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Giovanna Gulli

Memmo ; Un cane

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TITOLO: Memmo ; Un cane


AUTORE: Gulli, Giovanna
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
CODICE ISBN E-BOOK: n. d.

DIRITTI D’AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
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COPERTINA: n. d.

TRATTO DA: Memmo ; Un cane / Giovanna Gulli. - Fa


parte di: Il convegno : rivista di letteratura e di
tutte le arti. Milano : [s. n.], 1920- (Milano :
Bellasio). – anno XIX [1938] nn 5-7 p.191-202.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 21 febbraio 2023

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1

2
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)

DIGITALIZZAZIONE:
Paolo Alberti, paoloalberti@iol.it

REVISIONE:
Gabriella Dodero

IMPAGINAZIONE:
Paolo Alberti, paoloalberti@iol.it

PUBBLICAZIONE:
Catia Righi, catia_righi@tin.it
Claudia Pantanetti, liberabibliotecapgt@gmail.com

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4
Memmo...........................................................................7
Un cane.........................................................................11

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Giovanna Gulli

MEMMO

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Memmo

Era nato con una implacabile oftalmia. E con una


disperata avversione per i cani. – Figlio di un cane! –
glielo ripetevano sempre. Però era figlio di suo padre.
Quell’uomo lercio, grande, con un insopportabile labbro
leporino lo sapeva perchè il gemito della verginità
moribonda della sottile figlia di Marco l’aveva veduto
lui e non un altro; anzi aveva anticipato. Rosa allora era
magra; ora era bolsa.
La campagna era la gran casa. Vagabondava e
trafiggeva coleotteri. I punti fluidi e violastri
dell’orizzonte gli parevano lontanissimi. Nel largo
riflesso guardava i nenufari. Puzzava di nepitella.
Ascoltava la stupenda elegia degli uccelli.
La meravigliosa policromia gli faceva spuntar sulle
labbra un sorriso ebete.
Rubava mele, fichi, uva; grasse manciate d’erba nella
terra degli altri.
Scappava ridendo quando lo scoprivamo,
comprimendosi i battiti per la fatica dolorosa del
diaframma. Quando vedeva un cane randagio emetteva
un grido di squilibrio e fuggiva fra le macchie
scurissime. Se poteva gli gettava dietro tremando dei
sassi. Odiava il sole, perché gli inquinava gli occhi

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verdastri. Aveva le gambe un po’ divaricate.
Guardava le stelle. Qualche volta abbracciava
furiosamente le pecore della mandra di suo padre, con
tenerezza. Qualche volta faceva grande olocausto di
lucertole gialle come l’itterizia. Qualche altra non faceva
niente.
Aveva nove anni.

Per la sua casa passavano uomini grandi, lerci, forti
come suo padre. Erano tutti amici di suo padre. Massari
meridionali, scuri, caldi, violenti. Giocavano alla morra,
la sera fino a quando i silenzi divenivano perfetti.
Sua madre aveva i capelli neri, spartiti alla vergine,
gli occhi lucidi, le gonne ampie, le mani sottili. Memmo
la guardava con una timidezza impressionante. Aveva le
carni pallide. Si spogliava e si vestiva dinnanzi a lui.
Egli la fissava ebete, con un ringhio di deferenza
inconscia. I suoi occhi verdastri rigavano, quando ella lo
batteva, grosse lagrime di rassegnazione. Rosa si
sfogava. Non sapeva che cos’era il pudore, perchè don
Giuliano quando sul pulpito faceva la predica diceva: La
vergogna figliuole... – Si sentiva padronissima di
raggavignarsi con chi più le piacesse. Rude etera, non si
curava dei vocaboli intimissimi che le lanciavano in
pieno viso le paesane e continuava a sorridere, e a
portare i capelli alla vergine.
Ella aveva un sorriso di esasperante dolcezza.

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Memmo quando si annoiava di contemplar
fuggevolmente la plasticità degli invarianti quadri,
scappava per la campagna con un grido di forte
indifferenza...

Un giorno la casa della Piana si spalancò. Per ospitare
il padroncino che veniva per la stagione della caccia.
Era sottile, biondo, elastico. Regalò degli spiccioli a
Memmo. Memmo che non parlava mai emise una lunga
frase di sordida gioia. Contemplò il fucile fiammante
del padroncino e la carniera nuovissima e sgonfia. Gli
uccelli rafforzavano l’elegia. Più dolce. Più beffarda. Il
padroncino si sedeva davanti alla sua casa. Discorreva
con Rosa. L’esigua fossa di Memmo era piena di
spiccioli luccicanti. Li covava con gli occhi inquinati.
Poi, Lupo, gli disordinò le idee furiosamente. Scappò a
nascondersi per la campagna. Il padroncino rise e
carezzò Lupo. Lupo divenne l’ossessione di Memmo.
Quel cane alto, scuro, pasciuto, mise il terrore nel suo
cuore insulso. Poi l’odiò. Un pomeriggio gli tirò a
tradimento un sasso e il cane saltò inferocito. Memmo
fuggì. Lupo lo raggiunse e gli stracciò i calzoni
allampanati.

E Memmo corse, corse. La casa della Piana pareva
piccola. La mandra pascolava libera, bianca, forte...

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Sembrava una cartolina di gran pace. Memmo era
livido... — Pà... il padroncino tiene la mamma...
Il massaro che mordeva il freno entro la bocca serrata
insorse, e vide tutta la mandra rossa...
— Ah! figlia di un... – Inghiottiva sempre. Con un
gran gesto di furore falcò il cielo. Dopo corse... anche
lui... con la falce alzata verso la Piana. Memmo lo
seguiva a gran salti fischiando...
La porta era chiusa. Il massaro battè con la falce.
Memmo fissò spaurito il tramonto rosso.
— Apri... – gorgogliò il massaro – apri!...
La porta della stalla sbatacchiò... Memnio vide
l’ombra nera di Lupo fuggire, fuggire. Rosa aprì. Il
massaro si precipitò con la falce. Rosa rise pallidissima
ma alzò le mani per proteggersi il viso. Il massaro
annaspò l’aria con la gran falce... – Era qui...
Rosa gridò affannosamente. – Pazzo, pazzo siete...
L’ennesima scenata. La scriminatura alla vergine era
perfetta; il sorriso dolce... Il massaro respirò
terribilmente poi gettò la falce lontano, in un gran
circolo di vuoto.
Memmo guardava ebete. Il massaro lo fissò
tetramente, poi si avventò, la prese per i polsi, lo
rovesciò e gli diede due terribili calci nelle natiche.
Memmo si svincolò con un ringhio.
Con la pagliaccesca divergenza delle sue gambe,
tenendosi le cosce, raggiunse la porta di casa, in
silenzio.
E si mise a contemplare desolatamente le stelle.
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Un cane.

Appena aprì gli occhi vide il sole. Quel sole bruciante


gli impresse nello sguardo grigio un’ombra di grande
perplessità. Si volse abbacinato dall’altra parte e
incontrò un altro sguardo grigio accorto lungo quasi
tenero; ed egli si accovacciò ancora più vicino alla
madre. Ella lo lisciò con lo sguardo fermo in un punto
distante ed il cucciolo incominciò a succhiare
avidamente: si arrestava affannato, e respirava l’aria, poi
ricominciava ingordo più in furia. Si saziò e si
addormentò.
Quando si svegliò il sole era velato da gran nuvole. Il
cucciolo sentì che nell’aria silenziosa mancava qualche
cosa. Qualche cosa di luminoso assai. Fece un piccolo
guaito di malinconia e cercò sua madre. La vide
attraverso gli occhi socchiusi, con fatica che stava un
po’ lontano in piedi sull’erba fresca: forte, scura.
Scondinzolava stanca e pareva assorta. Allora il
cucciolo guaì più forte, lamentosamente. La cagna si
volse, guardò un punto indefinito poi corse a piccolo
trotto verso di lui...

Vide di nuova il sole; fasci grandi di paglia e nel


biondo pallore rilucere l’erba folta e cupa; un cavallo

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libero che beveva in un rivo d’acqua lontano; aria alta,
buona, cilestre; poi tegole rosse, scarlatte, schiacciare
dei grossi tetti scalcinati e bassi; chiarezza lunga, bianca
divergente di strada; ascoltò il silenzio, annusò il caldo
cantuccio, fissò sua madre e se stesso. Inconsciamente si
specchiò nello sguardo grigio e accorto di sua madre e si
premè con le zampe un po’ aride il petto. Poi si divertì
immensamente a ruzzare. I suoi occhi stupidi e larghi si
portarono ancora nel sole ed egli si sentì beato. Gli
parve il sole la più bella cosa del mondo. Sebbene non
riflettesse. Le idee erano piccole, labili, eteree. Il
cucciolo non le afferrava. Sentì nitrire il cavallo e
ascoltando l’eco smise di ruzzare. Cercò con timidezza
sua madre. La cagna lo guardò e gli si accovacciò
rumorosamente vicino. Il sole saliva e si faceva più
caldo. Una lucertola sottile fuggì e la cagna e il cucciolo
la fissarono attenti fra l’erba tenerissima; poi udirono
delle voci; il piccolo ebbe un lieve tremito di paura e si
nascose tutto fra le coscie della madre. La cagna invece
abbaiò con impazienza. Il cucciolo chiuse gli occhi.
Li riaprì, larghi quando si sentì avvinghiato
bruscamente e portato in alto. Si voltò verso sua madre;
la cagna si era alzata; stava ferma, silenziosa, con le
orecchie puntite.
— Ma è bastardo costui... – gridò la voce esasperata
di Rosario Delchi. – Figlio d’un cane, che razza di
bestia è questa?
Il cucciolo allargò lo sguardo mansueto e guardò
l’uomo. La cagna abbaiava e s’era avvicinata con
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lentezza. L’uomo la fissò obliquamente con
indignazione. Disse alcune parole a voce bassa e
brutale, poi sempre con lo sguardo aggrondato le
avventò una pedata. La cagna guaì e si allontanò di
corsa.
Tornò all’impazzata, facendo volare dei fuscelli di
paglia e si fermò protesa a pochi passi, fissando Delchi
ipnoticamente.
Il cucciolo guardava sempre colui che lo teneva. Era
piccolo, calvo, con gli occhi incavati grossi e sfuggenti; la
fronte alta rugata e vecchia, la bocca suppurata di
bollicine bianche, le orecchie completamente sbandate dal
viso.
Aveva una camicia sporca di terriccio, strappata e
macchiata sulla spalla destra. Per la pressione
quotidiana di qualche cosa di pesante. Affiorava dalla
stracciatura la clavicola infossata straordinariamente
con la pelle avariata di un colore d’ocra intenso. La
camicia era aperta sul petto stretto velloso biondiccio e
sporco. Egli si rialzava ad ogni movimento i calzoni
ampi rimboccati che gli sfuggivano dalla cintura laida e
scuoiata. Il cucciolo respirava con difficoltà. – Troia! –
Ruggì l’uomo all’indirizzo della cagna. La madre era
immobile ed assorta. Egli con un gesta d’ira rotolò a
terra nel cantuccio caldo, il cucciolo. Il piccolo guaì.
L’uomo sputò dinnanzi a sè guardando di traverso la
cagna indifferente.
— Belle porcherie che fai tu!... – E le avventò
un’altra pedata, ma la cagna sveltissima fuggì. Egli
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strofinò l’uno contro l’altro i piedi nudi e sformati.
Lanciò un fischio acutissimo. La cagna tornò correndo
forte.
— A cuccia! – sibilò egli rude. La madre ubbidì; si
rovesciò bonariamente presso il cucciolo che cercava,
col suo sguardo stupido e largo, di afferrare un’idea che si
coordinava, ma poi sfuggiva implacabilmente. L’uomo
mormorò qualche cosa e rise. La cagna abbaiò
allegramente. Egli continuò a ridere. Il riflesso dell’idea
afferrata affluì negli occhi grigi del piccolo: gli parve
l’uomo qualche cosa d’immenso. E guaì anch’esso
festosamente.

I ragazzi scalzi e prepotenti della mezzadria gli


insegnarono a furia di pedate, che si chiamava Tuffolo. I
più grandi gli gridavano Bastardo, e il cucciolo si
voltava egualmente. Egli non sofisticava sul gioco delle
parole. Correva nel sole, spaventava lucertole,
provocava gatti randagi, andava, veniva, libero. Subiva
tutti pazientemente. Restava perplesso quando si
avvicinava all’impazzata, con una vivida dilatazione nel
cuore ebbro di generose pulsazioni, che l’uomo lo
mandasse a gambe all’aria con una pedata. Ma i suoi
chiari occhi grigi, non riflettevano nulla. Imparò
d’istinto a girare al largo. Le sassate tirate col bersaglio
rapidissimo della distruzione lo facevano fuggire a testa
bassa, ansante. Vagabondava allora come un cane
sperduto. L’aria, il verde, il sole gli glorificarono la
piccola vita incipiente e brutta. Tuffolo non

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comprendeva nulla. Le idee piccole o grandi, lievi o
forti, prendevano nel suo cervello un principio di
intensa coalizzazione, ma nel tumulto svanivano
inevitabilmente. Tuffolo non sapeva di esserlo, ma si
sentiva meschino. Era brutto. Di questo aveva colpa sua
madre. Il senso spiccato dell’osservazione che gli
stupiva continuamente lo sguardo grigio, se fosse
passato dritto al cervello, avrebbe fatto cadere Tuffolo
implacabilmente nella psicologia. Sarebbe stato un cane
infelice. Invece Tuffolo era un saggio.
Un giorno venne alla mezzadria un uomo lungo,
vestito di scuro, giallo, nervoso. Riempì l’aria di grida
furibonde. I contadini tacevano sornioni e prudenti.
Quell’uomo nervosissimo aveva due occhi scuri e
grandi e un naso assai lungo. Nonostante che tremasse
di collera, carezzò con dolcezza Marzia la bella cagna
scura. E diede un calcio nella pancia a Tuffolo. Però nel
pomeriggio, per un indescrivibile capriccio della sua
psiche malata, prese con sè Tuffolo.
Il cucciolo andò con quell’uomo che aveva le mani
strette e femminee. La città era grande, disordinata,
pesante, immensa. Pioveva. Tuffolo provò un acuto
stordimento. Esso inoltre sentiva un vago terrore.
Seguiva l’uomo legato al leggerissimo guinzaglio, e i
suoi piedi affondavano nelle pozzanghere. Era guidato
ma faceva passi a caso, quieto.
Nelle strade secondarie un po’ smorte affondava nel
fango. Vedeva muri, muri, muri. Non un filo di verde in
quella distesa. Tuffolo rimaneva muto. Non riusciva a
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pensare niente. Dopo varcarono una soglia pulita, dove
tutto era tranquillamente borghese. Venne loro incontro
una creatura luminosa.
— Giacomo sei tu? – domandò una voce dal timbro
dolce ed incantevole.
L’uomo rispose sottovoce bruscamente. Ella alzò le
spalle. Abbassò gli occhi e scoprì Tuffolo. Rise.
— Un cucciolo... dove l’hai pescato? Nel fango?
S’inginocchio per guardarlo meglio. Tuffolo
istintivamente si scrollò.
Una voce di fango schizzò fra i bei capelli della
signora.
— Ma è un mostro, costui! – gridò ella e si alzò
disgustata.
Giacomo taceva, in piedi, le spalle voltate alla
finestra. Un bimbo entrò nella stanza e si fermò con un
grido di meraviglia vicino a Tuffolo. Il cucciolo appuntò
le orecchie e fece due o tre passi per annusare le scarpe
lucide del fanciullo. Il fango schizzava ad ogni scrollata,
sul pavimento. Il piccino, felicissimo, con un gesto
disordinato, ghermì il cucciolo.
La signora rimase agghiacciata d’orrore.
— Che schifo... Su Rico, mandalo via... Buttalo...
Buttalo tesoro... Ah... Signore...
Il bimbo insudiciandosi tutto gridò un «No!»...
assoluto e prepotente e strinse Tuffolo fieramente sul
petto.
— Lascialo... se no ti picchio! – ordinò alterandosi la
madre. Il piccolo intontito scoppiò in un pianto
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disperato. Giacomo si volse; gli occhi neri e larghi erano
ironici; la Signora lo fissò con disprezzo. E scoppiò la
disputa. Il bimbo tacque. Tuffolo, nella stretta feroce
delle due braccia infantili, ascoltò guardando fissamente
il fango sul pavimento.

S’installò, perchè il signorino lo voleva in quella


casa. Lo pulivano perchè doveva giocare col signorino.
Lo nutrivano e gli era cresciuta la pancia. Era ridicolo
ma era beato. Qualche volta cercava delle luminosità.
E sentiva nel petto la dilatazione del cuore; l’innata
filosofia gli procacciava la calma.
Il signore lo mandava sempre a gambe all’aria. I
servitori lo chiamavano bastardo, ma il padroncino lo
chiamava Tuffolo, lo stringeva miseramente e lo
torturava in ogni modo. Qualche volta l’istinto si
ribellava e il cane mostrava i denti forti, puntiti, bianchi,
ferocemente. Però il signorino lo batteva lo stesso.
Assisteva a delle scene d’amore. Con gli occhi grigi ne
vedeva la crudezza. Ciò gli procurava una pulsazione
tenera ed abbaiava a lungo. Qualche volta non erano le
mani strette e femminee che stringevano la creatura
luminosa, ma esso si sentiva struggere lo stesso e guaiva
con dolcezza.
Vi era un uomo alto, quadrato, severo, che non
guardava mai la donna e faceva invece ad esso qualche
carezza distratta.

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Vi era un altro uomo piccolo, tutto capelli, vestito di
nero, che gridava inorridito appena lo scorgeva da
lontano.
Il cucciolo perplesso, cercava l’idea che fluttuava
vagamente nell’occhio mansueto. Ma forse solo ad un
cane intelligente è dato di cogliere a volo i pensieri saldi
e fermi e di riflettere che la cinofobia è detestabile e che
esistono uomini al mondo chiusi impunemente nella
misoginia.
Da molto tempo si trovava in quella casa. Una notte
era di plenilunio. Vi era una porta aperta e Tuffolo
scivolò nella via. Calmissimo respirò e guardò
curiosamente la luna piena. Provò un gran senso di
frescura e di pulizia.
I muri, le vie, il silenzio, la luna, tutto a Tuffalo parve
estremamente pulito. Le vie erano selciate e dure ed
esso proseguiva a piccolo trotto. Non faceva freddo,
perchè era una bella notte di primavera; ma se Tuffolo
vedeva un uomo nell’ombra, lo vedeva camminare in
fretta, col cappello sugli occhi, con le mani sprofondate
nelle tasche, col bavero alzato come se tremasse,
Tuffolo si fermava, protendendosi col collo stirato,
annusando. Quello non lo guardava. E Tuffolo tirava
via.
Era pure una nottata dolce. Raggi lunghi di luna
carezzavano le case. In un angolo di strada Tuffolo vide
fuggire rapidamente un cane, bianchiccio, alto, scarno,
col pelo irto; fuggiva abbaiando furiosamente. Tuffolo si
fermò e rispose con guaiti lunghi, festosi. Poi si fermò e
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corse anch’esso all’impazzata.
Sotto la luce obliqua d’una lampadina scorse una
massa assai scura. Esso si accostò piano, piano. Quella
massa era un uomo, perchè aveva una faccia sotto la
luce obliqua. Quel circolo rilevato di chiaroscuri erano
cenci. Quell’uomo russava, pareva sghignazzasse. Dalla
connessura delle labbra venivano giù escrementi
d’osteria. Tuffolo l’annusò due o tre volte. Poi andò via
placidamente. Probabilmente se fosse stato un morto,
l’avrebbe vegliato ululando.
La notte si faceva alta sempre più profonda; i raggi
lunghi sempre più pallidi. Vi era un’estrema dolcezza.
Tuffolo piegò a sinistra sempre calmo, sempre
stupido, sempre assorto. In rarissime finestre vedeva
luce. Sotto un balcone semi aperto sentì dei rumori
assordanti. Poi un pianto di donna lungo, accorato.
Tuffolo guardò la luna. Sboccò in una via larga, un po’
illuminata. Il portone di una casa era spalancato; si
vedeva per metà il vestibolo intimo e calmo. Tuffolo
entrò con un balzo, si equilibrò sulla striscia dei tappeti
e mise quetamente i suoi larghi occhi grigi in una sala
piena di fumo, di carte, di uomini. Uno di essi, finiva in
quell’istante di parlare con molta vivacità. Tuffolo si
avanzò allegramente. Lo fecero ruzzolare fuori del
portone.
Fuggì via gemendo di paura. Nella notte aperta la
dolcezza era esasperante. Ora camminava a caso. Vide
di lontano, sotto la luce obliqua di un’altra lampadina,
ferma una donna. Fece la via di corsa e la sorpassò. Poi
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tornò indietro e si mise a guardarla fissamente. Quella
pareva assorbita; era calma e grave. Tuffolo abbaiò con
un po’ di gaiezza e, senza nemmeno guardarla annusò le
sottane. Ella gli allungò una pedata. «Maledizione!»
disse. Tuffolo fuggì rapidamente. Qualche volta
inseguiva la sua ombra, scherzava con essa, si
nascondeva, puntava le orecchie, scodinzolava.
Due giovani passarono cantando una canzone larga,
lenta, un po’ triste.
Tuffolo si grattò con la zampa la testa, il suo cervello
era spoglio, ma esso era stanco. Si acquattò in uno
svolto, sotto una lampadina e la luce lo fasciò
obliquamente. Per molto tempo stette immobile,
fissando il buio, con quegli occhi grigi che non
riflettevano nulla. Per molto tempo non passò più
nessuno. Tuffolo cercava di capire il perchè di quel
silenzio e di quella tetra solitudine. Poi vide uscire dal
portone di fronte, un uomo. Gli passò vicino e Tuffolo
sentì un odore inebriante. Quell’uomo, chissà perchè,
gettò sotto il muso di Tuffolo, un mazzolino di violette
sciupate se ne andò con due occhi larghi di godimento.
Il cane annusò le violette, giocò appassendole
completamente fra la terra; poi le lasciò là e si mise
nella sua posizione assorta.
Passarono due vagabondi; si ingiuriavano e
bestemmiavano. Dopo si misero a braccetto e se ne
andarono ridendo. Tuffolo li seguì cogli occhi fin che le
voci illanguidirono per la lontananza.
Passò ancora un signore alto, serio, inguantato; dalla
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sua tasca scivolò una carta sottile e cadde sul
marciapiede, sotto gli occhi cavi del cane. L’uomo alzò
le spalle e tirò via indifferente, dileguandosi nell’ombra.
Tuffolo guardò curiosamente la carta, incominciò a
giocare con essa, finchè la dama di cuore si stracciò fra
le zampe.
Poi, non passò più nessuno. Nel crocicchio della
strada vi era ombra densa. Da quella tetraggine venne
correndo furiosamente una cagna giovane, e
spelacchiata. Rasentò Tuffolo, poi abbaiando forte fuggì
via. Tornò galoppando con le zampe che affondavano
nella terra gonfia di umido. Ritornò a piccolo trotto
silenzioso.
Tuffolo fissava con i suoi quieti occhi, l’andirivieni
della cagna spelacchiata. Questa si fermò, guardò la
luna ed abbaiò in modo lugubre. Dopo venne vicino a
Tuffolo; si acquattò sotto la luce blanda.
Si guardarono lungamente. La cagna guaì. Tuffolo si
mise a contemplare la luna che era sempre più pallida.
Ricevette una zampata in pieno petto e rotolò sul
selciato. Si scrollò in piedi, arruffato; pieno di
perplessità. La cagna lo rovesciò di nuovo mordendogli
lievemente una spalla. Tuffolo si rotolava per terra, sotto
le zampe morbide della cagna. Gli piaceva rotolarsi
sotto quelle zampe. Stette un poco così, poi i chiari
occhi grigi divennero torbidi. D’un balzo si rizzò, corse
un pezzo, abbaiando forte alla luna, seguito dall’ombra
scura della cagna. Si fermò e l’aspettò col respiro
ansante. La cagna forsennatamente si slanciò su di lui. E
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la luna sempre più pallida ascoltò il guaito lento, largo,
un po’ triste dei due cani in amore.

***

Fu il caldo raggio del sole che lo svegliò. Aprì


lentamente gli stupidi occhi grigi. Li richiuse subito
beato. Gli parve ancora, nonostante la voluttà, il sole la
più bella cosa del mondo!
La piazza era piena di uomini, di carri, di disordine,
di movimento. Tuffolo guardava pigramente, felice.
Vide pure venire con indifferenza un uomo verso la sua
parte. Siccome quell’uomo era grasso e gli sorrideva
amichevolmente, Tuffolo abbaiò forte. Si drizzò
festosamente e gli mosse incontro scodinzolando. Sibilò
nell’aria una frustata ed il laccio gli cadde intorno al
collo e si strinse.
Tuffolo perplesso guardò l’uomo grasso che rideva
con due occhi improvvisamente duri e malvagi. Quel
laccio dava fastidio a Tuffolo. Esso voleva liberarsene.
Si scrollò con impeto ringhiando un poco.
L’uomo grasso gridò con violenza e gli allungò una
pedata. – Andiamo – disse rudemente e si avviò tirando
Tuffolo riluttante verso il carrozzone fermo. Vi era
molta gente. Tutti gesticolavano e ridevano guardando
Tuffolo; ma Tuffolo fissava tutti sempre più perplesso,
sempre più infuriato. Cercava di afferrare ancora con lo
sguardo vago, l’idea immensa e impenetrabile che gli
sfuggiva. Delle nuvole basse e tetre velarono il sole.

22
Solo allora Tuffolo abbaiò: due, tre, quattro volte,
paurosamente. Gli risposero lunghi ululati di
disperazione.

23

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