQ, pp. 1187-1188). N ell’Uomo senza qualità l’identifi­
cazione con l’immoralismo del grande criminale è relegata a residuo
nella preistoria di Ulrich, la cui ammirazione per Napoleone era «d a
imputarsi in parte all’ammirazione naturale della gioventù per la delin­
quenza, in parte al fatto che gli insegnanti definivano esplicitamente
quel tiranno ... come il più formidabile criminale della storia»55, men­
tre l’attrazione per M oosbrugger significa soprattutto movimento della
riflessione, l’atto criminale è rifiutato nei suoi legami con la «redenzio­
ne» e M oosbrugger diverrà, nel colloquio con Arnheim, «sim bolo de­
viato dell’ordine» (USQ, p. 633), Ulrich prende dunque le distanze
dalla valorizzazione nietzscheana della forza eslege del grande crimina­
le, non codificabile e protesta permanente contro la rigidezza gregaria
che tenta di schiacciarla o di irrigidirla in categorie fisse ed astratte (la
nomenclatura giuridica e psichiatrica su Moosbrugger). Il sogno bey-
liano di Ulrich è significativo della congiunzione operata da Nietzsche
tra movimento verso la forma nuova e compiuta volontà di potenza:
l’immagine nietzscheana del «còrso selvaggio», criminale realizzato,
vittorioso, non degenerato è quella di una concentrazione colossale di
energia macchinalmente dispiegata che funzionalizza alla sua realtà su­
periore la società. «Io sono P rad o» scrive Nietzsche identificandosi
coll’uccisore di prostitute che al processo si era rivelato come tipo for­
te del criminale56, e Prado è uno dei nomi storici e mitici in cui Nietz­
sche dissolve il proprio io cosciente nella commovente ultima lettera a
Burckhardt; e nello «stile P rado» Nietzsche dichiara di avere scritto
parte di Ecce homo, alludendo all’elemento attivistico di quest’opera: il

55 USQ, p. 31. Su questo cfr. anche MoE, p. 1890: «Le personalità storiche sono
criminali: piani di Ulrich di diventare un Napoleone. Qui però criminale vuol dire so­
prattutto: antifilisteo, non conformista».
56 Carteggio Nietzsche-Burckhardt, a cura di M. Montinari, Torino 1961, p. 42. Sul­
la vicenda cfr. Note del traduttore, p. 137 e C.P. Janz, Nietzsche, Biographie, Bd. Ili, p.
29. Per il problema del delinquente in Nietzsche cfr. GD , pp. 145-147, FP 1887, pp.
126-129, 160-161, 165, Za, pp. 17-18.
194 11 genio tiranno

presentare se stesso, in forma di bouffonerie, sulla scena del mondo in


vista dell’imminente Umwertung e la «dichiarazione di guerra» antite­
desca legata alla «grande politica».
Lungi dall’essere scimmia di Nietzsche e di Zarathustra, Clarisse è
lo sviluppo conseguente di quella alternativa presente in Nietzsche -
l’attivismo della redenzione. L a reincarnazione in Clarisse del dioni­
siaco dell’ultimo Nietzsche è mediata tuttavia dalla lettura klagesiana:
come vedremo, questa riproposizione forte del dionisiaco e del tema
genio-comunità, si risolve in una più sottile riproposizione della vo­
lontà di potenza. Alcune note del quaderno 6 dei D iari sulla follia di
Alice confermano che l 'Ecce homo è il punto di partenza per la tessi­
tura del personaggio di Clarisse {D iari, pp. 387 ss.). D a queste pagine
dei D iari, ai vasti progetti su Clarisse fino all’Uomo senza qualità è ri­
petuta la centralità del corpo, tema che caratterizza YEcce homo. «A n ­
ders non conosceva altra persona nella quale l’interiorità diventasse
corpo come in Clarisse, e in questo doveva consistere la sua straordi­
naria capacità di comunicare le proprie emozioni» (USQ, p. 1161). Il
corpo è, anche in Nietzsche, teatro «m agico» dell’universo, perché at­
traversato da segni che concentrano le diffuse energie del campo:

Il genio è condizionato dall’aria asciutta, dal cielo puro e questo vuol dire
metabolismo rapido, possibilità di attirarsi continuamente grandi, e anche
enormi, quantità di forza (EH, p. 290).

L’estrema sensibilità fisiologica è accumulo di forza, uno stato di


«vigore animale» che significa libertà ed esprime un potenziamento
ultimo della volontà (stato dionisiaco-divino). Nella sua riflessione sul
genio, Clarisse lega la trasformazione della Sinnfarbe del m ondo ad
una mutazione dell’equilibrio (U SQ , pp. 1210-1211). Q uest’ultimo è
poi radicato nella dialettica sanità/malattia, nella rottura dell’equili­
brio degli organi del corpo. Il passaggio attraverso la malattia (corpo­
rea e mentale) è essenziale per modificare gli assetti statici, e per Cla­
risse, in cima stanno coloro che, pieni di forza, trovano forme sempre
nuove di equilibrio57. Il tema dell’estrema tensione della volontà che

57 USQ, p. 1210: «Finché il “colore psichico” del mondo, come lo chiamava Cla­
risse, restava fisso, anche l ’equilibrio del mondo aveva una certa stabilità. Questa stabi­
lità inosservata poteva anche passare per qualcosa di sano e di ordinariamente indi­
spensabile, così come anche il corpo non deve avere coscienza di tutti gli organi che
mantengono il suo equilibrio. Malsano è anche un equilibrio labile che si rovescia alla
prima occasione e precipita nella posizione inferiore. Tali sono i malati mentali, pensò
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 195

percorre la fisiologia dell’Ecce homo è ribadito da Clarisse con l’insi­


stenza sull’ingresso volontario nella malattia («L ’avevano portata là
dove doveva amm alarsi... Ella si disse: devo diventare pazza. L o ri­
petè. Un mormorio a voce alta. Sotto la croce») (USQ , p. 1196). La
Sinnfarbe appare uno sviluppo particolare di una «veggenza» legata
ad una esasperata sensibilità corporea, con l’accentuazione del lato at­
tivo e trasformatore della riassunzione nel corpo del cam po di forze
(il colore rosso della camera di sviluppo dove «ci si piega, tesi e com ­
mossi, sulle figure delicate, appena riconoscibili, che si mostrano sulla
lastra» (USQ , p. 1196) intuito da Clarisse in congiunzione con l’idea
di redenzione). L’apporto di Nietzsche (intrecciato con altre fonti) è
visibile (si pensi solo alla policromia dello Zarathustra e alla forza sim­
bolica del colore nei D itiram bi). Così ne scrive Nietzsche a proposito
dell’ispirazione-rivelazione, quando l’uomo è reso medium di potenze
che lo sovrastano:

U n rapim en to, la cui en orm e ten sion e si scarica talvolta in un torren te di


lacrim e; che ora fa p recip itare in con sapevolm en te il p a sso , o ra lo rallenta; un
totale esser-fuori-di-sé con la coscien za più p re cisa d i innum erevoli brividi e
correnti fino alla p u n ta dei piedi; un ab isso di felicità dove ciò che è più d o lo ­
ro so e cu p o non ha p iù un effetto di con trasto, m a di colore necessario, volu ­
to, p rovocato, in m ezzo a u n a tale sov rab b o n d an za di luce; un istinto p er i
rap p o rti ritm ici che si p roten de su am pi spazi di form e; la lunghezza, il b iso ­
gn o di un ritm o teso in am piezza, son o qu asi la m isura della violenza d ell’isp i­
ra zio n e ... (E H , p p . 348-349).

La riflessione di Ecce homo fa muovere Zarathustra tra i due termi­


ni della dissoluzione giullaresca delle rigidezze del linguaggio e delle
cose e la traduzione in termini di accentuata volontà della veggenza

Clarisse, che ne aveva paura. Ma, più in alto di tutti, i conquistatori nell’ambito dell’u­
manità sono quelli il cui equilibrio è altrettanto vulnerabile, ma pieno di forza, e che,
continuamente turbato, inventa sempre nuove forme di stabilità». Ancora una volta
Clarisse ripete da vicino un motivo nietzscheano: «Anche nel mondo umano i tipi supe­
riori, i casi fortunati dell’evoluzione, periscono, nell’alternarsi di favore e sfavore, più
facilmente. Essi sono esposti a ogni sorta di decadenza: sono estremi, e perciò quasi essi
stessi già decadenti... il tipo superiore rappresenta una complessità incomparabilmente
maggiore, una maggior somma di elementi coordinati; perciò anche la disgregazione di­
viene incomparabilmente più probabile. Il “genio” è la macchina più sublime che ci sia
- e quindi la più fragile», WM (= GA XVI, p. 148, ora in FP 1888, pp. 106-107). Per la
centralità del corpo nella figura di Clarisse cfr. ancora USQ, p. 427 dove c’è il richiamo
esplicito all’affermazione di Zarathustra: «corpo io sono in tutto e per tutto, e null’al-
tro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo» (Za, p. 34).
196 II genio tiranno

(«Zarathustra è presbite più dello zar»), Clarisse assume in sé questi


elementi legati allo «sperpero di bontà» ma elimina il passaggio, che
per Nietzsche è decisivo, dallo sguardo in lontananza alla penetrazio­
ne analitica «in ciò che è più vicino, il tempo, il circostante» propria di
Jenseits dove «la psicologia viene maneggiata con dichiarata durezza e
crudeltà - non c’è in tutto il libro una sola parola bonaria...» (EH , p.
361). L a dialettica tra veggenza e vivisezione analitica dell’epoca,
esaurita nella sua integrità sul rapporto Ulrich-Clarisse, viene mutilata
da quest’ultima a favore di una disperata mimesi dell’immediatezza,
evitando gli elementi per Nietzsche necessari alla ricchezza della for­
ma Zarathustra (Zarathustra è un asceta). L a stessa potenza simbolica
del corpo, che in Zarathustra è espressione di un lungo esercizio di
autodominio («l’obbedire a lungo in una sola direzione») in Clarisse è
legata miticamente all’immediatezza di un elemento originario-magi­
co, l’«occhio del diavolo». Ecce homo presenta l’amore di Zarathustra
come un’«ardente volontà creatrice» e di intervento verso gli uomini,
a cui Zarathustra è spinto come il martello verso la pietra, e che «infu­
ria crudelmente» contro «la prigione» che rinchiude l’immagine del
superuom o58. N e discende qui la necessità di mettere in gioco e in
movimento i codici linguistici, la grammatica, per sperimentare un
nuovo linguaggio simbolico che parli direttamente del divenire. Il lin­
guaggio ditirambico di Zarathustra è appunto

eloquenza che diventa musica; fulmini scagliati verso tempi futuri ancora
non divinati. La più potente forza simbolica che ci sia stata finora è un povero
giochetto di fronte a questo ritorno del linguaggio alla natura della figurazio­
ne (Bildlichkeit) (EH, p. 353).

È anzitutto nel tradimento immediatistico deìl’Ecce homo che Cla­


risse dipende dalla lettura klagesiana di Nietzsche. N ei tentativi di
chimica delle parole, alla ricerca di significati che si stacchino «d a un
terreno che tutti hanno calpestato», Clarisse scopre che bisogna usare
parole che non siano concetti perché « l ’anima risvegliata non può
camminare così vestita di ferro» (U SQ , p. 1212). L’antitesi di anima e
morti concetti è un riferimento a Klages: il linguaggio della figurazio­
ne, l’immagine (Bild) parla misteriosamente all’anima dalle lontanan­
ze d eiri/r, infrange gli schemi dei concetti con cui lo «spirito», l’at­
teggiamento razionale-calcolante di origine socratica, secondo i temi

38 EH , p. 359. Cfr. USQ, pp. 637, 757.


Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 197

della Nascita della tragedia, che è anche legato al principio d ’indivi­


duazione, ricopre e falsifica la vita, che si esprime «autenticamente»
nella partecipazione eretico-dionisiaca al gran tutto.
L a dissoluzione dei nessi grammaticali e dell’univocità del senso
prigioniero dei concetti è portata all’estremo da Clarisse con la tra­
sformazione del linguaggio in musica che permette l’accesso all’altra
logica della follia, poiché non solo M oosbrugger è musicale, m a è con
una trasformazione musicale del linguaggio che Clarisse parla ai folli:

Avanzò verso il malato e dichiarò: - Io vengo da Vienna! - Era senza sen­


so, come un suono qualsiasi, uno squillo di tromba... la frase aveva meno sen­
so che mai. Ma Clarisse la pronunciò con fiduciosa sicurezza (USQ, p. 958).

Musicale è anche la proposta di Clarisse dell’anno di Nietzsche,


con la lettera «intersecata da spessi tagli trasversali e da sottolineature
energiche» che la tramuta in spartito59. L’insieme dei riferimenti è alla
teoria giovanile di Nietzsche, per cui la musica è linguaggio privilegia­
to, in quanto diretta oggettivazione della volontà originaria. La musi­
ca parla di una patria metafisica comune; l’artista ditirambico evoca
allora per l’uomo

una forza che annulla la resistenza della ragione, anzi fa apparire irragio­
nevole e incomprensibile ogni altra cosa in cui fino allora viveva: messi fuori
di noi, nuotiamo in un elemento enigmatico e infuocato, non comprendiamo
più noi stessi, non riconosciamo le cose più note; non abbiamo più in mano
misure, tutto ciò che era conforme a legge, tutto d ò che era rigido, comincia
a muoversi, ogni cosa brilla con colori nuovi, ci parla con caratteri nuovi
(WB, p. 41)

atteggiamento che caratterizza tutto lo Streben di Clarisse. Nel pro­


getto, sull’«Isola dei sani» è Clarisse che si assume il ruolo attivo di
movimentare fino agli estremi i codici linguistici e simbolici, contro la
rigidezza dell’ordine che si converte in senso di morte rappresentata
dal «triste automatismo» degli apparati militari, secondo un tema che
verrà ripreso nell’ Uomo senza qu alità, col desiderio m ortuario di
Stumm di proporre un ordine fisso che coinvolga l’intero universo nel
suo delirio di potenza60.

59 «Sottolineava le parole da una a dieci volte, e una pagina così tracciata da lei as­
somigliava qualche volta a un misterioso spartito musicale» (USQ, p. 1213).
60 II binomio ordine-morte, che anche ne La montagna incantata è determinante
198 II genio tiranno

In questo testo la mobilità dell’esperimento che fa cadere la barrie­


ra tra malattia e sanità e investe i «colori» del mondo è espressione di
una «grande salute», in cui Anders è coinvolto e non solo con la ri­
flessione. E attraverso la dimensione artistica del gioco che l’esperi­
mento di Clarisse procede, portando con sé una alcionica chiarezza di
«felicità». I giochi dell’arte hanno carattere di apertura verso nuovi
ordini, ma escludono la «p au ra im m ane» per l’indefinito che è al
«fondo della vita um ana» e si lega ad ogni esperimento:

Che cos’è questo se non arrampicarsi fuori dal nulla, tentando ogni volta
in una direzione diversa?... Che cos’è tutto ciò che facciamo se non la paura
nervosa di essere nulla... (USQ, p. 1206).

N ell’atteggiamento di Clarisse affiora la N ascita della tragedia, dove


l’arte tragica è accesso protetto, non distruttivo alla dimensione del
dionisiaco: teoria che permane in Nietzsche anche quando all’arte è
sottratta la dimensione metafisica, poiché in quanto illusione essa è
mimesi e rappresentazione simbolica del vero esperimento che suscita
paura, mettendo in pericolo la stessa esistenza.
Ma per comprendere il carattere dionisiaco del musicale di Clarisse
occorre coglierne il contrasto con il musicale di Walter, che costituisce
l’argomento del capitolo 38 dell’Uomo senza qualità. Qui viene tematiz­
zata l’idea di musica che aveva suscitato l’avversione di Anders:

quel che passa in generale per grande musica egli lo vedeva come un ar­
madio che racchiude tutti i contenuti dell’anima, ma dal quale sono stati tolti
tutti ì cassetti, sicché quel che c’è dentro appare in gran disordine, mentre le
pareti sono coperte di decorazioni delicate, solide e ben sfumate61.

N el capitolo 38 la musica suonata da Walter e Clarisse possiede un


carattere di unificazione apparente ed effimera, la cui intensità calori­
ca si basa su una passione artificialmente suscitata («ipnosi») in cui si
incontrano atteggiamenti opposti che però restano tali. Musil assume

nella fascinazione di Castorp per la paurosa simmetria esagonale dei cristalli di neve, ha
del resto numerosi riscontri in Nietzsche, dove la rigidezza dell’ordine si accompagna a
metafore funerarie e di gelo. Su questo essenziale aspetto della figura di Stumm ha
scritto Enrico de Angelis, nel già citato volume.
61 USQ, p. 1169. E cfr. anche Diari, p. 1467: «L o sviluppo dei tempi ci ha riportati al
rapporto sbagliato fra sentimento e intelletto. Perciò un personaggio come Klages rientra
nella medesima linea. Oppure vedi i professori della scuola medica classica viennese, che
nelle ore libere facevano musica. Musica: il sentimento mangiato a cucchiaiate».
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 199

la critica di Nietzsche alla musica e al teatro wagneriani (sublimazione


e artificiale esaltazione nervosa di una realtà meschina che ne risulta
confermata e consolidata) come caratteristiche complessive della m u­
sica, ostile nella sua espressione e sollecitazione immediatistica dei
sentimenti alla morale matematica. Clarisse e Walter unificano m o­
mentaneamente opposti atteggiamenti: il secondo l’oppiaceo, la subli­
mazione eroica del quotidiano, piccolo servire, e infine la rassicura­
zione di un grem bo materno; Clarisse il dionisiaco sconvolgimento
degli ordini - essa pensa a M oosbrugger - unito però subito ad una
determinazione attivistica:

Ormai era certa che avrebbe compiuto opere titaniche, quali non avrebbe
ancora saputo dire, ma intanto era soprattutto la musica che le dava quelle
sensazioni, e a quel tempo sperava che Walter sarebbe stato un genio ancor
più grande di Nietzsche; per non parlare di Ulrich, che era comparso più tar­
di e le aveva soltanto donato, di Nietzsche, le opere complete (USQ, p. 138).

Sono allusi in questo passaggio alcuni temi centrali di Clarisse. La


sua determinazione attivistica è legata all’antitesi musica-analisi. Il fa­
re è necessariamente connesso in Clarisse, che polemizza con Ulrich,
all’inconsapevolezza, mentre spingere il sapere fino alla certezza è pa­
ralisi dell’azione:

Sai che cosa dice Nietzsche? Voler sapere con certezza è una viltà, come
voler camminare sicuri. Da qualche parte bisogna cominciare a fare, non par­
larne soltanto!62

Il carattere di indeterminatezza dei sentimenti motivanti è proprio


quello imposto dalla musica. Essa consente a Clarisse di liberarsi dai
«lacci» del passato, dal peso condizionante dell’accaduto che è al cen­
tro dell’idea di redenzione, ma per questo è necessario mantenere in
permanenza lo stato di trasfigurazione musicale della realtà, «sonare e
sonare sempre, eternamente». Ma far continuamente musica significa

62 USQ, p. 345. Nel Quaderno 4 dei Diari si trovano due citazioni dal Crepuscolo
degli idoli che unite chiariscono il riferimento di Clarisse: «Una volta per tutte, non vo­
glio sapere molte cose. - La saggezza traccia dei limiti anche alla conoscenza» e «M et­
tersi soltanto nelle situazioni in cui non è consentito possedere delle false virtù, in cui
anzi, come il funambolo su una corda, o si precipita o si sta su, oppure si abbandona
l’impresa». A entrambe Musil aveva poi aggiunto l’indicazione «Clarisse» (Diari, p. 49).
Si tratta in ogni caso di un tema ricorrente in Nietzsche: la necessaria “ignoranza” che
circonda l’azione del creatore.
200 II genio tiranno

per YA ufklärung musiliana movimentare i sentimenti in una fluidità


caotica, mantenendoli però in una datità pseudo-originaria. L a musi­
ca è contraria all’analisi perché non sottopone i sentimenti a quella
scomposizione genealogica, opera dello spirito, che ne separa nasco­
ste possibilità alternative di sviluppo. E il senso dell’accusa che Ulrich
rivolge alla musica, ritorno a una immediatezza atavistica:

Voi musicisti siete dei primitivi. Che sottile, inedita motivazione ci vorreb­
be per giustificare un’esplosione di violenza subito dopo un silenzioso racco­
glimento. E voi lo fate con cinque note! (USQ, p. 1171).

In questa fitta ambiguità tra tensione alla liberazione di nuove pos­


sibilità e caduta nell’immediatismo si muove interamente il personag­
gio di Clarisse. L’idea della redenzione si riferisce da un lato al tema
presente in Ecce homo , e tutto zarathustriano, legato all’attività che
segue ad un lungo accumulo di forza ed è perciò capace di liberare
l’immagine nascosta àeYYaltro uomo attraverso la risoluzione della ca­
sualità e contraddizione in una grande unità di affermazione. In Za­
rathustra tutti gli opposti sono legati in una nuova unità:

E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ri­


componga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità. E come
potrei sopportare di essere uomo se l’uomo non fosse anche poeta e solutore
di enigmi e redentore della casualità?
Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni «così fu» in un «così
volli che fosse!» solo questo può essere per me redenzione! (EH, p. 358).

Sono questi i punti che avvicinano Clarisse all’energia di Ulrich, ed


è proprio Clarisse quella che apre ad Ulrich la riflessione sull’«inven-
zione della storia» come fine del regno della ripetizione e del casuale,
che allude appunto al tema nietzscheano della redenzione della casua­
lità (U SQ , pp. 346 ss.)63. L a redenzione nietzscheana dello Zarathu­
stra e dell’Ecce homo è antagonistica e polemica, però, verso la religio­
sa Erlösung wagneriana che, con la sua adesione alla com passione
schopenhaueriana, ha come presupposto la colpevolezza del mondo.
In realtà, riproponendo il carattere pienamente immanentistico del

63 L’elemento dionisiaco è alluso dall’alcionismo dell’Isola dei sani, dal Sud di Claris­
se pieno di forza e di luce, in cui «anche gli asini hanno una voce diversa! Non ragliano
i-a, ragliano Ja \» (variante inserita in USQ, p. 1199) (in contrapposizione al raglio dell’asi­
no in Zarathustra, il cui «I-A » significa passiva accettazione dei valori costituiti).
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 201

Dioniso 2<>OT)p, la redenzione nietzscheana costituisce una liberazio­


ne da quella wagneriana attraverso lo Ja-sagen, e l’innocenza del dive­
nire64. G ià nell’83 Nietzsche scrive: «redenzione dai redentori insegna
Zarathustra» e ne II caso Wagner, com ’è noto, si sviluppa la parodia
verso questo motivo, che percorre secondo Nietzsche tutte le opere di
Wagner, ma che ha sullo sfondo la caduta sotto la croce del vecchio
Wagner da un lato, e dall’altro la funzione metafisico-religiosa del m i­
to e dell’arte. Il peso della lettura klagesiana di Nietzsche, fortemente
improntata a una tonalità schopenhaueriana e volta a dilatare il signi­
ficato della N ascita della tragedia , sulla figura di Clarisse, determina
una mescolanza di temi ed un sensibile spostam ento del {'Erlösung
verso le soluzioni della metafisica dell’arte propria del giovane Nietz­
sche. C osì, Clarisse evoca più volte la necessità di servire sotto lo
«scettro del genio» - tema che percorre soprattutto le Inattuali e le
Conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole - e di proteggerne l’origi­
naria manifestazione vitale dalle forze ostili, egoistiche e corruttrici
della civilizzazione. Aiutare il genio a fiorire significa assicurare quel-
l’unica redenzione - attraverso l’arte - che la N ascita della tragedia
ammette come possibilità antipessimistica. E d è alla congiunzione di
genio e arte che Clarisse affida il «m iracolo» del cambiamento (USQ,
p. 638). In modo significativo il tema del superuomo, del genio «re ­
dentore» è legato costantemente al concepimento superiore e consa­
pevole che dia un senso al matrimonio in una spinta verso il futuro.
Clarisse ripete65 uno dei motivi più esteriori e ricorrenti della mitolo­
gia del superuomo (se assolutizzato ben distante dalla problematica di
Nietzsche). Si pensi a D ’Annunzio, in particolare a Le Vergini delle
rocce, dove Violante, preda della follia, è tesa con Claudio Cantelmo
alla creazione del Figlio («possa io generare il superuom o!»). Questo
Leitm otiv serve per drammatizzare il rapporto del triangolo Walter-
Ulrich-Clarisse e mettere in luce la debolezza e l’impotenza di Walter,
che ricerca il figlio come compenso della grande opera che non verrà
(«Invece di produrre tu qualche cosa vorresti perpetuarti in un fi­
g lio !» e Nietzsche: «Il far m usica è un altro m odo di far figli»)66 men­

64 N F 1883, p. 356. La polemica antiwagneriana contenuta nell’espressione è testi­


moniata nel brano del Caso Wagner dove la ripetizione da parte dei fedeli wagneriani ai
funerali del maestro dell’ultimo verso del Parsifal «redenzione al redentore» è parodia­
ta nella «redenzione dal redentore» (cfr. WA, pp. 38-39).
65 USQ, pp. 422-423, cfr. Za, p. 81.
66 USQ, p. 590 e WM (= GA XVI), p. 228, ora in FP 1888, pp. 84-85.
202 II genio tiranno

tre Clarisse ricerca dalla «b arb arie» di Ulrich il concepimento del


«salvatore del m ondo»67.
In una fedele parafrasi del Tentativo d i autocritica di Nietzsche a
L a nascita della tragedia M usil adopera per C larisse la nozione di
«pessim ism o della forza», e cita per esteso la dom anda di Nietzsche
sull’esistenza di «nevrosi della salute» in cui la follia non sia sintomo
di «degenerazione», ma espressione di sovrabbondanza di vita che si
comunica, tramite visioni e allucinazioni, a intere comunità68. Il brano
termina appunto con la citazione dell’arte come «vera attività metafi­
sica dell’uom o» e l’affermazione che il m ondo si giustifica solo come
fenomeno estetico.
Genio e comunità sono, in questa prospettiva, strettamente uniti: il
genio è da una parte l’espressione più alta della comunità e ne rivela il
senso, dall’altra la redime dai pericoli della civilizzazione unificandola
attraverso il mito e la musica. Genio e comunità sono i termini della
ricerca di Clarisse mediati dalla magia della musica:

Deine Zauber binden wieder,


Was die Mode streng geteilt,
Alle Menschen werden Brüder...

E la «riunione dei disgiunti» che Walter e Clarisse sentono nell 'In­


no alla gioia di Beethoven seguendo l’indicazione de L a nascita della
tragedia. Mettiamo a confronto i due testi:

Man verwandele das Beethoven'sehe Jubellied der «Freude» in ein


Gemälde und bleibe mit seiner Einbildungskraft nicht zurück, wenn die Mil­
lionen schauervoll in den Staub sinken: so kann man sich dem Dionysischen
nähern. Jetzt ist der Sclave freier Mann, jetzt zerbrechen alle die starren,
feindseligen Abgrenzungen, die Noth, Willkür oder «freche Mode» zwischen
den Menschen festgesetzt haben. Jetzt, bei dem Evangelium der Weltenhar­
monie, fühlt sich Jeder mit seinem Nächsten nich nur vereinigt, versöhnt, ver­
schmolzen, sondern eins, als ob der Schleier der Maja zerrissen wäre und nur
noch in Fetzen vor dem geheimnisvollen Ur-Einen herumflattere. Singend
und tanzend äußert sich der Mensch als Mitglied einer höheren Gemeinsam­
keit: er hat das Gehen und das Sprechen verlernt und ist auf dem Wege, tan­
zend in die Lüfte emporzufliegen. (Nietzsche) (vedi trad. in GT, pp. 25-26).

67 USQ, p. 640, cfr. USQ, pp. 1537-1538 in cui Lindner (poi Meingast) afferma la
necessità del figlio come salvezza dall’eros borghese e Clarisse allora vuole un figlio da
lui, non da Walter.
68 MoE, pp. 1778-1779; cfr. anche USQ, p. 1197 e USQ, pp. 946-947.
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 203

Es war diesmal Beethovens Jubellied der Freude; die Millionen sanken,


wie es Nietzsche beschreibt, schauervoll in den Staub, die feindliche Abgren­
zungen zerbrachen, das Evangelium der Weltenharmonie versöhnte, vereinig­
te die Getrennten; sie hatten das Gehen und Sprechen verlernt und waren
auf dem Wege, tanzend in die Lüfte emporzufliegen. Die Gesichter waren ge­
fleckt, die Körper verbogen, die Köpfe hackten ruckweise auf und nieder, ge­
spreizte Klauen schlungen in die sich aufbäumende Tonmasse. Unermeßli­
ches geschah; eine undeutlich umgrenzte, mit heißem Empfunden gefüllte
Blase schwoll bis zum Platzen an, und von den erregten Fingerspitzen, den
nervösen Runzeln der Stirn, den Zuckungen des Leibs strahlte immer neues
Gefühl in den ungeheuren Privataufruhr. Wie off hatte sich das wohl schon
wiederholt? (vedi trad. in USQ, p. 43).

Due Nietzsche sono a confronto in questo decisivo passaggio di


Musil: quello dominato da Wagner, che nella IX sinfonia vede precor­
si gli effetti di redenzione culturale dell’opera d ’arte totale69 e quello
intellettualistico che smonta analiticamente le macchine che sostengo­
no l’immediatezza dell’effetto. Dalla visione estraniata che del feno­
meno ha Ulrich, emerge il complesso movimento fisiologico che so­
stiene l’esecuzione («contrazioni nervose», «guizzi convulsi del cor­
po», «volti chiazzati» ecc.). N ei testi dei progetti, Clarisse in viaggio è
alla ricerca del senso di unificazione attraverso i colori-suoni del Sud
(la «nevrosi della salute») sulle vestigia delle antiche comunità cittadi­
ne italiane dove «la comunità era un’esperienza vissuta» e la salvezza
redentrice affidata al santo-eroe-genio (S. Francesco, Dante che sono
la stessa persona) trascina l’intera comunità:

La religione era legata al patriottismo locale; non il singolo senese andava


in paradiso, ma tutta la città di Siena vi si sarebbe trasferita un giorno o l’altro
perché si amava il cielo attraverso la città (USQ, p. 1194).

Ne deriva in Clarisse la necessità di conciliare, nella direzione della


comunità e della redenzione, Nietzsche e Cristo, andando agli estremi
- attraverso la pazzia - dell’unità di affermazione e ripetendo l’ultimo
Nietzsche dei biglietti della follia, in cui sono conciliati Dioniso e Cri­
sto. La musica, secondo la tesi schopenhaueriana de La nascita della
tragedia, in quanto espressione della volontà unica e originaria sotto­

69 II brano «dionisiaco» de La nascita della tragedia, in cui Nietzsche utilizza l’in­


terpretazione wagneriana della IX sinfonia, è valorizzato anche da Klages in Vom ko-
smogonischen Eros (in L. Klages, Sämtliche Werke, Bd. 3, Philosophie III, p. 387).
204 II genio tiranno

stante il m ondo illusorio delle apparenze, è un linguaggio privilegiato


che permette la naturale comunicazione nella compassione70, esprime
simbolicamente la più alta comprensione tra gli uomini contro il lin­
guaggio dell’astrazione che racchiude, come i «lacci» di Clarisse, nella
determinazione della ripetizione. Le riflessioni di Clarisse sulle città
italiane terminano con un riferimento a Lindner (poi Meingast)71: in
Vom kosmogonischen Eros Klages introduce la «folla eccitata orgiasti­
cam ente» come grado della diffusione sim patetica dell’eros contro
quell’«asservimento della vita sotto il giogo dei concetti»72 che è pro­
prio del Geist, proseguendo un’analogia di erotico e dionisiaco che
aveva tracciato sulla base della «memorabile N ascita della tragedia».

E in genere tutta la musica è una cosa terribile! Che cos’è? Io non capisco.
Che cos’è la musica? E che cosa fa? E perché fa ciò che fa? Dicono che la
musica abbia per effetto di elevare l’anima... stupidaggini! Non è vero. Agi­
sce, agisce tremendamente, e lo dico per me, ma niente affatto nel senso di
elevare l’anima: non ha per effetto né di elevare né di abbassare l’anima, ma
di esasperarla. Come dire? La musica mi costringe a dimenticarmi di me, del­
la mia reale situazione, mi trasporta in qualcos’altro che non è il mio stato;
sotto l’influsso della musica mi par di sentire ciò che in realtà non sento, di
capire ciò che non capisco, di potere ciò che non posso. Me lo spiego, pen­
sando che la musica ha lo stesso effetto dello sbadiglio, della risata: io non ho
sonno, ma sbadiglio vedendo gli altri che sbadigliano; non ho motivo di ride­
re, ma rido sentendo che gli altri ridono73.

N e L a sonata a Kreutzer di Tolstoj la comunicazione musicale de­


termina l’immedesimarsi nello stato d ’animo del compositore senza la
riproduzione del contesto in cui lo stato d ’animo originariamente si
situava, e che dà ad esso «senso». Beethoven sa perché si trova nello
stato d ’animo espresso dalla Sonata a Kreutzer: essa ha senso per lui,
ma non per chi l’ascolta. L’effetto «orrendo» della musica è in questa

70 Nei Diari Musil ironizza su questa «metafìsica della musica» che permetterebbe
«una comprensione totale tra gli uomini» opponendo la comprensione che pur si dà
nel film muto. In un aforisma che ripete l’argomentazione dei Diari definisce Scho­
penhauer, per questa ragione e riecheggiando Nietzsche, «questo grande, eccezionale
pessimista ottimista», Diari, p. 1228. Nella musicale Clarisse il tema della comprensio­
ne dell’altro che si risolve nella schopenhaueriana compassione si ritrova più volte: cfr
USQ, pp. 688-689,1182-1183.
71 MoE, p. 1735.
72 L. Klages, Vom kosmogonische Eros, cit., p. 400.
73 L. Tolstoj, La sonata a Kreutzer, trad. it. di M. Visetti, Milano 1949, pp. 72-73.
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 205

perdita del senso degli affetti comunicati, della loro matrice genetica,
insomma nell’immediatezza «ipnotica» della sua comunicazione. Per­
ciò, pensa Posdnyscev, «In Cina la musica è un affare di stato: e così
dev’essere. Si può forse permettere che chiunque lo desideri ipnotizzi
una o più persone e poi ne faccia quel che vuole?»; e al limite dell’im­
mediatezza rimane legata anche la grande provocazione di energia che
la m usica suscita, la nuova colorazione del m ondo e le «possibilità
nuove» che apre («sì, ecco com ’è: tutto diverso da come pensavo e vi­
vevo prima, ecco com ’è»).
L a figura di Meingast, incantatore e profeta a cui si sottomettono
sia il piccolo uomo Walter per bisogno di fede sia l’immediatezza atti­
vistica di Clarisse, svela quanto insidiosa e ambigua volontà di dom i­
nio sia presente nell’atteggiamento musicale74. N el gruppo di capitoli
su Meingast a casa di Clarisse e Walter, decisivi per il destino di C la­
risse, il filosofo, catalizzatore delle decisioni di lei, è veramente la
scimmia di Zarathustra, e i richiami sono allusivi di questa lettura.
Meingast è il «profeta» che fa uscire le sue sentenze dalla «caverna
d’om bra», dalla «buia dimora», e «quel messaggio che dai monti di
Zarathustra era calato nella vita familiare di Walter e Clarisse», è il
«salvatore», portatore di integrità e di interezza, capace di vivere l’i­
dea, dalla semplicità ascetica ecc.75 Nel testo dell’Uomo senza qualità,
Meingast rafforza in Clarisse l’antitesi tra intelletto (mondo falsificato
e morto del Geist e della morale) e volontà e la conferma nell’idea che
«ciascuno può proporsi mete straordinarie mediante un’impresa vio­
lenta e poi viene trascinato da esse» (USQ, p. 892). Nella congiunzio­
ne liberazione-antiintellettualismo e nell’apologià della «buona poten­
te follia», Meingast spiega infine a Clarisse che 1'Erlösung non è più
legata alla religione ma «deve essere suscitata da una fermissima vo­
lontà e se è necessario anche dalla violenza» (USQ, p. 806).
Il concetto di «fermissima volontà» opposto alla comune volontà
umana, che compare in questo testo, è più ampiamente motivato nel
già citato progetto degli anni venti, dove Lindner (poi Meingast) (che
qui dà una sua interpretazione della politica «rivoluzionaria» e antide-

14 MoE, p. 2009: «H musicista è allora Klages» si legge in una serie di annotazioni


che hanno al centro la contrapposizione musica-matematica.
75 USQ, pp. 754 ss. Nell’importante progetto della fine degli anni venti su questi
capitoli \’incipit presenta Lindner (poi Meingast) come «quest’aquila che si era calata
dai monti di Zarathustra nella vita familiare di W. e Cl.» (MoE, p. 1514), e il termine
«aquila» toma poi in USQ, p. 800.
206 II genio tiranno

m ocratica discutendo con il giovane socialdem ocratico Schmeisser)


oppone all’attuale pallido simulacro della volontà, «volontà spezza­
ta», l’ininterrotto originario flusso della volontà («il brevetto di Lind-
ner era il flusso cosmico, ininterrotto della volontà»). L a volontà ori­
ginaria e inconscia appare nei grandi uomini come Napoleone, che
fanno rivivere la volontà delle Urzeiten mitiche, ed è «attività senza
interruzione, una specie di combustione come il respiro» (con eviden­
te allusione alla dottrina klagesiana dei ritmi vitali) che crea calore e
movimento (M oE, p. 1519). In questa attività inconscia ed originaria
giunge ad espressione l’ineffabile dell’anima (in senso klagesiano), di
«eventi che sono molto più potenti dei ridicoli fili che il nostro intel­
letto intende di essi», e Lindner spiega che tutte le nostre sensazioni
sono in realtà «inesprimibili», musica per essenza: «potrei addurre so­
lo l’esempio della musica, tutte le nostre esperienze vissute sarebbero
allora di natura m usicale» (M oE, p. 1518). L a «m usica assoluta» è
schopenhauerianamente rivelazione immediata e «folgorante» dell’es­
sere, ne parla direttamente il linguaggio. E d è in base alla nozione di
m usica assoluta e alla connotazione della volontà come fatto estetico,
non morale, che Lindner espone la sua teoria (in cui non è difficile ri­
conoscere temi centrali de L a nascita della tragedia): il m ondo è giusti­
ficabile solo com e fenom eno estetico; gli uom ini di stato devono
reimparare la musica, come ha indicato la «sapienza originaria» di de­
rivazione orientale (e quindi dionisiaca) di Platone. A ciò Lindner ag­
giunge che la crudeltà esercitata in modo sistematico è l’ultimo mezzo
per ridare energia ai pop oli europei resi ottusi dall’umanitarismo.
L’entusiasmo di Clarisse è al colmo e si manifesta come estrema ecci­
tazione sentimentale, percezione del titanico, di esperienze inaudite,
dell’«uom o ancora senza nome, più grande di quanto possa concepir­
lo la musica più grande», per quanto le parole di Lindner abbiano ta­
lora, per l ’orecch io e l ’intelletto, «q u a lco sa di in com pren sibile»
(M oE, p. 1520). Q uesto testo rende chiaro che il personaggio di
M eingast si basa su una interpretazione della filosofia della vita di
Klages connessa a un rifiuto del Nietzsche «dionisiaco», visto come
elemento centrale di quella filosofia. Tale interpretazione ha l ’appa­
renza del paradosso perché proprio il Nietzsche della volontà di p o ­
tenza (contro cui Klages non perdeva occasione di scagliarsi e di cui
respingeva l’intrusione intellettualistica - presente nella parentela tra
«apollineo» e «socratico» - atta a intorbidare il principio dionisiaco
fin da L a nascita della tragedia ) secondo Musil è nascosto nell’apolo­
Robert Musil: una lettura «inattuale» d i Nietzsche 201

già klagesiana delTimmediatismo antiintellettualistico, che glorifica l’i­


neffabile sentimentale, il caos atavico teso al dominio, all’autoafferma­
zione dispotica non «interrotta» dalle cesure dello spirito76. Vi è qui
in Musil un complicato gioco interpretativo, la cui intenzione è però
di liberare l’elemento unificante dell’Eros dal klagesiano Eros cosm o­
gonico, che non è un altro stato da conquistare, una totalità aperta e
fluida, ma uno stato primigenio e tellurico, un già dato da riacquistare
liberandolo dalla crosta della «trasformazione logistica del m ondo»77.
Secondo la lettura di Musil, neWUr klagesiano si afferma la violenza
del principio metafisico presente anche nel giovane Nietzsche: la tra­
sformazione estetica (con una determinante valenza di intervento p o ­
litico in direzione della rinnovata Gemeinschaft) elaborata da La nasci­
ta della tragedia della volontà unica di Schopenhauer nel binomio mu­
sica-dionisiaco, il perdersi dell’individuazione nell’indifferenziato.
Occorre ricordare - e il motivo non poteva essere sfuggito a Musil
- che Nietzsche nella sua maturità è consapevole dei forti limiti della
metafisica dell’artista e dei suoi effetti di dominio distruttivo, e ne at­
tacca con chiarezza l’elemento di semplificazione, di fede, dissolven­
done il principio con strumenti di critica storica e psicologica che ne
evidenziano il retroterra genetico. Concentrando un insieme di temi
che troveranno ampiezza di verifica ne 11 caso Wagner, Nietzsche scri­
ve in un frammento dell’85-86:

76 «Molto tempo prima dei dittatori la nostra epoca ha prodotto la venerazione spi­
rituale dei dittatori. Vedi George. Poi anche Kraus e Freud, Adler e Jung. Aggiungici
Klages e Heidegger. L’elemento comune è certo un bisogno di dominio e di guida, del­
l’essenza del Redentore. Ci sono anche tratti comuni nei duci? Per esempio saldi valori
nei quali tuttavia si possono intendere cose diverse» (Diari, pp. 1324-1325). Si noti che
tutti i nomi citati seguono, secondo Musil, una filosofia che innalza a principio dell’or­
dinamento un elemento dell’immediatezza. L a stessa dinamica mentale sta alla base
dell’affermazione di Hider, immediatezza in sé caotica che si fa Führerprinzip'. «Hitler:
emozione diventata persona, emozione che parla. Eccita la volontà senza meta» (Diari,
p. 1068). Cfr. anche «Hitler, l’uomo del destino. Forse: l’uomo che aveva in sé il caos»
(Diari, p. 1483).
77 L’espressione, che concentra l’intenzione polemica della filosofia di Klages, si
trova in Geist und Seele (Sämtliche Werke, Bd. III, p. 59). Anche qui, centrale è per
Klages una lettura semplificatoria de La nascita della tragedia, con l’emergere del prin­
cipio intellettualistico-socratico come dissoluzione della bella e immediata totalità co­
munitaria. Sulla connessione stretta con temi nietzscheani si veda soprattutto Das Pro­
blem des Sokrates (ivi, pp. 656 ss.): Socrate, nemico dell’istinto, valorizza lo spirito, la
ragione calcolante e il senso della Zweckmäßigkeit, vede l’intera natura sotto il profilo
dell’utile ecc.
208 II genio tiranno

Cominciai con un’ipotesi metafisica sul senso della musica, ma vi era alla
base un’esperienza psicologica di cui non sapevo dare alcuna spiegazione stori­
ca sufficiente. Trasferire la musica nella sfera metafisica fu un atto di venera­
zione e di gratitudine; in fondo tutti gli uomini religiosi hanno fatto così, fino­
ra, con la loro esperienza interiore. Ma poi ci fu il rovescio della medaglia:
l’effetto innegabilmente dannoso e distruttivo di questa stessa musica venerata
su di me e con ciò anche la fine della venerazione religiosa per essa. In tal mo­
do mi si aprirono anche gli occhi sul bisogno moderno di musica (che appare
nella storia contemporaneamente al crescente bisogno di narcotici) (FP 1885-
86, p. 105).

L a dissoluzione critica delTincantesimo di M eingast, come pure


l’antagonismo di Ulrich verso ogni cedimento alla pressione dell’irra­
zionale e deH’immediatezza («a m odo mio sono anch’io radicale e mi
adatto a qualunque genere di disordine piuttosto che a quello intellet­
tuale») (USQ, p. 475) nella ricerca di qualche punto fermo dei valori,
sia esso la comunità ideale del germanesimo antisemita di H ans Sepp,
sia l’«anim a» di Diotima, appartengono alla continua, lucida resisten­
za opposta da Musil, e testimoniata dai D iari, alle nuove forme di do­
minio ed alla sublimazione etica ed eroica che le sosteneva. D i fronte
alla dittatura dispiegata dello stato e dei suoi apparati, Musil cerca an­
cora una volta in Nietzsche (che pure è coinvolto dalla «canaglia da
lui allevata») e nel suo intellettualismo la forza critica e disgregatrice
del mito e dell’ideologia attraverso cui passa la volontà di potenza che
semplifica il caos in una rigida Rangordnung, ma che esprime conti­
nuità con l’ordine normale perché mantiene il carattere caotico-atavi-
co dei sentimenti. L’antitesi di cultura e potenza tracciata da Musil ne­
gli ultimi anni, ripropone una adesione a Nietzsche, il Nietzsche che
nel rafforzam en to del R eich, d o p o il ’70, vedeva sulle orm e di
Burckhardt, anch’esso rimediato da Musil, un pericolo mortale per la
vitalità della cultura. L a m oderna politica è l’emergenza di un lato
oscuro della cultura che poi impone cesaristicamente la sua parzialità
al tutto (la burckhardtiana epoca dei grandi semplificatori). La vittoria
di questa politica (che può apparire come la politica) va addebitata al
ritardo nel lavoro di vivisezione dello spirito che non ha toccato zone
profonde, che si esprimono ora con i mezzi violenti dell’immediatezza:
Politica e cultura: una parte degli uomini crede ancora oggi di partecipare
alla vita come a un’istituzione più o meno civilizzatoria, l’altra ha l’impressio­
ne di un incendio o qualcosa del genere. E naturale che allora uomini robusti
con idee semplici prendano il comando. E l’Europa del resto non è del tutto
Robert Musil: una lettura «inattuale» di Nietzsche 209

immune da pericoli! Gli errori principali stanno nell’intervenire sulla dimen­


sione culturale alla maniera del quartier generale della stampa di guerra; nel
fatto che la cultura non è arrivata prima alla profondità dalla quale questi uo­
mini provengono; infine nel fatto ch’essi c’erano già prima del panico, dell’in­
cendio, e prima che fossero seriamente tentati dei rimedi pacifici. Anzi, si
aveva l’im pressione che a tali rimedi non si fosse assolutam ente fatto
ricorso78.

L a cultura, se non ha saputo fare in tempo opera di analitica disse­


zione dei fenomeni che si presentavano come caos e tumulto «etico»,
mantiene ancora il movimento critico, incoercibile (con immagine tol­
stoiana Musil dice: «la cultura: erba che viene continuamente calpe­
stata e ogni volta torna diritta»).
L a critica di Musil gioca ancora con gli strumenti dell’antiwagneri-
smo di Nietzsche. In particolare Musil utilizza la caratterizzazione
nietzscheana dell’attore-Cagliostro, tiranno suscitato dall’epoca di de­
cadenza ma decadente egli stesso, per la contradditorietà, il caos, la
«falsità» dei suoi istinti. Tornano così negli ultimi anni i temi de II ca­
so Wagner, già presente nel primo quaderno dei D iari e, in prim o pia­
no, l’affermazione di Talma « Quel che deve agire come vero non può
essere vero» 79. L’atteggiamento che si lega alla pretesa dell’autentico,
della naturalezza, dell’immediatezza è lo strumento efficace per un
dominio che si realizza attraverso il rapporto teatrale con la massa (si
agitano i sentimenti senza trasformarli). L a categoria, inventata da
Nietzsche, del carlylismo per definire l’eroe romantico generato dalla
debolezza, dalla stanchezza, circondato e sorretto dal fanatismo reli­
gioso e opposto al superuomo80, diventa il supporto critico di fondo
per affrontare il fenomeno hitleriano, una unificazione degli uomini al

78 Diari, pp. 1326-1327. Per il contrasto cultura-stato in Nietzsche cfr. almeno


GD , p. 102: «L a cultura e lo stato - non ci si inganni in proposito - sono antagonisti:
“stato di cultura” è soltanto un’idea moderna. L’una cosa vive dell’altra, l’una cosa pro­
spera a spese dell’altra» citato da Musil già nel primo quaderno dei Diari (p. 52).
79 Diari, p. 45 (WA, pp. 26-27). Cfr. Diari, p. 1338: «L'epoca dell’attore. H o ripetu­
tamente rinviato a questa realizzata profezia di Nietzsche. Per capirsi: caratteristica del­
l’ipertrofia dell’attore è l’effetto momentaneo, il fatto che esso non è e non può essere
elaborato, il che è connesso a tutte le chiacchiere sul bello come godimento, esperienza
vissuta e simili. In altre parole: mancanza e disfunzione del sistema di idee...». Hitler è
quindi il «pagliaccio che diventò pagliaccio sanguinario» {Diari, p. 1379).
80 GD , pp. 115-1 16 e, per la differenza dal «culto degli eroi» alla Carlyle e l’affer­
mazione nietzscheana del «superuomo», cfr. EH , p. 309. Sotto la rubrica Carlyle si tro­
vano nei Diari di Musil le critiche al fenomeno hitleriano.
210 II genio tiranno

livello più basso81, una fissazione del caos che risponde al bisogno di
fede e all’ansia decisionistica dell’epoca.
L’individualismo del «Lontano dall’oggi»82 e l’interruzione forzata
della ricerca del nuovo ordine non costrittivo, è determinata dal pre­
valere dei caotici ordinatori del caos, non da un atteggiamento teorico
di Musil.

81 « Carlyle: H a unificato gli uomini, ma a quale basso livello» (Diari, p. 1341).


82 «Titolo possibile per l’edizione dei miei saggi: Lontano dall’oggi» (Diari, p. 1218).
11 tema dell’isolamento e del distacco critico dal proprio tempo percorre gli ultimi qua­
derni dei Diari: «Extraterritorialità dell'uomo dello spirito è il giusto termine in questo
tempo di sangue, di terra, di razza, di massa, di Führer e di patria» (Diari, p. 1338).
Indice dei nomi

Adler, A., 207n Borgia, C., 152n


Adorno, Th. W., 62n, 95n, 179n Börne, L., 70n
Allason, B., 16n Boulez, R, 69n
Amendola Kühn, E., 26n Bourget, P., 11-12, 15-16, 16n, 17, 17n,
Andler, Ch., 158n 136, 136n, 137n, 143, 146n, 190n
Arcari, P., 34n Bréal, M „ 120n
Archiloco, 79 Brehm, A.E., 156
Aristotele, 58 Brelich, A., 79n
Averroè, 14 In Brunschwigc, L., 120n
Bruse, K.-D., 66n
Bach, J.S., 68, 68n Burckhardt, J., 45, 45n, 46, 46n, 47, 47n,
Bachtin, M., 190n 48-49, 51-52, 52n, 53, 53n, 82, 85,
Badaloni. N., 185n 85n, 86-88, 88n, 89-90, 90n, 91, 110,
Balzac, H., 12 137n, 193,208
Barbera, S.,7, 11-12, 184n
Barbey D ’Aurevilly, J.A., 136, 136n Cabanis, P.J.G., 75, 121n
Baudelaire, Ch., 12-18, 71n Cabet, E., 131
Baeumler, A., 183 Cacciari, M., 28n
Beethoven, L. v., 63-64, 64n, 73, 74n, 77, Campioni. G., 7,11-12, 175n
85,202,204 Carlyle, Th., 22, 209n, 210n
Benjamin, W., 14 Carpitella, M., 45n
Bergfeld, 44n Cases, C., 15n
Berlioz H., 63 Cento, A., 14 In
Bernard, C., 16, 11 In Cesare, 152
Bersot, E., 39n Chamfort, N., 27
Berthelot, M., 141n Chamberlain, H.S., 38n
Bertolini, V., 67n Chéreau. P., 69n
Bertram, E., 16, 17n, 183 Cogni, G., 38n
Bichat, X., 75 Colin, R.-R, 137n, 140n
Bianchi, B., 15n, 84 Colli, G., 9, 16n, 26n
Bierer, D., 44n Colombo, C., 63
Bismarck, O. v., 53n, 154 Comte, A., 137, 142, 146, 148
Blanqui, A., 191n Coppellotti, E , 67n
Bloch, E., 66n Cousin, V., 121, 121n, 122, 122n, 123n,
Bobbio, N., 95n 125n ,129
Bohr, N., 170 Cozzi, A., 62n
212 II genio tiranno

Custine, A., 12 Gautier, Th., 17


George, S., 207n
Dante, 203 Gersdorff C. v., 86, 87n, 94n
D ’Annunzio, G., 201 Goethe, J.W., 3 In, 74n, 158, 168n, 169,
Darwin, C h „ 153-155, 155n, 156, 158, 174
160 Goncourt, 12,22n, 136, 145n
D e Angelis, E., 10, 186n, 198n Gregor-Dellin, M., 13n, 41n, 65n
D e Lorenzo, G., 28 Guyau, J-M ., 142
Democrito, 114
De Sanctis, E , 28n, 3 4 ,34n Flanslick, E., 74n
Deussen,P., 110, 118 Flartmann, E. v., 12, 155, 157
Devrient, E., 13, 13n Hegel, G.W.F., 49, 88, 121n, 154
Digeon, Ch., 54n Heidegger, M., 207n
Dollfus, Ch., 140n Hitler, A., 207n, 209n
Doss, A.L. v., 137n Hobbes, Th., 154
Dostoewskij, E , 12,43n, 135n Hoffmann, E.T.A., 70, 70n, 71, 71n, 73,
Doudan, X., 12, 136, 136n 73n,74n
Drumont, E., 44n Hölderlin, E , 179
Du Camp, M., 35 Horkheimer, M., 34
Dühring, E., 12, 158 Hübscher, A., 33n, 34n, 155n
Du Mont, E., 155n Hugo, V., 22
Humboldt, A. v., 1 2 3 ,123n
Epimenide, 79
Eraclito, 102 Janz, C.P., 193n
Eschilo, 80 Jung, C.G., 207
Euripide, 79, llOn Jünger, E., 176n

Faggin, G ., lOln Kaegi, W., 46n


Fechner, Th.G., 157 Kant, I., 49, 56, 100, 118, 149, 150n,
Feuerbach, L., 60-61, 95n 155n ,187
Fichte, J.G ., 14 In Kerényi, K., 7 9 ,79n
Filippini, F., 190n Klages, L ., 183, 196, 198n, 203n, 204,
Flaubert, G ., 12, 35, 128, 150n, 151, 204n, 205n, 2 06,207n
15 In, 190n, 191n Kraus, K., 207n
Förster-Nietzsche, E., 85n Kropfinger, K „ 66n
Fouillé, A., 140n Kölliker, A., 157
Fourier, Ch., 131
Francesco (San), 203 Lamarck, J.B., 157
Franchetti, E., 179n Lange, F.A., 88n, lOln, 118, 119n, 120,
Frauenstädt, J., 34, 34n 1 5 3 ,1 5 7 ,157n, 1 5 8 ,158n
Freud, S „ 60,207 Laplace, P.S., 155n
Frisé, A., 1 0 ,180n, 189n Lemaître, J., 1 3 6 ,145n
Fuchs, C., 15 Leroux, P., 42n, 131, 131n, 132
Fustel De Coulanges, N.-D., 55n Licurgo, 132n
Loos, A., 1 6 3 ,1 7 8 ,178n
Gadamer, H .G ., 11 Lowith, K., 52n
Galiani, E , 139n Ludwig, di Baviera, 94
Gall,J.-F., 121n Lukàcs, G ., 28n
Gargani, A., 178 Lusema, E., 60n
Ìndice d ei nom i 213

Lutero, M., 49,174 Poggi, V., 69n


Pommier, J., 126n
Macchia, G., 69n Pozzi, R., 54n
Mach, E., 177n, 183-184, 184n, 185, 185n Prado, 193
Machiavelli, N., 152n Preen, F. v., 45n, 51n, 52, 53n
Mainländer, 12 Psichari, FI., 10
Mallarmé, S., 69n
Manacorda, G., 112n Quatremère, E., 121
Mangini, M., 13n
Mann, Th., 69, 69n, 80, 172-173, 173n, Rèe, P., 155
174, 174n, 175, 1 83,183n Refort, L., 123n
Mansuy, M., 147n Renan, H., 125
Mack, D .,41n Ribot, Th., 177
Marianelli, M., 174n Rho, A., 10
Masini, E , 190n Rohde, E., 7 9 ,79n
Mayer, H., 15n, 84n, 91n Romano, M., 190n
Meyerbeer G ., 63 Romieu, A., 5 In
Michelet, J., 40n, 123, 123n, 126, 191n Rossini, G., 6 3 ,66n
Mila, M., 14n Rotschild, A. de, 44n
MÜ1J.-S., 142 Rousseau, J.-J., 4 4 ,176n
Mittasch, 15 8n Roux, W., 12, 158, 158n, 159, 159n, 160,
Monnier, L., 35n 160n
Montanari, M., 64n
Montinari, M., 9, 11, 16n, 26n, 38n, 45n, Sainte-Beuve, Ch.-A. de, 12, 128
51n, 85n, 90n, 142n, 181n, 193n Salaquarda, J., 157n
Morellet, E, 139n Sand, G., 150n
Morin, E , 155n Sans, E., 91n
Mozart, W.A., 63,73 Savj-Lopez, P., 28
Müller-Lauter, W., 158n Schiller, E , 15n, 67, 115, 119, 152
Schlechta, K., 180n
Nägeli, C.W. v., 157 Schopenhauer, A., 13, 26-28, 28n, 29,
N apoleone I, 126-127, 151-152, 152n 29n, 30, 3 In, 32-33, 33n, 34, 34n, 36,
193,206 37n, 38, 38n, 44-45, 51-52, 57-58,
Newmann, E., 64n, 70n, 93n 64-65, 66n, 67, 67n, 68, 73, 74n, 75-
Novalis, 70n 77, 81, 83, 83n, 84, 86-87, 87n, 88,
88n 92-93, 93n, 94, 94n, 100-101,
Orlando, E , 112n lO ln , 102, 109, 111, 1 14n, 137n,
Overbeck. E , 180 140, 140n, 141n, 154, 155, 155n 158,
Ozanam, A.-E, 40, 40n 204n, 207
Seydlitz, F.W. v., 166n
Parodi, D., 120n Shakespeare, W., 67-68, 73, 78, 85
Pascal, B., 27 Socrate, 110, llOn, 114, 119,207n
Petit, J., 136n Soman, M., 121n
Petruzzelli, E, 10 Sorel, G., 40n
Pilato, 135n Sosio, L., 185n
Pinelli, C , 70n Souvestre, E., 40n
Platone, 206 Spencer, H., 142, 155-157
Pocar, E., 22n Spini, D., 70n
Poe, E. A., 17-18 Spinoza, B., 1 8 0 ,180n
214 II genio tiranno

Spitzer, L., 69n Uhlig, 15, 15n, 23n


Staël, Mme de, 123n, 125n, 14 In
Stein, H. v., 14, 70n Vecchiotti, I., 28n, 74n
Stendhal, 11-12, 109, 145, 158 Viard, ]., 42n
Strauss, D.F., 39, 39n, 40n, 41, 41n, 42, Vincens, Ch., 139n
86,153-154 Virchow, R., 158
Voltaire, 136n, 176n
Taine, H., 11-12, 16-17, 22, 22n, 46n, 48,
109, 146, 146n, 147n, 152n, 158, 177n Wagner, C., 41, 41n, 53, 68n, 71n, 74n,
Talma, 204 8 6 n ,11In,155n
Tarde, G., 191n Wapnewski, P., 68n, 70n
Tedeschi Negri, E , 52n Wesendonck, M., 68, 68n, 77n, 80, 81n
Tocqueville, A. de, 3 5 ,35n, 36,48 Westernhagen, C. v., 64n, 68n
Tolstoj, L., 12,43n, 135n, 204, 204n Wittgenstein, L., 178
Torchi, L., 59n
Tosti-Croce, M., 91n Zambrini, A., 69n
Trélat, U., 36 Zenone di Elea, 47
Treves, A., 119n Zola, E., 22
Zöllner, E , 115, 115n, 116, 116n
Indice

N o ta alla presente edizione 1

A vverten za 9

Prefazione , di Mazzino Montinari 11

1. I l gen io e la città: Schopenhauer; Wagner, Nietzsche 13


1. Una fine a Parigi 13
2. L a campana di vetro del genio 26

2. Il romanticismo e la macchina 39
1. L a forza produttrice di miti. Wagner lettore di Renan 39
2. «Sentimento di autunno della civiltà» 45
3. La «guerre savante» 52

3 . I l illusione e la musica 57
1. Wagner: forma e rivoluzione 57
2. Il «sogno vero». L a filosofia della musica 64
3. Apollineo e dionisiaco: una fisiologia del mito 76
4. Wagner a Bayreuth. Burckhardt contra Wagner 82
5. L’illusione e la comunità 91
6. L a civiltà dello spirito libero 101

4 . I l romanticismo e la scienza: Nietzsche, Wagner, Renan 109


1. L a barbarie del lavoro diviso 109
2. L a metafisica come «vacuum ».
La dissoluzione del fondamento romantico 117
3. Un modello scientista di società: l’«Avenir de la science» 120
216 II genio tiranno

5. I l caso R en an . «D u e an tip o d i» 135


1. La società devota 135
2. Tiranni artisti, tiranni positivisti 146
3. Egemonia e lotta: approssimazioni alla «volontà di potenza» 153

A p p en d ice:
R o b ert M u sil: una lettu ra « in attu ale » d i N ietzsch e 163
1. «M orale matematica» o la forma delle contraddizioni 163
2. L’incantatore sassone: musica e volontà di potenza 189

In dice d ei n om i 211
Finito di stampare nel mese di febbraio 2010
in Pisa dalle
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19,1-56126 Pisa
info@edizioniets.com
www.edizioniets.com

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