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Liliana Dell’Osso, Professore Ordina-

S ocrate, che pur si procla- Liliana Dell’Osso Luciano Conti La verità è così potente che anche

Liliana Dell’Osso Luciano Conti


rio, è Direttore dell’Unità Operativa e del- mava amico della verità, i Diavoli sono costretti a praticarla
la Scuola di Specializzazione in Psichiatria tra di loro perché nessuna comunità
dell’Università di Pisa e Vicepresidente sosteneva essere più sapien-
te colui che mente sapendo di può esistere e perpetuarsi senza
del­­la Società Italiana di Psichiatria.
la verità e anche la comunità
È autrice/coautrice di oltre 800 pubbli- mentire rispetto a colui che è
cazioni su riviste scientifiche prevalente- dell’Inferno non potrebbe
capace di dire soltanto il vero. esistere senza di essa.
mente internazionali e dei saggi: L’altra
Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un Anticipava così di circa 25 se-
Cold case (Le Lettere, 2016) e L’abisso ne- coli quanto è stato documen- Sir Thomas Browne
gli occhi. Lo sguardo femminile nel mito e tato mediante il brain imag-
nell’arte (ETS, 2016).
ing: una maggiore attività ce-
È inserita nella Top Italian Scientists, Cli-
nical Sciences, della Virtual Italian Aca- rebrale in chi mente. A differenza della verità, unica, in-
demy che include gli scienziati italiani difesa – la “nuda” verità –, la menzogna ha mille volti e
ad alto impatto, nella Top Italian Wom- un campo indefinito; essa pervade ogni ambito si vada a
en Scientists e nel catalogo online delle
esplorare, da quelli più generali (storico, filosofico, mora-
scienziate italiane 100esperte.it.
le) ai più specifici (artistico, socio-politico, dell’informa-

La verità sulla menzogna


Luciano Conti, Professore Associato, ha zione, della salute, della scienza), compresi quelli della ma-

Dalle origini alla post-verità


svolto per oltre quarant’anni attività di- lattia mentale (psicologico, psicoanalitico, psichiatrico),
dattica, assistenziale e di ricerca presso la ora plasmandola, ora dandole un contenuto, spesso inter-
Clinica Psichiatria dell’Università di Pisa
ed è attualmente collocato a riposo.
ferendo con il suo decorso ed esito.
Ha pubblicato su riviste scientifiche ita- Fake news, post-truth, concetti già contenuti in Platone e
liane e internazionali, come autore/coau­ Machiavelli, hanno raggiunto un’estrema virulenza negli
tore, oltre 200 lavori. È autore di un Com- ultimi anni, grazie all’ormai universale diffusione dei social
pendio di Psichiatria e Igiene Mentale
(SEE, 1995), del volume Salute Mentale e
Società (Piccin, 1989) e del volume in tre
media che, praticamente senza controllo, stanno inquinan-
do capillarmente la nostra vita sociale e politica. La verità sulla menzogna
tomi Repertorio delle Scale di Valutazione
in Psichiatria (SEE, 1999-2000).
Dalle origini alla post-verità

€ 28,00 In copertina:
Mariano Chelo, Pinocchio Narciso;
sul retro copertina: Mariano Chelo,
ETS Edizioni ETS Pinocchio vitruviano.
www.marianochelo.it

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Liliana Dell’Osso Luciano Conti

La verità sulla menzogna


Dalle origini alla post-verità

Edizioni ETS

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www.edizioniets.com

© Copyright 2017
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Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
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Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI)
Promozione
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via Zago 2/2 - 40128 Bologna

ISBN 978-884674813-3

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Premessa

– C’era una volta...


– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno
Quale miglior incipit, per un saggio sulla menzogna, di quello di Le
avventure di Pinocchio [48], il prototipo del bugiardo?
– No, questa è un’altra storia... C’era una volta la Verità!
– C’era una volta? La Verità c’è ancora e va sempre detta!
– Forse in passato era così, ma oggi non ne siamo poi tanto sicuri!
– E perché?
– Abbiamo girato un po’ dappertutto, domandato, guardato per scoprire,
alla fine, che oggi c’è la post-verità.
– Sarà post-, dopo, ma comunque c’è!
– No, ragazzi, non è così, la post-verità non è “dopo” la verità ma al di là
della verità, superamento della verità, irrilevanza della verità, suo annul-
lamento... insomma è una grande menzogna, contrabbandata come verità,
per sfruttare l’effetto emotivo che produce!
– Ma allora è proprio una favola!
– Purtroppo no, è la triste realtà, ed è anche difficile da combattere perché
oggi, con internet, le notizie, comprese le fake news1, le bufale, si diffondono
in tempo reale e, quando si cerca di ristabilire la verità, come con il fact-
checking2, è sempre troppo tardi, le fake news hanno già fatto il giro del
mondo ed esercitato il loro effetto!
– A Pinocchio, quando diceva una bugia, il naso cresceva subito... il fact-
checking è una verifica altrettanto rapida ed efficace?
– Temiamo proprio di no!
– Allora non è una favola, è un dramma!
– ... che, con l’hate speech3, può diventare una tragedia!
In un dialogo immaginario con ipotetici lettori, abbiamo ripercorso
il cammino compiuto alla ricerca della verità, scandagliando in lungo e

1 Notizie false (Cap. XX e Cap. XXII).


2 Verifica dei fatti (Cap. XXIII).
3 Linguaggio dell’odio (Cap. XXI).

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6 La verità sulla menzogna

in largo i vari campi, attingendo alle diverse fonti per giungere all’amara
conclusione che la verità, tanto lodata, amata, invocata, è in via di estin-
zione.
Verità e menzogna sono i due poli di un’unica dimensione, la comu-
nicazione, che esiste solo in funzione della loro contrapposizione. Fra le
due, la verità ha il ruolo più scomodo e più difficile da ogni punto di vista,
filosofico, morale, sociale, psicologico e persino psicopatologico.
Si impara a mentire così presto e bene che, nel corso dello sviluppo,
più che a mentire, sembra quasi si debba imparare a dire la verità per gra-
tificare i genitori, acquistare la stima di sé e adeguarsi alle richieste sociali.
Un ruolo comunque perdente, se si considera che la filosofia continua
ancora oggi ad avere idee divergenti su che cosa sia la verità.
Se ci fossero dubbi sul fatto che l’inclinazione a mentire sia una tenden-
za innata, è sufficiente ricordare che tutti gli esseri viventi, piante e animali,
ordiscono inganni con i mezzi di cui dispongono: non ultimo il neonato,
che affamato, si autoinganna succhiandosi il pollice. D’altra parte è ormai
documentato che la capacità di mentire è tanto più sviluppata quanto più
lo è l’intelligenza dell’animale, cioè quanto maggiori sono le dimensioni
della neocortex4 – e l’uomo è l’essere con la neocortex più sviluppata.
Durante la crescita il genitore, stimolando la già ricca fantasia dei figli
con fiabe e novelle, contribuisce a far sì che, già verso i tre anni, il bam-
bino sia in grado di elaborare le consapevoli “realtà” alternative che defi-
niamo bugie. Questa capacità segue la crescita e aumenta con l’età. Infatti
è stato osservato che giovani liceali, parlando informalmente per dieci
minuti con persone appena incontrate, dicevano una bugia (generalmen-
te inutile) ogni tre o quattro minuti [83] e che, nel gruppo, i leader erano
i mentitori migliori [82]. Con queste premesse è facile immaginare quale
eterogeneità e raffinatezza d’impiego troverà la menzogna nell’età adulta!
Socrate, cui pure si deve la famosa frase “Amicus Plato, sed magis ami-
ca veritas”5, sosteneva la superiorità dell’intelligenza di chi sa mentire ri-
spetto alla stolidità di chi non ne è capace [151]. A conferma di ciò, la
Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) dimostra che mentire richiede
un livello di attivazione cerebrale maggiore rispetto a quello necessario a
dire la verità, per cui non stupisce che soggetti con ritardo mentale non
mentano, non sappiano mentire o, se ci provano, siano facilmente sco-
perti perché l’elaborazione della menzogna presuppone un buon funzio-
namento del cervello.

4 Neocortex o neopallio, rappresenta la porzione di corteccia cerebrale di più recente sviluppo


filogenetico.
5 “Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità”.

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Premessa
7

Si mente in mille modi, si mente non solo parlando ma anche tacendo,


facendo ma anche omettendo. Esistono spie psicobiologiche che potreb-
bero aiutarci a riconoscere quando gli altri mentono, ma non sono piena-
mente affidabili. L’esperienza e il buon senso consigliano, comunque, di
drizzare le orecchie quando una conversazione è infarcita di «Voglio essere
sincero», «Sarò franco», «A mio onesto parere», «In tutta franchezza» e altre
promesse/premesse di sincerità. Il mentitore spesso fa leva sulle corde più
sensibili dei nostri sentimenti a discapito della razionalità6.
La menzogna ha radici profonde non solo nella vita dell’individuo
ma nell’intera storia dell’umanità; basti pensare che gli archeologi, fino
a poco più di cinquant’anni fa tutti maschi, pur disponendo di numero-
sissimi reperti significativi, non abbiano mai avanzato l’ipotesi che, alle
origini, l’organizzazione sociale fosse matrilineare: una società pacifica,
libera e senza gerarchie, la società gilanica7, sopraffatta, intorno al terzo
millennio a.C., dalle più bellicose civiltà patriarcali provenienti dal Cau-
caso e dalla Siberia.
Altra menzogna, molto comune nelle civiltà più antiche, le cui origini
si perdono nella notte dei tempi, è la presunzione dell’ascendenza divi-
na dei regnanti. Il fenomeno è ben documentato fin dall’Alto Medioevo:
molte monarchie europee, con l’appoggio della Chiesa, fecero derivare
il loro potere assoluto direttamente da Dio, tant’è che la formula dell’in-
coronazione era «Per grazia di Dio». Bisognerà attendere la Rivoluzio-
ne Francese e l’abolizione dell’Ancien Régime8, per mettere fine a questa
menzogna.
Guardandoci intorno, è facile rendersi conto di quanto poco sia pre-
sente, in quasi tutti i campi delle attività e del pensiero umano, la verità
e di quanto diffusa sia invece la menzogna, e non sempre con un ruolo
negativo. In campo artistico, ad esempio, se non ci fosse una manipola-
zione della verità, se non avessero spazio la fantasia, i sogni, le “visioni”
dell’artista, ci sarebbe ben poca arte e, parimenti, poca ce ne sarebbe se
l’opera non stimolasse la fantasia, i sogni, le “visioni” del fruitore: ben
poco appeal avrebbe la cruda rappresentazione della realtà.
6 È frequente che finti poliziotti o carabinieri, finti avvocati, ben informati sulla famiglia, si
presentino a persone anziane (genitori o nonni) sostenendo che il figlio/nipote avrebbe avuto un
incidente o si sarebbe in qualche modo messo nei guai, chiedendo soldi per aiutarlo e questi, in pre-
da alla normale reazione emotiva, non approfondiscano l’identità dell’interlocutore e la veridicità
di quella notizia, rimanendo così vittime della truffa.
7 L’archeologa Marija Gimbutas, che l’ha scoperta, ha dato a questa società il nome di gila-
nica, derivato dalla fusione di ‘gi’ e ‘an’, abbreviazioni dei termini greci ‘gyne’, donna e ‘andròs’,
uomo.
8 Con questa locuzione i rivoluzionari francesi definirono il sistema di governo – la monar-
chia assoluta – che aveva preceduto la Rivoluzione francese del 1789.

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8 La verità sulla menzogna

In altri ambiti, invece, come quello sanitario, la menzogna può avere


effetti molto negativi, e talora drammatici. Pensiamo, ad esempio, alla
recente polemica sulla presunta relazione tra vaccinazioni e autismo, così
come ai ricorrenti “scopritori” di terapie “miracolose” per patologie, in
genere gravi, per le quali la medicina ufficiale è ancora lontana dall’aver
individuato soluzioni valide: eventi, questi, che hanno trovato una spro-
porzionata e inappropriata cassa di risonanza nei media al punto, talora,
da condizionare negativamente le scelte, non solo delle autorità sanitarie,
ma anche della magistratura, pur avendo la scienza ufficiale già preso una
posizione chiara sull’inefficacia dei trattamenti proposti. L’effetto peggio-
re, in questi casi, è l’aver alimentato speranze infondate in pazienti con
patologie incurabili e nelle loro famiglie.
Sempre nel campo della salute, hanno avuto una crescente diffusione
le cosiddette pratiche terapeutiche alternative, di cui la principale è l’ome-
opatia, soprattutto fra soggetti di 35-50 anni, laureati e benestanti, sog-
getti, cioè, con maggiore confidenza con l’informazione digitale. Infatti il
web è ricco di blog, social, advertising su questi cosiddetti trattamenti che
(al di là dell’opinione di chi li propone e li pratica) non hanno ricevuto
la validazione scientifica di un’efficacia superiore a quella del placebo. È
vero che non hanno neppure, in genere, effetti tossici ma tutti comporta-
no il rischio di ritardare, anche pericolosamente, il ricorso a terapie ap-
propriate.
Non a caso, abbiamo indagato nel settore dell’informazione, e in parti-
colare di quella digitale, di fatto diventata ormai l’informazione per eccel-
lenza, libera da ogni vincolo o controllo e che è, troppo spesso, disinfor-
mazione. Sul web, infatti, passa una mole tale di notizie che è impossibile,
e forse inutile, filtrare per separare il vero, o almeno il verosimile, dalle
cosiddette bufale9, fake news. I politici, oggi, si affidano ai “guru” del web,
moderni Richelieu, che abbiamo potuto vedere all’opera nelle elezio-
ni presidenziali americane del 2016, giocate su menzogne colossali, che
avrebbero condizionato l’esito del voto grazie alla post-truth10: non è im-
portante se quanto viene affermato sia o meno la “verità” (e generalmente
non lo è), conta soprattutto l’effetto emotivo che produce.
A parte la novità del termine, diffondere false verità a fini politici è una

9 La parola, riferita alle menzogne, deriva probabilmente dall’espressione “menare qualcuno

per il naso come una bufala”: com’è noto, per guidare buoi e bufali, si mette loro un anello al naso
attraverso il quale si fa passare una corda. Un’espressione simile, “prendere per il naso”, è forse di
analoga derivazione.
10 Post-truth è stato tradotto letteralmente in italiano come post-verità, termine che non

esprime il significato originale, cioè di “al di là della verità” o, come suggerisce la Crusca, “supera-
mento”, “annullamento” della verità.

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Premessa
9

pratica vecchia come il mondo – già Platone l’ammetteva per i governanti


e Machiavelli la consigliava al principe. La novità è che, nell’era digitale,
l’informazione si è “democratizzata”: tutti possiamo esserne, a un tempo,
fruitori e produttori e questo, inevitabilmente, ne ha abbassato il livello di
qualità al punto che, ormai, la qualificano, più dei contenuti, il grado di
clamorosità e di astonishing (stupore) che produce. E più le informazioni,
autentiche o meno, colpiscono, più si diffondono, diventano “virali”. E
più si diffondono, maggiori sono le probabilità che facciano presa sugli
utenti, influenzandone giudizi, scelte e voti.
Il boom della post-verità ha allarmato molti che hanno invocato un
controllo istituzionale dell’informazione circolante sul web, proposta che
evoca una censura da regime dittatoriale. Per iniziativa di privati, sono
stati creati siti di fact-checking, purtroppo di dubbia efficacia in quanto la
verifica arriva dopo che la bufala si è diffusa. Inoltre l’utente tende a chiu-
dersi nella propria “bolla d’informazione” (echo chamber) a cui le voci
contrarie non hanno accesso o vengono bollate come non veritiere.
C’è qualcosa che si salva dall’azione più o meno subdola della men-
zogna? Forse, a dar retta a Erasmo da Rotterdam [57], l’ultimo baluardo
potrebbe essere il “folle”: nel suo Elogio della follia afferma, infatti, che la
verità è concessa solo al “pazzo”. Lo stesso concetto è presente in Shake-
speare, nelle cui opere il fool, il giullare, può proferire indenne le verità
più scomode. Così attribuisce ad Amleto, che si finge pazzo, la responsa-
bilità di enunciare verità scientifiche considerate eretiche: “Pensa che le
stelle non siano fuochi, dubita pure che il Sole giri intorno alla Terra”, egli
scrive a Ofelia.
Da psichiatri, abbiamo allora guardato “in casa nostra”, nel campo dei
disturbi mentali, esaminandoli nella loro essenza, a prescindere da clas-
sificazioni da manuale, fatte più per sistematizzare che per capire, nella
speranza di trovare almeno nella “follia” un po’ di verità. Abbiamo in-
vece dovuto constatare che anche qui di verità ce n’è poca e prevale, pur
con peculiari modalità espressive, la menzogna, spesso originata dalla
mancanza di critica. In maniera più o meno palese o nascosta, cosciente
o inconscia, la menzogna percorre tutta quanta la psicopatologia fino ad
assumere, in alcuni casi, un ruolo importante, quando non preminente.
Possiamo citare, a titolo di esempio, alcuni disturbi di personalità (quali
l’antisociale, il borderline, l’istrionico, il narcisistico), i disturbi dissociativi
e quelli di somatizzazione, per non dire della pseudologia fantastica e della
confabulazione. Ma non manca neppure nei disturbi dell’umore, d’ansia e
psicotici, in cui deliri e allucinazioni, oggettivamente menzogneri, si asso-
ciano e si intersecano con pensieri e percezioni reali, su un terreno minato
dalla compromissione del “giudizio di realtà”.

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10 La verità sulla menzogna

In una prospettiva psicoanalitica, solo prendendo in considerazione il


fatto che il meccanismo principale su cui questa dottrina si fonda è la ri-
mozione, definita come l’operazione con cui il soggetto cerca di respingere o
mantenere nell’inconscio rappresentazioni (pensieri, immagini, ricordi) le-
gati a una pulsione [117], non possiamo non pensare che essa abbia come
oggetto la menzogna, appannaggio non esclusivo dei pazienti, ma parte
della vita quotidiana stessa, dove si manifesta con lapsus, omissioni, sogni.
Fin qui, e per tutta la nostra trattazione, abbiamo seguito la logica clas-
sica secondo la quale un dato (o una frase) o è vero o è falso, tertium non
datur, che è anche la logica binaria o booleana in cui le variabili possono
assumere solo due valori, 1=vero, 0=falso. Si tratta di una visione parziale
della realtà che non tiene conto della meccanica quantistica secondo la
quale, al contrario di quanto ci ha insegnato la fisica classica deterministi-
ca, gli stati e le proprietà del mondo non sono determinati a priori, intrin-
secamente, ma seguono una logica probabilistica, acquistano, cioè, realtà
solo se vengono misurati o se entrano in contatto con altri oggetti. Que-
sto consente di ipotizzare uno spazio in cui possono coesistere apparenti
contraddizioni e apre la porta al concetto del “terzo incluso”, che induce al
superamento delle logiche binarie e, quindi, anche della contrapposizione
verità-menzogna. Uno spazio in cui, filosoficamente parlando, fra i due
estremi possano esserci altre possibilità, come quella evidenziata nel pa-
radosso del gatto di Schrödinger11 che poteva essere contemporaneamente
vivo e morto, almeno finché non veniva aperta la scatola in cui era chiuso.
La trattazione del tema verità/menzogna ha reso necessario, oltre che
consultare numerose fonti di diversa natura (filosofiche, sociologiche,
storiche, psicologiche, psichiatriche), utilizzare strumenti squisitamente
tecnici. Poiché la nostra intenzione non era di elaborare un compendio
esaustivo su questo tema, ma di fornire argomenti di riflessione e stimolo
anche ai “non addetti ai lavori”, abbiamo cercato di “tradurre” in un lin-
guaggio divulgativo il frutto delle nostre ricerche e discussioni, limitando
per quanto possibile gli aspetti tecnici e concettuali, generalmente collo-
cati nelle note e nell’Appendice Tecnica.
11 «Si possono anche costruire casi del tutto burleschi. Si rinchiuda un gatto in una scatola

d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere
afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza
radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in
modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di
un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero
sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disinte-
grato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero siste-
ma porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati
con uguale peso» [171].

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Premessa
11

Possiamo aggiungere anche che abbiamo cercato di contenere cia-


scuno degli argomenti affrontati nell’ambito di un capitolo per cui, non
leggere il capitolo relativo a un argomento, che non interessa il lettore,
non compromette la comprensione dell’insieme. Il testo, com’è facile ve-
dere, è costellato di vignette con una duplice finalità: da un lato consen-
tire una lettura continua del corpo testuale senza sviamenti e, dall’altro,
creare una sorta di fil rouge attraverso il quale cogliere i molti volti della
menzogna e costruire una sorta di identikit del mentitore. Le vignette,
infatti, riportano ritratti di mentitori ed eventi incentrati sulla menzogna.
In questo modo, riteniamo che la lettura possa svolgersi su piani diversi,
dal più semplice al più complesso, soddisfacendo le diverse esigenze di
chi legge12.
Con l’auspicio che il nostro lavoro, nel quale ci siamo impegnati con
passione, possa interessare e coinvolgere anche i lettori, non ci resta che
ringraziare Alessandra e Gloria Borghini delle Edizioni ETS, per la fiducia
accordataci e l’entusiasmo profuso nell’opera di pubblicazione. Altri rin-
graziamenti vanno a coloro che per primi hanno letto il testo: Rosalba Ci-
ranni, Antonella Buscalferri, Barbara Carpita e Dario Muti, i cui giudizi,
assieme ai commenti e suggerimenti, ci sono stati molto utili per giungere
alla stesura finale, e Patrizia Guaiana, Paola Naggi e Marialisa Pinori per
l’accurata revisione del testo.
Un grazie, infine, ai nostri familiari – Luciana, Gianluca, Alessio e, last
but not least, Mario –, ai quali abbiamo sottratto molto del tempo che
sarebbe spettato loro per diritto e, soprattutto, per affetto.

Liliana Dell’Osso
Luciano Conti

12 In realtà c’è un ulteriore livello di lettura rappresentato dalla lente “deformante” psichiatri-

ca attraverso cui gli autori, inevitabilmente, hanno filtrato il loro elaborato.

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Introduzione

Mentire è cosa universale – tutti mentiamo, tutti dobbiamo


mentire. Allora, è saggio allenarsi diligentemente a
mentire con intelligenza, con giudizio; a mentire per una
buona ragione, e non per una cattiva; a mentire per il bene
degli altri e non per il nostro, a mentire per altruismo,
carità, umanità, non per crudeltà, aggressività, malizia; a
mentire con decisione, franchezza, disinvoltura, a testa
alta, non con esitazione, tortuosità, pusillanimità, come se
ci vergognassimo della nostra alta missione.
(Mark Twain, On the Decay of the Art of Lying, 1882)

L’ottavo Comandamento, Non dire falsa testimonianza, ha sempre go-


duto, nella cultura popolare, di un atteggiamento tollerante, quasi fosse
un peccato minore, anche se, talora, usato come strumento per raggiun-
gere obiettivi moralmente più gravi, come la calunnia o il tradimento.
Certamente la menzogna era ufficialmente condannata tanto nella cul-
tura greca quanto in quella latina. Sant’Agostino [165] l’aveva codificata
nel cristianesimo in base non alla falsità in sé del contenuto, ma all’intento:
Il bugiardo [...] si propone d’ingannare [...] ed è questa la sua colpa.
San Tommaso [56] distingueva le bugie utili e giocose da quelle pe-
ricolose e i gesuiti le bugie maligne (peccatum) da quelle a fin di bene
(peccatillum). Machiavelli [123] riconosceva ai governanti il diritto di
mentire ma già Platone [151] aveva concesso loro tale possibilità, parago-
nando le loro menzogne a dei “farmaci” che, se ben usati, potevano essere
di grande vantaggio per i sudditi. Kant [108], invece, rigettava qualsiasi
giustificazione o eccezione:
La veracità nelle dichiarazioni [...] è il dovere formale dell’uomo nei con-
fronti di tutti, per quanto grave sia il danno che ne possa risultare per lui.
Con Kant dire la verità diventa un imperativo sacro [108] e così la mo-
dernità “crea” un nuovo vizio capitale, l’ottavo1, la menzogna [157].
Cosa dire della menzogna che non sia stato già detto? Cos’è la men-
1 I sette vizi capitali sono: Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira e Accidia.

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14 La verità sulla menzogna

zogna? Potremmo riempire pagine di sinonimi o di parole che ne de-


scrivono le molteplici espressioni e i contesti in cui si cela perché, con
i suoi mille volti, dai più truci ai più accattivanti, essa ci accompagna in
ogni momento della nostra vita, ed è tanto più presente quanto più sia-
mo esposti all’informazione, cavallo di Troia della menzogna. Se, nella
seconda metà dell’Ottocento (1889), Oscar Wilde [196] ironizzava attri-
buendola a politici, avvocati e giornalisti, meno di un secolo dopo (1961)
Hannah Arendt [7] ne denunciava la crescita ipertrofica, al limite della
menzogna assoluta:
La possibilità della menzogna completa e definitiva, che era sconosciuta
nelle epoche precedenti, è il pericolo che deriva dalla moderna manipolazio-
ne dei fatti. Anche nel mondo libero, dove il governo non ha monopolizzato
il potere di decidere e dire che cosa effettivamente è o non è, gigantesche
organizzazioni di interesse hanno generalizzato una sorta di mentalità da
“raison d’état”, che prima era circoscritta al trattamento degli affari esteri
e, nei suoi peggiori eccessi, a situazioni di pericolo chiaro e presente. E la
propaganda nazionale a livello governativo ha imparato non pochi trucchi
dal mondo degli affari...
La menzogna è stata ed è oggetto di studio della filosofia, della psicologia,
della sociologia, della giurisprudenza, delle scienze politiche, delle scienze
morali e altro ancora; noi, da psichiatri, abbiamo deciso di analizzarla nelle
sue polimorfe manifestazioni anche in una prospettiva psicopatologica.
Fin dai nostri primi anni di vita, i “ritornelli” più frequenti erano «Non
devi dire bugie», «Devi dire la verità», «La bugia è un peccato», «Con papà
e mamma devi essere sempre sincero»; poi, per intrattenerci o per addor-
mentarci, ci raccontavano fiabe in cui bellissime principesse in perico-
lo erano salvate da eroici principi azzurri; poveri fanciulli finivano nel-
le mani di un terribile orco e solo l’intervento in extremis di una fatina
buona riusciva a salvarli; brutti rospi, baciati dalla bella principessa (alla
quale, come a gran parte delle donne, certamente facevano ribrezzo!), si
trasformavano in aitanti principi, e così via. Noi, anziché ridere di questi
racconti assurdi, ci identificavamo con l’eroina o l’eroe della favola, al
punto che, dopo decenni, continuiamo, più o meno inconsciamente, a
ricercare partner simili ai personaggi dei nostri miti infantili.

Fino agli anni ’90, le bambine giocavano con molto realismo a “fare la mamma” con
bambolotti (che la tecnologia e l’elettronica rendevano sempre più simili a bambini
veri), mentre i maschietti erano impegnati in giochi più “violenti” volti a creare le
prime gerarchie sociali. Ma potremmo dire lo stesso anche oggi? Chi ha visto crescere,
negli ultimi vent’anni, figli o nipotini, ai quali, già a 2-3 anni, vengono messi a dispo-
sizione giochi elettronici, tablet o smartphone, non può certamente aspettarsi che, se

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Introduzione
15

leggesse loro le fiabe della tradizione classica, otterrebbe reazioni e commenti simili a
quelli dei coetanei di qualche decennio fa.
Nel suo blog (http://ilmiolibro.kataweb.it/articolo/scrivere/11278/dieci-fiabe-dei-
fratelli-grimm/?ref=fb), Amleto De Silva ha provato a immaginare le reazioni di sua
figlia alle più conosciute fiabe dei fratelli Grimm. Ne riportiamo alcune a titolo di
esempio:
“Cappuccetto Rosso” - Un giorno sua madre le disse: «Vieni, Cappuccetto Rosso,
eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e
si ristorerà. Sii gentile, salutala per me, e va’ da brava senza uscire di strada, se no cadi,
rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote».
– Papà, fammi capire, la nonna sta male e lei le manda il vino? E i trigliceridi? E il
colesterolo? E il fegato?
“Biancaneve” - Proprio in quel momento, arrivò di corsa un cinghialetto. Il caccia-
tore lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova. Ella, nella
sua bramosia, li fece cucinare sotto sale e li divorò credendo di mangiare i polmoni e il
fegato di Biancaneve.
– La matrigna era cattiva e va bene, ma pure cannibale?
“Il lupo e i sette caprettini” - I sette capretti vennero di corsa, gridando: «Il lupo è
morto! il lupo è morto!» E con la loro mamma ballarono di gioia intorno alla fontana.
– Ma i lupi sono buoni, e in via d’estinzione, ce l’hanno detto a scuola!
“I musicanti di Brema” - Un uomo aveva un asino che lo aveva servito assiduamen-
te per molti anni; ma ora le forze lo abbandonavano e di giorno in giorno diveniva sem-
pre più incapace di lavorare. Allora il padrone pensò di toglierlo di mezzo, ma l’asino si
accorse che non tirava buon vento, scappò e prese la via di Brema.
– Fammi capire, papà: l’asino ha lavorato per lui tutta la vita e adesso il padrone,
per ringraziarlo, lo vuole uccidere?
“Rosaspina” - La fata disse ad alta voce: «A quindici anni, la principessa si pungerà
con un fuso e cadrà a terra morta».
– Ecco, a me leggi queste cose e poi dici che se vado su YouTube la notte non dor-
mo. Ma sei scemo?
“La principessa sul pisello” - Così capirono che era una principessa vera, perché
aveva sentito il pisello attraverso venti materassi e venti grossi cuscini di piume. Solo
una principessa poteva avere una pelle così sensibile!
– Mammaaa! Papà è di nuovo ubriacooo!

Certamente uno dei racconti che più ci hanno colpito è quello di Pi-
nocchio, con il suo naso di dimensioni variabili secondo le bugie che rac-
contava. Le avventure di Pinocchio [48], vero romanzo “di formazione”, è
probabilmente uno dei testi italiani più tradotti all’estero e gli adattamen-
ti cinematografici, da quello di Walt Disney (1947) a quelli di Comencini
(1972) e di Benigni (2002), hanno contribuito a rafforzarne la popolarità.
Pinocchio mente spesso e, quando lo fa, il suo naso si allunga palesan-
do la menzogna:

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16 La verità sulla menzogna

Le bugie, ragazzo mio, – dice la Fatina – si riconoscono subito! Perché ve


ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie
che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso
lungo.
La metafora è evidente, le bugie hanno le gambe corte perché non fan-
no molta strada, vengono facilmente scoperte, o hanno il naso lungo per-
ché si dimostrano immediatamente come tali.
Non c’è bambino che, sentendosi dire «Hai detto una bugia, ti è cre-
sciuto il naso» o «Se dici le bugie ti cresce il naso», almeno le prime volte,
non si sia toccato il naso per accertarsi che non fosse cresciuto davve-
ro! Evidentemente mentire è per l’uomo un fenomeno naturale e di così
ampia e facile diffusione da entrare rapidamente nel suo apprendimento
precoce.
Un divieto di cui non comprendiamo o non ammettiamo il motivo è, non
solo per il testardo, ma anche per l’assetato di conoscenza, quasi un coman-
damento: si osa l’esperimento, per venire così a sapere perché il divieto è
stato posto [138].
E chi più dei bambini è “assetato di conoscenza”? Si incomincia con
una piccola bugia di cui nessuno sembra accorgersi o che, comunque,
non fa crollare il mondo... e il gioco è fatto! Sarà poi la combinazione delle
caratteristiche personali, delle influenze socio-culturali e delle esperien-
ze di vita che determinerà quanto e come ciascuno diventerà bugiardo.
Perché, nonostante gli anatemi dei Dottori della Fede, gli insegnamenti
dei filosofi, gli ammonimenti dei saggi, la menzogna la fa da padrona! È
questo che, in definitiva, ci è sembrato affascinante e ha stimolato la no-
stra curiosità fino a spingerci ad approfondire l’argomento, estendendo
l’osservazione a tutto il mondo della menzogna in una prospettiva di-
mensionale che vede a un polo, la verità assoluta e, all’altro, la menzogna
assoluta e nel mezzo la realtà della vita quotidiana di tutti noi con le sue
piccole e grandi bugie.
Spesso i nostri pazienti sono accusati di “mentire”, proprio di inven-
tare sintomi, di simulare disturbi privi di ogni elemento di veridicità, di
amplificare sensazioni che fanno parte dell’esperienza comune, di affer-
mare cose assurde, come persecuzioni del tutto improbabili o capacità
eccezionali, lontane da qualsiasi verosimiglianza: riferiscono di sentire
voci che nessun altro sente, lamentano sintomi di malattia in assenza di
qualsiasi oggettività clinica, si dichiarano in sovrappeso nonostante uno
scadimento fisico a malapena compatibile con la sopravvivenza, per non
dire di soggetti anziani che, alla stessa domanda, forniscono, ora una ri-

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Introduzione
17

sposta ben articolata e, pochi minuti dopo, un’altra completamente di-


versa e altrettanto ben costruita... e questo solo per fare qualche esempio.
Noi sappiamo che tutte queste “menzogne” fanno parte integrante del
disturbo, di cui condizionano quadro clinico, decorso, prognosi e rispo-
sta al trattamento. Abbiamo quindi affrontato questa fatica, partendo ne-
cessariamente dal mondo della menzogna dei “sani” per giungere a quello
dei pazienti, alla ricerca delle radici di tale comportamento. Infatti, nono-
stante le più feroci reprimende morali, nonostante la condanna sociale,
nonostante i più profondi legami affettivi, tutti mentono in misura mag-
giore o minore. Non solo, più mentono, più condannano la menzogna e
fanno attestazione di verità e di veridicità.
Coglieva pienamente nel segno una canzonetta della metà degli anni
’50 che titolava: La vita è un paradiso di bugie, cui fece da controcanto,
dieci anni dopo, La verità mi fa male, lo so...

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I. La menzogna e il mentitore

Ogni uomo mente.


Ma dategli una maschera e sarà sincero.
(Oscar Wilde, The Decay of Lying, 1889)

In linea puramente teorica, verrebbe da pensare che, dato il suo valore


sociale ed etico, la verità abbia alle spalle una vasta e varia letteratura. In
realtà la maggior parte di ciò che la concerne è confinato nell’ambito fi-
losofico e morale; per il resto, è la menzogna che occupa la scena, sia per
l’impatto emotivo – la verità non “fa notizia” – sia per la sua frequenza1.
Testimonianza ne sono le innumerevoli menzogne convenzionali, sociali,
pietose, che fungono da “lubrificante sociale”, fino alle fiabe che raccon-
tiamo ai bambini o le storie di cui noi stessi ci nutriamo da adulti quando
leggiamo un romanzo, guardiamo un film o una fiction... e molto altro
ancora.
Sulla base di queste considerazioni, abbiamo ritenuto più opportuno
affrontare direttamente il tema della menzogna rimandando a una Ap-
pendice Tecnica il tema della Verità e di quello ad essa strettamente cor-
relato della Conoscenza
Che cos’è la menzogna? La definizione più comunemente accettata,
che riassume le caratteristiche comuni alle diverse definizioni, è quella
formulata da James E. Mahon [125] e riportata dal Grande Dizionario
della Lingua Italiana:
Affermazione contraria a ciò che è o si crede corrispondente a verità, pro-
nunciata o propalata con l’intenzione esplicita di ingannare.
Com’è facile vedere la menzogna, per essere tale, presuppone che: 1-
qualcuno affermi qualcosa2, 2- costui ritenga l’affermazione falsa, 3- essa
sia rivolta a uno o più interlocutori, 4- sussista l’intento di ingannarlo/i.

1 I giovani che avevano preso parte a una ricerca di Feldman e coll. [83] (di cui diremo al

Cap. III), mentivano mediamente ogni 3,3 minuti nel corso di conversazioni generiche nelle quali
non vi era alcuna reale motivazione per mentire.
2 Ma, come dice R.L. Stevenson, «Le bugie più crudeli sono spesso dette in silenzio».

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20 La verità sulla menzogna

– Con il termine affermazione (punto 1) non si intende l’uso del solo lin-
guaggio convenzionale, parlato o scritto, ma anche di tutti i linguaggi
“speciali”, anche non verbali (come la lingua dei segni) e di tutte quelle
azioni e simboli che sono riconosciuti e accettati come comunicati-
vi, come far cenno di sì o di no con la testa, sventolare una bandiera
bianca in segno di resa e altro ancora. Sono considerate menzogne sia
l’alterazione della verità sia la sua negazione o il suo occultamento.
– L’affermazione (punto 2) deve essere ritenuta falsa dal mentitore, in-
dipendentemente dalla sua falsità intrinseca: non c’è menzogna se egli
dice il falso credendo in buona fede che sia vero3.
– Ovviamente, per mentire è necessario che ci sia un interlocutore (pun-
to 3), ma non necessariamente deve essere diretto: i politici, i mass
media, gli evasori fiscali mentono a interlocutori indefiniti.
– Fondamentale è l’intento, la volontà esplicita di ingannare4 (punto 4):
in assenza, non si può parlare di menzogna; né è in funzione dell’esito:
la menzogna rimane tale anche se viene scoperta.
Ben diverso è il caso di affermazioni precedute da espressioni come
«credo», «potrebbe darsi», che ne mitigano o mettono in dubbio il con-
tenuto, o quelle in cui l’inganno è esplicito come nel teatro, nella satira,
nelle metafore, negli scherzi, nelle formule di cortesia e altro ancora e
pertanto non si richiede all’interlocutore di credere in quelle affermazioni
(e se lo fa è perché ha frainteso).
Affinché l’azione del mentitore abbia successo, è necessario che non
sia volta a far credere alla vittima ciò che la stessa non potrebbe mai cre-
dere (per cultura, esperienza, fede, età o altro). Al contrario, la menzogna
deve riguardare contenuti in cui il livello di credenza non sia assoluto ma
suscettibile di variare sulla base di nuove informazioni5.
Locutio contra mentem, affermazione contraria al pensiero, secondo
gli antichi, che davano alla parola locutio il più ampio significato. D.L.
Smith [179] ha estremizzato il concetto di menzogna in una definizione
omnicomprensiva:
una qualsiasi forma di comportamento la cui funzione è fornire agli altri
false informazioni, o privarli di informazioni vere.
In tal modo, tutto ciò che non è genuino, verbale o non verbale, con-
3 Questa definizione ha una limitazione perché pone la condizione che si tratti di una “affer-
mazione”.
4 Fallendi cupiditas, voluntas fallendi diceva Sant’Agostino.
5 Se, ad esempio, credo fino a un certo punto nei vantaggi di una dieta vegetariana rispetto a
una omnivora, notizie scientificamente fondate (o provenienti da persone in cui ho fiducia) a favore
o contro tale dieta possono aumentare o ridurre il mio livello di “credenza” o certezza.

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I. La menzogna e il mentitore 21

scio inconscio, esplicito o implicito, è menzogna. Sono menzogne il


makeup e le protesi estetiche, i sorrisi formali e gli orgasmi simulati, gli
eufemismi e le fiabe, insomma qualsiasi cosa che può fornire false in-
formazioni o privare di informazioni vere. Si può mentire anche senza
parlare o nascondendo le informazioni come, ad esempio, togliendosi la
fede dal dito per apparire single e così via. L’importante è che l’azione (o
l’omissione) sia intenzionale6. Un ruolo importante in questo contesto
ha la maschera, reale o metaforica che sia: in entrambi i casi, il suo scopo,
per varie ragioni, è nascondere l’identità di chi la indossa o, al contrario,
conferirgli un’identità predefinita, immediatamente riconoscibile, con il
risultato di spersonalizzarlo.
Menzogna, inganno e frode condividono l’insincerità e la volontà di
ingannare, ma differiscono tra loro poiché la menzogna rimane tale an-
che se non raggiunge il suo scopo, mentre l’inganno e la frode sono tali
solo se hanno successo. La menzogna, inoltre, non ha necessariamente
finalità aggressive, come la frode e l’inganno, e il danno da essa causato
può semplicemente consistere nell’erroneo giudizio che induce; quindi la
frode e l’inganno sono sempre menzogneri, mentre la menzogna non è
necessariamente fraudolenta.
Il sinonimo più prossimo di menzogna è “bugia”, generalmente asso-
ciata ai bambini (da cui un’apparente connotazione di minore gravità),
ma che qui useremo come equivalente.
La menzogna è un atto deliberato, il bugiardo può scegliere se mentire
o no; può essere giustificata dalle circostanze pur non cessando di essere
una menzogna. Come afferma Derrida [72],
per definizione, il bugiardo sa la verità, se non tutta la verità, almeno la
verità di ciò che pensa, sa ciò che vuol dire, sa la differenza tra ciò che pensa
e ciò che dice: sa di mentire.
Tuttavia, tirare in ballo la verità può essere fuorviante perché la men-
zogna, nella sua essenza, è voler far credere vero qualcosa che si ritiene
falso o falso qualcosa che si ritiene vero, indipendentemente dalla realtà
oggettiva. Non di verità assoluta si tratta, quindi, ma di opinione sulla
realtà.
In linea di massima possiamo dire che ci sono i cosiddetti mentitori
nati e i mentitori occasionali. La discriminante è la vulnerabilità al timore
di essere scoperti: i soggetti meno vulnerabili mascherano meglio le pro-

6 In questo senso, anche gli animali superiori (e soprattutto i primati) mentono quando, ad
esempio, di fronte a un avversario più forte, gli voltano la schiena, vuoi per nascondere l’espressione
di paura, vuoi per mostrare di non temerlo. L’argomento è comunque molto dibattuto tra i biologi.

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22 La verità sulla menzogna

prie emozioni. Per essere buoni mentitori è necessario saper “leggere” il


pensiero dell’interlocutore, in modo da capire che cosa egli sia disposto ad
accettare come vero, quali siano le sue aspettative, quali modalità di ap-
proccio siano più opportune, quali i suoi punti deboli su cui far leva e qua-
li quelli di forza da evitare. In altre parole, occorrono buone capacità intel-
lettive e strategiche, è necessario focalizzarsi sull’obiettivo da raggiungere
per individuare quale menzogna sia la più adatta, senza lasciarsi tradire
dalla mimica e dalla gestica, che devono essere costantemente controllate.
Il fatto che un bambino, già a quattro anni, sia in grado di mentire con
successo dimostra la precocità dell’insorgenza dell’attitudine a mentire e
suggerisce che i cosiddetti mentitori nati riescano a ingannare genitori,
insegnanti e compagni abbastanza precocemente, acquisendo nel tempo
e con l’esperienza una sicurezza tale da farlo con la massima indifferenza.
L’uso che il mentitore fa di questa “abilità” dipenderà da una serie di fat-
tori culturali e personologici: c’è chi la userà per diventare un buon attore,
un politico o un diplomatico, chi per delinquere.
La verità è nuda. La menzogna è vestita e truccata in mille modi, fino al
completo mascheramento dei tratti originali: come una faccia, ravvivata
da una pennellata di fard e di ombretto o deturpata irrimediabilmente da
un chirurgo estetico maldestro.
Per ogni verità ci sono tante menzogne quante sono le modalità e le
finalità con cui e per cui la verità viene manipolata.
Se la menzogna, come la verità, avesse una sola faccia, saremmo in una
condizione migliore. Di fatto prenderemmo per certo il contrario di quello
che dice il bugiardo. Ma il rovescio della verità ha centomila aspetti e un
campo indefinito [64].
Sulla base delle diverse variabili in gioco (le circostanze, l’interlocu-
tore, lo scopo che si vuole raggiungere e altro ancora) si può tentare una
sorta di classificazione delle menzogne, che probabilmente sarebbe co-
munque incompleta. Proveremo a farla più avanti.
Possiamo tracciare un identikit del bugiardo coerente con la defini-
zione sopra riportata di Derrida? Potremmo fare il ritratto dei più famosi
bugiardi dei miti, delle leggende, della storia, della cronaca, partendo dal-
la certezza che i più grandi mentitori li troviamo fra coloro che giurano e
spergiurano di non mentire mai: un nome per tutti Giacomo Casanova,
principe della menzogna, il quale, più e più volte, nelle sue memorie, af-
ferma di non sapere che cosa sia mentire!
Dante [58] era a tal punto convinto dell’universalità della frode da de-
dicarle la metà dei canti dell’Inferno.

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I. La menzogna e il mentitore 23

Nell’Inferno i fraudolenti sono collocati nell’ottavo cerchio, Malebolge, suddiviso in


dieci bolge, una per ogni categoria. A guardia vi è Gerione7, il mostro della mitologia
classica, simbolo della frode, descritto come una bestia con una sola testa:
... colei che tutto ’l mondo appuzza!
[...]
E quella sozza imagine di froda 
sen venne...
[...]
La faccia sua era faccia d’uom giusto, 
tanto benigna avea di fuor la pelle, 
e d’un serpente tutto l’altro fusto.

Per i greci, mentire era un’arte. Socrate [151] riconosce la superiorità


dell’intelligenza di chi sa mentire sulla stolidità di chi non ne è capace. Del
resto, come affermava Nietzsche [137],
non è la verità, è la bugia a essere divina.
Un grande maestro di menzogna è Ulisse che non ci desta repulsione, pur sapendolo
un mentitore, forse perché le sue menzogne sono creative, espressione di una fervida
immaginazione e di una lucida intelligenza: sono le menzogne di chi si proietta nell’i-
gnoto per scoprire cosa ci sia “oltre”, “al di là”. Dante [58], pur mettendolo nell’infer-
no tra i consiglieri fraudolenti, ne fa la lode nella famosa terzina:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.
Eppure Ulisse ha le caratteristiche del mentitore patologico, di colui che non racconta
bugie solo per salvare sé e i suoi compagni o per ingannare Antinoo e i Proci, ma ne
dice altre, apparentemente inutili, come a Eumeo, al quale, prima di raccontare una
lunghissima e complessa bugia, proclama, come tutti i grandi bugiardi, la propria sin-
cerità, con un’invettiva contro la bugia:
Odioso per me come le porte dell’Ade è colui,
che, alla miseria cedendo, spaccia menzogne.
Dice addirittura bugie crudeli a Penelope e al padre Laerte (forse per metterne alla
prova la fedeltà), anche se, poi, cede di fronte all’angoscia del genitore; non può men-
tire alla sua vecchia nutrice, Euriclea, che lo riconosce per la cicatrice provocatagli
da un cinghiale durante una battuta di caccia quand’era ragazzo, ma la minaccia con
dure parole per impedirle di svelare la sua identità a Penelope. Mente persino ad
Atena (che al suo arrivo a Itaca gli si presenta sotto le spoglie di un giovane pastore)
ricevendo il rimprovero della dea:

7 Gerione era una figura della mitologia greca, un gigante con tre teste messo a guardia delle
vacche rosse di Apollo. Ercole, per ordine di Euristeo, uccise Gerione e rubò le vacche.

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24 La verità sulla menzogna

Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi


neppure ora, in patria, lasciar da parte le astuzie
e i racconti bugiardi, che ti son cari fin dalle fasce. [140]

Ben diversa è la figura, generalmente odiata e vituperata, di Iago, il


mentitore dell’Otello [174] shakespeariano che, facendo leva sulla gelo-
sia del Moro di Venezia, ne scatena, mentendo, la furia cieca che sfocerà
nell’uccisione della moglie Desdemona.

Iago, fin dall’inizio, si presenta:


Io non sono quello che sono.
che può essere, a buon diritto, il motto dei bugiardi. Quando Emilia, sua moglie, dopo
l’uccisione di Desdemona, scopre l’imbroglio ordito dal marito, lo affronta:
Hai detto una menzogna, una sporca
maledetta menzogna; sull’anima mia,
una menzogna, un’infame menzogna!8
ma lui si rifugia nel silenzio:
Non chiedetemi nulla. Sapete quel che sapete!
D’ora in poi non aprirò più bocca.
Oggi avrebbe detto: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
Iago, l’archetipo del bugiardo, che mira solo al proprio vantaggio a prezzo del dolore
altrui, dovrà affrontare il meritato castigo:
Per questo verme, se c’è sopraffina crudeltà
per torturarlo duramente a lungo,
gli venga riservata.

Il grido di Iago, «Io non sono quel che sono»9, è il grido di chi abita la
menzogna [130], è lo stesso del protagonista del film di Chabrol (1999),
Il colore della menzogna, quando confessa a sua moglie di avere ucciso il
giornalista (che sospettava essere suo amante): «Non mi conosci... non sai
chi sono». Aggiungerà, quando intuisce l’intenzione della moglie di con-
dividere il suo segreto, «Benvenuta nel regno dei morti».
Siamo uomini e legati gli uni agli altri solo per mezzo della parola. Se cono-
scessimo l’orrore e la portata di tale vizio [la menzogna], lo puniremmo col
fuoco più giustamente di altri delitti [64].

8 Iago, in tutta la tragedia, si limita a sottolineare maliziosamente dei fatti accaduti favorendone

l’interpretazione distorta di Otello, mente soltanto sul sogno di Cassio e dietro pressione di Otello stes-
so che vuole una “prova”, attenuando subito dopo la sua affermazione con un «Ma era solo un sogno».
9 Come non ricordare che Dio si era presentato a Mosè come «Io sono colui che sono»?

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I. La menzogna e il mentitore 25

Drammatica e atroce è anche la menzogna di Fedra che però, a diffe-


renza di Iago, mostra dolore, vergogna, fino al suicidio.

Fedra, figlia di Minosse, re di Creta, e di Parsifae, sorella di Arianna (che aveva aiutato
Teseo a uccidere il Minotauro ed era stata da lui abbandonata sull’isola di Nasso), spo-
sò Teseo, il quale aveva un figlio, Ippolito, avuto da Ippolita, regina delle Amazzoni,
un giovane bellissimo, dedito solo alla caccia, schivo della vita sociale e della sessualità
e anche orgoglioso della propria verginità. Afrodite, per punirlo, suscitò in Fedra, sua
matrigna, una forte passione verso di lui:
Da quando amore mi ferì, io cercai
come sopportarlo nel modo più nobile,
[...] tacere e nascondere questo morbo.
[...]
A me, allora, è toccato solo il dolore.
Si confida con la vecchia nutrice che, nel tentativo di aiutarla, rivela a Ippolito il suo
amore. La reazione del giovane è così offensiva e brutale che Fedra decide di vendicarsi:
a Teseo, tornato dagli Inferi, dice che Ippolito ha cercato di abusare di lei. L’eroe in-
voca suo padre Poseidone lanciando un anatema mortale contro il proprio figlio e lo
bandisce da Atene. Mentre Ippolito si allontana su un carro, un mostro esce dal mare,
fa imbizzarrire i cavalli e il carro va a schiantarsi contro le rocce. Quando il cadavere di
Ippolito viene riportato alla reggia, Fedra confessa la sua menzogna a Teseo e si uccide.

Un sorriso ci strappa, invece, la storia, negata da alcuni, della papessa


Giovanna.
Dall’853 all’855 il papato sarebbe stato retto da una donna. Si sarebbe trattato di una
donna inglese, abilissima nel travestimento, la quale, con il nome di Johannes Angli-
cus, monaco di specchiate virtù, si fece eleggere papa. Salita sul trono papale, dette
libero sfogo a tutte le sue voglie tanto da rimanere incinta; cercò di nascondere la
gravidanza per non perdere i privilegi papali ma, durante una processione, il cavallo
su cui viaggiava ebbe dei sobbalzi che provocarono un parto prematuro. Scoperto
l’inganno, il popolo la fece trascinare dal cavallo fino alla morte. Per evitare che si ve-
rificassero casi analoghi, si allestì nella Basilica Lateranense una sedia di porfido rosso
con un foro nel mezzo della seduta attraverso il quale veniva controllato il sesso del
papa. Come dice il poeta dialettale Gioacchino Belli [15],
D’allora st’antra sedia sce fu mmessa
Pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
Si er pontefisce sii Papa o papessa10.

Fra i grandi mentitori non possiamo dimenticare un nostro contem-


poraneo che ha occupato a buon diritto le cronache alcuni anni fa per
10 Da allora ci fu messa quest’altra sedia / per tastare i genitali [in modo da verificare] / se il

pontefice fosse Papa o papessa.

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26 La verità sulla menzogna

aver messo in atto una truffa da oltre 50 miliardi di dollari, il broker Ber-
nard Madoff, Bernie per gli amici.

Negli anni Sessanta, investendo i propri guadagni di bagnino, Bernard Madoff entrò
nel mondo della grande finanza applicando su vastissima scala il “sistema Ponzi”, un
sistema piramidale consistente nel pagare agli investitori interessi superiori a quelli di
mercato utilizzando i capitali portati da nuovi investitori: il sistema funziona fintanto
che si trovano nuovi investitori. L’inventore del sistema, Charles Ponzi, durò poco
perché si rivolgeva a investitori modesti. Bernie, invece, si rivolgeva a banche e a so-
cietà finanziarie di prima grandezza (evidentemente anche lì allignano tanti Pinocchi
in cerca di “campi dei miracoli” in cui seminare i propri zecchini d’oro aspettandosi
di trovare, all’indomani, alberi carichi di monete!). Quando fu scoperto (nell’anno
fatidico della crisi economica mondiale, il 2008), fu condannato a 150 anni di carcere
ma un anno dopo cercò di uscire di galera affermando, senza alcuna documentazione,
di avere una malattia terminale per cui chiedeva di poter passare gli ultimi mesi in
famiglia: gli fu negato e a tutt’oggi, vivo e vegeto, sconta la sua condanna in un peni-
tenziario del North Carolina.

Certamente l’intento di arricchirsi è stato ed è una molla fortissima


per la menzogna; dobbiamo dire, però, che Madoff, nonostante l’entità
della sua truffa, non regge il confronto con due figure dall’incomparabile
livello di spregiudicatezza, i due grandi mentitori del passato, Giacomo
Casanova e Giuseppe Balsamo, detto Cagliostro.
Casanova, veneziano, ufficialmente figlio di un ballerino e di un’attrice, in realtà frutto
di una relazione adulterina della madre con un patrizio, laureato in diritto a Padova,
vissuto nel ’700, è stato, scrittore, alchimista, diplomatico, agente segreto, ma soprat-
tutto avventuriero e tombeur de femmes, tanto che il suo nome è diventato sinonimo
di seduttore, libertino.
Dotato di una personalità affascinante, magnetica, era colto, affabulatore, esperto
di arti magiche che esercitava nei salotti accrescendo così il suo prestigio (le aveva
apprese da una fattucchiera che lo aveva curato con i suoi rituali quand’era bambino
e ne era rimasto affascinato). Aderì alla Massoneria probabilmente più per procurarsi
appoggi che per convinzioni ideologiche.
La sua opera principale, Histoire de ma vie, scritta in francese perché all’epoca era la
lingua più diffusa, è un affresco molto realistico dei costumi dell’epoca; vi narra diffu-
samente e apertamente le avventure, i viaggi, gli incontri galanti, le frequentazioni di
nobili, principi e sovrani che hanno caratterizzato la sua vita (della maggior parte delle
cose narrate ci sono riscontri oggettivi).
Casanova ha cercato per tutta la vita di far parte della classe nobile dalla quale era,
invece, escluso per la sua nascita. Fu imprigionato ai Piombi di Venezia per aver avuto
una relazione con “suor M.M.”, di origini patrizie e amante dell’ambasciatore france-
se, l’abate De Bernis, (famosa è l’evasione da quelle carceri) e a Parigi per bancarotta.
In Francia, per cercare di migliorare le condizioni precarie delle finanze dello stato,
organizzò una lotteria nazionale ritenendola l’unico modo per far contribuire i cit-

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I. La menzogna e il mentitore 27

tadini alla spesa pubblica: la cosa funzionò (come funziona ancora adesso) e ne fu
nominato responsabile.
Fra le avventure più curiose c’è quella con un cantante sedicente castrato: convinto
che fosse una donna gli fece una corte tale che gli consentì alla fine, di scoprire di aver
ragione poiché, di fatto, era una ragazza che, rimasta orfana, si faceva passare per un
castrato per poter cantare nei teatri, allora preclusi alle donne. La storia continuò anche
in seguito, in giro per l’Europa, essendo lei richiesta dai maggiori teatri. Sul versante
opposto si colloca la storia con una ragazza inglese, Charpillon, che gli si negò sempre
portandolo sull’orlo del suicidio, non tanto per l’amore quanto per l’onta del rifiuto.

Molto più complessa e tumultuosa è la vita del siciliano Cagliostro vis-


suto, pressappoco, negli stessi anni di Casanova e i cui passi si incrociano
in Provenza. «Un genio fannullone che preferisce una vita da vagabondo a
un’esistenza laboriosa», lo descrive Casanova.
Giuseppe Giovanni Battista Vincenzo Pietro Antonio Matteo Fran-
co Balsamo, conosciuto come Alessandro conte di Cagliostro o sempli-
cemente Cagliostro, dice di sé in una lettera al Procuratore generale di
Parigi:
«La verità su di me non sarà mai scritta, perché nessuno la conosce.
Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo; al di fuori del tempo e dello spa-
zio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza e se mi immergo nel mio
pensiero rifacendo il corso degli anni, se proietto il mio spirito verso un modo di
vivere lontano da colui che voi percepite, io divento colui che desidero.
Partecipando coscientemente all’essere assoluto, regolo la mia azione secondo il
meglio che mi circonda. [...]
Io sono colui che è.
Non ho che un padre; diverse circostanze della mia vita mi hanno fatto giungere
a questa grande e commovente verità; ma i misteri di questa origine e i rapporti
che mi uniscono a questo padre sconosciuto, sono e restano i miei segreti. [...]
Ma ecco: sono nobile e viandante, io parlo e le vostre anime attente ne ricono-
sceranno le antiche parole, una voce che è in voi e che taceva da molto tempo
risponde alla chiamata della mia; io agisco e la pace rinviene nei vostri cuori, la
salute nei vostri cuori, la speranza e il coraggio nelle vostre anime.
Tutti gli uomini sono miei fratelli, tutti i paesi mi sono cari, io li percorro ovun-
que, affinché lo Spirito possa discendere da una strada e venire verso di noi.
Io non domando ai Re, di cui rispetto la potenza, che l’ospitalità sulle loro terre e,
quando questa mi è accordata, passo, facendo attorno a me il più bene possibile:
ma non faccio che passare. Sono un nobile viandante? [...]
Io sono Cagliostro».

Basterebbe questo per darci un’idea di questa figura di avventuriero,


maestro di cabala e di alchimia, massone, sedicente taumaturgo, l’uomo

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28 La verità sulla menzogna

capace di risolvere (a pagamento!) qualsiasi problema.

Rimasto orfano in tenera età, Cagliostro cresce in istituti dai quali, a testimonianza
della sua precoce indole ribelle, fugge più volte. È in uno di questi istituti, annesso a
un ospedale, che inizia a conoscere le proprietà delle erbe, cosa che gli tornerà utile
in seguito. Incomincia ben presto a viaggiare per il mondo cambiando spesso nome
e spacciandosi per nobile, discendente di Carlo Martello. Depositario dei più recon-
diti segreti delle scienze occulte, cabalista, sedicente medico, “scopritore” dell’elisir
dell’immortalità e di polveri miracolose per rinvigorire i nervi indeboliti di nobili sfi-
brati dagli stravizi.
Si sposa a 25 anni con Lorenza, una giovane romana bella e analfabeta che, dopo
circa vent’anni di avventure, tradimenti e riconciliazioni per mezza Europa, lo de-
nuncerà. Fu condannato dal Sant’Uffizio per esercizio dell’attività di massone, magia,
bestemmie contro Dio, Cristo, la Madonna, i santi e i culti della religione cattolica,
lenocinio, falso, truffa, calunnia e pubblicazione di scritti sediziosi. Sarà rinchiuso pri-
ma a Castel Sant’Angelo e poi, dopo l’abiura, nella Rocca di San Leo dove morirà nel
1795 all’età di 52 anni.
Negli anni della prigionia alternerà fasi di devozione a violente ribellioni, apatia
e rabbia finché, come scrisse il cappellano del carcere, «Dio benedetto giustamente
sdegnato contro un empio, che ne aveva arrogantemente violate le sante leggi, lo abban-
donò al suo peccato ed in esso miseramente lo lasciò morire: esempio terribile per tutti
coloro che si abbandonano alla intemperanza de’ piaceri in questo mondo e ai deliri
della moderna filosofia».

Figure epiche che hanno portato la menzogna e l’inganno alle loro vet-
te più eccelse!
A chiusura del capitolo, giova ricordare che Machiavelli [123] scriveva:
Sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscano alle necessità presenti,
che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Se non ci fosse chi è disposto ad ascoltare e a credere, la carriera del
mentitore sarebbe senza sbocchi!

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II. Le origini della menzogna

Chi sia stato colui che per primo, senza essere andato a caccia,
raccontò agli esterrefatti cavernicoli come aveva ucciso il mammut
non posso dirlo. Tuttavia, qualunque fosse il suo nome e la sua razza,
egli certamente fu il fondatore delle relazioni sociali.
(Oscar Wilde, The decay of lying, 1889)

Le origini naturali
Il pavone mente per conquistare la femmina:
tra le sue tattiche anche la menzogna.
Sicuri che l’uomo discenda dalla scimmia?
(Anonimo)

Affermando che
la menzogna è il male particolare che l’uomo ha introdotto nella natura
[...] è l’invenzione che più ci contraddistingue
Martin Buber [34] evidenzia il nesso inscindibile fra natura umana, co-
municazione verbale e intento mendace (sul piano etico). Da un punto
di vista scientifico si può osservare come in natura, non solo nel mondo
animale ma anche in quello vegetale, sia molto diffuso l’inganno, general-
mente finalizzato alla conservazione di sé e della specie.
Nella lotta per la sopravvivenza è fondamentale avere gli strumenti
adatti a ingannare nemici e rivali. L’inganno è certamente uno degli stru-
menti più raffinati di cui il mondo naturale dispone [106]. Sappiamo be-
nissimo, ad esempio, che i virus adottano strategie ingannevoli per scon-
figgere il sistema immunitario dell’organismo ospite e, salendo nella scala
biologica, s’incontrano a ogni passo animali che adottano diverse forme
di dissimulazione, di mascheramento che consentono loro di vincere la
battaglia per la sopravvivenza e/o la riproduzione. Il soldato che indossa
la tuta mimetica fa semplicemente ciò che fanno gli animali quando cer-
cano di confondersi con l’ambiente, e le tute mimetiche sono il prodotto
di studi di naturalisti. Fin dall’alba dei tempi, gli animali si adornano, nel

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30 La verità sulla menzogna

periodo degli amori, per essere più attraenti; noi (e ormai non più solo le
donne) lo facciamo regolarmente perché non abbiamo un periodo degli
amori e la sessualità non è strettamente legata alla riproduzione.
Anche il mondo vegetale fa uso di tecniche di simulazione e dissimula-
zione, per nutrirsi, per diffondere il polline, per difendersi dai nemici. Le
piante carnivore usano colori sgargianti o profumi intensi per attrarre gli
insetti, intrappolarli e mangiarli procurandosi in questo modo le proteine
di cui hanno bisogno. Alcune orchidee assumono l’aspetto e l’odore della
femmina di imenottero per attirare gli imenotteri maschi e ricoprirli di
polline con il quale impollineranno altre orchidee. La patata, per allon-
tanare gli afidi, imita il segnale chimico della loro predatrice naturale, la
coccinella. E che dire del gigaro che, per impedire l’autoimpollinazione
(l’incesto!) sequestra i moscerini dentro il fiore per diversi giorni? [43]
A ben riflettere, tuttavia, se l’inganno per sottrarsi ai predatori fosse
assoluto, i predatori non avrebbero speranza di sopravvivere se non svi-
luppando sistemi percettivi più efficienti che consentano di distinguere le
apparenze dalla realtà: la capacità di riconoscere l’inganno è, in termini
evolutivi, funzionale quanto la capacità di ingannare.
Altrettanto vantaggiosa è la simbiosi, un’associazione intima, spesso
obbligata, che si osserva sia all’interno di una specie sia fra specie diver-
se; la collaborazione presuppone un comportamento di lealtà1: a volte,
condividere la verità con un amico può essere utile quanto ingannare un
nemico [106], e gli organismi che collaborano con altri, generalmente,
sopravvivono di più rispetto a quelli che non lo fanno.
Ispirandosi al modello evoluzionistico, il sociobiologo D.L. Smith
[179] sostiene che la capacità di mentire è intrinseca all’inconscio uma-
no evoluto, dati i vantaggi funzionali che offre a coloro che la usano con
giudizio e definisce “modulo machiavellico” l’area dell’inconscio che ci in-
segna a mentire; Maestripieri [124] sostiene che tanto gli umani quanto i
macachi Rhesus hanno una “intelligenza machiavellica”.

Sono numerosi gli studiosi che hanno osservato a lungo, nel loro habitat naturale,
diverse specie di primati, soprattutto grandi primati, e tutti hanno riportato episodi
inequivocabilmente riferibili al mentire, al simulare, per trarne dei vantaggi o per sot-
trarsi a situazioni critiche.
Possiamo citare l’episodio dei due giovani scimpanzé intenti a scavare per raggiun-
gere del cibo in precedenza nascosto sotto terra, i quali, all’arrivo di uno scimpanzé più

1 Curiosa è la simbiosi tra il piviere egiziano e il coccodrillo: il piviere entra nelle fauci spa-
lancate del coccodrillo e si nutre dei residui del cibo e dei parassiti che si annidano fra i denti e in
questo modo si crea una difesa da possibili aggressori che difficilmente si avvicinerebbero al cocco-
drillo per catturare l’uccello.

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II. Le origini della menzogna 31

anziano, si allontanano dalla buca assumendo un atteggiamento di indifferenza per


tornare a scavare fino a tirar fuori il cibo nascosto non appena l’intruso si è allontanato.
Altro esempio è quello della babbuina che si avvicina a un giovane babbuino che
sta mangiando: costui l’allontana ma lei gli fa notare un altro giovane babbuino che, lì
nei pressi, sta mangiando tranquillamente; il primo babbuino, sentendosi minacciato,
si avventa contro l’altro facendolo scappare mentre la femmina, approfittando della
distrazione da lei stessa provocata, è tornata indietro a mangiare il cibo momentanea-
mente abbandonato.

È evidente che saper ingannare rappresenta per l’individuo un vantag-


gio evolutivo, così come è, parimenti, importante riconoscere l’inganno e
non lasciarsi imbrogliare [37].

Una nostra amica ha un orto, dietro casa, dove tiene alcune galline e possiede anche
un cane il quale, quando vede una di queste galline, sempre la stessa, si mette a rin-
correrla: lei, quando il cane sta per raggiungerla, si lascia cadere in terra e se ne sta
immobile fingendosi morta. Il cane le dà un’annusatina e se ne torna sui suoi passi
lasciandola libera di riprendere a becchettare. Con buona pace di Cochi e Renato che
cantavano «la gallina non è un animale intelligente»!

D’altra parte, numerosi esperimenti volti a insegnare ai primati a co-


municare con l’uomo mediante un linguaggio dei segni modificato hanno
dimostrato che, con l’apprendimento del linguaggio, aumentava anche
l’attitudine a ingannare l’operatore2 in maniera direttamente proporzio-
nale, cioè maggiori erano i segnali di comunicazione appresi più numero-
se erano le bugie che venivano introdotte [147]. Potremmo dire che, per
questi “antenati” evolutivi, imparare a mentire è altrettanto facile quanto
imparare a comunicare la verità. E se questo è vero per i primati, perché
non dovrebbe esserlo anche per l’Homo sapiens?
Studi sui primati hanno dimostrato che anche questi animali sviluppa-
no, nelle relazioni di gruppo, dinamiche comprendenti lotte per il potere,
per la conquista della femmina, alleanze opportunistiche, manipolazioni
di alcuni su altri, violenze deliberate e mirate, insomma, nulla da invi-
diare ai gruppi sociali umani! Frans de Waal [66] ha osservato a lungo
una colonia di scimpanzé in cattività in uno zoo olandese e ha descritto i
risultati in un libro, La politica degli scimpanzé, in cui, se dimentichiamo
che si tratta di animali, riconosciamo comportamenti tipici degli umani:
non a caso, uno degli autori da lui più citati è Machiavelli!
Byrne e Whiten [37] hanno rilevato come, in queste comunità, gli in-

2 Koko, una gorilla addestrata per anni a comunicare con il linguaggio del segni, arrivò ad

accusare il suo gattino preferito, Lipstick, di avere divelto un lavandino dal muro!

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32 La verità sulla menzogna

dividui più giovani o di rango inferiore ricorrevano più spesso all’ingan-


no facendo ipotizzare che costoro avessero imparato che la menzogna è
uno strumento utile per difendersi dai soggetti con maggiore potere fisico
e/o sociale.
Non occorre molta fantasia (e semmai ci supporterebbe l’osservazione
dei popoli più recentemente “civilizzati” o che ancora vivono allo stato
primitivo) per immaginare che l’uomo, agli esordi della sua comparsa sul-
la terra, dovendo provvedere alla propria sopravvivenza in un ambiente
ostile, abbia fatto ricorso a trappole, trabocchetti, ami, lacci e quant’altro
per trarre in inganno e catturare le prede da cui ricavare cibo, pelli per co-
prirsi ecc. Ed è del tutto verosimile che abbia usato le stesse strategie per
aggredire (o difendersi da) i propri simili o le abbia condivise nel processo
di socializzazione, con la comprensione dei vantaggi della collaborazione
nella lotta per la sopravvivenza.
Possiamo immaginare anche che i primi tentativi di comunicazione
dell’uomo fossero per lo più grugniti e grida per segnalare un pericolo
o cose del genere, ma quando si è evoluto, quando il suo linguaggio si è
fatto più articolato, quale modo migliore per testarne l’efficacia se non
inventare menzogne, andando al di là della piatta descrizione della realtà?
D’altra parte, prima del linguaggio, non era già esperto negli inganni, nei
trucchi, nelle trappole ingegnose della caccia? La nascita del linguaggio
modifica il mentire istintivo. Con la nascita del linguaggio l’uomo acqui-
sisce la capacità di raccontare, di inventare storie e questo richiede molte
abilità. Richiede fantasia, creatività, capacità di usare le parole, di met-
terle insieme, di immaginare come reale qualcosa d’irreale, tutte abilità
che amplificano e migliorano la funzionalità del cervello e la capacità di
comunicare: comunicare consente la socializzazione e la socializzazione,
il costituirsi di gruppi sociali, ha necessariamente posto dei limiti al men-
tire, come vedremo più avanti.

Le origini sociali
Mi racconti una fiaba?
No, ti racconto una balla, così ti abitui.
(Altan)

La storia, per come ci è stata raccontata, narra di regni, imperi, tribù,


guidati da uomini, sempre in armi per espandere il proprio potere o per
difenderlo dalle aggressioni, con città protette da mura, castelli costruiti
in luoghi difficilmente accessibili e facilmente difendibili, una narrazione

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II. Le origini della menzogna 33

di battaglie, di lunghe guerre la cui apoteosi distruttiva si concretizza nelle


due guerre mondiali che hanno funestato il secolo scorso e alle quali si
sono sommate, e si sommano tutt’ora, le decine di guerre e guerriglie che
si combattono in varie parti del globo3.
Nel corso dell’Ottocento nasce la storiografia moderna che consente un
approccio scientifico agli eventi storici [65]. Il Novecento, il secolo breve,
vede le due guerre mondiali, la nascita e il tramonto delle ideologie mag-
giori (nazismo, fascismo, comunismo), eventi molto trattati dagli storici
nel tentativo di ricostruire la verità. Il processo di Norimberga, che pose
fine al nazismo, è l’atto storicamente più riuscito di ricerca della verità.
Anche la scienza antropologica nasce nel secolo scorso (Claude Levy-
Strauss [182]) e aiuta a ricostruire la verità sull’evoluzione dell’uomo e
sulla vita nella preistoria, ma spazia anche su alcune manifestazioni tipi-
che di certe comunità di fronte al dolore e alla morte: il grande Ernesto De
Martino [63] ha studiato a fondo questi fenomeni nella Basilicata degli
anni cinquanta.
È storia invece quasi sconosciuta quella del mondo (o almeno di
gran parte dell’Europa) che qualche migliaio di anni fa viveva in pace. È
una scoperta abbastanza recente, degli ultimi sessant’anni circa, fatta da
un’archeologa lituana, Marija Gimbutas [93], e dalla sua allieva, Riane
Eisle [79], le quali hanno portato alla luce numerosissimi reperti attestan-
ti l’esistenza, dal 7000 al 2000 a.C., di una società matriarcale in cui non
c’erano né re né guerrieri, dove c’era parità tra i sessi e non c’era alcuna
gerarchia o autorità istituzionalizzata.

Questa società, che la Gimbutas ha chiamato gilanica (nome derivato dalla fusione di
“gi” e “an”, abbreviazioni dei termini greci “gyne”, donna e “andros”, uomo), avrebbe
avuto la sua culla nell’area dei Balcani, raggiungendo anche l’isola di Creta, e avrebbe
influenzato gran parte dell’Europa del nord (se ne sono trovate tracce anche in Asia e
nell’America del Sud).
Nei loro scavi, le due archeologhe non hanno mai trovato armi, neppure quando già
si lavoravano i metalli, non hanno trovato alcuna rappresentazione di guerre, ma han-
no trovato un’infinità di statuette rappresentanti, inequivocabilmente, la Dea Madre
(o la Grande Dea, come la chiamava la Gimbutas), a documentare che, all’inizio, il dio
era donna. Questa società, matrilineare, non prevedeva l’impiego della forza fisica né a
scopo offensivo né difensivo, né l’uso di strumenti di morte; non aveva eserciti o mura
di cinta, il contesto era libero e pacifico, non c’erano repressioni, ingiustizie, gerarchie,

3 Il sito http://www.guerrenelmondo.it/ che tiene il conto delle guerre in atto nel modo, alla
data del 31 Dicembre 2016 riportava – considerando, oltre alle guerre tradizionali, quelle civili, gli
scontri con ribelli, la guerra al narcotraffico ecc.) – 25 guerre in atto (10 in Africa, 5 in Asia, 4 in Eu-
ropa e nel Medio Oriente e 2 in America) che coinvolgevano 67 Stati e 745 fra milizie, guerriglieri,
gruppi terroristici, separatisti, anarchici.

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34 La verità sulla menzogna

smentendo chi sostiene che gli esseri umani siano portati, per natura, al dominio e alla
malvagità; il sistema era strutturato orizzontalmente, basato sul concetto della libertà
senza autorità, e questo clima aveva favorito lo sviluppo scientifico, artistico e tecno-
logico.
Il declino di queste società avvenne per l’afflusso in Europa, fra il 4° e il 3° millennio
a.C., di popolazioni indoeuropee, patriarcali e guerriere, provenienti dal Caucaso e
dalla Siberia, che assoggettarono le società gilaniche imponendo il loro modello socia-
le patrilineare che, nella sostanza, è alla base della nostra civiltà. Grazie al suo essere
isola, Creta fu l’ultimo baluardo gilanico fino al 1500 a.C., l’unico luogo in cui donne
e uomini vivevano in un rapporto paritario che non si ritroverà mai più nelle culture
“civili”, “democratiche”, in Grecia e nel resto del mondo.

Se questo è vero, potremmo dire che le origini dell’umanità così come


le conosciamo sono false, sono il prodotto di una storiografia maschilista,
coerente con il fatto che, come al solito, la storia la scrivono i vincitori, in
questo caso gli archeologi e gli antropologi maschi dell’Ottocento.
Ogni popolo, quando si è affacciato alla storia, ha sentito la necessità
di inventarsi origini divine e i re, per poter esercitare il proprio potere
senza doverne dar conto, si dicevano discendenti diretti della divinità:
Faraoni e re Inca erano figli del Sole, i Maharagià di Wisnù, i re germanici
discendevano dal dio Thor, Romolo, il fondatore di Roma, era figlio del
dio Marte e così via.
La necessità di dare una legittimazione “divina” all’autorità assoluta
di re e imperatori ha attraversato i secoli, come dimostra la persistenza,
almeno fino al XIX secolo, della formula d’incoronazione «Per grazia di
Dio».

Il legittimismo può esser fatto risalire alla Lex Salica (voluta dal re dei franchi, Clo-
doveo, verso il 503), che stabiliva la linea successoria per via maschile e legittimava
l’assolutismo monarchico. Il potere del re, rifacendosi a interpretazioni dell’Antico
Testamento, derivava direttamente da Dio, trasferito al figlio primogenito, era asso-
luto e ribellarsi al re equivaleva a ribellarsi a Dio. La Rivoluzione francese stabilì che
la sovranità spetta alla Nazione e il governo legittimo è quello deciso dai cittadini.
Durante il Congresso di Vienna (1814-1816) Talleyrand cercò, inutilmente, di ripri-
stinare la Lex Salica.

In Grecia il particolarismo culturale e religioso, accentuato dalla fram-


mentazione politica e dall’isolamento geografico, condusse a una proli-
ferazione di culti e credenze, che generò una non sempre coerente – ma
certamente ricchissima – mitologia. Si narravano storie in cui dei, semidei
e umani si mescolavano in avventure, frodi e inganni, ora per la conquista
di una donna, ora per punire i trasgressori di qualche legge o tabù, ora
per combattere a fianco di eroi da loro protetti, con i quali erano magari

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II. Le origini della menzogna 35

imparentati, o contro eroi nemici protetti da dèi rivali, ora, più semplice-
mente, per togliersi qualche capriccio4. Gli dèi, per far questo, non disde-
gnavano di assumere aspetto umano o, addirittura, animale. Tutte le pas-
sioni erano motivo per intervenire direttamente nella vita degli umani.

Zeus, re degli dèi e degli uomini, dio del cielo e del tuono, era anche re delle menzo-
gne, degli inganni, delle frodi, delle prevaricazioni, degli stupri.
Già la sua nascita fu un inganno: Crono, suo padre, divorava tutti i suoi figli appena
nati perché gli era stato predetto che sarebbe stato spodestato da uno di loro, come
lui aveva fatto con suo padre Urano. Quando fu prossima a partorire Zeus, Rea, sua
madre, aiutata da Gea, dette a Crono, che aveva già mangiato i cinque figli precedenti,
al posto del figlio, un sasso avvolto in un panno che Crono divorò immediatamente,
mentre il neonato veniva nascosto in una grotta sul monte Ida di Creta.
Zeus, quando raggiunse l’età adulta, spodestò Crono: Metis, sua moglie, gli fornì
un potente emetico, che indusse il padre a vomitare la pietra che lo aveva sostituito e
tutti i fratelli e le sorelle ingeriti prima di lui. Sconfisse prima Crono e gli altri Titani,
quindi i Ciclopi, dopo di che spartì il mondo con Poseidone (le acque) e Ade (il regno
dei morti) mentre a lui spettarono il cielo e l’aria. Ebbe diverse spose, di cui l’ultima
fu Era5, sua sorella, con la quale ebbe Ares, Ebe ed Efesto, e, nonostante la terribile
gelosia di Era (da lui contraccambiata!), ebbe una serie infinita (almeno un’ottantina)
di relazioni con altre divinità, con ninfe e con mortali, in parte consenzienti e in parte
con l’inganno, da cui nacquero 150 fra figli e figlie.
La storia dei matrimoni di Zeus può essere considerata la metafora del passaggio
dal matriarcato al patriarcato, dalla matrilinearità alla patrilinearità. La prima spo-
sa fu Metis che, con la sua saggezza profetica, gli consentì di conquistare e gestire il
potere; rimasta incinta di Atena, prima che partorisse, Zeus la ingoiò e quindi Atena,
che sintetizzava in sé il potere e il sapere, nacque dalla sua testa. La seconda fu Temi
portatrice della pace, della giustizia e dell’ordine; la terza, Eurinome, portatrice della
bellezza; la quarta Demetra, madre dell’abbondanza, delle messi, dei frutti; la quinta
Mnemosine, madre delle Muse e quindi della gioia, del canto, dell’armonia; la sesta,
Leto, madre di Apollo e di Artemide quindi della poesia e della luce. L’ultima fu Era,
simbolo della fedeltà coniugale, del matrimonio monogamico. Il regno di Zeus si ca-
ratterizza perciò per la saggezza, la stabilità politica, la bellezza, la maternità, la poesia,
e culmina con l’istituzione del matrimonio. Nonostante le sue continue avventure

4 Ci potremmo chiedere se gli umani, dopo essersi tolti qualche capriccio tra di loro, per

coprire la magagna non abbiano dato la colpa agli dèi!


5 Zeus può essere considerato uno stupratore seriale poiché prese molte donne con l’inganno:
Leda sotto forma di cigno, Danae come pioggia d’oro, Alcmenia come sosia del marito, Europa come
toro bianco, Dia in forma di stallone e così via. Nei Dialoghi, Luciano di Samosata [122] scrive:
Zeus essendo portato all’amore e gran femminiere, tosto riempì il cielo di figlioli, alcuni pro-
creati con le celesti sue pari, e altri bastardi con le donne mortali per le quali egli diventò oro,
toro, cigno, aquila e prese più forme dello stesso Proteo. La sola Atena egli partorì dal suo
proprio capo, avendola a caso concepita dal suo cervello. E dicono che ei trasse Bacco mezzo
formato dal ventre della madre, percossa dal fulmine e se lo chiuse in una coscia e lo portò, e
infine si fece un taglio quando sentì i dolori del parto.

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36 La verità sulla menzogna

galanti, il padre degli dei era in continua lite con Era ma non si separò mai da lei.
Attraverso questi matrimoni, Zeus si appropriava delle caratteristiche del matriarcato
trasferendole nel patriarcato.

Ma se gli dei erano “falsi e bugiardi”, potevano gli uomini non sentirsi
autorizzati a imitarli? A questo proposito la letteratura greca annovera tra
le sue fila alcuni fra i più famosi bugiardi, come l’Ulisse di Omero [140],
ma si può anche citare Aristofane che, nelle sue commedie, portava in
scena le fanfaronate iperboliche di una quantità inesauribile d’imbroglio-
ni, truffatori, ciarlatani.

Anche la Bibbia, nell’Antico Testamento, annovera numerosi mentitori, dal serpente


di Eva a Caino, a Giacobbe (che si fece passare per il fratello Esaù per sottrargli l’ere-
dità) alla moglie di Putifarre («la falsa ch’accusò Gioseppo» dice Dante), ai fratelli di
Giuseppe fino alle levatrici d’Egitto che salvarono i bambini ebrei; e se, oltre alle Ta-
vole della Legge che impongono “Non attestare il falso contro il tuo prossimo” (Esodo
20:2-17), ricorrono spesso le esortazioni a non mentire, è evidente che la menzogna,
fra gli ebrei, non era poi l’eccezione. Nel Nuovo Testamento, mentire è considerato
più grave che violare le leggi della tribù e, poiché Gesù aveva predicato la giustezza
della verità, ne consegue che mentire è un male in quanto peccato più che una viola-
zione delle regole.

I romani non erano da meno affidandosi agli àuguri e agli arùspici


per “profezie” la cui falsità e grossolanità erano tali da far dire a Catone
che si meravigliava di «come un arùspice non desse in uno scroscio di risa
nell’incontrarne un altro». Annibale la pensava allo stesso modo tanto che
al re Prusia, il quale rifiutava di intraprendere la guerra contro Roma a
causa degli arùspici sfavorevoli, ribatté: «Dunque tu credi più agli arùspici
e ai loro pezzettini di carne di vitello che a me, che sono un esperto d’arte
militare e ho vinto tante guerre?» [74]
Cicerone [46] sottolineava la necessità di dire la verità tra uomini li-
beri mentre si poteva tranquillamente mentire agli schiavi, principio che,
secoli dopo, fu fatto proprio dalla classe dominante inglese che riteneva
estremamente grave mentire fra gentiluomini, ma non considerava disdi-
cevole mentire alle classi subalterne.
Fu Sant’Agostino, da giovane bugiardo e promiscuo, che una volta
convertito, fissò, fra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C., princìpi eti-
ci chiari e inequivocabili sulla menzogna: ma di questo, e dell’evoluzio-
ne del pensiero filosofico relativo alla menzogna, diremo nell’Appendice
Tecnica.
Tutte le sette e tutte le congregazioni sviluppatesi nel corso della storia
sociale dell’uomo sono state generalmente scuole di ipocrisia e di falsità.

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II. Le origini della menzogna 37

Tralasciando gli Scribi e i Farisei, di cui è ben noto ciò che disse Gesù6,
citiamo la Compagnia di Gesù – la cui regola ammetteva la simulazione,
stabilendone anche le norme –, che Benedetto Croce [53] bollò definen-
dola “la più cospicua incarnazione storica del principio che si possa ragio-
nevolmente frodare la legge etica”.
Attraversando la storia dei popoli, delle nazioni, delle religioni e anche
della scienza, vediamo, senza dubbio alcuno, la menzogna protagonista in
tutte le epoche e in tutte le latitudini. L’autorità costituita, laica o religiosa
che fosse, mal tollerando i dissidenti, li costringeva ad attestare il falso per
salvarsi la vita. Si pensi non solo alle streghe e all’Inquisizione ma anche a
scienziati, pensatori e filosofi – fra i tanti Galileo Galilei, Tommaso Cam-
panella, Giordano Bruno – costretti ad abiurare le loro scoperte o le loro
idee per sottrarsi alla morte (qualche volta, come avvenne per Giordano
Bruno, inutilmente).
Abbiamo già detto che proprio il costituirsi di gruppi sociali ha posto
di necessità dei limiti al mentire: è possibile stare insieme solo se i membri
del gruppo sono sinceri, onesti, leali, affidabili nei rapporti reciproci. La
fiducia fra i membri di un gruppo sociale è fondamentale e deve prevalere
sulle spinte individualistiche. La pressione sull’onestà, sulla verità è un
bisogno di natura sociale più che spirituale poiché la menzogna, minando
la fiducia all’interno della società, ne compromette gli equilibri. Non a
caso, in molte lingue, il termine “verità” ha anche il significato di dovere,
obbligo, lealtà, affidabilità. È interessante osservare che, in molte società
tribali, la verità ha una diversa implicazione etica a seconda che sia rivolta
ai membri della tribù o agli estranei o, a maggior ragione, agli avversari7.
Secondo Keyes [112], è del tutto ragionevole pensare che, finché i
gruppi sociali sono di dimensioni limitate, consentendo la conoscenza
reciproca dei componenti, ci sia poco spazio per la menzogna. Il contatto
costante renderebbe onesti:
nessuna macchina della verità è paragonabile alle persone che si conoscono
bene tra loro.
In realtà, in una comunità (intesa, come ha detto qualcuno, come un
luogo in cui i residenti non possono mentire sulla propria età), non ne-
cessariamente i membri sono onesti e solidali tra loro, anzi, spesso è l’op-

6 “... sepolcri imbiancati, i quali di fuori appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti
e di ogni putredine” Matteo [129].
7 “Quando ho letto ciò che l’uomo bianco ha scritto dei nostri costumi, mi è venuto da ridere
perché è usanza della nostra gente mentire regolarmente agli estranei e in particolare all’uomo bian-
co”: così avrebbe raccontato un membro di una tribù nigeriana a Salamone [163].

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38 La verità sulla menzogna

posto: la solidarietà è un obbligo necessario, subìto. Secondo l’antropolo-


ga Juliet du Boulay [75], i membri di una comunità
possono conciliare senza difficoltà una profonda comprensione della real-
tà del comandamento di amare il proprio prossimo con il fatto che molto
spesso lo detestano.
In una comunità “faccia a faccia”, due sono fondamentalmente i mo-
tivi per non mentire, perché è sbagliato e perché si può essere scoperti: il
secondo è quello più efficace. Non c’è un istinto a essere onesti o a essere
disonesti, c’è la necessità di essere accolti dalla comunità, la quale trae il
suo nutrimento dalla fiducia reciproca [112].
Con l’allargamento delle comunità in aggregati sempre più vasti, fino
alle megalopoli, i rapporti faccia a faccia si sono ridotti a un numero mol-
to limitato di persone. Le piccole comunità sono diventate eccezioni e an-
che in queste, se si escludono microcomunità isolate, è cambiato lo stile di
vita per la maggiore mobilità, per l’accesso più facile all’informazione, per
la crescita culturale ecc. Sono caduti quei tabù sociali (come la “costrizio-
ne” all’onestà dovuta alla vita nella comunità ristretta) e si sono ridotte, di
conseguenza, le remore al mentire.
Tuttavia, ognuno di noi appartiene a diversi gruppi sociali (in primo
luogo la famiglia e poi gli amici, i colleghi di lavoro, talora il gruppo par-
rocchiale o l’associazione culturale, politica, sportiva e così via) in ognuno
dei quali il vincolo comunitario può essere più o meno intenso e quindi il
livello di inibizione alla menzogna variare.
Si potrebbe pensare che, con la crescita culturale, sociale ed economi-
ca, la necessità di mentire sia diventata meno impellente ma non è così,
forse ha solo cambiato pelle. Da un lato, i demagoghi usano a piene mani
la menzogna per cercare di conquistare il potere e per conservarlo e raf-
forzarlo, dall’altro, il popolo è pronto a seguire chi ritiene essergli più utile
e a non vedere o a negare quanto può danneggiarlo. Non solo i tiranni
(Hitler, Mussolini, Stalin, Mao), ma anche i più grandi statisti hanno usa-
to una “doppiezza” funzionale alle loro strategie politiche, molte volte
nell’interesse del bene comune della loro Nazione: Churchill, ad esempio,
tentò un approccio diplomatico con Mussolini per contrastare Hitler ed
evitare la seconda guerra mondiale; De Gaulle, in Francia, utilizzò strate-
gie ambigue per tenere il Paese saldamente unito dopo la seconda guerra
mondiale; De Gasperi, per risollevare l’Italia dalla disfatta della seconda
guerra mondiale, parti da solo per chiedere soldi all’America; Togliatti
con la svolta di Salerno (molto criticata dalla storiografia ideologica co-
munista), evitò che l’Italia cadesse sotto l’influenza della Russia.
Oggi, la crescita esponenziale dell’informazione, invece di fornirci

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II. Le origini della menzogna 39

strumenti più efficaci per avvicinarci alla verità, ha finito per creare una
confusione, una Babele dell’informazione, matrice ideale, terreno di col-
tura ottimale per la menzogna. In definitiva, non è cambiata la sostanza
delle cose, forse la menzogna è diventata più democratica, più alla portata
di tutti. Pertanto, quando c’è un utile da conseguire, una colpa da giusti-
ficare, un desiderio da appagare, un capriccio da soddisfare, e la verità
potrebbe rappresentare un ostacolo al raggiungimento del fine agognato,
è automatico (com’è sempre stato) il ricorso alla menzogna.
Su un altro versante si colloca l’uso della menzogna nel contesto dei
rapporti sociali, cioè la menzogna convenzionale, la cui nascita può essere
collocata nelle corti italiane e francesi durante il Rinascimento. Natural-
mente si è evoluta nel corso dei secoli; pur con molti salti e lacune, ve-
diamo di seguirne qui il filo conduttore principale. Nell’alto medioevo, le
corti di re, principi e nobili vari erano generalmente castelli severi, quasi
dei bivacchi militari, le cui regole e logiche ricalcavano quelle del milita-
rismo feudale e, fra guerre, congiure e tradimenti, c’era poco spazio per i
rapporti di politesse, di cortesia. È solo con l’avvento delle Signorie, dedite
più ai commerci che alle guerre (delegate a milizie mercenarie), che le
corti si sono trasformate in luoghi raffinati, complessi, regolati da rituali
e codici i quali tenevano conto delle apparenze e della socialità più che
della sincerità. Questo approccio ha la sua culla nell’Italia del XVI secolo,
terra allora di vivace sperimentazione sociopolitica: è l’epoca in cui, con
il Principe di Machiavelli, cade il tabù della menzogna strumentale e, con
esso, l’idea del sovrano che, in quanto investito di un potere divino, non
dovesse mentire. Senza svolazzi moraleggianti o colte citazioni di filosofi
classici, si afferma che il principe non può farsi carico di scrupoli morali
nell’esercizio della sua funzione politica: è un lusso che non può – e, per il
bene del suo regno, non deve – permettersi. Nel passaggio dal basso me-
dioevo al XVI e XVII secolo nasce una specifica “etichetta” di corte, la co-
siddetta dissimulazione onesta, codificata da Baldassarre Castiglione [42],
nel Libro del Cortegiano. Giordano Bruno la riteneva uno scudo contro
la persecuzione religiosa di chi predicava la verità. Pascal [145] sosteneva
che l’esistenza della società si fonda sul reciproco inganno. I grandi dissi-
mulatori facevano scuola: esistono vari libelli – di cui il più celebre è forse
l’anonimo Breviario di Mazzarino, che la tradizione ascriverebbe al Car-
dinale stesso – in cui si descrivono tutte le tecniche, i consigli e persino
la fisiognomica necessaria per il giovane aspirante alla carriera politica.
Con l’Illuminismo prendono vita, in contrapposizione alla corte, i “sa-
lotti”, più egalitari e a più marcata impronta femminile. Nell’esaltazione
della centralità dell’uomo e delle sue virtù, si gettano le basi di verità e giu-
stizia, le quali, dopo la Rivoluzione francese, si tradurranno nelle “virtù

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40 La verità sulla menzogna

repubblicane”: la verità diventa il riferimento istituzionale e democratico


prioritario. Anch’essi tuttavia non erano esenti dall’inganno, e più in par-
ticolare dalla mistificazione: prova ne sono i vari ciarlatani miracolosi (da
Cagliostro a Mesmer) che si affermano in questi ambienti. Nello stesso
periodo, in Inghilterra, la cultura delle buone maniere si ritrova, più de-
mocraticamente, nei caffè (anche se le donne, i servitori e le classi inferio-
ri ne erano escluse), dove l’ipocrisia è considerata una virtù sociale. Alla
fine del Settecento, tuttavia, si afferma l’idea che le maniere aristocratiche
siano veicolo di menzogne e ipocrisie, rechino danno al popolo e che deb-
bano essere smascherate (Rousseau) e condannate (Robespierre).
Con il Romanticismo le buone maniere, l’arguzia, la socievolezza sono
considerate espressioni di doppiezza e di insincerità, e viene propugnato
l’ideale di fedeltà ai propri sentimenti, di integrità morale. Rifacendosi
alla nuda veritas romana, alcuni autori si scagliano contro l’ipocrisia in
religione, in politica e in altri contesti, in nome della veridicità assoluta.
In America, l’eccesso di buone maniere è visto come segno della dop-
piezza del Vecchio Mondo o come sopravvivenza del deprecato stile degli
Stati del Sud, condannato e deriso dai sostenitori della schiettezza e del-
la verità. I sostenitori delle buone maniere ritengono, invece, che queste
abbiano un’importante e utile funzione di “lubrificante” sociale, tenendo
conto della sensibilità altrui, e che la sincerità sia un atto di violenza, di
sopraffazione sui deboli e i vulnerabili.
Nel XX secolo, alcuni sociologi hanno definito educazione positiva
quella che tende ad aiutare gli altri, e in questo contesto le buone ma-
niere possono essere intese come una sorta di moralità del quotidiano,
altrettanto morale dell’assoluta proibizione della menzogna in ogni circo-
stanza, a prescindere dalle conseguenze. In generale possiamo dire che le
buone maniere, la dissimulazione sociale, una deliberata opacità compor-
tamentale, un basso profilo, un nascondere le proprie intenzioni vengono
oggi in genere accettate in una società in cui la sincerità rischia di esporre
al ridicolo, all’ostracismo o peggio.
D’altronde, nell’educazione dei bambini, vengono dati messaggi con-
traddittori sul valore della sincerità e della verità, da un lato, e delle buone
maniere, della politesse, dall’altro: un’educazione all’ambiguità, alla dop-
piezza, come parte integrante del processo di socializzazione, ancorché
basato sulla menzogna a fin di bene.
Non possiamo, infine, non sottolineare che alcune azioni menzognere
non possono essere condannate anche se hanno motivazioni egoistiche,
come, ad esempio, la protezione della propria privacy, e che, più in gene-
rale, sarebbe errato ritenere che la menzogna abbia sempre una funzione
sociale negativa [106].

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II. Le origini della menzogna 41

Le origini neurobiologiche

Se prescindiamo dalle forme più elementari di simulazione e dissimu-


lazione, comportamenti innati cui fanno ricorso gli animali, e prendiamo
come punto di riferimento i primati – capaci di elaborare strategie non
solo adattive ma anche evolutive, cioè creative, come mentire delibera-
tamente –, è inevitabile chiederci quali siano i rapporti tra la capacità di
ingannare e l’intelligenza.
Fino alle prime osservazioni di Dumbar [76], c’erano numerosi aned-
doti che davano credito a una correlazione fra questi due elementi ma
mancavano le “prove provate”.

Secondo questo studioso, il cervello dei primati è proporzionalmente più grande nelle
specie che vivono in gruppi di grandi dimensioni rispetto a quello di specie che vivono
in piccoli gruppi. Egli ipotizzò che la dimensione del cervello fosse in funzione della
complessità del gruppo di appartenenza. I conti sono presto fatti: se il tuo gruppo è di
cinque soggetti devi memorizzare dieci rapporti diversi per orientarti nelle dinamiche
sociali (chi è alleato con chi, chi merita il tuo tempo e la tua attenzione ecc). Se il tuo
gruppo è di venti soggetti, devi tenere sotto controllo novanta rapporti bidirezionali
(di cui diciannove ti coinvolgono direttamente) oltre a centosettantuno che riguarda-
no il resto del gruppo per cui, essendo il gruppo quadruplicato, le relazioni sono venti
volte maggiori.
Dumbar prese come parametro di confronto il volume della neocortex, quella parte
della corteccia cerebrale di più recente acquisizione, considerata la parte “pensante”
del cervello, responsabile dell’astrazione, dell’autoriflessione, delle previsioni, insom-
ma quella deputata a gestire la complessità della vita sociale. I suoi studi gli consenti-
rono di poter prevedere, con un lievissimo margine di errore, la numerosità del grup-
po in rapporto al volume della neocortex. In base ai suoi calcoli, l’uomo, con la sua
neocortex, è in grado di gestire un gruppo sociale di circa centocinquanta persone,
corrispondente, secondo gli studi di sociologia, al numero medio di componenti della
maggior parte dei gruppi sociali umani, associazioni, unità dell’esercito, reparti azien-
dali ecc.

Stabilita la relazione tra grandezza del cervello e complessità dei rap-


porti sociali, Byrne e Corp [36] poterono stabilire che anche la frequenza
degli inganni, per ogni specie, è proporzionale alle dimensioni della ne-
ocortex: era dunque assodato che più grande è il cervello, maggiore è la
capacità di mentire (o viceversa?).
L’evidenza sperimentale che anche gli animali, proprio come gli uma-
ni, mentono, forse potrebbe deludere gli animalisti più sentimentali, ma
dimostra inequivocabilmente come la finzione sia un comportamento
istintivo-adattativo – certamente non riducibile alla sola comunicazione
verbale – che è tanto più sviluppato quanto lo è l’intelligenza dell’anima-

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42 La verità sulla menzogna

le. I mammiferi, soprattutto i primati, sono in grado di attivare una vasta


gamma di strategie volte a ingannare l’interlocutore nei contesti sociali [1].
L’inganno strategico è definibile come un
atto del normale repertorio dell’agente, agito in modo che un altro indivi-
duo con ogni probabilità fraintenda il suo significato, a vantaggio dell’a-
gente stesso [37].
La capacità di mettere in atto inganni strategici è quindi in relazione
con il volume della neocortex [36] ed essendo questa la parte filogeneti-
camente più giovane della corteccia cerebrale, è consequenziale pensare
che l’inganno sia una delle funzioni più recenti cui l’evoluzione è appro-
data [1]. Sarebbe ingenuo pensare che un’attività così complessa come
il mentire possa essere appannaggio di un’unica struttura cerebrale per
cui, semplificando, possiamo affermare che, per mentire, sono necessarie
almeno due attività mentali simultanee: programmare la menzogna e te-
nere nascosta la verità, dando per scontato che ci sia la consapevolezza di
quale delle due sia l’informazione giusta, e già questo coinvolge processi
cognitivi complessi [180]8.
Interessanti sono gli studi tesi a individuare le aree cerebrali coin-
volte nei meccanismi connessi alla menzogna, realizzati attraverso l’os-
servazione di pazienti portatori di danni cerebrali che mostravano un
deficit della capacità di mentire. Lo studio della perdita di una funzione
localizzata in una certa area del cervello, può aiutarci a comprendere il
ruolo di tale area in condizioni fisiologiche. Grazie a questo metodo, è
stato possibile osservare, ad esempio, la cosiddetta “onestà” dei pazienti
con malattia di Parkinson che hanno, non solo difficoltà a mentire, ma

8 Al tempo stesso, mentire induce una modificazione dello stato emotivo che, secondo

alcune ricerche, sarebbe mediato dall’amigdala. È stato ipotizzato che la corteccia cingolata sia
coinvolta nella produzione delle risposte false e nell’inibizione di quelle vere e si è visto, inol-
tre, che il nucleo striato, anch’esso sviluppatosi – evolutivamente parlando – più di recente nei
primati, potrebbe essere coinvolto in quanto modula, tramite le connessioni alla corteccia fron-
tale, varie funzioni comportamentali e cognitive ed è responsabile dell'integrazione di messaggi
inerenti a uno stimolo di ricompensa, fungendo da mediatore con il sistema limbico; questo
è importante perché, generalmente, l’inganno è messo in atto per ottenere un qualche tipo di
beneficio, e quindi è verosimile che siano coinvolti anche i meccanismi della gratificazione. Da-
gli studi di neuroradiologia sembra che, anche nell’uomo, i mentitori patologici mostrino un
maggior volume della sostanza bianca nella corteccia prefrontale e in particolare nella corteccia
orbito-frontale e nella corteccia frontale media e inferiore. Chiaramente, resta da capire se questo
dato sia da considerare una causa o un effetto. In considerazione della particolare abilità verbale
di questi soggetti, è stato ipotizzato che la maggiore quantità di sostanza bianca potrebbe essere
in relazione a una facilitazione della processazione delle informazioni durante la messa in atto
dell'inganno [1].

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II. Le origini della menzogna 43

anche a riconoscere le menzogne altrui9.


Considerando il ruolo della menzogna nella vita quotidiana, siamo
portati, di solito, a giustificarla in funzione del risultato immediato che
vogliamo raggiungere, senza prendere in considerazione, oltre al benefi-
cio pratico ottenuto, la gratificazione “chimica”, cioè quella di attivazio-
ne del circuito dopaminergico della ricompensa, attivazione che potrebbe
essere il fine ultimo della menzogna e dà allo scopo che ci prefiggiamo di
raggiungere il semplice ruolo di “mezzo” per ottenerla.

Un interessante studio condotto da Greene e Paxton nel 2009 [98] ha cercato di met-
tere a fuoco questo aspetto, basandosi su una versione computerizzata del gioco della
moneta.
I partecipanti dovevano scrivere in anticipo il risultato del lancio della moneta e
avrebbero ricevuto un premio in denaro se avessero indovinato su quale faccia sa-
rebbe caduta. La risposta non era sempre controllata dagli esaminatori e il premio
veniva elargito “sulla parola”. È evidente che la tentazione di ottenere il premio sem-
plicemente affermando di aver predetto il risultato corretto fosse forte. Lo scopo dello
studio era proprio quello di indagare cosa succedeva in un cervello esposto a una
simile pressione, e cioè quali aree cerebrali si sarebbero attivate in rapporto alla scelta
di avere un comportamento “onesto” o “disonesto”.
Attraverso l’uso della fMRI, è stato rilevato che i soggetti che si mostravano talvol-
ta “disonesti” avevano costantemente un incremento dell’attività della corteccia pre-
frontale, sia quando decidevano di mentire, sia quando decidevano di dire la verità.
Quelli che invece non mentivano mai, non mostravano questo tipo di attivazione,
anche se confrontati con individui di controllo ai quali non era data l’occasione di
barare.

In conseguenza di questi risultati, gli autori hanno ipotizzato che il


comportarsi in modo onesto sia correlato più all’assenza di tentazione
che alla resistenza ad essa, visto che il circuito “del controllo” (corteccia

9 Verosimilmente correlata a una ridotta attività metabolica nella corteccia dorsolaterale e

prefrontale anteriore destre [1]. Numerosi sono anche gli studi, su soggetti sani, volti a indagare i
meccanismi cognitivi dell'inganno, effettuati mediante l’impiego delle tecniche di neuroradiologia
fra cui possiamo citare, ad esempio, l’aumento dei tempi di reazione nella corteccia prefrontale
ventrolaterale, o un’aumentata attività nella corteccia del cingolo: la maggiore attivazione della cor-
teccia frontopolare si osserverebbe soprattutto nei casi di menzogne ben articolate e finalizzate a uno
scopo, mentre nella corteccia del cingolo accadrebbe l’opposto. Potremmo citare molti altri esempi,
ma tutti confermano la costante centralità del sistema esecutivo frontale nell’arte dell’inganno. Né
avremmo potuto attenderci qualcosa di diverso se si pensa che la corteccia prefrontale anteriore è
responsabile dell’integrazione di più processi cognitivi per la messa in atto di un comportamento
finalizzato, la corteccia prefrontale dorsolaterale è implicata nella manipolazione dei dati prove-
nienti dalla memoria di lavoro e nel controllo cognitivo, mentre la corteccia del cingolo interviene
nell’elaborazione delle emozioni e nella rilevazione dei conflitti. Tutte funzioni, queste, che devono
essere chiamate in causa quando vogliamo mentire: e pensare che sembra un atto così semplice!

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44 La verità sulla menzogna

prefrontale), non si attivava mai in chi aveva scelto di non barare10.


Le problematiche etiche e filosofiche – relative al libero arbitrio – sol-
levate da queste indagini sono considerevoli, ma questa non è la sede
adatta per discuterne. Potremmo comunque chiederci, alla luce di questi
risultati, se cedere alla tentazione sia una colpa, come la nostra cultura di
stampo neoplatonico e cristiano sembra stabilire, o, più semplicemente,
sia il risultato di un differente assetto cerebrale. E, per contro, l’onestà
è da considerarsi davvero una virtù, se alla base della sua espressione vi
è, semplicemente, una diversa elaborazione delle possibili alternative di
comportamento? Non è semplice rispondere e la risposta giusta probabil-
mente non esiste o quanto meno non è unica: esisteranno molte risposte
che varieranno secondo le coordinate socioculturali della persona a cui
viene posta la domanda.

10 L’attivazione della corteccia prefrontale potrebbe essere il correlato della scelta compor-

tamentale attiva dell’onesto tra più possibilità, mentre il disonesto mantiene attivi i meccanismi
cognitivi di valutazione critica delle informazioni al fine di scegliere come indirizzare il comporta-
mento. In alternativa, l’attività dei meccanismi di controllo (il circuito “di stop” cerebrale) sarebbe
in rapporto al tentativo di resistere alla tentazione. Questo ci riporta al problema del coinvolgimen-
to dell’amigdala, che media le risposte emozionali, e dello striato, centrale nel circuito dopaminer-
gico della gratificazione. Non è ancora chiara la modalità del loro coinvolgimento ma, da alcuni
studi, sembra che la presenza di recettori dopaminergici nello striato ventrale sia addirittura diversa
in chi abbia la tendenza a mentire [1].

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III. La menzogna nello sviluppo dell’individuo

Mamma: «Vergogna! Io e papà da piccoli


non dicevamo mai le bugie!».
Figlia: «Davvero? E a che età avete cominciato?».
(David Frost)

Come sarebbe la vita in un Paese in cui la morte non provoca emozio-


ni, il linguaggio serve per definire le cose che esistono nella realtà, dove è
esclusa qualunque possibilità d’inventiva?

Jonatham Swift [183] racconta che Gulliver, durante il suo quarto e ultimo viaggio, ar-
riva fortunosamente nella terra abitata dagli Houyhnhnms, cavalli dotati di raziocinio
e di linguaggio, e dai loro servitori, gli Yahoo, esseri umani nell’aspetto ma abbrutiti
nel corpo e nello spirito. La società degli Houyhnhnms si basa sui principi della più
pura razionalità: non hanno religione, non conoscono il dolore per la morte anche dei
loro cari, la loro struttura sociale è basata sulla famiglia con due figli di ambo i sessi e
nella loro lingua non ci sono termini per definire i sentimenti, la falsità, l’ipocrisia, la
menzogna. Disprezzano gli Yahoo tanto che, quando vogliono esprimere un concetto
negativo, pospongono a ciò che dicono il termine “yahoo”.
Gli Houyhnhnms non conoscono il dubbio o l’incertezza: «non sanno come com-
portarsi quando si tratta di dubitare o di non credere» poiché il loro linguaggio è con-
cepito sull’idea di uno scambio linguistico utile per farsi «capire gli uni gli altri, e per
avere informazioni dei fatti [...] se qualcuno mi dice “la cosa che non è”, questi fini [le
informazioni dei fatti (n.d.r.)] restano frustrati; perché non si può dire che io abbia
capito, e tanto meno che io abbia ricevuto informazioni, quando colui che m’ha detto la
cosa che non è, mi lascia in uno stato peggiore dell’ignoranza, m’induce, cioè, a credere
nero ciò che è bianco, e corto ciò che è lungo».
Gulliver è attratto dall’idea di poter vivere in un paese pacifico dove domina la ra-
gione e la menzogna è bandita e vorrebbe rimanere, ma gli Houyhnhnms, temendo
che la sua natura malvagia, comune a tutti gli esseri umani (come gli Yahoo), possa
prima o poi manifestarsi, lo bandiscono.

Sebbene fin dall’infanzia ci venga detto e ripetuto che non si deve


mentire per nessun motivo e in nessuna circostanza, è inconcepibile l’i-
dea di dover vivere in un contesto in cui la menzogna non abbia spazio (e
neppure una parola che la definisca) – fermo restando che l’inevitabilità

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46 La verità sulla menzogna

della menzogna non possa legittimare qualsiasi menzogna né il fatto che


questa divenga causa di sofferenze.
D’altronde, dalla definizione della menzogna come
affermazione contraria a ciò che è o si crede corrispondente a verità, pro-
nunciata o propalata con l’intenzione esplicita di ingannare [125]
sfugge tutta una serie di condizioni di “non-vero”, peraltro non sempre
disprezzabili, alcune anche lodevoli. Anzi, secondo Oscar Wilde [196], la
menzogna è un elemento fondante dei rapporti sociali
perché lo scopo del bugiardo è semplicemente quello di incantare, di deli-
ziare, di dare piacere. È la base stessa della società civile.
Se mettiamo da parte per un momento il pregiudizio negativo che la
connota, ci potremo rendere facilmente conto che la menzogna, più della
verità, è parte integrante della nostra vita. Essa è così finemente intrec-
ciata con le nostre esperienze da ricadere nell’invisibile categoria dell’ov-
vio, al punto da non renderci più conto della sua presenza. C’è qualcuno
che ci accusa di mentire quando diciamo: «questa mattina il sole è sorto
alle sette e tramonterà alle diciannove e trenta»? Eppure tutti sappiamo
che il sole non sorge né tramonta poiché non gira intorno alla terra. Ma,
se dicessimo: «alle sette del mattino la terra era in una posizione tale da
darci l’impressione che il sole sorgesse all’orizzonte», saremmo considerati
quanto meno stravaganti! La menzogna è sempre pronta a manifestarsi
in tutti i contesti sociali, da quello intimo dell’amore, a quello pubblico
della politica istituzionale. È un comportamento naturale, che si instaura
precocemente e non ha bisogno di un particolare apprendimento. È utile
nel processo di crescita, tanto personale quanto sociale, facilitando i rap-
porti interpersonali e la vita di relazione. Potremmo dire che la natura
stessa è stata in un certo senso maestra nell’arte della menzogna con i suoi
numerosissimi esempi di mimetismo, non solo animale ma anche vege-
tale. Questa osservazione è molto importante poiché ci suggerisce come
il comportamento menzognero sia stato selezionato dall’evoluzione in
quanto funzionale all’adattamento1.
La menzogna inizia presto il suo cammino, non appena il bambino
incomincia a capire che le regole dei genitori possono essere violate e
che, violandole, può acquistare nuove conoscenze. È una storia vecchia
quanto il mondo, non è altro, infatti, che, con le debite proporzioni, la
riproposizione di ciò che fecero Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden

1 Vedi Cap. II.

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III. La menzogna nello sviluppo dell’individuo 47

quando trasgredirono il divieto di Dio di mangiare il frutto dell’albero


della conoscenza giocandosi così il paradiso terrestre.
La tendenza alla bugia è una tendenza naturale, la cui spontaneità e genera-
lità dimostra quanto essa sia costitutiva del pensiero egocentrico del bambino
sostiene Piaget [148], e Smith [179] aggiunge che
i bambini incapaci di dire le bugie, come si vuol far credere che fosse George
Washington2 (una delle tante bugie spesso raccontate ai bambini americani),
non sono bambini e bambine “buoni”: è ben possibile che siano autistici.
In realtà, un buon indice di autismo sembra essere, secondo Campbell
[38], “una non padronanza dell’arte di nascondere, millantare, dissimu-
lare e mentire”; il bambino autistico, inoltre, non è capace di capire se
qualcuno dice qualcosa di inesatto o se mente deliberatamente.
Con messaggi educativi contraddittori, insegniamo ai bambini, in cer-
te circostanze, che alcune menzogne “pietose” hanno un valore positivo
e mostriamo ammirazione per personaggi (mitologici, letterari o persino
reali) i quali, con la loro astuzia e con le loro menzogne, hanno sfidato
con successo l’autorità o comunque forze superiori. E noi stessi mentia-
mo ai bambini incoraggiandoli a credere a Babbo Natale o alla fatina del
dentino; propiniamo loro patetiche menzogne sulla sessualità (con fiori,
api e quant’altro); spieghiamo loro che la sincerità ingenua generalmente
non è accettata nei rapporti sociali ed è perciò necessario addolcirla con
espressioni formali, di cortesia; elogiamo, infine, il valore della discrezio-
ne e del riserbo (cioè del non-dire). I pedagogisti ci dicono che il gioco è lo
strumento migliore per sviluppare l’intelligenza dei bambini, ma il gioco
è un “fare finta” per ingannare l’avversario e per batterlo e, quindi, ancora
una volta, insegniamo loro a non dire il vero.

A proposito di Babbo Natale, è comparso recentemente su The Lancet Psychiatry


un articolo, dal titolo “A Wonderful Lie”, in cui Christopher Boyle e Kathy McKay
[28] sostengono che bisogna dire ai bambini che Babbo Natale non esiste perché,
quando poi lo scopriranno, potrebbero perdere la fiducia nei genitori. «Se sono
capaci di mentire su una cosa così speciale e magica, possono essere affidabili come
custodi della saggezza e della verità?» si chiedono i ricercatori. «Se Babbo Natale
non è reale, sono vere le fate? la magia? e Dio? [...] Tutti i bambini finiranno per
scoprire che per anni sono state raccontate loro bugie e questo potrebbe indurli a
chiedersi quali altre bugie sono state dette loro». Inoltre potrebbe avere un effetto
negativo sui bambini pensare a Babbo Natale come a una sorta di “grande fratello”

2 Secondo alcuni siti che si occupano dell’argomento, George Washington è classificato

come probabile affetto da sindrome di Asperger.

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che li sorveglia continuamente per vedere se sono più o meno buoni.


Altri, in disaccordo, ritengono che, quella di Babbo Natale, più che una bugia sia
una finzione, importante a quell’età; Babbo Natale, poi, è una figura positiva e, più che
punire chi è stato meno bravo, premia chi lo è stato di più. Fiabe e finzioni, sostengono
costoro, aiutano i bambini a superare la fase di transizione alla realtà della vita: fino a
una certa età non sono in grado di distinguere fra finzione e realtà e anche quella di
Babbo Natale è una fiaba come le altre (con risvolti concreti, i doni!). Certamente mol-
ti bambini rimarranno delusi dallo scoprire che Babbo Natale non esiste, ma saranno
delusi per la fine di una magia, non per la bugia.
Possiamo aggiungere che questo non è stato il primo “attacco” a Babbo Natale, uno
ben più grave lo aveva subito nel 1951 a Digione, dove fu processato in piazza dal
clero della città e giudicato colpevole di “paganizzazione” del Natale: fu “giustiziato”
(impiccato e dato alle fiamme) davanti alla Cattedrale!

I bambini non hanno una chiara percezione delle differenze fra fanta-
sia, gioco e bugia fin verso i sei anni, quando incominciano a distinguere
il reale dal fantastico e ad elaborare i valori sociali e morali. A mentire in-
cominciano molto prima, senza alcun pregiudizio morale e forse, proprio
per questo, non hanno quelle reazioni neurovegetative e comportamenta-
li che ci potremmo aspettare ma mantengono un’espressione indifferente.

Charles Darwin [118] racconta che suo figlio William, all’età di circa due anni e mez-
zo, era entrato nella dispensa dove aveva mangiato delle zollette di zucchero; sorpreso
mentre ne usciva di soppiatto e interrogato, aveva negato di averlo fatto a dispetto
dell’evidenza senza mostrare alcuna particolare reazione.

Come emerge da numerose ricerche, la frequenza delle bugie aumenta


man mano che il bambino cresce, soprattutto a partire dai quattro anni
quando acquisisce la consapevolezza che gli altri non possono conoscere
i suoi pensieri – e perciò può imbrogliarli – e avendo capito, al contempo,
che per riuscire nell’intento non deve tradirsi con gesti o parole.

Ricerche condotte mediante il Gioco di Sbirciare, Picking Game, hanno fornito inte-
ressanti risultati. Lo sperimentatore fa mettere il bambino con la faccia rivolta verso il
muro e gli dice che metterà sul tavolo tre giocattoli e, se indovinerà che cosa sono dal
rumore avrà un premio. I primi due sono molto facili (la macchina della polizia, una
bambola che piange) mentre il terzo è un peluche e, prima che il bambino risponda,
gli dice che deve uscire un momento e che lui non dovrà sbirciare mentre è assente.
Appena uscito, il bambino, ignaro di essere ripreso da una telecamera, si volta a guar-
dare. Il ricercatore rientra (facendo un po’ di rumore per dare al bambino il tempo di
tornare al suo posto) e chiede la terza risposta, che sarà, ovviamente, giusta e, a quel
punto, chiede al bambino se ha sbirciato. È emerso che, fino ai tre anni circa, i bam-
bini di solito ammettono di aver sbirciato, verso i quattro anni mente circa l’80% e
prima dei sei anni i mentitori salgono fino al 95%. Dopo i sei anni le bugie, in genere,

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diminuiscono, probabilmente perché aumentano i condizionamenti sociali: i bambini


apprendono infatti che, se scoperti a mentire, rischiano di perdere la stima dei com-
pagni e degli insegnanti. Nell’adolescenza, invece, come vedremo più avanti, spesso i
migliori mentitori sono quelli considerati leader.
Altre ricerche hanno dimostrato, infine, che meno della metà degli adulti (compresi
i familiari) cui vengono mostrati due bambini che negano entrambi di aver disobbe-
dito, riesce a riconoscere il mentitore.

Dire la verità non è innato, è un apprendimento progressivo in re-


lazione al fatto che i genitori richiedono la verità e insegnano che que-
sta ha un valore sociale. Solo verso gli otto anni, in genere, si è in grado
di mentire intenzionalmente. Questo, verosimilmente, coincide con la
messa in discussione dell’autorità dei genitori in conseguenza delle pri-
me esperienze nel mondo esterno. Nei bambini più piccoli, sono più fre-
quenti le menzogne compensatorie, quelle, cioè, in cui il soggetto vanta
ricchezze, nobiltà, forza fisica, conoscenze: quando persistono oltre i 6-7
anni, possono essere la spia di problemi psicologici. Nei bambini un po’
più grandi sono più frequenti le menzogne utilitaristiche, per acquisire un
vantaggio o evitare un fastidio; l’esempio classico è quello di mentire sui
voti scolastici. Ignorarle favorisce l’uso crescente della menzogna ma stig-
matizzarle in maniera eccessiva è ugualmente negativo perché può creare
conflitti; come al solito, la soluzione dovrebbe essere quella di far capire al
bambino l’errore, mostrando un’adeguata comprensione.

Non è infrequente che alcuni soggetti mentano abilmente su esami mai sostenuti du-
rante il corso di laurea e spesso la cosa viene scoperta all’approssimarsi della laurea.
Altri, più ingegnosi, riescono a falsificare il libretto, laureandosi in qualche modo e
inserendosi anche nella professione (non di rado quella medica) talora con successo.
Altri, infine, millantano lauree, master o specializzazioni.
Un caso che ha fatto scalpore in Italia alcuni anni orsono è quello di un giornalista
politico-economico, Oscar Giannino, uomo di cultura, intelligente, stravagante, che si
presentò con un proprio partito alle elezioni politiche del 2013 elencando nel proprio
curriculum lauree mai conseguite. Scoperto, si ritirò dalla competizione politica e fu
licenziato dal giornale per cui scriveva. Successivamente ha ripreso la sua professione di
giornalista. In un’intervista a Libero, ha giustificato quel suo comportamento definendo-
lo: «Un grave errore dovuto a un complesso di inferiorità che ho inconsciamente covato nel
Partito Repubblicano Italiano. Era un mondo di élite, pieno di persone con titoli accade-
mici a bizzeffe. [Quando si è svelato l’inganno] sono rimasto di peste per la delusione che
davo a centinaia di migliaia di persone e per la sofferenza di mia madre e mia moglie che
non se lo aspettavano. Quanto a me, mi sono chiesto se avessi perso per sempre qualsiasi
credibilità. Ho ricevuto molti insulti, ma non ho mai polemizzato. Ho detto: è giusto».

Gli effetti dell’educazione sulla tendenza a mentire sono stati studiati


da Talwar [118] in due scuole africane.

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Le due scuole distavano pochi chilometri, ma adottavano metodi educativi diversi


essendo la prima meno severa, di impostazione inglese (ammonizioni verbali, sospen-
sione di qualche privilegio, nessuna punizione corporale) e l’altra, di impostazione
francese, più severa (rigido codice di comportamento, con punizioni severe, addirit-
tura fisiche, delle trasgressioni – soprattutto delle menzogne).
Il Gioco di Sbirciare mostrò che tutti gli alunni di entrambe le scuole mentivano, ma
quelli della scuola “francese” mentivano con una coerenza e una convinzione molto
maggiori e in maniera “creativa”; erano dei veri e propri maestri di menzogna e già a
tre anni difendevano tenacemente la loro versione; quelli più grandi non “indovinava-
no” mai al primo tentativo, razionalizzavano il modo con cui erano giunti alla risposta
giusta, per dare un senso di veridicità alla loro prestazione: erano degli abili psicologi
e attori nati.

In sostanza, i bambini mentono qualunque sia il sistema educativo


adottato ma i migliori bugiardi sarebbero “prodotti” dai regimi severi:
costretti all’autodifesa, consapevoli che anche la più piccola bugia com-
porterebbe una punizione dolorosa, fin da piccoli puntano sull’inganno
ben fatto, preventivando la punizione in caso di insuccesso. Del resto
abbiamo visto nel capitolo precedente che, fra gli scimpanzé, mentono
con maggior frequenza quelli più giovani e di rango inferiore; allo stesso
modo, la menzogna dei bambini è stata interpretata come l’ultima linea
di difesa contro le sopraffazioni degli adulti [26].
Pur in un’epoca in cui l’educazione morale era in genere severa e pu-
nitiva, Charles Darwin scriveva a proposito del figlio che aveva mentito
sul furto dello zucchero: «Dal momento che questo bambino fu educato
esclusivamente facendo leva sui buoni sentimenti, divenne presto sincero,
franco e affettuoso quanto si sarebbe potuto desiderare».
La bugia serve al bambino per verificare il comportamento dei genitori
e per valutare la loro reazione; in seguito viene usata per altri scopi, per
nascondere qualcosa o per farsi vanto di altro, per coprire una disobbe-
dienza e così via. Poiché la menzogna è un atto intenzionale mediante il
quale modifichiamo la realtà oggettiva, mentire presuppone la capacità di
pensiero astratto, sapersi distanziare dalle percezioni immediate, inven-
tare qualcosa che non sia di diretta osservazione ma che, al tempo stesso,
sia credibile, logica e verosimile. La menzogna è, per il bambino, un passo
verso la conquista dell’indipendenza dalla famiglia e lo sviluppo delle ca-
pacità di stabilire relazioni sociali valide. Al tempo stesso può essere usata
come strategia per nascondere qualcosa di sé, magari solo perché il bam-
bino non ha ancora acquisito una sicurezza tale da mostrarsi per com’è.
Scoprire la menzogna significa rendersi conto che anche gli altri possono
mentire e pertanto è necessario imparare a cogliere i segni dell’inganno. Le
bugie sono diverse per i maschi (che mentono più frequentemente per esa-

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gerare le proprie capacità) e per le femmine (per le quali si tratta più spesso
di confidenze violate, segreti traditi); possono manifestarsi solo in certi
contesti e non in altri (solo a casa, a scuola o con gli amici). Saper mentire
richiede anche la capacità di saper tenere le cose per sé, di mantenere uno
spazio privato, non condiviso. Se il ragazzino ha bisogno della costante ap-
provazione dei genitori, significa che non è capace di rendersi autonomo;
per contro, i genitori i quali pretendono di conoscere tutto dei propri figli
violano il loro diritto alla privacy e impediscono la loro crescita armonica.
Saper mentire significa saper leggere il pensiero degli altri. I bambini,
man mano che crescono, migliorano le loro capacità di mentire e, cosa
meno scontata, gli adolescenti popolari sono mentitori migliori rispetto a
quelli non popolari [82].

Feldman [83] ha condotto una ricerca su 121 studenti liceali, i quali dovevano parlare
per 10 minuti in maniera informale con persone appena incontrate. La conversazio-
ne veniva registrata e rivista assieme a ciascuno studente, al quale veniva chiesto di
indicare quando aveva detto qualcosa di non vero. Nonostante gli studenti avessero
assicurato di non aver detto bugie, rivedendo la registrazione, si rendevano conto che,
invece, avevano detto una bugia dopo l’altra. È risultato che, in media, ciascuno aveva
detto tre bugie, cioè una ogni 3,3 minuti di conversazione e, salvo qualche eccezione,
quasi tutte le bugie erano banali. Nel colloquio, pochi si mostrarono preoccupati per
le bugie dette, affermando che «Lo fanno tutti».

Se questi risultati, confermati da numerose ricerche [70, 71, 109], sono


lo specchio della realtà, la nostra convinzione di ascoltare ogni giorno
delle verità per quasi tutto il tempo è decisamente sbagliata, in realtà, è
ampiamente documentato, infatti, quanto la menzogna sia estremamente
comune e generalizzata.

Nella vita quotidiana, si mente per mille ragioni come per nessuna ragione apparente,
al punto che ci potremmo chiedere se dire la verità sia ancora l’opzione di default. La
tolleranza verso la menzogna è molto cresciuta al punto da far dire a Philip Holson
[104], in un articolo su Independent, che «Oggi è accettabile mentire così come superare
i limiti di velocità quando si guida: nessuno ci pensa su due volte». Una spia di questa
tendenza a mentire è la frequenza con cui le conversazioni sono infarcite di: «voglio
essere sincero», «sarò franco», «in tutta franchezza» e tante altre promesse/premesse di
sincerità. In un articolo su Time, Martin Marty riferisce che un sacerdote gli ha confi-
dato che sono rare le confessioni in cui non vi sia un qualche inganno sessuale e che,
praticamente, tutti confessano di aver mentito.

Con la scoperta della sessualità, con le prime esperienze sentimentali,


con l’allargamento del gruppo oltre i ristretti confini della scuola o dei
luoghi di socializzazione vicini a casa, diventa più difficile comunicare

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con i genitori – anche quando si propongono come «i migliori amici»,


come «genitori moderni che capiscono tutto» – e la bugia o la mezza verità
o l’omissione sono delle modalità utilizzate per sottrarsi al loro controllo
e per difendere la propria privacy. Gli adolescenti, i giovani adulti, non
possono non rendersi conto che tutto il mondo intorno a loro, a partire
dalla famiglia, è pieno di menzogne, di inganni, di sotterfugi piuttosto che
di sincerità al punto che, in alcuni casi, essere sinceri può essere addirit-
tura fonte di ridicolo.
Spesso la menzogna, nei ragazzi, è una reazione più o meno inconscia
a messaggi educativi contraddittori; l’adolescente che “si fa” di nascosto
degli spinelli, come può sentirsi in colpa e accettare il divieto dei genitori
se ritiene esagerata la loro convinzione che la marijuana faccia male o se
uno o entrambi i genitori fumano o eccedono nel bere?

La funzione sociale della menzogna


Non avere alcun motivo per mentire
non significa necessariamente essere sincero.
(Arthur Schnitzler)

In fondo, è la nostra stessa società che ci chiede di mentire o, quanto


meno, tollera e accetta le menzogne, da quelle di chi ci governa o aspira
a governarci a quelle consentite agli avvocati che difendono il reo – tanto
più bravi in quanto riescono a far assolvere il cliente, indipendentemente
dalla sua colpevolezza o innocenza e non in quanto fanno “trionfare” la
verità – o accetta il silenzio del segreto professionale (di medici, giornali-
sti3, notai, preti e altri professionisti).
Non possiamo certamente concludere con un elogio incondizionato
della menzogna, ma bisogna riconoscere che essa esprime appieno la ca-
pacità di fingere tipica dell’uomo, la “menzogna vitale” di Ibsen, che non
sempre è qualcosa che insulta o ferisce.

In L’anatra selvatica di Ibsen [105], il dottor Relling dice a Greger Werle che Hjalmar
Ekdal è ammalato e «quasi tutti gli uomini sono ammalati»; alla domanda di Greger
riguardo alla cura il dottore afferma: «La mia solita, cerco di alimentare in lui la men-
zogna vitale». Questa menzogna vitale è ciò che ci dà la forza per affrontare le avver-
sità, che funge da cappa protettiva «Se lei toglie a un individuo comune la menzogna
vitale – continua il dottore – gli porta via in pari tempo la felicità».

3 Per i giornalisti è comunque revocato questo diritto qualora la veridicità delle notizie rela-
tive al reato è accertabile solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia.

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Di sicuro i soggetti con ritardo mentale non mentono, quando ci pro-


vano vengono facilmente scoperti, perché mentire coinvolge numerose
variabili (fantasia, elaborazione del costrutto menzognero con tutti i nessi
e connessi, capacità di presentarlo in maniera credibile, buona memoria
per ripeterlo, se necessario, senza sostanziali variazioni ecc.) che presup-
pongono un cervello in buon equilibrio funzionale. Del resto, la Risonan-
za Magnetica Funzionale (fMRI) mostra pattern di attivazione cerebrale
diversificati a seconda che l’individuo menta o dica la verità.
In definitiva, mentire significa sottoporre il nostro cervello a un sur-
plus di lavoro rispetto al dire la verità: non possiamo negare che, chi dice
la verità, conosce soltanto quella, mentre chi mente conosce sia quella sia
la sua falsificazione. Forse è per questo che Platone [151] – notoriamente
moralista – sostiene che
mentire coscientemente e deliberatamente ha più valore che dire involon-
tariamente la verità
e che Socrate definisce più sapiente chi mente sapendo di mentire rispetto
a chi è sincero ma non sa di esserlo o non è capace di dire altro da ciò che
ritiene vero. Nietzsche [137], infine, non esita a sostenere che
l’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze prin-
cipali nella finzione.
Non dobbiamo, inoltre, sottovalutare il ruolo sociale della menzogna,
in primo luogo perché, con l’eccezione dell’autoinganno, ci vuole almeno
un’altra persona da ingannare con cui entrare in relazione, dialogare; e
poi, affinché l’inganno riesca, è necessario entrare nella mente dell’altro,
capire cosa sia disposto a credere, cosa aspetti di sentirsi dire e questo, in
definitiva, è alla base delle relazioni sociali. Il mentitore deve conoscere
quali siano le aspettative di chi intende ingannare, per cui mentire signifi-
ca anche comprensione dell’altro: solo se possiede una profonda capacità
di leggere dentro (intus legere) la mente della sua vittima, il bugiardo può
sperare di essere creduto. Coloro che eccellono in questo campo sono i
leader i quali utilizzano i mezzi d’informazione non tanto per informare
gli altri ma per ottenere un feedback sulle loro aspettative allo scopo di
conquistare e mantenere il consenso: a questo servono i sondaggi, a veri-
ficare quanto efficaci siano state le informazioni diffuse attraverso i media
e non a capire i bisogni delle persone.
Un altro aspetto da non sottovalutare è che la menzogna può essere
uno strumento per contrastare un avversario più forte: Achille sconfisse e
uccise Ettore perché era più forte, ma per conquistare Troia fu necessario
ricorrere all’inganno.

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In molte occasioni Ulisse ha superato la forza con l’astuzia: quando era prigioniero
nella caverna di Polifemo, chiusa con un masso che nessuna forza umana avrebbe
potuto rimuovere, per salvare sé e i suoi dal gigante monocolo e cannibale, fece uso di
una serie di astuzie: dal farlo ubriacare per poterlo accecare, al legarsi alla pancia delle
pecore affinché non potesse individuarli con il tatto mentre faceva uscire gli animali,
ma soprattutto affermando di chiamarsi Nessuno, facendolo così passare per pazzo o
ubriaco quando, chiedendo aiuto agli altri Ciclopi, rispondeva che “Nessuno” lo aveva
accecato.

La storia è ricca di esempi in cui il più debole ha sconfitto il più forte


utilizzando la menzogna o comunque la vittoria è stata frutto più dell’in-
ganno che della forza.

Basti citare, a questo proposito, due eventi della seconda guerra mondiale in cui l’in-
ganno è stato determinante. Il primo evento è l’invasione dell’Unione Sovietica: la
Germania, che nel 1939 aveva firmato con i sovietici un patto di non aggressione (il
patto Molotov-Ribbentrop), il 22 Giugno 19414 dichiarò a sorpresa guerra all’Unione
Sovietica (operazione Barbarossa) che, colta impreparata, fu rapidamente invasa e in
circa quattro mesi le armate tedesche si attestarono a pochi chilometri da Mosca. Que-
sto successo, rapido e praticamente indolore, ebbe comunque vita breve: la controf-
fensiva sovietica, iniziata nel dicembre 1941, porterà alla disfatta dell’esercito tedesco
e si concluderà con l’entrata in Berlino dell’esercito sovietico nel 1945. Da notare che,
ancora prima di salire al potere, Hitler aveva scritto in Mein Kampf: «Noi vogliamo
arrestare il continuo movimento tedesco verso il sud e l’ovest dell’Europa e volgiamo il
nostro sguardo verso i paesi dell’Est [...] Quando oggi parliamo di un nuovo territorio in
Europa, dobbiamo pensare in prima linea alla Russia e agli stati limitrofi suoi vassalli.
Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni. [...] Il colossale impero
dell’Est è maturo per il crollo e la fine del dominio ebraico in Russia sarà anche la fine
della Russia quale stato».
Il secondo evento è lo sbarco in Normandia (operazione Overlord) degli eserciti
Alleati, il 6 Giugno 1944: nell’imminenza dell’azione, tramite le reti spionistiche, era
stata fatta circolare ad arte la notizia che gli Alleati sarebbero sbarcati nella zona di
Calais, la più vicina all’Inghilterra, e i tedeschi l’avevano presa a tal punto per buona
da ritenere i primi sbarchi in Normandia solo una manovra diversiva per cui non la
contrastarono adeguatamente: per la Germania fu l’inizio della fine.

Nella menzogna si sovrappongono essere e non essere che, nella realtà


quotidiana, sono strettamente interconnessi [130].
Certamente la verità assoluta non esiste e probabilmente non sareb-
be auspicabile. Del resto, se ci viene richiesta la verità, è implicito che,
in alternativa, ci sia la menzogna: ci hanno educati insegnandoci che la

4 Il giorno successivo coincideva con il 129° anniversario dell’inizio della Campagna di Rus-
sia da parte di Napoleone.

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III. La menzogna nello sviluppo dell’individuo 55

menzogna è un brutto vizio, una ferita sociale, addirittura un peccato, ma


in realtà ci sono menzogne e menzogne, quelle crudeli e quelle dell’arte,
menzogne che uccidono e menzogne che aiutano a vivere. Poi, magari, ci
crescerà il naso, ma noi abbiamo bisogno delle principesse e dei principi
azzurri, di Cappuccetto Rosso e del lupo, di Biancaneve e della strega, di
Babbo Natale e della Befana. Queste menzogne ci hanno aiutato a cre-
scere perché ci dicevano che c’erano, sì, le streghe e i draghi, ma c’erano
anche le fate buone e i principi che venivano a salvarti. In definitiva
gli esseri umani sono universalmente riconosciuti per essere gli unici ani-
mali in grado di mentire [e comunque quelli che lo fanno meglio], e mentre
è vero che qualche volta mentono per paura, qualche volta per il proprio
interesse, essi talvolta mentono perché realizzano, appena in tempo, che
questo è l’unico modo possibile per difendere la verità [167].

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I. La menzogna e il mentitore 57

IV. I mille modi di mentire

Chi mente una volta, spesso deve abituarsi alla menzogna;


perché ci vogliono sette menzogne per occultarne una.
(Friedrich Rückert)

La verità è unica, ma per ogni verità ci sono tante menzogne quanti


sono i modi e le finalità che le sostengono1.
Se si prescinde dalle fantasie e dalle invenzioni dei bambini più pic-
coli, dall’amico immaginario, fantastico alter ego, compagno di giochi e
depositario dei primi segreti, è probabile che le prime menzogne siano
quelle inventate per evitare una punizione, spesso associate a quelle di
discolpa, per giustificarsi o per scaricare su altri (o sulle circostanze) la re-
sponsabilità di propri comportamenti; iniziano già a partire dai 2-3 anni,
non appena imparano a decodificare il significato negativo, trasgressivo,
attribuito dai genitori a certi loro comportamenti, che potrebbero costare
loro una qualche punizione: ciò presuppone l’acquisizione della capacità
di pensiero astratto e di inventare qualcosa di logico e verosimile.
Quando i ragazzi crescono, incominciano a costruirsi una vita pri-
vata ritagliandosi spazi di autonomia rispetto ai genitori, avendo preso
coscienza del fatto che il diritto alla privacy rappresenta un passo fon-
damentale per la conquista dell’indipendenza psicologica dalla famiglia
e per lo sviluppo di relazioni sociali adeguate. Comincia il ricorso alle
menzogne per difendere la privacy, fase particolarmente critica per il con-
flitto fra il desiderio del ragazzo di rendersi autonomo dalla famiglia e
il contemporaneo bisogno di non perdere la protezione che questa gli
assicura. I tentativi dei genitori di violare la privacy dei figli rischiano di
rallentarne la crescita, mantenendoli in uno stato di sudditanza e di di-
pendenza, o di provocare rotture traumatiche, fughe in avanti senza un

1 I tentativi di classificazione, generalmente basati su criteri diversi (per livello di consape-

volezza o di complessità, per contenuto, scopo, motivazione ecc.), sono numerosi ma nessuno è
esauriente anche perché già le denominazioni di per sé sono usate con significati diversi e qualsiasi
tentativo di sistematizzazione rischierebbe di essere o riduttivo, unificando cose eterogenee, o trop-
po estensivo, trasformandosi, alla fine, in una lista noiosa e ripetitiva. Noi non ci avventureremo
sulla strada di una classificazione ma useremo un approccio descrittivo.

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58 La verità sulla menzogna

supporto adeguato e discreto. Se gestita male, questa fase può interferire,


anche pesantemente, sullo sviluppo armonico dei figli. Naturalmente le
menzogne per proteggere la propria privacy possono essere presenti in
qualsiasi momento della vita quando il soggetto vede minacciato il pro-
prio diritto alla riservatezza.
Nell’adolescenza e nella giovinezza sono frequenti le menzogne per ti-
midezza, proprie di soggetti ipersensibili al giudizio altrui e alla critica,
carenti di adeguata autostima, che raccontano bugie per apparire migliori
o per nascondere la propria presunta o reale inferiorità. Fisiologiche in
queste età, se non si risolvono con la crescita, aprono la strada al disturbo
d’ansia sociale.
Sul versante apparentemente opposto si collocano le menzogne per ac-
quistare prestigio, per apparire più importanti, intelligenti, ricchi. Sono
considerate normali nell’infanzia ma, se si protraggono oltre, possono
essere un indizio di psicopatologia. In questo ambito rientra anche la mi-
tomania, la tendenza, cioè, più o meno cosciente a credere alle proprie
fantasie e a raccontarle come vere allo scopo di attirare su di sé l’attenzio-
ne altrui e soddisfare la propria vanità.
Si possono occultare deliberatamente e consapevolmente le informa-
zioni senza dire nulla di falso mediante la dissimulazione, non da tutti
considerata una menzogna o, in ogni caso, ritenuta, a torto, meno grave
che attestare il falso. In molte circostanze c’è la possibilità di scegliere fra
mentire e dissimulare. La dissimulazione ha indubbiamente dei vantag-
gi: nascondere è più facile che mentire, non richiede la preparazione di
una storia alternativa plausibile da ricordare per non essere colti in fallo
– «Nessun uomo ha una buona memoria sufficiente a farne un bugiardo
di successo», sosteneva Abramo Lincoln. Anche se può provocare con-
seguenze altrettanto gravi, il dissimulatore si sente meno colpevole per
aver taciuto la verità anziché aver affermato il falso. Se viene scoperto,
può sempre dire di aver dimenticato, di non sapere o di sapere ma di
aver pensato che non fosse il momento giusto per dirlo e così via. La
dissimulazione ha trovato la sua celebrazione verso la metà del Seicento
nell’opera di Torquato Accetto [2], Della Dissimulazione Onesta, nella
quale si celebra questa “virtù” che consiste nel tollerare, tacere, aspetta-
re, “godere in certo modo anche delle cose che non si ha, non far vedere
le cose come sono [perché] tutto il bello non è altro che una gentil dissi-
mulazione”. Due secoli dopo, anche Schopenhauer, a sostegno delle sue
tesi sulla liceità della bugia per difendersi da nemici o curiosi, loderà la
dissimulazione.
La simulazione, al contrario, è un comportamento attivo poiché con-
siste nella falsificazione della verità, nel fingere vero quello che non lo

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IV. I mille modi di mentire 59

è: il soggetto deve inventare di sana pianta e cercare di mantenere una


condotta in linea con la menzogna detta. Si associa talvolta alla dissi-
mulazione quando c’è la necessità di coprire le prove di ciò che si vuole
nascondere.
La simulazione di malattia mentale è antica quanto il mondo: nella
Bibbia si legge di David che si finse pazzo per sottrarsi alle ire di Achish,
re di Gat, e nella tradizione greca è famosa quella di Ulisse.

L’oracolo aveva predetto a Ulisse che, se fosse andato a Troia, sarebbe tornato dopo
vent’anni, solo e in miseria. Quando Agamennone, Menelao e Palamede andarono a
cercarlo per chiedergli di partecipare alla spedizione, lo trovarono con un cappello da
contadino a forma di mezzo uovo mentre arava un campo pungolando un bue e un
asino aggiogati assieme e si gettava alle spalle manciate di sale. Finse di non riconosce-
re gli ospiti e faceva discorsi incomprensibili. Palamede prese dalle braccia di Penelo-
pe il figlioletto Telemaco e lo posò a terra davanti ai due animali. Ulisse tirò subito le
redini per non uccidere il figlio mostrando così di non essere pazzo e, suo malgrado,
dovette partecipare alla spedizione.

L’uso del falso è particolarmente necessario quando si devono ma-


scherare le emozioni. Le tecniche che meglio si prestano alla simulazione
sono la finzione (mostrare idee, opinioni, sentimenti che non si hanno)
e la contraffazione (presentare una cosa con le caratteristiche di un’altra
spacciandole per uguali).
La capacità di simulare e dissimulare è generalmente considerata un
segno di abilità politica; Machiavelli [123] la riteneva una delle princi-
pali “virtù” del principe che doveva dare al popolo, il quale vede solo le
apparenze, un’immagine di sé come umano, religioso, integerrimo, ben
diversa rispetto a quella reale.
Nello stesso ambito si colloca la reticenza, cioè la sottrazione di ele-
menti necessari alla descrizione completa di un fatto reale. Se molte re-
ticenze sono “imposte” dalle regole della vita sociale, altre si osservano
in ambito legale in cui testimoni “reticenti” tacciono, dicono di non aver
visto o sentito bene, o di non ricordare, per timore di essere coinvolti
o per timore di vendette o ritorsioni. Esiste poi una forma di reticen-
za criminosa, l’omertà, una sorta di patto, esplicito o tacito, fra affiliati a
consorterie mafiose, ‘ndranghetistiche, camorristiche e simili, o a bande
criminali comuni, ma presente anche nella popolazione generale, in certe
comunità chiuse, rette da leggi arcaiche, per antica consuetudine, per ti-
more di vendette e/o per scarsa fiducia nello Stato.
La logica classica ci dice che ciò che non è vero è falso e che ciò che non
è falso è vero, ma, nella realtà, il mentitore può ingannare anche dicendo
la verità. La verità ha bisogno di completezza, le cosiddette “mezze verità”

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60 La verità sulla menzogna

finiscono per rivelarsi bugie intere. La menzogna si nutre d’incompletezza


in maniera elegante poiché ne deriva una sorta di fuorviamento (mislead-
ing) che suggerisce senza esplicitare.

Nell’esempio famoso riportato dal filosofo Josiah Royce [159], il comandante di una
nave, preoccupato perché il nostromo beve troppo, annota ogni giorno sul diario di
bordo «oggi il nostromo è ubriaco». Il nostromo, letto il diario, scrive una sola volta
«oggi il comandante non è ubriaco». È evidente che, in questo modo, lascia intendere,
senza dirlo, che gli altri giorni sia ubriaco: così, con una verità, riesce a diffamare una
persona.

Se la menzogna è sleale, perché sfrutta la debolezza della ragione, il mi-


sleading lo è, se possibile, ancora di più perché il soggetto non si assume la
responsabilità della menzogna suggerita.
Diffamazione e calunnia sono due modalità di mentire in cui viene
lesa la reputazione, alterata l’opinione sociale sull’onore di una persona
(diffamazione) o addirittura incolpato qualcuno di un reato nella consa-
pevolezza della sua innocenza (calunnia). Entrambe possono configurarsi
come reati. Se in passato i pamphlet e i giornali erano gli strumenti più
usati per diffamare avversari e nemici, oggi è sempre più frequente l’uso
a questo scopo dei social network. Peraltro, se la pubblicazione su questi
strumenti si configura come reato, questo ne risulta aggravato in quanto
diffuso a un gruppo indeterminato di persone (diffamazione aggravata).
Questo fenomeno ha raggiunto proporzioni enormi nel 2016 in coinci-
denza con la Brexit (il referendum inglese sull’uscita della Gran Breta-
gna dall’Unione Europea) e, soprattutto, con la campagna presidenziale
americana, in cui sono state “sparate” menzogne inverosimili, in segui-
to smentite o ridimensionate, quando ormai avevano già sortito l’effetto
emotivo desiderato. A questo fenomeno è stato dato il nome di post-truth
(post-verità o, più correttamente, al di là della verità o irrilevanza della ve-
rità) a indicare che, nell’epoca dei social network, non conta il contenuto
che si comunica ma l’effetto che provoca.

A proposito della calunnia, ci piace far menzione qui dell’aria “La calunnia”, che don
Basilio canta in “Il barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini (testo di Cesare Ster-
bini), che descrive mirabilmente questo tipo di menzogna e il modo con cui agisce:
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra

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IV. I mille modi di mentire 61

sotto voce sibillando


va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.

Anche il segreto è un modo mediante il quale si può esprimere la men-


zogna giacché occulta intenzionalmente delle informazioni. Il segreto
può essere legittimo quando concerne ambiti della vita personale (come
la privacy o il diritto di difesa) o sociale (come il segreto professionale o
quello d’ufficio). Al di fuori di queste circostanze, può essere considerato
come una violazione del diritto di conoscenza dell’interlocutore al pari
della menzogna, con la differenza che, in questo caso, le informazioni
vengono nascoste invece che manipolate (anche se, in definitiva, anche il
segreto può essere una sorta di manipolazione). Del resto, come ebbe ad
affermare Adlai Stevenson2, le bugie più crudeli sono spesso raccontate in
silenzio.
Un modo particolare di mentire è quello della riserva o restrizione
mentale, cioè mentire con le migliori intenzioni, magari sotto costrizione,
per evitare danni a sé o ad altri. La riserva mentale può essere definita
come un escamotage introdotto dai Gesuiti per stemperare la rigidità del-
2 Politico americano che è stato rappresentante permanente per gli USA all’ONU nel perio-
do 1961-1965.

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62 La verità sulla menzogna

la dottrina di Sant’Agostino sulla menzogna e “salvarsi l’anima” (e magari


anche la vita) pur mentendo.

Dopo lo scisma di Lutero e quello di Enrico VIII, ebbe fine la relativa tolleranza re-
ligiosa e incominciarono le persecuzioni. Le inquisizioni, che coinvolsero cattoli-
ci, ebrei e protestanti, costringevano a scegliere fra l’abiura della propria religione,
l’esilio o addirittura la pena capitale per eresia. In quel contesto i Gesuiti formularono
la teoria della riserva mentale secondo la quale non era una menzogna dire solo una
parte della verità, dicendone solo mentalmente la parte che avrebbe messo in pericolo.
Un esempio autorevolissimo di riserva mentale è quello del Papa Pio XI che, nel
1931, nell’Enciclica “Non abbiamo bisogno” consigliava agli italiani di aderire al par-
tito fascista per salvare il lavoro, il pane e la vita e salvare al contempo la propria
coscienza facendo, dentro di sé (ma anche dichiarandola pubblicamente in caso di
bisogno), la riserva: «fatti salvi i doveri del buon cristiano».
Un altro illustre esempio di riserva mentale è rappresentato dalle dichiarazioni di
Bill Clinton, presidente degli USA, in occasione del processo per l’impeachment in
relazione al “caso Lewinsky”. Egli, infatti, ammette che tra lui e Monica Lewinsky ci
sono state delle “relazioni inappropriate” ma di non aver considerato il sesso orale
un “atto sessuale” perché, ricevendolo, non era entrato in contatto con nessuna delle
parti del corpo indicate nel documento come “zone sessuali” né era sua intenzione
“gratificarla” dal punto di vista sessuale.

In passato, era comune, nelle campagne dell’Abruzzo, il cosiddetto


giuramento a piede alzato, consistente nel ripetere davanti al giudice la
formula di rito ma, se il soggetto intendeva spergiurare, teneva un piede
sollevato da terra.
Certamente la menzogna raggiunge il suo massimo con lo spergiuro,
che chiama Dio a testimone del falso. Famoso è lo spergiuro di Pietro,
quando negò di conoscere Gesù che era stato catturato poco prima: se ne
pentì amaramente e fu pubblicamente perdonato da Cristo risorto. Un
altro spergiuro perdonato (?) è quello di Isotta.

Tristano, nipote di re Marco di Cornovaglia, è incaricato di condurre al re la sua pro-


messa sposa, Isotta, figlia del re d’Irlanda. Durante il viaggio, i due bevono per errore
un filtro d’amore e si innamorano follemente. Isotta sposa comunque Marco ma nella
prima notte di nozze si fa sostituire da un’ancella affinché il marito non scopra che
non è più vergine.
L’amore fra Tristano e Isotta continua fra mille avventure e fra le maldicenze dei
nobili invidiosi che, alla fine, la inducono, per discolparsi, a chiedere un’ordalia3 in cui

3 Ordalia, o giudizio di Dio, era un’antica pratica giuridica, secondo la quale l’innocenza o la
colpevolezza dell’accusato veniva determinata sottoponendolo a una prova dolorosa o a un duello.
Il giudizio d’innocenza derivava dal completamento della prova senza riportare danni (o dalla rapi-
da guarigione delle lesioni riportate) oppure dalla vittoria nel duello.

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IV. I mille modi di mentire 63

mente al marito, mente alla corte, mente a Dio spergiurando di non aver mai avuto tra
le gambe altro uomo che il marito e un pellegrino (in realtà Tristano travestito) che l’a-
veva aiutata ad attraversare un fiume a cavalcioni sulle sue spalle. Forse la pietà divina
per gli innamorati consente a Isotta di uscire impunita dalla prova finale: le sue mani,
nonostante le menzogne proferite, non vengono bruciate dal ferro rovente.

Ci sono poi comportamenti, come la falsificazione e la finzione, in rela-


zione più con l’autenticità che con la verità: anch’essi mirano a ingannare,
ma sono riferiti a oggetti, mentre la menzogna è riferita a una afferma-
zione.
Falsificazione e contraffazione di un documento, di un’opera d’arte a
scopo di frode, sono altri modi di mentire. Un oggetto falso (una banco-
nota, un capo di abbigliamento) è una simulazione: vuol far credere di
essere ciò che non è, al pari di chi ostenta una ricchezza che non ha, o di
chi si sottopone a interventi di chirurgia estetica per apparire come non è.
Il falso, che vuole essere creduto ciò che non è, è diverso dal finto, che
vuole solo apparire ciò che non è ma lasciando intravedere (se non, ad-
dirittura, trasparire) la realtà. Una rappresentazione teatrale è una finzio-
ne, riuscita tanto meglio quanto più riesce a sembrare realtà, pur dichia-
randosi finzione. La finzione è il risultato della creatività, dell’inventiva
dell’uomo, della sua capacità di usare la fantasia e l’immaginazione per
creare realtà possibili con la consapevolezza che si tratta di costruzioni
non vere (anche se verosimili), che non mirano a ingannare. Oggi, con la
denominazione di fiction ci si riferisce a romanzi o a spettacoli, per lo più
televisivi, in cui, attraverso la narrazione di eventi immaginari, si cerca di
evocare un’ampia gamma di emozioni nei lettori/spettatori.
Menzogna e falsità non sono quindi sinonimi in senso stretto. Si può
ingannare dicendo il vero o far sapere la verità dicendo il falso: si rac-
conta che sant’Anastasio, raggiunto dai suoi persecutori i quali volevano
ucciderlo, ma non lo conoscevano di persona, alla loro domanda, «Dov’è
Anastasio?», abbia risposto «Non è lontano da qui», ingannandoli pur di-
cendo la verità.
Dire il falso per ignoranza del vero è ben diverso dal dire il falso co-
noscendo la verità: il primo è un errore, il secondo è una menzogna. È
evidente che chi dichiara il falso per ignoranza credendo in buona fede di
dire il vero, fa delle affermazioni erronee ma non menzognere. La menzo-
gna presuppone la conoscenza della verità e la sua falsificazione per trarre
in inganno l’interlocutore.
La frode (o truffa) è uno dei delitti più comuni della delinquenza mo-
derna, anche se i reati di frode erano riconosciuti e puniti già nell’antichi-
tà. Per Dante [58] (Inferno, Canto XVII), il simbolo della frode è Gerione,

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64 La verità sulla menzogna

che si presenta con sembianze accattivanti ma con una coda di scorpione


che guizza minacciosa pronta a colpire.
La frode richiede calcolo, capacità di dissimulazione e sangue fred-
do; si avvale, in genere, di un comportamento accattivante e mette in
atto raggiri e artifici tali da ottenere la fiducia di chi intende frodare per
colpirlo quando ha abbassato le difese. La frode può riguardare tanto il
privato quanto la comunità: si pensi alle frodi fiscali, di cui si parla così
frequentemente e che solo in minima parte sono accertate e punite o alle
frequenti frodi in commercio che possono, oltre al danno economico,
essere causa di danni alla salute attraverso le sofisticazioni alimentari o
di altro tipo. Molto frequenti sono diventate, negli ultimi anni, le truffe
a carico di persone anziane, che vivono sole: la fantasia con cui sono
messe in atto non ha limiti, così come l’ingenuità, la credulità, con cui
le vittime si lasciano frodare nonostante siano quasi quotidianamente
informate del rischio da notizie pubblicate da quotidiani, rese note dalla
televisione e da gran parte delle aziende responsabili delle varie utenze
domestiche (elettricità, gas, acqua, telefonia ecc.) che invitano a diffida-
re di sedicenti loro agenti.
Se la frode riguarda le cose, il tradimento è rivolto alle persone: è il
violare un patto, il venir meno a un obbligo vincolante, alla parola data,
a un impegno morale o giuridico. È il peccato di Giuda che, violando il
patto morale che aveva stretto con Gesù e con gli Apostoli, tradisce il
Maestro consegnandolo per trenta denari al Sinedrio, dando così avvio
alla catena di eventi che lo porterà alla morte sul Calvario (ma anche alla
resurrezione)4.
Il più comune dei tradimenti è, quasi certamente, quello che si sostan-
zia con l’infedeltà a un partner sentimentale al quale avevamo promesso
fedeltà. L’amore e il tradimento sono temi che hanno da sempre intrigato
i poeti i quali, generalmente, hanno più cantato i traditori che condanna-
to il tradimento e, anche quando sono costretti alla condanna, finiscono
per parteggiare per l’amore.

Basti pensare all’afflato poetico con cui Dante [58] (Inferno, Canto V) racconta del
tragico amore fra Paolo e Francesca, cognati, travolti dalla passione e uccisi per questo
da Gianciotto, rispettivamente fratello e marito. Già il preludio, il loro avvicinarsi al
richiamo del poeta, lascia immaginare la tenerezza dell’idillio:

4 Secondo alcune sette gnostiche, esoteriche (come i Cainisti), e secondo alcuni filosofi

(come Bertrand Russell), quello di Giuda non fu un “tradimento” ma un atto previsto, necessario,
affinché, attraverso la morte di Gesù, si realizzasse la salvezza dell’umanità: Giuda, pertanto, non
poté esercitare il libero arbitrio, non aveva nessuna possibilità di evitare di tradire Gesù.

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IV. I mille modi di mentire 65

Quali colombe dal disio chiamate


con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
le due terzine che seguono poco dopo sono un impareggiabile inno all’amore:
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
che porta al tragico epilogo:
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense.

Com’è implicito nella sua definizione, la menzogna è sempre un atto


comunicativo (verbale o scritto) e come tale prevede un comunicatore,
un ricevente (o anche più di uno) e una comunicazione che non corri-
sponda alla verità. L’inganno, oltre all’atto comunicativo, richiede anche
comportamenti tesi a condizionare le conoscenze e le attese del ricevente
e, fra questi, l’omissione di informazioni. Simile all’inganno è il raggiro,
messo in atto con accorgimenti artificiosi: è quello che, in gergo, viene
definito bidone.
Nel novero delle menzogne non possiamo non ricordare anche l’ipo-
crisia [dal greco ὑποκρίνομαι «sostenere una parte, recitare, fingere»] che
indica la simulazione di virtù e, in genere, di buoni sentimenti, qualità e
disposizioni, per guadagnarsi la simpatia o i favori di una o più persone,
ingannandole. Gli ipocriti, generalmente, sono coloro che, secondo un
detto comune, predicano bene e razzolano male. Essi, infatti, millantano
credenze, opinioni, virtù, ideali, sentimenti, emozioni che in realtà non
possiedono. Secondo La Rochefoucauld, l’ipocrisia è un omaggio che il vi-
zio rende alla virtù. Chi non ricorda l’invettiva di Gesù con la quale bolla
gli scribi e i farisei «...sepolcri imbiancati, i quali di fuori appaiono belli,
ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putredine»? [129].
Si può mentire a se stessi? Essere al tempo stesso ingannatori e in-
gannati? E l’autoinganno può essere annoverato a pieno titolo fra le
menzogne? Si può dire a se stessi una “verità” diversa da quella che,
razionalmente, sappiamo essere la verità? Perché lo facciamo? Perché
traiamo in inganno noi stessi? In genere, dietro a una menzogna c’è una
ragione, uno scopo quale la difesa o il trarre dei vantaggi e, almeno in
teoria, dovrebbe essere così anche per l’autoinganno. In realtà la vittima
dell’autoinganno non ha la consapevolezza di mentire. Nietzsche [138]

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66 La verità sulla menzogna

sostiene che i fondatori delle grandi religioni erano tutti in preda ad


autoinganno.
Secondo alcuni autori, l’autoinganno sarebbe incompatibile con il
concetto classico della menzogna, che presuppone l’intenzione d’ingan-
nare l’altro, in piena coscienza, sapendo ciò che deliberatamente si na-
sconde. Il destinatario della menzogna deve essere qualcuno da ingannare
e il sé cosciente esclude la possibilità di mentire a se stessi [72]. L’au-
toinganno può essere interpretato come un meccanismo di difesa, basato
sulla capacità di una parte di noi stessi di mentire all’altra parte [179]. Il
soggetto che rifiuta di ammettere qualche aspetto della realtà, interna o
esterna, evidente agli altri (negazione), adotta spiegazioni o giustificazio-
ni rassicuranti, ma non corrette, interpretando la realtà in una determina-
ta ottica, positiva o negativa che sia (razionalizzazione). Ci viene in mente
l’esempio dell’alcolista (ma questo vale anche per le altre dipendenze, sia
da sostanze, sia comportamentali) che nega a se stesso di avere un proble-
ma con il bere, ma anche quello di certe famiglie che negano a se stesse
evidenti comportamenti abnormi di loro familiari.

Parleremo più diffusamente del romanzo 1984 di George Orwell [141] nel Cap. XIX,
Menzogna e politica; qui, a proposito di autoinganno, vogliamo accennare al bipensie-
ro – termine della neolingua ideata dal Grande Fratello, il Capo assoluto di Oceania,
una delle tre potenze totalitarie che governano la Terra nel 1984, dopo una guerra
nucleare –, meccanismo psicologico che consente di sostenere un’idea e il suo opposto
in modo da non uscire mai dall’ortodossia del regime.
Il bipensiero implica la capacità di cogliere simultaneamente nella propria mente due
opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. Il bipensiero è fondamentale per
alterare le informazioni presenti e passate in modo da fornire una versione dei fatti
tale che il Partito risulti sempre infallibile e che i cittadini non abbiano termini di
confronto né con il passato né con gli altri Paesi: saranno così convinti che le loro con-
dizioni di vita siano migliori rispetto a quelle sia del passato sia degli altri popoli e che
il benessere sia sempre in crescita. Questo meccanismo deve essere conscio altrimenti
non potrebbe essere applicato con sufficiente precisione ma al tempo stesso deve essere
inconscio perché, altrimenti, produrrebbe una sensazione di falso e quindi un senso di
colpa... Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero,
dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che
ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall’oblio per tutto il tempo che
serve, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella
stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile. Anche solo per usare
il termine bipensiero è necessario ricorrere al bipensiero perché, usarlo, significa essere
coscienti di manipolare la realtà ma al tempo stesso, grazie al bipensiero, si cancella
questa consapevolezza e così via all’infinito. È grazie a questo sistema che il Partito ha
potuto rendere duraturo il proprio potere: se si desidera governare e si vuole continua-
re a farlo, si deve avere la capacità di condizionare il senso della realtà.
Non è che tanti politici di oggi abbiano imparato a usare il bipensiero?!

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IV. I mille modi di mentire 67

L’autoinganno, inteso come tendenza a sopravvalutarci o a svalutarci,


in condizioni psicopatologiche, sarà argomento del Cap. XII.
Un discorso a parte meritano la disinformazione e la controinforma-
zione; la prima è un’azione subdola, ingannevole, che tende a sostituire
l’informazione, mescolando ad arte mezze verità e menzogne, spacciando
il risultato come la realtà vera, la seconda, invece, è la contrapposizione
manifesta di un’informazione diversa rispetto a un’informazione pre-
cedente. La disinformazione è uno strumento ampiamente usato nello
spionaggio (far trapelare notizie false ma verosimili, in modo da trarre
in inganno il nemico: nel periodo della “guerra fredda”, la disinformatia
è stata ampiamente usata soprattutto dall’Unione Sovietica), in politica
(diffondere informazioni false – a volte assurde – sul personaggio politico
o sul partito politico avverso per screditarli), nel marketing, nella pubbli-
cità (cosiddetta pubblicità ingannevole).

Nel ’43, la Repubblica Sociale di Salò diffuse la notizia (supportata da manifesti con
falce e martello sullo sfondo e la scritta Chi salverà i vostri figli? o Papà salvami) che
i comunisti mangiassero i bambini ed esistesse un piano per deportare in Russia, a
questo scopo, bambini italiani dai 4 ai 14 anni. Nel dopoguerra la leggenda venne
sfruttata nella propaganda politica per combattere il Partito Comunista, molto forte
nell’Europa occidentale.

Le strategie della disinformazione sono numerose e vanno dall’inseri-


re notizie false in un contesto in sé logico, al negare l’evidenza insinuando
dubbi, falsificare le fonti e le prove o nascondere informazioni sfavorevo-
li; dal mescolare menzogne e verità, in maniera da rendere confusa l’in-
formazione, al sovraccaricare gli spazi informativi per diluire l’impatto
e l’importanza di alcuni contenuti. Nella controinformazione, invece, si
contrappone a un’informazione una sua versione diversa, in genere ri-
volta contro l’informazione ufficiale, istituzionale, considerata falsa, ma-
nipolata da gruppi di potere, da potenze economiche che mirerebbero
esclusivamente al proprio interesse a spese dei cittadini. In questi ultimi
tempi, un tipico esempio è rappresentato dalla querelle sulla vaccinazio-
ne che, secondo la controinformazione, sarebbe in rapporto causale con
l’insorgenza dell’autismo, effetto collaterale noto alle multinazionali del
farmaco (Big Pharma) ma negato dalle stesse per i loro interessi5.
Disinformazione e controinformazione sono modalità tipiche della
post-verità. Se il bipensiero orwelliano fa parte del mondo della fantasia
di un immaginifico scrittore, la post-truth (post-verità) è, invece, una

5 Ne parleremo diffusamente nel Cap. XV.

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68 La verità sulla menzogna

realtà dei nostri giorni, tanto attuale che gli Oxford Dictionaries6, i quali
registrano l’evoluzione della lingua e il suo uso attuale, l’ha scelta come la
parola dell’anno 20167. Sarà oggetto di trattazione nel capitolo XXII, qui
ne facciamo solo un breve cenno. Questa parola ha, in inglese, un’acce-
zione specifica, non di “dopo” la verità ma di “al di là” della verità, cioè
indipendentemente dalla verità, ed è nata per descrivere il fenomeno,
vecchio quanto l’uomo, di diffondere false verità, generalmente a fini po-
litici per colpire, influenzare l’opinione pubblica ma, rispetto al passato,
in maniera molto più efficace grazie ai social media che fanno da cassa
di risonanza. Della post-truth si è fatto largo uso soprattutto in due im-
portanti eventi politici che hanno caratterizzato il 2016, il referendum
inglese sulla Brexit (l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea) e
le elezioni presidenziali americane, eventi che, secondo gli osservatori, ne
sarebbero stati influenzati pesantemente.
Ci sono poi, come abbiamo accennato, le menzogne socialmente accet-
tate, le cosiddette menzogne convenzionali (o di convenienza), cioè tutto
il complesso di convenzioni, di cortesie puramente esteriori e di piccole
ipocrisie che, nelle relazioni umane, sono frequenti e a cui in genere si dà
molta importanza sul piano della vita sociale. Non possiamo certamente
classificare come menzogne tutte quelle espressioni e manifestazioni che
fanno parte delle comuni regole di cortesia. Un tempo si diceva servo vo-
stro, espressione di cortesia comunemente usata in alcune regioni, alla
quale, ovviamente, non credeva né chi la formulava né chi la riceveva e lo
stesso vale per certe formule, oggi passate di moda, con cui si chiudevano
le lettere (deferenti ossequi, con profonda stima ecc.). Potremmo pensare
che si tratti solo di una sorta di “cosmesi” fatta per ingentilire le relazio-
ni sociali. Tutti sappiamo, chi le dice e chi le ascolta, che i vivi rallegra-
menti, le sentite condoglianze, gli auguri tradizionali sono solo menzogne
eppure, chi non le pratica, rischia di finire sul “libro nero” del parente,
dell’amico, del collega, del conoscente destinatario. Pestare un piede o
colpire con il gomito qualcuno nella calca, se non fossero seguiti da «Par-
don!», «Scusi», cui la persona educata risponde «Ma le pare?», «Prego»,
addirittura essere la causa di un litigio o, quanto meno, potrebbero farci
giudicare maleducati o prepotenti, e non responsabili di un atto in realtà
involontario. Se comunque le esaminiamo con attenzione, queste menzo-
gne non sono solo convenzioni verbali utili a una civile convivenza, ma
6 Gli Oxford Dictionaries (da non confondersi con l’Oxford English Dictionary - OED) regi-
strano le novità linguistiche illustrando come le parole e i loro significati sono cambiati nel corso
del tempo.
7 La decisione degli Oxford Dictionaries è dovuta al fatto che l’impiego di questa parola è
cresciuto, nel 2016, del 2000%.

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IV. I mille modi di mentire 69

possono rappresentare (specialmente se rivolte a persone di rango supe-


riore, o a chi potrebbe esserci utile o, al contrario, nuocerci) una forma
sottile di captatio benevolentiae.
Molto vicine alle menzogne di convenienza sono le cosiddette bugie
bianche, quelle volte non a ingannare ma a non far soffrire qualcuno, a
evitare conflitti inutili, a non offendere i sentimenti delle persone, a rav-
vivare un rapporto un po’ stanco e così via. Costa poco dire all’amica che
quella pettinatura le dona, o che la troviamo dimagrita, o dire paroline
dolci al partner, anche se non è proprio la verità. D’altra parte molti pre-
feriscono rapportarsi con chi fornisce loro gratificazioni, anche se non
del tutto sincere, invece di verità sgradevoli. È ragionevole mentire per
proteggere i sentimenti delle persone care senza, però, esagerare per non
rischiare l’effetto contrario. Come diceva Oscar Wilde [196],
un po’ di sincerità è pericolosa, ma molta è assolutamente fatale.
Ci sono circostanze in cui è lecito, se non necessario, mentire? Esiste
la menzogna buona, utile, compassionevole? O, meglio, è giusto mentire
per bontà, generosità, compassione? Sappiamo bene che, in certi casi, la
verità è crudele mentre la menzogna fa la parte del bene: è ciò che Tom-
maso d’Aquino [56] definiva la menzogna pietosa (pium mendacium),
cioè ti faccio credere il falso ma a fin di bene, per aiutarti o, quanto meno,
per non nuocerti. Tacere una diagnosi di tumore o di un’altra malattia
a prognosi infausta, è un gesto generoso, altruistico, privo di connota-
zioni negative. Non tutti, però, condividono questo approccio. Alcuni,
ritengono che la verità, se detta nel modo giusto, con la dovuta empatia e
l’opportuno conforto morale e materiale, possa stimolare la reattività del
soggetto e spingerlo a combattere contro il suo male o, nel caso, dargli
l’opportunità di sistemare i propri affari affettivi, materiali e morali. Altri
sostengono che, indipendentemente dalla possibile reazione del sogget-
to, la verità debba essere detta sempre e comunque: Umberto Veronesi
sosteneva che è necessario dire la verità ma alla stessa maniera con cui si
somministrano i farmaci, alle dosi e con i tempi più opportuni e utili per
ogni singolo paziente.
Vale la pena, a questo punto, di soffermarci un momento sul rappor-
to medico-paziente (più correttamente medico-persona): al medico non
possiamo, non vogliamo non credere, perché gli affidiamo la nostra salu-
te, la nostra stessa vita. Spesso ci dice cose spiacevoli, ci proibisce quello
che più ci piace, cibo, alcol, fumo ecc., a volte ci prescrive indagini anche
dolorose e/o costose delle quali magari non vediamo la necessità, ma alla
fine lo seguiamo, gli siamo fedeli: dover cambiare medico rappresenta
spesso un trauma. Il punto è se egli debba, o no, dire al paziente “tutta la

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70 La verità sulla menzogna

verità” sulla sua salute. Una volta il medico parlava con i familiari ed era-
no loro a interagire con il malato e/o a prendere le decisioni. Oggi le cose
sono cambiate perché, per ogni indagine, esame, ricovero, intervento, è
necessario il consenso informato da parte del paziente e quindi, in teo-
ria, non dovrebbero esserci più dubbi sul destinatario dell’informazione.
Nondimeno, espressioni quali «Le resta sì e no un anno di vita», «Se non
fa la cura morirà entro sei mesi» (e magari si tratta di una cura eroica)
non dovrebbero comparire in un colloquio con un paziente poiché non
hanno alcuna utilità e neanche senso in un rapporto terapeutico. Ferme
restando le regole sull’informazione “informata” da somministrare al pa-
ziente, è evidente che la verità debba essere detta, ma dovrebbero esserci
(e ci sono), modi diversi di comunicarla, compresi alcuni ingannevoli: un
inganno complice, somministrato nelle giuste dosi, sostenuto magari dal-
la reticenza, e addolcito dall’empatia. Il buon medico deve essere capace
di curare secondo i dettami della scienza ma anche di utilizzare le proprie
capacità empatiche per rafforzare psicologicamente l’effetto delle terapie
prescritte e il dialogo con il paziente che, in questo senso, è la prima e più
importante arma di cui dispone.
Per chiudere la descrizione dei mille modi di mentire, vogliamo ac-
cennare all’effetto distruttivo che può avere la verità quando diventa stru-
mento di offesa. La menzogna, come abbiamo detto, è caratterizzata, oltre
che dalla volontà di ingannare (voluntas fallendi) anche dalla volontà di
fare del male (voluntas nocendi), ma può esserci anche una voluntas no-
cendi della verità di cui un terribile esempio è quello raccontato in uno
smilzo libricino, un romanzo epistolare, dal titolo Destinatario Sconosciu-
to, di Taylor Kresmann8, pubblicato nel 1938 su Story e giunto in Europa
solo nel 1999.

Due amici e soci in affari di origine tedesca, Martin e Max, hanno fatto fortuna in
America. Nel 1932 Martin, tedesco, sposato con figli, che ha avuto una relazione con
la sorella del socio, Giselle, torna in Germania per investirvi i propri guadagni. Max,
ebreo tedesco, scapolo, pessimista, rimane in America ed è preoccupato per la sorella,
attrice, che si trova in Europa proprio nel momento della conquista del potere da parte
di Hitler e delle prime persecuzioni agli ebrei.
I due si scrivono lettere piene di sincerità, affetto e stima, finché Martin, che ha ac-
quisito un buon livello sociale a Monaco di Baviera, ha aderito al nazionalsocialismo
ed è entrato a far parte dell’élite cittadina, scrive a Max di interrompere la corrispon-
denza perché, nella sua posizione, non può intrattenere rapporti, anche solo epistolari,
con un ebreo a causa della censura.
Max approfitta della corrispondenza commerciale (sono ancora soci) per racco-

8 Il libro, in PDF, è reperibile gratuitamente sul web.

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IV. I mille modi di mentire 71

mandargli Giselle, andata a recitare a Berlino e che lui non riesce più a contattare:
le lettere gli tornano tutte indietro con su stampigliato “Destinatario sconosciuto”9.
Martin gli risponde dopo oltre un mese dicendo che Giselle era giunta alla sua villa
inseguita dalle SS e non l’aveva accolta per timore di rappresaglie, che le SS, soprag-
giunte nel frattempo, l’avevano uccisa proprio nel suo giardino: lui aveva poi spedito
il corpo in paese per farla seppellire e non vuole più essere contattato.
Max, invece, continua a scrivergli finché, qualche mese dopo, una sua lettera torna
al mittente con su stampigliato “Destinatario sconosciuto”: per la legge del taglione,
Martin ha fatto la stessa fine che lui aveva lasciato fare a Giselle, una terribile vendetta
messa in atto da Max con un abile inganno: semplicemente continuando a scrivere,
senza profferire alcuna menzogna.

9 Destinatario sconosciuto era la dicitura con cui tornavano al mittente le lettere inviate a
persone che le SS avevano ucciso o fatto sparire.

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V. Il linguaggio segreto della menzogna

È l’eccesso a tradire la menzogna,


la verità non ama i superlativi.
(Giuseppe Pontiggia)

Ricordate quel che disse la Fatina dai capelli turchini a Pinocchio? «Le
bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie.
Vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso
lungo». Non è così, non ci sono segni fisici patognomonici di un’afferma-
zione menzognera... o invece esistono?

Non ci sono dubbi che Pinocchio sia il simbolo, l’icona della menzogna e tutto per quel
suo benedetto naso che non la smetteva di crescere tanto da non potersi più girare da
nessuna parte. Eppure, a ben vedere, di bugie ne dice veramente poche, se si eccettua
quella raccontata alla Fatina sul fatto di non avere più gli zecchini d’oro. Semmai è vitti-
ma delle menzogne degli altri, dal gatto e la volpe all’omino di burro, dai medici Corvo
e Civetta ai profittatori del Regno di Acchiappacitrulli ecc. È così ingenuo e sprovvedu-
to da non riuscire a cogliere i chiari segnali delle loro menzogne, che Collodi mette in
bella evidenza. Pinocchio ascolta le parole ma non sa “comprendere” [89] il discorso,
non presta neppure attenzione ai segni e perciò si lascia facilmente ingannare1.

Nelle indagini sui segni indicativi di una comunicazione menzogne-


ra, la maggior parte degli intervistati, indipendentemente dalla cultura
di origine, ha sostenuto che i bugiardi distolgono lo sguardo, si agitano
più del normale, si toccano o si grattano, raccontano storie più lunghe
del normale [27]. Nell’opinione generale, dunque, scoprire il mentitore
dovrebbe essere piuttosto facile e così solo pochi sciocchi o sprovveduti
cadrebbero nei suoi inganni. D’altra parte, nella vita quotidiana, partiamo

1 Anche quando incomincia a leggere e a scrivere, Pinocchio continua a non leggere i segnali
di inganno. L’alfabetizzazione, infatti, non è sufficiente di per sé, non basta leggere le parole o le
frasi ma è necessario capire il senso di ciò che è scritto o detto. Secondo una ricerca dell’OCSE di
una quindicina di anni fa, circa il 40% dei maschi italiani tra i 16 e i 25 anni non era in grado di
comprendere testi in prosa di livello considerato dagli organizzatori dell’indagine come appena
adeguato rispetto alle esigenze di vita quotidiana e di lavoro di una società complessa e tecnologica-
mente avanzata.

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74 La verità sulla menzogna

dal preconcetto che l’interlocutore sia sincero, a meno che non abbiamo
motivi per pensare che voglia ingannarci: altrimenti, vivremmo in una
condizione paranoidea incompatibile con la vita sociale. È la nostra con-
dizione di default che dà al mentitore la possibilità di successo.
Affinché la menzogna sia efficace e raggiunga il suo scopo, cioè ingan-
nare, è necessario che sia presentata in maniera tale da non far sospettare
in alcun modo alla vittima che quanto gli viene proposto come vero sia,
in realtà, falso. E il buon mentitore è, in genere, capace di proporre la
propria “verità” in modo credibile. Un osservatore attento, tuttavia, potrà
cogliere nel linguaggio del corpo e nella mimica segnali che dovrebbero
metterlo in guardia sulla sua possibile mendacità: nessun mentitore, per
quanto bravo, è in grado di controllare tutta la gamma dei comportamen-
ti (soprattutto quelli involontari) che potrebbero tradirlo.
Dobbiamo anche dire che, in generale, la nostra attenzione è polariz-
zata sulle parole, al più sulla mimica facciale, e prestiamo meno attenzio-
ne al resto dei segni somatici: il mentitore lo sa e curerà perciò con par-
ticolare attenzione l’aspetto linguistico della sua comunicazione. Non a
caso Pinocchio si lascia ingannare dalle chiacchiere del gatto e della volpe
e non da Mangiafuoco che è semplice, leggibile nei suoi comportamenti
(«... ha starnutito e questo è segno che s’è mosso a compassione per te...»);
a un altro livello si colloca il Renzo manzoniano che, come afferma Eco
[78], come tutti gli umili sa interpretare i segni, i comportamenti, l’abbi-
gliamento, le posture, ma non
il linguaggio verbale che può essere usato come strumento di potere e inti-
midazione, si pensi ai paroloni dell’Azzeccagarbugli col povero Renzo, che
non capisce quel “latinorum” [...] Il notaio che arresta Renzo gli parla in
modo incoraggiante. Però gli fa mettere i manichini2...
Oggi, nell’era della rete, la trappola sta anche nelle parole scritte che
vengono usate sapientemente da chi è intenzionato a frodare, inducendo,
ad esempio, molti sprovveduti a spedirgli anche migliaia di euro per en-
trare in possesso di fantomatiche vincite milionarie in concorsi ai quali,
ovviamente, non hanno neppure partecipato!
Ekman [81], uno dei principali studiosi della comunicazione non ver-
bale, afferma che
nessun indizio di falsità è attendibile per tutti gli esseri umani, ma singo-
larmente o in combinazione possono aiutare a giudicare la sincerità della
maggior parte delle persone.

2 Le manette.

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V. Il linguaggio segreto della menzogna 75

Il nostro corpo, infatti, non è pienamente controllato dalla nostra vo-


lontà, anzi, spesso, attraverso espressioni mimiche, movimenti e reazioni
neurovegetative, esprime più o meno chiaramente anche ciò che vorrem-
mo nascondere.
Naturalmente i mentitori abituali possono avere più sicurezza e minor
timore di essere scoperti e sono capaci, perciò, di controllare meglio il
linguaggio del corpo. Anch’essi, tuttavia, a un’attenta osservazione, mo-
strano alcuni segnali indicativi e, talora, potrà essere proprio l’eccessiva
sicurezza a tradirli.
Quali sono i segnali attraverso i quali sospettare che l’interlocutore
sta cercando di imbrogliarci? Importanti sono i segnali preverbali, cioè
il tono della voce, che tende a essere più acuto, il volume, il ritmo e lo
stile dell’eloquio, che può essere declamatorio, alcune insicurezze del lin-
guaggio, l’eccessivo uso di “non parole” (ehm, uhm ecc.), la ripetizione
di parole, ma anche il contenuto del discorso. Abbondano termini ge-
nerici e scarseggiano riferimenti concreti a fatti, a persone e anche a se
stesso o, al contrario, c’è un ossessivo ricorso al dettaglio, alle precisazio-
ni non necessarie. Non mancano i lapsus e le incertezze, che aumentano
se poniamo domande precise perché, se il discorso principale può essere
preparato, è difficile prevedere le domande che potranno essere poste e
predisporre di conseguenza le risposte in anticipo che, pertanto, saranno
involute, con giri di parole evasivi e complicati. Anche la gestica è spesso
compromessa, in genere è ridotta probabilmente perché, nella menzogna,
manca il coinvolgimento emotivo, anche se, talora, può essere aumentata,
enfatica. Il bravo mentitore tende a guardare dritto negli occhi l’interlo-
cutore perché sa bene che questo è generalmente considerato un segno
di affidabilità: alle spie sovietiche veniva insegnato a guardare negli occhi
coloro che dovevano ingannare3. Ma anche il mentitore più incallito non
può inibire del tutto le reazioni automatiche del suo corpo: può sorride-
re con la bocca ma non con gli occhi, non riesce a sostenere a lungo lo
sguardo dell’interlocutore, ammicca di frequente, s’inumidisce più spesso
le labbra perché il sovraccarico di adrenalina le asciuga, gesticola eccessi-
vamente e altro ancora.
Se è difficile il controllo dei muscoli volontari, lo è ancora di più quello
del sistema nervoso vegetativo; alcune reazioni possono essere facilmente
osservate (rossore, tremore, sudorazione, deglutizione ecc.), altre come le
variazioni della frequenza cardiaca e respiratoria, le variazioni pressorie,

3 Quando Bill Clinton disse al Reverendo Robert Schuller di non aver mai fatto sesso con
Monica Lewinsky, «lo disse – ricorda Schuller – con molta passione e con gli occhi fissi nei miei».
Newsweek, September 14, 1998.

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76 La verità sulla menzogna

la sudorazione possono essere evidenziate utilizzando appositi strumen-


ti, i cosiddetti poligrafi o macchine della verità. Naturalmente dobbiamo
tener presente che nessuna variazione dei parametri, sia quelli percepi-
bili direttamente, sia quelli evidenziabili con il poligrafo, è specifica della
menzogna essendo comune a svariate situazioni quali paura, timidezza,
vergogna, colpa, rabbia o altro.
Il linguaggio del corpo è in primo piano anche nell’interazione con
persone verso le quali abbiamo interessi affettivo/sessuali: in queste cir-
costanze il “non detto” è molto di più e molto più importante del “detto”
ed è veicolato, appunto, dal linguaggio del corpo. La “lettura” di questo
linguaggio può essere decisiva per l’esito dell’interazione: capire se piac-
ciamo a un’altra persona, se questa trova piacevole stare con noi o se,
magari, prova attrazione sessuale, faciliterebbe enormemente lo sviluppo
del rapporto.
Le emozioni sono il tallone di Achille della menzogna: non è facile
nascondere un’emozione, né fingere un’emozione che non si prova; per
essere creduti non basta dire di provarla o non di non provarla, bisogna
mostrare i segni corrispondenti e
non è facile mettere insieme tutti i movimenti giusti, le particolari alte-
razioni della voce che sono indispensabili per falsificare un’emozione [81]
ed è ancora più difficile il contrario, cioè mascherare un’emozione spon-
tanea.

In uno studio sui segnali somatici della menzogna, fu mostrato a diversi valutatori,
con differenti tipi di preparazione e background professionale, la videoregistrazione
di una serie d’interviste chiedendo di individuare coloro che mentivano. I risultati
peggiori erano quelli ottenuti dai soggetti che avevano osservato soltanto la faccia e
ascoltato le parole, i quali avevano giudicato onesti i soggetti che mentivano in per-
centuale maggiore; risultati migliori li avevano ottenuti coloro che avevano osservato
soltanto il corpo, con circa il 65% di risposte esatte (rispetto alla probabilità casuale
del 50%). Solo pochi esaminatori (in genere psicoterapeuti con una lunga esperienza
clinica) avevano identificato l’85% dei mentitori [81].

Quando cerchiamo di valutare la sincerità di una persona, non dob-


biamo dimenticare che le reazioni somatiche di un innocente sospettato
o accusato di mentire possono essere molto simili a quelle del mentito-
re. Un innocente accusato a torto, temendo di non essere creduto, può
eccitarsi davanti alla necessità di smentire l’accusatore, al limite, avere
sentimenti di colpa per ragioni diverse da quelle contingenti, che il sen-
tirsi sotto accusa potrebbe aver riattivato: insomma molte sue reazioni
emotive potrebbero essere del tutto simili a quelle del mentitore.

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V. Il linguaggio segreto della menzogna 77

Ekman ha dato a questa situazione la denominazione di errore di Otello perché è


proprio quello che succede nel dramma di Shakespeare [174]: quando Otello accusa
Desdemona di amare Cassio e la invita a confessare la propria colpa, lei chiede di
chiamare Cassio a testimone della sua innocenza. Otello le dice di averlo già fatto
uccidere e lei capisce che, non potendo più dimostrare la propria innocenza, andrà
incontro alla stessa sorte e piange in preda alla paura, piange perché l’uomo che ama
non le crede e la ucciderà. Otello pensa invece che pianga per la morte di Cassio, si
conferma nella sua convinzione di essere stato tradito e la uccide. Il veleno della men-
zogna di Iago è stato così potente da indurre Otello, già convinto della colpevolezza di
Desdemona, a interpretare il suo comportamento come una conferma del tradimento:
potenza del pregiudizio!

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I. La menzogna e il mentitore 79

Vi. Menzogna e arte

L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità.


(Theodor W. Adorno, Minima Moralia, 1951)

Nel mito greco, le nove Muse1 ispiravano e proteggevano altrettanti


ambiti dell’arte. Oggi le arti si sono moltiplicate, le dieci forme principali
sono: Pittura, Scultura, Architettura, Letteratura, Musica, Danza, Teatro,
Cinema, Fotografia e Fumetto, che comprendono le forme minori.
Non le prenderemo certamente tutte in considerazione in questa sede
ma focalizzeremo la nostra attenzione su alcune di esse che ci sembrano
più significative per gli scopi di questo saggio.
«L’arte è una menzogna che ci avvicina alla verità», affermava Pablo
Picasso e noi potremmo aggiungere che è tanto più menzognera quanto
più fedelmente riproduce la realtà, al punto da non consentire o rendere
difficile distinguere tra le due. Oscar Wilde [196] sosteneva che l’artista
non può non mentire:
Nessun grande artista vede mai le cose come realmente sono. Se lo facesse
cesserebbe di essere un artista [...] L’unica forma di menzogna assoluta-
mente irreprensibile è quella che è fine a se stessa, la cui forma più alta... è
la Menzogna nell’Arte.
L’espressione artistica, sotto qualsiasi forma, è finzione per definizio-
ne, rappresenta la realtà, ma non è la realtà. Emblematico della distanza,
nell’arte, fra l’oggetto e la sua rappresentazione è il celebre quadro di Ma-
gritte, pittore surrealista, in cui è perfettamente riprodotta una pipa con
sotto una scritta in corsivo lezioso: Ceci n’est pas une pipe (Questa non è
una pipa). Significativamente, il quadro è intitolato La trahison des ima-
ges (Il tradimento delle immagini), “tradimento” perché l’immagine, ben
realizzata, sembra vera: ma nessuno potrà mai fumare quella pipa. Che
1 Nella mitologia greca le arti erano protette dalle Muse, figlie di Zeus e Mnemosyne (la
memoria) ed erano guidate da Apollo. Esse erano, come dice Esiodo nella Teogonia, nove: Clio
per la storia e il canto epico; Euterpe per la poesia lirica; Talia per la commedia; Melpomene per
la tragedia; Tersicore per la danza; Erato per la poesia amorosa; Polimnia per il mimo; Urania per
l’astronomia; Calliope per l’elegia.

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80 La verità sulla menzogna

cosa vuol dirci l’artista? Intanto che, per quanto dipinta in maniera tale
da sembrare vera, è solo una rappresentazione dell’oggetto e, più in gene-
rale, che l’arte non deve rappresentare nel modo più realistico possibile la
realtà poiché essa non ha a che fare con la realtà ma con il modo in cui la
vediamo: è un’espressione che vuole fornirci un’idea, un particolare pun-
to di vista sulla realtà. Allo stesso modo, nessuno penserebbe di trovare la
realtà in un quadro o in un romanzo, in un dramma o in un film, eppure
non rinunciamo a guardare un film o a leggere un romanzo poiché, oltre
al possibile piacere estetico che possiamo ricavarne,
in fondo noi cerchiamo, nel corso della nostra esistenza, una storia origina-
ria, che ci dica perché siamo nati e abbiamo vissuto. Talora cerchiamo una
storia cosmica, la storia dell’universo, talora la nostra storia personale (che
raccontiamo al confessore, allo psicoanalista, che scriviamo sulle pagine di
un diario). Talora speriamo di far coincidere la nostra storia personale con
quella dell’universo [77].
Non solo la recitazione è reggere lo specchio alla natura, come dice
Shakespeare nell’Amleto, lo è tutta l’arte indistintamente.
Un aspetto paradossale dell’arte è che, in genere, l’artista cerca di tra-
sfondere nella propria opera la “verità”, anche se filtrata attraverso la sua
sensibilità, la sua cultura, le sue credenze, i suoi sogni, in rapporto al con-
testo socioculturale nel quale vive, dal quale trae ispirazione. Chi fruisce
dell’opera dell’artista tanto più l’apprezzerà quanto più troverà in essa la
“propria verità” e potrà, quindi, identificarsi in essa.
A ben vedere, tutte le produzioni artistiche rappresentano una fuga dal
reale attraverso la creazione di mondi fantastici, in grado di modificare la
realtà tanto per l’autore quanto per il fruitore.
Non di rado, l’opera artistica nasce e si sviluppa nella mente dell’auto-
re un po’ come una confabulazione2 che si differenzia da quella patologica
perché l’artista è in grado di guidare le invenzioni della mente e di esercitare
su di esse un controllo decidendo quali siano da accettare e quali da censu-
rare. Molto spesso l’ispirazione dell’artista nasce da un elemento “catalizza-
tore”, magari anche insignificante, ma che a lui apre un mondo in cui tutto
si concatena in una costruzione che, con gli strumenti che gli sono propri,
trasforma in un’opera d’arte. Non si può negare che, in ultima analisi, il
potere creativo dell’artista consista nell’assemblare, mescolare i materiali
forniti dall’esperienza ma è la capacità di creare collegamenti nuovi, ina-

2 La confabulazione, come diremo più ampiamente nel Cap. IX, può essere definita come

una produzione di ricordi inventati, distorti o travisati, su se stessi o sul mondo, senza l’intento con-
sapevole di ingannare.

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Vi. Menzogna e arte 81

spettati, accostamenti e contrapposizioni, che trasformano il prodotto in


“opera d’arte”. Naturalmente, anche per godere del piacere che questa può
dare, è necessario che l’osservatore colga nell’opera un elemento “cataliz-
zatore” – non necessariamente lo stesso dell’artista – che gli consentirà di
“entrare” nello spirito dell’autore e godere della sua opera (o anche reinter-
pretarla sulla base delle proprie emozioni).
Tanto l’autore che il fruitore dell’opera annullano le normali regole
dello spazio e del tempo e ritrovano il piacere disinibito che il bambino ha
nei confronti del gioco perdendo i confini tra la realtà e la fantasia. Come
ha affermato Pablo Picasso, «Tutti i bambini sono artisti. Il problema è
come rimanere artisti una volta cresciuti».

Un’ottima introduzione al tema del rapporto tra menzogna e arte potrebbe essere il
film F. For Fake (Verità e Menzogna) di Orson Welles (1975): già l’autore/regista è,
di per sé, una garanzia, basti pensare alla sua trasmissione radiofonica del 1938, La
guerra dei mondi, che scatenò una psicosi collettiva simulando un’invasione degli USA
da parte degli extraterrestri.
Welles, che interpreta se stesso, è in una stazione ferroviaria con la sua bellissima
compagna, Oja Kodar, e mentre esegue alcuni giochi di prestigio ci dice che, nei suc-
cessivi sessanta minuti, racconterà una storia e dirà solo la verità3. Il tema è cosa sia la
verità nell’arte e nella vita, e lo affronterà mediante aneddoti, ricordi autobiografici e
un’intervista a due noti falsari, Elmyr de Hory, falsario d’arte, e Clifford Irving, autore
di una falsa autobiografia di Howard Hughes; anche Oja Kodar non è estranea a que-
sto mondo essendo nipote di un grande falsario che aveva allestito a Parigi una mostra
con copie perfette dei ritratti fatti da Picasso alla nipote, nel periodo in cui era stata sua
modella.
In F. For Fake si raccontano fatti veri che hanno per oggetto il falso: in un’opera in
cui i protagonisti sono dei falsari, qual è la possibilità di verità, soprattutto quando il
falso è doppio, quando cioè un falsario d’arte viene raccontato da un falsario lettera-
rio? Se ai due falsari aggiungiamo il Welles-narratore-impostore, il quadro si com-
plica ulteriormente. È lo stesso Welles che offre un elemento di chiarimento quando
afferma che il dilemma vero-falso viene a cadere di fronte all’assioma del bello come
autentico.
Il film, in definitiva, si propone come una riflessione sull’inganno come condizione
quasi naturale dell’esistenza, una dimostrazione dei poteri illusionistici del cinema da
parte di uno dei suoi massimi esponenti che, proprio per questa sua capacità di affa-
bulatore, è stato definito il “meraviglioso bugiardo”. Impagabile Welles quando, con
(finta) disillusione afferma: «Ho incominciato la mia carriera con un falso, l’invasione
dei marziani. Non mi è andata male. Sarei dovuto finire in prigione, invece sono finito
a Hollywood!».

3 E, come abbiamo visto, i più grandi mentitori non perdono occasione per ribadire che

dicono o diranno solo la verità!

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82 La verità sulla menzogna

La pittura
Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla,
ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza,
trasformano una macchia gialla nel sole.
(Pablo Picasso)

La pittura, nel tentativo di rappresentare la realtà quotidiana o sto-


rie mitologiche o religiose, ha dovuto lottare per secoli con i problemi
che comporta il trasferire una realtà tridimensionale in uno spazio bidi-
mensionale e, fino alla scoperta della prospettiva, ha dovuto o stilizzare al
massimo le figure o cercare, con vari artifici, di dare loro una parvenza di
profondità. In questo modo la distanza tra la rappresentazione pittorica
e la realtà era notevole e “l’inganno” talmente scoperto da non ingannare
nessuno. Nel Quattrocento, con l’invenzione della prospettiva, il gap tra
pittura e realtà si è ridotto significativamente aumentando di conseguen-
za il grado di inganno.
Verso la metà dell’Ottocento la pittura abbandona, per così dire, i temi
mitologici, storici, religiosi e, in sintonia con il positivismo, tenta di rap-
presentare la realtà sociale, la realtà “nuda e cruda”; con il realismo si
riduce ulteriormente la distanza tra la realtà rappresentata e quella reale.
Ma una volta sganciato dai temi della pittura classica, l’oggetto perde
importanza lasciando il posto alla soggettività dell’artista e alle sue emo-
zioni espresse attraverso rapidi colpi di pennello che comunicano non
tanto ciò che l’artista vede, quanto le impressioni che ne ricava. L’impres-
sionismo aumenta di nuovo la distanza fra la realtà e la sua rappresenta-
zione rendendo ancor più evidente la “menzogna” del dipinto. Dopo di
allora le principali correnti pittoriche (cubismo, futurismo, astrattismo,
dadaismo ecc.) hanno condotto, in genere, a una destrutturazione della
realtà tale da renderla praticamente irriconoscibile poiché gli autori cer-
cano di cogliere non la realtà ma la sua “essenza”.
Dalla seconda metà del secolo scorso, grazie anche alla disponibilità
di mezzi tecnici potenti e sofisticati, si è sviluppata, in contrasto con l’e-
spressionismo astratto, la pop art (arte popolare) che ha trasformato in
arte i miti e i linguaggi della società dei consumi. Sulla scia della pop art,
si è sviluppato, soprattutto negli USA, il fotorealismo o iperrealismo che
si avvale di tecniche fotografiche al fine di evidenziare, fino all’ossessività,
anche i minimi dettagli, per rendere le proprie tele, quanto più possibile
simili alla fotografia. Il risultato della realizzazione di tali livelli di “somi-
glianza” rende massimo l’inganno e assoluta la menzogna.

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Vi. Menzogna e arte 83

La letteratura
Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso
e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima.
(George Bernard Shaw)

La letteratura è il luogo prediletto dalla menzogna, nel senso che


gran parte del contenuto di un romanzo, anche quando prende spunto
da eventi o situazioni reali, è il prodotto della fantasia, dell’invenzione.
D’altra parte lo scopo dello scrittore è coinvolgere, affascinare il lettore,
farlo sentire in certa misura parte della trama, farlo identificare col prota-
gonista o con l’antagonista. Al di là del valore letterario, un romanzo ha
successo quando lo leggi d’un fiato, preso e coinvolto dalla trama.
Qui ci interessa enfatizzare che spesso, nella letteratura, è più facile
incontrare “discepoli” di Nietzsche, per il quale è nella bugia che si mani-
festa il genio dell’uomo, che “discepoli” di Socrate per il quale Platone mi
è amico, ma più amica mi è la verità.
Le novelle del Decamerone di Boccaccio [23], ad esempio, sono un
inno alla menzogna e all’inganno.

Ne è degnissima testimonianza già la prima novella della prima giornata in cui ser
Cepperello, notaio pratese, viene così presentato: Testimonianze false con sommo di-
letto diceva, richiesto e non richiesto... Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in
commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali...
Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volentero-
samente v’andava; e più volte a ferire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò
volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo... Egli era il piggiore uomo
forse che mai nascesse...
In Francia per recuperare crediti per conto di messer Musciatto, ser Ciappelletto
(così era conosciuto in quel Paese), ospite di due fratelli usurai fiorentini, ha un malo-
re che gli fa capire di essere prossimo alla morte e i due fratelli si preoccupano perché,
morendo senza essere confessato, non avrebbe potuto essere sepolto in luogo consa-
crato e, se avessero chiamato un prete, questi, venuto a conoscenza di tutte le sue ma-
lefatte, quasi certamente gli avrebbe negato l’assoluzione. Per toglierli dall’imbarazzo,
fa chiamare lui stesso un santo e valente frate [...], se alcun ce n’è, al quale si confessa e
la confessione è, oltre che paradossale, conoscendo il “curriculum” di ser Ciappelletto,
un gioiello linguistico e sintattico che coglie tutte le sfumature del discorso di un de-
voto cristiano che scandaglia la sua vita alla ricerca di peccati da confessare: nega, con
finto imbarazzo, ogni peccato di lussuria (io sono così vergine come uscii dal corpo della
mamma); confessa di aver peccato di gola cedendo alla tentazione, fra digiuni e qua-
resime, di insalatuzze d’erbucce; di essersi spesso adirato veggendo tutto il dì gli uomini
fare le sconce cose, non servare i comandamenti; di aver avvertito i parenti della moglie
di un vicino il quale non faceva altro che battere la moglie... ogni volta che bevuto avea

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84 La verità sulla menzogna

troppo; di non aver mai ingannato nessuno e di avere anzi reso a uno, dopo un anno,
quattro monete che gli aveva dato in più; di non aver santificato la festa per aver fatto
spazzare la casa ad un servitore, di avere inavvertitamente sputato in chiesa e, a coro-
namento di tutto, fra pianti e sospiri confessa che quando era piccolino, io bestemmiai
una volta la mamma mia [...] la mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il
dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! Dopo una tale confessione, chiede
anche la comunione e l’estrema unzione acciò che io, se vivuto son come peccatore,
almeno muoia come cristiano e al santo frate che, estasiato per aver incontrato un’a-
nima così pura, gli chiede addirittura se, in caso di morte, potesse fargli piacere essere
sepolto nella loro chiesa, risponde non vorre’ io essere altrove.
I due fratelli che l’ospitavano, avendo seguito da dietro una parete la confessione,
aveano sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che
quasi scoppiavano, ma la stessa voglia non può non prendere chi legga la novella, tal’è
lo stile della narrazione! Ma non è finita qui perché, durante il funerale, il santo frate,
salito sul pulpito, tanto ed in tal modo disse delle grandi virtù di ser Ciappelletto che
la gente si accalcava intorno al feretro per toccarlo o per strappargli i panni come
reliquie e nei giorni seguenti si recava all’arca in cui era stato sepolto ad accendere
candele e a chiedere miracoli.
Il Boccaccio, forse a coronamento della colossale menzogna e strizzandoci l’occhio,
lascia impregiudicato il futuro ultraterreno (negar non voglio essere possibile lui essere
beato nella presenza di Dio) di ser Cepparello, notaio, il piggiore uomo forse che mai
nascesse, diventato per caso San Ciappelletto.

Tra i romanzi in cui la menzogna è al centro della trama, possiamo


citare, spulciando qua e là, da L’Asino d’Oro di Lucio Apuleio a I Viaggi
di Gulliver di Jonathan Swift, da Gargantua e Pantagruel di François Ra-
belais a Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll
per giungere alla serie di romanzi su Harry Potter di Joanne K. Rowling.

A proposito di letteratura e menzogna, una piccola perla che ci sembra giusto non di-
menticare è la fiaba di Hans Christian Andersen [6], I vestiti nuovi dell’Imperatore, di
cui tutti probabilmente ricordano la frase finale, «L’Imperatore è nudo». In breve, due
imbroglioni, conoscendo quanto l’imperatore sia vanitoso e tenga al suo abbigliamen-
to, spargono la voce di essere capaci di tessere un tessuto così sottile e leggero da essere
invisibile agli stolti e agli indegni. Sono chiamati a corte dove mostrano il tessuto (in
realtà inesistente), ma tutti i cortigiani, per non essere giudicati stolti o indegni, ne
decantano la bellezza tanto che l’imperatore ordina che gli venga preparato un abito
per i quale pagherà un prezzo spropositato data la rarità di quel tessuto. Alla conse-
gna, ovviamente, neppure lui lo vede ma, conoscendo le proprie indegnità, si mostra
estasiato per l’opera dei tessitori. Lo indossa e sfila per le vie della città dove tutti,
pur non vedendo alcun vestito, ma ritenendosi anch’essi in qualche modo indegni,
applaudono l’eleganza dell’Imperatore: è l’apoteosi della menzogna. L’incantesimo è
rotto dall’innocenza di un bambino che, meravigliato, grida «L’Imperatore è nudo!»,
ma l’imperatore continua a sfilare come se niente fosse. A conferma che la menzo-
gna e l’inganno sono patrimonio tanto di chi comanda quanto della gente comune.

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Vi. Menzogna e arte 85

È la parabola dell’uomo cresciuto in una società che l’ha condizionato a vivere nella
menzogna al punto da non saperla più riconoscere se non recuperando il bambino
ingenuo nascosto in qualche piega del suo essere.

Un romanzo in cui tutto si gioca sul doppio, sulla maschera, è cer-


tamente Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde [195], che fu usato,
per i suoi contenuti omosessuali, come arma processuale contro di lui.
Certamente un capolavoro della letteratura inglese nel quale si celebra
il culto della bellezza, dell’estetismo, dell’edonismo assoluto, disinibito,
dissoluto, che sfocia nel degrado morale fino al crimine.

Il romanzo, ambientato nella Londra vittoriana del XIX secolo, ha come protagonista
un giovane, Dorian Gray, molto bello, che prende coscienza della propria bellezza
quando un suo amico pittore, Basil Hallward, gli fa un ritratto.
Il “Mefistofele” di Dorian è Lord Wotton, conosciuto nello studio del pittore, che
gli fa intravedere cosa potrebbe ottenere grazie alla sua bellezza, al suo aspetto inno-
cente e rassicurante, commentando però che la giovinezza è breve. Così, quando Basil
gli dona il quadro, Dorian, rattristato, esclama: «Che cosa triste! Io diventerò vecchio,
orribile, disgustoso, ma questo quadro resterà sempre giovane, [...] Se solo potesse essere
il contrario! Se potessi io rimanere sempre giovane e invecchiasse il quadro, invece! Per
questo... per questo darei qualunque cosa! Sì, non c’è nulla al mondo che non darei!
Darei l’anima!».
Sotto la guida di Lord Wotton, Dorian finisce per diventare sempre più avido di pia-
ceri e più spietato e, pur conducendo una vita dissoluta, grazie a quella sorta di “patto
col Diavolo”, rimarrà giovane e bello, mentre il quadro mostrerà i segni della sua de-
cadenza fisica e della sua corruzione morale. Dorian nasconde il quadro in soffitta e di
tanto in tanto vi si reca per controllare e schernire il suo ritratto che invecchia giorno
dopo giorno, ma che, al tempo stesso, gli crea anche tanti timori per cui, in preda a
una sorta di follia, a un certo punto uccide l’amico pittore, che ritiene causa dei suoi
mali in quanto creatore dell’opera. Alla fine, stanco del peso che il ritratto gli causa,
nel tentativo di liberarsi della vita malvagia che sta conducendo, lacera il quadro con il
coltello con cui aveva ucciso il pittore, e si uccide conficcandosi un pugnale nel cuore:
i servi lo troveranno, irriconoscibile e precocemente invecchiato, ai piedi del ritratto,
ritornato meravigliosamente giovane e bello.
Wilde, che nell’arco della sua esistenza, ha perseguito il culto della bellezza attra-
verso la sua produzione artistica e la sua condotta di vita anticonformista, sprezzante
del buonsenso e dei canoni della morale comune, in quest’opera, rovescia il principio
secondo cui è l’arte che imita la vita, nel suo opposto e cioè che è la vita a imitare l’arte.
E in questa prospettiva, si giustifica l’importanza attribuita all’apparenza e al dominio
dei sensi, all’estetismo esasperato che persegue la ricerca del piacere assoluto, al di là
di ogni valore morale.

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86 La verità sulla menzogna

Il teatro
Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire,
non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno.
(Bertolt Brecht)

Restando in un campo affine alla letteratura, quello del teatro, vale la


pena soffermarci sulla figura del mentitore cui hanno dedicato pièce tea-
trali diversi autori.
Abbiamo già accennato all’Otello di Shakespeare, nel quale tutto ruota
attorno alla figura di Iago, l’archetipo del bugiardo, che mira solo al pro-
prio vantaggio a prezzo del dolore altrui, e non ci torneremo. Spostandoci
sul versante della commedia, non possiamo sottrarci al dovere di citare
Aristofane, il padre della commedia greca e della commedia in generale,
autore di almeno quaranta opere, e Tito Maccio Plauto [152], il re della
commedia latina: nelle sue oltre venti pièces giunte fino a noi, menzogne,
inganni, finzioni abbondano e hanno rappresentato fonte d’ispirazione
per numerosi commediografi nei secoli successivi.
Qui vogliamo dire brevemente di tre commedie che sono strettamente
collegate l’una all’altra: La Verdad Sospechosa di Ruiz de Alarcòn (1620)
[62], Le Menteur di Pierre Corneille (1643) [51] e Il Bugiardo di Carlo
Goldoni (1750) [97]. La trama delle tre opere teatrali è molto simile, ma
ognuna di esse ha proprie peculiarità. In particolare sono i mentitori,
García, Dorante e Lelio, i quali, con stili molto diversi, conducono il loro
gioco di menzogne per evitare di sposare la donna destinata loro dal pa-
dre, che, per un insieme di circostanze, è proprio l’oggetto del loro desi-
derio. Molte delle menzogne sono comuni alle tre opere: dall’identità che
ognuno si inventa (un gentiluomo delle Indie García, un eroico combat-
tente Dorante, un cavaliere napoletano Lelio), al tentativo di conquistare
gli amici con un festino organizzato da altri, al gloriarsi con il proprio ser-
vitore di aver ucciso in duello il proprio rivale, salvo poi ritrovarselo vivo
e vegeto davanti e dover inventare altre menzogne per coprire la prima
(García dirà che l’hanno resuscitato con un incantesimo; Dorante affer-
merà che hanno usato la magica poudre de sympathie; Lelio sosterrà che,
accecato dalla collera, deve aver ucciso qualcun altro al posto del rivale)4.

4 A queste bugie, i tre servitori rispondono argutamente: Tristàn chiede a Garcìa – il quale
cerca di propinargli la menzogna che ci sono incantesimi capaci di riappiccicare istantaneamente
al corpo arti staccati – di insegnargli la formula dell’incantesimo e lui l’avrebbe ripagato con la
sua devozione e i suoi servigi; Garcìa risponde che è impossibile perché è in ebraico e lui conosce
dieci lingue ma non quella, e Tristàn ironicamente commenta che, per mentire, non gli bastano
tutte e dieci. Anche Cliton, il servitore di Dorante, chiede di essere messo a parte del segreto della

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Vi. Menzogna e arte 87

Vediamo brevemente la trama di ciascuna commedia.

Nella Verdad Sospechosa, García, di famiglia nobile, al suo ritorno a Madrid da Sala-
manca, dove aveva studiato, incontra due belle ragazze, Lucrecia e Jacinta e si innamo-
ra di quest’ultima ma, confondendo i nomi, si convince che sia Lucrecia e, in questo
gioco degli equivoci, entra in un vortice di bugie e di “spiritose invenzioni” finché suo
padre gli impone di sposare Jacinta; convinto che si tratti di Lucrecia, mente dicendo
di essersi sposato a Salamanca. Suo padre allora desiste e solo allora García scopre
l’equivoco e dichiara il proprio amore per Jacinta, ma ormai non gli crede più nessuno
ed è costretto a sposare Lucrecia. Alarcòn, moralista, si schiera dalla parte della verità
e punisce perciò il mentitore García, costretto a sposare la donna che non ama.

Nella commedia di Corneille, Le Menteur, Dorante, giovane studente di provincia,


arriva a Parigi sognando di godere la vita della città e di conquistare una ragazza.
Giovane dalla bugia pronta, si crea numerosi fastidi cui cerca di sfuggire accumulando
bugie su bugie; s’innamora facilmente e così gli accade con Clarice e Lucrèce, che con-
fonde l’una con l’altra, e fa la corte alla prima dichiarandosi innamorato della seconda.
Le ragazze, sconcertate, pensano che lui si prenda gioco di loro e così è minacciata la
conquista di Lucrèce. È il suo servitore, Cliton, ad aprirgli gli occhi spiegandogli che
scambia l’una con l’altra. Dorante, nel tentativo di riprendere in mano la situazione,
inanella una menzogna sull’altra per ristabilire la propria credibilità e riesce, con la
sua capacità di mentire, a parare le accuse delle ragazze e a conquistare Lucrèce: Cor-
neille, a differenza di Alarcòn, sceglie il lieto fine.

Il Bugiardo di Goldoni trae ispirazione da Alarcòn e Corneille, come egli stesso am-
mette nelle Mémoires [96], apportandovi importanti innovazioni: la figura dell’aman-
te timido contrapposto al protagonista, le più numerose occasioni in cui Lelio è co-
stretto a cimentarsi nell’invenzione di bugie «le quali sono per natura così feconde, che
una ne suol produrre più di cento, e l’une hanno bisogno dell’altre per sostenersi», e altri
artifici nell’intreccio della storia. Il bugiardo qui è il figlio di Pantalone, Lelio, un gio-
vane brillante che torna a Venezia con il suo servo Arlecchino, dopo aver soggiornato
vent’anni da uno zio a Napoli. Qui conosce le figlie del Dottor Balanzoni, Rosaura e
Beatrice, mentre sono oggetto di una serenata da parte di un ignoto ammiratore (che
poi si scoprirà essere Fiorindo, innamorato timido di Rosaura). Lelio, presentandosi
come un ricco marchese, afferma di essere l’autore della serenata non specificando a
quale delle due fosse dedicata nel tentativo di conquistarle entrambe.
Incomincia così la girandola delle spiritose invenzioni di Lelio che causano diversi
problemi: le ragazze vengono accusate di aver fatto entrare in casa nottetempo uno
sconosciuto disonorando la famiglia e Ottavio, pretendente di Beatrice, non la vuole
più per questa ragione; rischia di saltare l’accordo fra Pantalone e Balanzoni per dare
Rosaura in sposa a Lelio, cosa che entrambi rifiutano, Rosaura perché non conosce

poudre de sympathie in cambio della paga, ma anche il suo padrone tira in ballo la conoscenza di pa-
role ebraiche e di molte altre lingue e a Cliton non resta che concludere ironicamente, come Tristàn,
che dovrebbe conoscerne almeno dieci per dire tutte le bugie che racconta. Alla menzogna di Lelio,
Arlecchino risponde: «M’immagino che l’averì ammazzà colla spada d’una spiritosa invenzion».

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88 La verità sulla menzogna

Lelio come figlio di Pantalone ma come marchese e Lelio perché si è innamorato di


Rosaura, ma non sa che è la figlia di Balanzoni. Nel frattempo si fa avanti una dama
romana che Lelio aveva promesso di sposare: per sottrarsi alla promessa, inventerà un
matrimonio con figli a Napoli complicando ancora di più le cose che, alla fine, grazie
alle confidenze fra i vari servitori, si chiariranno e Lelio potrà sposare Rosaura pro-
mettendo di non dire mai più bugie. La commedia si chiude con la battuta moralistica
di Ottavio «le bugie rendono l’uomo ridicolo, infedele, odiato da tutti; per non essere
bugiardi, conviene parlar poco, apprezzare il vero e pensare al fine».

Dei tre mentitori, i veri geni della bugia sono Lelio e García artefici di
sutilezas de ingenio (spiritose invenzioni), mentre Dorante non possiede
abbastanza spirito per stare alla pari con gli altri due e, come dice il suo
servo Cliton, racconta semplici rêveries (fantasticherie).
Parlando de Il bugiardo di Goldoni, abbiamo citato, fra i personag-
gi, Arlecchino, Balanzone, Pantalone, tutti maschere della Commedia
dell’Arte, la rappresentazione teatrale caratteristica dell’Italia dal XVI al
XVIII secolo, recitata da personaggi fissi, che, indipendentemente dal
contenuto della rappresentazione (che non aveva un testo scritto ma un
canovaccio in base al quale gli attori improvvisavano), recitavano sempre
lo stesso ruolo ed erano perciò immediatamente riconoscibili.
Un dramma che merita la nostra attenzione proprio per l’intreccio
inestricabile di finzione, realtà e follia è senza dubbio l’Enrico IV di Luigi
Pirandello [149].

Nei primi del ’900, un nobile, nelle vesti di Enrico IV, prende parte a una cavalcata
in costume organizzata per il carnevale, alla quale partecipano la marchesa Matilde,
della quale è innamorato, e il rivale in amore, barone Belcredi. Durante la cavalcata,
Belcredi disarciona il rivale che, cadendo, batte la testa e si convince di essere real-
mente Enrico IV. Suo nipote, Carlo di Nolli, per alleviarne le sofferenze, gli mette a
disposizione dei servitori che assecondano la sua follia. Dopo 12 anni guarisce e si
rende conto che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per sottrargli Matilde.
Non accettando questa realtà dolorosa decide di continuare a fingersi pazzo. Dopo
vent’anni, Matilde, Belcredi, la loro figlia e uno psichiatra interessato al caso, vanno
a trovarlo e lo psichiatra suggerisce che, ripetendo la scena della caduta da cavallo,
Enrico IV potrebbe guarire. Viene allestita la scena e al posto di Matilde recita la fi-
glia, che assomiglia incredibilmente alla madre da giovane. Enrico IV ha l’impulso di
abbracciarla ma Belcredi si oppone, Enrico IV sguaina la spada e l’uccide: per sfuggire
alla pena, deciderà di continuare a fingersi pazzo.

Pirandello, profondo conoscitore delle dinamiche teatrali, ma anche


conoscitore della patologia psichica (sua moglie soffriva di schizofrenia),
propone in questo dramma, considerato, assieme a Sei personaggi in cerca
di autore, il suo capolavoro teatrale, una situazione continuamente oscil-

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Vi. Menzogna e arte 89

lante fra realtà e finzione: il dramma di un uomo che vive di un passato


perduto, in un presente che non può vivere come se stesso e con un futuro
che gli è precluso perché costretto a fingersi pazzo.
«preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia
[...] che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quest’altra ma-
scherata [...] di cui siamo pagliacci involontari quando senza saperlo ci
mascheriamo in ciò che ci par d’essere [...] Sono guarito, signori: perché
so perfettamente di fare il pazzo, qua [...] Il guaio è per voi che la vivete
agiatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia. [...] La mia
vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non
l’ho vissuta!»

Il cinema
Il cinema dovrebbe farti dimenticare
che sei seduto su una poltrona di un teatro.
(Roman Polanski)

Un settore in cui la menzogna ha trovato larghissimo spazio è il cinema


che ben si presta, molto più del teatro, per i suoi mezzi espressivi, a falsare
e a ingannare. E il livello dei “trucchi” elettronici è ormai tale da rendere
obsoleti, anche per la produzione di colossal, i set grandiosi di un tempo.
Ma non è degli aspetti tecnici che vogliamo parlare, bensì di film nei
quali la menzogna è elevata ad arte tanto da essere entrata nell’immagi-
nario collettivo o da essere assunta a eponimo, come nel caso del film di
Woody Allen, Zelig, del 1983, che ha assegnato il nome alla sindrome di
Zelig o sindrome da dipendenza ambientale.

Leonard Zelig è un uomo che non ha né un sé né una personalità, è uno specchio


che restituisce alle persone la loro stessa immagine, è letteralmente la loro immagine,
assume l’aspetto di chi gli sta vicino (come dice Bruno Bettelheim che ha interpretato
se stesso nel film).
Il quadro psicopatologico è molto raro ma esiste realmente ed è stato descritto
nel 2007 [49] in un soggetto con danni cerebrali fronto-temporali, che presentava
mancanza di autenticità nel contatto con la realtà esterna, gravi difficoltà nell’area
dell’intersoggettività, tendenza a modificare il proprio passato e la propria identità,
adeguandosi camaleonticamente alle persone e agli oggetti con cui, di volta in volta,
entrava in relazione.
A titolo di curiosità, l’episodio Sindrome dello specchio della serie Dr. House – Me-
dical Division, descrive un paziente con questi sintomi che viene diagnosticato come
affetto da “Sindrome di Giovannini” in omaggio (ma storpiandone il nome) alla psi-

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chiatra italiana (Giovannina Conchiglia [49]) che l’ha descritta per prima. La sindro-
me di Zelig è stata accostata al disturbo borderline di personalità e il suo nucleo psico-
patologico individuato nell’identificazione proiettiva di Melania Klein.

Un tema per certi versi non molto distante da questo, è quello di For-
rest Gump, il film di Zemekis del 1994, premiato con sei Oscar, e interpre-
tato magistralmente da Tom Hanks.

Forrest Gump è un ragazzo con uno sviluppo cognitivo inferiore alla norma e con una
malformazione alle gambe che lo costringe a portare dei tutori. Per una serie di coinci-
denze, diventa testimone diretto d’importanti avvenimenti della storia americana nel
periodo che va approssimativamente dal 1950 al 1980, che racconta a quanti siedono
accanto a lui sulla panchina alla fermata dell’autobus di Savannah, la stessa panchina
dove, molti anni prima, il primo giorno di scuola, aveva incontrato Jenny, il suo unico
grande amore. Forrest Gump è “un eroe per caso”, l’uomo puro che fa grandi cose
senza cercarle e, anzi, senza rendersi conto di ciò che fa e di ciò che gli accade.
Casualmente finisce per primeggiare in quasi tutto ciò che fa: dismessi i tutori per
sfuggire a dei bulletti, scopre di essere un ottimo corridore e diventa un campione della
squadra di football senza conoscerne le regole; per i suoi meriti sportivi viene ammesso
all’Università dell’Alabama prendendo involontariamente parte ai movimenti per l’in-
tegrazione razziale; assieme ad altri atleti è ricevuto alla Casa Bianca da J.F. Kennedy (e
nel bagno presidenziale nota una foto autografata di Marilyn Monroe); laureatosi quasi
esclusivamente per meriti sportivi, si arruola nell’esercito dove diventa amico di un
soldato afroamericano, il caporale Bubba, il cui sogno è comprare un peschereccio per
pescare gamberi nel Golfo e convince Forrest a diventare suo socio quando torneranno
dalla guerra del Vietnam, dove sono stati mandati a cercare «un tizio di nome Charlie»,
non avendo realizzato che con il termine “charlies” erano indicati i Vietcong; qui salva
cinque commilitoni, compreso il tenente Taylor gravemente ferito, ma non Bubba, che
spira fra le sue braccia e lui stesso viene colpito da una pallottola a un gluteo.
Tornato dal Vietnam, riceve una medaglia al valore dal nuovo presidente, L.B.
Johnson; durante la convalescenza per la ferita, diventa un campione di ping-pong
e viene inserito nella squadra mandata da Nixon a giocare in Cina nell’ambito della
cosiddetta “Diplomazia del ping-pong”; di ritorno dalla Cina, viene ricevuto alla Casa
Bianca da Nixon, il quale gli trova una sistemazione al Watergate Hotel e qui, vedendo
gente strana nell’appartamento di fronte, avverte la sorveglianza dell’albergo facendo
scoppiare lo scandalo del Watergate. Fedele alla promessa fatta a Bubba, compra il
peschereccio per la pesca dei gamberi, che va a gonfie vele facendo diventare ricco lui
e il suo socio, il tenente Taylor, al quale consiglia di investire nella Apple che, secondo
lui, è «una cooperativa della frutta».
A un certo punto, dopo che Jenny ha rifiutato di sposarlo non sentendosi degna di
lui5, Forrest inizia a correre attraversando l’America dall’Atlantico al Pacifico e tor-
nando indietro (senza sapere, come lui stesso ammette, per quale motivo stia cor-

5 Jenny, infatti, al contrario di Forrest, ha condotto una vita sregolata inquieta, corrotta,

irresponsabile, superficiale, facendo anche la prostituta.

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Vi. Menzogna e arte 91

rendo), seguito da un numero crescente di persone; a un certo punto, si ferma fra le


suggestive rocce del Colorado e mentre tutti aspettano ansiosi una sua dichiarazione
altamente significativa, lui dice: «Sono un po’ stanchino». Dopo più di tre anni di corsa
torna a casa, dove riceve una lettera di Jenny che lo invita a casa sua (ed è per questo
che è seduto su quella panchina): qui scopre che dalla loro relazione è nato un figlio,
che lei ha chiamato come lui. I due si sposano ma dopo poco la donna morirà proba-
bilmente di AIDS. Famose sono alcune sue frasi, in particolare «Stupido è chi lo stupi-
do fa» e «La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita».

Di rilievo è la tecnica che ha consentito di inserire il personaggio di


Forrest in filmati di repertorio autentici facendolo interagire con per-
sonaggi defunti, come J.F. Kennedy o John Lennon, inducendo quasi lo
spettatore a ritenere che Forrest sia realmente esistito.
Un’immagine, a differenza di un ritratto di vecchio stampo, non è fatta
semplicemente per migliorare la realtà, ma per offrire un completo sosti-
tuto di essa. E questo sostituto, a causa delle tecniche moderne e dei mas-
smedia, è naturalmente molto più in vista di quanto non lo sia mai stato
l’originale [72].
Merita senz’altro la nostra attenzione il film Marguerite (del 2015) di
Xavier Giannoli, che ricorda molto la fiaba di Andersen [6], I vestiti nuovi
dell’Imperatore, di cui abbiamo parlato. Il film s’ispira a una storia vera,
quella di Florence Foster Jenkins, un’ereditiera statunitense convinta di
saper cantare ma assolutamente priva di doti canore.

Nel film è Marguerite Dumont, una ricca baronessa francese sposata a un aristocratico
che ha venduto il titolo (e la nobiltà) e che la tollera per i suoi soldi e pensa solo alle
macchine e alle donne. Marguerite non ha voce, non ha attitudine al canto ma ha la
convinzione, alimentata dal fedele maggiordomo, dall’entourage familiare e dal marito
che non ha il coraggio di disilluderla (ma è crudele abbastanza da illuderla) di essere
una brava soprano. Sostenuta dalla propria convinzione, si esibisce in una grande festa
organizzata nella propria villa per raccogliere fondi per un’associazione musicale. Per
amicizia o per il timore di perdere il suo generoso contributo, tutti la applaudono.
Un giovane anarchico e un suo amico giornalista individuano nella baronessa ‘sto-
nata’ una voce di ‘rottura’ per demolire il sistema “borghese” dell’arte. Marguerite
studia sotto la guida di uno squattrinato tenore italiano ma, al momento del debutto,
le sue corde vocali, sforzate, non reggono e deve essere ricoverata. Durante la convale-
scenza, parla con il medico del suo (fantomatico) passato di grande artista internazio-
nale e questi le chiede di registrare una sua esibizione: quando riascolterà la propria
voce al registratore, verrà colta da un infarto e ne morirà. Marguerite, donna inna-
morata dell’arte, spaventata dalla solitudine, vive ed è tenuta in vita dalla menzogna
compiacente o interessata di chi la circonda e sarà la verità a ucciderla.

Nel recente film Florence (2016), Meryl Streep interpreta magistral-

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92 La verità sulla menzogna

mente Florence Foster Jenkins con la regia di Stephen Frears, che si man-
tiene, rispetto a Giannoli, più aderente alla storia vera.

Florence è affiancata dal marito (Hugh Grant), uomo di “immensa fedeltà e coraggio”,
attore shakespeariano di mediocri qualità ma “libero dalla tirannia dell’ambizione”,
che per venticinque anni si spenderà per tenerle lontani schernitori e sbeffeggiatori, e
dal musicista (Simon Helberg) il quale l’ha accompagnata al piano durante le sue tra-
gicomiche esibizioni in club privati o in eccentriche feste. I tre, quasi coinvolti in una
sorta di folie à trois, aspirano alla consacrazione ufficiale, ma la loro grande illusione
naufraga sul palco della Carnegie Hall non potendo il marito controllare anche qui
tutti gli invitati. Florence ne morirà due giorni dopo d’infarto.

Abbiamo incominciato il capitolo parlando della trasmissione radio-


fonica di Orson Welles, La guerra dei mondi, che scatenò una colossale
psicosi collettiva simulando un’invasione degli USA da parte degli ex-
traterrestri. Qualcosa di simile, fatte le debite proporzioni, fece il regi-
sta Anton Giulio Maiano con un dramma televisivo, I figli di Medea, nel
1959, quando la televisione italiana muoveva i primi passi (le trasmissioni
erano iniziate nel 1954).

La trasmissione dello sceneggiato I figli di Medea, interpretato da Enrico Maria Sa-


lerno e Alida Valli, è bruscamente interrotta dall’annunciatrice (che fa parte della
finzione) per comunicare l’avvenuto rapimento, a opera dell’attore, del figlio avuto
dalla Valli, e invita i telespettatori a segnalare a un numero telefonico qualsiasi infor-
mazione che possa consentire di ritrovare il bambino che, gravemente ammalato, ha
bisogno di cure e il padre (Salerno) rifiuta di rivelare dove l’ha nascosto, chiedendo di
poter parlare alla televisione. Il monologo televisivo di Salerno sull’uso ingannevole
dei mezzi di comunicazione (proprio come sta accadendo) viene interrotto dopo un
po’ per annunciare che il bambino è stato ritrovato. Tutto sembra essere tornato alla
normalità ma la trasmissione viene nuovamente interrotta perché l’attore, nel frat-
tempo, ha estratto una pistola e minaccia di suicidarsi. Riprende il suo monologo ma
dopo un po’ si addormenta grazie a un sedativo somministratogli con l’acqua che lui
aveva chiesto per dissetarsi.

Nonostante nel corso della trasmissione fossero stati forniti numerosi


indizi che suggerivano che si trattasse di una finzione, la messinscena
ebbe successo, gli spettatori percepirono la trasmissione come un evento
reale e i numeri della RAI e di diversi ospedali furono subissati di tele-
fonate.
Concludiamo questo capitolo citando uno dei capolavori della cine-
matografia americana, Viale del tramonto (Sunset Boulevard, del 1950),
diretto da Billy Wilder.

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Vi. Menzogna e arte 93

Il film narra la storia di una diva del muto, Norma Desmond (interpretata da Gloria
Swanson6) che, ritiratasi dalle scene con l’avvento del sonoro, vive sola, con il mag-
giordomo Max (Erich von Stroheim) – nella realtà era stato suo pigmalione e primo
marito –, in un’immensa villa fatiscente, buia, decadente7, contornata da centinaia di
sue foto, disprezzando il cinema moderno, che considera rovinato e corrotto dall’av-
vento del sonoro e del colore («Noi eravamo grandi, è il cinema che è diventato picco-
lo», «Non avevamo bisogno di parole, avevamo dei volti!») e sognando di tornare alla
celebrità con un film su Salomè, di cui ha scritto il copione.
Joe Gillis (William Holden), uno sceneggiatore in difficoltà, per sfuggire agli esatto-
ri che vorrebbero sequestrargli la macchina, si rifugia nella villa di Norma, credendola
abbandonata. Joe, incuriosito dall’ambiente, si intrattiene con Norma la quale gli sot-
topone il copione e lo ospita per lavorare al progetto del film. La donna s’innamora
di lui, lo lusinga con costosi regali, ma viene rifiutata e per questo, durante un party,
lo colpisce; lui fugge e poi telefona al maggiordomo per farsi mandare i propri effetti
personali: scopre così che la Desmond ha tentato il suicidio, per cui corre al suo ca-
pezzale promettendole di non lasciarla. Joe, intanto, ha incominciato a lavorare a una
sceneggiatura con una giovane, Betty Shaaefer, ed inizia una doppia vita, passando le
giornate con Norma e andando la sera a lavorare con Betty, anch’essa innamorata di
lui. Intanto Norma, ormai psicotica, scoperta la doppia vita di Joe, invita Betty alla
villa dove Joe le spiega della sfarzosa vita che conduce con la matura diva. Betty fugge
in lacrime, Joe fa i bagagli per andarsene ma Norma lo segue fino al giardino e gli spara
tre colpi di pistola uccidendolo. All’arrivo della polizia, la diva appare completamente
estraniata dalla realtà, il maggiordomo le dice che sono arrivati gli operatori (in re-
altà gli operatori dei cinegiornali) per iniziare il suo film. Convinta che ci sia il “suo”
regista, Cecil DeMille, per filmarla, Norma scende maestosamente le scale sentendosi
l’acclamata diva di un tempo e, guardando la cinepresa, pronuncia la battuta finale:
«Eccomi DeMille, sono pronta per il mio primo piano».

Nel film finzione e realtà si mescolano in maniera inscindibile: la


Swanson è una diva del muto che interpreta una diva del muto, Cecil
DeMille recita se stesso, così come molte “comparse” sono attori veri che
recitano se stessi (Buster Keaton, Hedda Hopper, Anna Q. Nilsson, H.B.
Warner, Ray Evans ecc.) o, come von Stroheim, nella parte del maggior-
domo Max. Il cinema è onnipresente (anche fisicamente, ad esempio il
famoso cancello d’ingresso della Paramount) e permea tutto il film tan-
to da rendere talora difficile distinguere la finzione cinematografica dalla
realtà. Joe, che aveva nei suoi sogni una villa con piscina, morendo cade
nella piscina, simbolo di ciò che aveva sempre desiderato. Ma soprattutto
è emblematica Norma Desmond, il prototipo dell’attrice che non può es-
sere altro che la “maschera” che aveva impersonato sullo schermo e nella

6
Che era stata, appunto, una diva del muto.
7
Per ottenere questo effetto, il regista fece mettere sull’obiettivo della cinepresa della polvere
di pomice.

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94 La verità sulla menzogna

vita, in un’epoca in cui le dive dovevano essere sempre dive, vivere in un


mondo dorato fatto solo di altre star, di ville principesche nascoste in
giardini lussureggianti. È talmente inscindibile la persona dalla propria
maschera, che, quando il suo sogno di tornare a essere la diva che era
stata si infrange, diviene psicotica e, grazie a questo, conquista di nuovo
gli onori delle cineprese.

La maschera e il volto
C’è una maschera per la famiglia, una per la società,
una per il lavoro. E quando stai solo resti nessuno.
(Luigi Pirandello, Uno, nessuno centomila, 1926)

Gli argomenti che abbiamo ora trattato, il teatro e il cinema, ci forni-


scono l’occasione per accennare al significato e al ruolo della maschera.
Scopo primario della maschera, sia quella reale sia quella metaforica,
è nascondere l’identità di chi la indossa o, al contrario, conferirgli un’i-
dentità fissa, predefinita, immediatamente riconoscibile: in entrambi i
casi lo scopo è quello di spersonalizzare, nascondere colui che la indossa.
La maschera reale è legata soprattutto ai riti religiosi, di caccia o di
guerra, ma anche alle feste orgiastiche, dai Baccanali al nostro Carneva-
le, per consentire ogni tipo di trasgressione senza essere riconosciuti, ha
rivestito un ruolo importante nel teatro fin dalla più remota antichità.
Nel teatro classico, greco e latino, la maschera aveva due funzioni: di
caratterizzare il personaggio rappresentato e il suo ruolo, in modo da
renderlo immediatamente riconoscibile, e fungere da cassa di risonanza
per amplificarne la voce: all’epoca, infatti, i teatri (o, meglio, gli anfite-
atri) erano all’aperto e, nonostante l’ottima acustica8, i dialoghi erano
difficilmente udibili nelle file più distanti dalla scena.
Nel Medioevo il teatro scomparve, sostituito dalle rappresentazioni
sacre tratte dai Vangeli o dalle storie dei santi, recitate in chiesa o sul sa-
grato. Contemporaneamente cominciarono a entrare in scena i giullari
(saltimbanchi, comici, acrobati ecc.) che si guadagnavano da vivere esi-
bendosi nelle corti e nelle piazze, generalmente senza interagire tra loro
in un qualcosa di strutturato che assomigliasse a una rappresentazione.

8 Chi ha visitato l’anfiteatro di Epidauro non può non essere rimasto colpito dalla chiarezza
con cui, da ogni posizione, è perfettamente udibile il rumore di una monetina lasciata cadere a terra
al centro della scena, nonostante la grandezza dell’anfiteatro stesso.

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Vi. Menzogna e arte 95

Il teatro rifiorì nel Rinascimento, nelle corti, sotto forma di comme-


dia erudita, umanistica e impegnata, finché, intorno al XVI secolo, con il
mutamento delle condizioni socio-politiche (Riforma protestante, Con-
troriforma, Guerre di religione, Inquisizione ecc.), tali rappresentazioni,
incentrate sui contenuti, sull’impegno politico e sociale, furono guarda-
te con sospetto e abbandonate. Questo favorì il recupero della tradizio-
ne dei giullari e dei saltimbanchi medioevali: nacque così la Commedia
dell’Arte che aveva, fra le sue caratteristiche principali, quella di essere
recitata da personaggi fissi, da maschere, quasi delle marionette, che, in-
dipendentemente dal contenuto della rappresentazione (un canovaccio
sul quale gli attori improvvisavano), recitavano sempre lo stesso ruolo.
Tanto per fare alcuni esempi: Arlecchino era il servo imbroglione peren-
nemente affamato; Brighella il servo furbo; Colombina la servetta furba
e maliziosa; Pantalone l’anziano e ricco mercante; Rosaura, la figlia di
Pantalone, chiacchierona, vanitosa e irascibile; Pulcinella il servo malin-
conico che mescola sciocchezza a saggezza popolare; Balanzone il dot-
tore serioso e presuntuoso e molti altri ancora. Verso la fine del XVIII
secolo, sarà Goldoni [96] che, gradualmente, aprirà la strada al Teatro
Moderno, modificando l’assetto attoriale e sostituendo le maschere con
personaggi, ognuno con un proprio carattere e una fisionomia indivi-
duale ben precisa.
Lo sviluppo crescente dei mezzi d’informazione, e di quelli audiovisivi
in particolare, ha “portato in casa” le varie forme di rappresentazione e
cambiato il teatro moderno, ampliando a dismisura l’immagine dell’atto-
re e mettendone in evidenza le specifiche modalità di recitazione.
Le diverse Scuole di recitazione insegnano stili recitativi differenti,
dall’identificazione totale con il personaggio (metodo Stanislavskij) al
distacco tra l’attore e il personaggio e ci sono attori che, con la propria
personalità, “contaminano” più o meno il ruolo in cui si calano, indi-
pendentemente dalla Scuola. Alcuni attori sono capaci di “entrare” in
maniera perfettamente credibile nei ruoli più diversi – eroi o straccio-
ni, maschili o femminili –, come, ad esempio, Lawrence Olivier, Marlon
Brando, Dustin Hoffman, Robert De Niro, Giorgio Albertazzi, Al Pacino,
Arnoldo Foà, Maryl Streep, tanto per citarne qualcuno; ve ne sono altri
che, per le loro caratteristiche di personalità, per la loro carriera, riman-
gono se stessi qualunque personaggio interpretino, come, ad esempio,
Eduardo De Filippo, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Alberto
Sordi, Nino Manfredi. Altri attori, infine, sono essi stessi la maschera e
ogni ruolo che interpretano finisce per essere un pretesto per mettere in
scena l’attore stesso, com’è il caso, ad esempio, di Totò, Buster Keaton,
Jerry Lewis, Woody Allen, Carmelo Bene, Paolo Poli, Dario Fo, Roberto

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96 La verità sulla menzogna

Benigni, Checco Zalone. Sul versante opposto ci sono i bravi imitatori,


come Alighiero Noschese, Maurizio Crozza, Virginia Raffaele, che per-
dono la loro identità quando diventano maschere grottesche di coloro
che imitano. Altre tipologie di attori sono gli stand up comedians, cioè i
cabarettisti che rimangono se stessi qualunque cosa recitino e, al limite
estremo, troviamo coloro che subiscono una vera e propria alienazione
attoriale, in cui il personaggio si impossessa totalmente dell’attore: è il caso
di Norma Desmond, di Il viale del tramonto, che non può essere altro se
non il personaggio di attrice del muto, in una sorta di delirio cronico in
cui una falsa identità prende il posto della identità vera [68].
In genere, comunque, il bravo artista deve essere un perfetto simula-
tore essendo obbligato a sostenere una parte che non è per lui naturale
né conforme al suo stato d’animo del momento: ricordate Tonio, il pro-
tagonista di I pagliacci di Leoncavallo?
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto,
in una smorfia il singhiozzo e il dolor.
Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto,
Ridi del duol che t’avvelena il cor.
Non a caso i greci chiamavano gli attori ipocriti (coloro che recitano,
fingono), termine che poi è passato a indicare gli impostori, i simulatori.
A proposito della maschera e dell’attore, Luigi Pirandello [149] ce ne
offre uno spaccato interessante nella commedia Trovarsi.

Donata è un’attrice talmente brava da riuscire a interpretare personaggi con caratte-


ristiche opposte. Un’amica, Nina, le contesta di vivere nella falsità, ma lei sostiene che
non si tratta di falsità ma di «Vita che si rivela a noi stessi. Vita che ha trovato la sua
espressione. Non si finge più, quando ci siamo appropriati di questa espressione fino
a farla diventare febbre dei nostri polsi... lacrime dei nostri occhi, o riso della nostra
bocca...». Tuttavia, quando è finita la commedia, l’attrice nel suo camerino davanti
allo specchio non si ritrova più, finita la vita del personaggio, non sa più chi è, e nella
vita quotidiana si sente persa, in preda a un senso di vuoto che la spinge a cercare il
suicidio. Convince un giovane svedese, Elj Nielsen, ad affrontare con lei il mare in
tempesta, la barca fa naufragio ma Elj salva Donata e se stesso. L’attrice si dona al
giovane con lo stesso slancio con cui interpreta suoi personaggi e iniziano una storia
appassionata. Donata tuttavia non riesce a rinunciare al teatro, altrettanto reale per lei
come la vita vera. Ma alla rappresentazione, alla quale è presente Elj, che la vede reci-
tare per la prima volta, Donata non riesce a esprimersi con la stessa bravura di prima
perché, avendo ora una vita propria, si ispira a quella riproponendo sulla scena il suo
rapporto amoroso con Elj. Questi, pensando che Donata approfitti dei sentimenti da
loro vissuti realmente per usarli nella recitazione, mettendoli davanti agli occhi degli
spettatori, esce disgustato dal teatro: senza più la sua presenza, l’attrice recupera la
propria capacità di immedesimazione, portando a termine una finzione dell’amore

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Vi. Menzogna e arte 97

più reale della realtà. Donata, alla fine, rinuncia alla propria vita per vivere, in una
disperata solitudine, quella dei personaggi che interpreta.

In conclusione, l’identificazione dell’attore con il personaggio può va-


riare moltissimo, lungo un continuum che va dalla netta distinzione tra i
due alla loro completa identificazione ma, una volta uscito di scena, l’at-
tore si toglie la maschera e torna se stesso.
Ma non è solo l’attore che nasconde dietro la maschera del perso-
naggio il vero sé, tutti noi indossiamo una maschera nella nostra vita
quotidiana, anzi tante maschere quanti sono i ruoli che interpretiamo,
tanto o poco deformanti in funzione di quanto vogliamo nascondere (o
mostrare) di noi, tante maschere che, alla fine, può diventare difficile
perfino a noi stessi sapere qual è il nostro volto autentico. Senza render-
cene conto, in maniera del tutto irriflessiva, “indossiamo”, nelle diverse
circostanze della vita e nei differenti rapporti interpersonali, maschere
metaforiche perché le varie circostanze sociali richiedono prestazioni
diverse. Certamente non ci mostriamo al nostro superiore come ci mo-
striamo al nostro partner né a una festa di compleanno come ci pre-
senteremmo a un funerale: è la vita sociale stessa che, almeno in certa
misura, ci costringe a “recitare” ruoli diversi nelle diverse circostanze in
modo da facilitare la vita di relazione evidenziando le nostre caratteri-
stiche positive e nascondendo quelle negative. È del tutto normale avere
una flessibilità tale da consentirci un adattamento alle varie circostanze
della vita; i problemi arrivano quando non siamo in grado di controllare
adeguatamente i meccanismi che regolano questa capacità di adatta-
mento rischiando di cadere vittime del disturbo dissociativo dell’iden-
tità; tale disturbo si verifica quando il meccanismo di transizione fra
due (o anche più) identità (“maschere”) si inceppa e una rimane fissa,
stabile, per un tempo più o meno protratto, con le proprie modalità di
essere, pensare, relazionarsi e assume il controllo del comportamento
del soggetto, ormai incapace di ricordare in maniera estesa notizie per-
sonali (analogamente, quando lo stato dissociativo si risolve, vengono
perduti i ricordi relativi ad esso). Generalmente, nello stato dissociati-
vo, il soggetto presenta caratteristiche psico-comportamentali diverse
da quelle sue abituali e non le modifica, come di norma, in base alle di-
verse circostanze. Questi disturbi sono molto spesso associati ad eventi
traumatici – quali abusi fisici e/o sessuali. Nello stesso ambito si colloca
l’amnesia dissociativa (con o senza fuga dissociativa).
In alcuni casi il meccanismo che regola la transizione (“cambiamen-
to di maschera”) avviene normalmente, il soggetto non ha difficoltà ad
assumere la personalità adatta alle circostanze, ma sembra bloccata la

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98 La verità sulla menzogna

capacità di partecipare emotivamente: è come se il soggetto fosse, non


l’attore, ma lo spettatore, distaccato da pensieri, sentimenti9, sensa-
zioni, emotività, senso del tempo e tutto ciò che fa parte del normale
vissuto del momento (depersonalizzazione), oppure vivesse l’ambiente
circostante con sentimenti d’irrealtà e distacco (derealizzazione). Anche
in questi casi sono chiamati in causa traumi, abusi.

9 Caratteristico di questa condizione è il cosiddetto “sentimento della perdita dei sentimenti”.

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I. La menzogna e il mentitore 99

Vii. La “follia” tra verità e menzogna

Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi!


Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me!
Gliel’insegno io come si fa.
Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità.
Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!
(Luigi Pirandello, “Il Berretto a Sonagli”, 1916)

Nelle opere di Shakespeare è il fool, il giullare, che racconta la verità e


si salva proprio grazie alla sua follia, anche quando dice verità scomode.
Ai sovrani – scrive Erasmo da Rotterdam [57] nel suo Elogio della Follia –
è invisa la verità. Eppure i miei pazzi riescono a meraviglia proprio nell’im-
presa di dire ai lor prìncipi non solo la verità, ma anche fior di rimproveri,
che essi del resto ascoltano con piacere [...] Le stesse parole si azzardi il
sapiente a proferirle. Sarebbe un delitto passibile di morte.
Parole profetiche, visto che il suo amico, Thomas More, al quale l’ope-
ra era dedicata, sarà decapitato una ventina d’anni dopo per non aver ap-
provato le seconde nozze di Enrico VIII e lo scisma dalla Chiesa di Roma.
Che il pazzo abbia «sempre provato un gusto matto a dire quel che
[gli] veniva sulla lingua» e che non usi «belletto alcuno e non [sia] una
fintona che altro mostra in fronte e altro nasconde nel cuore», lo vedia-
mo spesso, soprattutto nei nostri pazienti bipolari che, nel pieno del loro
stato di euforia, bollano con nomignoli e soprannomi medici, infermieri
e degenti, cogliendo appieno le loro caratteristiche e, soprattutto, i loro
difetti, manifestano senza ritegno le loro pulsioni aggressive, affettive e
anche erotiche, parlano senza freni delle proprie esperienze (spesso ro-
manzate) e di quelle di familiari e amici.
In realtà la menzogna, variamente e più o meno efficacemente nasco-
sta, attraversa tutta quanta la psicopatologia fino a costituire, in alcuni
casi, l’elemento nucleare del quadro come nei disturbi borderline, istrioni-
co, narcisistico, per non dire della pseudologia fantastica e della confabula-
zione; per quanto generalmente inconscia, è presente anche nella psicosi.
Il focus della psicoanalisi stessa è, alla fine, l’inganno che noi facciamo

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100 La verità sulla menzogna

a noi stessi attraverso la rimozione, operazione


con cui il soggetto cerca di respingere o mantenere nell’inconscio rappresen-
tazioni (pensieri, immagini, ricordi) legati a una pulsione [117].
Se poi consideriamo che la psiche si articola su tre stati (inconscio,
preconscio e conscio) ed è divisa in tre istanze (Es, Io e Super-Io), che le
diverse parti possono mentire all’Io il quale, spesso, non le accetta e non
le integra, mentendo così a se stesso, possiamo tranquillamente sostenere
che la psicoanalisi è strettamente legata alla menzogna, lavora sulla men-
zogna, e noi mentiamo a noi stessi così bene da non averne nemmeno
coscienza. E, come vedremo a breve, queste menzogne della nostra psiche
non sono appannaggio dei pazienti, ma fanno parte dell‘esperienza quo-
tidiana palesandosi nei lapsus, nelle omissioni, nei sogni.
Prima di addentrarci nel cuore della psicopatologia per descrivere
come, per ciascun disturbo, la menzogna possa manifestarsi con caratte-
ristiche e modalità diverse, è necessario premettere, a scanso di equivoci,
che il mentire, in questo ambito, è quasi sempre un segno, un sintomo,
della patologia esprimendo, generalmente in maniera indiretta, masche-
rata, problematiche profonde che sono per il soggetto fonte di disagio,
sofferenza, angoscia.
Il rapporto tra malattia mentale e menzogna è certamente molto più
complesso di quanto non lo sia negli altri aspetti della vita che abbiamo
preso in considerazione fin qui. Come vedremo, ci sono disturbi psichici
nei quali apparentemente non c’è menzogna e altri in cui la menzogna è
l’elemento portante e tutto gira intorno ad essa. Molto spesso il paziente
non ha la consapevolezza di mentire e non di rado si tratta di autoinganno
o, comunque, di meccanismi inconsci che non hanno lo scopo primario
di ingannare gli altri ma sono volti a ingannare il paziente stesso.
Parlare di menzogna è del tutto corretto in quei casi della patologia
mentale in cui vi sono, nascosti o palesi, secondi fini, come nella patolo-
gia invalidistica o psichiatrico-forense, che meritano una trattazione a sé.
Non è corretto per il resto perché, se ci atteniamo alla definizione della
menzogna riportata nel primo capitolo,
Affermazione contraria a ciò che è o si crede corrispondente a verità, pro-
nunciata o propalata con l’intenzione esplicita di ingannare,
ci rendiamo immediatamente conto che non si attaglia alla maggior parte
dei disturbi psichici.
Tuttavia, quando abbiamo indagato I mille modi di mentire (Cap. IV),
abbiamo visto che, nel vasto e articolato mondo della menzogna, si posso-

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Vii. La “follia” tra verità e menzogna 101

no evidenziare molte “non verità” che, pur non rispondendo pienamente


ai criteri canonici, fanno parte anch’esse di quel mondo.
Per il profano i deliri e le allucinazioni non sono qualcosa di reale, di
concreto, sono soltanto “fantasie” del soggetto e, in quanto tali, sarebbero
delle menzogne, a cui l’osservatore ribatte in genere «Sono solo fantasie
tue, non c’è nessuno che ti controlla, ti perseguita, ti spia, ti calunnia [o
parla di te o con te, soltanto tu senti quelle voci], sei tu che immagini queste
cose» (commenti che, oltre a non rassicurare il paziente, finiscono, maga-
ri, per far includere l’interlocutore fra i “persecutori”).
Purtroppo la psichiatria non ne sa molto sulle origini del delirio e delle
allucinazioni; noi definiamo questi due fenomeni in maniera puramente
descrittiva: li classifichiamo in base al contenuto esplicito o all’apparato
sensoriale interessato. Distinguiamo i deliri derivabili (o secondari) e in-
derivabili (o primari), a seconda che siano correlabili comprensibilmente,
a esperienze precedenti (come, ad esempio, il delirio di colpa del depres-
so, che definiamo secondario) o che si presentino a ciel sereno, i secondi,
senza che ci sia alcuna correlazione con eventi pregressi, come qualcosa
che irrompe improvvisamente nella coscienza senza alcuna (apparente)
correlazione con altri contenuti psichici o eventi vitali (ad esempio l’in-
tuizione delirante); mentre distinguiamo le allucinazioni in base al grado
di complessità (dai rumori alle voci ben distinte o addirittura dialoganti
tra loro), all’influenza sul comportamento (come le allucinazioni impera-
tive), ma poco sappiamo della loro eziopatogenesi. Sappiamo che tanto
i deliri quanto le allucinazioni sono fenomeni assolutamente reali per il
paziente, che possono avere un peso enorme sulla sua vita personale e
socio-relazionale e che possono essere alla base anche di comportamenti
grossolanamente disorganizzati e, persino, di azioni delittuose.
Certamente il delirio, anche quando è secondario, derivabile, ci intriga
per la sua dinamica poiché, pur essendo chiaramente una diretta deriva-
zione di esperienze vissute dal soggetto, ancorché amplificate fino all’in-
verosimile e chiaramente contraddette dalla realtà oggettiva, ci rendono
difficile capire la sua assoluta incriticabilità. Ancor più difficile è capire,
decifrare, i deliri primari, sia nella loro insorgenza sia nel loro decorso.
Possiamo ipotizzare che, in qualche maniera, si possa invocare la presen-
za della menzogna nella dinamica del delirio.
Nel tentativo di verificarlo, ci sembra opportuno partire dall’esame di
alcuni soggetti giunti alla nostra osservazione e della cui storia riportere-
mo una sintesi essenziale.

Erano gli anni ’70, Graziella era una ragazzina appena sedicenne, molto carina; du-
rante quell’inverno era maturata fisicamente e aveva acquistato quei caratteri sessuali

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102 La verità sulla menzogna

secondari che l’avevano fatta uscire dall’aspetto adolescenziale, androgino, dell’anno


precedente. Quel primo pomeriggio di maggio aveva un vestitino leggero, a fiori, che
ne sottolineava le forme mentre camminava sulla passeggiata di Viareggio per recarsi
a scuola di taglio e cucito. All’improvviso, senza alcun apparente motivo, ebbe la sen-
sazione che gli altri, gli uomini, la guardassero «come si guarda una donna... come se
fossi nuda». Con angoscia accelerò l’andatura per raggiungere la scuola e sottrarsi a
quegli sguardi “sporchi”, che la facevano sentire “sporca” a sua volta e in colpa, come
se fosse lei la responsabile. Incominciò così a sviluppare un delirio di riferimento pri-
ma, di persecuzione e di colpa dopo, che si protrasse per circa un anno nonostante le
cure.
Graziella era figlia unica di una famiglia piuttosto all’antica, con rigide idee mora-
listiche, in particolare il padre, un marittimo che il lavoro teneva lontano da casa per
settimane, e qualche volta per mesi, molto attaccato alla figlia, molto affettuoso, pos-
sessivo, che, per educarla secondo i suoi principi, le prospettava in maniera negativa i
rischi che avrebbe potuto correre con i ragazzi.
È normale che a un certo punto dell’adolescenza una ragazza inizi a essere oggetto
dello sguardo degli uomini, ma questo non spiega il quadro delirante. Perché capitò a
Graziella? L’evoluzione del quadro psicopatologico e i diversi colloqui possono forse
fornirci una spiegazione.
Nel corso dell’episodio psicotico, Graziella diceva di essere «una poco di buono» e
per questo la guardavano o addirittura la seguivano; a un certo punto, angosciatissi-
ma, raccontò che il padre aveva abusato di lei sessualmente (in realtà era vergine) rife-
rendo allucinazioni somatiche a livello dei genitali (che non riuscimmo mai a chiarire
se fossero da sveglia o nelle fasi di dormiveglia o addirittura sogni).
La diagnosi fu di schizofrenia (oltre ai deliri e alle allucinazioni, era presente anche
disorganizzazione del pensiero); il disturbo si protrasse, con alti e bassi, per circa un
anno poi incominciò lentamente a regredire fino alla totale remissione della sintoma-
tologia dopo circa 8-10 mesi. Fu seguita ancora per diversi mesi ambulatorialmente
fino a che non interruppe volontariamente ogni tipo di rapporto con la Clinica.

La storia di Graziella può aiutarci a capire come una menzogna – il


delirio e le allucinazioni somatiche, con le loro caratteristiche di verità
assoluta – abbia potuto sostituirsi a un’esperienza reale di per sé del tutto
normale.
Negli anni ’70 i costumi erano molto più rigidi di oggi, certamente
l’educazione di Graziella era stata molto severa e il mondo delle relazioni
fra maschi e femmine che suo padre le aveva prospettato doveva essere
ben poco rassicurante, tanto da atterrirla al solo immaginarlo. E invece
lei sicuramente lo aveva, non solo immaginato ma, probabilmente, ne era
stata anche incuriosita e attratta: il suo corpo si era fatto «di donna» ma
si erano fatti «di donna» anche i suoi ormoni, che certamente si facevano
sentire, si era fatta «di donna» anche la curiosità verso la vita e verso i
comportamenti, le effusioni che si scambiavano le coppie che incrociava
sulla passeggiata. Lo sguardo degli uomini c’era sicuramente stato e anche

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Vii. La “follia” tra verità e menzogna 103

malizioso, e il terreno su cui si era posato era pronto a riceverlo: solo che
la cosa le era stata dipinta a tinte fosche. E che il terreno fosse pronto lo
testimonia anche l’inclusione del padre nel delirio allucinatorio: un pa-
dre affettuoso, molto attaccato (morbosamente?) alla figlia, la quale aveva
certamente sviluppato nei suoi confronti un complesso di Elettra1 che
realizzò attraverso l’abuso sessuale allucinatorio da parte del padre.
Le idee di riferimento, che rappresentavano il contenuto esplicito
del suo delirio («Mi guardano come si guarda una donna, come se fossi
nuda»), non presentavano niente di abnorme, esprimendo qualcosa che
poteva essere (e probabilmente era), ma che cosa l’aveva indotta a convin-
cersi di questo con modalità “assoluta” tanto da renderla, non solo refrat-
taria a ogni critica, ma anche da ampliarla, generalizzarla, approfondirla
fino ad allucinare (e naturalmente a considerare vera) la violenza sessuale
da parte del padre?
In condizioni normali, nella formulazione del pensiero, il soggetto sot-
topone il prodotto della sua mente (derivato dall’associazione tra i vari
elementi percettivi, intuitivi, mnemonici ecc.) a un processo di critica e di
giudizio da cui deriva un sentimento di certezza in base al quale conside-
rerà il suo pensiero “vero fino a prova contraria”. È ipotizzabile che il deli-
rante, per effetto di conflitti interiori particolarmente intensi, non porti a
termine il normale procedimento ideativo, e conferisca a questo processo
incompleto, distorto, il sentimento di certezza che, per effetto di quegli
stessi conflitti, acquista un valore assoluto. All’evidenza della ragione con-
trappone l’assurdità, l’infondatezza, l’errore, l’irrazionalità del delirio.
È piuttosto facile cogliere (a grandi linee e senza addentrarci nel terre-
no psicoanalitico) la situazione conflittuale alla base della psicosi deliran-
te della ragazza: sono emerse le fisiologiche pulsioni di una giovane don-
na, ma queste confliggono con l’educazione ricevuta e lei non ha potuto
fare altro, per evitare i sentimenti di colpa, che spiazzare inconsciamente
sugli altri i propri impulsi – Non sono io che desidero gli altri, sono gli altri
che desiderano me, anzi hanno abusato di me.
Non sempre i quadri deliranti hanno alla loro base dinamiche semplici
e facilmente comprensibili come queste, spesso le cose sono molto più
complesse ma il meccanismo di base consiste sempre nella necessità di
spostare il sentimento di certezza da un contenuto interiore inaccettabile a
un contenuto esterno che, anche se doloroso, è accettabile perché trasferito
fuori da sé. Con il delirio si conferisce la patente di verità a qualcosa che,

1 Il complesso di Elettra è l’omologo al femminile del complesso di Edipo. Elettra, figlia di

Agamennone e Clitennestra, quando scoprì che la madre aveva fatto uccidere suo padre, si vendicò
facendola uccidere dal fratello Oreste.

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104 La verità sulla menzogna

di fatto, travisa quella verità. Il delirante, come sostiene Bodei [24],


non è dunque «un’orchestra senza direttore», alla Kraepelin, ma un di-
rettore che cerca di far funzionare la sua – per noi cacofonica – orchestra
secondo nuovi, improvvisati programmi.
Il delirio di per sé è fragile perché deve combattere una continua lotta
interiore contro la verità sottostante che cerca di emergere alla coscienza;
per vincere questa lotta, deve arricchirsi sempre più di contenuti che lo
rafforzino, inspessendo la corazza difensiva messa a schermo della verità
che non può essere cancellata avendo per il soggetto un significato im-
portante, essenziale, vitale ma inaccettabile. Il delirio, per costituirsi, deve
cancellare l’anello iniziale del ragionamento in modo che quelli successivi
passino in primo piano: «Nego di percepire dentro di me pulsioni che mi
è stato autorevolmente detto essere sconvenienti, pericolose; sono gli altri
che hanno quelle pulsioni e le vogliono sfogare su di me». E più il delirio
avanza, tanto più incrollabile diventa la sua certezza perché, a livello co-
sciente, l’errore (il desiderio degli altri) va a sostituire sempre di più la
verità inconscia (il mio desiderio). Questo processo di trasferimento della
certezza dalla verità all’errore non compromette le capacità logiche del
soggetto che, anzi, spostate sul delirio, divengono iperlogiche dovendo
includere nel ragionamento verosimiglianze più che verità (e questo lo
rende strano, bizzarro). E così, man mano che il delirio si approfondisce
allontanandosi dalla verità, parallelamente e paradossalmente si rafforza
la certezza.
Il delirio è una soluzione di compromesso fra una verità interiore
inammissibile e una menzogna accettabile, anche se richiede di pagare
uno scotto, comunque meno sgradito poiché maschera ciò che era as-
solutamente intollerabile. Nel caso di Graziella, sentirsi oggetto di cer-
te pulsioni da parte degli altri è certamente meno angosciante rispetto
all’ammissione della “colpa” di essere lei a provarle. Così come è decol-
pevolizzante realizzare il transfert verso il padre in maniera allucinatoria,
facendo di lui il protagonista.

Maria è una signora settantenne che ha avuto in passato due episodi psicotici per i
quali è stata ricoverata in ambito psichiatrico. Divorziata, il marito l’ha abbandonata
qualche tempo dopo il primo episodio psicotico, quando la figlia aveva 4 anni. Lei ha
conservato il proprio impiego e cresciuto la figlia, che ha mantenuto buoni rapporti
con il padre, frequentandolo abbastanza regolarmente; probabilmente la paziente non
ha mai accettato di buon grado il rapporto della figlia con il padre, colpevole di averla
tradita e abbandonata.
Maria entrò in contatto con noi in occasione del secondo episodio psicotico. In quel
periodo la figlia, che lavorava nella città in cui viveva il padre, rimaneva spesso da lui

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Vii. La “follia” tra verità e menzogna 105

anche a dormire per comodità: forse fu questo fatto che riattivò il quadro psicotico
fino ad allora rimasto pressoché silente (erano residuate, infatti, sfumate idee perse-
cutorie nei confronti dei colleghi di lavoro, non interferenti con il suo adattamento
lavorativo giacché Maria le teneva sotto controllo limitando il più possibile i contatti
interpersonali).
Dopo la risoluzione parziale del secondo episodio, nonostante la terapia psicofar-
macologica, persistevano le idee persecutorie nei confronti dell’ex marito che Maria
era convinta le mettesse la figlia contro, cercando di farla passare per “matta” in modo
da farla rinchiudere in qualche istituto o comunità, per prendersi la sua casa. Con gli
anni, questa convinzione si è sempre più radicata, ha coinvolto anche gli altri familia-
ri, che sarebbero stati d’accordo con la figlia. Per questo la paziente ha praticamente
rotto i rapporti con tutti, figlia e familiari, esce pochissimo da casa, lo stretto indispen-
sabile, perché sua figlia e persone in combutta con lei o da lei pagate, la diffamano e le
mettono contro tutti quanti.

Maria odiava certamente l’ex-marito, che l’aveva tradita e abbandona-


ta, e aveva dovuto accettare obtorto collo i rapporti della figlia con il padre
finendo per associarla a lui nel suo odio. Non potendo accettare di odiare
la propria figlia, ha spiazzato su di lei questo sentimento («È lei, istigata
dal padre, che mi odia e vuole prendermi la casa») che, per diverso tempo,
è riuscita a tenere sotto controllo. Con la maggiore frequentazione del-
la figlia con il padre – comportamento interpretato come irriconoscente
della cura che lei le aveva sempre prestato, aiutandola anche nella crescita
dei nipotini –, il suo risentimento è venuto fuori, dilagando fino a coin-
volgere, direttamente o indirettamente, tutti o quasi in una congiura, con
l’attribuzione di valore di prova a eventi del tutto estranei e/o insignifi-
canti. Da sottolineare che Maria, al di fuori di questo, è assolutamente in
grado di badare a se stessa e di gestire i propri affari.
Ancora una volta c’è una verità inconscia – che il soggetto non è in
grado di affrontare coscientemente e di elaborare in maniera adeguata –,
che viene coperta da una menzogna che, come nel caso precedente (ma
come in tanti casi analoghi), ha bisogno, per una sorta di eccesso di difesa,
di espandersi per coprire possibili falle attraverso cui la verità potrebbe
manifestarsi.
È proprio la necessità di estendere progressivamente la menzogna di
copertura che ne dimostra la natura “di compenso”, peraltro mai rag-
giunto poiché il delirante non potrà mai avere la certezza che la verità non
verrà mai a galla. Ma noi non possiamo escludere che il vero dramma del
delirante risieda nella battaglia che egli deve sostenere tra il bisogno di
manifestare la verità che lo angoscia, di liberarsene una volta per tutte, e
la paura di mettere in piazza ciò di cui non si può parlare.
Più complesso, forse, è il problema delle allucinazioni, cioè delle “per-

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106 La verità sulla menzogna

cezioni senza oggetto”, sulle quali, nonostante i numerosi studi, non sia-
mo riusciti finora a formulare ipotesi eziopatogenetiche sufficientemente
affidabili.
Tenendo conto dell’elevato grado di concomitanza di allucinazioni e
deliri (con buona frequenza, la presenza dell’uno è associata alla presenza
anche dell’altro: il delirio favorisce il prodursi di allucinazioni e queste lo
alimentano – quando non ne sono alla base) è ipotizzabile che abbiano la
stessa dinamica.

Anna è una donna di 54 anni, infermiera professionale, che ha alle spalle un’infanzia
abusata: il padre, con una depressione cronica psicotica a causa della quale era da
tempo senza lavoro, aveva praticamente escluso la madre dalla cura della bambina (ad
esempio, la metteva a letto prima che tornasse dal lavoro perché non avesse contatti
con lei). È quasi certo che, quando ne curava l’igiene personale, avesse atteggiamenti
“equivoci” ma non risulta che ci siano stati approcci sessuali espliciti. Molto rigido
nell’educazione della figlia, anche nell’infanzia e nell’adolescenza non le concedeva né
libertà né occasioni per frequentare i coetanei. Quando Anna aveva circa 14 anni, un
cugino di qualche anno maggiore, presso la cui famiglia erano ospiti in villeggiatura,
tentò di violentarla; quando il padre lo seppe, attribuì a lei tutta la colpa facendola
sentire una “poco di buono”, “sporca” e umiliandola pesantemente.
All’età di 24 anni, apparentemente senza motivi scatenanti, Anna ebbe un epi-
sodio depressivo grave, con idee di colpa riferite ai giudizi e alle accuse del padre
relativamente all’episodio della tentata violenza da parte del cugino; durante questo
episodio tentò il suicido mediante defenestrazione riportando danni fisici relati-
vamente modesti da cui si riprese pienamente. A 30 anni, il medico che dirigeva il
reparto presso il quale lavorava, fu sostituito da un altro il quale mise in discussione
il suo modo di lavorare e questo la precipitò di nuovo in uno stato depressivo carat-
terizzato dalle solite tematiche di colpa che, nonostante le terapie, richiese diversi
mesi prima di risolversi. Un episodio del tutto analogo si verificò verso i 38 anni.
Poco dopo la risoluzione di questo episodio si sposò: i primi anni di matrimonio
andarono bene da ogni punto di vista; dopo circa 4-5 anni, il marito incominciò a
essere violento e lei decise di separarsi.
Verso i 48 anni, ebbe un nuovo episodio depressivo nel quale le idee di colpa, in
precedenza parzialmente criticate, divennero, prima francamente deliranti e, succes-
sivamente, si accompagnarono ad allucinazioni uditive a carattere persecutorio: udiva
voci che la offendevano, le dicevano che era cattiva, era una donnaccia, che doveva
uccidersi; queste voci, le sentiva dentro la sua testa, ma per lei erano assolutamente
reali, la tenevano in un continuo stato di angoscia e di terrore e ridestavano in lei idee
di suicidio. Dopo qualche mese, nonostante le terapie, si presentarono anche allucina-
zioni visive abbastanza particolari: la sua casa era “invasa” da uomini molto piccoli, gli
“omìni”, che venivano fuori dai mobili, dal frigorifero ecc. e che avevano preso il ruolo
delle voci dicendo le stesse cose. Con il miglioramento del quadro psicopatologico,
gli “omìni” incominciarono a essere meno (verbalmente) aggressivi, si ridussero di
numero e alla fine scomparvero e con essi anche le voci.

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Vii. La “follia” tra verità e menzogna 107

Non vogliamo mettere qui in discussione l’evidente componente ere-


do-costituzionale nell’eziopatogenesi della grave depressione psicotica di
Anna, ma ci interessa prendere in esame le idee di colpa iniziali, che suc-
cessivamente sono diventate idee deliranti e alle quali si è aggiunta una
componente allucinatoria uditiva e visiva.
In una prospettiva psicoanalitica, si può ipotizzare che la paziente
avesse eretto un muro intorno all’età infantile e al probabile trauma che
l’aveva caratterizzata, un muro attraversato solo da frammenti di ricordi
che lasciavano intuire un mondo oscuro, infelice, drammatico, ma niente
che ne consentisse una ricostruzione attendibile. Ha sostituito quel trau-
ma con l’episodio della tentata violenza da parte del cugino e, soprattutto,
con l’assurda, sproporzionata reazione del padre, facendone il nucleo co-
sciente della sua colpa. È ragionevole ipotizzare che la “colpa” vera, il pri-
mo anello della catena, sia nascosta dietro quel muro e lei abbia spostato
su un altro evento, certamente importante, doloroso, ma di minore peso,
più “accettabile”, il nucleo vero, rifiutato, del suo disturbo. Le idee di col-
pa che diventano deliri e poi, nel tempo, si integrano con le allucinazioni
uditive e visive, ci dicono che la paziente ha dovuto rafforzare progres-
sivamente le proprie difese per evitare l’emergere del trauma originario.
Nella psicosi un’esperienza viene rimodellata secondo regole e schemi
nuovi, più o meno diversi da quelli utilizzati in precedenza, e il delirio e le
allucinazioni rappresentano strumenti attraverso i quali il soggetto rico-
struisce la propria nuova realtà, che va a sovrapporsi a quella precedente
secondo una logica che non è quella del mondo reale, anche se con questo
mondo, volente o nolente, deve interagire. È il cambiamento di schemi e
di regole che rende “assurdo” per gli altri il delirante, ma nell’ottica sog-
gettiva egli è ipercoerente e, alla fine, sincero.
Il delirio e le allucinazioni rappresentano dunque le modalità attraver-
so le quali, con l’insorgere della psicosi, l’individuo cerca di impedire che
vengano alla luce delle verità soggettivamente fortemente traumatiche e
non comunicabili perché lo renderebbero vulnerabile nei confronti degli
altri, perché svelerebbero qualcosa di sé che lo potrebbe esporre al giudi-
zio e alla condanna degli altri. Per nascondere quelle verità, deve ricorrere
a “menzogne”, che le rimpiazzano ma non le cancellano, con il rischio
che esse riemergano in altri momenti, in altre circostanze. È costretto a
difendere costantemente il suo segreto, rafforzando e ampliando le difese
dalla verità, rappresentate dal delirio e dalle allucinazioni.

Quello di Giuseppina è un caso abbastanza singolare, caratterizzato da soli fenomeni


allucinatori uditivi, senza interpretazioni deliranti, vissuti con relativo distacco emo-
tivo, buon adattamento alla realtà e senza evoluzione deteriorativa.

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108 La verità sulla menzogna

Giuseppina, con cui siamo venuti in contatto agli inizi degli anni ’80, era accompa-
gnata dal figlio che si era preoccupato poiché la madre «parlava da sola, come se ri-
spondesse a qualcuno»; era una signora di 65 anni, una donna semplice e dolce, vedova
da oltre vent’anni, che viveva con il figlio di 42 anni, omosessuale, il quale le teneva
nascosto il proprio orientamento sessuale (all’epoca la discriminazione sessuale era
ancora molto forte). In sintesi questo fu il suo racconto:
«Sono vedova da oltre vent’anni e vivo con mio figlio che è tanto un bravo ragazzo,
peccato che non si è ancora sposato, a me avrebbe fatto piacere avere dei nipotini da
crescere ma lui non sembra interessato. Ha qualche amica e diversi amici ma non ha
mai avuto una relazione seria, non mi ha mai presentato una fidanzata... Da 3 o 4
anni ho incominciato a sentire delle voci quando sono in casa da sola e magari faccio
le faccende. Non so chi sia che parla, sono più di una persona, mi parlano del più e del
meno, commentano quello che sto facendo e a volte mi danno dei consigli... io ci parlo,
rispondo, mi sfogo del fatto che mio figlio non riesce a trovare la donna giusta per lui e
finirà che non avrò nipotini da crescere. Molte volte le voci parlano tra di loro, fanno
commenti su diverse cose, anche su mio figlio, magari con parole di cui non conosco
il significato... a volte mi sembrano brutte parole ma io non le conosco... per stare ad
ascoltarle mi capita che mi distraggo e mi brucia quello che ho sul fuoco... non mi danno
fastidio, anzi, mi fanno compagnia...».

Esplorando più a fondo, emerse indirettamente (dalle voci dialoganti


che dicevano parole che non conosceva) che la paziente sapeva, ma rifiu-
tava di sapere, che il figlio fosse omosessuale; per lei quella era una realtà
inaccettabile dalla quale si difendeva nascondendola dietro le allucina-
zioni uditive. Di fatto operava un autoinganno, mentiva a se stessa, per
difendersi dall’angoscia che le avrebbe causato prendere coscienza dell’o-
mosessualità del figlio.

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Vii. La “follia” tra verità e menzogna 109

Viii. Menzogna e psicoanalisi: le verità tradite

Vi ho detto che la psicoanalisi è nata come terapia, ma non è


questa la ragione per cui ho inteso raccomandarla al vostro
interesse, bensì per il suo contenuto di verità, per quanto
essa ci insegna su ciò che all’uomo sta a cuore al di sopra di
ogni altra cosa – la sua stessa essenza– e per le connessioni
che mette in luce fra le più diverse attività umane. Come
terapia, è fra le tante, senza dubbio prima inter pares.
(Sigmund Freud)

Nella Psicopatologia della vita quotidiana [86] – risultato di un’autoa-


nalisi cui lui stesso si sottopose in un periodo in cui era afflitto da sintomi
nevrotici – Freud sostiene che il meccanismo principale delle nevrosi sia
la rimozione, processo mediante il quale determinati contenuti psichici
vengono spostati dalla coscienza per essere conservati nell’inconscio e
quindi apparentemente dimenticati. La rimozione nevrotica sarebbe sta-
bile e potrebbe essere superata mediante il trattamento psicoanalitico. La
nostra psiche, però, può utilizzare lo stesso meccanismo anche in situa-
zioni “normali”, come quando, per una sorta di “inspiegabile” amnesia,
dimentichiamo il nome di una persona e un episodio che sarebbe norma-
le ricordare o, viceversa, improvvisamente ricordiamo un evento, anche
remoto, che non sembra avere particolare importanza di per sé o in quello
specifico contesto1. Sembra che questi “errori” non siano casuali, classi-
ficabili come semplice distrazione, ma sarebbero mossi da qualcosa che
opera dentro di noi e di cui potremmo comprendere l’origine inconscia
attraverso un’attenta analisi. Freud, analizzando le sue esperienze perso-
nali e quelle riportate da soggetti non nevrotici, attraverso associazioni
con pensieri o eventi in qualche modo correlati, ipotizza che gli “sbagli”
che capitano nella vita di tutti i giorni (lapsus, dimenticanza di nomi fa-
miliari, errori di lettura e scrittura) non siano fatti accidentali ma eventi

1 Alla stessa stregua Freud considerava anche altre alterazioni momentanee non patologiche
che, con ben altro peso, si manifestano anche nelle psiconevrosi, come i lapsus, i gesti automatici, lo
smarrimento di oggetti, le sviste ecc., che, quando ci capitano, consideriamo casuali e non certamen-
te “intenzionali”.

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110 La verità sulla menzogna

significativi che rivelano conflitti psicologici interni che vorremmo tenere


nascosti e che vengono subdolamente traditi da questi “sbagli”.
Il fenomeno della rimozione rientra in questa trattazione poiché, coin-
volge – sia pure inconsciamente – la sfera dell’autoinganno, della falsifi-
cazione e della simulazione. E, come lui stesso afferma, il fine ultimo della
relazione analitica, è il raggiungimento della verità:
Questa concordanza con il mondo esterno reale, da noi chiamata “verità”,
continua a essere la meta del lavoro scientifico anche quando si prescinda
dal suo valore pratico. E non bisogna dimenticare che la relazione analitica
è fondata sull’amore della verità, ovverosia sul riconoscimento della realtà,
e che tale relazione non tollera né finzioni né inganni.
I numerosi esempi che Freud riporta del “dimenticare” nomi di persone
o di luoghi o di cose ci dimostrano che il motivo della dimenticanza può
essere individuato abbastanza facilmente in alcuni casi, mentre in altri i
collegamenti sono così complessi che sembra di addentrarsi in un labirinto.

Per fare un esempio del procedimento, riassumiamo un episodio occorso allo stesso
Freud.
Un giovane studioso ebreo, conversando con lui, si rammarica del fatto che il suo
popolo sia stato privato dei suoi diritti e cita l’invettiva di Didone che, abbandonata
da Enea, auspica una nuova generazione vendicatrice degli oppressi: «Exoriar aliquis
nostris ex ossibus ultor» (Sorga un vendicatore dalle nostre ossa), ma nel riportare la cita-
zione il giovane omette la parola aliquis. Freud ne chiede il motivo e il giovane risponde
che aveva diviso istintivamente la parola in “a” e “liquis”, si era soffermato sulla seconda
collegandosi al suo significato di reliquia, fluido, liquefazione. Per associazione gli era
tornato alla mente San Simonino da Trento (un bambino ucciso nel ’400 quando gli
ebrei, accusati d’infanticidio rituale, furono cacciati da Trento), di cui aveva visto le reli-
quie un paio d’anni prima, e da qui passò, prima a un articolo in cui si parlava di Sant’A-
gostino, e poi all’incontro con uno strano vecchio di nome Benedetto che subito collegò
a San Gennaro, alla liquefazione del sangue, all’ansia che prende il popolo quando la
liquefazione tarda a verificarsi e a una signora dalla quale avrebbe potuto ricevere una
notizia sgradevole per entrambi. A questo punto Freud interviene con una domanda
che riguarda la signora “Che non ha avuto le mestruazioni?” concludendo il percorso
innescato da aliquis.
In effetti, il giovane aveva avuto una storia con una signora italiana in compagnia
della quale aveva visitato anche Napoli e che probabilmente era rimasta incinta cre-
andogli non pochi problemi di ordine morale oltre a una gran confusione mentale:
infatti, mentre invoca una progenie che vendichi il suo popolo, si preoccupa di come
risolvere una gravidanza indesiderata ed è certo che valuti un possibile aborto poiché
pensa a San Simonino, presunta vittima di un infanticidio rituale.

Un tema che ha interessato molto Freud è quello dei lapsus verbali, di


lettura e di scrittura che sarebbero dei tentativi inconsci di nascondere

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Viii. Menzogna e psicoanalisi: le verità tradite 111

qualcosa agli altri, tentativi spesso mal riusciti al punto da saltare imme-
diatamente agli occhi dell’osservatore. I lapsus possono manifestarsi in
vari modi, come anticipazione o posticipazione di una o più parole in
una frase, assonanza fra la parola che vogliamo nascondere con quella
che diciamo, somiglianza o contrasto fra le due parole e così via, sebbene
la maggior parte prescinda da queste regole formali. Nella produzione
dei lapsus si trovano a coincidere un libero flusso di associazioni e un
calo dell’attenzione critica, magari sotto l’azione perturbatrice del conflit-
to che vorremmo tenere nascosto. È grazie ai lapsus che si riesce, non di
rado, a cogliere il contenuto mentale che i pazienti inconsciamente tenta-
no di nascondere. Freud ne riporta numerosi episodi.

Non richiede spiegazioni il lapsus della signora che, raccontando di una visita medica
a cui si era sottoposto il marito, afferma che il medico «ha detto che non ha bisogno di
una dieta e che può mangiare e bere quello che voglio».
Più malizioso il lapsus del signore che, a un ricevimento, conversando sui prepara-
tivi per la Pasqua a Berlino con una signora giovane, bella e con un generoso decolleté,
le chiede: «Ha visto la mostra nella vetrina di Wertheim? È decollatissima» tentando
maldestramente di nascondere l’ammirazione per il decolletè che la signora metteva in
mostra.
Quanto a malizia, non è da meno il lapsus della signora che, in circostanze analo-
ghe, afferma: «Una donna dev’essere bella per piacere agli uomini. Gli uomini sono
più fortunati; basta che uno abbia i cinque arti diritti e non ha bisogno d’altro!», non
lasciando dubbi su quale fosse il suo pensiero nascosto.

A volte sono dei lapsus quasi impercettibili a segnalare la presenza di


qualcosa che non si vorrebbe ammettere. Interessante in questo senso è
una comunicazione del Dott. Brill [31], uno dei primi allievi di Freud, che
può essere così sintetizzata:

Il Dott. Brill incontra un collega, il Dott. R., che non vede da anni e della cui vita
privata non sa nulla; nel corso della conversazione gli chiede se sia sposato e questi
risponde:
- No. Perché un uomo come me dovrebbe sposarsi?
Poi gli chiede:
- Vorrei sapere che cosa faresti in un caso come questo: conosco un’infermiera che
è stata indicata come correa in un caso di divorzio. La moglie ha citato in giudizio il
marito per adulterio, facendo il suo nome come complice, e lui ha ottenuto il divorzio.
- Vuoi dire che lei ha ottenuto il divorzio.
- Sì... sì, certo, lei ha ottenuto il divorzio
E continua spiegando che l’infermiera ha risentito a tal punto del procedimento legale
e dello scandalo che ha incominciato a bere, è diventata molto nervosa, e così via e gli
chiede un consiglio su come trattarla. Appena corretto l’errore, il Dott. Brill chiede di
spiegarglielo, ma riceve una risposta meravigliata:

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112 La verità sulla menzogna

- Forse che uno non ha diritto di fare un lapsus? È solo un errore, non c’è niente
dietro.
Gli spiega che, se prima non avesse affermato di non essere sposato, sarebbe stato
tentato di supporre che fosse lui stesso il protagonista del racconto, perché in quel
caso il lapsus si sarebbe spiegato col desiderio di ottenere lui il divorzio in modo da
non essere tenuto a pagare gli alimenti e da potersi risposare nello Stato di New York.
- Sempre che tu non voglia che io ti menta, devi credere che non sono mai stato
sposato e quindi la tua interpretazione psicoanalitica è sbagliata.
Il Dott. Brill, convinto dell’esattezza della propria interpretazione, anche per l’esage-
rata risposta emotiva del Dott. R., qualche giorno dopo va a trovare un vecchio ami-
co del Dott. R., il quale gli conferma in ogni particolare l’interpretazione del lapsus:
l’udienza si era tenuta qualche settimana prima, e l’infermiera era stata citata come
correa nell’adulterio.

Gli stessi meccanismi del lapsus verbale sono alla base del lapsus di
lettura2 e di scrittura, funzioni strettamente correlate. Freud prende in
considerazione, inoltre, gli errori della memoria, le dimenticanze sia di
esperienze sia di propositi (cioè omissioni), riportando esempi, soprattutto
personali, di dimenticanze chiaramente legate all’influenza di stati emo-
tivi, per lo più negativi.

Il matrimonio di due persone ancora giovani era un po’ in crisi perché la moglie, per
quanto avesse ottime qualità, era piuttosto fredda e fra i coniugi non c’erano tenerez-
ze. Un giorno la moglie, tornando da una passeggiata, portò al marito un libro che
aveva acquistato perché pensava potesse interessargli. Riproponendosi di leggerlo, lui
lo mise da parte e ogni volta che gli tornava in mente lo cercava ma non riusciva a
trovarlo. Qualche tempo dopo si ammalò la madre di lui e la moglie si dedicò alla cura
della suocera mostrando così i suoi lati migliori. Una sera, tornato a casa pieno di gra-
titudine e di ammirazione per quanto la moglie faceva, gli tornò in mente il libro e, in
maniera quasi automatica, aprì un cassetto della scrivania e, coincidenza significativa,
vi trovò il libro tante volte cercato invano.

Oltre che lo scrivere, il leggere o il ricordare, il lapsus può coinvolgere


anche il comportamento ed è evidenziabile in azioni comunemente defi-
nite sbadataggini.

Emblematico è l’episodio di quel signore che una sera, tornando stanco dall’ufficio,
avrebbe dovuto intrattenere degli ospiti non particolarmente graditi e, senza pensarci,
invece della chiave di casa, tirò fuori quella dell’ufficio molto più grande e che teneva
in un’altra tasca.

2 Per quanto riguarda la lettura, vogliamo ricordare che, a parziale smentita delle tesi di

Freud, l’uomo (ma anche gli animali) sono dotati del cosiddetto completamento amodale, cioè della
capacità di riconoscere un oggetto vedendone solo un particolare (vedi Appendice Tecnica 3).

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Viii. Menzogna e psicoanalisi: le verità tradite 113

Freud prende in considerazione anche le cosiddette azioni sintomati-


che che, a differenza delle sbadataggini, sono messe in atto apparentemen-
te senza alcuna intenzione: si eseguono automaticamente – come gioche-
rellare con un portachiavi, o scarabocchiare con una matita, o tormentare
il proprio abito, o togliere e mettere l’anello ecc. – senza rendersene con-
to, ma spesso hanno uno stretto rapporto con elementi importanti della
nostra vita e possono fornire preziosi indizi all’attenta osservazione dello
psicoanalista.

Il giocherellare con l’anello matrimoniale o di fidanzamento è un classico, ricco di


significati simbolici ben noti anche al di fuori della psicoanalisi. Freud riferisce, ad
esempio, di come la grande Eleonora Duse, in un dramma sull’adulterio, introduce
magistralmente nella recitazione un’azione sintomatica molto significativa: dopo una
discussione con il marito, se ne sta in disparte meditabonda e, mentre il suo seduttore
si avvicina, gioca con la fede che ha al dito, se la toglie, se la rimette, se la toglie di
nuovo, dimostrando di essere disponibile al tradimento.

Anche il cambiare abitudini consolidate può essere considerato alla


stessa stregua del lapsus. Tipico è l’esempio di quel paziente depresso che,
scoraggiato per una serie di eventi avversi fino a perdere la voglia di vive-
re, aveva smesso di caricare l’orologio, cosa che in precedenza faceva in
modo meccanico.
Diversi dagli errori di memoria, di cui abbiamo detto sopra, in cui il
falso ricordo non viene riconosciuto come tale, sono gli errori che rispon-
dono alla seguente descrizione di Freud,
nel materiale psichico da riprodurre si vuole dare rilievo al carattere della
realtà obiettiva, dove dunque si vuole ricordare qualcosa di diverso da un
fatto della nostra vita psichica, anzi qualcosa di accessibile alla conferma o
confutazione da parte della memoria altrui.

Fra i vari esempi di tale errore, Freud riporta quello di un paziente che, dopo molte
incertezze, si decide a chiedere in sposa la ragazza che lo ama e che lui ricambia. La
sera, accompagnata a casa la ragazza, prende il tram e alla biglietteria acquista due
biglietti. Qualche tempo dopo essersi sposato, ed essersi ampiamente pentito di quella
scelta, una sera che va a prendere la moglie a casa dei suoceri, prende il tram con lei
per tornare a casa ma acquista un solo biglietto.

Spie del rifiuto inconscio a fare qualcosa sono gli atti mancati. In-
teressante è quanto Ferenczi racconta di se stesso: noto ai suoi amici e
conoscenti per la frequenza e stranezza dei suoi atti mancati (che cessa-
rono quando iniziò a praticare la psicoanalisi), un giorno commise un
errore tecnico con un paziente e quel giorno fu artefice di una serie di

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114 La verità sulla menzogna

distrazioni, come lasciare il portafoglio a casa, pagare meno del dovuto


il tram o sbagliare ad abbinare i vestiti.
In definitiva, la psicopatologia della vita quotidiana altro non è che
un occasionale insieme di comportamenti alterati, di malfunzionamenti
che, quando ce ne rendiamo conto o ce lo fanno notare, siamo in grado
di correggere. In genere attribuiamo questi comportamenti alla disatten-
zione o al caso, ma se ci fermassimo a riflettere ed estendessimo la nostra
riflessione agli eventi, alle persone, alle situazioni che in qualche modo
possono riferirsi al fatto che ci è capitato, potremmo risalire alla possi-
bile/probabile causa che lo ha determinato. In definitiva, come conclude
Freud, tutti questi comportamenti, dai più lievi ai più gravi, hanno in
comune la loro riconducibilità a un materiale psichico incompiutamente
represso, che, respinto dalla coscienza, non è stato, tuttavia, interamente
derubato della capacità di esprimersi.

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I. La menzogna e il mentitore 115

Ix. Gli inganni della memoria

Era ancora troppo giovane per sapere che la memoria


del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli belli,
e che grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato.
(Gabriel Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera, 1985)

La memoria è il filo conduttore della nostra vita, è il deposito delle


esperienze del passato che influiscono sul nostro modo di essere di oggi
e ci permettono di prevedere il futuro. Senza la memoria saremmo in
ogni istante costretti a decifrare le esperienze che ci scorrono davanti agli
occhi come se ciascuna fosse assolutamente nuova, senza punti di rife-
rimento o chiavi di lettura. Saremmo incapaci di muoverci perché ogni
volta dovremmo reinventare lo schema di ogni movimento, incapaci di
comunicare perché dovremmo inventarci le parole e condividerle con gli
altri, non sapremmo più dare un significato ai nostri sentimenti. Sarem-
mo simili a dementi all’ultimo stadio, inerti, passivi, capaci al massimo di
alcuni automatismi involontari.
La vita ha un senso perché accumuliamo continuamente esperienze,
che utilizziamo per decifrare quelle successive, perché sappiamo trova-
re nella nostra mente i sentimenti appropriati a ogni circostanza, perché
questo patrimonio accumulato ci consente di prevedere, ragionevolmen-
te, cosa possiamo attenderci nel futuro e di predisporre gli strumenti e le
circostanze per favorire o impedire che si realizzi.
Il funzionamento della memoria è estremamente complesso (e non
ancora completamente chiarito), e non è facile darne una descrizione sin-
tetica e al tempo stesso esaustiva1.

1 Il ricordo è il prodotto dell’interazione di diversi sistemi di memoria correlati tra loro strut-

turalmente e funzionalmente. La memoria acquisisce e codifica l’informazione inserendola nel con-


testo delle precedenti, la conserva (ritenzione) e la riporta allo stato attivo (recupero) volontaria-
mente o spontaneamente. Si distingue una memoria a breve termine (MBT), una memoria di lavoro
che trattiene ed elabora l’informazione (da 2 a 20 secondi) nel corso del processo cognitivo, e una
memoria a lungo termine (MLT) in cui si “archiviano” i ricordi permanenti. è stato dimostrato che
il ricordo non è solo il richiamo alla mente di un evento di per sé ma è il prodotto di ricostruzione e
riorganizzazione. Nella MLT si distinguono una memoria episodica (di specifici eventi ed esperienze

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116 La verità sulla menzogna

Non ci meraviglierà certamente il fatto che un meccanismo tanto


complesso e sofisticato possa andare incontro a disturbi di vario genere e
gravità a causa sia di danni organici cerebrali, sia, anche, di disturbi psi-
chici. Un chiaro esempio di quanto la psiche possa interferire è illustrato
dall’episodio della sindrome della memoria recuperata.

Negli anni Ottanta si verificò negli Stati Uniti un fatto assai strano: numerose persone
denunciarono di essere state vittime di abusi durante l’infanzia, in genere da parte di
familiari. Come si giustificava questa sindrome della memoria recuperata – recovered
memory syndrome, fenomeno dell’apparente recupero di ricordi non corrispondenti
a reali tracce mnestiche, con contenuti dello stesso tipo, in un consistente numero di
persone? Semplicemente perché fra gli psicoterapeuti si era affermata la convinzione
che molto spesso i bambini abusati rimuovessero dalla memoria cosciente gli eventi di
questo tipo a causa del forte impatto traumatico e che il loro ricordo potesse riemer-
gere a seguito di una lunga terapia. A questi soggetti, che erano ricorsi allo psicotera-
peuta perché affetti da disturbi psichici, veniva fatto intendere che alla base dei loro
disturbi potessero esserci abusi infantili, rimossi dalla coscienza in quanto dolorosi;
e così, nel corso delle sedute terapeutiche (magari anche sotto ipnosi), essi incomin-
ciavano a “ricordare” particolari che, man mano che emergevano, si strutturavano
in maniera sempre più complessa fino al punto di convincersi di essere stati abusati
realmente e di denunciare i presunti molestatori.
Una psicologa, Elisabeth Loftus [120,121], che era spesso chiamata nelle aule dei
tribunali come consulente, ebbe il (fondato) sospetto che, in molti di questi casi, si
trattasse di falsi ricordi indotti dalla terapia e avanzò pubblicamente i suoi dubbi, dive-
nendo oggetto di insulti e anche di minacce di morte da parte di pazienti che avevano
denunciato le presunte molestie. La Loftus condusse numerosi esperimenti in cui di-
mostrò la facilità con cui la nostra memoria poteva essere manipolata senza neppure
ricorrere a lunghe sedute o a pressioni martellanti.

di vita con i loro parametri temporo-spaziali e cronologici = ricordare) e una memoria semanti-
ca (conoscenze astratte e generali, organizzate in modo tassonomico e associativo = sapere). La
memoria può essere procedurale (sapere come), cioè la conoscenza (tacita) di come svolgiamo un
compito, e dichiarativa (sapere cosa), cioè la conoscenza esplicita (cosciente) dei fatti. Importante
è la memoria autobiografica che ha un carattere ricostruttivo, comportando spesso l’integrazione di
dettagli ricavati da episodi simili. I disturbi della memoria possono essere quantitativi o qualitativi.
I primi sono le amnesie e le ipomnesie, che comportano una riduzione (fino alla perdita completa)
della capacità di ricordare, per disturbi dell’acquisizione e/o della ritenzione e/o del recupero delle
informazioni; sono generalmente causati da un danno organico cerebrale di varia natura, e sono
di prevalente interesse neurologico. Minore rilevanza hanno le ipermnesie caratterizzate da iperat-
tività mnestica; si possono osservare come caratteristiche permanenti di alcune persone – famoso
è Pico della Mirandola –, o transitorie in alcuni stati di alterazione della coscienza. Ipermnesia
settoriale si può osservare in soggetti con sindrome di Asperger o in pazienti con insufficienza
mentale. I disturbi qualitativi, o paramnesie, sono generalmente di natura psicogena e comportano
un’alterazione qualitativa, una distorsione, della rievocazione e del riconoscimento dei ricordi, si
distinguono in allucinazioni (pseudomnesie) e illusioni (allomnesie) della memoria e sono di preva-
lente interesse psicopatologico.

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Ix. Gli inganni della memoria 117

Paradossalmente alcuni dei genitori accusati, sicuramente innocenti, sotto la pres-


sione degli interrogatori della polizia e delle accuse delle vittime (che essi ritenevano
incapaci di mentire su eventi di tal peso), incominciarono a dubitare della propria
memoria, a pensare che forse avevano rimosso il loro crimine, e finirono per ammet-
tere gli abusi (avvalendosi dei dettagli delle denunce delle “vittime”) e, in alcuni casi,
andarono anche oltre gli eventi contestati, autoaccusandosi di azioni assurde quali la
partecipazione a riti satanici.

Come ricorda Ian Leslie [118] , la sindrome della memoria recuperata


prendeva le mosse dall’idea di Freud della rimozione del ricordo degli
eventi “troppo” traumatici, idea in seguito abbandonata e sostituita da
quella che tali rimozioni fossero più probabilmente causate da fantasie
e desideri proibiti che non da eventi reali. Già in precedenza, nel 1899,
Freud aveva scritto:
Forse va persino messo in dubbio se abbiamo ricordi coscienti provenienti
dall’infanzia o non piuttosto ricordi costruiti sull’infanzia. I nostri ricordi
infantili ci mostrano i primi anni di vita non come essi sono stati, ma come
ci sono apparsi più tardi, in un’epoca di risveglio della memoria. In tale
epoca i nostri ricordi infantili non emergono, come si è soliti dire, ma si
formano.
La sindrome della memoria recuperata fu descritta in soggetti che, fino
a quel momento, avevano mostrato un normale funzionamento della me-
moria, non avevano disturbi psichici di alcun genere, ma erano stati inopi-
natamente accusati dai figli stessi (di solito le figlie), supportati dai loro psi-
coterapeuti, di avere abusato di loro molti anni prima. Non ci vuole molta
fantasia per immaginare il contesto: il padre che nega decisamente ogni
addebito; una denuncia circostanziata da parte della “vittima”; gli altri fa-
miliari che, traumatizzati dalla “scoperta”, se interrogati, non possono dare
che risposte vaghe, imprecise, contraddittorie; gli inquirenti che sottopo-
sti a pressioni esterne (stampa, opinione pubblica, superiori), per chiudere
rapidamente “il caso”, premono per ottenere la confessione dall’accusato
prospettando le pene severe previste e/o promettendo riduzioni di pena,
in caso di confessione. Il soggetto, sotto shock, sottoposto a interminabili
interrogatori e a isolamento, comincia con l’ammissione di cose di per sé
marginali e finisce per contraddirsi: è l’inizio della fine, non solo dal punto
di vista giudiziario, ma anche da quello psicologico. Sono riportati diversi
casi in cui l’imputato ha finito per convincersi di aver commesso l’abuso
nonostante che fosse stata dimostrata l’assurdità delle accuse.
Certamente le suggestioni del terapeuta da un lato e le pressioni degli
inquirenti dall’altro non sono sufficienti a spiegare i comportamenti né
delle figlie accusatrici né dei padri accusati, che arrivano a convincersi e a

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118 La verità sulla menzogna

confessare, rispettivamente, abusi mai subiti/commessi. È probabile che,


nel formarsi della falsa certezza, abbiano avuto un peso pensieri, pulsio-
ni, sentimenti incestuosi che albergano nel fondo dell’animo umano, che
ognuno rifiuta, con orrore, di riconoscere come propri quando si affac-
ciano alla coscienza («Io mai!»).
Dal punto di vista psicopatologico questo disturbo può essere classifi-
cato come una allucinazione della memoria (o pseudomnesia), vale a dire
la produzione di ricordi privi di riscontro reale. L’unico elemento certo
nei casi descritti è il ricorso alla psicoterapia da parte di soggetti vulnera-
bili che, con il concorso delle tecniche suggestive utilizzate dal terapeuta,
hanno dato vita a una “menzogna” abbastanza coerente da giustificare
l’apertura di un procedimento giudiziario contro il “molestatore”. Costui,
per contro, per essersi lasciato convincere di quella costruzione, che in al-
cuni casi lo ha portato ad ampliare il proprio coinvolgimento autodenun-
ciandosi di aver fatto anche cose peggiori, farebbe pensare a uno sviluppo
psicotico o a una folie à deux.
Fenomeni non molto dissimili da questi – anche se, di solito, meno
drammatici – si osservano nel contesto delle testimonianze in ambito
processuale, in cui spesso i testimoni cambiano anche sostanzialmente la
loro versione dei fatti o danno versioni molto diverse rispetto a quelle di
altri testimoni (per maggiori dettagli vedi Cap. XIV).
Sono pseudomnesie anche il dejà-vu e il dejà-véçu, che si possono ve-
rificare in condizioni di stanchezza o di forte emotività, ma anche negli
attacchi di panico, negli stati di intossicazione, nella schizofrenia e nei
disturbi neurocognitivi. Si tratta dell’attribuzione del significato di ricordo
a eventi mai visti né vissuti in precedenza; spesso il soggetto è consape-
vole che tutto ciò non corrisponde a un’esperienza realmente vissuta ed
esperisce perciò una sensazione di disagio, di stranezza.
Certamente più frequenti sono le allomnesie (o illusioni della memo-
ria), che comportano la rievocazione distorta, erronea, di ricordi prece-
dentemente registrati. Il soggetto ha, cioè, vissuto in passato gli eventi che
intende rievocare ma ne altera involontariamente il contenuto, il signifi-
cato, la collocazione temporale, le circostanze. Questi errori di rievoca-
zione possono verificarsi nella maggior parte delle persone, soprattutto
in caso di abbassamento dell’attenzione, della vigilanza come accade in
condizione di stress oppure sotto l’influenza di una forte carica emotiva.
Sono molto più frequenti e marcate in soggetti affetti da disturbi dell’u-
more o da schizofrenia o altre forme deliranti. È caratteristica in questo
senso la retrospezione dolorosa del melanconico che rievoca perfettamen-
te eventi della sua vita ma attribuisce loro un significato negativo, come
se tutta la sua vita fosse stata un susseguirsi di errori, di sconfitte, di delu-

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Ix. Gli inganni della memoria 119

sioni, di fallimenti. In realtà, in molti casi, noi sappiamo dal racconto dei
familiari che questo non corrisponde alla realtà di una vita in cui, come
nella maggior parte dei casi, possono esserci stati anche eventi negativi
ma che nell’insieme è stata positiva. Illusioni della memoria non sono
rare nel delirio di gelosia in cui il paziente, rievocando episodi della pro-
pria vita, attribuisce al partner comportamenti che, secondo lui, erano
in qualche modo segni di intesa ai presunti amanti (nel delirio di gelosia
quasi mai c’è un solo presunto amante, ma ce ne sono più di uno e spesso
anche molti), per indicare il luogo e l’ora dell’incontro o cose del genere.
Fra le illusioni deliranti, ritroviamo la sindrome di Capgras, cioè l’in-
capacità di riconoscere i familiari e la convinzione che siano stati rim-
piazzati da impostori o alieni o sosia (illusione del sosia) e la sindrome
di intermetamorfosi, cioè la metamorfosi di familiari che si trasformano
continuamente gli uni negli altri, un quadro simile alla sindrome di Fre-
goli in cui, però, il soggetto ritiene di essere perseguitato da una persona
che modifica il proprio aspetto per non essere riconosciuta.

La sindrome di Capgras ha un precedente illustre nella commedia Anfitrione di Plauto


[152].
Anfitrione, generale tebano, è partito per la guerra ormai da nove mesi, accompa-
gnato dal servo, Sosia, lasciando la moglie Alcmena incinta. Zeus, attratto dal fascino
della donna, assume le sembianze di Anfitrione per giacere con lei lasciando Ermes,
nelle sembianze di Sosia, a guardia sulla porta. Quando Anfitrione e Sosia ritornano a
casa, si sentono dire da Alcmena che loro erano già stati là e che lei aveva giaciuto con
il marito per tutta la notte. Anfitrione, sentendosi ingannato, minaccia vendetta ma
Zeus, per ringraziare Alcmena della notte passata con lui, si presenta e spiega come
sono andate le cose. Anfitrione accetta di buon grado di aver condiviso con Zeus la
moglie, la quale darà alla luce due gemelli, di cui uno forte e grosso come non se ne
erano mai visti e che, appena nato, strozza due serpenti che si avvicinano alla culla.

Le allucinazioni della memoria (pseudomnesie) sono falsi ricordi che


vanno ad aggiungersi ai ricordi veri diventando parte del patrimonio
mnestico del soggetto: sono rievocati come i ricordi “veri” e vissuti con
sentimento di realtà al punto che il soggetto continua a credere che siano
ricordi di eventi reali anche quando gli si dimostri il contrario. Questo
fenomeno è diverso da quello che dà luogo ai falsi ricordi o alle confa-
bulazioni, volte a mascherare la perdita di una parte della memoria in
conseguenza di eventi patologici organici o psichici2.

2 La perdita di una parte più o meno consistente del patrimonio mnestico può dipendere

da numerosi fattori di natura organica (traumi cranici, disturbi vascolari, intossicazioni endoge-
ne ed esogene, processi degenerativi, neoplastici, infettivi ecc.: le amnesie o ipomnesie organiche)
ma anche psichica (traumi emotivi, disturbi dissociativi ecc.: le amnesie psicogene). Questi disturbi

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120 La verità sulla menzogna

Il quadro tipico delle amnesie organiche è la sindrome amnestica che


può avere varia origine – più spesso degenerativa, tossica (vedi quella al-
colica, la sindrome di Korsakoff) o traumatica3 – e si caratterizza per l’in-
capacità di acquisire nuovi ricordi (amnesia anterograda). Può giungere
all’impossibilità di ritenere tracce delle esperienze che si susseguono, tan-
to che il soggetto sembra vivere in un fuggevole presente senza passato.
Meno frequente, più tardiva e mai assoluta è l’amnesia retrograda: riman-
gono sempre “isole” di ricordi rievocabili, alternate a vuoti mnemonici.
È in questo contesto che si osserva l’elaborazione di falsi ricordi, le con-
fabulazioni, che vanno a coprire le lacune mnestiche, di solito del passato
recente – anche se non tutte le amnesie si associano alla confabulazione.
Questo consiste nella neoproduzione, fantasiosa, che attinge a frammenti
mnemonici più o meno in relazione al contesto del discorso, a stimoli
dell’ambiente o a domande dell’interlocutore e che si caratterizza soprat-
tutto per la variabilità: incapace di fissare i ricordi, alla stessa domanda,
se gli viene riproposta poco dopo, il soggetto darà una risposta completa-
mente diversa dalla precedente, tentando di “compensare” così la perdita
dei ricordi. Nelle forme più lievi può esserci soltanto una scorretta, disor-
dinata collocazione temporale di ricordi reali (errore passato-presente),
in quelle più gravi la produzione dei ricordi è caotica, frammentaria, in-
comprensibile. Naturalmente il soggetto non ha coscienza di confabulare
e, se gli viene fatto notare (nelle fasi non avanzate del disturbo), se ne
meraviglia e cerca di giustificarsi... con una nuova confabulazione!
Caratteristica costante di questa manifestazione è la presenza di sug-
gestionabilità con un relativo obnubilamento della coscienza e un inde-
bolimento delle capacità di giudizio. Per certi versi, può ricordare i sogni
a occhi aperti, quando la fantasia vaga in modo incontrollato. È evidente
che non c’è, da parte del soggetto, l’intenzionalità di mentire ma, semmai,
c’è da parte sua un tentativo di collaborare.

quantitativi della memoria possono manifestarsi in varie forme in rapporto alla causa che le ha
provocate, alla diversa durata (transitorie o permanenti), alla quantità di contenuti mnestici (globale
o lacunare) e, in quest’ultime, se è compromessa la rievocazione dei ricordi antecedenti l’evento
patogeno (retrograde), la fissazione dei ricordi successivi a quell’evento (anterograde) o entrambi
(anteroretrograde), se sono cancellati tutti i ricordi (massive) o solo quelli riguardanti specifiche
tracce mnestiche accomunate dal loro significato affettivo (selettive) (amnesie queste che si osserva-
no quasi esclusivamente nelle amnesie psicogene).
3 Di recente è stata segnalata una sindrome amnestica da uso di marijuana nel contesto della
sindrome amotivazionale.

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I. La menzogna e il mentitore 121

X. Menzogna e seduzione: il disturbo borderline

Era un personalissimo miscuglio di timidezza,


di ambiguità e – non vorrei dire – di “seduzione da star”,
ma sapeva esattamente che effetto faceva agli uomini.
(Fritz Lang a proposito di Marilyn Monroe)

In un sondaggio sulle le dieci persone più seduttive di sempre, sba-


glieremmo a pensare che tra le top ten figurerebbe in buona posizione
Marilyn Monroe?
L’immagine pubblica della diva ha avuto un forte impatto mediatico
nel momento in cui i media incominciavano a imporsi: è stata la prima at-
trice a scendere dall’Olimpo delle irraggiungibili dive del muto, ben rap-
presentate dalla Norma Desmond di Il viale del tramonto, di cui abbiamo
detto nel Cap. VI.

Niente di Marilyn era spontaneo, tutto è stato costruito dal caos, dove nulla era al po-
sto giusto1: un carico familiare pesantissimo per linea materna (ignoto quello pater-
no), a partire dall’avo con delirio genealogico (convinto di discendere dal quinto pre-
sidente degli Stati Uniti, James Monroe), passando per il bisnonno, morto suicida per
impiccamento, quindi per nonna Della, affetta da psicosi maniaco-depressiva, morta
in ospedale psichiatrico, per arrivare alla madre, Gladys, che trascorse gli ultimi de-
cenni istituzionalizzata – con diagnosi che andavano dalla psicosi maniaco-depressiva
alla schizofrenia paranoide – in uno stato di cronico ritiro autistico, totalmente igna-
ra tanto del successo quanto, poi, della morte della figlia.
All’età di otto anni, con la prima ospedalizzazione psichiatrica della madre, inizia-
no i ricoveri in orfanatrofio e gli affidamenti familiari, le molestie e gli abusi sessuali2.
A sedici anni, per non rientrare in orfanatrofio, sposa James Daugherty: «una specie
di amicizia con privilegi sessuali», dirà più tardi, modello di rapporto che riprodurrà
più volte con la lunga serie dei suoi amici/amanti.
All’inizio della carriera fu una modella fotografica, mestiere in cui riusciva molto
bene perché facilitata dalla totale assenza di inibizioni. Fra il 1948 e il 1950, sotto la

1 Chi volesse approfondire gli aspetti della vita, della carriera e della morte di Marilyn Mon-
roe ne troverà un’approfondita descrizione nel volume L’altra Marilyn – Psichiatria e psicoanalisi
di un cold case [68], da cui sono tratte le informazioni che utilizziamo in questa sede.
2 Verso i quindici anni un “padre” affidatario l’avrebbe messa incinta e il figlio sarebbe stato
dato in adozione vista l’età della madre.

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122 La verità sulla menzogna

guida del regista Ben Lyon, si compie la metamorfosi: Norma Jeane, la ragazzotta
procace e dai lineamenti forti, fra “ritocchini” chirurgici e make-up, si trasforma in
Marilyn Monroe, la diva dal viso fragile, tenero, infantile e, al tempo stesso, da femme
fatale. In realtà un personaggio costruito artificialmente utilizzando un corpo splen-
dido, una bocca sensuale, uno sguardo seduttivo di cui ognuno, ingannevolmente,
poteva sentirsi unico destinatario (effetto dello sguardo diretto all’infinito), una ma-
schera abilmente costruita per realizzare un sogno, quello di essere la meraviglio-
sa, svampita, impudica, ipersexy Marilyn, di diritto nella top ten delle dieci persone
più seduttive di sempre. La maschera Marilyn, confinata nello stereotipo della dump
blonde (bionda sciocca) che la rese celebre in alcune commedie di grande successo
degli anni ’50, forniva un’identità completamente artefatta a Norma Jeane, con la sua
insicurezza ontologica e le sue paure inespresse e inesprimibili.
A partire dalla metà degli anni ’50, Marylin Monroe fu curata da diversi psicoa-
nalisti (tra cui Anna Freud, Marianne Kris, Ralph Greenson), all’epoca famosi e a
lei estremamente devoti, che concordarono sulla diagnosi di Schizofrenia paranoide
marginale; Greenson, sottolineò l’importante elemento tossicofilo (aggiungendo ad-
dictive, dipendente) e, da ultimo, prese in considerazione anche l’ipotesi di una psico-
si maniaco-depressiva. Marilyn presentava un quadro psicopatologico grave, caratte-
rizzato da insonnia resistente e poliabuso di alcol e farmaci, oltre a molte dipendenze
comportamentali, che compromettevano fortemente la sua capacità di lavoro. Nel
1959, durante la lavorazione di The Misfits, nel deserto del Nevada, ebbe il suo primo
ricovero nella clinica dei divi di Los Angeles, il Cedar Lebanon, per sottoporsi a disin-
tossicazione da barbiturici. Dopo un ennesimo aborto e il divorzio da Arthur Miller,
le sue condizioni si aggravarono rendendo necessari, nel 1961, due successivi ricoveri
sia per l’abuso di alcool e farmaci, sia per il grave rischio suicidario. Particolarmente
traumatico fu il ricovero nell’Ospedale Psichiatrico Payne Whitney dove, sentendosi
chiudere la porta del reparto alle spalle, fu presa da claustrofobia e presentò una crisi
di agitazione psicomotoria durante la quale, dopo aver sfondato una finestra, minac-
ciò di tagliarsi i polsi con un vetro.
Negli ultimi mesi di vita, a conferma della gravità delle sue condizioni, a fronte
dell’impotenza dei mezzi terapeutici dell’epoca – alcuni farmaci specifici erano stati
scoperti da poco in Europa, ma non erano ancora entrati nella pratica clinica –, Gre-
enson la vedeva 5 o 6 volte la settimana; egli cercò di curare l’ingravescente poliabuso
farmacologico sostituendo i barbiturici con altri ipnoinducenti più facili da gestire,
con il solo risultato di aggiungere farmaci a farmaci che Marilyn, come del resto mol-
ti pazienti fanno anche oggi, si procurava facendoseli prescrivere da medici diversi.
Tuttavia, fino a poche settimane prima della morte, che a distanza di oltre ses-
sant’anni rimane un cold case, era ancora un’ottima fotomodella, come testimonia
il backstage di Something’s got to give, rimasto incompiuto, dove si mostra, nuda,
in tutta la sua sfolgorante seduttività. Greenson, e con lui la maggior parte dei te-
stimoni, sostenne che, nonostante la turbolenza del periodo, Marilyn all’epoca della
morte non fosse depressa e stesse facendo progetti per il suo futuro; tuttavia il grave
poliabuso rendeva il suo umore estremamente instabile e disforico e le performan-
ce cognitive sempre più scadenti; disintossicarla era impossibile, anche perché non
voleva saperne di ulteriori ricoveri psichiatrici. Marilyn, in effetti, non era soltanto

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X. Menzogna e seduzione: il disturbo borderline 123

depressa, ma presentava un ben più grave stato misto bipolare in comorbidità con un
disturbo borderline di personalità3.

Dietro l’immagine della diva più amata dal mondo intero si celava
quindi una donna gravemente ammalata, che, come un’eroina tragica,
non riuscì a sottrarsi al destino psichiatrico familiare, tanto ossessiva-
mente temuto.
Icona intramontabile, ormai parte dell’immaginario collettivo, era
un prototipo di disturbo borderline. I moltissimi biografi e le altrettan-
to numerose testimonianze concordano sul fatto che, dietro la maschera
Marilyn, si nascondesse una donna infantile, socialfobica, rimuginativa,
insoddisfatta, continuamente bisognosa di conferme e appoggio, total-
mente priva di senso morale. Una patologia ricca e complessa che acco-
muna molte star di grande successo – Jim Morrison, Jimi Hendrix, Brian
Jones, Amy Winehouse, Kurt Cobain, Michael Jackson, Prince tanto per
citarne alcuni –, tutti morti giovani per droga o per suicidio, dopo un suc-
cesso planetario – “muore giovane chi è caro agli dei”4 – e tutti con spiccati
tratti riconducibili al disturbo borderline.
Comportamenti tipici e fortemente sintomatici sono i rapidi passaggi
dall’idealizzazione alla svalutazione di persone (incluso il terapeuta), cose
e situazioni e la creazione di legami nei quali il controllo dell’altro prevale
sulla relazione paritaria. Altri elementi sono la difficoltà nella gestione
delle emozioni, soprattutto di fronte a eventi, come le separazioni e gli
abbandoni, e un’instabilità affettiva cronica. Il risultato di quest’organiz-
zazione disfunzionale è la “triade impossibile”: intolleranza alla solitudine,
incapacità di mantenere le relazioni, non accettazione delle separazioni.
Il quadro è caratterizzato, inoltre, da forte impulsività e facilità a porre

3 Letteralmente il termine “borderline” definisce chi sta in una posizione di mezzo tra due
condizioni differenti – in questo caso, anche tra più di due –, un pirandelliano “personaggio in cerca
di autore”. Moskovitz [134] lo descrive come una personalità con «un carattere elusivo che manca in
identità» sopraffatto com’è «da una barriera di emozioni dolorose», consumato «dalla fame d’amo-
re» al punto da «sbandare di relazione in relazione e da impulso a impulso in un tentativo disperato
di controllare questi sentimenti».
Fin verso la metà del ventesimo secolo il termine “borderline” stava a indicare pazienti affetti
da forme di schizofrenia pseudonevrotica, non grave, da trattare ambulatorialmente, ad andamento
cronico, scarsamente responsiva ai trattamenti (prevalentemente psicoanalitici data la totale man-
canza di psicofarmaci), con una sintomatologia complessa e mutevole (ma con scarsi o assenti sin-
tomi tipici della schizofrenia). Dai primi tentativi di sistematizzazione di questo disturbo, verso la
metà del Novecento, ai criteri diagnostici attuali, poche sono le modifiche sostanziali apportate. La
prima è il definitivo distacco dalla schizofrenia, la seconda è la sua concettualizzazione come speci-
fica organizzazione di personalità.
4 Menandro.

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124 La verità sulla menzogna

in atto, in risposta agli eventi, impulsivi e imprevedibili comportamenti


autolesionistici e parasuicidari5; il mosaico psicopatologico è completato
da continua ricerca di attenzioni, sottile abilità manipolatoria, seduttività,
vittimismo recriminatorio e/o ricattatorio, continua violazione delle re-
gole e dei limiti, mancanza di collaborazione e di reciprocità, farmacofilia
con tendenza all’abuso o rifiuto dei farmaci, per gli stessi inconsistenti
motivi dell’abuso.
Numerose le differenze di genere: le donne mostrano ansia, depres-
sione, disturbi alimentari, lamentele somatiche e sintomi post-traumatici
da stress; tendono a rivolgere l’aggressività verso se stesse; gli uomini
presentano maggiori aspetti narcisistici e antisociali. I sintomi ossessivo-
compulsivi, il panico e l’abuso di sostanze si osservano in entrambi i sessi.
Nel modello di personalità borderline si tende a valorizzare il ruolo
di traumi occorsi nell’età dello sviluppo – quali abusi fisici e sessuali, al-
colismo di uno o più familiari, trascuratezza nelle cure parentali – che
comporterebbero una modalità di relazione diffidente, discontinua e am-
bivalente verso le figure di attaccamento anche nella vita adulta. Secondo
recenti studi il disturbo borderline potrebbe essere una forma di disturbo
post-traumatico da stress (PTSD), in particolare, la sua forma complessa
o complicata (complex PTSD): che la maggioranza dei pazienti borderli-
ne riferisca esperienze traumatiche precoci è un dato assodato, e bisogna
tener conto del fatto che molti non mantengono memoria degli eventi
traumatici precoci (amnesia psicogena). Nondimeno, in questi sogget-
ti il trauma diventa una sorta di pass sempre pronto a essere utilizzato
per ricevere attenzione dal partner, acquistare credibilità nell’entourage,
assicurarsi la cura del terapista assumendo, talora in modo ricattatorio,
il ruolo di vittima. Vedi la storiella infinitamente ripetuta da Marilyn ai
giornalisti, che non ne erano mai sazi, della povera orfanella, della Cene-
rentola-Norma-Jeane divenuta Principessa-Marilyn, immagine perfetta e
inattaccabile quanto totalmente falsa, come il ritratto di Dorian Gray.
Come abbiamo accennato nella sezione La maschera e il volto (Cap.
VI) tutti noi indossiamo una maschera, tante maschere quanti sono i ruo-
li che interpretiamo, che cambiamo secondo la necessità e che possiamo
togliere, rimanendo comunque noi stessi. Marilyn non poteva farlo: sen-
za maschera tornava a essere Norma Jeane, una bambina senza padre,
con una madre assente e malata, un’orfana vittima di violenze sessuali da
parte di chi avrebbe dovuto proteggerla. Marilyn ha cercato per tutta la
vita di nascondere Norma Jeane, con il suo pesante carico di esperienze

5 Sono definiti “parasuicidari” tutti i comportamenti suicidari non letali, indipendentemente


dalla loro intenzionalità.

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X. Menzogna e seduzione: il disturbo borderline 125

infanto-giovanili drammatiche, per rendersi conto, ogni volta, che le sei


ore passate a truccarsi, non erano in grado di cancellare i suoi fantasmi
e fugare le sue paure, come non lo erano l’alcol e i sedativi. E altrettanto
inefficaci furono le ore, gli anni, di psicoterapia: un’enorme, quotidiana
fatica di Sisifo alla quale era condannata.
Compreso ben presto il valore del sesso, lo usò come moneta univer-
sale di scambio con chiunque potesse servirle per farsi strada, fotogra-
fi, registi, produttori, insegnanti di recitazione, colleghi, uomini e anche
donne:
«Ero così confusa, a quel tempo, che lasciavo che chiunque, uomo o donna,
facesse quello che voleva se pensavo che mi fosse amico. Lo lasciai fare a
Natasha6, ma si trattò di un errore. Non era come un uomo, capisci, sem-
plicemente divertirsi e questo è tutto. Lei invece era veramente gelosa degli
uomini che vedevo, di tutto. Credeva di essere mio marito».
Ma cosa c’era sotto l’instabilità emotiva e relazionale di Marilyn, i gesti
autolesivi, i suoi scoppi di rabbia, la sua palese dipendenza dalla rassicu-
razione e gli altri comportamenti tipicamente divistici e altrettanto tipica-
mente “borderline”? Quali erano i sintomi nucleari che, da un lato, l’han-
no sostenuta nella fase di ascesa vertiginosa, consentendole di adattarsi
perfettamente al percorso trasformativo imposto dall’industria cinema-
tografica, da conseguire un successo d’immagine assoluto e sempre più
vasto, anche dopo la sua morte – com’è accaduto a tante star che hanno
avuto destini simili – e, dall’altro, hanno fatto da substrato di vulnerabi-
lità per il successivo sviluppo di una grave psicopatologia a esito letale?
Com’è riuscita Marilyn a fare di se stessa un mito, un’icona senza tempo?
Il “caso Marilyn” si presta a un’interpretazione originale rispetto al
passato e ripercorrere la storia psichiatrica dell’attrice permette di spie-
gare quali siano le nuove frontiere della diagnosi psichiatrica. La nostra
ipotesi è che, a sostenere il complesso impianto di alterazioni psichiche
presentato dalla diva, possa essere preso in considerazione il ruolo preco-
ce di tratti autistici (spettro autistico sottosoglia [69] – in passato sindrome
di Asperger – substrato neuroatipico legato ad alterazioni del neurosvilup-
po). Tra questi, ruminazioni a lungo termine, scatenate dagli eventi trau-
matici, hanno innescato sintomi post-traumatici da stress, quali incubi,
pensieri intrusivi, condotte di evitamento e disregolazione delle funzioni
vitali, in particolare una grave insonnia, (prodromo e primum movens
del disturbo dell’umore), abusi multipli di sostanze, dipendenze compor-
tamentali e tentativi di suicidio. In Marilyn è ampiamente documentata

6 Natasha Lytess è stata la sua prima insegnante di recitazione.

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126 La verità sulla menzogna

tale vulnerabilità simil-autistica (ereditata, in forma meno grave, da sua


madre) con deficit dell’empatia cognitiva ed emotiva («Io non sono mai
stata brava a far parte di un gruppo – un gruppo di più di due persone
intendo») e una tendenza all’auto-vittimizzazione, che gli forniva un “ali-
bi” per qualsiasi malfunzionamento, sottraendola a ogni responsabilità
personale:
Paura di farmi dare le battute nuove
forse non riuscirò a impararle
forse sbaglierò
penseranno che non sono brava oppure rideranno o mi
criticheranno o penseranno che non so recitare
paura che il regista pensi che non sono brava
ripenso a quando non sapevo fare
un accidenti di niente.
Poi cerco di farmi coraggio dicendomi che ci sono cose
che ho fatto giuste addirittura bene e ho avuto
momenti straordinari ma le cose negative sono più pesanti
da portarsi dentro e da sentire
non trovo sicurezza
depressa pazza.
scrive nei Fragments [132], a riprova del ruolo importante rivestito dal-
le ruminazioni. Com’è tipico del soggetto con spettro autistico, incapace
di inibire i ricordi – verosimilmente per un’alterazione dei meccanismi
dell’oblio –, Marilyn ha portato il peso emotivo dei traumi subiti indefini-
tamente e, forse, inconsciamente. Inoltre, parlando della sua adolescenza,
la descriveva come “quella di tutti gli altri ragazzi”, non essendo in grado
– a causa del deficit del senso morale – nemmeno di riconoscere come
traumatici gli abusi subiti7.
L’ipotesi è che Marilyn sia diventata un’icona immortale non “nono-
stante”, ma “grazie” ai suoi tratti autistici. Se guardiamo sotto la super-
ficie borderline, troviamo infatti evidenti elementi bizzarri e strambi, di
matrice autistica: l’umorismo involontario, il cinismo, la fatuità, il “vi-
vere con la testa tra le nuvole”. Sotto i manierismi espressivi di Marilyn

7 L’ideazione, drammaticamente ripetitiva e stereotipa, era polarizzata sui suoi fallimenti


esistenziali fondamentali, quello di essere una donna che tutti volevano, ma che poi puntualmente
tutti abbandonavano senza rimpianti, quello di non essere diventata madre (a causa dei numerosi
aborti, prima volontari, alla fine spontanei) e, infine, quello di non essere riuscita a diventare una
vera attrice, nonostante infinite lezioni di recitazione e nonostante avesse sposato un drammaturgo,
Arthur Miller, forse anche perché sperava che le confezionasse addosso ruoli per il palcoscenico.
In realtà una grande attrice lo era, un personaggio lo interpretava alla perfezione, quello di Marilyn
Monroe.

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X. Menzogna e seduzione: il disturbo borderline 127

trapelano l’estrema timidezza e la drammatica insicurezza, le fobie e il


corteo dei sintomi panici, aspetti di incompetenza sociale, come l’assenza
di capacità pragmatiche e del senso di opportunità, l’uso casuale del de-
naro, lo scarso o nullo sentimento di pudore e la disinibizione sessuale.
Dalla dinamica tra elementi deficitari e aspetti ipercompensatori è sorto
un progetto ristretto di vita, condizionato dalla “necessità” di diventare
una “vera” attrice (drammatica) e ascendere la scala sociale ben oltre il
pur straordinario ruolo mediatico già conseguito, grazie ai suoi celebri
matrimoni e relazioni e al ruolo di diva con i successi dei suoi film comi-
ci: un progetto megalomanico, ontologicamente sproporzionato alle sue
capacità, sistematicamente perseguito, una vera “dipendenza dalla fama”
che finì per scontrarsi con la realtà dei continui fallimenti. L’esito suici-
dario – se di suicidio si trattò – potrebbe, in questa chiave interpretativa,
essere considerato un evento inevitabile, almeno con i mezzi terapeutici
dell’epoca8.
Il prototipo Marilyn ci consente di ipotizzare come dietro la maschera
borderline si nasconda una condizione caratterizzata da elementi di spet-
tro autistico, così come noi l’abbiamo definito nell’AdAS Spectrum9 [69].
Gli aspetti deficitari, propri di questa condizione simil-autistica, sono sta-
ti, nel caso della diva, ipercompensati grazie alla sua straordinaria fisicità
e fotogenicità, all’uso sistematico della seduttività come strategia di resi-
lienza ai traumi e alla sua determinazione “monotematica” di diventare
una star. Dalla dialettica tragica tra l’identità pubblica di Marilyn, celebre,
vincente, ma totalmente artefatta e la realtà sofferente di Norma Jeane,
una ragazza semplice, “diversa”, priva di un’identità solida, pluri-trau-

8 Ma anche le altre ipotesi potrebbero essere considerate cause di morte inevitabili: a) l’in-

tossicazione accidentale, tenendo conto della gravità del poliabuso di ipnotici e barbiturici che assu-
meva, per di più in associazione all’alcol; b) l’errore medico dovuto all’indisponibilità, all’epoca, di
farmaci specifici, e quindi alla necessità di aumentare le dosi dei barbiturici (farmaci con uno scarto
minimo tra dose terapeutica e dose letale) nel tentativo di ottenere un effetto sedativo e ipnotico
sul grave stato misto bipolare; c) l’omicidio, in considerazione della possibilità che rivelasse notizie
compromettenti di cui era venuta a conoscenza nel corso delle sue frequentazioni dei Kennedy,
come sembra avesse minacciato: intorno alla mezzanotte, quando verosimilmente Marilyn era già
morta, un poliziotto avrebbe fermato una Mercedes, guidata dal cognato di Bob Kennedy, con a
bordo lo stesso Bob e il dott. Ralph Greenson, lo psicoanalista della diva.
9 Lo spettro autistico potrebbe rappresentare un substrato neuroatipico di vulnerabilità su

base neuroevolutiva, secondo un modello di diatesi-stress o diatesi-vulnerabilità-stress. Potrebbe


dunque essere un fattore determinante nel mantenere nel tempo, di fronte a un evento traumati-
co, non solo disregolazioni dell’emotività e delle funzioni vitali, come l’insonnia o la mancanza di
appetito, esperienze dissociative acute e incubi, ma anche ruminazioni a lungo termine, ripetitivi-
tà, condotte di evitamento, cioè una sintomatologia prolungata assimilabile al cPTSD (la varietà
complessa di PTSD), fino a condizioni più croniche e pervasive come, appunto, i quadri di tipo
borderline, complicati da abusi multipli di alcol e sostanze e dalle dipendenze comportamentali.

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128 La verità sulla menzogna

matizzata, che non avrebbe potuto vivere senza la sua maschera ipercom-
pensativa, nasce il dramma che ha attraversato tutta la vita dell’attrice,
fino all’exitus.
Ma la grande menzogna della maschera Marilyn è nello sguardo.
Niente è più ingannevole dello sguardo di Marilyn, come di quello delle
moltissime pazienti borderline dei nostri giorni: lo sguardo seduttivo che
l’ha resa immortale, al tempo stesso profondo e melanconico, è in real-
tà un compendio di psicopatologia; in esso convergono le tre principali
dimensioni psicopatologiche in gioco, tre tessere importanti del puzzle
borderline: a) lo spettro autistico, caratterizzato tipicamente dall’evita-
mento oculare – oppure da uno sguardo iperintenso, che è equivalente
a quello evitante –; b) il grave poliabuso di alcol e sostanze, con gli evi-
denti effetti sedativi; c) lo spettro post-traumatico da stress, con i sintomi
dissociativi (derealizzazione) e di ottundimento affettivo, che sostengono
uno sguardo che guarda all’infinito, come in un cronico stato crepuscola-
re. Marilyn è riuscita a ribaltare tutto questo trasformando l’impotenza e
la dipendenza in dominio, l’isolamento in seduzione: moderna Medusa,
dallo sguardo “pietrificante”, in realtà, come nella rappresentazione cara-
vaggesca, lei stessa “pietrificata“ da un trauma antico.

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I. La menzogna e il mentitore 129

Xi. Menzogna e sessualità

Quando tu giuri che sei sua,


Con brividi e sospiri
E lui giura che la sua passione è
Infinita, immortale –
Signora, segnatelo:
Uno di voi mente.
(Dorothy Parker)

Con un po’ di cinismo, potremmo dire che la sessualità, con tutto ciò
che le ruota intorno, è terreno fertile per la menzogna. A ben vedere, quel
sentimento elevato, spirituale, dolce, che chiamiamo amore, che cos’è se
non la maschera dietro la quale si nasconde il ben più prosaico istinto
riproduttivo? Che cosa sono i corteggiamenti, le ritrosie, le finzioni mali-
ziose se non dei modi per dissimulare il desiderio e, al tempo stesso, per
aumentare l’eccitazione del partner, rendere più appassionato e gratifi-
cante il rapporto e aumentare in questo modo le probabilità di conserva-
zione della specie?
Ma noi non siamo cinici e non lo affermiamo! Lasciamo che sia Scho-
penhauer [170] a farlo, ad affrontare in maniera razionale il sentimento
decantato dai poeti di tutti i tempi e di cui tutti hanno gioito e sofferto,
l’amore. Egli ce ne rivela il lato oscuro, non per deprimerci, ma per libe-
rarci dalle illusioni e dagli inganni cui siamo naturalmente esposti, per
renderci consci dell’arroganza delle nostre sconsiderate e puerili pretese
alla felicità. In fondo, per quanto l’umanità evolva, la caverna divenga
un castello, i tronchi si trasformino in navi, una sola cosa permane tanto
immutabile quanto irraggiungibile e inesplicabile: l’amore.

Schopenhauer fa un’accurata descrizione delle manifestazioni dell’amore, delle forme


in cui può esprimersi, dei suoi aspetti devastanti, ma soprattutto indaga le cause che
portano l’uomo a innamorarsi e il perché di questa passione tirannica e demoniaca
che, al massimo della sua intensità, è capace di travolgere tutto, compresa la vita stessa
di chi ne è preso1. Parla di amori omo- ed eterosessuali, di amori saldi come rocce e

1 Gli antichi egizi lo annoveravano fra le malattie psicogene.

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130 La verità sulla menzogna

fragili come cristalli, di amori che divampano come incendi o sono solo accettati, che
noi, ingenuamente, crediamo di poter controllare e sono, invece, parte di una trama
più vasta ordita dalla natura. L’innamorato vive nella piacevole ed egoistica illusione
che l’amore possa rappresentare il massimo grado della felicità, possa riempire le sue
giornate di dolcezza, essere un sollievo per i dolori della vita e che l’amplesso con quella
persona gli procurerà una felicità infinita, per poi accorgersi, con stupore e con un po’
di delusione, che non è proprio così; ma intanto la natura ha raggiunto il suo scopo: la
riproduzione, la perpetuazione della specie.
La natura ci ha “usato”, piacevolmente ma ci ha usato: l’eros è funzionale all’ap-
pagamento del desiderio umano, ma è soprattutto necessario alla specie nella quale,
secondo il filosofo, è la radice del nostro essere. Il desiderio sessuale costituisce l’essenza
stessa dell’uomo, in quanto mantiene attivo quel meccanismo che consente alla specie
di continuare a esistere. Per questo la forza dell’amore arriva a livelli così alti, fino a
diventare incontrollabile, un desiderio che rende pronti a qualsiasi sacrificio [...] e può
condurre alla pazzia o al suicidio. La volontà di vivere è connaturata all’essere e si
estrinseca nell’atto della generazione. E, se non bastasse, la natura ci ha programmati
per farci inconsapevolmente innamorare di qualcuno che potrebbe darci dei figli più
sani. La finalità procreativa richiede solo un’adeguata proporzione tra il grado di ‘vi-
rilità’ di lui e il grado di ‘femminilità’ di lei, ed è questa concordanza che conta, molto
di più che non la romantica armonia delle loro anime.
Per il filosofo, ognuno ama ciò che a lui manca [...] le due persone si devono neu-
tralizzare a vicenda e quindi non dobbiamo meravigliarci se tanti individui, appa-
rentemente incompatibili e con caratteristiche personologiche opposte, si attraggano
invincibilmente. La volontà della specie è così potente che l’amante chiude gli occhi su
tutte le qualità per lui ripugnanti; trascura tutto, disconosce tutto e si unisce per sempre
con l’oggetto del suo amore, tanto lo acceca quella passione, che tuttavia, appena la
volontà della specie è stata adempiuta, sparisce e lascia un’odiosa compagna di vita.

La visione dell’amore proposta da Schopenhauer è certamente ori-


ginale e discutibile ma è molto più profonda di quanto possa apparire
a una lettura superficiale. Potremmo obiettare che l’amore sia un’entità
sfuggevole, la cui essenza è strettamente connessa con i segreti della vita
e che – specialmente se ne abbiamo sperimentati gli effetti sulla nostra
pelle – non sia di un’esperienza da studiare scientificamente. Tuttavia la
lettura del trattatello del filosofo tedesco è, non solo piacevole, ma anche
istruttiva e intrigante.
Alla luce di quanto appena detto, potremmo anche chiederci se sia
possibile amare senza mentire. Socrate, nel discorso sull’amore, sostiene
che l’amore può portarci alla verità su noi stessi e su quelli che amiamo.

Nel racconto di Quim Monzò [133], Con el corazòn en la mano [130], una coppia, in-
namorata dell’amore, giura di eliminare dalla convivenza tutto ciò che non sia chiaro:
«Anche una sola bugia sarebbe la morte del nostro amore». Ben presto i due si sepa-
reranno nell’impossibilità di mantenere la promessa; il motivo della separazione non

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Xi. Menzogna e sessualità 131

sarà una qualche menzogna assolutamente inaccettabile, ma una banale discussione


sul ristorante in cui andare a cena: lei ne propone uno e lui accetta la scelta ma, nell’ot-
tica della totale sincerità, più tardi ammetterà di averlo fatto solo per accontentarla e
non perché lo giudicasse buono. È indiscutibile che il ristorante sia una piccola cosa
rispetto all’amore, ma l’amore è fatto anche di piccole cose e il giuramento ha precluso
la possibilità anche di piccole bugie. Le menzogne e i silenzi sono i rifugi che ci con-
sentono il nostro vivere quotidiano, ma quando si appalesano mettono a grave rischio
l’equilibrio della coppia.

In realtà si può ragionevolmente affermare che l’amore sia uno dei


sentimenti più simulati e più traditi – col fine ultimo della riproduzione
giacché la promiscuità aumenta le probabilità di procreare.
In un recente saggio, il filosofo Martin Clancy [47] sostiene invece – e
forse non solo sulla base della filosofia, della psicoanalisi e delle neuro-
scienze, ma anche per esperienza personale avendo alle spalle tre matri-
moni e due divorzi! – che l’amore e la menzogna spesso lavorano mano
nella mano, che può essere difficile sostenere un amore romantico a lungo
termine senza inganno, di se stessi e degli altri, e che imparare ad amare,
e amare bene, richiede inevitabilmente la menzogna: i migliori rapporti
d’amore, conclude, possono portarci, lentamente e con difficoltà, verso
l’onestà e la fiducia.
Non ci sono dubbi che la menzogna e l’inganno facciano parte inte-
grante delle interazioni tra uomini e donne, rientrando nelle varie strate-
gie di accoppiamento. L’evento dell’incontro è caratterizzato da una serie
di rimandi tra ciò che siamo, ciò che pensiamo di essere, come riteniamo
che l’altro ci veda e come vorremmo che l’altro ci vedesse. Si mettono
quindi in moto inevitabilmente una serie di comportamenti volti ad ap-
parire nella luce migliore per dare una conclusione positiva all’incontro,
comportamenti che sono quelli del mascheramento, della menzogna,
dell’inganno.
Nei colloqui d’amore le bugie e le iperboli si sprecano: «ti amo da mo-
rire», «mi spezzi il cuore», «non penso che a te», «sei la luce dei miei occhi»,
«non amo che te»... e chi più ne ha più ne metta! La menzogna, però, inizia
già prima di parlare: le ragazze cercano di mascherare i propri difetti e/o
esaltare i propri pregi con il trucco, l’abbigliamento, i pushup, i tacchi alti
e altri escamotages utili per attrarre l’attenzione dei ragazzi, i quali, a loro
volta, cercano di esaltare la loro prestanza fisica, di apparire più intelli-
genti, più benestanti, più sicuri di sé, educati e gentili.
Perché si mente nelle relazioni sentimentali? Per compiacere il part-
ner, conquistarne o confermarne l’affetto, la fiducia, la disponibilità e, in
parte, per mostrare il nostro profilo migliore. Si mente per iniziare un
amore e per farlo continuare ma anche per nascondere i tradimenti. Se-

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132 La verità sulla menzogna

condo alcune indagini giornalistiche, le bugie più frequenti in amore


sono: Facciamo sesso tutti i giorni, Abbiamo raggiunto l’orgasmo insieme,
Non mi sono mai masturbato/a2, Non ho mai desiderato nessun altro/a,
Non ho mai simulato un orgasmo.
Tutta la letteratura sul finto orgasmo (fake orgasm), che oggi potrebbe ri-
empire biblioteche intere, è dunque una letteratura sulla menzogna, ad-
dirittura sulla menzogna servizievole, generosa, compiacente (mendacium
officiosum)? Kant avrebbe certamente denunciato l’orgasmo simulato come
una menzogna, dal momento che è intenzionalmente destinato a inganna-
re l’altro, fosse anche per il suo bene supposto [72].
Forse, in queste indagini giornalistiche, una domanda cruciale non è
stata posta: Possono un uomo e una donna essere soltanto amici? Sarebbe
interessante, soprattutto in questa epoca di “sessualità fluida”, conoscere
l’opinione delle persone intervistate su questo argomento. Noi non siamo
certamente in grado di ipotizzare quale potrebbe essere la risposta preva-
lente e certamente quella nostra personale non sarebbe significativa. Non
lo sarebbe neppure quella che potremmo ricavare da un film del 1989,
Harry, ti presento Sally, di Rob Reiner, incentrato su questo tema, e che è
piuttosto divertente.

Harry (Billy Cristal) e Sally (Meg Ryan), conclusa l’università a Chicago si trasferisco-
no a New York per iniziare le loro carriere lavorative. Messi in contatto da Amanda,
ragazza di lui e amica di lei, affrontano insieme un lungo viaggio in auto, nel corso del
quale, parlando del più e del meno, Harry sostiene che l’amicizia tra uomo e donna
non può esistere poiché l’uomo desidera sempre andare a letto con la donna; Sally è
di parere opposto e anzi si scandalizza quando lui le dice di trovarla molto attraente.
Arrivati a New York si separano e si rivedono casualmente cinque anni dopo al-
l’aeroporto mentre Sally sta baciando Joe, un vecchio conoscente di Harry. Viaggian-
do sullo stesso aereo, Sally confida a Harry di convivere con Joe e lui le dice che sta per
sposarsi con Helen.
Si rivedono ancora una volta casualmente dopo altri cinque anni: Harry è stato la-
sciato dalla moglie e ne soffre, Sally dal compagno ma senza particolari problemi. Van-
no a cena in una tavola calda e, parlando dei vari aspetti dell’amore, Harry sostiene di
saper riconoscere quando una donna simula l’orgasmo e di essere sicuro che nessuna

2 In una recente indagine sulla sessualità, effettuata su un campione di mille persone dal
centro statistiche RCS, è risultato che quattro italiani su 10 non si masturbano o non si sono
masturbati mai. Questo dato, in contrasto con il resto dell’indagine che documenta l’importan-
za attribuita al sesso e all’amore, lascia adito al dubbio che su questo tema gli intervistati non
siano stati del tutto sinceri. È verosimile che l’autoerotismo sia ancora un tabù, che ci siano
delle remore morali di vecchia tradizione, ma anche remore sociali in quanto, o ci si vergogna
di desiderare il piacere sessuale senza un partner, o non si vuole ammettere di non avere un
partner.

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Xi. Menzogna e sessualità 133

donna ha mai finto con lui. Sally gli dimostra il contrario simulandone uno proprio
lì, mentre sono seduti alla tavola calda (tanto verosimile che una signora, a un tavolo
vicino, chiede al cameriere di portare anche a lei «quello che ha servito alla signora»!).
Qualche tempo dopo Sally chiama disperata Harry perché ha saputo che Joe sta
per sposarsi mentre, finché stava con lei, sosteneva di non volersi mai sposare. Lui la
consola e finiscono a letto convenendo entrambi, il giorno dopo, di aver commesso un
errore. Si incontrano, ancora una volta casualmente, a una festa la notte di Capodan-
no, lui le confessa di amarla e tre mesi dopo parlano di matrimonio.

Con l’avvento dei social network e dei siti di incontri di ogni tipo e
per ogni gusto, la menzogna ha raggiunto la sua massima espressione:
nascosto dietro un computer, ognuno si sente libero di barare, anche se
oggi le video chat lo consentono un po’ meno, almeno sull’aspetto fisico.
Nel relazionarsi tramite la rete, l’inganno inizia già nel profilo: si calcola
che quasi il 90% degli utenti dei siti di incontri mentano, per apparire più
attraenti, sull’età, sul proprio aspetto, sugli interessi e inclinazioni.
Nonostante che la verginità di per sé abbia perso gran parte del pro-
prio valore, non possiamo non menzionarla.

Gli antichi romani conferivano alla verginità un grande valore al punto che, già allora,
si conoscevano frodi e inganni per ridare alle fanciulle che l’avevano persa l’aureola
della vergine casta, pudica e incorrotta (virgo casta, verecunda et incorrupta).
Le tecniche chirurgiche oggi sono talmente evolute che ricostruire un imene è un’o-
perazioncina da nulla (ma anche in passato, visto che si racconta di una celebre mon-
dana parigina che si vantava di aver venduto più di ottanta volte la propria verginità!),
addirittura un fai-da-te se è vero, come si legge in un vecchissimo numero di Il Cesal-
pino [190], di una giovane, che aveva avuto una relazione incestuosa per sei anni, dalla
quale era nato anche un figlio, e che per rassicurare il fidanzato della sua verginità, si
suturò con due punti l’ostio vaginale affrettandosi a concederglisi per far cessare i suoi
“offensivi” sospetti.

Non possiamo passare sotto silenzio neppure gli aspetti mitologici


della diade sessualità-menzogna e, per non dilungarci troppo, faremo di
nuovo riferimento a Zeus a cui abbiamo già accennato nel Cap. II.

Il re degli dei e degli uomini era, come dice Luciano di Samosata [122], un gran femmi-
niere e, per quanto riportato nei miti e nelle leggende, ebbe relazioni con non meno di
ottanta donne fra dee, ninfe e comuni mortali, in molti casi con inganni di vario tipo,
tanto che in più occasioni lo abbiamo definito stupratore seriale.
Ma questo è solo un aspetto della vita sessuale di Zeus poiché la leggenda ci racconta
anche che, innamorato di Ganimede, trasformatosi in aquila, lo rapì e lo portò con sé
sull’Olimpo dove ne fece il coppiere degli dei e, soprattutto, il suo amante (secondo il
costume della pederastia greca); si innamorò anche di Euforione, che però lo rifiutò
fuggendo nell’isola di Melo dove lo raggiunse con un fulmine uccidendolo (e trasfor-

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134 La verità sulla menzogna

mando in rane le ninfe che, impietosite, gli avevano dato sepoltura).


Zeus era anche “invidioso” della maternità delle donne3 e, per due volte, “partorì”:
la prima volta fu quando inghiottì in un sol boccone Metis, la sua prima moglie in-
cinta, perché l’oracolo aveva predetto che sarebbe stato spodestato dal primo figlio.
Quando la gravidanza giunse a termine, si fece spaccare la testa da Efesto e ne uscì
Atena già adulta e armata. La seconda volta fu quando Era, gelosa della relazione di
Zeus con Semele, si trasformò nella nutrice della donna e la convinse a chiedere a Zeus
di mostrarsi in tutto il suo splendore. Consapevole dei rischi che avrebbe corso, Seme-
le si lasciò convincere e morì fulminata. Zeus riuscì a salvare il bambino che Semele
portava in grembo, lo cucì dentro la sua coscia e qualche mese dopo nacque Dioniso.
Orgoglioso delle sue prestazioni sessuali (a ragione, se si guarda al numero delle
“conquiste”), Zeus ebbe una disputa con Era su quale dei due sessi provasse più piace-
re durante l’amplesso; il saggio Tiresia, chiamato a giudicare, dette ragione a Zeus che
lo ricompensò dandogli una vita tre volte più lunga del normale.

Ma l’amore non è qualcosa di solo detto, è anche agito. Premesso che il


nostro è un discorso tecnico, rispettoso delle diversità e delle scelte affetti-
vo-sessuali, non possiamo non accennare anche alla “menzogna sessuale”
comportamentale e/o fisica che caratterizza una larga varietà di persone
che, secondo la più recente nosografia psichiatrica, presentano una di-
sforia di genere: soggetti che, con le caratteristiche somatiche specifiche
di un sesso, manifestano attrazione sessuale verso persone con analoghe
caratteristiche, o che sperimentano una incongruenza tra il genere attri-
buito loro alla nascita e quello che essi soggettivamente esperiscono.

È in atto un cambiamento delle tradizionali caratterizzazioni sessuali, sotto la spinta


del crescente desiderio di vivere la propria sessualità in maniera più libera e svincolata
da rigide classificazioni, soprattutto quella dicotomica, definita, di eterosessualità e
omosessualità. La rivoluzione sessuale degli anni ’70 ha posto le fondamenta per una
più articolata visione dell’identità sessuale e delle sue espressioni. È però solo dal 2000
che, con la crescita della consapevolezza sessuale, si è incominciato ad affermare il con-
cetto di plasticità erotica, espressione di una maggiore personalizzazione dell’identità
sessuale, diventata poi fluidità sessuale [73,110], svincolata da convinzioni e restrizio-
ni sociali. La definizione di sessualità fluida si applicherebbe a un concetto di identità
sessuale nel quale avrebbero ruoli diversi il sesso biologico, l’identità di genere, il ruolo
di genere, l’orientamento sessuale e l’orientamento affettivo4.

3 È opportuno ricordare che nella cultura greca il ruolo paterno era considerato superiore
a quello materno, anche se con diverse sfumature, tra coloro che ritenevano che la madre fosse la
“nutrice” del seme seminato in lei e che il genitore fosse colui che l’aveva fecondata, e coloro che
ammettevano un ruolo più attivo, comunque indispensabile, della madre nella riproduzione. Ari-
stotele [10] sosteneva che l’uomo avesse un ruolo creatore, per la forma e per lo spirito, mentre il
contributo della donna fosse quello della materia.
4 La sessualità fluida dovrebbe consentire di superare le limitazioni del concetto di identità
sessuale, dando la possibilità a ciascuno – compresi gli eterosessuali e i cisgender (“qualcuno a pro-

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Xi. Menzogna e sessualità 135

Quello della sessualità è certamente il terreno che ha generato e nutrito


celeberrimi mentitori; qui ne vogliamo ricordare due, Giacomo Casanova
e Gabriele D’Annunzio. Di Casanova, seduttore e libertino, abbiamo già
detto; nelle sue memorie descrive senza remore i suoi innumerevoli in-
contri galanti. Vediamo il secondo:

Gabriele D’Annunzio, il sommo Vate, è stato grande amatore, grande trasgressore,


ma anche grande imbroglione e scroccone. Genio e sregolatezza, come lo descrissero i
biografi, Porco alato e geniale come si autodefiniva, vantandosi dei suoi vizi come delle
sue virtù. Bruttino, basso di statura e stempiato, nondimeno si sentiva bello, l’incar-
nazione del superuomo nietzschiano. Teneva un’accurata “contabilità” delle proprie
amanti, spesso nobili e/o facoltose, alla quali spillava quattrini; amava le donne, le
esaltava con versi sublimi e al tempo stesso le umiliava, le sfruttava. Inventore del
“lirismo poetico” in amore, diventò in età matura, uno squallido cantore del sesso
mercenario – le famose badesse di passaggio che ospitava, ultrasettantenne, nella villa
di Gardone –, pur avendo ancora fior di amanti che frequentavano il suo letto [161].

L’amore malato
Sono andato al mercato degli uccelli
E ho comprato degli uccelli
Per te
amore mio
Sono andato al mercato dei fiori
E ho comprato dei fiori
Per te
amore mio
Sono andato al mercato dei rottami
E ho comprato catene
Pesanti catene
Per te
amore mio
Poi sono andato al mercato degli schiavi
E ti ho cercata
Ma senza trovarti
amore mio
(Jaques Prévert, Per te amore mio, 2008)

La vera grande menzogna dell’amore è la gelosia. La gelosia non è


amore, non è nemmeno desiderio sessuale, è desiderio di possesso, è og-
gettificare, reificare l’altro, è «Dio me l’ha dato e guai a chi lo tocca», che

prio agio con il genere che gli è stato assegnato alla nascita”) – di costruirsi un’identità propria in cui
sentirsi a proprio agio, libero di esprimere qualsiasi desiderio, pensiero, fantasia.

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136 La verità sulla menzogna

deve essere mio anche se l’ho gettato in un angolo, se lo maltratto, se non


l’uso più, se lo lascio morire.
La gelosia (brama, desiderio di possesso, secondo il suo significato
letterale)5 viene fatta passare per amore – è un luogo comune che se non
c’è gelosia non c’è amore! –, un sentimento contro cui, paradossalmente,
Iago metteva in guardia Otello
Guardatevi, signore, dalla gelosia, è un mostro dagli occhi verdi che irride
il cibo di cui si nutre
il quale finisce per mostrare il suo vero volto di tiranno pronto a vendicar-
si di chi gli preferisce un altro: «O mia o di nessuno!».
Abbiamo accennato nel Cap. II che, a seguito delle recenti ricerche
archeologiche condotte da Marija Gimbutas [93], si è potuto stabilire che
intorno all’VIII-VII millennio a.C. la struttura sociale, almeno in una
vasta area dell’Europa centrale, era di tipo matrilineare, pacifica, senza
gerarchie e senza autorità. Verso il IV-III millennio a.C. questa società,
denominata gilanica, fu sopraffatta da tribù guerriere, a struttura patriar-
cale, provenienti dalla Siberia e dal Caucaso.
Il mito del matrimonio di Zeus con Metis, figlia di Oceano e Teti, per-
sonificazione della saggezza, che, incinta di Atena, viene ingoiata da Zeus,
che in tal modo unifica in sé le prerogative maschili e femminili, ma si
appropria anche di una prerogativa esclusivamente femminile – parto-
risce Atena, già adulta e armata, dalla testa –, a sancire il passaggio dal
matriarcato al patriarcato.
È così che si afferma il predominio dell’uomo sulla donna, che si “lega-
lizzano” gli stupri perpetrati degli dei (Zeus in primis) e, di conseguenza,
anche dagli uomini (vedi il ratto delle Sabine: uno stupro etnico nella
leggenda delle origini di Roma), si dogmatizza la superiorità dell’uomo
in ogni campo, relegando le donne al ruolo di “animali da fatica” (e come
tali trattate) o di “oggetti di piacere” (e come tali gettate via quando non
divertono più).

Nella mitologia greca, il passaggio dal matriarcato al patriarcato è segnato dal mito
di Teseo e Arianna: Teseo, eroe ateniese, si reca a Creta (ultimo baluardo della civiltà
matriarcale) per uccidere il Minotauro; lì viene aiutato da Arianna, figlia del re, che
gli dà un gomitolo di filo (il famoso filo di Arianna) da srotolare man mano che si
inoltra nel labirinto in modo da poter ritrovare la via del ritorno, una volta compiuta
la missione. Arianna, innamorata di Teseo, lo segue nella fuga da Creta ma lui, dopo

5 Gelosia deriva dal greco ζῆλος (zelos) che indica emulazione, brama, desiderio. “Stato emo-
tivo di dubbio e di tormentosa ansia di chi, con o senza giustificato motivo, teme (o constata) che la
persona amata gli sia insidiata da un rivale” (Treccani).

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Xi. Menzogna e sessualità 137

averla addormentata, l’abbandona sull’isola di Nasso segnando così lo scindersi delle


due culture e affermando la volontà di potere della società patriarcale, più recente
e bellicosa. Arianna sarà raccolta da Dioniso, che la sposerà permettendole così di
riappropriarsi della sua soggettività e tornare allo stato di gioiosa compartecipazione
con la natura della società matriarcale, dopo essere stata utilizzata come strumento,
oggettificata, da Teseo. [67].

Il primo livello di questo rapporto sbilanciato è evidenziato dall’in-


sieme dei divieti, degli obblighi e delle punizioni imposti alle donne: la
relegazione domiciliare, la mancanza di un ruolo sociale, lo ius corrigendi,
cioè il diritto del marito di “correggere” i comportamenti “errati” con
ingiurie, percosse, sottomissione; la negazione dei diritti, quali il voto e
l’istruzione, il precariato, il dislivello salariale e molto altro ancora. Di-
scriminazioni e abusi che, nei secoli, hanno alimentato nella donna stessa
sentimenti di autosvalutazione e di colpa, nonché la convinzione di essere
responsabile, con i propri presunti comportamenti provocatori o irrispet-
tosi, delle violenze subite.
Nonostante i grandi cambiamenti operati dai movimenti femministi,
di cui questo secolo è stato testimone, ancora oggi il problema della pa-
rità di genere è lontano da una soddisfacente soluzione; la violenza sulle
donne, in particolare la violenza domestica, è ancora poco denunciata o,
se denunciata, scarsamente considerata. Da psichiatri, troppo spesso ci
troviamo, nella quotidianità dei nostri ambulatori, ad affrontare casi di
disturbo post-traumatico da stress in donne che, a un’approfondita in-
dagine, risultano vittime di molestie, violenze sessuali o fisiche da parte
di estranei o, più frequentemente, da parte del partner o di altri membri
della famiglia. In altri casi si tratta di traumi multipli di entità non estre-
ma, fenomeni di esclusione sociale presenti fin dall’età scolare, discri-
minazione sul posto di lavoro, commenti sgradevoli, sessisti, o critiche
sull’aspetto fisico non corrispondente agli stereotipi del momento, che,
su soggetti suscettibili, non in grado di esternalizzare il proprio disagio,
possono scatenare disturbi psichici anche gravi. Ancora oggi pesa sulla
figura femminile lo stigma dell’inferiorità e della dipendenza dall’uomo
che sembra giustificare la violenza di genere.
La mitologia abbonda di figure femminili il cui aspetto seducen-
te, sensuale, viene reso mostruoso. Non è irragionevole pensare che,
alla base di questa trasformazione, possa esserci il timore dell’effet-
to del potere seduttivo femminile sia per gli uomini, che ne potreb-
bero venire irrimediabilmente catturati, sia per le donne stesse, ti-
morose del confronto, che non infrequentemente si ergono a giudici
contro le potenziali “rivali” ritenute colpevoli di essere seduttive, di ve-

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stirsi in maniera provocante, mettendo così a rischio la fedeltà dei propri


compagni.
A questo dobbiamo aggiungere che, nel nostro contesto culturale, se-
gnato dalla morale cristiana, in cui sulla donna è caduta la responsabilità
della colpa primigenia, accade generalmente che, complici sentimenti di
vergogna e di colpa, le vittime non si ribellino rinforzando nell’abusatore,
con il silenzio e la mancata condanna, la convinzione che i suoi abusi sia-
no socialmente legittimi e possa perciò continuare a perpetrarli. In questo
contesto non dovremmo meravigliarci se venissero messi in atto compor-
tamenti devianti e/o criminosi, dallo stalking, al cyberstalking, allo stupro,
al femminicidio.
La poesia di Ovidio [142] è capace di farci vivere il pathos dello stupro,
attraverso il mito di Apollo e Dafne, forse più di tante cronache.

Apollo, fiero di aver ucciso il serpente Pitone, se ne vanta con Cupido, il dio dell’A-
more, e lo irride, non ritenendolo adatto a portare arco e frecce. Cupido, per ven-
dicarsi, colpisce Apollo con la freccia d’oro, quella che fa innamorare, e con una di
piombo, quella che fa rifuggire dall’amore, la ninfa Dafne, di cui Apollo si invaghisce.
Dafne, che aveva rinunciato all’amore per dedicarsi alla caccia al seguito di Diana,
non appena vede Apollo, fugge finché, stremata, raggiunge le rive del fiume Peneo,
suo padre, invocandolo di far dissolvere il suo corpo. Così, mentre Apollo la rag-
giunge, lei si trasforma in un albero di alloro: il dio decide allora di rendere la pianta
sempreverde e di considerarla a lui sacra adornandosene la chioma, le cetra e la fa-
retra e facendone la pianta con cui incoronare condottieri e vincitori. Ma leggiamo
i versi di Ovidio:

Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire


impaurita, lasciandolo a metà del discorso.
E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,
spirandole contro gonfiava intorno la sua veste
e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli
rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino
non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore
lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo.
Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi;
questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto
d’averla presa, che la stringe col muso proteso,
quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi
evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.
Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto,
corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle
della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.

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Xi. Menzogna e sessualità 139

Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa


allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:
«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,
dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».
Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
il petto morbido si fascia di fibre sottili,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici,
il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia
e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.
E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,
sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,
o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;
e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante
intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.
Fedelissimo custode della porta d’Augusto,
starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,
anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!»
Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami

La cronaca riporta quasi quotidianamente episodi di stalking, vio-


lenze di genere, fisiche e sessuali, in tutte le possibili declinazioni e con
tutti i possibili esiti per le vittime, fino al femminicidio: comune de-
nominatore è la reificazione, poeticamente resa da Ovidio con la tra-
sformazione in pianta. L’oggettificazione – che traduce efficacemente
la drammaticità del quadro post-traumatico da stress che si realizza a
seguito dello stupro – si manifesta nei sintomi dissociativi, nella derea-
lizzazione, nell’appiattimento affettivo (numbing), che di fatto equival-
gono a trasformare la persona in “essere inanimato”, privo di anima,
per quanto ancora vivo com’è l’albero. A conferma dell’assoluta man-
canza di consapevolezza del grave danno psichico arrecato alla vittima
con il suo comportamento, Apollo elegge l’alloro a sua pianta sacra e si
adorna delle sue foglie. Ovidio, coerentemente con le concezioni ma-
schiliste di allora e che sono cambiate ben poco anche ai giorni nostri,
rende poetica una tragedia, lo stupro6. D’altronde non è forse lui stesso
a dire, nell’Ars Amatoria [143], vis grata puellae (la violenza è gradita

6 Alla fine di agosto del 2017 un “mediatore culturale” di una cooperativa sociale bolognese,
Abid Jee, ventiquattrenne crotonese, studente di giurisprudenza, ha così “commentato” su Facebook

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alla fanciulla)? Giustificando con ciò l’uso della violenza per superare le
resistenze e le ritrosie delle donne, quasi si trattasse di un gioco! Ed è
sempre lui a dire:
Alla mia donna un giorno,
se lo ricordo! Scompigliai le chiome vinto dall’ira.
Quanti giorni belli, tutti d’amore, mi costò quell’ira!
Per secoli, da Medusa in poi, la violenza di genere, lo stalking, lo stupro,
ipocritamente giustificati dall’amore (omnia vincit amor!), per quanto de-
scritti nella loro tragica realtà da artisti e poeti, non sono stati compresi
nel loro potenziale psicopatogenetico, nel loro impatto sull’equilibrio psi-
chico, non sono stati analizzati “dalla parte della donna”.
Lo stalker, spesso affetto da delirio erotomanico, deficitario nelle abilità
empatiche, non riesce a decodificare, intuire, sentire, comprendere, con-
dividere pensieri, sentimenti, emozioni e vissuti della vittima e risponde-
re in modo appropriato. Incapace di instaurare una vera relazione, intra-
prende tentativi di approccio maldestri, credendo di essere ricambiato7 e,
nella propria ossessione amorosa, finisce per mettere in atto comporta-
menti persecutori.

Il recente l’episodio di Torino vede un uomo (due volte ex, perché dopo una prima
separazione di circa quindici anni prima, i due si erano ri-sposati a Cuba nel 2014 per
separarsi nuovamente poco dopo), che gestisce con la ex moglie e i figli un bar, con un
leitmotiv di litigi, violenze, sfuriate, maltrattamenti, denunce.
L’uomo, arrestato l’8 marzo, Festa della Donna, dopo aver sparato al figlio che face-
va da scudo alla madre, salvo solo perché la pistola si è inceppata, il 10 marzo viene ri-
lasciato con il divieto assoluto di avvicinare i familiari. Rimessosi immediatamente in
cerca della moglie, la trova e la picchia e il 28 marzo è di nuovo in carcere. Rilasciato il
giorno dopo torna a perseguitare la famiglia; il 26 aprile, dopo un nuovo fermo, viene
mandato agli arresti domiciliari, che poche ore dopo viola ricominciando il compor-
tamento di stalking.

Le legge, generalmente, non può fare altro che diffidare questi sogget-
ti, imporre loro di mantenere una certa distanza fisica dalla vittima, ma
come controllare che queste diffide vengano rispettate?

il duplice stupro avvenuto pochi giorni prima a Rimini: «Lo stupro? Peggio solo all’inizio, una volta si
entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale»!
7 Nel delirio erotomanico o sindrome di Clerambault, il paziente è infondatamente convinto

che una persona (nella forma classica una persona famosa o di rango più elevato) sia innamorata di
lui e che non manifesti il suo amore perché impedita da qualcosa o qualcuno. In casi estremi può
giungere anche a uccidere la persona amata e/o chi ostacolerebbe il loro amore.

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Xi. Menzogna e sessualità 141

Chi non ricorda il caso di Lucia Annibali, avvocato trentacinquenne, fatta sfregia-
re con l’acido da due albanesi dall’ex fidanzato, Luca Varani, anch’egli avvocato, nel
2013? Lucia aveva rotto il rapporto con lui, che aveva un’altra donna, una fidanzata
“storica”, all’epoca in attesa di un figlio; di fronte alla determinazione della ragazza,
che si era sottratta al suo dominio fisico e psicologico, l’amore (?) si trasforma in odio
distruttivo e, dopo aver fallito un tentativo di ucciderla manomettendole il gas di casa,
Varani si affida a due sicari che le gettano addosso dell’acido solforico.
Più recente è il caso di Gessica Notaro, la ventottenne riminese che il 10 gennaio
del 2017 è stata sfregiata con l’acido dall’ex compagno capoverdiano al quale, pochi
mesi prima, pur a seguito di circostanziate denunce, il GIP non aveva dato la custodia
cautelare come richiesto dal PM.

Lucia e Gessica sono solo la punta di un iceberg fatto di violenze e


soprusi, magari non così clamorosi ma non meno dolorosi, da parte di ex-
partner “innamorati” che non hanno accettato la fine della loro relazione,
ma che sono anche il gradino più prossimo al femminicidio, al «non sarai
di nessun altro!».
Femminicidio, parola brutta, cacofonica, individua una specifica cate-
goria criminologica caratterizzata dal delitto contro una donna in quanto
donna: il genere della vittima è il movente. Certamente non frequente (ri-
spetto alla globalità degli omicidi), è comunque un fenomeno gravissimo
il cui verificarsi richiede il concorso quantomeno di una grave psicopatia,
se non di una malattia mentale conclamata.

Sessualità e disabilità
Disabilità non significa inabilità.
Significa semplicemente adattabilità.
(Chris Bradford. Young samurai. 2009)

L’idea che un soggetto portatore di handicap possa avere desideri e


pulsioni sessuali forse potrebbe turbare per una sorta di pregiudizio “este-
tico”, quello di associare la sessualità, i gesti dell’amore, a bellezza e per-
fezione fisica – verosimilmente residuo dell’estetismo di matrice greca.
Se ci guardiamo intorno, tuttavia, non abbiamo certamente difficoltà a
renderci conto che sono numerosissime le coppie esteticamente non gra-
devoli o “mal assortite”, ma socialmente accettate e riconosciute. Lo stes-
so non avviene nei confronti di coppie i cui membri (o uno di essi) siano
portatori di handicap.
Da qualche anno, tuttavia, si è incominciato a non negare il diritto a

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142 La verità sulla menzogna

una vita sessuale dei portatori di disabilità e, a sostegno di questo diritto,


sono sorte associazioni che si occupano di questa realtà. D’altra parte, già
dal 1997, il protagonista dei romanzi di Jeffery Deaver, Lincoln Rhyme,
tetraplegico perché colpito da una trave che gli aveva fratturato la quar-
ta vertebra cervicale, oltre a continuare il suo lavoro di investigatore dal
proprio appartamento, trasformato in laboratorio criminologico, ama, ri-
amato, l’agente ex-modella Amelia Sachs, avendo con lei una vita sessuale
attiva.

È del 2012 il film The Sessions, di Ben Lewis, che racconta la storia vera del poeta Mark
O’Brian – basata su un suo articolo On Seeing a Sex Surrogate –, tetraplegico a causa di
una poliomielite contratta da bambino, costretto a vivere in un polmone d’acciaio. A
38 anni, rendendosi conto di essere vicino alla morte e di non aver mai fatto sesso, ne
parla con il suo sacerdote e, aiutato dal personale che provvede a lui, entra in contatto
con Cheryl, un’assistente sessuale, con la quale riesce a fare sesso. Tra i due nasce un
rapporto sentimentale per cui gli incontri vengono interrotti anche per l’intervento
del marito di Cheryl il quale accetta il lavoro della moglie ma è geloso dei sentimenti
che scopre, in una lettera di Mark, essere sorti fra i due.

Barbara Garlaschelli [91], nel libro Non volevo morire vergine, raccon-
ta la propria esperienza di donna diventata tetraplegica a 15 anni dopo un
tuffo in mare: «Niente – scrive – dovrebbe restare vergine. Nessuna vita,
nessuna pagina bianca, nessun pensiero, nessun luogo» e sottolinea come,
ancora oggi, la sessualità, l’affettività dei disabili sia ancora un tabù. In re-
altà, continua, «i disabili sentono impulsi, desideri, esattamente come i non
disabili, non sono angeli né esseri asessuati né persone solo da accudire».
Animata dalla voglia di vivere (non di sopravvivere), Barbara è riuscita,
nonostante gli ostacoli, a realizzare se stessa laureandosi e pubblicando
libri «Ho capito di poter essere amata, desiderata e di poter amare. Mi sono
sentita completa, pur nelle mie mancanze: mai mi sarei immaginata che
avrei avuto un marito».
Naturalmente, se in generale la vita sessuale dei disabili è complicata,
forse più sul piano concettuale che su quello pratico, ci sono le debite ec-
cezioni: quella più affascinante riguarda un personaggio universalmente
conosciuto, il cosmologo, fisico, matematico e astrologo inglese Stephen
William Hawking, uno dei più autorevoli fisici teorici.

Nato nel 1942, nel 1963 gli fu diagnosticata una malattia degenerativa del motoneuro-
ne che, a detta dei medici, gli avrebbe lasciato due anni di vita. Continuò comunque
gli studi e si sposò con Jane Wilde, che gli fece da infermiera e dalla quale ebbe tre figli.
Dagli anni ottanta è costretto all’immobilità ed ha necessità di assistenza 24 ore su
24. Nel 1985, a seguito di una polmonite, è stato tracheotomizzato in maniera perma-

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Xi. Menzogna e sessualità 143

nente e parla per mezzo di un sintetizzatore vocale. Dal 2011 può scrivere mediante
un computer, grazie a un sistema di riconoscimento facciale che trasforma in parole i
movimenti minimi della bocca, della guancia destra, delle sopracciglia e i movimenti
oculari trasmessi mediante un sistema di infrarossi. Nel 2013 è stato aggiunto a questo
sistema uno scanner cerebrale (di cui al momento non ha bisogno) che dovrebbe so-
stituire l’eventuale perdita dei movimenti oculari.
Nel 1977 il matrimonio entrò in crisi perché Jane iniziò una relazione con Hellyer
Jones, che rimase a lungo platonica.
Nel 1990 Hawkings iniziò una relazione sentimentale con Elaine Mason, sua in-
fermiera personale e moglie dell’inventore del sistema di comunicazione usato dallo
scienziato, nel 1991 se ne andò di casa e nel 1995 divorziò da Jane e sposò Elaine
(«È meraviglioso. Ho sposato la donna che amo»). Nel 2004 furono aperte indagini per
una serie di indizi che facevano pensare che Hawkings fosse oggetto di maltrattamen-
ti, si pensò a una sindrome di Münchhausen per procura e furono indagate Elaine e al-
tre infermiere: lo scienziato sostenne di essere caduto accidentalmente e la cosa finì lì.
Nel 2006 divorziò da Elaine e riprese rapporti stabili con Jane e i figli.
Nel 2014 è uscito il film La teoria del tutto, di James March tratto dalla biografia
scritta dalla ex-moglie Jane, Travelling to Infinity: My Life with Stephen.

La vita affettivo-sessuale di Hawkings era iniziata, in realtà, agli esordi


della sua malattia, che solo circa quindici anni dopo il matrimonio, negli
anni ’80, lo costrinse all’immobilità e all’assistenza continua (i suoi tre
figli erano nati prima dell’80). La relazione e il matrimonio con Elaine si
collocano invece nella fase conclamata della malattia.
I tre casi cui abbiamo accennato rappresentano certamente delle ecce-
zioni perché eccezionali sono i protagonisti: la maggior parte dei disabili
sono costretti a vivere la loro vita senza relazioni affettive e sessuali per
tutta una serie di ostacoli soprattutto psicosociali, e moralistici, oltre che
economici.
Il problema dell’assistenza sessuale (che non è necessariamente e solo
genitale, ma comprende anche carezze, gioco, conoscenza del corpo, ecc.)
è stato affrontato in diversi Paesi europei (Germania, Olanda, Svizzera,
Danimarca, Austria) e risolto giuridicamente attraverso corsi di forma-
zione, diplomi, revisione etica, assistenza economica, per evitare che, in-
vece di portare a una crescita del disabile, si riduca a un surrogato della
prostituzione. In Italia si incomincia appena oggi a prendere coscienza
del problema.

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Xii. L’autoinganno

Ricordate sempre,
per quanto siate sicuri di poter vincere con facilità,
non ci sarebbe una guerra se l’altro non fosse
altrettanto convinto di poter avere la meglio.
(Winston Churchill)

Proviamo a fare un test, una sincera riflessione su noi stessi risponden-


do alle domande sottostanti, tanto siamo solo noi e il libro e non lo saprà
nessuno.

– penso che, nella mia professione, siano pochi i colleghi che ritengo migliori di me, più
intelligenti, più capaci
– spesso mi capita di pensare che, in fondo, sono bello/a, attraente
– sono pochi quelli con i quali temo il confronto
– mi sembra che fra i miei colleghi ce ne siano pochi che meriterebbero una posizione
migliore della mia
– sessualmente sono molto attivo/a e bravo/a
– i miei figli sono sopra alla media rispetto ai loro coetanei come intelligenza/bellezza/
capacità atletiche/bontà/simpatia
– il mio rapporto di coppia è migliore rispetto a quello degli altri
– la mia capacità di guida è certamente migliore rispetto a quella degli altri
– se mi impegno in qualcosa riesco a portarla a termine con successo
– penso di essere più bravo/a degli altri negli affari.

Potremmo anche andare avanti, ma può bastare.


A quante domande avete risposto “sì”? A più del 50%? Complimenti!
Siete in linea con la tendenza generale a mettersi sotto una luce favorevole.
A più dell’80%? Il vostro livello di autoinganno è piuttosto alto ma non
necessariamente è una cosa negativa.
Siamo tutti un po’ Narciso, tendiamo a sopravvalutarci – e per con-
seguenza a sottovalutare il prossimo, che è il nostro termine di paragone
– ma questo, entro certi limiti, è positivo, ci spinge ad affrontare le diffi-
coltà, a non arrenderci ed è utile per noi e per la specie: il mondo è andato
avanti non per coloro che si tiravano indietro tremebondi ma grazie a chi,
magari con un po’ d’incoscienza, si è buttato nella mischia. Molti avranno

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146 La verità sulla menzogna

fallito ma quei pochi che hanno avuto successo hanno arricchito l’umani-
tà e forse si deve a loro se la nostra specie non si è estinta.
Come abbiamo appena detto, il narcisismo è positivo, ma entro certi
limiti, altrimenti si scade nel ridicolo o, peggio, nel tragico. In molti, ad
esempio, abbiamo riso davanti alle esibizioni grottesche, talora pietose, di
dilettanti senza talento a caccia di notorietà, “allo sbaraglio” in trasmis-
sioni televisive che, nonostante questo, e grazie al pubblico che ne rideva,
hanno avuto successo, così come ci è capitato di vedere persone convinte
di avere capacità imprenditoriali, dilapidare grandi fortune in imprese
improbabili.

La tendenza a ingannare se stessi è molto diffusa e spesso va oltre il ragionevole. Dan


Ariely [8] riporta di aver sottoposto a un test un gruppo di studenti, alla metà dei
quali aveva concesso di vedere le risposte giuste; questi ultimi, com’era prevedibile,
ottennero risultati migliori rispetto agli altri. Qualche tempo dopo, in occasione di un
nuovo test, fu chiesto agli stessi studenti se volessero scommettere sul risultato, senza
però conoscere prima le risposte: convinti, sulla base dei risultati del test precedente,
di essere molto intelligenti, puntarono forte su se stessi... e mal gliene incolse!

Nell’opinione comune la salute mentale coincide con il rapporto equi-


librato e corretto con la realtà, senza quelle distorsioni che servono a farla
coincidere con i propri desideri. Di fatto, però, le cose non stanno pro-
prio così. Chi lavora con pazienti affetti da gravi patologie fisiche, anche
a rischio di morte imminente, può testimoniare che, contro ogni logica,
una buona percentuale di loro è convinta di guarire ed è progettuale nei
confronti del proprio futuro. Questo è vero anche per le persone sane
che guardano la realtà attraverso un filtro ottimistico, interpretando gli
avvenimenti in modo da fornire a se stessi immagini positive di sé (au-
toinganno positivo), del mondo, del futuro: si raccontano delle bugie che,
però, funzionano [176] e alla fine vivono più felici e anche più sani.
In teoria tutti siamo propensi a vedere gli altri simili a noi, ma in
realtà, se grattiamo un po’ la vernice sociale, emerge un sentimento di
diversità, di superiorità rispetto agli altri. È innegabile, inoltre, che per
quanto si possa essere coscienti dei possibili autoinganni, si finisce per
essere convinti che non riguardano noi, che noi siamo obiettivi verso
noi stessi e che, semmai, sono gli altri che non lo sono (autoinganno di
superiorità).
L’autoinganno ottimistico è alla base della fiducia in noi stessi e si pro-
ietta anche sul modo di immaginare il nostro futuro. Se domandate a dei
giovani studenti come pensano possa svilupparsi la loro vita, è facile che
riferiscano di pensare che si laureeranno con buoni voti, troveranno un
lavoro gratificante e ben remunerato, si formeranno una famiglia felice

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Xii. L’autoinganno 147

e solida che reggerà fino alla vecchiaia senza gravi problemi. Il destino
dell’autoinganno ottimistico può essere presente anche nel breve e medio
periodo quando riteniamo di essere capaci di metterci a dieta o di fare
attività sportiva, di smettere di fumare o di bere o, ancora, di metterci in
pari con il lavoro: il nostro comportamento passato (sovrappeso, alcol,
fumo, scarsa applicazione al lavoro e quant’altro) ha scarso, o nullo, peso
sulla previsione del comportamento futuro.
Un altro autoinganno positivo comune è quello del controllo, la con-
vinzione, cioè, di poter influire con la nostra abilità su cose che, in realtà,
sono totalmente fuori da tale possibilità. È una tendenza comune, infatti,
quella di ritenere che le nostre decisioni siano fondamentali nel plasmare
la realtà.
Nel corso di uno stage per trader di una banca, i soggetti furono messi di fronte a com-
puter sui cui schermi una linea simulava l’andamento dei titoli azionari. Fu detto loro
che premendo una serie di tasti, avrebbero influenzato l’andamento dei titoli azionari
come mostrato nella linea: gli stagisti premettero i tasti e furono tutti soddisfatti per
aver spostato verso l’alto la linea, cioè il valore dei titoli... ma quei tasti non erano
collegati al computer!

Per contro, quando le cose non vanno bene, siamo pronti a scarica-
re le nostre responsabilità sugli altri o sulle circostanze – se finiamo con
la macchina contro un muro, è il muro che «d’improvviso ci si è parato
davanti!».
L’autoinganno, entro certi limiti, non è necessariamente un elemento
negativo perché, se non fossimo in grado di autoingannarci circa la ca-
pacità di controllare il nostro destino, avremmo come alternative un’in-
sicurezza paralizzante o rituali ossessivo-compulsivi di rassicurazione.
Dobbiamo riconoscere che l’autoinganno ha avuto certamente un ruolo
positivo nella sopravvivenza dell’individuo e della specie: come avrebbe
potuto l’uomo sopravvivere in un ambiente ostile come quello primor-
diale senza una buona dose di autoinganno? Senza le illusioni positive sa-
remmo più tristi, meno dinamici, meno pronti ad accettare le sfide: sono
loro il carburante che alimenta la creatività, le motivazioni, le aspirazioni
più alte [176].
Abbiamo detto che la maggior parte delle persone tende a esercitare
un certo grado di autoinganno, a creare illusioni positive e questo, tutto
sommato, ha in generale un valore positivo poiché rappresenta una buona
base per affrontare gli eventi della vita con una discreta probabilità di suc-
cesso. Ad esempio, da studi condotti sul rendimento degli atleti è emerso
che, a parità di condizioni fisiche e atletiche, coloro che riuscivano ad
autoconvincersi di essere bravi avevano maggiori probabilità di vincere:

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148 La verità sulla menzogna

erano quelli che, nel gergo degli allenatori, pensavano da campioni.


Questo non avviene solo nello sport ma anche nella scuola, negli affari
e, come abbiamo accennato, nella salute. È stato dimostrato, ad esempio,
che studenti che si presentavano a colloqui di ammissione a una nuova
scuola affermando di avere dei voti medi superiori a quelli reali, se am-
messi, finivano per migliorare le loro prestazioni fino a ottenere i risultati
dichiarati: in pratica convincevano non solo gli altri ma anche se stessi di
qualcosa che ancora non era vera ma che, alla fine, lo sarebbe diventata.
In ambito economico, le illusioni positive sono essenziali. Secon-
do Nye [139], l’economia di un Paese ristagna quando gli imprenditori
sono troppo razionali e prudenti; affinché l’economia prosperi, è neces-
sario che vi sia una buona percentuale di quelli che egli chiama sciocchi
fortunati, cioè imprenditori ottimisti, al limite irresponsabili, disposti a
correre rischi: se non ci fossero loro, pronti a seguire il proprio istinto
più che le opinioni correnti, non ci sarebbero grandi innovazioni, impor-
tanti sviluppi creativi. Certamente non tutti coloro che sognano successi
travolgenti li realizzeranno; alcuni falliranno, altri realizzeranno impre-
se mediocri, ma qualcuno creerà imprese eccezionali che spingeranno il
progresso. Lo stesso vale in altri campi, nella scienza come nell’arte, fra gli
illusi che vi si impegnano, qualcuno farà la scoperta del secolo o scriverà il
romanzo assoluto. Come sosteneva George B. Shaw [175],
l’uomo ragionevole adatta se stesso al mondo, quello irragionevole insiste
nel cercare di adattare il mondo a se stesso. Così il progresso dipende dagli
uomini irragionevoli.
Nelle aziende può accadere che soggetti molto sicuri di sé facciano più
facilmente e rapidamente carriera perché danno una maggiore sensazio-
ne di competenza e, se sono promossi, acquistano ancor più sicurezza e
possono raggiungere i vertici della scala gerarchica; costoro, in genere,
tendono a scegliere collaboratori con le loro caratteristiche creando dire-
zioni aziendali di soggetti ipersicuri di sé1.

Un personaggio cui non mancava certamente una forte autostima è Dante che, a detta
del Boccaccio, era piuttosto superbo e aveva un’alta opinione di sé, come testimonia
l’episodio che egli stesso riferisce: si doveva nominare il capo di una delegazione di-
plomatica da inviare a Roma per trattare cose importanti con il papa; all’unanimità
fu scelto Dante il quale accolse la notizia con non poca perplessità dicendo agli amici
«S’io vo’, chi resta? E s’io resto, chi va?» a dire che riteneva di essere, a Firenze, il per-
sonaggio di maggior valore.

1 A volte, però, capita il contrario, si circondano di nullità per avere il dominio assoluto.

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Xii. L’autoinganno 149

Esistono persone prive di illusioni positive, con una percezione nega-


tiva di sé, delle proprie capacità di controllo sulle cose e sul futuro? Certa-
mente esistono soggetti pessimisti, con scarsa autostima, che trovano dif-
ficoltà nell’affrontare i problemi, che pensano di non avere possibilità di
successo e tutto andrà storto, che non incontreranno mai qualcuno a cui
piacere, che il «futuro non sarà migliore del passato», che hanno alle spalle
più insuccessi che successi e che tirano avanti senza entusiasmo. Alcuni
psicologi hanno definito questa visione della vita realismo depressivo rite-
nendo che sia una visione più realistica di quella che ha la maggior parte
delle persone2.

Depressione e Mania
Le sorgenti dell’umore sono straordinariamente oscure
e talvolta rimango sbalordito davanti a ciò che scopro
scaturire da esse, davanti alle idee e agli atteggiamenti
che si presentano, già del tutto formati, agli occhi della mente.
(Patrick O’Brian, Il porto del tradimento, 1983)

Nel disturbo depressivo maggiore l’autoinganno è patologicamente


cristallizzato verso il polo negativo. Nelle forme meno gravi, i soggetti
non si sentono capaci, non rievocano con nostalgia un passato in cui non
riescono a vedere nulla di positivo, non si sentono in grado di affronta-
re compiti di responsabilità ed eseguono con difficoltà e sforzo anche i
normali, banali, routinari compiti della vita quotidiana. Nelle forme più
gravi, vivono il loro passato come pieno di errori, difficoltà e sconfitte
(fino al delirio di colpa e di rovina): non sarebbero mai stati all’altezza
dei compiti loro assegnati e se hanno avuto dei riconoscimenti è stato
solo per la benevolenza degli altri e non per le loro capacità; non provano
interesse per nessuno e per nulla, tutto sembra loro inutile, senza signi-
ficato; si sentono aridi, incapaci di provare sentimenti (sentimento della
perdita dei sentimenti) e soffrono intensamente per questo; vivono il loro
corpo come un peso inutile, se non malato quando non addirittura morto
(delirio ipocondriaco e delirio nichilistico di Cotard); il futuro non esiste, il
tempo si è bloccato in un presente immutabile, doloroso, privo di signifi-
cato, che può trovare sollievo solo nella morte.

2 Dal punto di vista clinico, è verosimile che questi soggetti soffrano piuttosto di distimia

(o, secondo il DSM-5, di disturbo depressivo persistente), una forma depressiva a esordio precoce e
decorso protratto.

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150 La verità sulla menzogna

Secondo gli psichiatri il depresso distorce la realtà, la vive in chiave


pessimistica, drammatica se non, addirittura, tragica; gli psicologi riten-
gono, invece, che non si autoinganni abbastanza!
Al polo opposto, anche l’eccesso di autoinganno può riconoscere una
base patologica che orienterà la sicurezza eccessiva verso obiettivi non
realistici, affrontati con strumenti e modalità incongrue, per la compro-
missione della capacità di critica e di giudizio. Il soggetto bipolare in fase
maniacale appare sospinto da un’incontenibile, inesauribile e afinalistica
energia, guidato da un ingiustificato ottimismo, sentendosi enormemente
ricco, potente, seduttivo, capace di tutto, proiettato in un futuro meravi-
glioso: al più è infastidito da (o irritato con) quanti non credono nelle sue
capacità e nei suoi poteri, da quanti cercano di limitare le sue iniziative,
criticare od ostacolare i suoi progetti, considerandolo, infine, ammalato
o pazzo. Il soggetto però non demorde: se, da una parte, questi ostacoli
sono irritanti, da un’altra sono proprio gli impedimenti che gli altri cer-
cano di porgli, che lo convincono, se ce ne fosse bisogno, di essere oggetto
di invidia a causa della propria grandezza per la quale gli altri lo persegui-
tano e tramano contro di lui, tacciandolo di follia.

Esiste anche un disturbo bipolare II nel quale la fase espansiva non raggiunge i pic-
chi della mania ma si ferma alle più moderate elevazioni dell’umore, dell’energia e
dell’attività dell’ipomania (che, naturalmente, si alternerà nel suo decorso con episo-
di depressivi). L’ipomania può talora non essere svantaggiosa in senso stretto, le ca-
pacità di critica e di giudizio possono non essere compromesse e, per alcuni soggetti,
è una fase decisamente positiva, ricca di idee e di iniziative non necessariamente
irragionevoli.
Possiamo citare, a titolo di esempio, un paziente, Sergio, che è entrato in contatto
con noi nel corso di un marcato episodio depressivo all’età di circa cinquant’anni. La
sua storia era caratterizzata da fasi ipomaniacali, durante le quali aveva avviato impre-
se commerciali, aziende e quant’altro che anticipavano il trend del settore ed avevano
successo. Il problema era che ne era lui a capo e regolarmente accadeva che, quando
sopravveniva la fase depressiva, non c’era nessuno che potesse sostituirlo nella gestio-
ne dell’impresa e perciò o questa andava rapidamente in rovina o, nel migliore dei
casi, la svendeva per liberarsene.

Depressione e mania, espressioni contropolari del disturbo bipolare,


hanno in comune l’autoinganno, ma troviamo espressioni patologiche di
autoinganno anche in altre condizioni. Abbiamo accennato all’autoin-
ganno ottimistico relativo alle condotte di dipendenza, quando sostenia-
mo, convinti, di non aver problemi a smettere di fumare o assumere dro-
ghe, di giocare d’azzardo o bere; e autoinganno non manca certamente
nei disturbi di personalità, da quello narcisistico a quelli borderline, anti-
sociale, e istrionico. Lo troviamo meno nel disturbo ossessivo-compulsivo,

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Xii. L’autoinganno 151

nel quale l’incapacità di controllo è affidata alla ripetitività dei rituali o,


carente, nel disturbo di panico in cui la paura infondata di morire o di
impazzire scatena l’ansia anticipatoria e le conseguenti condotte di evi-
tamento. E che dire dei disturbi della condotta alimentare in cui l’au-
toinganno si esprime, da un lato con l’ipercontrollo dell’alimentazione
nell’anoressia nervosa, dall’altro con il discontrollo, come nella bulimia
o nel disturbo da binge-eating.

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I. La menzogna e il mentitore 153

Xiii. La paura della paura

Siamo tutti spettacolari. Siamo tutti timidi.


Siamo tutti in grassetto. Siamo tutti eroi.
Siamo tutti impotenti. Dipende solo dal giorno.
(Brad Meltzer)

La storia dell’umanità ci insegna che l’uomo si è posto di fronte al


mondo con un atteggiamento attivo, propositivo, animato da una spinta
verso la conoscenza che lo ha portato, tra errori e fallimenti, dalle ca-
verne all’esplorazione dello spazio, dal dare un significato comunicativo
a semplici fonemi al formulare sofisticate elaborazioni filosofiche, dal
vivere l’altro in funzione della sopravvivenza individuale e della specie
all’organizzazione di sistemi sociali complessi che regolano la vita di mi-
liardi di persone. Questa spinta, questa “ansia di conoscenza”, condivide
le stesse radici da cui, attraverso varie tappe, possono svilupparsi i distur-
bi d’ansia1.
L’ansia è uno stato emotivo così comune nell’uomo da poter essere
ricondotto alla fisiologica spinta alla conoscenza, a fare un passo oltre il
punto in cui siamo giunti, a dare un’occhiata a ciò che potrebbe esserci
“dietro l’angolo”, “oltre le Colonne d’Ercole”, nell’esplorazione non solo
del mondo fisico ma anche di quello nostro interiore, dei lati oscuri del
nostro essere.

Prototipo dei soggetti con elevati tassi temperamentali di ricerca del nuovo (novelty
seeking) può essere considerato Ulisse: nella tradizione latina (Virgilio, Ovidio, Ora-
zio, Cicerone e altri), l’ansia di ricerca spinta ai suoi limiti era considerata la caratte-
ristica positiva dell’eroe omerico il quale, dopo il ritorno a Itaca, spinto dalla sete di

1 Abbiamo premesso (Cap. VII) che “il rapporto tra malattia mentale e menzogna è certa-

mente molto più complesso di quanto non lo sia in altri aspetti della vita” e abbiamo anche ribadito
che la definizione generalmente accettata di menzogna – Affermazione contraria a ciò che è o si
crede corrispondente a verità, pronunciata o propalata con l’intenzione esplicita di ingannare [125]
– mal si attaglia alla maggior parte dei disturbi psichici. In realtà, abbiamo visto (Cap. IV) che, il
vasto e articolato mondo della menzogna, accoglie numerose “non verità” che pur non rispondendo
pienamente ai criteri canonici, fanno parte anch’esse di quel mondo e si attagliano perfettamente
all’ambito della psicopatologia.

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154 La verità sulla menzogna

conoscenza, aveva ripreso il mare ed era giunto al limite del mondo conosciuto, le
colonne d’Ercole. Dante (canto XXVI dell’Inferno) ce lo descrive a questo punto del
suo viaggio mentre cerca di motivare i propri compagni ad andare avanti, a spingersi
oltre i limiti, per scoprire “cosa c’è di là”:
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”
Paradossalmente, Dante lo mette nell’Inferno per aver ignorato i limiti posti alla
natura umana.

Sul versante opposto troviamo soggetti in cui prevale, al contrario, evi-


tamento del rischio (harm avoidance), caratterizzati da una marcata re-
attività (arousal) a un numero maggiore di stimoli, insicurezza, tendenza
alla sensitività e alla colpa.
L’ansia patologica è un’ansia ontologica2, che si esprime attraverso
la paura dell’ignoto, di una minaccia indefinita per la nostra sicurezza e
finanche per la nostra vita, che ci atterrisce, ci annienta, ci fa sentire to-
talmente indifesi, inermi, vittime destinate al sacrificio. È accompagnata
da una sensazione soggettiva di tensione, apprensione, nervosismo, in-
quietudine, ed è associata ad attivazione del sistema nervoso autonomo
(aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, della pressione arterio-
sa ecc.), con stati estremamente spiacevoli, dolorosi e disturbanti, che
stimolano il soggetto a mettere in atto meccanismi comportamentali di
adattamento per evitare o ridurre queste sensazioni.
I disturbi d’ansia si caratterizzano per la presenza di sentimenti di an-
sia e/o di paura e di un corteo piuttosto ampio ed eterogeneo di sintomi
somatici e psichici. Ansia e paura hanno significati diversi: la paura è la
risposta a una minaccia imminente (reale o percepita come tale) in pre-
visione di una lotta o di una fuga; l’ansia è l’anticipazione di un’ipotetica
minaccia futura, sconosciuta, ed è associata a una sensazione soggettiva
di tensione, apprensione, nervosismo, inquietudine, e si accompagna ad
aumento della vigilanza e comportamenti di prudenza o di evitamento.

2 Il soggetto si sente in uno stato di continuo pericolo e questo provoca una perdita di con-
tatto con la realtà. 

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Xiii. La paura della paura 155

A prescindere dalla sintomatologia ansiosa di fondo, variamente de-


clinata, sul versante sia psichico che somatico, ognuno dei diversi disturbi
d’ansia3 presenta caratteristiche specifiche che servono per connotarlo ri-
spetto agli altri. Per tutti, rimane fermo il concetto che l’oggetto cui fanno
riferimento l’ansia e la paura è sempre uno stimolo, cui la mente del sog-
getto attribuisce significati e valenze che non gli sono propri o, comun-
que, vanno ben al di là delle sue caratteristiche.
Se prendiamo come esempio la fobia specifica, l’elemento portante è
la paura irrazionale, sproporzionata rispetto allo stimolo che la provoca
al punto da suscitare meraviglia nell’osservatore, che non si capacita di
come un qualcosa che lui, da persona razionale, giudica innocuo, possa
scatenare in qualcuno delle reazioni di angoscia, di paura e di sofferenza
marcata. Tant’è che l’interlocutore occasionale, quando non ci scherza
sopra, può sentirsi autorizzato a spiegare al paziente in preda al terrore
che l’oggetto della sua paura è assolutamente innocuo, non può in alcun
modo arrecargli danno: ma il fobico questo lo sa benissimo ed è anzi il
fatto di saperlo che rappresenta una componente rilevante della sua sof-
ferenza! Come tutti i pazienti non psicotici (che non hanno, cioè, perso
il contatto con la realtà oggettiva), il fobico sa perfettamente che la sua
paura è del tutto irrazionale, e nondimeno non è in grado di controllarla.

I possibili stimoli fobici sono moltissimi e per molti di essi è stato anche coniato un
nome specifico, generalmente derivato dal greco e spesso così complicato o astruso
da essere incomprensibile: vi dice qualcosa la parola hexakosioihexekontahaxafobia?4.
Forse la fobia degli animali – da quelli molto piccoli come ragni e insetti in genere,
topi, lucertole, a quelli più grandi, quali serpenti, gatti e cani – è fra le più frequenti,
ma non rara è quella degli ambienti chiusi – ascensori, aerei, gallerie e ponti e altro
ancora – o elevati o aperti; a queste fobie possiamo aggiungere quella del sangue, delle
iniezioni, delle malattie, degli agenti atmosferici – soprattutto lampi e tuoni – e tante
altre ancora.
Molte di queste fobie specifiche si trovano anche nel contesto del disturbo ossessivo-
compulsivo (DOC), con la differenza che, nel fobico l’ansia si attiva in presenza dello
stimolo o nella previsione di doverne venire in contatto, mentre nel DOC è legata

3 Il sistema di classificazione diagnostica più comunemente impiegato, il DSM-5 [5], distin-


gue, nel disturbo d’ansia, cinque quadri clinici specifici, la fobia specifica, la fobia sociale (o disturbo
d’ansia sociale), il disturbo di panico, l’agorafobia e il disturbo d’ansia generalizzata (GAD). Nell’e-
dizione precedente comprendeva anche il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e il disturbo post-
traumatico da stress (PTSD) a ciascuno dei quali è stato dedicato un capitolo autonomo per delle loro
caratteristiche specifiche.
4 È la paura persistente (e ingiustificata) del numero 666, quello con cui, nell’Apocalisse, si
indica Satana o l’Anticristo. Ronald Reagan e sua moglie Nancy cambiarono casa per evitare quel
numero e la compagnia telefonica dell’Honduras, dietro la pressione degli abitanti, prevalentemen-
te cattolici, dovette cambiare il prefisso telefonico della città El Progreso da 666 a 668.

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156 La verità sulla menzogna

all’anancasmo (ἀναγκασμός: costrizione, necessità) che obbliga l’ossessivo, a pensare/


fare indipendentemente dalla presenza di uno stimolo specifico, e a mettere in atto
compulsivamente comportamenti, rituali di (pseudo)difesa (che mancano, invece, nel
fobico).
Va da sé che le manifestazioni cui il paziente va incontro in caso di esposizione ai
suoi stimoli fobici possono variare anche notevolmente da soggetto a soggetto e anche
in rapporto al tipo di fobia (ad esempio, chi ha la fobia del sangue, è più facile che
vada incontro a episodi lipotimici in occasione di un prelievo ematico, mentre chi ha
la paura dei cani, presenterà agitazione e comportamenti di fuga).

Gli stimoli fobici sarebbero, in alcuni casi, il risultato di un apprendi-


mento condizionato da esperienze traumatiche dirette o indirette – essere
stati morsi da un cane, o rimasti chiusi in un ascensore o altre esperienze
del genere –, ma molto più spesso il soggetto non ha vissuto esperienze di
questo tipo (anche perché, ad esempio, ragni o comuni insetti non hanno
certamente le potenzialità di traumatizzare qualcuno), semmai possono
essere chiamati in causa fattori ambientali e culturali e, soprattutto, la pre-
senza di una predisposizione familiare5. Secondo gli etologi, lo sviluppo
di reazioni fobiche avrebbe avuto un ruolo nel garantire la sopravvivenza
e sarebbe entrato perciò a far parte del nostro patrimonio genetico. In un
mondo pieno di pericoli, solo in piccola parte conosciuti e perciò evitabili
razionalmente, era certamente buona regola evitare tutto ciò che non fos-
se conosciuto, almeno finché qualcuno, non ne avesse escluso l’effettiva
pericolosità. La fobia specifica sarebbe dunque la patologizzazione di un
comportamento fisiologico, la reazione allo stress: pur avendo il soggetto
perfettamente coscienza che lo stimolo fobico non sia pericoloso, questo
non è sufficiente a impedire ai meccanismi dello stress di attivarsi come di
fronte a un pericolo reale.
Una fobia specifica particolare è la fobia sociale (o disturbo d’ansia
sociale), tanto speciale da meritarsi una propria autonomia diagnostica6.
In effetti, oltre che per il particolare stimolo fobico, il quadro clinico si
caratterizza nettamente rispetto alle altre fobie specifiche: non dobbiamo
certamente attenderci che, nel doversi relazionare con qualcuno, il sog-
getto abbia manifestazioni eclatanti come quelle di un aracnofobico alla
vista di un ragno o di un batracofobico alla vista di una rana! Il socialfo-

5 Secondo la psicoanalisi le fobie sarebbero il risultato della rimozione di contenuti inconsci,


legati a eventi traumatici, generalmente infantili, che verrebbero spostati su oggetti aspecifici in
modo da evitare di riattivare il contenuto inconscio rimosso con tutta la sua carica di angoscia.
6 Isaac Marks [128], nel 1969, ha definito le caratteristiche specifiche di questo disturbo, che
è stato recepito nel 1980 dal DSM-III. A prima vista, il disturbo d’ansia sociale poteva apparire come
una forma particolare di fobia specifica ma, in realtà, le due condizioni sono molto diverse tra loro
tanto strutturalmente quanto per le implicazioni cliniche e sociali.

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Xiii. La paura della paura 157

bico non ha paura degli altri ma del giudizio degli altri, come se lui fosse
al centro dell’attenzione. Più che per altri disturbi, è del tutto ragionevole
ipotizzare che il socialfobico abbia vissuto nell’infanzia situazioni (anche
solo soggettivamente) di emarginazione, incuria, bullismo, violenza, abu-
si. Naturalmente la paura del giudizio negativo è, in generale, ampiamen-
te sproporzionata e, né le persone né le circostanze, meriterebbero una
tale considerazione; questo non impedisce al socialfobico di vivere con
grande angoscia e terrore ogni occasione di esposizione sociale, anche
marginale (come mangiare in pubblico, fare un acquisto in un negozio), e
di logorarsi nell’ansia anticipatoria in previsione di una situazione socia-
le. A nulla valgono le rassicurazioni, l’unica via d’uscita nelle forme gravi
è l’evitamento, un crescente doloroso isolamento speso nel rimuginare
sull’ennesima occasione persa, su una vita non vissuta. Naturalmente
esistono strategie di compenso che possono risultare abbastanza efficaci,
soprattutto se messe in atto a partire dall’infanzia. Fra queste, paradossal-
mente (almeno in apparenza), si collocano le manifestazioni istrioniche e
teatrali, le imitazioni e la recitazione che fanno da substrato alla carriera
professionale di molti attori.

Il primo esempio che ci viene in mente è quello di Marilyn Monroe la cui immagine
pubblica, la maschera, che l’ha resa famosa, amata, immortale, era solo una facciata –
che le costava ore di sedute davanti allo specchio per raggiungere la perfezione estetica
–, dietro la quale c’era un’enorme insicurezza, la fobia per le performances pubbliche
che la paralizzava proprio là dove si era costruita la sua fama: il palcoscenico, il set,
la troupe, le occasioni in cui era sottoposta al giudizio, alla critica. Lei stessa racconta
che, anche quando aveva ben preparato una parte, appena entrava in scena, perdeva la
concentrazione e non ricordava più nulla (arrivando ad affermare «la concentrazione
è l’unica barriera tra l’attore e il suicidio»). Sul set doveva avere sempre accanto la
propria insegnate di recitazione che, nei primi piani, le teneva addirittura la mano. In
apparente contrasto con questo, Marilyn aveva atteggiamenti controfobici di estrema
sfrontatezza: non mostrava infatti nessun pudore a girare nuda per casa o a posare
nuda davanti ai fotografi [68].

In età più adulta, possono essere strategie di compenso abbastanza


efficaci le carriere in cui i rapporti sono rigidamente strutturati come,
ad esempio, quella militare. Si tratta, generalmente, di strategie piuttosto
precarie, fragili, che possono essere messe in crisi da situazioni stressanti,
da traumi imprevisti, da insuccessi personali o professionali. In questi
casi è alto il rischio di cadere nella dipendenza – da sostanze o comporta-
mentali –, o in altri disturbi mentali, dal bipolare alla schizofrenia.
Abbiamo detto che la paura è la risposta a una minaccia imminente
(reale o percepita come tale) ed è generalmente accompagnata da un’at-

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tivazione del sistema nervoso autonomo, come in previsione di una lotta


o di una fuga; il disturbo di panico può essere considerato la massima
espressione della paura, una paura che va a toccare le fibre più profonde
del nostro essere: quella di morire o di perdere la ragione, “il ben dell’in-
telletto”. Ed è un’esperienza così fortemente traumatizzante, una sensa-
zione/convinzione talmente pregnante da indurre colui che la prova a
cercare aiuto presso il Pronto Soccorso più vicino temendo un infarto del
miocardio, un ictus cerebrale, un’insufficienza respiratoria o comunque
una patologia acuta tale da giustificare la sofferenza estrema che prova in
quel momento. Momento per fortuna abbastanza breve (generalmente
circa dieci minuti) ma che raggiunge livelli di intensità tali da “segna-
re” così profondamente il soggetto tanto da lasciare in lui uno stato di
allarme, di aspettativa ansiosa protratta che l’evento possa ripetersi da
un momento all’altro: «Il primo attacco di panico è come il primo amore,
non si scorda mai», ci ha detto un nostro paziente. In tutto questo dram-
ma che, come vedremo, avrà un seguito spesso anche molto penalizzante,
l’unica cosa vera è la sintomatologia acuta di esordio, il paziente avver-
te pienamente e chiaramente i sintomi dell’attacco, che comunque non
sono sostenuti da alcun substrato somatico, e tuttavia lo convincono non
solo del gravissimo pericolo incombente su di lui, ma gli fanno balenare
anche la possibilità/probabilità che l’attacco si ripeta rendendo più reali-
stico il timore che si verifichi l’evento fatale. A nulla serve evitare i luoghi
e le circostanze in cui si è verificato la prima volta, a nulla rifugiarsi in
ambienti ritenuti sicuri, protettivi, come la propria casa, muoversi con
l’accompagnamento di una persona di fiducia, il panico è sempre lì, in-
combente, minaccioso, la classica spada di Damocle7. E come dimostra la
storia del nostro paziente, Aldo, che riassumeremo qui di seguito, non è
sufficiente avere coscienza che l’attacco di panico, in fondo, è solo un di-
sturbo psichico transitorio, per tenere sotto controllo la paura che possa
ripresentarsi.

Un nostro paziente, Aldo, cinquantenne, geometra alle dipendenze di un comune, si


trovava in aperta campagna per fare un sopralluogo quando, improvvisamente, pre-
sentò un grave attacco di panico. Era sicuro di avere un infarto e di dover morire da

7 Damocle, principe siciliano, era ospite di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa (IV sec.

a.C.) e non perdeva occasione per ricordare al padrone di casa quanto fosse fortunato ad avere tanta
autorità e prestigio. Dionigi lo invitò a prendere il suo posto per un giorno per rendersi conto di
quanto fosse fortunato: organizzò un banchetto ricco di cibi squisiti e fece sedere Damocle al suo
posto. Solo alla fine del banchetto Damocle, alzando la testa, si accorse che sul suo capo pendeva
una spada sorretta da un crine di cavallo che avrebbe potuto cadergli in capo in ogni momento:
impaurito chiese a Dionigi di lasciarlo tornare a fare il semplice cortigiano.

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Xiii. La paura della paura 159

un momento all’altro, da solo, in mezzo ai campi. La fase acuta passò e pian piano si
riprese tanto da riuscire a tornare a casa spingendo la bicicletta con cui si era recato sul
posto. La moglie lo accompagnò dal medico curante, che non riscontrò alcuna anoma-
lia ma che, per scrupolo, gli fece fare una serie di controlli risultati tutti quanti negativi.
Rientrato al lavoro, quando si trattò di andare nuovamente a fare un sopralluogo in
una zona isolata, al solo pensiero, presentò un attacco di panico per cui dovette rifiu-
tare; parlò del suo problema al dirigente del servizio il quale decise di affidargli solo
lavoro d’ufficio. Questo non fu sufficiente a rassicurarlo e, dopo un po’, incominciò
a pensare di non essere al sicuro nel fare da solo il viaggio di andata e ritorno da casa
all’ufficio e chiese alla moglie di accompagnarlo. Dopo qualche tempo incominciò a
non sentirsi sicuro anche in ufficio, non perché temesse il ripresentarsi di attacchi di
panico (peraltro ormai abbastanza rari) e che ormai sapeva bene, avendo consultato
diversi specialisti, trattarsi di un disturbo psichico che, di per sé, non aveva conseguen-
ze pericolose. In realtà temeva che, se gli fosse venuto un attacco di panico, i colleghi
avrebbero potuto chiamare l’ambulanza che lo avrebbe accompagnato al Pronto Soc-
corso dove c’era il rischio – questa ora era diventata la sua fobia – che i medici, non
rendendosi conto che la sua era una malattia psichica, avrebbero potuto praticargli te-
rapie inappropriate che, quelle sì, avrebbero potuto danneggiarlo. Convinto di questo,
pretese che la moglie non solo lo accompagnasse ma rimanesse anche fuori dall’ufficio
in modo che, in caso di crisi, lei potesse intervenire evitandogli questo rischio.
Abitava in un paese abbastanza piccolo ed era abituato a frequentare, nel tempo libe-
ro, un bar che distava poche centinaia di metri da casa sua: a un certo punto incominciò
a pensare che, nel tragitto, avrebbe potuto sentirsi male e qualcuno avrebbe potuto chia-
mare l’ambulanza con tutte le conseguenze che lui temeva, e così rinunciò anche al bar.
Quando giunse alla nostra osservazione, era ormai ridotto a vivere nell’ufficio con
la moglie “di guardia” fuori dalla porta e in casa. Con un’adeguata terapia, il disturbo
si risolse completamente e stabilmente in tempi ragionevolmente brevi.

Come Aldo, il quale temeva le terapie “improprie” che avrebbero po-


tuto somministrargli al Pronto Soccorso, la gran parte di questi pazienti
è farmacofobica al punto da rifiutare qualsiasi intervento farmacologi-
co (e ce ne sono di veramente efficaci): sono ipersensibili alle sostanze
psicoattive tanto che qualsiasi variazione anche minima della cenestesi,
che essi mettono in relazione con il trattamento farmacologico, li porta
alla sua immediata sospensione. Se non bastasse, leggono attentamente il
foglio illustrativo dei farmaci (il famigerato “bugiardino”!) con partico-
lare attenzione agli effetti collaterali (e di regola “li avranno” tutti) e alle
controindicazioni (che loro non mancheranno di avere). Convincerli ad
assumere una terapia richiederà enorme pazienza, rassicurazioni ripetute
e convincenti e un supporto assiduo.

Un paziente di 42 anni, Giovanni, maestro di musica, aveva sviluppato da tempo un


disturbo di panico che minacciava di porre fine alla sua carriera poiché non era più
in grado né di insegnare né di accompagnare il coro da lui diretto nelle trasferte per

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esibizioni o concorsi. La presenza di marcata farmacofobia gli impediva di curarsi.


Quando giunse alla nostra osservazione era veramente disperato, angosciatissimo,
scosso da tremiti, facile al pianto. Presa coscienza della situazione e mettendo in atto
tutte le tecniche persuasive possibili, si riuscì a fargli accettare l’assunzione di una
goccia al giorno di un antidepressivo serotoninergico per una settimana; al controllo
successivo ammise che aveva tollerato bene il farmaco e accettò di assumerne due
gocce al giorno, una la mattina e una la sera. Per alcune settimane procedemmo con
quell’aumento graduale della posologia finché, lievemente migliorato, ma soprattutto
avendo preso confidenza con il trattamento, si poté raggiungere un dosaggio terapeu-
tico. In breve tempo il paziente divenne asintomatico e poté riprendere in pieno la
propria attività professionale.

Il disturbo di panico induce il paziente, spaventato da pericoli esistenti


soltanto nella propria immaginazione e mantenuti attivi dagli attacchi di
panico – di solito sempre più rari e meno gravi con il passare del tempo
e con l’estendersi delle condotte di evitamento –, a vivere in uno stato di
allarme, di ipervigilanza, che ne riduce progressivamente l’autonomia e ne
impoverisce la vita, privandola di ogni motivo di gioia e di soddisfazio-
ne, tanto che, abbastanza spesso, si sviluppa un quadro depressivo, anche
marcato8,9.
Nei disturbi di cui abbiamo detto finora, è evidente che la vigilanza,
il meccanismo che analizza le informazioni per impostare una risposta
comportamentale adeguata, non è ben “tarata”, visto che decodifica come
segnali di pericolo specifiche situazioni (animali, relazioni sociali, luoghi
o quant’altro) che oggettivamente sono neutre, se non addirittura positi-
ve. C’è, invece, una condizione patologica, il disturbo d’ansia generalizza-
ta (GAD), in cui manca questa selettività, tutti i segnali sono praticamen-
te indistinguibili, il cervello non è in grado di decidere se una situazione
rappresenti o meno un pericolo e, non avendo elementi per uscire dall’in-
certezza, mantiene stabilmente attivo il sistema di allarme, vive in un’at-
tesa apprensiva sproporzionata, eccessiva rispetto alla normale, quotidia-
na banalità degli eventi, e indipendentemente dalla possibilità/probabilità

8 Se riflettiamo sullo sviluppo e il decorso del disturbo di panico, non possiamo non renderci
conto che il “motore” di tutto il processo è la ruminazione continua, praticamente inarrestabile, sul-
le esperienze negative sperimentate in occasione dell’attacco di panico che, ingigantite, mantengo-
no elevato l’arousal innescando l’anticipazione ansiosa del possibile ripetersi dell’attacco: pronto a
scattare al minimo segnale, il paziente vive in uno stato di allarme ipocondriaco cronico, abbattuto
dal “fuoco amico” dei suoi stessi pensieri!
9 Strettamente correlata al disturbo di panico, ma non simbioticamente legata ad esso, è

l’agorafobia, cioè l’ansia di dovere affrontare o trovarsi in situazioni da cui può essere difficile fug-
gire, o ricevere soccorsi in caso di panico o di sintomi imbarazzanti (ad esempio, svenire, perdere
il controllo degli sfinteri ecc.). Gli ambienti e le situazioni possono essere diversi, da spazi aperti a
spazi chiusi, da veicoli in movimento a ponti o gallerie, a fare la fila, a essere da soli o fra la folla.

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Xiii. La paura della paura 161

che si verifichino fatti inattesi (e in particolare negativi). Il soggetto con


GAD vive in uno stato di apprensione continua che finisce per interferire
pesantemente con tutte le sue attività e con la sfera sociale e familiare e
ha bisogno di essere continuamente rassicurato (pur con scarsi risultati).
Per gli antichi romani era il fatum (ciò che è detto)10, cioè una decisio-
ne irrevocabile degli dei; in linguaggio moderno si parla di destino (ciò che
è destinato), cioè del verificarsi predeterminato e necessario degli eventi.
Ma già i romani si opponevano a questa concezione deterministica soste-
nendo che l’uomo “faber est suae quisque fortunae” (ciascuno è artefice
della propria sorte) e, di fatto, la maggior parte delle persone pensa e agi-
sce “come se” fosse libera di programmare, pianificare le proprie azioni
e addirittura la propria vita. Prende coscienza dell’esistenza di una forza
esterna più potente della sua volontà, il destino, appunto, quando i suoi
progetti, razionalmente ben programmati, incontrano ostacoli imprevisti
che li rallentano o lo costringono a modificarli se non a rinunciare. Altri,
invece, ritengono che la realizzazione dei loro obiettivi dipenda più che
dalla loro volontà e dal loro impegno, dal destino e cercano di “conoscer-
lo” attraverso (improbabili) segnali – nella natura, negli indovini, negli
oroscopi, nei tarocchi, nei fondi di caffè e in infinite altre situazioni –, di
trovare indicazioni rassicuranti per affrontare con maggiore sicurezza la
vita o di propiziarselo in qualche modo.

Molti uomini politici ricorrono a maghi o a cartomanti per “sapere” in anticipo l’esito
delle proprie decisioni politiche: abbiamo accennato ai consoli e ai condottieri romani
che facevano ricorso (come già gli etruschi prima di loro) agli arùspici e agli àuguri i
quali “prevedevano” il futuro attraverso l’esame delle viscere degli animali e, rispetti-
vamente, il volo degli uccelli; in epoche più recenti, possiamo citare Napoleone, che
consultava una famosa indovina, Marie Anne Lenormand; l’arciduca Francesco Fer-
dinando d’Asburgo cui Madame de Thèbes, che consultava regolarmente, predisse
che sarebbe morto in un attentato al quale sarebbe seguita una guerra mondiale. Molti
gerarchi nazisti, il presidente argentino Juan Peron, il presidente americano Ronald
Reagan tenevano in grande considerazione astrologia e occultismo; anche il segretario
generale del PCUS, Leonid Breznev, consultava regolarmente una sensitiva. Donald
Trump ha l’abitudine scaramantica di gettarsi alle spalle un pizzico di sale alla fine del
pasto. I cinesi fecero iniziare le olimpiadi di Pechino l’8/8/2008 alle 8 di sera perché l’8
è per loro un numero fortunato.

In genere questi soggetti ricorrono al pensiero magico, primitivo, fanno


cioè un collegamento scaramantico tra i propri pensieri/comportamenti
ed eventi vari della propria vita, credendo (o sperando) che i loro pensieri,

10 Le fate (da fata, plurale di fatum) erano le esecutrici delle decisioni degli dei.

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parole o azioni possano, in qualche modo, favorire l’esito desiderato (re-


alizzare qualcosa o scongiurarne qualche altra). «Se non calpesto le com-
messure tra le pietre del marciapiede, l’esame andrà bene», «Se la somma
dei numeri delle targhe delle auto che incrocio è dispari, l’incontro di lavoro
andrà bene», «Se nel tragitto fra la casa e l’ufficio riesco a contare di tre in
tre senza interruzioni o errori, la giornata andrà bene» e così via. Se l’esito
sarà positivo, questi rituali si rafforzeranno, in caso contrario, la colpa,
la responsabilità, sarà attribuita allo strumento di previsione usato o alla
sua errata interpretazione o a possibili errori nell’esecuzione del compor-
tamento scaramantico (avere inavvertitamente calpestato la commessura,
non aver calcolato bene le somme o il contare e così via).
Abbastanza spesso, almeno in certi soggetti, i rituali scaramantici di-
ventano la base di partenza di un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC):
con il tempo i collegamenti si attenuano rimane solo il rituale e il sogget-
to, alla fine, non sa più nemmeno perché lo fa, ma “deve” farlo, sa soltanto
che non può fare a meno di eseguirlo se non a costo di intollerabile ansia.
Il rituale OC nasce così da un tentativo (ovviamente improprio) per cer-
care di propiziarsi il destino. Certamente questa non può essere – e non
è – l’unica interpretazione patogenetica del DOC. Suggestiva, ad esempio,
è l’ipotesi che il paziente con questo disturbo abbia, nei confronti di se
stesso, una rigida richiesta di perfezione, di certezza, che lo spingerebbe al
confronto delle proprie azioni rispetto a un suo ipotetico modello ideale;
nella sua insicurezza di fondo, può cogliere differenze anche impercet-
tibili rispetto al modello e la sensazione di imperfezione lo spingerebbe
a ripetere quell’azione allo scopo di rendere il risultato uguale all’idea-
le di perfezione, cosa che, nella sua insicurezza, non si verificherà mai,
condannandolo alla ripetizione senza fine (o, in genere, per un numero
determinato di volte o per un certo tempo).

Non è eccezionale che il DOC insorga nel post-partum e che il tema del disturbo sia
la possibilità di fare, direttamente o indirettamente, del male al figlio. È il caso di una
paziente, Elvira, giunta all’osservazione a cinquantacinque anni, per un DOC esordito
a circa trent’anni, dopo la nascita del figlio. Premesso che la signora era sempre sta-
ta donna molto precisa e scrupolosa, dopo la nascita del figlio aveva incominciato a
preoccuparsi che, nel riporre negli armadi e nei cassetti la biancheria lavata e stirata,
potesse esserci rimasto inavvertitamente impigliato un ago o uno spillo che avrebbe
potuto ferire il figlio. All’inizio era capace di non soffermarsi su questo pensiero, con-
siderandolo assurdo, ma successivamente, un po’ alla volta, incominciò a non poter
fare a meno di controllare, prima gli ultimi capi stirati, in seguito tutto il cassetto dove
li aveva risposti, per ripetere la verifica subito dopo. Il passo successivo fu il controllo
dei cassetti vicini e, alla fine, fu imperativo tirare fuori tutta la biancheria dall’armadio
e controllarla pezzo per pezzo dedicando gran parte della giornata a questi rituali: «Io

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Xiii. La paura della paura 163

lo so che non può essere vero, sto molto attenta agli aghi e alle spille, ma non riesco a
mandare via il dubbio che qualcuna possa esserci rimasta e devo controllare tutto altri-
menti entro in uno stato d’ansia terribile, non dormo e sono agitata».

Il caso di Elvira, che ha deciso di ricorrere alla psichiatria a distan-


za di circa 25 anni dall’esordio del disturbo, ci dice che questi pazienti,
spesso, non hanno consapevolezza di malattia, non ritengono che le loro
ossessioni e compulsioni siano qualcosa di patologico, le considerano al
più una propria caratteristica, una stravaganza, una stranezza – magari
illogica –, così come altrettanto strani ed illogici (oltre che scarsamente
efficaci se non nel breve periodo) possono essere considerati i compor-
tamenti compulsivi11. Hanno sperimentato che possono essere, quando
va bene, oggetto di curiosità ma, più spesso, di lazzi, di prese in giro,
e pertanto, finché possono, cercano di controllarsi in pubblico e dare
libero sfogo ai propri rituali in privato e, in molti casi, almeno nelle fasi
iniziali, ci riescono.
Per altri tipi di DOC, si tratta di meccanismi di rassicurazione più
indiretti, più criptici: è il caso, ad esempio, della rupofobia e della con-
seguente ablutomania, in cui lo “sporco” non è, in genere, quello reale
ma quello morale, direttamente o indirettamente correlato alla sessualità
– “sporca” per antonomasia in certe culture, e non solo quella agíta ma
addirittura quella solo pensata12, concetto, questo, instillato nella mente
durante l’inculturazione e quindi profondamente radicato – che non può
non entrare a far parte dell’esperienza già dall’infanzia e che spingerà il
soggetto a “mondarsi” di quello sporco che, per la sua natura, non è mon-
dabile con acqua, sapone o detersivi13.
Solitamente, nel DOC, il paziente mantiene piena coscienza dell’as-

11 I due termini che definiscono questo disturbo ne racchiudono anche l’essenza. Il termine

“ossessione”, deriva dal latino obsidere, cioè assediare, e i pensieri ossessivi, di fatto, stringono d’as-
sedio la mente del soggetto, incapace di – e impotente a – rompere quell’assedio che lascia sempre
meno spazio ai pensieri razionali, utili. Anche il termine “compulsione” deriva dal latino, compel-
lere, cioè spingere, obbligare, e infatti il soggetto non può fare a meno di mettere in atto ripetitiva-
mente quell’attività che dovrebbe neutralizzare il flusso – o, meglio, il vortice – dei suoi contenuti
mentali. Un altro termine per definire questo disturbo è “anacasmo” (dal greco ἀναγκασμός, co-
strizione, necessità), cioè obbligo a pensare/fare indipendentemente dalla presenza di uno stimolo
specifico e a mettere in atto meccanismi di (pseudo)difesa.
12 Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa Cattolica, all’inizio della Messa pone il Confiteor

(o preghiera penitenziale) che recita: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto pec-
cato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa».
13 Non è infrequente che certi rituali di pulizia siano circoscritti e limitati; a titolo di esempio

(ma ne potremmo fare molti) ci sono soggetti che puliscono minuziosamente la casa o che si lavano
ripetitivamente le mani, con saponi e detersivi, fino a provocarsi lesioni dermatologiche, ma hanno
poca cura e igiene del proprio corpo in toto.

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surdità dei suoi pensieri e dei suoi comportamenti, li critica ma non può
uscire dall’assedio delle ossessioni né resistere alla coercizione delle com-
pulsioni: così come il disturbo di panico induce il paziente, attraverso
la minaccia dei possibili attacchi di panico e le conseguenti condotte di
evitamento, a vivere una vita sempre più impoverita, privata di ogni mo-
tivo di gioia e di soddisfazione, analogamente il DOC diventa il padrone
della vita del soggetto non solo obbligandolo a un’assurda ripetitività ma
anche, al di fuori di quella, a evitare tutte le occasioni che potrebbero ri-
attivare la drammatica spirale dei rituali OC.

In alcuni casi, come ad esempio quello che riportiamo qui, il soggetto può perdere
l’insight, la coscienza di malattia, e le sue idee ossessive finiscono per diventare con-
vinzioni deliranti inaccessibili a qualsiasi tentativo di critica, di razionalizzazione.
Rita, 35 anni, nubile, introversa e timida, si recava, un giorno, a far visita alla tomba
del padre nel cimitero del paese, un cimitero di campagna raggiungibile attraverso
straduzze sterrate delimitate da erba. Essendosi dovuta spostare di lato per il passaggio
di un mezzo agricolo, aveva calpestato l’erba, alta abbastanza da sfiorarle il soprabito.
Qualche passo più avanti, vide sul margine della strada un grosso topo morto. Imme-
diatamente pensò che, se il topo era morto, verosimilmente era stato sparso del veleno
per topi e perciò, quando aveva camminato sull’erba, poteva essere entrata in contatto
con quel veleno con le scarpe e con il soprabito.
Tornata a casa, si spogliò completamente per lavarsi e si cambiò; nel frattempo sua
madre aveva messo in lavatrice, assieme ad altri capi, quelli che si era tolti; la paziente
volle gettare nella spazzatura le scarpe e i vestiti (e tutto ciò che era assieme a loro nella
lavatrice) temendo che, nonostante il lavaggio, potesse esservi rimasta qualche traccia
del presunto veleno. Dovette pulire e disinfettare il pavimento su cui era passata al
momento del ritorno a casa. In breve, attraverso passaggi – sempre più illogici – tutta
la casa sarebbe stata contaminata e così anche i vestiti, la biancheria e quant’altro, e si
convinse che, ogni volta che usciva, disseminava il veleno ovunque e doveva tenere
tutti a debita distanza per evitare di contaminarli; non riuscendo sempre nell’intento,
finiva per aumentare il numero dei possibili contaminati andando così incontro a un
crescendo di angoscia, di sentimenti di colpa tali che si era praticamente chiusa in casa.

Giuliana, signora dell’area fiorentina, cinquantenne, qualche tempo fa fu ricoverata


nella nostra Clinica per un episodio depressivo, in comorbidità con un DOC incen-
trato sulla rupofobia.
I primi giorni del ricovero la paziente chiese tanto ai sanitari quanto ai paramedici
e alle altre pazienti, di evitare di toccare il suo letto perché, altrimenti, sarebbe stata
costretta a disinfettarlo con l’alcol.
Nel successivo decorso, a mano a mano che si risolveva il quadro depressivo, si atte-
nuava anche il DOC. Quando ormai la paziente incominciò a virare verso l’ipomania,
una domenica le fu concesso di allontanarsi per qualche ora dalla Clinica con il marito
che, per motivi di lavoro, veniva raramente a farle visita.
Fin dalla mattina si era truccata e agghindata in maniera molto vivace e (questo lo

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Xiii. La paura della paura 165

sapemmo dopo) si era fatta prestare da un’altra paziente (lei che fino a pochi giorni
prima era inavvicinabile!) una camicia da notte molto elegante e sexy perché aveva
intenzione di passare quelle ore in intimità con il marito in un albergo della zona.

Abbiamo fin qui parlato di disturbi d’ansia scatenati (o scatenabili)


dall’esposizione a oggetti, eventi, animali, luoghi e situazioni che hanno
oggettivamente potenzialità limitate, se non nulle, di arrecare un danno
a chicchessia ed hanno un effetto traumatizzante soltanto in un numero
relativamente modesto di persone. Ma la vita può esporci, singolarmente
o in gruppi più o meno ampi, a eventi traumatici estremi che comportano
minaccia di morte, lesioni gravi o violenza sessuale [5]. E in questi casi
può svilupparsi, in una percentuale importante dei soggetti esposti14, un
disturbo post-traumatico da stress (PTSD).
In genere, dopo un certo lasso temporale dall’esposizione, si struttu-
ra un quadro clinico sotto forma di incubi notturni, flashback e ricordi
dell’evento intrusivi, vividi, più sotto forma di immagini che di pensieri,
come se il tempo non fosse passato, rivivendo l’esperienza traumatica, e
impedendo alla memoria di sfumare, di cancellare, di dare spazio all’o-
blio. Subentra anche uno stato persistente di ipervigilanza, associato a
disturbi di attenzione e concentrazione, alla sensazione di “non poter ab-
bassare la guardia”, a trasalimenti per stimoli sensoriali anche minimi,
inattesi, a reattività irosa interpersonale e difficoltà ad addormentamen-
to. Hanno la peggio le persone rimuginative, che tendono a ripensare ai
fatti di cui sono state protagoniste, e ogni volta è come se li rivivessero.
Il decorso è spesso cronico, gravato da una notevole compromissione
del funzionamento socio-lavorativo. Generalmente, in queste situazioni
drammatiche, si osserva una maggiore vulnerabilità nelle donne giovani.

In una ricerca condotta in oltre 2.000 sopravvissuti che abbiamo intervistato dopo 10
mesi dal drammatico terremoto che colpì L’Aquila nell’aprile 2009, abbiamo rilevato
tassi di PTSD attorno al 37.5%, con un ulteriore 30% di forme parziali, altrettanto inva-
lidanti. I dati hanno confermato una maggiore vulnerabilità delle donne, in particolare
giovani, con tassi circa doppi rispetto agli uomini, forse per la maggiore predisposizio-
ne all’ansia. Poi ci sono i soggetti con un’esposizione maggiore (vicinanza all’epicentro,

14 Accenneremo qui a eventi traumatici estremi, che hanno coinvolto intere popolazioni,

come lo tsunami in Thailandia del 2004 e in Giappone del 2011, il terremoto di L’Aquila del 2006 e
quello di Haiti del 2010 o comunque un numero notevole di persone come nell’attentato alle Twin
Towers del 2001. Non prenderemo in esame gli eventi traumatici estremi che hanno coinvolto
soggetti singoli o in numero limitato, come nel caso di incidenti stradali anche mortali, di stupro,
di gravi e/o ripetute violenze fisiche. In tutti i soggetti, ferme restando le caratteristiche personali e
quelle relative alle modalità attraverso cui la vittima ne fa esperienza, il quadro clinico del PTSD è,
nelle grandi linee, abbastanza omogeneo.

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166 La verità sulla menzogna

esposizione ripetuta o prolungata): anche in questo caso donne e bambini sono i più
vulnerabili. Gli studi hanno confermato gli effetti comportamentali a lungo termine
del PTSD, in particolare negli uomini: guida spericolata, assunzione di alcol e sostanze,
comportamenti autolesionistici, tentativi di suicidio15.

È interessante osservare che, non solo le vittime, ma anche i soccor-


ritori subiscono gli effetti da esposizione. Il dato è emerso con chiarezza
dopo l’attentato terroristico alle Twin Towers del 2001: molti pompieri,
poliziotti, medici e paramedici coinvolti nei soccorsi hanno presentato un
deterioramento cronico della salute fisica e mentale e del funzionamento
sociale.
Corre facile il pensiero al grave problema odierno legato all’ondata di
flussi migratori dalle coste africane che, per le sue caratteristiche (viaggi
in mezzi inadeguati e sovraccarichi di persone, rischi di violenze da parte
dagli scafisti, possibilità reali/attuali di naufragio, problemi di accoglienza
e altro ancora) rende il rischio di PTSD molto alto e non solo per i mi-
granti, ma anche per le squadre di salvataggio, esposte quotidianamente a
un enorme carico emotivo.

15 Dell’Osso L. et al.: Age, gender and epicenter proximity effects on post-traumatic stress

symptoms in L’Aquila 2009 earthquake survivors. J. Affect Disord., 146(2):174-80, 2013.

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Xiv. Menzogna e criminologia:
la dimensione narcisistica

Noi siamo ciò che facciamo finta di essere,


e dovremmo porre più attenzione
a chi fingiamo di essere.
(Kurt Vonnegut, Aforismi)

La menzogna può essere uno strumento importante per ottenere van-


taggi nelle relazioni interpersonali, per mettersi in mostra amplificando a
dismisura le proprie qualità, le proprie performaces, tutto quanto ponga
il soggetto al centro della scena: è questo l’ambito in cui si collocano i
bugiardi patologici. Ma già parlare di bugiardi patologici ci mette imme-
diatamente di fronte a un ovvio quesito: esistono bugiardi non patologici?
E se sì, a che livello si pone il discrimine tra le due tipologie? Il criterio
previsto per le diagnosi di disturbo mentale [5],
l’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione
del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti,
non ci viene in aiuto.
La menzogna patologica si ritrova prevalentemente nei disturbi di per-
sonalità che si caratterizzano per provocare disagio non al soggetto ma
agli altri. Potremmo, per superare il problema, considerarla patologica
quando è gestita in modo incongruo rispetto alla situazione, ad esem-
pio compulsivamente e con contenuti inverosimili recando alla fine più
un danno che un vantaggio a chi ne faccia uso [60]. Per questi soggetti,
la menzogna è uno strumento abituale necessario per affrontare la vita
quotidiana, di conseguenza è usata abbondantemente fino a divenire in-
distinguibile dalla realtà: si incastra perfettamente nel contesto della loro
vita in generale e della situazione contingente in particolare al punto da
apparire più vera della verità.
I bugiardi patologici spesso sono proprio quegli individui che infar-
ciscono i loro discorsi di rassicuranti affermazioni circa la propria since-
rità, lealtà, onestà, rispetto dei valori, di cui abbiamo già avuto modo di
parlare. Queste persone sono talmente autocentrate da non avere con-
sapevolezza dell’abnormità del proprio comportamento, considerandolo

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168 La verità sulla menzogna

anzi del tutto normale; sono così abili nel mentire, da riuscire a trarre in
inganno anche il più attento e smaliziato interlocutore. Il bugiardo pato-
logico, in sintesi, è un attore nato il cui ruolo preferito è quello di perso-
na buona, sincera, generosa, altruista, amica: un’accattivante maschera e,
dunque, con cui riesce a manipolare gli altri e a raggiungere i propri scopi.
Se scoperto, può, in alcuni casi, arrivare ad ammettere di aver raccontato
qualche bugia ma sostenendo convincentemente di averlo fatto per pro-
teggersi, per autodifesa, o comunque a fin di bene.
La dimensione narcisistica abbraccia un universo eterogeneo, che
spazia da forme gravi ad altre addirittura clownesche, che hanno come
caratteristiche condivise la richiesta di attenzione, il porsi al centro della
scena, l’essere amplificativi e imprevedibili, tipiche di alcuni disturbi di
personalità1.
Nelle forme più gravi, si tratta di soggetti che usano senza scrupoli la
menzogna strumentalizzando gli altri ai fini dell’autoaffermazione, incu-
ranti delle conseguenze a cui li espongono: l’espressione tipica di questa
condizione è il disturbo narcisistico di personalità.
Una forma abbastanza vicina a questo è la pseudologia fantastica che,
pur vivendo anch’essa di menzogne, è quasi esclusivamente orientata a
dare un’immagine molto (troppo) positiva di sé senza utilizzare/sfruttare
gli altri (almeno non direttamente).
Ai confini della pseudologia (e spesso assimilata ad essa) vi è la mi-
tomania, cioè la tendenza a stravolgere fantasticamente i fatti, in modo
consapevole o inconsapevole, o a raccontare, come fossero veri, eventi
immaginari: il rischio per i mitomani è perdere il giudizio di realtà e finire
nel delirio di grandezza.
L’aspetto ridicolo, buffonesco, della dimensione narcisistica è la mil-
lanteria, cioè assumere in pubblico atteggiamenti boriosi e vanagloriosi
facendo ricorso a menzogne iperboliche o a clamorose esagerazioni, o
attribuendosi qualità o titoli non propri.
Infine, meritano di essere menzionati i bugiardi compulsivi, cioè gli indi-
vidui che mentono in maniera praticamente automatica, generalmente sen-
za che ci sia un reale motivo per mentire né fini particolari da raggiungere.
Prima di addentrarci nella descrizione delle diverse tipologie sopra
elencate, è necessario premettere che, tra loro, i confini sono tutt’altro
che netti e nella pratica non è infrequente trovare forme intermedie. Qui
descriveremo gli aspetti prototipici delle varie tipologie.

1 Il DSM-5 colloca queste forme nei disturbi di personalità del gruppo B, che comprende

quattro categorie, vale a dire i disturbi antisociale, borderline, istrionico e narcisistico.

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 169

Disturbo narcisistico
Aveva espresso un pazzo desiderio:
che potesse lui rimanere giovane,
e il ritratto invecchiare,
la sua bellezza rimanere intatta
e il viso dipinto sulla tela portare il peso
delle sue passioni e dei suoi peccati.
Pareva mostruoso persino pensarlo.
(Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, 1890)

Un narcisismo “normale” basato su una sana e realistica autostima, si


concilia perfettamente con la capacità di amare e di stabilire con il partner
un rapporto condiviso, profondo e duraturo. Empatia, interesse e curio-
sità per le relazioni con gli altri, tolleranza verso i difetti e i limiti altrui
e consapevolezza dei propri, capacità di adeguarsi con giusto equilibrio
alla vita reale sono fondamentali per una vita di relazione e affettiva equi-
librata e gratificante2. Il narcisismo patologico, invece, è generalmente
distruttivo.
Il narcisista patologico è il prototipo del bugiardo, è troppo concen-
trato su se stesso per essere capace di amare gli altri, che sono soltanto
prede da svuotare di ogni sentimento, di ogni dignità e da abbandonare
per avventarsi sulla vittima successiva. “Amare” per lui è dominare, avere
in proprio potere il partner, tradirlo, umiliarlo, sottometterlo fino a fargli
perdere ogni valore, ogni attrattiva dopo di che abbandonarlo con la mas-
sima indifferenza. È un luogo comune veritiero che, per amare gli altri,
dobbiamo, innanzitutto, amare noi stessi: il narcisista non ama se stesso,
ha di sé un’ipervalutazione ipercompensatoria, che alimenta a spese di chi
ha la sventura di innamorarsi di lui.

Figlio della ninfa Liriope, violentata dal dio fluviale Cèfiso, Narciso era un giovane di
straordinaria bellezza; l’indovino Tiresia aveva predetto alla madre che avrebbe rag-
giunto la vecchiaia solo «se non avesse mai conosciuto se stesso». La sua bellezza susci-
tava passioni nei mortali e negli dei, maschi e femmine, passioni alle quali lui resisteva
fino a farli desistere per incapacità di amare. Solo il giovane Aminia non si dava per
vinto e, alla fine, Narciso gli dette una spada affinché mettesse fine al suo dolore ucci-
dendosi: lui lo fece ma non prima di aver chiesto agli dei una giusta vendetta. Nemesi,
la dea della vendetta, fece in modo che Narciso si specchiasse in una fonte limpida e si

2 Nella nostra società, in cui si esaltano gli aspetti narcisistici, quali l’individualismo, la supre-
mazia, il potere, la vittoria, i successi, può essere difficile tracciare un confine netto tra il narcisismo
normale e quello patologico: il discrimine può essere individuato nelle relazioni interpersonali, che
sono carenti e di scarsa qualità nel narcisista patologico che è, per definizione, “incapace di amare”.

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170 La verità sulla menzogna

innamorasse perdutamente di se stesso. Malato d’amore per sé, cercò invano di affer-
rare la propria immagine, annegando nella fonte. Secondo un’altra versione, pentito
per ciò che aveva fatto ad Aminia, prese la spada e si uccise e dal suo sangue nacque il
fiore cui fu dato il suo nome.
Nella versione di Ovidio [142], la ninfa Eco – punita da Giunone per aver coperto
i tradimenti di Giove, con la condanna a ripetere solo le ultime parole di ciò che le
veniva detto –, si innamorò di Narciso e gli si buttò fra le braccia; lui la cacciò in
malo modo e lei fuggì vagando per valli solitarie, lamentandosi per il suo amore non
corrisposto e struggendosi fino a rimanere solo voce. Nemesi, udendo questi lamenti,
decise di punire Narciso: fece sì che, fermatosi a bere a una profonda pozza d’acqua
cristallina, vedesse per la prima volta la propria immagine riflessa e se ne innamoras-
se follemente: accortosi di essere innamorato della propria immagine, capì che non
avrebbe mai potuto realizzare quell’amore e si lasciò morire: quando le ninfe andaro-
no a prendere il suo corpo per collocarlo sulla pira funebre, trovarono al suo posto un
fiore al quale dettero il nome di narciso.

Chi sono i narcisisti? Sono persone con un bisogno insaziabile di es-


sere amate; spesso sono amanti molto sensuali. Molti hanno frequenti
esplosioni di rabbia, alcuni sono truffatori professionisti, quelli più fan-
tasiosi sono artisti. La menzogna è il loro pane quotidiano. Mentono per
rendersi più importanti, potenti, interessanti o per sminuire le caratteri-
stiche di un avversario, o per far sentire gli altri in colpa, o per mostrarsi
come vittime e altro ancora3.

Gli autori [87] che hanno approfondito questo tema distinguono due tipi di narcisi-
smo, rispettivamente inconsapevole (“overt”) e ipervigile o timido (“covert”), conside-
rati gli estremi di un continuum che avrebbe come fine, seppure con modalità opposte,
la ricerca dell’autostima.
Il narcisista inconsapevole è certamente quello che, nell’immaginario comune,
rappresenta il narcisista tipico: un individuo “speciale” che non può non essere no-
tato, sicuro di sé, protagonista, centro dell’attenzione, sempre perfettamente curato,
esibizionista, seduttivo, affabulatore, invadente, intrigante, manipolativo, competi-
tivo, in cerca d’immediati riconoscimenti e gratificazioni, privilegi e considerazione
particolari. Ha numerose relazioni ma tutte superficiali: tutti meri figuranti della
corte di cui si circonda – che gli servono per alimentare la propria autostima e i pro-
pri sentimenti di superiorità –, ma nei confronti dei quali non prova empatia, non
li considera individui ma solo meri specchi deputati a rimandargli un’immagine di
sé grandiosa, onnipotente. Una volta raggiunto l’obiettivo del momento, ben presto
si rende conto che non soddisfa le sue aspettative, non lo fa sentire unico, magari lo
espone a invidie, insidie, critiche. Davanti a questa consapevolezza di fallimento il
narcisista diventa distruttivo. Si lancia quindi in nuove conquiste, in nuove avventu-

3 Raramente quella di disturbo narcisistico di personalità è una diagnosi isolata, non è infre-
quente incontrare soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per due o più disturbi di personalità
del gruppo B e, in tal caso, devono essere tutti diagnosticati.

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 171

re, per avere di nuovo la verifica della propria onnipotenza.


Al polo opposto della dimensione narcisistica, troviamo il narcisista ipervigile o ti-
mido, immagine speculare del precedente: un soggetto schivo, con difficoltà a relazio-
narsi, che evita di mettersi in mostra, ipersensibile alle critiche e al giudizio degli altri
(che idealizza e considera perfetti). Manifesta sentimenti di inadeguatezza, incapacità,
vergogna, non parla mai di sé, dei suoi sentimenti; nei rapporti interpersonali mostra
empatia (di facciata), è diffidente, sospettoso, invidioso del successo degli altri, attento
a evitare le situazioni di possibile confronto.
È stato descritto anche il narcisista negativo o del dolore, che costruisce la propria
identità sul fatto di essere vittima o sopravvissuto a qualcosa di terribile. È con-
centrato sul proprio dolore e nel dolore si sente grande, nessuno soffre come lui,
nessuno ha dovuto sopportare le cose tremende che ha dovuto sopportare lui; tutti
devono ammirarlo per ciò che ha patito e superato quasi fosse un martire o (se si ag-
giunge la dimensione mistica) un santo. È in questo modo che, autodistruggendosi
(o facendo finta di farlo), in realtà distrugge il partner che in breve sarà sostituito da
una nuova vittima.

Otto Kernberg [111] ha descritto il narcisismo maligno come una va-


riante del disturbo borderline di personalità, caratterizzato da comporta-
menti antisociali, sadismo e aggressività egosintonici rivolti anche verso
se stesso, e orientamento paranoide. Questa forma di narcisismo sarebbe
quella che più spesso si osserva nei serial killer.
Abbiamo riportato nel riquadro sottostante alcuni delitti che hanno
riempito le cronache dei quotidiani italiani, casi con motivazioni spesso
inconsistenti, crimini messi in atto con incredibile efferatezza e com-
portamenti incongrui. A noi non interessa qui discutere degli aspetti
psichiatrico-forensi ma, rimanendo nell’ambito del nostro approccio,
pur con tutti i limiti legati alla non conoscenza diretta dei casi, non ci
sembra azzardato associare molti di essi al narcisismo maligno. Sono
spesso persone che hanno tratti simil-autistici: marcato deficit relazio-
nale, della risonanza affettiva e dell’empatia, cioè della capacità di met-
tersi nei panni dell’altro, di comprenderne i sentimenti e di provarne
a propria volta, con un’immagine di sé che nessuno può permettersi
di scalfire e a cui tutto è dovuto. Alcuni casi sono esplosi a seguito di
un semplice diniego dei genitori o di banali rimproveri per le scarse
performances scolastiche, quindi a seguito di un giudizio che viene mi-
sinterpretato rispetto al suo intento educativo o che, comunque, non
viene tollerato. Un tratto importante di queste persone è l’incapacità di
provare rimorso: dopo aver compiuto l’azione delittuosa possono tran-
quillamente mangiare un panino o giocare ai videogiochi o andare in
discoteca o guardare la partita in TV.

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172 La verità sulla menzogna

Si tratta di casi che hanno tragicamente segnato la cronaca italiana negli ultimi qua-
rant’anni, di cui si sono resi protagonisti generalmente soggetti adolescenti o giovani
adulti. Oltre alla notevole risonanza mediatica, un dato colpisce subito: la loro fre-
quenza è andata aumentando negli anni e questo potrebbe essere messo in relazione
con la maggiore diffusione dei mezzi di informazione, con spettacolarizzazione degli
eventi4 e con l’uso crescente di sostanze stupefacenti e alcol.
Per quel che riguarda i moventi che hanno indotto all’azione delittuosa, pur non
disponendo di informazioni specifiche e dettagliate, la loro banalità o inconsistenza,
unitamente alla mancanza di profonde e sentite reazioni emotive nei confronti dei
delitti compiuti, sono elementi fortemente suggestivi di narcisismo maligno.
1975 – Vercelli, Doretta Graneris, diciottenne, e il fidanzato Guido Badini, uccidono a
colpi di pistola tutti i familiari, nonni, genitori e fratello, cinque persone, perché
«erano di idee troppo ristrette».
1989 – Parma, Ferdinando Carretta, venticinquenne, uccide i genitori e il fratello a col-
pi di pistola. Per circa dieci anni è riuscito a tenere nascosta la strage. Confessa in
televisione il suo delitto: «Ho impugnato quell’arma da fuoco e ho sparato ai miei
genitori e a mio fratello». I corpi e la pistola non sono mai stati trovati.
1991 – Verona, Pietro Maso, diciannovenne, aiutato da tre amici (Paolo Cavazza, 18
anni, Giorgio Carbognin, 18, e Damiano Burato, 17) uccide a bastonate i genitori;
dopo la strage i quattro vanno in discoteca. Diranno che volevano darsi alla bella
vita con i soldi dell’eredità dei Maso. Rimesso in libertà nel 2013, nel 2016 è stato
iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di tentata estorsione; nello stesso
anno è stato ricoverato in una clinica psichiatrica per turbe mentali e dipendenza
da cocaina.
1994 – Verona, Nadia Frigerio, 33 anni, aiutata dal fidanzato/protettore, uccide la ma-
dre strangolandola dopo averle somministrato un sonnifero, per avere a dispo-
sizione la casa.
1995 – Sestri Levante, Carlo Nicolini, ventiseienne, uccide i genitori e ne dilania i corpi
estraendo con le mani le viscere. Sembra che la furia omicida fosse stata scatena-
ta da una pietanza che non aveva gradito. Era un soggetto solitario, preferiva la
compagnia degli animali che accudiva in campagna.
2001 – Padova, Paolo Pasimeni, 23 anni, uccide a pugni il padre reo di aver scoperto
che aveva falsificato il verbale di alcuni esami.
2005 – Brescia, Guglielmo Gatti, quarantunenne, uccide gli zii che abitavano al piano
di sotto, ne smembra i cadaveri e li butta da un dirupo. Orfano di madre, due
mesi prima del delitto aveva perso il padre. Gli zii erano una coppia felice e piena
di vita. Lui era studente d’ingegneria fuori corso, taciturno, appassionato di com-
puter e studiava il giapponese. In carcere si è dedicato allo studio di matematica,
fisica, filosofia e storia.
2008 – Mentana, Valerio Ullasci, trentenne, massacra i genitori a colpi di machete;
lavorava come cameriere nel loro ristorante.
2010 – Verona, Piergiorgio Zorzi, ventenne, accoltella il padre poi lo disseziona e lo

4 Basti pensare alla spettacolarizzazione che di questi episodi viene fatta in numerosi pro-

grammi televisivi, fra i quali, in particolare “Porta a porta” e “Chi l’ha visto?”

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 173

getta nel bidone della spazzatura sotto il palazzo. In famiglia c’era una grande
conflittualità. Non ha mai mostrato alcun segno di pentimento.
2011 – Novi Ligure, Erika De Nardo, sedicenne, e il fidanzatino Omar Favaro, dicias-
settenne, uccidono la madre e il fratello undicenne di lei, con 96 coltellate e avreb-
bero ucciso anche il padre se Omar, stanco, non se ne fosse andato. In carcere,
a Erika, che si è laureata in Filosofia, non è mai mancata la vicinanza del padre.
2016 – Cagliari, Igor Diana, ventottenne, uccide a bastonate i genitori adottivi. Durante
l’inchiesta sono emersi un rapporto conflittuale con i genitori, la mancanza di la-
voro, la richiesta continua di soldi e problemi psicologici con tentativi di suicidio.
«Non so cosa mi sia preso, li ho uccisi, non ricordo nulla di quello che è accaduto».
Si è suicidato in carcere.
2016 – Ancona, Antonio Tagliata, diciannovenne, uccide a colpi di pistola i genitori
della fidanzata, sedicenne, su istigazione di lei: non volevano che si frequentassero.
2017 – Ferrara, Riccardo Vincelli, 16 anni fa uccidere i genitori dall’amico Manuel
Sartori, 17 anni, dandogli 85 euro e promettendogliene 1.000 dopo l’omicidio. I
giornali hanno riportato scarso rendimento scolastico, conflitti familiari («Odio
mia madre» aveva detto a un amico). Dopo il delitto (al quale non ha voluto assi-
stere), smascherato, ha dichiarato: «Ho fatto una cazzata. Ma non volevo».

Questo tipo di narcisista ha un forte disturbo di identità, anzi non ne


ha una vera, si identifica con il falso sé che si è costruito ed è così bravo a
mentire perché è il primo a crederci, diventa il personaggio che interpreta
e il mondo, per lui, è costituito solo da un pubblico da manipolare; si in-
namora, vive la fase dell’idealizzazione dell’innamoramento, ma non può
amare perché non ha un se stesso da dare, usa gli altri per aumentare il
sentimento di onnipotenza dietro il quale nasconde la sua grande fragili-
tà: la manipolazione dà un senso alla sua vita.

Circa l’identikit della vittima, è evidente che il narcisista tende a frequentare perso-
ne che può dominare e manipolare; le sceglierà, perciò, deboli, ingenue, fragili e con
scarsa autostima, con cui instaura rapidamente una relazione di dipendenza5. Queste,
non sospettando la malvagità del partner (omnia munda mundis), sono pronte a col-
pevolizzarsi, a sentirsi responsabili, accettando le critiche e impegnandosi a cercare
delle impossibili giustificazioni. Bisognoso di essere amato e ammirato, il narcisista
ricerca figure materne devote, piene di energia, che siano a sua totale disposizione. È
un predatore [101].

Non dice mai ciò che pensa, allude, in modo da aver sempre la pos-
sibilità di dire che è stato frainteso; manda messaggi ambigui; fa accuse
velate, subdole, ripetute; la sua comunicazione è fatta di false verità; il suo
gioco è far sì che la vittima appaia come colpevole e, in caso estremo, si fa

5 Il narcisista negativo cercherà “medici”, “infermieri”, che surroghino la madre insoddisfa-

cente.

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174 La verità sulla menzogna

passare per matto, irresponsabile dei suoi atti perché si sa che i matti posso-
no permettersi tutto [131].
Una forma recente di narcisismo è quella legata al web e alle tecnologie informatiche,
definita narcisismo digitale, una sorta di culto della personalità che si concretizza con
l’esibirsi sul web con foto, video, messaggi, scritti. La tecnologia attuale permette di
essere protagonisti con blog, diffusione di foto e video, twitter, musica e quant’altro,
prodotti autoreferenziali, che gratificano il suo narcisismo.
Proprio recentemente si è assistito a due eventi tragici – verosimilmente ascrivibili a
narcisismo maligno – che hanno destato molto clamore, sia per i fatti in sé, sia perché
sono stati trasmessi praticamente in diretta su Facebook, sia, infine, per il ritardo con
cui i gestori hanno eliminato le immagini dalla piattaforma.
Il primo è accaduto il 17 aprile 2017 a Cleveland dove un uomo di 37 anni ha ucciso
con un colpo di pistola un pensionato di 74 anni (sembra scelto a caso) filmando l’e-
secuzione e postandola su Facebook.
Il secondo è accaduto circa dieci giorni dopo a Phuket, in Thailandia, dove un uomo
di 21 anni, dopo un litigio con la moglie, si è chiuso in una squallida stanza di un hotel
abbandonato con la figlia di undici mesi e qui ha ucciso la bambina per impiccagione,
togliendosi poi la vita, il tutto in diretta su Facebook Live.
Un fenomeno, ancora non del tutto chiarito – e sulla cui veridicità il condizionale è
d’obbligo –, giunto in Italia solo agli inizi del 2017 ma che in Russia sembra aver pro-
vocato, in poco più di un anno, oltre 150 suicidi, è il Blue Whale Challenger, un “gioco”
che sarebbe stato ideato e condotto da un ventiduenne russo, studente di psicologia,
Philipp Budeikin (arrestato e sotto processo per il suicidio di quindici adolescenti),
“gioco” che consisterebbe nel sottostare a cinquanta regole che avrebbero come con-
clusione il suicidio mediante precipitazione dall’edificio più alto della città. Ne parle-
remo più diffusamente nel Cap. XXI.

Pseudologia fantastica
È una malattia che Jung identificò
quando studiava Hitler,
e chiamò pseudologia fantastica.
Consiste nell’inventarsi una bugia
e finire col credere che sia una verità.
(Federico Orlando)

La pseudologia fantastica può essere definita come la produzione di


mistificazioni, anche complesse e fantasiose, difficilmente smascherabili,
che sono utilizzate sia per conseguire dei vantaggi economici e/o sociali,
sia per sostenere la propria autostima o ottenere l’ammirazione altrui. Il
soggetto, nel ripetere e rivivere quotidianamente la sua menzogna, accu-
mula esperienze, che diventano il suo patrimonio mnestico che il cervello

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 175

elabora come se fossero eventi reali o realmente vissuti. Le prime mani-


festazioni di questo disturbo si osservano di solito nella tarda adolescen-
za, quando il ragazzo deve incominciare ad assumersi la responsabilità
delle proprie azioni; motivazioni contingenti o pressioni sociali possono
innescare l’esordio che in seguito si autoperpetua gettando le basi per il
determinarsi della pseudologia che ha un decorso cronico. In ogni caso,
le storie raccontate tendono a dipingere come positiva la figura del narra-
tore; sono di solito avvincenti e fantasiose, ma non sono mai irrealistiche
o inverosimili.

Nel 1978 Enric Marco Battle pubblicò il libro Memorie dall’inferno nel quale descrive-
va la propria reclusione nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg. Dopo
la caduta del Franchismo in Spagna (1978), Marco era stato segretario generale della
Confederaciòn National del Trabajo, un sindacato anarchista, e nel 2000 era stato eletto
presidente di un’associazione di repubblicani deportati nei campi di concentramento
nazisti (Amical de Mauthausen). Nel 2005, quando era sul punto di diventare il primo
ex deportato spagnolo a parlare in una commemorazione ufficiale nel sessantesimo
anniversario della liberazione del lager, Javier Cercas [44] pubblica il libro L’impostore
nel quale smaschera la colossale menzogna di cui Marco era stato autore e interprete:
non era mai stato rinchiuso in un campo di sterminio; era stato in Germania volon-
tariamente per lavorare nell’industria bellica tedesca, era stato arrestato dalla Gestapo
per ragioni imprecisate ma poi processato e assolto. Egli aveva riscritto la propria vita
facendo crescere la sua finzione all’inverosimile, stemperandola con le giuste dosi di
verità e, vivendo della sua menzogna, aveva acquistato prestigio e onori. Poi arriva uno
storico, Benito Bermejo, che nel corso dei suoi studi scopre che Marco aveva mentito
su aspetti cruciali della propria biografia e che, invece che un eroe, era un impostore.

Quello di Enric Marco Battle è un brillante esempio di sofisticata pseu-


dologia fantastica protrattasi per oltre trent’anni, periodo durante il quale
egli è riuscito a reggere la parte in modo così credibile da ottenere cariche
di prestigio. In casi come questo, è necessario che il soggetto entri a tal
punto nella propria finzione da includerla nella propria memoria: spesso
sono eventi esterni imprevisti che fanno crollare tutto il castello. Ma, in
fondo, non aveva fatto così anche Alonso Quijano che, giunto ai 50 anni
e rendendosi conto di aver vissuto una vita piattamente ordinaria, decise
di viverne un’altra assumendo una nuova identità, quella di don Quijote
de la Mancha, il protagonista del capolavoro di Cervantes? E che dire del
pirandelliano Mattia Pascal?
In molti casi il soggetto racconta, come proprie, esperienze inventate
e le elabora come se fossero ricordi di eventi realmente accaduti. In ge-
nere sono mistificazioni, anche complesse e fantasiose, variamente utiliz-
zate per creare un’immagine eroica di sé da cui ricavare vantaggi (come
nel caso appena descritto) o, più semplicemente, per mettersi al centro

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176 La verità sulla menzogna

dell’attenzione, per apparire protagonista (imprese compiute, titoli acqui-


siti, conoscenze illustri, conquiste amorose ecc.), anche di eventi negativi
(malattie gravi guarite miracolosamente, incidenti drammatici dai quali
sarebbe uscito illeso, disastri economici dai quali si sarebbe brillantemen-
te ripreso ecc.), come avviene tipicamente nel disturbo istrionico di per-
sonalità.
Se il livello culturale e intellettuale del soggetto è buono, le menzo-
gne sono in genere abbastanza ben congegnate e, per quanto possano
contenere elementi “eccessivi”, risultano sostanzialmente credibili e dif-
ficilmente smascherabili se non intervengono fattori esterni che fanno
crollare l’intero castello, come nel caso di Enric Marco Battle o in quello
riportato sotto di Laura Albert.

J.T. Leroy (Jeremiah Terminator Leroy), è figlio di Sarah, una prostituta tossicodi-
pendente quattordicenne, dato in adozione appena nato essendo stata la madre di-
chiarata “inadatta al ruolo di genitore”. Compiuti i 18 anni, Sarah, che non ha cam-
biato vita, fa causa ai genitori adottivi e riprende il figlio a vivere con lei, sulla strada,
vittima di molestie e abusi, diventando ben presto tossicodipendente. A 13 anni, ab-
bandonato definitivamente dalla madre, incontra due musicisti falliti, Laura Albert
e Geoffrey Knoop, che lo inseriscono in un consultorio per ragazzi disagiati dove lo
prende in cura lo psicoterapeuta Terrance Owens il quale gli chiede di scrivere le sue
esperienze di vita. Pubblica così alcuni racconti con lo pseudonimo di Terminator e
nel 1999 esce Sarah, storia di un minorenne figlio di una prostituta, scambiato per
una ragazzina; nel 2000 esce Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, in cui un ragaz-
zino viene condotto dalla madre in una vita fatta di violenza; nel 2005 esce La fine di
Harold in cui racconta di persone che fingono di prendersi cura dei giovani mirando
però ad attività perverse.
Nel 2005 il New York Times pubblica la notizia che J.T. Leroy non esiste, i libri sono
opera di fantasia di Laura Albert, che, assieme a Geoffrey Knoop, suo compagno, si
sarebbe occupata del presunto Leroy; la sorella di Geoffrey, Savannah, si era prestata a
interpretare Leroy nelle sue rare uscite pubbliche, mascherata con parrucche e grandi
occhiali.
Laura Albert confessa che tutto era incominciato nel 1996 quando aveva contattato
Dennis Cooper, famoso scrittore gay di romanzi scabrosi; temendo che costui non
avrebbe preso in considerazione una scrittrice trentenne madre di famiglia, aveva pre-
sentato i suoi scritti fingendosi un ragazzo di strada.
L’inganno è stato svelato da Geoffrey Knoop in seguito alla separazione da Laura.

Tutt’altro che rari sono i casi di soggetti che dichiarano titoli acca-
demici o professionali mai conseguiti ed esercitano abusivamente la ri-
spettiva professione non solo nel privato ma addirittura in enti pubblici
– dove solitamente si entra per concorso o presentando comunque un
curriculum e dei documenti! Ne abbiamo già accennato nel Cap. III, dove

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 177

abbiamo riportato anche un caso che ha fatto scalpore in Italia qualche


anno fa. Abbiamo rilevato anche che la professione medica è una di quelle
in cui episodi di questo genere non sono rari e talora sono scoperti dopo
numerosi anni o al momento del pensionamento, al termine di una lunga
e apprezzata carriera.

Jean-Claude Romand, ritenuto un uomo mite, tranquillo, dedito alla famiglia, il 9


gennaio 1993 uccise la moglie e i due figli e, il giorno dopo, i genitori, incendiò la sua
casa e tentò inutilmente di suicidarsi. All’inchiesta giudiziaria si venne a sapere che
per 18 anni aveva mentito a tutti affermando di essere laureato in medicina e di lavo-
rare come ricercatore all’OMS di Ginevra e che la strage era da attribuirsi al timore di
venire scoperto e alla conseguente vergogna che ne sarebbe derivata.
Lo scrittore Emmanuel Carrère [39], che ebbe con lui diversi colloqui e una fit-
ta corrispondenza epistolare, ha raccontato la storia di Romand nel romanzo-verità
L’avversario. Una prima bugia nell’adolescenza probabilmente per rendersi interes-
sante (aggressione da parte di uno sconosciuto), poi l’iscrizione alla facoltà di medici-
na (i genitori avrebbero preferito agraria, come da tradizione familiare). Alla fine del
secondo anno non riesce a sostenere gli esami ma dice in casa che sono andati bene.
Incomincia così la sua carriera di pseudologo, una vita immaginaria, dominata dal
timore di essere scoperto, con il problema di occupare il tempo, che avrebbe dovuto
dedicare allo studio prima e al lavoro dopo, e di procurarsi il denaro non avendo un
lavoro. Quando si rende conto che il castello di menzogne sta per crollare, alla soglia
dei quarant’anni, mette in atto la strage della sua famiglia.

Quando la pseudologia fantastica si colloca nell’ambito di un distur-


bo istrionico di personalità, si associa ad altri sintomi quali comporta-
mento seduttivo anche in situazioni inappropriate, tendenza ad attirare
l’attenzione con il proprio aspetto fisico e con l’abbigliamento, ipersen-
sibilità alle critiche, drammatizzazione delle proprie emozioni. Il sog-
getto è teatrale, recitativo, le menzogne che racconta sono facilmente
individuabili sia perché scarsamente strutturate, sia perché la mutevo-
lezza e la superficialità del comportamento fanno emergere ben presto
delle contraddizioni.
Un altro settore in cui trova ampio spazio la pseudologia fantastica
è la psichiatria forense in cui imputati, accusatori e testimoni hanno
interesse, a vario titolo, a celare la verità, a mistificarla nel tentativo di
scagionarsi dalle accuse, inventarle o amplificarle, favorire o danneggia-
re qualcuno con la propria testimonianza, anche nel timore di possibili
ritorsioni da parte di imputati per la loro deposizione. Ma di questo
diremo più avanti.

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178 La verità sulla menzogna

Mitomania
Il megalomane è uno che dice ad alta voce
ciò che ognuno pensa di sé nel suo intimo.
(Emil Cioran)

La mitomania esprime la necessità di un individuo di porsi di fronte


agli altri in modo da emergere, da farsi notare, da acquisire valore o pre-
stigio mediante racconti di storie, avventure, capacità, conoscenze (o an-
che disgrazie e sventure) di pura fantasia, senza alcun fondamento reale.
Il mitomane, in generale, punta ad amplificare il più possibile gli eventi,
i fatti, gli accadimenti perché in tal modo acquista valore la parte che egli
ha avuto in essi (o dice di aver avuto), che, naturalmente, è una parte da
protagonista. Il suo scopo può essere semplicemente l’essere ammirato,
considerato, ma in altri casi mira ad accreditarsi come persona importan-
te, degna di fiducia, per accattivarsi l’interlocutore e poterlo poi raggirare.
In altri casi ancora, si presenta come vittima di eventi drammatici per
sfruttare la compassione che riesce a suscitare.
In tutti i casi, le menzogne del mitomane sono in genere organizzate,
resistenti alla critica e credibili. Almeno agli inizi, egli ne è cosciente ma,
in seguito, può finire per convincersi che siano vere e, di fronte alle even-
tuali contestazioni, rispondere in maniera logica e coerente, evitando di
dare risposte banali o puerili o svianti, senza cadere in contraddizioni e
mostrando sicurezza.
Una certa tendenza alla mitomania è piuttosto frequente nei bambini
che ancora confondono fantasia e realtà e si creano mondi di fantasmi, di
amici immaginari o di coniglietti che, grazie alla loro propensione all’au-
tosuggestione, finiscono per consolidarsi al punto da rimanere in bilico
tra realtà e fantasia, talora indecisi su quale versante collocarli. Non è ec-
cezionale che nel loro gioco dell’amico immaginario coinvolgano i geni-
tori o altri familiari i quali talora, finiscono per avere difficoltà a capire
dove finisce il gioco e dove inizia la realtà.
Naturalmente le fantasie mitomaniche variano in rapporto ai sotto-
stanti sentimenti egoistici di volta in volta in causa: vanità, orgoglio, in-
vidia, timore di una punizione, attesa di un premio. In alcuni casi, fortu-
natamente non frequenti, queste fantasie possono causare conseguenze
spiacevoli quando non drammatiche. È il caso, ad esempio, di bambini,
anche piccoli, che avendo sentito parlare in casa o alla televisione di qual-
che scandalo a sfondo sessuale, magari con qualche parola troppo esplici-
ta, coinvolgono familiari e amici.

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 179

A questo proposito possiamo citare un episodio accaduto un po’ di anni fa in un pa-


esino dove uno di noi andava in villeggiatura. Quell’anno, era sulla bocca di tutti un
episodio a sfondo sessuale che aveva fatto scandalo. Un giorno, la madre di una bam-
bina di circa cinque anni trovò la figlia che aveva denudato una bambola e la baciava
a livello del pube. Alla domanda di cosa stesse facesse, la bambina rispose «Quello
che hanno fatto a me» e, alle ulteriori domande della madre angosciata, confessò che
questi atti li aveva fatti più volte con il fratellino, con il padre e con il nonno. Portata
immediatamente a visita, non emersero segni di possibili abusi e, alla fine, ammise di
aver voluto fare «come la signora di cui tutti parlano...».

Ma non sempre si assiste a una conclusione felice e le cronache, non


eccezionalmente, riportano casi finiti con condanne di padri (o altri inno-
centi) per inesistenti abusi sessuali su minori solo sulla base del racconto
dei minori stessi, talora indotti (mitomania per procura) da uno dei genitori
nell’ambito di procedimenti di separazione coniugale conflittuale. Il mito-
mane spesso è cosciente della natura fantastica del suo racconto, talvolta
invece finisce col crederci tanto è viva la sua partecipazione affettiva. Fisio-
logica, come abbiamo detto, nel bambino, la mitomania è patologica in sog-
getti adulti costretti a sostituire una realtà esterna o interna insopportabile
con una fittizia o per cercare di trarne vantaggi.
Negli ultimi 15-20 anni, gli strumenti informatici, ormai accessibili a
tutti, hanno messo a disposizione piattaforme che sembrano fatte apposta
per i mitomani. Basti pensare alle chat di incontri di ogni tipo (soprattut-
to sessuali) nelle quali, molto spesso, i profili degli utenti sono talmente
improbabili, iperbolici, che non occorre essere fini psicologi per vederne
la falsità a colpo d’occhio ma funzionano lo stesso: la gente vuole essere
ingannata6.
Un ambiente virtuale particolarmente adatto alle esibizioni mitoma-
niche è senz’altro Facebook: creare un profilo Facebook significa spesso
creare un palcoscenico sul quale recitare la propria realtà “come se” fosse
vera, talora soltanto un po’ imbellettata con qualche innocua bugia, spes-
so totalmente snaturata da immagini di sé completamente ristrutturate,
quasi irriconoscibili.
Ci sono soggetti che, affidando i propri ricordi (scritti, foto, filmati)
alla piattaforma digitale, finiscono per confondere la propria realtà con
quella costruita online, andando incontro a un fenomeno psicopatologico
emergente, la cosiddetta amnesia digitale.

6 Vulgus vult decipi, ergo decipiatur (Il popolo vuole essere ingannato, e allora sia ingannato).

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180 La verità sulla menzogna

Millanteria

Se volessimo paragonare i bugiardi patologici a una valuta, ad esem-


pio l’euro, disturbo narcisistico, pseudologia fantastica e mitomania rap-
presenterebbero i tagli di maggior valore, quelli cartacei, la millanteria
potrebbe essere, invece, la moneta di minor valore, i pezzi metallici. Nel
gioco degli scacchi i millantatori sarebbero i pedoni.
Di millantatori, di soggetti che, anche nelle circostanze meno oppor-
tune, cercano di esaltare la propria persona fino a cadere nel ridicolo, se
ne incontrano frequentemente.
Il millantatore si colloca al confine tra la normale spinta a mettersi in
buona luce, magari anche con qualche forzatura cosciente, e la patologica
tendenza a dare di sé e delle proprie qualità l’immagine eccezionale che
egli stesso ha o ambirebbe avere. Ricorre con estrema facilità alla men-
zogna, anche quando non è necessario, spesso esponendosi al ridicolo;
è attratto da ciò che è grande, fantastico, iperbolico; non “costruisce” la
trama della menzogna ma dà libero corso alla propria fantasia senza ve-
rificare che abbia dei punti fermi con cui assicurarle un minimo di veri-
dicità. Queste caratteristiche lo fanno assomigliare a Lelio, personaggio
goldoniano di Il bugiardo che, una volta scoperto, passa a una nuova serie
di bugie, o finge di non aver compreso, o risponde evasivamente, o la
mette sullo scherzo (Cap. VI).
La millanteria è democratica, si incontra nel fanciullo e nell’adolescen-
te, nella donna e nell’uomo, nel giovane e nel vecchio, nella persona intel-
ligente e nell’insufficiente mentale, in ogni tipo di professione. In alcuni
casi il millantatore ha come obiettivo il proprio prestigio (spaccone), in
altri il lucro (ciarlatano) e in altri ancora la truffa (truffatore).
Lo spaccone mente per esaltare la propria forza (smargiasso), la pro-
pria potenza, le proprie capacità fisiche, o la nobiltà dei propri natali (non
è infrequente nei nobili decaduti!), o la ricchezza, le amicizie, le imprese
amatorie, l’abilità nella professione, nello sport, negli hobby, in breve, in
tutte le attività umane. Ciascuno di noi conoscerà certamente un caccia-
tore o un militare che si vanta delle proprie performances mirabolanti: la
letteratura e il teatro ci hanno fornito stupendi, esilaranti campioni in en-
trambi i campi. Il barone di Münchhausen, di cui diremo nel Cap. XVII, è
il perfetto prototipo del millantatore tanto come cacciatore quanto come
militare: sette pernici già pronte per lo spiedo, infilzate con un sol colpo
con la bacchetta di ferro con cui aveva caricato il fucile e la terribile bat-
taglia contro i Turchi montando un cavallo tagliato in due parti entrambe
ancora impegnate in battaglia, e poi ricongiunte insieme con un po’ di
unguento e di alloro!

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 181

Fra i cacciatori è famoso Tartarin de Tarrascon, il protagonista di tre romanzi di


Alphonse Daudet [59], il quale, spaccone, bugiardo e fantasioso, conquista la gloria in
imprese non proprio straordinarie: va in Africa a caccia di leoni e alla fine ne uccide
uno vecchio e cieco che un mendicante esibiva nelle piazze (Tartarino di Tarascona
[59]), scala il monte Bianco (Tartarino sulle Alpi) e fonda una colonia in Australia
(Port-Tarascon). La descrizione che Daudet fa del suo eroe è lo specchio esatto dello
spaccone:
Egli non mente, s’inganna; non dice sempre la verità, ma crede di dirla; e quando
inventa di aver fatto una cosa, a forza di parlarne, finisce per non essere più sicuro
lui stesso di non averla fatta. La sua menzogna è una specie di miraggio.

Quanto ai militari, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta. Possiamo


partire da Pyrgopolinice (cioè: l’espugnatore di torri e di città), il Miles
gloriosus di Plauto [152] (che sbaraglia i reggimenti di Bombomachide
con un soffio, come il vento con le foglie – quasi ventus folia), per passare
al conte di Culagna, protagonista della Secchia rapita del Tassoni [187],
che così lo descrive:
Quest’era un cavalier bravo e galante,
filosofo poeta e bacchettone
ch’era fuor de’ perigli un Sacripante,
ma ne’ perigli un pezzo di polmone.
Spesso ammazzato avea qualche gigante,
e si scopriva poi ch’era un cappone,
a Rodomonte, personaggio tanto dell’Orlando innamorato del Boiardo
[25] che dell’Orlando furioso dell’Ariosto [9] (da cui rodomontate per i
comportamenti da sbruffone); per non dire di Capitan Fracassa, prota-
gonista dell’omonimo romanzo d’appendice di Théophile Gautier [92],
squattrinato rampollo di una famiglia nobilissima finita in miseria, sbruf-
fone e vanitoso, che si aggrega a una compagnia di attori diretti a Parigi
presentandosi come capitano di ventura.
Quanto a millanteria, non hanno da invidiare niente a nessuno i pro-
tagonisti delle tre commedie – La verdad sospechosa, Le menteur e Il bu-
giardo – di cui abbiamo ampiamente detto nel Cap. VI e le altre figure di
mentitori della commedia dell’arte (Pulcinella, Arlecchino ecc.).
I vecchi alienisti ritenevano che lo stato mentale delle isteriche fosse
un terreno fecondo per questo tipo di mentitori e non hanno mancato di
sottolineare la natura morbosa della tendenza a mentire come caratteri-
stica principale della vita psichica di queste pazienti dominate dal deside-
rio di attirare su di sé, a ogni costo, l’attenzione assumendo atteggiamenti
teatrali, drammatizzando la loro vita con ogni mezzo.

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182 La verità sulla menzogna

Il ciarlatano è invece colui che esalta, più che i meriti personali, i pro-
dotti che si propone di vendere. È una figura nota probabilmente fin dai
tempi più remoti, quando il commercio non era particolarmente orga-
nizzato essendo le comunità troppo piccole e lontane le une dalle altre: il
ciarlatano, con il suo carro pieno delle cose più svariate, girava per villag-
gi, per fiere e feste, magnificando la propria merce e, spesso, presentan-
dosi come guaritore, vendeva elisir o unguenti miracolosi, capaci di cu-
rare qualsiasi male (compreso il “mal d’amore”). Oggi i ciarlatani vecchia
maniera sono estinti, sostituiti dai loro epigoni non più iteranti ma fermi
davanti alla telecamera che diffonde in lungo e in largo nell’etere la loro
esibizione con le cosiddette televendite. E proprio grazie alla televisione, i
moderni ciarlatani e imbonitori raggiungono grande notorietà.

In Italia possiamo citare Guido Angeli che, negli anni ’80, pubblicizzava i mobili Aiaz-
zone con uno slogan rimasto famoso, «Provare per credere!» e qualche anno dopo,
Vanna Marchi che, con uno stile tutto personale, molto urlato, ha propagandato e
venduto improbabili cure dimagranti a base di estratti di alghe e tarassaco e la crema
“scioglipancia”.
Nel 2001 Vanna Marchi fu denunciata per truffa: lei, la figlia Stefania Nobile e il
sedicente mago brasiliano Mario Pacheco Do Nascimiento vendevano numeri fortu-
nati da giocare a lotto, talismani, amuleti e kit contro le influenze maligne, compreso
il rito del sale. Questo consisteva nel vendere bustine di sale da cucina con rametti di
edera per scacciare il malocchio: dovevano essere seguite procedure rituali che, in caso
di fallimento (il non completo scioglimento del sale), avrebbero indicato la presenza
di malocchio e quindi la necessità di sottoporsi a specifici rimedi che vendevano loro
stessi. Poiché la quantità di sale era tale che, per le leggi della chimica (saturazione),
non avrebbe potuto sciogliersi completamente nella quantità d’acqua indicata, molti,
convinti di avere il malocchio, ricorrevano ai loro costosi rimedi.
Vanna Marchi, il convivente Francesco Campana e sua figlia Stefania Nobile furono
condannati a diversi anni di carcere per associazione a delinquere finalizzata alla truf-
fa e truffa aggravata; Mario Pacheco Do Nascimiento, fuggito in Brasile, fu condanna-
to in contumacia a 4 anni.
Lo slogan-urlo di Vanna Marchi era «D’accordo?!».

In Italia, una legge del 1931 punisce il ciarlatano (chi spaccia qualcosa
per ciò che non è), ma i ciarlatani sopravvivono con altro nome e conti-
nuano a vendere al pubblico (oggi televisivo o internettiano) la propria
merce, incantando la gente con abbondanza di chiacchiere e gabbandola.

Il truffatore è un millantatore il cui obiettivo consiste nel trarre van-


taggio ingannando qualcuno; deve perciò creare le circostanze adatte in
maniera tale che la vittima non solo non si renda conto del raggiro ma,
una volta scoperta la truffa, i sospetti cadano su altri.

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 183

Nei casi in cui le capacità di critica del truffatore siano più compro-
messe, la preparazione della truffa è più approssimativa, le millanterie
sono al limite della credibilità, al punto da rischiare di essere scoperto già
in questa fase, o scegliendo la persona sbagliata, ad esempio un soggetto
scaltro; spesso la tattica del raggiro è ingenua, puerile, facilmente eviden-
ziabile e, infine, il possibile guadagno è inadeguato rispetto al rischio a
cui si espone.
Dei tre tipi di millantatore, il truffatore è senz’altro quello più “fragile”
psichicamente, generalmente con capacità intellettive ai limiti o sotto la
norma.

Menzogna compulsiva
Io sono il più fenomenale bugiardo
che abbiate mai incontrato in vita vostra.
È spaventoso.
Perfino se vado in edicola a comprare il giornale,
e qualcuno mi domanda che cosa faccio,
come niente gli dico che sto andando all’opera.
È spaventoso.
(Jerome D. Salinger, Il giovane Holden, 1951)

L’autore [164] del famoso romanzo di formazione Il giovane Holden,


descrive in maniera icastica la figura del mentitore compulsivo, colui che
mente d’impulso e senza una specifica ragione.
La menzogna compulsiva sembra, infatti, prodotta più da un irrefrena-
bile impulso interiore che dal raggiungimento di uno scopo. Il soggetto
appare più gratificato dal fatto di raccontare il frutto della propria fantasia
che da ipotetici vantaggi, tant’è che qualcuno le ha definite menzogne
“oneste”. Possiamo dire che mente per abitudine e perché mentire lo fa
sentire meglio di quando dice la verità: per lui dire la verità è difficile,
mentire è quasi un automatismo incontrollabile per cui mente su qualsia-
si cosa. Rispetto agli altri tipi di mentitori, in lui non c’è intento manipo-
latorio, fermo restando che anche lui può mentire allo scopo di ottenere
un risultato, al pari del bugiardo patologico... o di tutti noi. Nella sua ot-
tica, mentendo ritiene di poter aggirare gli ostacoli, semplificarsi la vita,
evitare il rischio di affrontare situazioni spiacevoli, come ammettere un
proprio torto o dover fornire spiegazioni. Poiché raccontare con successo
una menzogna provoca una certa euforia, un certo piacere, ne deriva che
può creare dipendenza esattamente come il gioco, lo shopping, il sesso.
Il soggetto la vive, infatti, in maniera egosintonica, non considerando-

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184 La verità sulla menzogna

la né una violazione del codice morale né una patologia. A causa della


mancanza di critica, il soggetto non sente alcuna necessità di sottoporsi a
trattamenti per questo specifico problema.
In genere la menzogna compulsiva si sviluppa nell’infanzia, in am-
bienti familiari in cui fa parte del “normale” stile di vita.
Il bugiardo compulsivo costruisce storie sostanzialmente credibili e
modifica il proprio racconto se si accorge che rischia di essere scoperto e,
anche se viene scoperto, non ne fa un problema, pronto a modificare la
versione dei fatti o a spostare l’attenzione su altri argomenti, in rapporto
alla menzogna del momento.

La testimonianza
Si sa che gli avvocati hanno strappato a riluttanti giurie
trionfanti verdetti di non colpevolezza per i loro clienti
anche quando questi clienti, come spesso accade,
erano chiaramente e indiscutibilmente innocenti.
(Oscar Wilde, The Decay of Lying, 1889)

Se l’imputato non è stato colto in flagranza di reato e/o se le prove og-


gettive non sono, come suol dirsi, schiaccianti, la testimonianza è uno dei
pilastri del procedimento giudiziario sia penale che civile ma, al tempo
stesso, è anche il più critico e aleatorio7.
Per questo suo ruolo fondamentale, la testimonianza è stata ampiamen-
te studiata e tutti convengono che non rappresenta praticamente mai il
racconto di un ricordo imparziale assoluto, ma è sempre un’interpretazio-
ne dei ricordi che implica l’intervento attivo e selettivo del testimone con
la sua personalità, la sua cultura, i suoi pregiudizi e/o gli interessi in gioco.
La testimonianza, cioè il racconto dei fatti da parte dell’imputato e dei
testi di accusa e di difesa, si presta, infatti, a imprecisioni, distorsioni, fal-
sificazioni per diverse ragioni, a partire da quelle fisiologiche per giunge-
re, attraverso distorsioni volontarie, a quelle smaccatamente false, vuoi
attestando il falso, vuoi nascondendo delle informazioni mediante la dis-
simulazione, volontariamente ma anche involontariamente. Né possiamo
pensare che i difetti e i limiti delle deposizioni possano essere facilmente
scoperti dall’esperienza del giudice pur attento alla mimica, alla gestica o
dall’applicazione delle diverse tecniche proposte per smascherare le men-

7 Negli Stati Uniti, da quando è stata introdotta nel procedimento giudiziario la prova del

DNA, la revisione di numerosi processi indiziari ha portato all’assoluzione di oltre un terzo dei
soggetti che erano stati condannati solo sulla base di prove testimoniali.

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 185

zogne – le varie macchine della verità (Cap. V) –, la cui predittività spesso


non è superiore al lancio della monetina.
Ma, prima di tutto, dobbiamo tener conto della fisiologia della memo-
ria. A partire dalla percezione delle informazioni, alla loro “archiviazione”
e al recupero in forma di ricordo, sono molti i punti critici, possibili fonti
di errore, pur con la massima buona fede, (vedi Cap. IX e Appendice tec-
nica). Basti pensare al fatto che noi, grazie al circuito di scansione, “econo-
mizziamo” sulla quantità delle informazioni da memorizzare, registrando
lo schema della percezione e non la percezione in sé; inoltre, ciò che me-
morizziamo non è come un quantum d’informazione che potremmo re-
gistrare nella memoria di un computer, ma è una “disseminazione” di spe-
cifiche informazioni nelle aree che registrano i vari aspetti contenutistici
ed emotivi dell’evento memorizzato, che devono essere “ri-assemblate” in
fase di recupero. In realtà, noi non richiamiamo alla memoria un ricordo
ma lo “ricostruiamo”. Già questo potrebbe essere sufficiente a indurci ad
essere cauti nel valutare i ricordi, anche al di fuori dell’ambito giudiziario.
Se poi entriamo nello specifico della testimonianza, è necessario, in
primo luogo, distinguere la posizione del singolo teste per tener conto
dell’eventuale distorsione che ne potrebbe derivare: l’imputato e i suoi
testi potrebbero cercare di influenzare a loro favore, con i loro racconti
(magari concordati in precedenza), il giudizio dell’autorità e lo stesso, ma
in senso opposto, potrebbe fare la vittima e i suoi testi. A questo proposito
vogliamo ricordare che in alcuni Paesi non è ammessa la testimonianza
dell’imputato e, in alcuni, anche di terzi aventi interessi nella causa. Più
recentemente si è ritenuto, al fine di consentire una più ampia acquisizio-
ne della prova, di accettare anche queste testimonianze assoggettandole,
comunque, alla valutazione incrociata (cross examination).
Nel valutare l’attendibilità e la veridicità delle testimonianze, inoltre,
gli operatori della giustizia – prendiamo a prototipo questa categoria che,
più di altre, ha a che fare con le testimonianze –, in tutte le fasi del proce-
dimento, tanto penale che civile, dovrebbero tener conto dei fondamen-
ti della testimonianza, valutare i limiti della percezione e gli elementi di
possibili distorsioni. è necessario inquadrare le caratteristiche del teste,
in particolare in rapporto al mentire (come descritto nei paragrafi prece-
denti), prendere in considerazione l’età, le condizioni dell’apparato sen-
soriale e della “scena del crimine”, la presenza di rigidi stereotipi socio-
culturali (razzismo, omofobia, pregiudizi religiosi), il modo in cui viene
svolto l’interrogatorio e altro ancora.
Non ci addentreremo nei dettagli delle numerose variabili che posso-
no rendere più o meno attendibile una testimonianza, ma accenneremo
a quelli più critici.

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186 La verità sulla menzogna

In primo luogo, dobbiamo essere consapevoli che, come sottolineava


Musatti [135], non esistono testimonianze integralmente veritiere e tali
da consentire di pervenire a una verità obiettiva, poiché ogni fatto di cui
si viene a conoscenza, al di là di tutte le variabili esterne, è visto da ciascu-
no attraverso una personale “lente deformante”. Come ben illustra il film
cult di Akiro Kurosawa, Rashomon (1950), da cui ha preso il nome il co-
siddetto dilemma Rashomon: uno stesso evento può apparire diverso nel
racconto dei vari testimoni al punto che le loro testimonianze sembrano
riferirsi a eventi differenti.

Nel film, un boscaiolo, un monaco e un passante si fermano a parlare di un fatto di


sangue avvenuto qualche tempo prima: un brigante avrebbe ucciso un samurai e abu-
sato della moglie di lui.
La storia viene raccontata per flashback, da quattro testimoni, il brigante-violenta-
tore, la moglie del samurai, la vittima (che parla attraverso un medium) e un narrato-
re, che pare sia il più obiettivo dei testimoni. Le versioni sono contrastanti e non si ca-
pisce bene quale sia la verità. Le versioni del brigante, della moglie del samurai e della
vittima sono raccontate dal monaco che aveva deposto al processo avendo incontrato
per strada poco prima del delitto il samurai e sua moglie. Ma il boscaiolo definisce
false queste versioni e fornirà lui l’ultima, come vero testimone dei fatti (circostanza
non emersa al processo): ma alla fine anche questa verrà messa in discussione.

Interessante, anche se lontano dalla perfezione stilistica di Kurosawa,


è il film di Pete Travis del 2008, Prospettive di un delitto, in cui le testi-
monianze, praticamente inconciliabili, di un attentato al Presidente degli
Stati Uniti sono addirittura otto.

In Spagna, durante un importante summit sulla guerra al terrorismo, il Presidente de-


gli Stati Uniti rimane ferito in un attentato e vengono fatte esplodere due bombe nella
stessa piazza dove si tiene la cerimonia. Attraverso una serie di flashback, di racconti
di sopravvissuti alle bombe, dell’agente addetto alla protezione del Presidente, degli
attentatori, scorrono sotto i nostri occhi otto storie dell’evento criminale, in ognuna
delle quali c’è un frammento di verità e ognuna, al tempo stesso, lascia intravedere
nuovi enigmi senza che si possa giungere a una conclusione univoca.

Al teste si chiede di «dire tutta la verità e non nascondere nulla di


quanto è a sua conoscenza» (Art.497/2 c.p.p.), mentre dovremmo forse
chiedergli di essere sincero, di dire ciò che sa senza nascondere nulla. La
verità è, infatti, un giudizio su un evento, la sincerità è l’evento. In ogni
caso, anche la testimonianza più fedele sarà sempre un mix variabile di
verità oggettiva e di sovrapposizioni e sostituzioni soggettive, in parte co-
scienti e in parte inconsce, elaborate dal testimone in base al suo livello di
coinvolgimento, dati i possibili elementi distorsivi, intrinseci ed estrinse-

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Xiv. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 187

ci. Se importanti sono le capacità prestazionali dell’apparato sensoriale,


non lo sono di meno le condizioni ambientali (quantità di luce, coinvol-
gimento/presenza di più persone, rapidità dello svolgimento dell’evento,
presenza di possibili stimoli distraenti, timori per la propria incolumità8
ecc.) né ancor meno i pregiudizi socio-culturali9. Se avete mai assistito
a un incidente automobilistico, vi sarà certamente capitato di ascoltarne
la descrizione fatta da più astanti per rendervi conto di quante e quanto
diverse tra loro fossero le versioni che essi ne fornivano. Se poi dal mo-
mento dell’evento alla sua rievocazione è passato del tempo, è del tutto
verosimile che il ricordo dei fatti possa essersi sbiadito, che l’oblio abbia
cancellato qualche dettaglio e che la ricostruzione dei ricordi possa essere
approssimativa. Se poi si tratta di un evento che ha suscitato clamore, che
ha occupato per un po’ le pagine dei giornali o di cui la TV ha parlato
ripetutamente, c’è il forte rischio che il racconto del teste sia un mix in
cui il ricordo soggettivo e le informazioni acquisite siano praticamente
indistinguibili.
Non dobbiamo neppure sottovalutare il fatto che, in seguito all’esposi-
zione a eventi traumatici molto dolorosi, imbarazzanti, destabilizzanti sul
piano psichico, si sviluppi un disturbo post-traumatico da stress – PTSD,
che comporta sintomi dissociativi, tra cui uno stato di onnubilamento,
numbing, e amnesie lacunari che perdurano a lungo – i cui correlati neu-
robiologici sono, ad esempio, la riduzione del volume dell’ippocampo,
struttura cerebrale che ha un ruolo centrale nei meccanismi della memo-
ria [126].
Nonostante questi limiti, il confronto tra le varie deposizioni rimane
un buon metodo per valutare l’accuratezza delle testimonianze, cioè la
corrispondenza tra la realtà oggettiva del fatto e la realtà soggettiva rac-
contata dal testimone. Quest’ultima, insieme alla credibilità, cioè al rap-
porto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo, costi-
tuiscono i parametri in base ai quali si valuta l’attendibilità del testimone.

8 È stato descritto, ad esempio, un meccanismo psicologico denominato “focus on weapon”


che si verifica quando un individuo è minacciato con un’arma, e che consiste nel fatto che co-
stui concentra la sua attenzione sull’arma tanto da non percepire più alcun dettaglio della scena e
dell’aggressore al punto da non riconoscerlo in seguito anche se era a volto scoperto.
9 Alcuni anni fa, a New York, furono fatti degli esperimenti per studiare l’attendibilità dei

testimoni. In uno di questi veniva simulata una rissa per strada alla quale assisteva, senza prendere
parte all’azione, un afroamericano: un certo numero di testimoni riferì che costui era armato e non
solo aveva partecipato alla rissa ma l’aveva addirittura provocata. D’altra parte è esperienza comune
che giornali e TV, quando danno notizia di eventi criminosi, si affrettino a specificare che gli autori
sono cittadini dell’Est Europa, o Rom, o extracomunitari e siano un po’ meno pronti ed enfatici se
gli autori sono italiani.

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188 La verità sulla menzogna

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XV. Menzogna e scienza

Se è verde o si muove, è biologia.


Se puzza, è chimica.
Se non funziona, è fisica.
Se non si capisce, è matematica.
Se non ha senso, è economia o psicologia.
(Arthur Bloch, Il secondo libro di Murphy, 1993)

«Ma come,» dirà qualcuno «anche la scienza mente? E se mente la


scienza, da chi o da che cosa possiamo attenderci la verità?»
Sì, la scienza mente, perché dietro alla scienza ci sono gli scienziati che,
contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non sempre sono neutrali:
sono persone con le ambizioni, la presunzione, la volontà di raggiungere
la fama, il successo, il potere, i guadagni, con l’invidia e talora, bisogna ri-
conoscerlo, con finalità ideologiche e politiche. La menzogna è anche nella
ricerca impostata sul metodo sperimentale di Galilei, e lo stesso Galilei, a
ben vedere, fu un mentitore! Alcuni dei suoi esperimenti, infatti, non li
ha mai eseguiti, di altri ha alterato i risultati (come la caduta dei gravi, il
piano inclinato, il pendolo ecc.) poiché gli mancavano gli strumenti tec-
nici o le condizioni ottimali (come la mancanza di attrito nel vuoto) che
gli permettessero di verificare le sue ipotesi. Egli stesso dice chiaramente
nel Dialogo sui Massimi Sistemi [88]: «Io senza esperienza son sicuro che
l’effetto seguirà come vi dico perché così è necessario che segua».
E mentiva Gregor Mendel, scopritore delle leggi dell’ereditarietà (pur
avendo comunque ragione!), giacché i numeri dei piselli che sostennero
la sua scoperta non corrispondevano esattamente a quelli attesi.
Del resto, l’epidemiologo Paul Feyerabend [84], dopo aver studiato
vari metodi, compreso quello di Galilei, ha sostenuto che non esiste un
metodo scientifico diverso dal “basta che funzioni” (anything goes), in-
cludendo menzogne o irregolarità metodologiche quali le ipotesi ad hoc.
Egli scrive:
L’idea che la scienza possa, e debba, essere gestita in accordo a leggi fisse
e universali è tanto irrealistica quanto perniciosa. È irrealistica in quanto
considera in modo troppo semplicistico le doti dell’uomo e le circostanze che

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190 La verità sulla menzogna

ne incoraggiano, e causano, lo sviluppo. Ed è perniciosa in quanto un ten-


tativo di imporre le regole è destinato ad aumentare le nostre qualificazioni
professionali a scapito della nostra umanità. Tale idea è inoltre dannosa
per la scienza, in quanto trascura le complesse condizioni fisiche e storiche
che influiscono sul mutamento scientifico.

La scienza non fornisce risposte definitive e/o assolute, procede per


teorie e ipotesi, a causa della mancanza di strumenti idonei, anche perché
gli scienziati, una volta raggiunto un risultato, si pongono il quesito se c’è
qualche altra cosa al di là di quello. Un chiaro esempio è rappresentato
dalla fisica nucleare e subnucleare che, nell’arco degli ultimi cento anni
circa, è passata dalla scoperta del nucleo dell’atomo e dei protoni all’indi-
viduazione di numerose particelle subatomiche e di forze nucleari fino ad
arrivare al recente bosone di Higgs, la cosiddetta “particella di Dio” (della
quale, peraltro, si sta già ipotizzando il superamento), aggiungendo ogni
volta tasselli alla conoscenza dell’infinitamente piccolo e dell’immensa-
mente grande, l’universo.

Grande clamore destò, circa 25 anni fa, la notizia che due fisici, Martin Fleischmann e
Stanley Pons, avevano scoperto la “fusione fredda”, cioè la fusione nucleare di due nu-
clei di deuterio in un reticolo di palladio, con produzione di grandi quantità di calore
e addirittura la fusione esplosiva di un blocchetto di palladio nella sede della reazione.
La scoperta accese molte speranze per le grandi prospettive di sfruttamento pratico.
Ma i luminosi orizzonti che sembravano aprirsi si sono piano piano ingrigiti: i risultati
di Fleishmann e Pons risultarono irripetibili. L’assenza di nuovi dati ha provocato la
perdita di investimenti economici in quel settore e il conseguente languire della ricerca
(i fusionisti parlano di «oscuri complotti»). Di tanto in tanto si legge sui giornali la noti-
zia di un “ritorno della fusione fredda”, ma sono notizie che cadono subito nel vuoto. È
vero che, non di rado, le scoperte anche brillanti stentano a decollare, ma è abbastanza
improbabile che una scoperta clamorosa finisca rapidamente nel silenzio.
Una cosa interessante è che molti cultori della fusione fredda sono anche interessati
a forme di scienza “particolari” come l’omeopatia o la “memoria dell’acqua”, di cui
diremo più avanti.

La mancanza di risposte ultime favorisce l’elaborazione di opinioni di-


verse anche su verità assodate. Oggi, poi, la rete e i media sono luoghi nei
quali si possono diffondere, rapidamente e ampiamente, notizie di scarsa
o nulla scientificità o, addirittura antiscientifiche, che però hanno facile
presa su soggetti sprovvisti di cultura (specifica e/o generale), facilmente
suggestionabili e/o prevenuti verso tutto ciò che è “scienza ufficiale”.

È recente la polemica accesa intorno alla presunta nocività del vaccino trivalente (mor-
billo-parotite-rosolia), correlato all’autismo, sostenuto da Andrew Wakefield [193] in

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XV. Menzogna e scienza 191

un articolo su Lancet del 1998. Come si è scoperto più tardi, lo studio era stato commis-
sionato al dottor Wakefield da un avvocato britannico che voleva promuovere un’azio-
ne legale collettiva contro il produttore del vaccino, pagato 560.000 sterline più le spese
(non dichiarate a Lancet, come dovuto) dal fondo1 britannico per l’assistenza legale.
Lo studio, condotto su un campione di dodici bambini vittime di cambiamenti a
seguito della vaccinazione con il vaccino trivalente, avrebbe dimostrato come quel
vaccino potesse alterare il sistema immunitario agendo sull’intestino e provocando
anche danni al cervello. Wakefield, sull’onda del clamore suscitato dalla sua pubbli-
cazione, in una conferenza stampa aveva consigliato di usare vaccini monovalenti
(guarda caso, nove mesi prima aveva brevettato un vaccino monovalente contro il
morbillo). Intanto, come conseguenza del clamore mediatico suscitato dall’articolo,
vi era stato un calo significativo delle vaccinazioni. Nel 2009 le autorità sanitarie di
vari Paesi segnalarono la pericolosa ricomparsa di focolai di morbillo per cui la com-
missione disciplinare dell’ordine dei medici ritenne opportuno esaminare il caso. La
conclusione fu che Wakefield aveva agito irresponsabilmente e disonestamente e ne
fu decisa la radiazione dall’Albo professionale.
Nonostante ciò, ancora oggi Wakefield conta numerosi sostenitori, compresi diver-
si VIP, convinti che il medico sia stato vittima di un complotto (!) ordito dalle azien-
de produttrici di vaccini le quali avrebbero pagato scienziati e media per screditarlo.
Inoltre molti social media hanno dato largo credito a Wakefield, sminuendo o igno-
rando gli studi che contraddicevano la sua tesi, dando spazio a testimonial del tutto
estranei al mondo scientifico (attori, cantanti e gente di spettacolo) più che a esperti
del settore. Dobbiamo prendere atto che, nell’epoca dei social network, cento utenti
senza cultura specifica, che ritengono i vaccini responsabili della comparsa di casi di
autismo, contano più di dieci scienziati che documentano il contrario!
Di fronte al calo significativo di vaccinazioni e al conseguente rischio del riaccender-
si di epidemie che sembravano ormai debellate nel nostro Paese, nell’autunno 2016,
l’Ordine dei Medici ha stabilito di procedere con sanzioni varie, fino alla radiazione
dall’Albo, per “infrazione del codice deontologico”, contro i medici che sconsigliano i
genitori di sottoporre i figli alle vaccinazioni obbligatorie.
Nell’aprile 2017, l’Ordine dei Medici di Treviso ha radiato dall’albo un medico, Ro-
bero Gava, per il suo comportamento non etico e antiscientifico. Naturalmente, per i
suoi difensori, Gava, novello Galilei, «è stato condannato soltanto per le sue idee».
Il 20 luglio 2017 è stata emanata in Italia la legge n. 119 che rende obbligatoria, per
l’accesso dei minori agli asili nido e alle scuole materne, la vaccinazione contro die-
ci malattie (poliomielite, diferite, tetano, epatite B, pertosse, haemophilus influenzae
tipo b, morbillo, rosolia, parotite e varicella); per i bambini e i ragazzi fino a 16 anni
non vaccinati è prevista una multa da 100 a 500 euro. Fortemente consigliate – ma
non obbligate – sono anche le vaccinazioni anti-meningococcica B e C, anti-pneumo-
coccica e anti-rotavirus.

Il campo sanitario è certamente quello che più si presta alle frodi


scientifiche, non solo a evidente scopo di lucro, ma anche per ingenui-

1 Quindi soldi pubblici.

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192 La verità sulla menzogna

tà: la mancanza di terapie efficaci (o l’efficacia parziale di molte di quelle


disponibili) per talune malattie gravi, come il cancro, spalanca le porte a
quanti, in buona o malafede, propongono soluzioni alternative, spesso
miracolistiche.
Quante volte abbiamo visto in qualche film, ambientato nel Medioevo
o nelle praterie del Far West, il carro del ciarlatano che, girando di paese in
paese, per fiere e mercati, decanta le strabilianti virtù del suo elisir di lunga
vita o d’amore, del suo unguento o balsamo che guarisce ogni dolore? Oggi
si va in televisione, su giornali e riviste, su internet – le moderne piazze – in
cerca di gonzi che non aspettano altro che di perdere “sette chili in sette
giorni” in modo da superare con successo l’impietosa “prova costume”, di
abolire per sempre con un po’ di crema l’antiestetica cellulite o le altrettan-
to antiestetiche smagliature, di trasformare in focosi tori dei tremuli coni-
gli, di ricoprire deserti di calvizie con rigogliose foreste pilifere, e così via.
Ma non di rado sono i media che, anche autonomamente, fanno da
cassa di risonanza ai moderni Dulcamara2. Ne sono un esempio i casi
che riportiamo di seguito, tutti connessi al trattamento di patologie molto
gravi (tumori, malattie neurodegenerative) per le quali sono state propo-
ste terapie alternative.
La più “ardita” è probabilmente quella del veterinario siciliano Liborio
Bonifacio.

Costui, negli anni Cinquanta, convinto che le capre fossero immuni dal cancro3,
propose un estratto biologico di capra – un composto di feci e urine diluite in acqua
– nella convinzione che avrebbe protetto anche gli uomini dalla malattia. L’estratto,
in base al tipo di tumore, doveva essere prodotto a partire dall’animale femmina o
maschio. La notizia del Siero Bonifacio uscì dall’ambito locale (Agropoli) grazie ai
giornali e ci fu una vera e propria corsa per procurarselo. In Italia, ma anche all’estero,
la richiesta fu enorme.
Bonifacio fece sperimentare il suo preparato da alcuni amici dell’Istituto Pascale di
Napoli e, nonostante i risultati fossero negativi, i giornali continuarono a pubblicare
“testimonianze” emozionanti di pazienti “guariti”, gonfiando ulteriormente il caso
tanto che vi furono petizioni al governo (e persino al Papa) che chiedevano speri-
mentazioni controllate e distribuzione gratuita del siero. La sperimentazione fu fatta,
con risultati negativi, ma questo non impedì che la richiesta rimanesse elevata e che la
fama di questa presunta terapia varcasse l’oceano tanto che alcuni medici americani
proposero di sperimentarla sui loro pazienti.

2 Dulcamara è il ciarlatano ambulante che si spaccia per medico e vende al protagonista del
melodramma L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti la pozione che avrebbe dovuto fare innamorare
di lui la bella Adina.
3 Sembra improbabile che Bonifacio non avesse avuto occasione di vedere capre ammalate
di cancro operando in un’area in cui la pastorizia era un’attività piuttosto fiorente e possedendo egli
stesso un allevamento di capre.

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XV. Menzogna e scienza 193

Nel 1982 (erano passati circa trent’anni) avrebbe dovuto avere inizio, sempre dietro
la pressione popolare, una nuova sperimentazione da parte del Ministero della Sanità
ma Bonifacio annunciò il suo ritiro e l’anno dopo morì. Il figlio continuò a vendere
il siero, che brevettò con il nome di Oncoclastina, facendolo produrre da un’azienda
chimica. Alla fine degli anni Novanta un gruppo di Messina tentò un rilancio, senza
successo, dell’Oncoclastina sostenendo di avere le prove della sua efficacia (mai rese
pubbliche). Finì così la lunga storia del Siero Bonifacio che dimostra, se ce ne fosse
bisogno, che la volontà popolare è più meritevole d’attenzione della scienza “ottusa”.

Il Siero Bonifacio esalava l’ultimo respiro quando nasceva il metodo Di


Bella o multitrattamento Di Bella (MDB), basato sull’uso combinato di
farmaci, ormoni e vitamine: certamente più “scientifico” rispetto al siero
Bonifacio ma parimenti inefficace.

Il plurilaureato professor Luigi Di Bella, che aveva incominciato a trattare pazienti dalla
fine degli anni Settanta, nel 1989 presenta il suo cocktail come capace di prevenire le
metastasi tumorali. Fino alla metà degli anni Novanta, pur essendo noto che Di Bel-
la usava già da tempo una terapia non convenzionale per il trattamento dei tumori,
nessuno aveva mai sollevato il problema, che emerse, invece, quando la Commissione
del Farmaco collocò la somatostatina, elemento cardine della terapia, nella fascia H e
quindi disponibile solo per uso ospedaliero, mentre fuori era a pagamento (costoso).
Si accesero così i riflettori su questo caso perché i pazienti (appoggiati da certa stampa)
chiesero che la somatostatina venisse di nuovo liberamente prescritta a carico del Siste-
ma Sanitario Nazionale.
Il clamore fu tale che il pretore di Maglie, Carlo Madaro, ordinò all’ASL di fornire
gratuitamente il farmaco e il Ministero della Sanità fu praticamente costretto ad auto-
rizzare una sperimentazione clinica che evidenziò come il multitrattamento Di Bella
non dimostrasse un’attività terapeutica significativa (1999). Naturalmente si gridò al
complotto (!), a difetti nella preparazione del cocktail, a errori nella selezione dei pa-
zienti e così via. Ci furono anche nuove pressioni per un’ulteriore sperimentazione;
nuovi pretori (addirittura ancora nel 2014) che imponevano alle ASL la dispensazione
gratuita dei farmaci.
I figli di Di Bella (deceduto nel 2003) hanno istituito una Fondazione che porta
avanti la battaglia per il riconoscimento del trattamento ideato dal padre e che alcuni
medici continuano a praticare ancora oggi.

Due sono gli aspetti di questo caso che meritano di essere segnalati,
uno è la pressione mediatica, da parte sia della stampa che della televi-
sione, pressione che un gruppo di giornalisti scientifici stigmatizzò con
un documento ufficiale, soprattutto per il modo in cui era stata condotta;
l’altro è l’intervento spericolato della magistratura che si è avventurata su
un terreno squisitamente tecnico.
Anche il più recente caso Stamina ha visto un’ampia interferenza della
magistratura che, nonostante i dubbi iniziali sull’efficacia del trattamento,

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194 La verità sulla menzogna

diventati poi certezze, ne ha imposto, in numerosi casi, la somministra-


zione presso reparti medici a carico del Sistema Sanitario Nazionale.

In questo caso un laureato in Scienze della Comunicazione, Davide Vannoni, a capo


della Stamina Foundation, propagandava un metodo di terapia delle malattie neuro-
degenerative, soprattutto infantili, mediante l’uso di cellule staminali mesenchimali
che avrebbero dovuto differenziarsi in neuroni.
Il copione di questa vicenda ricalca più o meno quello del caso Di Bella, ma compli-
cato da una maggiore ingerenza della magistratura e dalla presenza di risvolti penali.
Il battage mediatico ebbe inizio con una ventina di servizi televisivi del programma
Le Iene nei quali un giornalista, Giulio Golia, asseriva che il metodo Stamina, criticato
dagli scienziati, fosse in grado di curare gravi malattie neurodegenerative e, per un
lungo periodo, il sito internet del programma ha fornito un collegamento diretto con la
Stamina Foundation. Solo nel 2014 fu messo in onda un servizio in cui Golia dichiarava
di non aver mai avuto l’intenzione di sostenere che il metodo funzionasse, scusandosi
con gli spettatori che avevano interpretato erroneamente il suo pensiero (!).
Nel 2015 Vannoni è stato condannato a un anno e dieci mesi (con sospensione della
pena) mentre un secondo processo si è concluso per scadenza dei termini di prescri-
zione.
Ma la storia non finisce qui, nell’aprile 2017, Vannoni viene arrestato per aver con-
tinuato a trattare (a caro prezzo) pazienti in Georgia, e mentre era in procinto di tra-
sferire il suo business a Santo Domingo.

È incredibile (e preoccupante) che un uomo del tutto estraneo alla me-


dicina, sia riuscito, non solo a mobilitare un gran numero di persone,
speculando sulla loro disperazione, a difesa di un presunto farmaco, privo
di alcuna valenza scientifica e di qualsiasi validazione clinica, ma anche a
ottenere che il Ministero della Salute, nonostante il parere negativo della
scienza ufficiale (non solo italiana), si facesse carico della sperimentazione
clinica. Vannoni ha ottenuto che un preparato prodotto secondo metodi
non controllati fosse somministrato in un ospedale pubblico, convincen-
do pretori e giudici a imporne la somministrazione legalmente! Anche in
questo caso il clamore mediatico è stato più determinante del parere degli
esperti: l’autorità scientifica non sembra godere, di questi tempi, di una
buona fama!
È probabile che Bonifacio e Di Bella fossero in buona fede quando
hanno proposto le loro “terapie”, mentre più di qualche dubbio sembra
lecito avanzare su Vannoni. Ma, a parte questo, è importante sottolineare
come i media abbiano affrontato con colpevole superficialità, approssi-
mazione e faziosità problemi così delicati come le malattie – in particolare
malattie drammatiche come i tumori e le patologie neurodegenerative dei
bambini – alimentando speranze e illusioni in soggetti psicologicamente
prostrati e nei loro familiari, disposti a qualsiasi cosa nella speranza di

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XV. Menzogna e scienza 195

arrecare anche solo un po’ di sollievo ai propri cari. La menzogna più


grande non è dei Bonifacio, Di Bella o Vannoni ma di coloro che hanno
alimentato speranze e illusioni in chi versava in condizioni drammatiche.
Vale la pena di sottolineare ulteriormente il peso che, in molti degli
episodi che abbiamo riportato, hanno avuto i media e in particolare la
stampa e la televisione, che dovrebbero svolgere un servizio pubblico di
alta informazione, in opposizione anche alla faziosità delle numerose
emittenti private. Cosa diversa è il web al quale tutti hanno libero ac-
cesso e su cui tutti possono pubblicare ogni cosa senza doverne rendere
conto. Questo vale soprattutto per l’informazione scientifica. Siamo per-
fettamente consci che anche una notizia di scienza possa essere accolta e
utilizzata in modi diversi dai media in rapporto alla specifica politica edi-
toriale, ma in questo campo dovrebbe valere ancora di più, se possibile, il
principio deontologico, “i fatti separati dalle opinioni”.
Ci piacerebbe, in particolare, che si tenesse comunque conto che il
lettore/spettatore non ha, nella maggioranza dei casi, strumenti per di-
stinguere se una notizia è vera, se è esagerata, distorta o addirittura falsa,
se si tratta o meno di una “bufala”, come l’esperto che può risalire alle
fonti. È quotidiana la presenza, ben evidenziata anche su testate “serie”,
della scoperta di geni relativi al controllo di questa o quella malattia, di
quelli che determinano la simpatia o il sex appeal, di annunci relativi
a terapie risolutive di patologie varie, sulle peculiarità di alimenti che,
a giorni alterni, provocano il cancro o lo guariscono, così come com-
battono (o causano) l’ipertensione, l’infarto o... l’alluce valgo! Sarebbe
importante, per chi scrive di scienza, filtrare le informazioni dopo averle
attentamente verificate.
Non è superfluo ricordare che una menzogna, per essere efficace, ha
bisogno di una vittima predisposta a credere a ciò che le viene comuni-
cato, che il suo livello di conoscenza sia tale per cui nuove informazioni
possano modificare il suo grado di convinzione e che non riguardi cose di
cui l’altro è fermamente convinto. Generalmente è l’ignoranza (in senso
etimologico) alla base di quell’irrazionalità che spinge a credere al primo
Dulcamara che vuol vendere l’elisir di lunga vita o della felicità; è sempre
l’ignoranza che spinge a credere che dietro il mancato riconoscimento di
questi elisir (non solo farmaci ma anche tecnologie ecc.) ci siano le poten-
ze economiche, le multinazionali del farmaco (Big Pharma), che temono
di perdere potere e guadagni.

Quella del “complotto” delle case farmaceutiche che ostacolerebbero “miracolose” te-
rapie anticancro (o anti-qualsiasi-cosa) per difendere i loro ricchissimi guadagni con
farmaci inefficaci o solo parzialmente efficaci (una volta si diceva che l’augurio dei

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196 La verità sulla menzogna

produttori di farmaci fosse «Vita lunga e malaticcia»!), o che, addirittura, disporreb-


bero di antitumorali efficaci, tenuti nascosti per non far crollare il loro monopolio, è
una vecchia “bufala”: per vendere ancora a lungo farmaci scarsamente efficaci, non
metterebbero in commercio il farmaco “assoluto”! E magari, oltre che per difendere
i loro «sporchi interessi», lo farebbero – ma quanto sono buoni loro! – per non far
perdere il lavoro a quanti con la malattia ci vivono: medici, infermieri, farmacisti,
fisioterapisti, imprese di pompe funebri e tanti altri.
Come se i progressi nei trattamenti farmacologici non ci fossero mai stati in pre-
cedenza! Quando furono scoperte le terapie efficaci per combattere la tubercolosi, fu-
rono progressivamente chiusi i tubercolosari, medici, infermieri e quant’altri furono
addetti ad altre mansioni senza grandi problemi per tutto quel settore. Recentemente
è stato scoperto un farmaco efficace contro l’epatite C e l’azienda che lo produce ha
guadagnato miliardi in pochi mesi.
Quale amministratore delegato di un’azienda che avesse scoperto “l’anticancro” lo
terrebbe nel cassetto per poter continuare a guadagnare i relativamente pochi sol-
di dei farmaci scarsamente efficaci, quando potrebbe realizzare cifre inimmaginabili
commercializzandolo? Senza contare che, grazie allo spionaggio industriale o per le
normali vie della ricerca, qualche altra azienda potrebbe giungere allo stesso risultato
e commercializzare il prodotto battendolo sul tempo.
Forse che i produttori di biciclette sono falliti quando si sono incominciate a pro-
durre auto e moto?

Sono talmente pochi gli scienziati che levano la loro voce per smentire
le bufale ormai imperanti sul web, che ha fatto notizia la presa di posi-
zione, via web e sui quotidiani, di un virologo del San Raffaele di Milano,
Roberto Burioni, che combatte le false credenze sui vaccini. In un suo post
su Facebook (letto da milioni di lettori) ha scritto testualmente:
Preciso che questa pagina non è un luogo dove della gente che non sa nulla
può avere un ‘civile dibattito’ per discutere alla pari con me.

Dichiara che ciò che scrive per cercare di chiarire la verità scientifica,
gli richiede tempo per documentarsi e per rendere accessibili a tutti le
informazioni e pertanto invita chi non è adeguatamente preparato, a non
mettersi a discutere con lui:
Qui ha diritto di parola solo chi ha studiato e non il cittadino comune. La
scienza non è democratica.

Una presa di posizione molto dura ma forse necessaria in un’epoca in


cui tutti pretendono di dare giudizi su cose di cui non sanno nulla, ba-
sandosi sulle proprie “sensazioni” se non su chiacchiere da bar... magari
dopo qualche bicchiere di vino.
La reazione di Burioni è comprensibile se si tiene conto che molto

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XV. Menzogna e scienza 197

spesso coloro che si propongono come interlocutori sono persone senza


una cultura specifica sull’argomento e basano le proprie obiezioni su frasi
fatte, luoghi comuni, opinioni di ciarlatani. Tuttavia dovremmo conside-
rare che la sua posizione potrebbe risultare, più che una spiegazione dei
fatti da parte di un esperto, la manifestazione spocchiosa dell’accademico
che non tollera contraddizioni. Spiegare in maniera convincente la scien-
za, richiede piuttosto uno sforzo di umiltà, calarsi con pazienza al livello
di coloro che vogliamo “educare”. E, in caso d’insuccesso, chiederci dove
abbiamo sbagliato.

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Xvi. Menzogna e salute

La mia sola ginnastica


è di andare ai funerali dei miei amici,
che facevano della ginnastica
per restare in buona salute.
(Georges Feydeau)

Nel capitolo precedente abbiamo sottolineato quanto i media possa-


no interferire sul normale iter, internazionalmente condiviso, di verifica
dell’efficacia e della sicurezza (efficacy and safety) di un trattamento. Ab-
biamo visto, nei tre esempi riportati, che solo uno, dei tre scopritori di
nuove (miracolistiche) terapie, Di Bella, era laureato in medicina, gli altri
due erano laureati, Bonifacio in Veterinaria e Vannoni in Scienze della
Comunicazione: nessuno, dunque, aveva alcuna competenza medica nella
terapia dei tumori o in quella con le cellule staminali. Se le cose fossero
state lasciate alla loro evoluzione naturale, la scienza avrebbe rapidamente
ridimensionato la questione. Ma giornalisti della carta stampata e della
televisione hanno gonfiato questi casi presentando la storia affascinante
del medico geniale che ha scoperto la cura per il male del secolo, contro il
quale la medicina ufficiale è impotente, e che poteri occulti (le multina-
zionali del farmaco) ostacolano impedendone la diffusione1. Si è creato
così nell’opinione pubblica un movimento, quasi una sollevazione, tale da
costringere il Ministero della Sanità a disporre studi clinici che hanno dato
esiti negativi. In questo contesto di pesanti pressioni sociali, la magistratu-
ra è intervenuta spericolatamente per disporre coattivamente la distribu-
zione gratuita dei farmaci o addirittura il trattamento di alcuni pazienti in
ambito ospedaliero a carico del SSN. Una vera e propria follia collettiva!
Con questo capitolo vogliamo entrare nel ricchissimo, vasto e crescen-
te mercato delle terapie cosiddette alternative alle quali tante persone ri-
corrono chiedendo che siano a carico del SSN, nonostante che la ricerca
non ne abbia mai dimostrato una sia pur minima efficacia superiore all’ef-
fetto placebo.
1 Naturalmente i “poteri occulti”, quelli che difendono “affari inconfessabili”, sono sempre
quelli degli altri.

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200 La verità sulla menzogna

Secondo una recente indagine, coloro che ricorrono alle pratiche te-
rapeutiche alternative (PTA) in sostituzione delle pratiche terapeutiche
tradizionali (PTT) non sono, nei Paesi industrializzati, degli “abbrutiti
Yahoo”, di swiftiana memoria, con un livello scolastico-culturale basso
e facilmente circuibili, ma soggetti giovani (35-50 anni), laureati (50%) e
benestanti (poco meno della metà ha un reddito annuo medio di circa 50
mila euro). Come diceva la Regina di Cuori in Il Paese delle Meraviglie,
«tutti crediamo almeno a sei cose impossibili prima di colazione» [40].
Dobbiamo però chiarire che il termine “alternative” non è corretto
poiché molto spesso sono somministrate in associazione con terapie “tra-
dizionali” – in realtà non è corretto neppure l’uso dei termini “pratiche
terapeutiche” e “terapie” in quanto le loro proprietà curative sono tutt’al-
tro che dimostrate. Sono state proposte altre definizioni, ma sono tutte
più meno criticabili per cui useremo il termine “alternative” per conven-
zione, conoscendone i limiti e considerandolo una semplice “etichetta”.
Nell’ultimo quarto di secolo si è affermato il concetto di “medicina
basata sulle evidenze” (evidence-based medicine)2, un metodo clinico ide-
ato per trasferire le conoscenze derivanti dalle ricerche scientifiche diret-
tamente alla cura dei singoli pazienti, che si propone di valutare rischi
e benefici dei trattamenti (compresa la mancanza di trattamento) e dei
test diagnostici. Questo è lo stato dell’arte, la “verità” della medicina. Ma
non è tutta la medicina: ancora oggi, una parte della medicina “ufficiale”
continua a prescrivere farmaci – regolarmente approvati, registrati e di-
spensati dal SSN – di efficacia terapeutica incerta.
Non dobbiamo sottovalutare che, negli ultimi anni, la fiducia nei con-
fronti della medicina ufficiale è diminuita per diversi motivi. In primo luo-
go per le crescenti criticità del SSN, che vanno dalla carenza di organici
medici e paramedici, ai generalmente lunghi(ssimi) tempi di attesa per
visite, esami e ricoveri, all’eccessiva burocratizzazione, ai frequenti casi di
malasanità che, veri o presunti, sono sfruttati scandalisticamente dai me-
dia. A ciò dobbiamo aggiungere la scarsa disponibilità e il poco tempo che
i medici riservano all’ascolto e al dialogo con il paziente, mentre bisogna
ammettere che chi pratica le medicine alternative ha un atteggiamento più
“ippocratico” dedicando molto tempo al rapporto interpersonale3. Questo
gratifica il paziente facendolo sentire una persona e non un insieme di or-
gani da riparare, approccio che favorisce la scelta fra una medicina e l’altra.
2 Evidence-Based Medicine – EBM: il termine “evidenze”, ormai generalmente accettato, non è
corretto poiché il concetto su cui si fonda la EBM è piuttosto la verifica delle “prove di efficacia”.
3 È noto che il Prof. Di Bella aveva lunghi colloqui con i suoi pazienti e sosteneva che proprio
la mancanza di questo approccio sarebbe stato uno dei motivi per cui la sperimentazione ufficiale
del suo metodo non aveva dato risultati positivi.

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Xvi. Menzogna e salute 201

Il meccanismo è semplice. È frequente che il medico tradizionale


ascolti il paziente per qualche minuto e si affretti a prescrivere un farmaco
che però non solleva il paziente dal disturbo; di contro il “medico alter-
nativo” ascolta, mostra di prendersi cura, prescrive un trattamento che
è poco di più che acqua colorata e il risultato è il sollievo: si è trattato di
effetto placebo favorito dall’ascolto, dall’attenzione e dalla rassicurazione.
I bambini, nella loro ingenuità, lo sanno bene: quando piangono per una
banale contusione e la mamma “bacia la bua”, il dolore e il pianto cessano
rapidamente perché è stato soddisfatto il bisogno di attenzione. Nel caso
di un disturbo di più grave non ci sono baci di mamma che tengano, do-
lore e pianto non cessano. I trattamenti alternativi, quindi, possono avere
un effetto placebo anche molto intenso ma transitorio, per cui spesso assi-
stiamo al successivo ritorno alle terapie ortodosse, sperando che il ritardo
non abbia compromesso irreversibilmente l’esito.
È interessante osservare quanto ferma sia la convinzione, nei confron-
ti del trattamento scelto, di coloro che si rivolgono alle PTA. Tale fiducia,
certamente non deriva da un’approfondimento critico delle fonti d’infor-
mazione ma, per lo più, da consigli di amici e conoscenti, da articoli di
riviste di pseudo-informazione in cui il “personaggio” del momento fa da
testimonial. Per inciso, la fede di chi sceglie questo tipo di trattamenti è in
tutto paragonabile a quella che vegetariani e, soprattutto, vegani svilup-
pano nei confronti della loro scelta alimentare e di vita.
È probabile che il successo delle PTA sia da attribuirsi, almeno in par-
te, al fatto che sono facilmente illustrabili e facili da capire anche per il
profano, diversamente dagli argomenti scientifici, che sono complessi e,
quando appaiono troppo semplici, autorizzano il sospetto di nascondere
un inganno.
Nella valutazione dell’effetto di un trattamento, spesso non teniamo
conto di alcune variabili importanti: ad esempio che molte malattie han-
no una loro evoluzione spontanea favorevole e il trattamento, qualunque
sia, “funziona” quando viene somministrato in prossimità della risolu-
zione naturale del disturbo; oppure che la fiducia nel trattamento e in chi
l’ha prescritto è tale che ci fa sentire meglio già nell’immediato per l’effetto
placebo.
È opinione comune di coloro che si affidano alle PTA che questi tratta-
menti (omeopatici, fitoterapici ecc.), essendo naturali, siano innocui – in
realtà possono dare reazioni allergiche o tossiche come quasi tutte le so-
stanze, naturali o sintetiche che siano. Costoro dimenticano che la coniina
(cicuta), il curaro e molti altri principi tossici derivano dalle piante4, e che

4 Quanto alla cicuta, ricordiamo che Socrate fu ucciso con questa sostanza e che gli indigeni

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202 La verità sulla menzogna

molti prodotti di erboristeria (creme, balsami ecc.) contengono eccipienti


potenzialmente dannosi. Un altro pregiudizio è che i trattamenti alter-
nativi siano osteggiati dalle multinazionali del farmaco che ne temono la
concorrenza: è vero che le multinazionali mirano al profitto come primo
target, tant’è che i settori di ricerca su cui investono maggiormente sono
quelli dell’impotenza maschile e della calvizie5, mentre sono trascurati gli
studi che riguardano malattie endemiche come malaria e tubercolosi e si
negano i farmaci anti-AIDS ai Paesi in via di sviluppo. L’attenzione per il
profitto dovrebbe, invece, tranquillizzare poiché è certo che, se fosse sco-
perta una pianta o un principio attivo utile a curare una patologia impor-
tante, le industrie farmaceutiche farebbero di tutto per commercializzarlo
e trarne il massimo vantaggio economico6.
Che la scienza abbia dei limiti, e che la scienza medica ne abbia di
più rispetto ad altri settori, è un dato di fatto incontrovertibile; d’altra
parte, nonostante i progressi fatti nell’ultimo secolo, siamo ben lontani
dal conoscere appieno il corpo umano, il suo funzionamento “in salute
e malattia”, la reale estensione delle funzioni del genoma e la complessa
interazione con l’esposoma7, cioè l’interazione geni-ambiente. La scienza
dovrebbe comunicare con le persone in maniera chiara e comprensibile,
evitando di creare false aspettative che, andando deluse, possono spingere
verso le assurde “certezze” della non-scienza.

Non aiutano a fare chiarezza le iniziative di alcune Regioni, tra cui la Regione Tosca-
na8, che tendono ad avallare e a dare una parvenza di scientificità alle PTA appro-
vando progetti miranti a individuare «le strategie e gli indirizzi da adottare in tema
di “Integrazione delle medicine non convenzionali negli interventi per la salute” [e fi-

dell’Amazzonia intingono le loro frecce nel curaro per ottenere una morte quasi immediata delle
loro prede o dei loro nemici.
5 Navigando su Internet alla ricerca di informazioni su quali fossero i prodotti più redditizi
per le multinazionali del farmaco ci siamo imbattuti in un blog che sparava a zero su queste multi-
nazionali e sulla stessa pagina, in bella evidenza, c’era la pubblicità di un prodotto “anticaduta” per
capelli!
6 Diverse industrie farmaceutiche hanno sfruttato commercialmente le conoscenze mediche
tradizionali, anche brevettando i principi attivi isolati da piante usate da secoli dalle tribù primitive
per curarsi. È il caso, tanto per citarne alcune, della pervinca del Madagascar, da cui è stata isolata la
vincristina e la vinblastina utilizzate nel trattamento di leucemie e linfomi (Eli Lilly), oppure quello
della Hoodia del Kalahari, un cactus dal quale è stato isolato il principio attivo noto come P57, che
sopprime l’appetito, di prossima immissione sul mercato (Unilever).
7 L’esposoma è definito come il “registro” di tutte le esposizioni, sia endogene che esogene,
cui un essere umano va incontro nell’arco della sua vita, dal concepimento in poi. È considerato
il responsabile di circa il 90% del rischio di malattie croniche. È oggetto di studio di équipe mul-
tidisciplinari che hanno come obiettivo “sequenziare” l’esposoma così come è stato fatto con il
genoma.
8 Delibera n. 41/1999.

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Xvi. Menzogna e salute 203

nanziando] “iniziative di studio e di ricerca nel campo delle MNC” (Medicine Non
Convenzionali) [... aventi] come campo d’indagine tecniche terapeutiche e riabilitative,
azioni di prevenzione, aspetti conoscitivi ed applicativi per lo sviluppo delle MNC, in-
tegrazione con le cure della Medicina convenzionale, in relazione a quelle MNC rivolte
alla salute umana e animale che per la loro diffusione appaiono di maggiore interesse,
quali l’agopuntura, la medicina cinese, l’omeopatia, l’omotossicologia, la fitoterapia,
la medicina manipolativa e le arti per la salute»9 ammettendo però soltanto «soggetti
pubblici e privati [con] comprovata esperienza nel settore delle MNC da documentarsi
con una breve relazione di accompagnamento al progetto stesso».
Non sono previsti studi controllati (e certamente ci sarebbero difficoltà tecniche
notevoli se non insuperabili, per realizzarli), ma neppure osservatori indipendenti; è
un dato di fatto che, esaminando la letteratura scientifica, gli studi condotti da cultori
delle MNC danno regolarmente risultati positivi, mentre supervisioni o metanalisi da
parte di ricercatori non cultori delle MNC sono per lo più negative. È vero che anche
per i trattamenti convenzionali si rilevano differenze tra i risultati prodotti dall’in-
dustria farmaceutica e quelli prodotti da ricercatori indipendenti, ma non sono mai
differenze così marcate.

Non possiamo chiudere questo capitolo senza menzionare l’omeopa-


tia10, la PTA per antonomasia. Si tratta di una pratica “medica” basata sul
principio (mai dimostrato) similia similibus curantur (curare i simili con
i simili) di ascendenza egizia ed enunciato da Samuel Hahnemann [99]
che, nella prima metà dell’Ottocento, ne fece una dottrina.
Nell’Ottocento si riteneva che le cause delle malattie non fossero ester-
ne, ma risiedessero in una perturbazione della forza vitale, concetto all’e-
poca molto diffuso nella pratica medica, e i medici ritenevano che i meto-
di depletivi (purghe, sanguisughe, flebotomia ecc.) coadiuvassero l’azione
della forza vitale, della forza curativa della natura (vis sanatrix naturae).
Hahnemann, invece, considerava questi metodi debilitanti, dannosi e
inefficaci e riteneva che il medico dovesse riattivare la forza vitale attra-
verso la prescrizione di un rimedio scelto sulla base della maggior somi-
glianza possibile dei suoi effetti con quelli della malattia (legge dei simili),

9 L’Interassociazione delle Arti per la Salute (IAS) riunisce al suo interno Associazioni Na-

zionali di varie discipline quali: Shiatsu, Reflessologia del piede, Ortho-Bionomy, Craniosacrale,
Tai Chi, Essenze Floreali, Watsu, Kinesiologia, Biopranoterapia, Tuina e Reiki che si distinguono
completamente dalle “medicine alternative o complementari” e si definiscono “Arti per la Salute o
Discipline BioNaturali (DBN)”, in quanto si pongono nel campo del sostegno delle risorse autocu-
rative dell’essere vivente, al di fuori quindi di qualsiasi concetto terapeutico attinente all'ambito sa-
nitario. La IAS è attiva, fin dalla sua fondazione, per garantire la reale preparazione (iter formativi)
degli Operatori e degli Insegnanti DBN.
10 Omeopatia, dal greco ὅμοιος (simile) e πάθος (sofferenza), riassume il pensiero di Hahne-

mann che le malattie devono essere curate da sostanze che, nel soggetto sano, provocano sintomi
simili alla malattia.

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204 La verità sulla menzogna

somministrato in dosi infinitesimali per minimizzare gli effetti collaterali,


“dinamizzato” attraverso il procedimento della “succussione”11. Le diver-
se diluizioni, dopo un certo numero (12 per quelle centesimali – CH e 24
per quelle decimali – DH), non contengono più alcuna molecola della so-
stanza12, ma questo, per gli omeopati non è un problema perché l’effetto
terapeutico rimarebbe essendo legato a un “qualcos’altro” che è rimasto
a lungo non definito. Questa lacuna è stata colmata da Jaques Benveniste
[61], lo “scopritore” della “memoria dell’acqua”.

Nel 1988, l’immunologo francese Jaques Benveniste pubblicò sulla più importante
rivista scientifica internazionale, Nature, i risultati di esperimenti che avrebbero di-
mostrato che l’acqua era capace di conservare, per un determinato periodo di tempo e
anche dopo numerose trasformazioni, “memoria” di sostanze in essa disciolte o diluite
attraverso una geometria molecolare derivata dagli elementi chimici con cui è venuta
a contatto [61]. Questo sarebbe dovuto alla coerenza interna dei campi elettroma-
gnetici, prevista dall’elettrodinamica quantistica. La soluzione diluita, grazie a questo
fenomeno, conserverebbe l’informazione del principio attivo e avrebbe migliori effetti
terapeutici di una dose maggiore. Nessuno, tuttavia, ha spiegato perché l’acqua con-
serverebbe soltanto le proprietà terapeutiche e non quelle tossiche delle sostanze con
cui è stata a contatto, senza contare che ogni molecola d’acqua, nella sua storia, entra
in contatto con molteplici sostanze, ma, a suo dire, conserverebbe “memoria” solo
delle sostanze desiderate “ignorando” quelle indesiderate. I dati sulla memoria dell’ac-
qua non sono mai stati seriamente confermati. Benveniste ha continuato a sostenere
che la sua ricerca fosse valida e si è spinto a sostenere che la memoria dell’acqua potes-
se essere digitalizzata, trasmessa via email e reintrodotta nell’acqua!

Ad oggi, nessuno studio scientificamente fondato è riuscito a dimo-


strare che l’omeopatia presenti una sia pur minima efficacia per una
qualsiasi delle malattie trattate: il suo effetto è paragonabile a quello del
placebo (ed è ben noto che l’omeopata, in genere, presta una particolare
attenzione al paziente e alla sua esperienza di malattia).

11 La diluizione delle sostanze è il punto chiave dell’omeopatia e viene detta “potenza”: mag-

giore è la diluizione, maggiore è la potenza. Le diluizioni possono essere su base centesimale (1 a


100, una parte di sostanza in 99 parti di diluente, è la potenza centesimale o CH) o decimale (1 a 10,
una parte su 9, è la potenza decimale o DH). Effettuata la diluizione, il prodotto viene “dinamizzato”
mediante la “succussione”, cioè una forte agitazione. Questo procedimento viene ripetuto più volte:
una parte della soluzione viene diluita rispettivamente in 99 o 9 parti di diluente e così via. A ogni
passaggio, il numero di molecole della sostanza nella diluizione diminuisce; ogni soluzione è nu-
merata progressivamente e indicata sulla confezione. Per la legge di Avogadro, una diluizione 12C
o 24D (di 12 o 24 volte) contiene 0,6022 molecole (che sono indivisibili) della sostanza originaria:
diluizioni successive sono perciò prive della sostanza.
12 In un’audizione presso il parlamento britannico, Kate Chatfield, rappresentante della Bri-

tish Homeopathic Association, ha ammesso che non esiste alcun modo per distinguere tra di loro
due prodotti omeopatici una volta diluiti, a eccezione dell'etichetta sulla confezione.

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Xvi. Menzogna e salute 205

È recente l’iniziativa della Federal Trade Commission (FTC) degli USA


che, pur non vietandone la vendita, impone alle aziende produttrici di
prodotti omeopatici di scrivere sulle etichette che
non vi è alcuna prova scientifica che il prodotto funzioni [e che le quali-
tà del prodotto] si basano solo sulle teorie della medicina omeopatica del
1700 che non sono accettate dalla maggior parte dei medici moderni.
Negli USA, tutti i farmaci, anche quelli da banco, devono rispettare gli
standard di efficacia e sicurezza.
Dal punto di vista della soddisfazione soggettiva dei pazienti i risultati
sono spesso a favore di questa pratica terapeutica rispetto alla medicina
tradizionale e questo ne spiega il successo sociale. Di fatto, l’omeopatia
finisce per essere una sorta di psicoterapia e, da questo punto di vista,
possiamo dire che funziona; il rischio, semmai, è, come per tutte le PTA,
che il suo uso possa ostacolare e ritardare il ricorso a terapie convenzio-
nali efficaci. Un altro rischio non trascurabile è rappresentato dal fatto
che gli omeopati, in generale, sono contrari ai mezzi di prevenzione e alle
vaccinazioni.

Due ricercatori dell’università di Exeter hanno inviato a 168 omeopati un’email con
la quale, fingendosi madre di un bambino, chiedevano se ritenessero necessario sotto-
porre il figlio al vaccino trivalente (morbillo, parotite e rosolia) e, dei 77 che avevano
risposto, solo due consigliavano la vaccinazione.
Sempre in Inghilterra, nel 2006, una giornalista, spacciandosi per una studentessa
in procinto di fare un viaggio attraverso l’Africa Occidentale (zona malarica per ec-
cellenza), si è rivolta a dieci cliniche omeopatiche di Londra chiedendo consigli per la
prevenzione della malaria e tutte hanno consigliato come protezione prodotti omeo-
patici: l’anno precedente la Health Protection Agency, un’autorità indipendente, aveva
diffuso un avvertimento mettendo in guardia sul fatto che non esistono prodotti ome-
opatici in grado di prevenire o curare la malaria [54].

Fin qui abbiamo detto di medici, pseudo-medici, “operatori sanitari”,


diplomati di corsi per lo più privati ma anche gestiti da enti istituziona-
li, che dispensano liberamente le pseudo-cure che abbiamo denominato
come PTA, a dispetto del fatto che nessuno abbia mai dimostrato scien-
tificamente la loro superiorità rispetto a un placebo. Purtroppo molti
sono caduti in questo inganno, talora fidelizzati al punto da diventarne
più o meno consciamente testimonial. Non siamo noi a dover dare un
giudizio su questo fenomeno ma, se lo volessimo dare, lo rivolgeremmo
alla medicina ufficiale che, non solo non è stata capace di dare un’ade-
guata immagine di sé pur disponendo di evidenze scientifiche – poco e
mal comunicate – ma, soprattutto, non è stata capace di recepire l’inse-

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206 La verità sulla menzogna

gnamento fondamentale nelle PTA, l’ascolto del paziente13.

Non possiamo non accennare alla Nuova Medicina Germanica (NMG), una terapia al-
ternativa messa a punto negli anni ’80 dal Ryke Geerd Hamer14 basata sul concetto che
la causa delle malattie (compreso il cancro) risiederebbe in un trauma irrisolto o in un
conflitto inconscio e che la cura dovrebbe consistere nella psicoterapia e in tisane o al-
tri rimedi naturali. Hamer è stato radiato dall’Ordine dei Medici nel 1986 per omessa
assistenza medica ma, come spesso accade, ha trovato un certo numero di proseliti che
adottano la sua NMG, nonostante si contino ormai a centinaia i pazienti deceduti per
non essere stati sottoposti alle terapie tradizionali che, in molti casi, avrebbero avuto
un buon margine di successo.
È recente (2017) la condanna, da parte del tribunale di Torino, di un medico segua-
ce della NMG, Germana Durando, per la morte di una paziente che troppo tardi si era
rivolta alle terapie tradizionali per un melanoma non curato15. Il tribunale non ne ha
deciso la sospensione dall’esercizio della professione: lo farà l’ordine dei medici?

Per secoli la medicina è stata considerata un’arte. Quando si è volu-


ta fare scienza, ha pian piano trasformato l’oggetto del proprio interesse,
l’uomo, in una macchina della quale cercare i guasti da riparare (o addi-
rittura rimpiazzare con protesi di varia natura), perché così fa la scienza.
Abbiamo addirittura “segmentato” l’uomo affidando i singoli segmenti a
tecnici specializzati ognuno dei quali conosce tutto del proprio settore, ma
poco o nulla di quelli circostanti. Certamente oggi sappiamo molte più
cose del funzionamento, dei guasti e dei modi per riparare i singoli “pez-
zi”, ma si è perso l’uomo, la persona, che avrà, sì, un guasto a questo o a
quell’organo o apparato ma che soffre nella sua globalità e, soprattutto, per
l’insicurezza esistenziale che genera in lui quella disfunzione. Per curar-
lo dovremo, prima di tutto, ridargli la sicurezza e questo si può fare solo
mostrando interesse sincero e non stando dietro a una macchina o a un
computer mentre lui espone i suoi disturbi. La scienza medica ha fatto in-

13 E in questo non è certamente aiutata dalle disposizioni degli organi competenti. Riportia-

mo a titolo di esempio il “tempario” per le prestazioni specialistiche dei sanitari degli ospedali e
degli ambulatori della Regione Lazio, emanato nel giugno 2017. Sono state prese in considerazione
63 prestazioni sanitarie per ognuna delle quali è stabilita la durata massima (indipendentemente
dalla gravità del caso). Ad esempio, le visite oncologiche, neurologiche, ortopediche, ginecologiche,
urologiche ecc. non possono superare i 20 minuti; all’endocrinologo sono consentiti 30 minuti; per
un elettrocardiogramma bastano 15 minuti e così via. Sembra che anche altre Regioni siano orien-
tare a emanare “tempari” di questo tipo.
14 Il figlio diciannovenne di Hamer morì nell’agosto del 1978 a seguito di una ferita prodotta

da un colpo di fucile sparato dall’ex principe ereditario Vittorio Emanuele di Savoia mentre si tro-
vava in vacanza all’isola di Cavallo. Qualche tempo dopo Hamer fu operato per un carcinoma al
testicolo. Nel 1981 elaborò la teoria della NMG.
15 Nel corso delle indagini emerse che in precedenza la Durando era stata indagata per la

morte di una bambina di 14 mesi colpita da meningite e curata secondo lo stesso metodo.

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Xvi. Menzogna e salute 207

credibili progressi di cui, ovviamente, i beneficiari sono i pazienti, i quali,


tuttavia, in quanto persone, hanno bisogno anche dell’arte medica16.
Sempre parlando di salute, un cenno merita la gestione dell’informa-
zione da parte dei media che spesso enfatizzano veri o presunti episodi di
malasanità scotomizzando, per contro, le numerose eccellenze che esisto-
no nel nostro Paese. Verrebbe da chiedersi se è ignoranza o malafede dare
rilievo a notizie di guarigioni miracolose a opera di qualche santo, nel caso
di patologie anche gravi ma per le quali è scientificamente provata la pos-
sibilità (seppure non frequente) di guarigione grazie alle terapie disponi-
bili o spontanea. Rimane radicata l’abitudine, retaggio di epoche in cui la
medicina era veramente approssimativa, di dare il merito delle guarigioni
all’intercessione divina17, e la colpa delle evoluzioni negative ai medici.

Il dilemma del placebo


L’effetto placebo è l’anticamera dei miracoli.
(Gianni Monduzzi, Salire al cielo fermando
le donne in ascensore, 2004)

Il placebo (dal latino io piacerò) è una delle più esplicite menzogne


in ambito medico essendo una ‘terapia’ priva di principi attivi specifici
(o con sostanze aspecifiche, come vitamine, sali minerali ecc.), sommi-
nistrata come se avesse reali proprietà curative. Menzogna non soltanto
per la mancanza di proprietà curative intrinseche ma anche perché, per
funzionare al meglio, il placebo deve essere somministrato gabellandolo
come un farmaco vero, cioè con documentazione controllata dell’efficacia
terapeutica del principio attivo che lo compone.
Nel 1811 l’Hoopers Medical Dictionary lo definì come Medicamento
dato più per compiacere il paziente che per fornirgli beneficio. Dopo oltre
due secoli, nonostante sia stato studiato e analizzato da ogni punto di
vista, forse per la consapevolezza che, fino a epoca recente, le cure erano
quasi esclusivamente dei placebo, la medicina moderna difficilmente ne
ammette l’utilità. L’omeopata, che di fatto lo usa quotidianamente, rifiuta
di ammetterlo e nega le evidenze della ricerca scientifica.

16 E l’arte non è solo ragione è anche emozione. è stato dimostrato che i pazienti operati per

calcolosi colecistica o per ernia discale, miglioravano più rapidamente se venivano mostrati loro i
calcoli o, rispettivamente, i frammenti discali rimossi.
17 Sono moltissimi i Santuari che hanno quantità incredibili di ex-voto (alcuni anche artisti-

camente notevoli) per guarigioni o per incidenti scampati, che poco hanno di miracoloso e rientra-
no piuttosto nel range delle possibilità/probabilità.

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208 La verità sulla menzogna

Per quanto fosse conosciuto e usato da lungo tempo, il placebo non


era stato oggetto di studio fino alla fine della seconda guerra mondiale
quando un anestesista americano, Henry Beecher, “illuminato” da un’os-
servazione occasionale, sollevò il problema [13].

Henry Beecher era un anestesista in servizio presso l’ospedale da campo vicino ad


Anzio, dove gli americani, appena sbarcati, erano bloccati dall’inattesa controffensiva
tedesca. Per quattro mesi si combatté in quella zona e gli americani subirono forti
perdite (cinquemila morti e diciottomila feriti). Le forniture mediche dell’ospedale
erano limitate e un giorno in cui un soldato ferito aveva bisogno di essere operato
d’urgenza e la morfina era finita, un’infermiera, con un po’ d’incoscienza, gli iniettò
una soluzione salina dicendogli che era morfina: il paziente si sedò immediatamente
e reagì all’intervento come i commilitoni cui era stata somministrata morfina: una
soluzione salina aveva avuto lo stesso effetto del più potente anestetico! Nei mesi suc-
cessivi Beecher si trovò altre volte nella necessità di ripetere “l’inganno” con risultati
sostanzialmente costanti.
Finita la guerra, al rientro ad Harvard, dove insegnava, riunì i suoi colleghi e propo-
se di avviare una ricerca rigorosa sul fenomeno, convinto che gli studi sui farmaci non
fossero completi senza un confronto con il placebo [14].

Il placebo è così diventato uno strumento fondamentale nella ricerca


farmacologica clinica, rappresentando il principale termine di paragone
nella valutazione dell’efficacia terapeutica di un nuovo farmaco. Al di fuo-
ri di questo campo, però, i medici hanno verso il placebo e l’effetto place-
bo un atteggiamento generalmente negativo, probabilmente perché sono
portati a leggere le dinamiche della malattia e della guarigione in termini
puramente fisici, scotomizzando gli aspetti psichici sui quali si esplica pri-
mariamente l’azione del placebo. Se così fosse, dovrebbe essere sufficiente
la ricerca di laboratorio su colture cellulari o addirittura su modelli infor-
matici (come, per altre ragioni, richiedono gli animalisti) per determinare
quanto e come, una sostanza terapeutica agisca. Prospettiva fortemente
fuorviante poiché isola il momento “malattia” dal contesto, spesso com-
plesso, in cui si colloca. Prendere in considerazione il placebo e l’effetto
placebo significa portare in primo piano la persona nella sua interezza e
nei suoi rapporti con l’ambiente.
Tutta la medicina, a partire da Ippocrate, fino a poco più di un secolo
fa, si è basata quasi esclusivamente sull’effetto placebo dei rimedi pre-
scritti da medici, stregoni, guaritori ecc. e Platone [151], nella Repubblica,
afferma
una menzogna è utile soltanto come medicina per gli uomini. L’uso di tale
medicina sarebbe riservato al medico.

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Xvi. Menzogna e salute 209

È difficile dire fino a che punto costoro fossero convinti dell’efficacia


intrinseca dei loro rimedi, ma certamente conoscevano bene la sugge-
stionabilità degli uomini, come dimostrano i cerimoniali cui ancora oggi
ricorrono stregoni e sciamani nella loro pratica.
Gli enormi progressi della medicina moderna, sostenuti in gran parte
dall’efficacia dei trattamenti validati in confronto con il placebo, hanno
portato a scotomizzare, sminuire il ruolo del placebo e del suo impiego di
là di quello, peraltro sottovalutato, di termine di paragone. Solo nelle ulti-
me decadi si è preso a studiarlo scientificamente e adesso ne conosciamo
meglio le caratteristiche.
Il placebo funziona in tutte le malattie, somatiche, psicosomatiche e
psichiche; interessa praticamente ogni organo e apparato; la sua effica-
cia, a seconda della patologia considerata, può interessare fino all’80% dei
soggetti, e l’entità dell’effetto varia ampiamente dal miglioramento fino
alla totale scomparsa del disturbo. Agisce tanto sui disturbi acuti che su
quelli cronici (forse su questi ultimi in misura maggiore); il campo nel
quale si riscontrano i maggiori successi è quello del dolore. L’effetto pla-
cebo si osserva anche in corso di terapie non farmacologiche e addirittura
anche in quelle chirurgiche.
Nell’effetto placebo giocano molti fattori: in primis la capacità di ri-
spondere al placebo (esistono soggetti responders e non responders), poi
l’interazione con l’operatore (fiducia nel trattamento che propone), le
caratteristiche del farmaco (iniezioni più che pillole, strumenti elettrici
o elettronici), il colore (ad esempio, verde meglio per l’ansia, giallo per
la depressione), il sapore (migliore effetto si ottiene con quelli amari o
saporiti), le dimensioni (compresse piccole fanno pensare a una maggio-
re potenza della sostanza), la forma, il nome, il costo (se è più costoso è
più efficace), l’ambiente in cui si opera (tranquillo, ordinato, rassicurante
ecc.). Se il farmaco fosse distribuito da un dispensatore automatico come
quello del caffè, certamente non si otterrebbero gli stessi effetti: l’elemento
di primaria importanza nell’effetto placebo è il rapporto che si stabilisce
fra il terapeuta e il paziente. è stato dimostrato che lo stesso placebo, se
somministrato all’insaputa del paziente (ad esempio gocce diluite in una
bevanda), ha un effetto notevolmente inferiore rispetto alle stesse goc-
ce somministrate su prescrizione del medico. Ma se il terapeuta lo “pre-
senta” in maniera e con termini negativi, si avrà, con molta probabilità,
l’effetto nocebo, si avranno cioè più effetti indesiderati che terapeutici (e
questo si verifica anche per farmaci provatamente attivi).

Il nocebo è “il fratello cattivo” del placebo. Si indicano con questo termine gli effetti
dannosi, aspecifici, di un trattamento. Generalmente l’effetto nocebo è indotto dalle

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210 La verità sulla menzogna

aspettative negative del paziente in risposta a suggestioni (involontariamente) negati-


ve da parte del medico o di altre fonti. Spesso sono i termini che si usano per descri-
vere le procedure «sentirà dolore, pungere, bruciare» o i possibili effetti indesiderati
«potrà avere nausea, cefalea, bruciori allo stomaco» che rendono il soggetto più suscet-
tibile all’effetto nocebo. Per questo è necessario che nei corsi per medici e infermieri
siano inserite lezioni relative alla comunicazione con il paziente.

Quanto ai meccanismi attraverso i quali si svolge l’azione del placebo,


i dati disponibili non consentono di individuare un meccanismo unita-
rio. Sono state formulate diverse ipotesi ma nessuna soddisfacente. Per
quanto riguarda l’azione analgesica, sembra essere sufficientemente do-
cumentato il ruolo delle endorfine, gli oppioidi endogeni che modulano
la percezione del dolore: si è visto, infatti, che queste sostanze aumentano
sotto l’effetto del placebo e che il naloxone, l’antagonista specifico del-
la morfina, riduce o annulla l’effetto analgesico; questo confermerebbe
l’attivazione da parte del placebo degli stessi meccanismi neurobiologici
attivati dai farmaci. Quello analgesico, tuttavia, è solo uno dei tanti effetti
del placebo che agisce, verosimilmente, attraverso meccanismi complessi,
di natura psico-biologica, che possiamo grossolanamente riassumere in
questi termini: l’aspettativa del paziente nei confronti della terapia pre-
scritta provoca una serie di variazioni dei livelli di endorfine, neurome-
diatori, neurormoni e altro, che possono influenzare la percezione del
dolore, l’assetto ormonale, l’attività cardiovascolare, le reazioni immu-
nitarie e uno svariato numero di altri meccanismi fisiologici, talché ne
può risultare il miglioramento (fino alla scomparsa) di un sintomo o della
malattia. In definitiva, l’effetto placebo può essere considerato il risultato
di fattori non farmacologici che inducono modificazioni di processi bio-
logici. A conferma di ciò è stato rilevato che integrando un trattamento
tradizionale (in genere farmaci particolarmente, tossici, come certi anti-
tumorali) con la somministrazione di placebo si poteva ridurre la dose del
farmaco ottenendo risultati terapeutici sovrapponibili; la cosa funziona
finché il soggetto è all’oscuro del fatto di ricevere un placebo in sostitu-
zione di una parte del farmaco attivo.

È ampiamente citato il caso dell’amabile signor Wright, documentato dallo psicoim-


munologo Bruno Kopfer [114] nel 1952.
Il signor Wright era affetto da linfoma, una neoplasia maligna che interessa i lin-
fociti T, che tendeva a localizzarsi a livello delle stazioni linfonodali dando luogo a
sviluppo di masse spesso imponenti. Dopo avere sperimentato con risultati scarsi o
nulli le terapie convenzionali, al paziente restava ben poco da vivere essendo le masse
linfonodali superficiali grandi come un’arancia, e avendo le metastasi attaccato nume-
rosi organi vitali, in particolare i polmoni. I medici, arresi, avevano ridotto le cure al

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Xvi. Menzogna e salute 211

minimo in attesa dell’inevitabile fine. Ma il signor Wright aveva letto di un nuovo far-
maco sperimentale, il Krebiozen, che pareva potesse assicurare guarigioni miracolose
(anche se le prime ricerche ne avevano messa in dubbio l’efficacia). Convinse il medi-
co di reparto a includerlo nella sperimentazione con il nuovo preparato e questi, un
venerdì sera, gli iniettò il farmaco. Il lunedì mattina si aspettava di trovare il paziente
morto, date le precarie condizioni in cui lo aveva lasciato prima del weekend e invece
lo trovò a spasso nel corridoio che conversava con gli infermieri: le masse superficiali
si erano ridotte del cinquanta per cento e la respirazione non era più affannosa; dopo
10 giorni non presentava più alcun segno visibile di malattia tanto che poté essere
dimesso in remissione completa.
Di lì a poco comparvero sulla stampa servizi sull’inefficacia del Krebiozen, Wright
li lesse e, dopo circa due mesi, si ripresentò in ospedale con i classici segni della ri-
caduta. Il medico, convinto che nel caso della spettacolare remissione fosse in gioco
un qualche fattore che avesse poca attinenza con la biochimica e molta invece con
la psiche, pensò di sfruttare l’effetto placebo, e gli disse che lo avrebbe sottoposto
a una nuova sperimentazione con un nuovo derivato, rinforzato e più potente, del
Krebiozen. 
Il signor Wright acconsentì e il medico, dopo alcuni giorni di attesa, gli
somministrò un sostituto inattivo del Krebiozen, cioè un placebo. Entro pochi giorni
dall’iniezione, le masse linfonodali cominciarono a regredire e il versamento pleurico
scomparve: 
Wright era stato restituito di nuovo alla vita. Lasciò l’ospedale e per i mesi
successivi godette di ottima salute.
Infine l’American Cancer Association diede l’annuncio ufficiale che il Krebiozen era
del tutto privo di efficacia nel trattamento del cancro. 
A distanza di pochissimi giorni
dal comunicato, il signor Wright tornò in ospedale con il corpo disseminato di tume-
fazioni. «La sua fede era perduta, l’ultima speranza svanita», commentò il medico. Il
paziente morì due giorni dopo.
 L’episodio riportato dal dott. Kopfer illustra in ma-
niera paradigmatica tanto l’effetto placebo (la disponibilità di un farmaco che potesse
curarlo) quanto l’effetto nocebo (le notizie dell’inefficacia terapeutica del farmaco)18.

Negli ultimi vent’anni circa, l’industria farmaceutica, soprattutto


quella impegnata nella ricerca di farmaci neuropsichiatrici, si è trovata
di fronte a un problema imprevisto, l’aumento delle risposte placebo in
ricerche cliniche con farmaci che avevano dato risultati molto buoni nelle
precedenti fasi della ricerca. Per capire il motivo di questo cambiamento,
sono stati effettuati nuovi studi con alcuni farmaci già da anni in com-
mercio e che, all’epoca della loro approvazione, avevano brillantemente
superato il confronto con il placebo, e si è constatato che anch’essi non
apparivano così superiori al placebo come quando erano stati registrati
[178]. Sono stati intrapresi perciò numerosi studi per capire questo feno-

18 La fede non potrebbe essere un forte placebo capace di guarigioni “miracolose” attribu-

ite ai Santi? Del resto, una ricerca di cui diremo più avanti [177], ha evidenziato come una certa
percentuale di medici suggeriva come valide alternative al placebo meditazione, yoga, tecniche di
rilassamento e preghiera.

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212 La verità sulla menzogna

meno, ma finora non hanno portato a conclusioni definitive: un dato è


certo, i pazienti con morbo di Alzheimer non rispondono al placebo [17].
È stato ipotizzato che l’effetto placebo sia in gran parte legato alla previ-
sione di ottenere benefici dal trattamento e la demenza non consente di
fare alcuna previsione.
L’effetto placebo si realizza anche attraverso l’apprendimento sociale
grazie ai neuroni specchio: se ci viene prescritto un farmaco apparente-
mente uguale a quello di cui abbiamo verificato l’efficacia in altri, pro-
babilmente ci sentiremo meglio anche noi; allo stesso modo, se, mentre
aspettiamo in sala d’attesa per un prelievo di sangue, il paziente che sta
facendo il suo prelievo si lamenta o addirittura urla, anche il nostro sarà
probabilmente più doloroso.
Nel caso delle terapie eterodosse di cui abbiamo parlato, non vi sono
dubbi che il clamore mediatico che le ha accompagnate ed enfatizzate
possa essere responsabile dell’effetto placebo che ne ha determinato il
“successo” poiché le loro proprietà terapeutiche non sono mai state di-
mostrate. Allo stato delle nostre conoscenze, le evidenze scientifiche sono
contro le pratiche terapeutiche alternative (PTA) che, a tutti gli effetti,
possono essere considerate dei placebo, anche se dobbiamo sottolineare
che anche alcuni trattamenti convenzionali hanno effetti farmacologici
dubbi.
L’impiego del placebo, sia in terapia sia negli studi di psicofarmaco-
logia clinica (clinical trials), pone alcuni problemi di natura etica. Come
abbiamo detto fin dall’inizio, l’uso del placebo comporta un deliberato in-
ganno e, nel caso degli studi clinici, anche uno “sfruttamento” del pazien-
te. Un inganno, anche se a fin di bene, è di per sé eticamente discutibile
poiché impedisce al soggetto di esercitare il proprio diritto di decidere
di sé e della propria salute. Quando poi, come spesso accade, il paziente
viene a sapere di essere stato ingannato circa la natura del prodotto che gli
è stato somministrato, può venire compromesso il rapporto di fiducia e,
al limite, configurarsi anche il reato di frode. Per completezza, dobbiamo
dire che, per quanto riguarda specificamente la ricerca clinica, l’impiego
del placebo è sottoposto a strette limitazioni: in pratica ne è consentito
l’uso “in studi ove non esista alcun provato metodo diagnostico o terapeu-
tico” o per imprescindibili motivi di ordine metodologico a patto che,
comunque, il rischio di danni seri o irreversibili, sia considerato basso.
In ogni caso i soggetti sottoposti a sperimentazione devono essere stati
dettagliatamente informati e dichiarare esplicitamente il loro consenso.

In una ricerca [177] del 2008, condotta a Chicago su 466 medici internisti, il 45% degli
intervistati ha ammesso di aver usato almeno una volta nella propria pratica clinica il

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Xvi. Menzogna e salute 213

placebo. Di questi, il 34% riteneva che fosse una sostanza che può aiutare il paziente sen-
za nuocere, il 19% lo considerava comunque un farmaco e il 9% era convinto che fosse
un medicinale senza specifici effetti. Fra quelli che affermavano di non usare il placebo,
il 12% era convinto che si dovesse vietarlo perché la reazione psicologica avrebbe potuto
nuocere al paziente e comunque, molti fautori del “no” suggerivano come valide alter-
native al placebo meditazione, yoga, tecniche di rilassamento e preghiera.
Risultati analoghi sono stati rilevati in Gran Bretagna, Danimarca, Israele, Svezia,
dove almeno la metà dei medici intervistati ammette l’uso di placebo (o farmaci aspe-
cifici rispetto alla patologia del soggetto, come vitamine, sali minerali, integratori) giu-
stificandolo sia con l’efficacia dimostrata sia con il gran numero di malati immaginari
che chiedono trattamenti per i loro disturbi chiaramente psicosomatici.

Rimane quindi aperta la questione etica sull’uso del placebo nella pra-
tica clinica, ma, al di là dell’inganno, un buon medico userà bene anche il
placebo, che è, sì, inattivo dal punto di vista strettamente farmacologico
ma, come ormai dimostrano numerosi studi, è attivo non solo psicologi-
camente ma anche biologicamente.
Vorremmo concludere ricordando che abbiamo paragonato il place-
bo al bacio della mamma sulla banale contusione del figlioletto: coloro
che usano pratiche terapeutiche alternative (PTA) hanno, evidentemente,
imparato bene l’arte del bacio della mamma che, in altri termini, significa
prestare attenzione al paziente. Pur non condividendo, per queste prati-
che, la definizione di trattamenti in senso medico-sanitario (molte sono
più adatte a una beauty farm che a un setting medico), dobbiamo ricono-
scere che coloro che le praticano sanno utilizzare al massimo il rapporto
con il soggetto e conoscono l’arte dell’ascolto: è questo che colma il vuoto
di efficacia che i trattamenti offrono. Operazione questa che la medicina
tradizionale non sempre fa, probabilmente convinta che il sapere scienti-
fico sia sufficiente. Talora ci si dimentica che l’uomo non è una macchina
ma un essere dotato di emozioni e sentimenti, che ha bisogno di relazioni
umane, terreno su cui agisce primariamente il placebo. Il placebo sarà
una menzogna ma, come tale, ha bisogno di qualcuno che la racconti, e
che la sappia raccontare.
Il buon medico deve essere capace di curare secondo i dettami della
scienza ma utilizzare anche le proprie capacità empatiche per rafforzare
psicologicamente l’effetto delle terapie prescritte: il dialogo con il pazien-
te è, in questo senso, la prima e più importante arma di cui dispone. E se
veramente è un bravo medico, in caso di necessità, saprà usare bene anche
il placebo.

Nell’arcipelago vicino all’isola di Vancouver vivevano i Kwakiutl i cui sciamani erano


famosi per curare le malattie comunicando con gli spiriti. Qui il famoso antropologo

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214 La verità sulla menzogna

Franz Boas [22], nel 1887, raccolse il racconto di uno di essi, Quesalid, che in gioventù
considerava gli sciamani degli imbroglioni. Quesalid si propose di smascherarli fre-
quentandoli e così uno di essi lo prese come apprendista e gli svelò tutti i trucchi ai
quali faceva ricorso (svenimenti, lotte con gli spiriti, spiare gli eventi di un villaggio
per far credere alla “terza vista” ecc.) e in particolare, nei casi più gravi, il complesso
rituale che avveniva alla luce dei falò, con canti, musiche, litanie, e si concludeva con
l’estirpazione dello spirito maligno dal corpo del malato. La messa in scena era sug-
gestiva: lo sciamano la preparava accuratamente nascondendo in bocca un ciuffetto
di piume che insanguinava al momento topico mordendosi la lingua. Quando posava
le labbra sulla parte del corpo ammalata, con i tamburi che rullavano al massimo,
strappava via lo spirito (le piume intrise di sangue) che sputava nel fuoco dimostrando
il buon esito dell’esorcismo. Quesalid era ormai deciso a svelare i trucchi degli scia-
mani, quando fu chiamato in un’isola vicina a curare un ragazzo che aveva sognato di
essere guarito proprio da lui. Fu accompagnato nella casa del nonno, dove era radu-
nato tutto il villaggio intorno al fuoco, la musica era assordante, il ragazzo respirava a
fatica e, toccandosi le costole gli chiese di farlo vivere. Quesalid, che aveva preparato
le sue piume, si morse la lingua avvicinando la testa al petto del malato e dopo qual-
che secondo l’alzò di scatto sputando le piume insanguinate sul palmo della mano e
mostrandole in giro e, mentre partecipava alla danza sacra, gettò le piume nel fuoco.
Il ragazzo, intanto, si era alzato a sedere e respirava meglio. Da contestatore degli scia-
mani era diventato sciamano pur essendo ancora scettico riguardo alla magia; divenne
famoso e, nonostante il suo scetticismo, scoprì di poter curare pazienti considerati
senza speranza, ed era orgoglioso del suo lavoro. E quando un suo familiare si amma-
lava lo faceva curare... da qualche collega sciamano!

Storia emblematica che dimostra quanto potente possa essere la sugge-


stione e, come dice Wallace Stevens [181],
il credere ultimo è credere in una finzione che sai essere una finzione.

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XVII. La simulazione di malattia

Non esistono malattie. Esistono solo malati.


(Armand Trousseau)

La simulazione di malattia, sia essa fisica o mentale, a meno di impro-


babili e grossolane recite, non è certamente fra le prime ipotesi diagnosti-
che del medico: anche solo per ovvi motivi deontologici, non può essere
che una diagnosi per esclusione. Una volta ipotizzata, dovremo chiederce-
ne le motivazioni e valutare le possibilità di intervento, prevedibilmente
aleatorie, perché in casi come questi di solito manca la base portante, l’al-
leanza terapeutica.
La produzione intenzionale di sintomi fisici o psicologici falsi o grosso-
lanamente esagerati, motivati da incentivi esterni non viene considerata
una patologia1.
In alcune circostanze, la simulazione può rappresentare un comportamen-
to adattivo – per esempio fingere una malattia quando si è prigionieri del
nemico in tempo di guerra [5].

Simulazione di malattia mentale

La simulazione di malattia mentale (o disturbo fittizio con sintomi psi-


chici) va dalla totale assenza della malattia – sostituita dalla sua simula-
zione – alla sovrapposizione della simulazione a una malattia reale (anche
grave). Se nel gioco infantile la simulazione è espressione d’intelligenza
rappresentativa (riprodurre qualcosa che si è immaginato, costruito nella
propria mente) e ha la funzione di sviluppare capacità adattive dal punto
di vista cognitivo, sociale, affettivo, nell’adulto è volta a ingannare l’inter-
locutore (il medico) per il raggiungimento di uno scopo che non sempre
è chiaramente individuabile o razionalmente comprensibile.
Abbiamo già accennato che alla simulazione di malattia mentale ri-

1 È considerata come una condizione che può essere oggetto di attenzione clinica.

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216 La verità sulla menzogna

corsero re David e Ulisse, il primo per sottrarsi (con successo) alle ire
del re Achish e il secondo (invano) per evitare di partecipare alla guerra
di Troia, ma non dovevano essere casi isolati giacché Galeno dedica alla
simulazione di malattia una trattazione specifica, Come scoprire i simula-
tori di malattie2.
Nei casi citati non sussistono dubbi che ci troviamo di fronte a una
vera simulazione e quindi davanti a un soggetto che, consapevolmente,
cerca di sottrarsi a una situazione critica, per ottenere un vantaggio com-
prensibile (che può essere la non-imputabilità o la riduzione di pena in
ambito forense, l’indennizzo o l’invalidità per fini assicurativi/infortuni-
stici, ottenere farmaci nel caso di tossicodipendenza ecc.): chi non cono-
sce il detto fare il tonto per non pagare gabella3?
Certamente la simulazione di malattia mentale è eccezionale nella po-
polazione generale. È assai frequente, invece, in ambito carcerario, giudi-
ziario, criminologico, dove generalmente il soggetto adotta strategie che
mettono facilmente sull’avviso l’esaminatore: la sproporzione fra lo stress
esibito e la reale compromissione, la non collaborazione all’accertamento
diagnostico, un’anamnesi psichiatrica negativa, la presentazione di un set
limitato di sintomi, tra cui alcuni che il vero malato negherebbe, o altri,
talora artatamente suggeriti dall’esaminatore, descritti in maniera scien-
tificamente esatta e ogni volta perfettamente ripetuti. Talora sono possi-
bili atteggiamenti regressivi, infantili, teatrali, totalmente inappropriati e,
ciliegina sulla torta, una prodigiosa guarigione quando il simulatore ha
raggiunto il suo obiettivo.
Non dobbiamo, comunque, sottovalutare la possibilità che, in ambito
carcerario, nel simulare una malattia mentale, il soggetto possa compiere
gesti autolesivi, anche molto rischiosi, per richiamare l’attenzione degli
operatori penitenziari, dimostrando così la “realtà” della sua malattia, in
modo da raggiungere l’obiettivo prefissato. Simulare una malattia men-
tale in maniera verosimile è difficile, anche se ben conosciuta e, soprat-
tutto, è quasi impossibile sostenere a lungo la simulazione, anche quando
il soggetto è solo o ritiene comunque di non essere osservato (evenienza
oggi sempre meno frequente per la possibilità di videosorvegliare gli am-
bienti).
I disturbi psichici simulati mostrano spesso le caratteristiche di qua-
dri demenziali, pseudo-demenziali o confusionali, più vicini, cioè, all’im-

2 Quaemodo morborum simulantes sint deprehendis.


3 Un tempo, per trasportare merci da un comune all’altro si doveva pagare il dazio o gabella
e c’era sempre qualcuno che faceva il finto tonto cercando di imbrogliare il daziere per non pagare
il dovuto.

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XVII. La simulazione di malattia 217

magine della “follia” che hanno i profani. Un quadro che ha avuto una
discreta fama soprattutto in passato, sia in ambito militare (in periodi
bellici ma anche dopo, quando il servizio militare era obbligatorio) che
carcerario, è la sindrome di Ganser (o pseudodemenza), diventato il pro-
totipo della simulazione della malattia mentale al punto che, nella pratica
clinica parliamo di “atteggiamento ganseriano” per definire la tendenza
alla simulazione – generalizzazione che ha portato a estendere eccessi-
vamente la diagnosi. Su questa sindrome, descritta per la prima volta da
Sigbert Ganser [90] nel 1898, pesa, infatti, il peccato originale di essere
stata individuata in soggetti sottoposti a carcerazione preventiva e per-
tanto sono sopravvissute a lungo altre denominazioni in casi con una sin-
tomatologia sovrapponibile ma osservati in altri contesti4.

La sindrome di Ganser insorge acutamente, a breve distanza dall’evento scatenante e si


risolve con altrettanta rapidità poco dopo che il soggetto ha raggiunto il suo scopo o si
è reso conto dell’inutilità dei suoi sforzi. Il quadro, che si accentua durante i colloqui,
soprattutto se si assume un atteggiamento inquisitorio, è caratterizzato da uno stato
di coscienza crepuscolare con disorientamento temporo-spaziale, distraibilità, risposte
“di traverso”, che danno l’impressione che il soggetto abbia colto il significato della do-
manda ma che manchi di conoscenze che certamente possedeva e che quasi certamente
possiede ancora; calcolo “di traverso”, con errori grossolani per calcoli molto semplici
e risposte corrette a operazioni più complesse; meno frequenti i comportamenti “di
traverso”, cioè movimenti e gesti che simulano l’aprassia5. È frequente anche un atteg-
giamento puerile, recitativo. Abbastanza tipicamente, al di fuori del colloquio diretto,
il soggetto appare pressoché normale. Tutti (o quasi) questi pazienti hanno un basso
livello intellettivo e culturale e una struttura di personalità psicopatica o istrionica.

Molto si è discusso sulla natura della simulazione, se sia conscia o in-


conscia; alcuni autori, tenendo conto del fine utilitaristico, la ritengono
cosciente su un terreno costituzionale oligofrenico; altri parlano di una
condizione in cui si intrecciano una simulazione cosciente e una psi-
copatologia inconscia, di un inizio intenzionale che, progressivamente,
si sottrarrebbe al controllo della volontà per entrare in un meccanismo
inconscio e automatico che è stato definito come simulazione inconscia.
Ganser, pur ammettendo un fine utilitaristico, rifiutava di considerare la

4 Fin dall’inizio, molte sono state le interpretazioni circa la sua natura simulatoria, da quella
di Sarteschi [169], che la definisce come simulazione vera e propria, cosciente, voluta, troppo evi-
dentemente ingenua, frutto di una mentalità priva di critica o anche del senso morale, a quella di
Whitlock [194], che la interpreta come psicosi, passando dalla simulazione inconscia di Bleuler [18]
e dalla psicosi di simulazione su base isterica di Ganser [90] e altre ancora.
5 L’aprassia è un disturbo neurologico caratterizzato dall’incapacità di pianificare, organiz-

zare e realizzare i movimenti finalizzati, anche quelli che eseguiamo in maniera automatica.

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218 La verità sulla menzogna

sindrome come una simulazione volontaria di malattia e ne sottolineava


la componente isterica6.
Non è eccezionale che, questi soggetti, possano presentare una pro-
gressiva cronicizzazione della loro condizione nonostante la risoluzione
del problema, cosa che confermerebbe la presenza di un substrato predi-
sponente. È importante tenere presente che il ganseriano non deve essere
confuso con il simulatore: il primo ha uno stato di coscienza di tipo cre-
puscolare, il secondo è lucido; il primo va curato, il secondo no.

Simulazione di malattia fisica

Se nella casistica dei soggetti con sindrome di Ganser (simulazione


di malattia psichica) è praticamente la regola un livello intellettivo e cul-
turale al di sotto della media, hanno invece un buon livello intellettivo i
soggetti che presentano il disturbo fittizio o sindrome di Münchhausen7,
consistente generalmente nella simulazione di una malattia fisica8.
Poli estremi della simulazione, della malattia mentale da un lato e di
quella fisica dall’altro, nel Ganser c’è generalmente come sottofondo la
ricerca di un vantaggio, nel Münchhausen non ci sono apparenti motiva-
zioni se non quella, ipotetica, di assumere il ruolo di malato e di ottenere
così assistenza, cura e ricovero.

Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, noto come Barone di Münchhausen,


vissuto nel XVIII secolo, era un capitano che aveva combattuto sotto le bandiere di
Antonio Ulrico II, duca di Brunswick-Luneburg, nella cavalleria russa. Era famoso,
all’epoca, per i suoi racconti di avventure inverosimili, fantastiche, mirabolanti.
Eccone qualche esempio: gran cacciatore, una volta carica il fucile con una bacchetta
di ferro, spara e infilza sette pernici già pronte per lo spiedo; aggredito da un grosso
orso inferocito, gli infila una pietra focaia in bocca e una nel sedere e quando le due
pietre s’incontrano nella pancia esplodono facendo a pezzi l’animale; gran guerriero,
nel corso di una terribile battaglia contro i Turchi, il suo cavallo viene tagliato di netto
in due da una saracinesca che chiude l’accesso a una città: le due parti del cavallo con-
tinuano a procedere, con lui che combatte sulla parte anteriore mentre quella poste-
riore scalcia furiosamente i nemici; finita la battaglia, incolla insieme la due parti con

6 Nelle diverse edizioni del DSM ha migrato in varie categorie (disturbi fittizi con sintomi

psichici, disturbo dissociativo) per scomparire nel DSM-5.


7 La denominazione di sindrome di Münchhausen fu utilizzata per la prima volta da Lancet
nel 1951 per unificare situazioni caratterizzate dal ripetuto verificarsi di ricoveri ospedalieri per la
cura di malattie apparentemente acute, di cui il paziente riferiva una storia e una causa plausibile,
ma che si rivelavano tutte false.
8 Anche se non mancano esempi di Münchhausen psichici.

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XVII. La simulazione di malattia 219

un unguento e dell’alloro così, qualche tempo dopo, dalla cicatrice nasce un pergolato
d’alloro che gli offre una comoda ombra. Racconta, inoltre, di essere andato per due
volte sulla luna (la prima volta arrampicandosi su una pianta di fave), di aver viaggiato
a cavallo di una palla di cannone, di essersi salvato dalle sabbie mobili tirandosi su per
i capelli, di aver visitato il fondo del mare su un cavallo marino e così via.
Rudolf Erich Raspe [156] ne fece il protagonista del romanzo Le avventure del baro-
ne di Münchhausen. È da lui che ha preso il nome il disturbo fittizio con sintomi fisici:
la sindrome di Münchhausen.

Sembrerebbe paradossale che a un disturbo generalmente grave sia


stato dato il nome del protagonista di strampalate e inverosimili avven-
ture di chiaro stampo buffonesco. In realtà, ciò che giustifica l’eponimo è
l’abnormità dei sintomi che il soggetto lamenta o addirittura si provoca (o
provoca ad altri nelle forme per procura di cui diremo più avanti). Con la
falsificazione di segni o sintomi fisici o psicologici, o autoinduzione di un
infortunio o di una malattia, associato a un inganno accertato, l’individuo
presenta se stesso agli altri come ammalato, menomato o ferito. Il comporta-
mento ingannevole è palese anche in assenza di evidenti vantaggi esterni [5].
Ma dietro questi pochi punti si cela un universo estremamente com-
plesso, variegato, agghiacciante per certi versi, una sorta di corte dei mira-
coli alla quale ben si adatta ciò che scrisse Pieter Bruegel il Vecchio dietro
la sua tavola del 1568, Gli storpi,
Nemmeno la natura possiede ciò che manca alla nostra arte, tanto grande è
il privilegio concesso al pittore, qui la natura, tradotta in immagini dipinte,
e vista nei suoi storpi, stupisce rendendosi conto che il Bruegel le è pari.
Si presentano come pazienti internistico-chirurgici che talora appro-
dano in ambito psichiatrico a un certo punto (spesso avanzato) della loro
“carriera”.
La sindrome di Münchhausen si caratterizza per la triade simulazio-
ne più o meno consapevole di malattia, pseudologia fantastica (menzo-
gne patologiche) e peregrinazioni [11]. La capacità di ingannare di questi
soggetti è tale che è veramente difficile accertare l’inganno; descrivere
il quadro clinico è praticamente impossibile poiché quantità, qualità e
complessità dei segni e sintomi presentati sono illimitate; non esitano ad
autoprocurarsi infezioni, ferite (che possono diventare ulcere per le loro
manipolazioni), patologie endocrine per assunzione autoprescritta di
preparati ormonali, anemie da salassi autopraticati e molto altro ancora.
Spesso, già al momento della richiesta di ricovero, l’urgenza e la dram-
maticità dei sintomi sono tali da ottenere credito e accoglienza, superan-
do la naturale prudenza del medico nel valutare l’opportunità di ricovero

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220 La verità sulla menzogna

(e a maggior ragione di un intervento chirurgico): sono così abili che ri-


escono a sconvolgere la normale prassi del ricovero (verifica dell’auten-
ticità e consistenza dei sintomi, ipotesi diagnostica ecc.) mettendo il me-
dico di fronte alla necessità prioritaria di intervenire sull’urgenza e sulla
sofferenza, verosimilmente amplificate nella loro esteriorizzazione, anche
perché la complessità del quadro presentato non consente la formulazio-
ne immediata di una diagnosi.
In genere questi pazienti si presentano con una documentazione clini-
ca abbondante ed espongono i loro sintomi, di solito credibili, con buona
terminologia medica; raccontano la loro “storia” in maniera convincente
e coinvolgente, spesso arricchita da eventi stressanti di rilievo (morte di
familiari, gravi incidenti ecc.), tanto da apparire come vittime bisognose
di comprensione e di aiuto. Accettano (quando non sono loro stessi a ri-
chiederle) qualsiasi tipo d’indagine, anche dolorosa, senza che si arrivi a
un’ipotesi diagnostica e trovandosi spesso di fronte, da un giorno all’altro,
a variazioni anche notevoli dei risultati che inducono a formulare nuove
ipotesi senza giungere mai a conclusioni ragionevoli. Generalmente sono
pazienti difficili da gestire, polemici, non rispettano le regole del reparto,
chiedono sempre qualcosa e molto spesso analgesici (spesso presentano
una componente tossicofilica se non tossicomanica); modificano la sinto-
matologia in modo da complicare e allungare il procedimento diagnostico.
Se nel frattempo non interviene qualche comportamento abnorme tale da
insinuare il sospetto che il paziente si autoinduca segni e sintomi, di fronte
a queste incongruenze può farsi strada il sospetto di trovarsi di fronte a un
disturbo fittizio per cui, approfondendo la conoscenza del paziente e, ri-
percorrendo l’anamnesi, si può intravedere un mix di componenti vere e di
parti di fantasia: emergono abusi o misusi di farmaci, gesti autolesivi, azioni
volte a ritardare la guarigione, esiti di interventi chirurgici (anche ripetuti: il
famoso “addome a graticola”). L’aumento della sorveglianza infermieristi-
ca evidenzia comportamenti in qualche modo “iatrogeni” e quello che era
incominciato come un rapporto empatico, finisce per trasformarsi in una
completa rottura dell’alleanza terapeutica e una richiesta di dimissione im-
mediata. Dopo qualche tempo il paziente si presenterà in un altro ospedale,
dove ricomincerà la trafila diagnostica (le peregrinazioni di Ascher).
È evidente l’intenzionalità del soggetto, la sua deliberata volontà di in-
gannare, mentre la presenza di controllo volontario è un’impressione. Il
soggetto non è in grado di astenersene a causa della qualità compulsiva
del disturbo. Un disturbo di personalità, in particolare il borderline, è sta-
to da molti indicato come substrato di questo disturbo per la presenza di
intense risposte emozionali, relazioni interpersonali conflittuali, facilità
di ricorso a gesti autolesionistici e parasuicidari; un altro elemento che

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XVII. La simulazione di malattia 221

potrebbe indirizzare precocemente verso la diagnosi, è la mancanza di


rapporti interpersonali, l’isolamento sociale: è molto raro, infatti, che, per
quanto si prolunghi il ricovero, qualcuno faccia loro visita9.
Molti di questi pazienti, oltre alla simulazione di malattia, arricchisco-
no la loro storia con pseudologie fantastiche, talora degne del Barone di
Münchhausen, collegate o meno al disturbo fittizio.

Ascher riporta il caso di un paziente che riferiva fantasiose esperienze belliche molto
drammatiche: imbarcato su un mercantile, era stato affondato da un siluro nemico,
quindi fatto prigioniero dai giapponesi e liberato solo alla fine della guerra; in un’altra
circostanza aveva raccontato di essere un pilota di aerei che, negli stessi anni, era stato
abbattuto nel cielo di Mannheim riportando lesioni per le quali aveva dovuto sotto-
porsi a ben otto interventi chirurgici all’addome.
Un altro paziente sosteneva di essere pilota di caccia ed eroe di guerra, diceva di
possedere fantastiche residenze in luoghi esotici, ogni volta diversi, di aver fatto l’oce-
anografo assieme a Cousteau, di essere professore di psicologia, dirigente della Boeing,
fisico nucleare della NATO, ministro della Chiesa Scozzese e altro ancora. Sosteneva
di aver subito 48 interventi chirurgici (e aveva effettivamente l’addome “a graticola”)
in conseguenza di esplosioni belliche. Nel corso di un intervento si scoprì che gli era
stato asportato un rene; aveva almeno 300 ricoveri documentati.

Come abbiamo detto, questi soggetti hanno, di solito, una buona intel-
ligenza e alcuni di essi hanno lavorato in campo sanitario. Per certi aspet-
ti, è come se volessero mettere in discussione la buona fede del medico, la
sua capacità di accertare o escludere la malattia, la sua autorità di alleviare
il disagio. Il loro comportamento, in definitiva, può essere considerato
una sfida alla quale il medico non può sottrarsi sia per ragioni deontolo-
giche, sia perché il suo operato è sempre di più soggetto a controlli critici
e non può trascurare accertamenti con valore probatorio di esclusione di
patologia per il rischio di essere accusato di negligenza o imperizia (se si
esamina con attenzione la ricca documentazione che presentano questi
pazienti, non è eccezionale trovare richieste di indennizzi assicurativi o
documenti indicanti ricorsi a tribunali). Naturalmente, possono coesi-
stere con il disturbo fittizio, segni e sintomi di reali patologie somatiche
che devono essere diagnosticate e curate. Né deve essere sottovalutata la
latente componente suicidaria implicita nei molteplici interventi chirur-
gici e diagnostici, nell’autolesionismo, nell’autoinduzione di patologie,
nel riscontro di pregressi tentativi di suicidio: non a caso la sindrome di
Münchhausen è stata considerata un equivalente suicidario10.

9 Questo disturbo è stato accostato a diverse aree psicopatologiche, compresa la schizofrenia


10 Si potrebbe ritenere che questo disturbo sia il grado estremo del ricorso alla somatizza-
zione, dell’abuso del “comportamento da malato”; in realtà le differenze fra la sindrome di Mün-

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222 La verità sulla menzogna

Particolarmente importante è la cosiddetta sindrome di Münchhausen


per procura (o by proxy) che si osserva generalmente in ambito pediatri-
co11 e nella quale la simulazione di malattia e l’eventuale provocazione dei
sintomi è opera della madre stessa (o di chi ne fa le veci) che chiede inda-
gini e terapie per il figlio. I sintomi, di solito atipici rispetto a quelli delle
malattie conosciute, e le analisi, manipolate dalla madre, rendono difficile
al pediatra formulare una diagnosi, ma anche pensare che i disturbi siano
inventati o procurati dalla madre.

Recentemente un pediatra, Andrea Passarella [146], ha illustrato il caso di una sua


paziente vittima di una sindrome di Münchhausen per procura che ci sembra interes-
sante riassumere brevemente.
Stefania è la secondogenita di due figlie che il pediatra ha seguito fin dai primi anni di
vita ma che non vede più da un pezzo. Vede invece la sorella adolescente perché da un
po’ lamenta diversi disturbi ma le indagini escludono una patologia organica. Durante le
visite alla ragazzina, la madre chiede abitualmente al medico il favore di prescriverle un
cortisonico (dice di soffrire di artrite) per evitarle di “fare la fila” dal medico di famiglia.
Dopo qualche tempo il pediatra rivede Stefania: obesa, ipertricotica, francamente
cushingoide. Si meraviglia che una madre così attenta abbia sottovalutato i primi sin-
tomi della Sindrome di Cushing. L’aumento di peso è stato brusco e quasi certamente
non alimentare.
Riesaminando attentamente il caso, si rende conto di aver prescritto alla mamma
una notevole quantità di cortisonico e che costei presenta molte delle caratteristiche
della madre capace di indurre una sindrome di Münchhausen: per quanto di livello
culturale medio-basso, si è assunta il ruolo di interfaccia con i medici per tutta la fa-
miglia; conosce superficialmente quasi tutto e ne parla con la massima competenza;
affetta da patologie inspiegate e sempre nuove (disturbo fittizio parziale?); marito as-
sente perché impegnato con il lavoro; iperprotettiva, ambivalente; affettività positiva
ma con fobia di malattia; aggressività negativa con ideazione persecutoria; necessità
di autovalorizzazione che soddisfa strumentalizzando la salute dei figli; strutturazione
della propria personalità come madre accudente.
Stefania, ricoverata, mostra una normalizzazione dei valori, dato che conferma (uf-
ficiosamente) il sospetto di sindrome di Münchhausen per procura. Dopo il ricovero,
il peso di Stefania decresce rapidamente e scompaiono i tratti cushingoidi. Dopo qual-
che anno le verrà diagnosticata una opacità corneale, conseguente all’ipercortisolemia
e successivamente verrà posta diagnosi di epilessia SLI positiva12.

chhausen e il disturbo da sintomi somatici (vedi Cap. XVIII) non sono quantitative ma qualitative: il
soggetto con disturbo da sintomi somatici non fornisce false informazioni, non cerca di ingannare
il medico, non agisce per provocarsi i sintomi, non si sottoporrebbe a inutili e rischiose pratiche
diagnostiche o a ripetuti interventi chirurgici (fino alla cosiddetta “surgical addiction” e al conse-
guente addome “a graticola” o “a carta geografica”) come fa, invece, il soggetto con disturbo fittizio.
11 La sindrome di Münchhausen per procura si può osservare anche a carico di familiari inca-

paci, disabili o con deterioramento mentale.


12 L’“epilessia SLI positiva” è una forma di epilessia attivata dalla Stimolazione Luminosa

Intermittente.

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XVII. La simulazione di malattia 223

Nei casi a prognosi favorevole, si tratta di madri ansiose, che non rie-
scono a sostenere la responsabilità genitoriale senza riuscire a razionaliz-
zarla e la comunicano attraverso la “malattia” del figlio: una volta chiarito
il quadro e ottenuto il supporto terapeutico e/o pratico, si assiste a una
rapida remissione.
Ben più gravi sono i casi di sindrome di Münchhausen per procura
in personalità paranoidi, donne con situazioni coniugali conflittuali, che
sono convinte della malattia del figlio e riportano false notizie anamnesti-
che o falsi sintomi recenti o provocano in vario modo (somministrazione
impropria di farmaci, iniezioni settiche, maltrattamenti e altro) sintomi
anche drammatici: tipicamente cercano un’alleanza con il medico mo-
strandosi come madri premurose, attente alla salute del figlio.
La sindrome di Münchhausen è stata ed è oggetto di particolare inte-
resse per le difficoltà che pone quando si voglia capirne le motivazioni.
In primo piano c’è l’atteggiamento ambivalente verso la medicina, alla
quale il paziente fa ricorso in misura a dir poco esagerata per poi entrarci
in conflitto mettendo in discussione la competenza dei medici. Nella sua
storia non è eccezionale la presenza della figura di un medico che ha avu-
to un ruolo importante, tant’è vero che spesso ci sono stati approcci (fal-
liti) agli studi dell’area medica, magari seguiti da interessi autodidattici
e/o da passione per film, fiction, trasmissioni culturali di argomento me-
dico. Non sembra assurdo ipotizzare che il fallimento dell’identificazione
con la figura del medico lo porti a ripiegare sul ruolo passivo di paziente.
Nell’infanzia, per quanto difficile sia raccogliere informazioni attendibi-
li, figurano spesso, carenze affettive, abusi, maltrattamenti, malattie e/o
morte di uno o entrambi i genitori, istituzionalizzazione, nuclei familiari
caotici e non è improbabile che, in questo contesto, un medico possa aver
rappresentato un punto di riferimento.
Il soggetto, per la scarsa autostima, tende, per essere accettato, ad as-
sumere il ruolo di vittima o martire. Questo ha fatto ipotizzare tratti di
dipendenza da cui la richiesta di aiuto e sostegno a figure professionali,
con funzione vicaria rispetto alle figure genitoriali; il ruolo di malato con-
sentirebbe la soddisfazione dei bisogni regressivi di rassicurazione, ma al
tempo stesso permetterebbe al paziente di esprimere i suoi sentimenti di
rabbia, di ostilità verso i medici (genitori) frustrati dal «non capire», dal
«non riuscire a curare».

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Xviii. Gli inganni del corpo

Vengono ingiustamente detti immaginari mali


che sono invece fin troppo reali,
dato che procedono dalla nostra mente,
unico regolatore del nostro equilibrio
e della nostra salute.
(Emil Cioran, Il funesto demiurgo, 1969)

La cenestesi1 è un meccanismo grazie al quale, in condizioni fisio-


logiche, il nostro corpo ci dà notizia di sé in modo sommesso tanto che,
per percepirlo, è necessario prestargli specifica attenzione. Quando i vari
organi e apparati vanno incontro a qualche patologia, la cenestesi può
segnalarcelo in varia maniera, con sintomi riferiti a un organo o apparato
specifico o con una sensazione di sofferenza diffusa a tutto l’organismo,
di malessere generale. Sono questi segnali che ci spingono a consultare il
medico attendendoci che lui, direttamente o mediante indagini diagno-
stiche, stabilisca la natura e la causa del malessere o del dolore, e ci forni-
sca gli strumenti per eliminarlo, restituendoci la sensazione di benessere.
Succede non eccezionalmente che un certo numero di pazienti si pre-
senti al medico denunciando malesseri, sensazioni dolorose, localizzate
o diffuse, che interferiscono in misura anche notevole con la loro vita
quotidiana, creando ansia e preoccupazione per il timore di avere una
malattia somatica, e che, nonostante l’accuratezza della visita e l’impiego
degli strumenti diagnostici più sofisticati, il medico non riscontri alcuna
alterazione a carico dei vari organi e apparati, e che i sintomi permanga-
no anche dopo tentativi terapeutici. A quel punto il medico giunge alla
conclusione che quanto lamentato dal paziente è sine materia e si tratta
perciò di un disturbo somatico su base psichica.
Sarebbe un grave errore affermare che il paziente «non abbia niente»,
che «inventi i sintomi», che sia «un malato immaginario» poiché i distur-
bi che lamenta non sono affatto immaginari, semplicemente non hanno
1 La cenestesi è la sensazione generale relativa ai visceri e alla loro attività; deriva dalla somma

delle sensazioni provenienti da muscoli, articolazioni, posizione nello spazio (sensazioni propriocet-
tive) e dai recettori degli organi interni (interocettive o viscerali).

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226 La verità sulla menzogna

una corrispondenza oggettiva con la sede in cui il soggetto li localizza ma


originano dal suo sistema nervoso: si tratta cioè di una patologia psichica
che si esprime attraverso manifestazioni somatiche che comportano disa-
gio e compromissione significativi.
Che stress, emozioni, traumi, conflitti possano manifestarsi attraverso
il corpo è indiscutibile, basta pensare – sic parvis in magna2 – alle emo-
zioni che ci fanno arrossire, all’innamoramento che ci provoca le palpi-
tazioni, ci fa venire “le farfalle allo stomaco”, all’ansia che ci prosciuga la
bocca e altro ancora. Senza entrare nello specifico, il disagio psichico, at-
traverso il sistema neuroendocrino, può trasformarsi in sintomi somatici
del tutto analoghi a quelli causati da patologie fisiche.
È quanto osserviamo nei disturbi da sintomi somatici3 ma anche nel
disturbo da dismorfismo corporeo, nell’anoressia nervosa, in cui l’imma-
gine del corpo è profondamente alterata, nell’ortoressia, l’anoressia del
nuovo secolo, e negli altri disturbi del comportamento alimentare, buli-
mia e binge-eating disorder.
In tutte queste condizioni, per quanto clinicamente eterogenee, i rap-
porti psiche-soma sono variamente alterati e costituiscono il fil rouge che
li collega. Va inoltre sottolineato che sintomi fisici di vario tipo si osser-
vano assai di frequente nei disturbi dell’umore e d’ansia in cui, talvolta,
sono in primo piano, soprattutto nelle età estreme della vita o in certi
contesti socio-culturali4.

2 Così dalle piccole alle grandi cose.


3 Il DSM-5 ha ridotto il numero dei disturbi somatoformi rispetto alle precedenti edizioni,
ritenendo che vi fosse tra loro un’ampia sovrapposizione e una mancanza di chiarezza sui loro confini
diagnostici. Ha così ricondotto sotto la denominazione di disturbo da sintomi somatici, i disturbi di so-
matizzazione e algico; ha cambiato la denominazione dell’ipocondria in disturbo da ansia di malattia;
ha mantenuto il disturbo di conversione; ha inserito il disturbo fittizio (che in precedenza considerava
come disturbo indipendente poiché i suoi sintomi fisici sono intenzionali, cioè sotto il controllo della
volontà, vedi Cap. XVII relativo alle malattie da simulazione) e ha spostato il disturbo da dismorfismo
corporeo nei disturbi correlati al disturbo ossessivo-compulsivo.
4 Ma è vero anche il reciproco, che cioè la componente depressiva e ansiosa acquisti un ruolo di
primo piano nei disturbi da somatizzazione: da un lato somatizzare depressione e ansia è un modo per
depotenziare questi disturbi fornendo un bersaglio più concreto rispetto ai sintomi psicologici (anedo-
nia, taedium vitae, tristezza immotivata... sensazione di pericolo indefinibile, di catastrofe imminente,
preoccupazioni immotivate...) e, dall’altro, depressione e ansia sono modalità congrue di reazione a
disturbi generalmente cronici o comunque persistenti, che causano disagio e significativa alterazione
del funzionamento in ambito socio-lavorativo e quindi compromissione della vita quotidiana.

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Xviii. Gli inganni del corpo 227

Disturbi di somatizzazione
L’ipocondria è l’unica malattia che non ho.
(Anonimo)

Per lungo tempo i disturbi di somatizzazione sono stati diagnosticati in


base alla negatività degli accertamenti clinici e strumentali e i soggetti che
ne soffrivano erano sbrigativamente liquidati come “malati immaginari”
o “isterici”, in base ai sintomi lamentati, diagnosi comunque implicita-
mente dispregiativa. È pur vero che questi pazienti arrivavano (e ancora
arrivano) all’osservazione dello psichiatra – ultima spiaggia – dopo lun-
ghe peregrinazioni mediche, scoraggiati e umiliati dal sentirsi ripetere che
“non hanno nulla” e che sono solo loro fantasie, e l’invio allo psichiatra è
la “dimostrazione” che sono considerati “pazzi”.
L’impostazione attuale [22] tende a minimizzare l’importanza dei sin-
tomi non spiegabili dal punto di vista medico, enfatizzando, invece, oltre
all’aspetto disadattivo, la presenza di
pensieri, sentimenti o comportamenti eccessivi correlati ai sintomi somatici
o associati a preoccupazioni relative alla salute.
È auspicabile che questo approccio migliori la gestione di tali pazienti,
a partire dal medico di base che, nonostante la negatività delle indagini
diagnostiche, prenda in seria considerazione la loro sofferenza inviandoli
allo psichiatra come parte integrante di un approccio positivo al disturbo
e non come extrema ratio quasi che fosse lo stregone, l’esorcista o, nel
migliore dei casi, il “medico dei pazzi”.
Nella sua nuova veste, il disturbo da sintomi somatici5 comprende sia il
dolore associato a diversi quadri6 – gastro-intestinali (nausea, meteorismo,
vomito, intolleranze alimentari), sessuali (disfunzione erettile o dell’eiacula-
zione, irregolarità mestruali o menorragie) o pseudo-neurologici (paralisi o
ipostenia o insensibilità tattile localizzata, disturbi dell’equilibrio, nodo alla
gola, afonia, amnesia) –, sia il dolore, come unica manifestazione clinica7. In

5 Disturbo da sintomi somatici: è caratterizzato da molteplici sintomi somatici (o uno solo,


grave, in genere il dolore), specifici (localizzati) o aspecifici (generali), che non hanno una spiega-
zione medica, ma che procurano disagio o portano ad alterazioni significative della vita quotidiana.
Il soggetto giudica i sintomi come ingiustificatamente pericolosi, fastidiosi, minacciosi, fino a dar
loro un ruolo centrale nella sua vita. In concomitanza con una patologia organica reale, il disturbo
da sintomi somatici ne amplifica la gravità e le eventuali conseguenze. La preoccupazione per la sa-
lute può compromettere gravemente la qualità della vita fino a portare all’invalidità. Generalmente
questi soggetti sono molto sensibili agli effetti collaterali dei trattamenti.
6 Nelle edizioni precedenti costituiva il disturbo di somatizzazione.
7 Nelle edizioni precedenti costituiva il disturbo algico.

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228 La verità sulla menzogna

questo disturbo possiamo ragionevolmente ritenere che l’inganno parta dal


cervello il quale proietta su organi e apparati – “scelti” probabilmente per
il loro significato psicologico o per una loro meiopragia8 –, le sensazioni di
malessere, di disfunzione, di dolore.
I medici definiscono questi disturbi come funzionali (a indicare che
non sono attribuibili a una patologia organica) o psicogeni (riferendosi a
una presunta etiologia psicologica). Questo lascia presumere che il SNC
invii al corpo, o a specifici organi e apparati, messaggi ingannevoli, tali da
provocare una reale sofferenza e alterazioni significative della vita quoti-
diana, in assenza di riscontri obbiettivi.
La preoccupazione di avere o di poter contrarre una malattia, che una
volta era denominata ipocondria, è oggi definita come disturbo da ansia
di malattia. Se presenti, i sintomi somatici sono di lieve entità; nel caso
di una reale patologia medica, i pazienti se ne preoccupano in maniera
eccessiva, sproporzionata, rispetto alla sua oggettività. Si allarmano facil-
mente per la propria salute e mettono in atto eccessivi controlli o evitano
possibili, anche se improbabili, fonti di contagio o di rischio di malattia.
Consultano assiduamente enciclopedie mediche o siti internet di argo-
mento medico trovando facilmente sindromi nelle quali riconoscersi am-
plificando così le loro preoccupazioni; cercano rassicurazioni non solo
da parte dei medici, che consultano con eccessiva frequenza, ma anche di
parenti o amici, senza però che le loro preoccupazioni si riducano, se non
per brevissimo tempo; piuttosto, una parola detta o intesa male le accen-
tua, scatenando uno stato d’allarme ipocondriaco.
È generalmente accettato che una vulnerabilità eredo-costituzionale
possa avere un ruolo patogenetico in questi disturbi oltre a esperienze
precoci di abusi (fisici o sessuali), di deprivazione, di apprendimento
(attenzione ottenuta grazie a una malattia, non riconoscimento di disagi
non somatici), di norme socio-culturali che svalutano o stigmatizzano la
sofferenza psichica. Di notevole interesse è il fatto che la prevalenza di
disturbi da sintomi somatici è maggiore nei Paesi non industrializzati e la
presentazione della sofferenza psichica attraverso manifestazioni fisiche è
la norma in molte culture, al punto che, almeno in alcune di esse, la de-
pressione si presenta quasi esclusivamente con sintomi somatici.
Analoghe considerazioni si possono fare per i disturbi di conversio-
ne9, che ormai sono praticamente scomparsi nei Paesi industrializzati,
8 Dal greco μέιων “minore” e πράσσω “faccio”, il termine meiopragia indica una attività

funzionale di un organo o apparato al di sotto di quella normale, tale da renderlo più vulnerabile
agli agenti patogeni.
9 Il disturbo di conversione o disturbo da sintomi neurologici funzionali si caratterizza per la

presenza di sintomi a carico delle funzioni motoria volontaria o sensoriale che imitano condizioni

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Xviii. Gli inganni del corpo 229

anch’essi strettamente legati a fattori socio-culturali.

Un nostro collega, che negli anni ’70 fu chiamato in cattedra in una Università del
meridione, ci parlò di alcune sue osservazioni riguardanti il personale infermieristico
femminile che prestava servizio nel suo reparto: alcuni mesi dopo il suo arrivo, si
rese conto che molte delle infermiere, soprattutto quelle più giovani, presentavano, in
coincidenza con il periodo mestruale, manifestazioni funzionali (lipotimie, disturbi
pseudo-vertiginosi, tremori ecc.) che spesso le costringevano a mettersi in malattia e
che “guarivano” spontaneamente in 3-4 giorni. Il collega ne parlò con loro e le con-
vinse ad assumere in quei giorni blande dosi di ansiolitici: il problema si risolse favo-
revolmente ma, paradossalmente, alcune di queste infermiere si lamentarono con lui
di non essere “più normali” perché non avevano, come prima, i disturbi funzionali.

La correlazione fra disturbi di conversione e sessualità è quasi un para-


digma e, non a caso, la vecchia denominazione, isteria, fa esplicito riferi-
mento all’utero (ὑστέρα). Sarebbe lungo farne la storia, basti dire che già
in un papiro egiziano (papiro di Kahun) si sosteneva che ogni alterazione
psichica o fisica della donna derivasse dallo spostamento dell’utero all’in-
terno del corpo. Ippocrate stesso attribuiva molteplici disturbi delle don-
ne alla posizione dell’utero (che si riteneva potesse raggiungere il cuore
e, nei casi più gravi, la testa) e, indirettamente, all’astinenza sessuale. Ma
bisogna arrivare alla seconda metà del XIX secolo, con Charcot, per un
approccio più scientifico a questo disturbo: alcune delle sue intuizioni (il
peso della sfera affettiva e dei traumi pregressi nello scatenamento degli
attacchi isterici), fornirono a Freud, che aveva conosciuto Charcot alla
Salpêtrière, degli elementi importanti nello sviluppo delle teorie psicoa-
nalitiche. Nonostante Charcot avesse sostenuto che l’isteria non fosse un
disturbo esclusivamente femminile, la correlazione con l’utero, seppure
attenuata, non è mai venuta meno. Nel 1987, l’American Psychiatric Asso-
ciation - APA escluse l’isteria dal novero dei disturbi mentali [3].

Un esempio di isteria che si è trasformata in una manifestazione folkloristica è quello,


ormai famosissimo, del tarantismo, di cui daremo qui una sintetica descrizione.
Il tarantismo è presente soprattutto in Puglia e in provincia di Matera e si manife-
sta soprattutto in donne giovani, nubili, in età da matrimonio (ma anche in giovani

neurologiche o mediche senza alcuna relazione con alterazioni della struttura anatomica o dei mec-
canismi fisiologici e che per questo sono detti anche pseudo-neurologici. L’elenco dei possibili sinto-
mi è lungo e comprende debolezza o paralisi, movimenti abnormi, disturbi della deambulazione o
della postura; sensibilità tattile, visiva o uditiva alterata, ridotta o assente; disfonia/afonia/disartria,
diplopia, disfagia, lipotimie, amnesia ecc. Talora i soggetti presentano anche il fenomeno de “la
belle indifférence”, cioè la mancanza di preoccupazione rispetto all’apparente gravità dei disturbi.
Va da sé che la diagnosi di disturbo di conversione non può essere posta solo perché i sintomi sono
bizzarri ma perché sono chiaramente incompatibili con una malattia neurologica.

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230 La verità sulla menzogna

vedove), nel periodo estivo. La responsabilità del disturbo – la crisi isterica – veniva
attribuita al morso velenoso della “tarantola”, un animale non corrispondente ad alcun
ragno o serpente realmente esistente: secondo la tradizione, alcuni musicanti poteva-
no guarire o attenuare la gravità dei sintomi della “pizzicata” (la persona morsa) con
musiche dal ritmo sfrenato, la pizzica (una sorta di tarantella), una specie di esorci-
smo musicale che poteva durare molte ore10.
Nel leccese si attribuiva a San Paolo, sopravvissuto al morso di un serpente nel-
l’isola di Malta, il ruolo di protettore dei “pizzicati” per cui, il 29 giugno, le tarantate
venivano portate a bere l’acqua della chiesa di San Paolo a Galatina (LE). La chiesa fu
sconsacrata poiché durante la trance isterica le tarantate mimavano rapporti sessuali
o orinavano sugli altari o facevano altre cose “sconvenienti”. È il motivo per cui San
Paolo, da protettore degli avvelenati, divenne il santo della sessualità. Nelle altre zone
in cui esiste, la tradizione del tarantismo ha caratteristiche più pagane.
Negli ultimi decenni le tradizioni musicali legate al tarantismo, e in particolare la
pizzica, inserite in manifestazioni folkloristiche, sono state rivitalizzate e richiamano
un numeroso pubblico anche da oltre i confini tradizionali del tarantismo.

Sempre riferito alla sfera sessuale, il koro è una sindrome “esotica”, caratteristica di
alcune aree dell’Estremo Oriente, che consiste in gravi crisi di angoscia provocate
dalla sensazione/convinzione che il pene stia per ritirarsi e scomparire nell’addome
determinando la morte del soggetto (esiste anche una versione femminile in cui sono
le mammelle e le grandi labbra che verrebbero risucchiate nell’addome). Per impedire
che questo accada, il soggetto trattiene il pene con tutte le sue forze, talora aiutato dai
familiari, o impiegando speciali apparecchi costruiti ad hoc.
La medicina cinese lo considera uno squilibrio fra il principio maschile (Yan) e
quello femminile (Yin), con prevalenza di quest’ultimo, curabile con medicine “ma-
schili”, come la polvere di corno di rinoceronte.

L’immagine del corpo


L’ossessione di diventare sempre più magri
è quella di diventare immagine, dunque trasparenti,
della stessa idealità disincarnata tipica delle star.
La disincarnazione è il prezzo pagato per l’immortalità –
essendo l’estrema magrezza il solo modo
per passare attraverso la morte.
(Jean Baudrillard)

Abbiamo detto, a proposito dei disturbi di somatizzazione, che è pre-

10 La danza sfrenata potrebbe avere anche un substrato fisiologico/medico: produrrebbe ta-

chicardia e sudorazione favorendo l’eliminazione del veleno e alleviando il dolore del morso (grazie
al rilascio di endorfine).

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Xviii. Gli inganni del corpo 231

sumibile “che il SNC invii al corpo, o a specifici organi e apparati, messag-


gi ingannevoli, tali da provocare una reale sofferenza e alterazioni signifi-
cative della vita quotidiana, in assenza di riscontri obbiettivi”.
Alla stessa maniera, è ipotizzabile che, in particolari condizioni, il si-
stema nervoso si costruisca un’immagine del proprio corpo o di parti di
esso non corrispondente a quella che gli altri, oggettivamente, hanno del
soggetto: in altri termini, il loro sistema nervoso li inganna circa il loro
aspetto fisico.
Questo inganno, per la verità, è, nella sua espressione più lieve, estre-
mamente diffuso essendo, almeno la maggior parte di noi, scontenta del
proprio aspetto, ci vorremmo un po’ diversi da come siamo (o, più pre-
cisamente, da come ci vediamo), ma ci accontentiamo di qualche “ri-
tocchino” estetico, un po’ di creme di bellezza, di fondotinta, un taglio o
un colore dei capelli, dei tacchi più o meno alti, un reggiseno imbottito,
una certa foggia o un particolare colore del vestito, un po’ di palestra o
di massaggi e così via, e subito ci sentiamo “più presentabili, più belli”.
Fortunatamente, come diceva Goethe, la bellezza è negli occhi di chi
guarda, e perciò tutti – belli, meno belli e brutti –, possiamo sperare di
trovare qualcuno che la veda in noi nonostante i nostri più o meno mar-
cati difetti! Ma poi, esiste davvero la bellezza? La possiamo definire in
maniera univoca? Ed è un valore assoluto di per sé, o è solo una tessera di
un puzzle molto più complesso? Filippo Tommaso Marinetti [127], poeta
futurista, parlava di “intelligenza del corpo”:
L’intelligenza del corpo non si apprende né si acquista. È una specie di vo-
lontà istinto che tutte le belve hanno. Languore nello sguardo, orchestra-
zione della voce, forza vellutata del passo, modo di adattarsi sedendosi su
una poltrona o sui cuscini di un letto e continua correzione del principale
e più pericoloso difetto fisico. Ogni donna ne ha uno. Sento ribellarsi una
giovane ventenne dai ricci capelli e dai piccoli seni tondi che mi grida «Io
non ho difetti». Avete quello d’essere perfetta, voi dovete, per non nausea-
re rapidamente il maschio, far dimenticare l’ammirazione assolutamente
antierotica e antisessuale che l’equilibrio delle vostre forme suscita.

Alcuni (o molti), non cogliendo la profonda verità dell’elogio di Mari-


netti del difetto fisico, si preoccupano
per uno o più difetti o imperfezioni percepiti nell’aspetto fisico, che non
sono osservabili o appaiono agli altri in modo lieve [5].

e ne sono assillati tanto da ritenersi non attraenti a addirittura mostruosi,


da controllarli ripetutamente allo specchio e da cercare di mascherarli in

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232 La verità sulla menzogna

ogni modo fino a ipotizzare di correggerli con la chirurgia estetica e infine


a sottoporvisi11.
Si tratta di soggetti che presentano un disturbo da dismorfismo corpo-
reo (o dismorfofobia) che sono, in genere, ossessionati da uno o più difet-
ti fisici oggettivamente modesti, trascurabili o irrilevabili da parte degli
altri, ma sono, per loro, oggetto di continue, interminabili ruminazioni
tanto da diventare il loro problema dominante, se non l’unico, a ricorrere
a qualsiasi mezzo per poterlo risolvere. Queste persone sono fra i clienti
più assidui dei chirurghi estetici perché è altamente probabile che la “cor-
rezione” cui si sono sottoposti non sia soddisfacente e richiedano perciò
ulteriori interventi. Ma sono, al tempo stesso, anche i più temuti perché
non è eccezionale che, insoddisfatti dell’operato del chirurgo12, lo citino
per malpractice e richiedano i danni.
Dal nostro punto di vista, è preminente l’inganno del cervello che in-
duce il soggetto a vedere quello che non c’è, a ingigantire ciò che c’è e
a non essere mai soddisfatto dei rimedi (dai più leggeri ai più drastici)
messi in atto.
In passato questo disturbo era appannaggio quasi esclusivo del sesso
femminile ma, negli ultimi anni, è nettamente cresciuta la prevalenza dei
maschi, preoccupati soprattutto di non essere abbastanza muscolosi, non
avere la “tartaruga” – esitando in questi casi in dipendenza dall’attività
fisica (talora con abuso di integratori o ormoni), oppure in stili alimenta-
ri restrittivi o idiosincrasici (ortoressici) – o, non eccezionalmente, della
perdita dei capelli o delle dimensioni del pene.
In questo ambito, una patologia emergente è il disturbo da dismorfi-
smo corporeo per procura, consistente nella preoccupazione circa l’aspetto
dei figli, che vengono sottoposti dal genitore a indagini minuziose per
controllare che non abbiano difetti fisici e nel costringerli ad adottare i ri-
medi ritenuti più opportuni – dai cosmetici all’attività fisica quando non
alla chirurgia estetica.
Per quanto non ci siano dubbi che l’anoressia nervosa abbia la sua giu-
sta collocazione fra i disturbi del comportamento alimentare, tuttavia rite-
niamo che valga la pena fare una riflessione sul ruolo della percezione del
proprio corpo da parte di questi soggetti.
È un dato di fatto che l’anoressica impieghi tutte le sue energie nel per-

11 È la preoccupazione intrusiva, indesiderata, che assilla questi pazienti per buona parte della

giornata e la spinta compulsiva a mettere in atto comportamenti ripetitivi di controllo o finalizzati a


correggere/coprire i (presunti) difetti che ha indotto gli estensori del DSM-5 a spostare nel capitolo
dei disturbi ossessivo-compulsivi questo disturbo in precedenza collocato nei disturbi somatoformi.
12 Non è infrequente, infatti, che, il ripetersi degli interventi, possa portare a risultati estetica-

mente paradossali.

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Xviii. Gli inganni del corpo 233

seguire l’annientamento del proprio corpo, come se fosse il suo peggior


nemico. Visto l’accanimento che mette in questa impresa e i risultati che
ottiene, non è certamente in discussione un obiettivo estetico (anche se,
in alcuni casi, il disturbo inizia con l’intenzione di perseguire gli stereotipi
di bellezza proposti dai media).
L’esordio – nella maggior parte dei casi nell’adolescenza, spesso poco
tempo dopo il menarca –, coincide quindi con i cambiamenti ormonali
tipici di questa fase della vita, paralleli a quelli cui va incontro il corpo
passando dall’indifferenziato aspetto androgino alla graduale assunzione
di caratteristiche sempre più concretamente femminili. Diventare donna
significa, diventare “oggetto di desiderio” da parte degli uomini, mentre
cristallizzarsi o regredire verso un corpo senza caratteristiche specifiche
di femminilità, significa sottrarsi a quegli sguardi e a quei desideri. E tanta
deve essere l’angoscia al solo pensiero di quegli sguardi, di quei desideri (e
della loro ipotetica realizzazione) che non rimane che la seconda opzione:
distruggere il corpo. Le radici di questa tragica visione della sessualità
risalirebbero ad abusi sessuali durante l’infanzia – anche se molto spesso
non sono riferiti ricordi (neppure parziali, confusi) di eventi di questo
genere – oppure a dinamiche familiari in cui è carente la comunicazione
affettiva e tutta l’attenzione è rivolta agli aspetti materiali della vita e, an-
che quando il disturbo è diventato evidente, il rapporto è incentrato sul
cibo e non sulla comunicazione. È anche stato autorevolmente [33,173]
ipotizzato un rapporto disturbato con la madre, la quale non riuscirebbe
a vedere la figlia come “altro da sé”, ma come un suo prolungamento, e
tenderebbe a imporle le proprie sensazioni e i propri bisogni; ne derive-
rebbe un’incapacità di riconoscere e discriminare le percezioni relative
agli stimoli provenienti dal proprio corpo (fame, sazietà, freddo, fatica,
impulsi sessuali, stati emotivi). Non dobbiamo comunque sottovalutare
le componenti storico-culturali del disturbo: è ben noto infatti che l’ano-
ressia, rara nei secoli passati, è diventata un disturbo assai frequente nei
Paesi economicamente avanzati.
L’anoressica, in definitiva, vive in un continuo paradosso in cui ogni
cosa finisce per produrre risultati abnormi, vorrebbe liberarsi della pri-
gione del corpo e finisce per esserne schiava; vorrebbe liberarsi del cibo e
il cibo diventa una tormentosa ossessione che occupa la sua mente giorno
e notte.
Tornando al suo corpo, è evidente che i messaggi imperativi che gli
giungono dal cervello sono talmente stringenti che non c’è spazio per
sottrarvisi, pena una grande angoscia: alimentazione ristretta, se non di-
giuni, incremento dell’attività fisica, vomito autoindotto anche per l’as-
sunzione di poco più che niente, specchi che rimandano immagini di

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234 La verità sulla menzogna

accumuli di grasso anche là dove il corpo è scavato dall’inanizione, bi-


lance consumate da ripetuti controlli del peso per scovarne l’inesistente
milligrammo di aumento (e magari la gioia dell’inaspettata scoperta di
averlo, invece, perso). Per contro, il cervello appare sordo ai ”gridi di
dolore” che il corpo stremato, giunto ormai alla fine delle sue risorse, gli
manda: al più, cercherà di tacitarlo rilasciando un po’ di endorfine (se
ancora gli sono rimasti un po’ di “ingredienti” per produrle) per illuderlo
che “tutto vada bene”.
Per altri versi, l’anoressia potrebbe degnamente collocarsi nel capitolo
dell’autoinganno, con buone probabilità di collocarsi fra i primi posti di
un’ipotetica classifica, visto l’ottimismo con cui la paziente giudica l’in-
gravescente consunzione del proprio corpo e le sue residue potenzialità:
basti pensare che, con una perdita di circa un terzo del peso-forma, l’ano-
ressica afferma generalmente di essere “normale” se non “grassa”!
Non c’è anoressica che non diventi bulimica (purging type) nel corso o
alla fine della “carriera” o che non sia o non sia stata angosciata dall’idea
di poterlo diventare. D’altra parte le radici sono le stesse, anche se nella
bulimia l’immagine del corpo sembra apparentemente in secondo piano.
Solo là dove è consentito scegliere è possibile che si manifestino pato-
logie che hanno come oggetto ciò su cui possiamo esercitare questa liber-
tà. È questo il caso dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa, che con
maggiore frequenza si osservano nei Paesi più progrediti industrialmente
e nei quali vi è un’ampia disponibilità di cibo: dove il cibo è carente si
pone solo il problema di avere qualcosa da mangiare. Fino a un paio di
decenni fa, la psichiatria prendeva in considerazione anoressia e bulimia,
due disturbi incentrati sulla “quantità” di cibo ingerito; nel 1997 Bratman
[30], un dietologo che ne era stato vittima, ne ha descritto un terzo, l’or-
toressia (cioè mangiare corretto), che è incentrato sulla “qualità” del cibo.
L’ortoressia ha le sue radici nell’alimentazione “salutistica”, oggetto
oggi di pressanti campagne pubblicitarie in cui sono amplificate le pro-
prietà positive di certi alimenti e quelle negative di altri, informazioni (o
pseudoinformazioni) che l’ortoressico fa proprie, interpreta ed elabora
in regole alimentari sempre più rigide che possono riguardare i diver-
si fattori, singolarmente o variamente combinati tra loro: dal timore di
malattie trasmesse attraverso i cibi (es., la mucca pazza o l’aviaria) all’uso
degli estrogeni e/o degli antibiotici negli allevamenti, dagli OGM ai con-
servanti o ai coloranti o agli inquinanti, dal botulino ai tipi di cottura e
alle verdure esposte a radiazioni e altro ancora in rapporto ai messaggi
recepiti e alla fantasia del soggetto.
Tratti di personalità ossessivo-perfezionistici, ipocondriaco-patofobi-
ci, ansioso-panici, rappresentano molto spesso il terreno su cui più fa-

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Xviii. Gli inganni del corpo 235

cilmente attecchisce l’ortoressia, che nasce generalmente come una più


o meno ragionevole preoccupazione salutistica e presto diventa sempre
più invasiva, ossessiva, tanto da costituire, se non l’unico, certamente il
principale centro di interesse del soggetto, un vero e proprio fanatismo
alimentare. E come tutti i fanatismi, comporta, oltre a quelle specifiche
sul piano della salute psicofisica, conseguenze pesanti sulla vita sociale.

Un esempio molto suggestivo è quello fornito da Saverio Costanzo nel film del 2014,
Hungry Hearts, che racconta la storia di due giovani che vivono un’appassionata sto-
ria d’amore e di convivenza nel corso della quale la ragazza, Mina, rimane incinta e
si convince che, come le aveva profetizzato una chiromante, il suo sarà un bambino
speciale, “indaco”. Per difenderlo dall’inquinamento esterno, lo alimenta con frutta e
verdura coltivata da lei stessa sul terrazzo ma Jude, il suo compagno, che inizialmente
l’asseconda, ben presto si rende conto che il bambino non cresce, è denutrito, rischia
la vita e incomincia ad alimentarlo di nascosto. Mina, quando lo scopre, fa vomitare al
figlio il cibo datogli dal padre e gli somministra lassativi.
Jude decide di portare il bambino dalla propria madre ma Mina lo accusa (falsa-
mente) di averla picchiata e, accompagnata dalla polizia, riprende il bambino. Pur
supportato da certificazioni mediche, Jude è disperato perché si rende conto che il
cammino per ottenere la custodia del figlio e salvarlo è lungo.
Riceverà dopo qualche giorno una telefonata dalla polizia che lo informa che sua ma-
dre ha ucciso Mina, nella convinzione che fosse l’unico modo per salvare il bambino.

L’ortoressico, nell’intento di alimentarsi esclusivamente di cibo con-


siderato (arbitrariamente) genuino, sano, finisce per escludere dalla pro-
pria dieta un numero crescente di alimenti, fino ad arrivare a restrizioni,
anche quantitative, giungendo a livelli di denutrizione sostanzialmente
sovrapponibili a quelli dell’anoressia nervosa. Ma l’ortoressia comporta
anche una compromissione della vita sociale: già partendo dal presuppo-
sto che il cibo ha anche valenze sociali, per la necessità di mangiare cibi
estremamente selezionati e cucinati in maniera strettamente personale,
l’ortoressico “non può” mangiare con gli altri, andare al ristorante con
i familiari e gli amici, “deve” inevitabilmente mangiare da solo cibi che
prepara lui stesso; nel proprio fanatismo, diviene intollerante nei con-
fronti di coloro che non seguono le sue regole e questo porta inevitabil-
mente all’isolamento sociale.
A ben vedere, tra anoressia e ortoressia esiste, di là dalle specifiche
connotazioni cliniche dei due disturbi, una aspirazione comune, quella
della ricerca di una “purezza” spirituale, che trova il suo specchio in quel-
la fisica, con la ridotta alimentazione, nel primo caso, con la scelta di cibi
sani, nel secondo. Del resto, nei secoli passati era la santità che motivava
il digiuno; il disgusto per il grasso negli anni del benessere (’70-’80), dopo
la seconda guerra mondiale; la ricerca di cibo sano e genuino in questi ul-

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236 La verità sulla menzogna

timi anni in cui il mercato è stato invaso dal cosiddetto “junk food”, il cibo
spazzatura. Comune alle due condizioni è la ruminazione continua sui
temi sopra riportati ma anche sui “sentimenti di colpa” dopo violazioni,
anche involontarie, delle rigide regole alimentari, che portano, di solito, a
un loro ulteriore irrigidimento.
Nell’ortoressia è frequente anche lo sviluppo di una farmacofobia nei
confronti della medicina tradizionale con un crescente orientamento ver-
so medicine alternative (omeopatiche, naturistiche ecc.) la cui efficacia e
innocuità sono tutt’altro che provate.
Un aspetto drammatico di questa condizione (ma anche di altre, come,
ad esempio, il veganismo)13, che non deve essere sottovalutato, è che in
questa visione ossessivo/paranoide della purezza dei cibi vengono coin-
volti, spesso fin dalla nascita, anche i figli che sono così esposti a problemi
di malnutrizione anche gravi per la loro salute se non per la loro vita.
è paradossale, in questi casi, che debba intervenire un giudice a stabilire
con una sentenza quante volte a settimana il bambino debba mangiare
carne, con buona pace dei genitori vegani o vegetariani.
In definitiva, un comportamento che potrebbe essere di base logico,
razionale, tuttalpiù originale ma non dannoso o pericoloso, può trasfor-
marsi in una “religione” fanatica che travolge l’individuo su tutti i versan-
ti, fisico, psicologico e sociale, e può diventare un grave fattore di rischio
per coloro che dipendono dal soggetto che ne è affetto, con l’aggravante
che l’assoluta mancanza di coscienza di malattia (insight) ne rende diffi-
cile la cura.
Se è vera l’impressione che la prevalenza dell’anoressia stia gradata-
mente diminuendo, l’ortoressia ha ottime probabilità di raccoglierne l’e-
redità e di proporsi come l’anoressia del terzo millennio.

13 Il veganismo si caratterizza, rispetto all’ortoressia, perché la distinzione fra cibo buono e

cibo cattivo è predefinita dal concetto filosofico che lo sottende, cioè il rifiuto totale di ogni tipo di
sfruttamento degli animali (e dei loro prodotti, uova, latte ecc.).

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Xix. Menzogna e politica

Il coraggio intellettuale della verità


e la pratica politica
sono due cose inconciliabili in Italia.
(Pier Paolo Pasolini)

Innumerevoli sono le battute sulle menzogne dei politici:


«Come fai a capire quando un uomo politico mente?»
«Quando muove le labbra»
oppure:
«Washington non sapeva dire le bugie1, Nixon non sapeva dire la verità, e
Reagan non conosceva la differenza».
Tricky Dicky (Riccardo l’imbroglione) è il soprannome che fu dato
a Richard Nixon, presidente degli USA dal 1969 al 1974. Costretto a di-
mettersi a seguito dello scandalo del Watergate, ha sempre negato di aver
mentito ma ha ammesso di avere dissimulato, pratica ritenuta necessaria
a chi occupa cariche pubbliche:
«Non puoi dire quello che pensi di questo o quell’individuo perché può ac-
cadere che ti debba servire di lui... non puoi dichiarare le tue opinioni sui
leader mondiali perché può capitarti di dover trattare con loro in futuro»2.
E in un’altra occasione aveva affermato:
«Non ho mentito. Ho detto delle cose che, in seguito, si sono rivelate non vere».
Questo avveniva nel Paese in cui Thomas Jefferson aveva affermato:
«L’intera arte del governo consiste nell’arte di essere onesti».

1 Ai bambini americani si racconta la storiella del piccolo George Washington che, a sei anni,
pur in previsione di una punizione, ammette virilmente al padre, di essere stato lui ad abbattere con
un’accetta l’albero di ciliegio e che il padre lo loda dicendo: «George, dopo tutto sono contento che tu
abbia abbattuto l’albero, perché sentirti dire la verità anziché una menzogna è meglio di mille ciliegi».
2 Intervista al San Francisco Chronicle, 28 ottobre 1982.

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238 La verità sulla menzogna

I Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America (Jefferson, che ne diven-


terà il terzo Presidente, era fra questi), nati dalla lotta contro la tirannia
inglese, rifiutavano i princìpi del Machiavelli e avevano il mito della città
su una collina3 sostenuto dal puritano John Winthrop.
La storiella edificante di George Washington incapace di mentire a suo
padre è un luogo comune del folklore americano che aveva lo scopo di
dimostrare che i politici che stavano dando vita agli Stati Uniti d’America
avevano uno standard di sincerità superiore a quello degli europei4. L’e-
redità dell’intransigenza puritana e l’ideale della trasparenza interperso-
nale, che caratterizzarono la cultura politica di questo Paese, raggiunsero
il loro coronamento con la sconfitta degli Stati del Sud, più inclini alle
buone maniere e all’ipocrisia, che alla sincerità. Abramo Lincoln, Honest
Abe, dopo la sua tragica morte, fu associato a George Washington in que-
sto Olimpo ideale.
Il feticcio della sincerità, la cosiddetta “politica con le porte di vetro”,
fu messo in crisi nel secondo dopoguerra dalla crescente diffusione di
linee di pensiero europee che mettevano in dubbio la possibilità per il lin-
guaggio politico di rappresentare un veicolo di trasmissione della verità
e della sincerità. Mentre la maggioranza continuava a biasimare la men-
zogna politica, questa incominciava, invece, a manifestarsi sempre più
spesso [106], basti pensare a episodi che hanno avuto risonanza mondiale
come l’invasione della Baia dei Porci, lo scandalo del Watergate, quello
Iran-Contras, l’affaire Monica Lewinsky, le armi di distruzione di massa
dell’Iraq e molto altro.
Particolarmente graffiante è quanto Oscar Wilde scriveva, nel 1891, in
The Decay of Lying. A uno dei protagonisti, che dice:
«La menzogna! Credevo che i nostri uomini politici ne avessero tenuto vivo
l’uso»
risponde:
«Macché, te lo assicuro: quelli non si sollevano mai sopra il livello della
distorsione deliberata, e consentono addirittura a dimostrare, a discutere,
ad argomentare. Quale differenza dalla tempra del vero bugiardo, con le

3 Voi siete la luce del mondo; una città posta sopra un monte non può essere nascosta (Matteo
5:14) è una frase del Discorso della Montagna.
4 La nascita degli Stati Uniti d’America è stata opera dei discendenti dei Padri Pellegrini,
protestanti puritani, seguaci di un movimento sorto dal calvinismo inglese, che si proponevano di
riportare la fede alla lettera delle Sacre Scritture, ripulendola dai compromessi del cattolicesimo.
In particolare erano decisamente contrari al concetto cattolico della “riserva mentale” tant’è che
la formula del giuramento dei funzionari pubblici e di coloro cui viene concessa la cittadinanza si
conclude sempre con: “senza alcuna riserva mentale”.

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Xix. Menzogna e politica 239

sue osservazioni franche, impavide, con il suo sano disprezzo naturale per
qualsiasi tipo di prova! Dopotutto, che cosa è una bella menzogna? Sempli-
cemente quello che è dimostrazione di se stesso. Se un uomo è tanto privo di
fantasia da produrre prove a sostegno della menzogna, tanto vale che dica
subito la verità. No! Gli uomini politici non contano».
La politica è certamente un luogo privilegiato per la menzogna [72]
ma sarebbe riduttivo assimilare i due termini senza tener conto che, la
menzogna, per poter funzionare, ha bisogno della veridicità come norma
a cui fare riferimento. A variare è il rapporto fra veridicità e menzogna e
probabilmente, nel discorso politico, il rapporto tende a essere a favore
della menzogna strumentale. Non sono mancati tentativi di bandire la
menzogna dalla politica (la dottrina gandhiana ne è un illustre esempio)
ma in generale la politica è stata considerata una riserva naturale per la
sua protezione.
Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi stru-
menti, non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quel-
lo dello statista. Perché è così? E che cosa significa ciò, da un lato, per la
natura e la dignità dell’ambito politico e, dall’altro lato, per la natura e la
dignità della verità e della sincerità?
Con queste parole Hannah Arendt [7] inizia un suo famoso articolo,
Verità e Politica, in cui sottolinea il ruolo dei media nel fare da cassa di
risonanza agli inganni e agli autoinganni dei politici che, in questa epoca,
avrebbero raggiunto le loro vette più alte e la menzogna sarebbe diventata
completa e definitiva: il trionfo della menzogna! E pensare che, già meno
di un secolo prima, Oscar Wilde aveva attribuito questa presunta deca-
denza ai politici, agli avvocati e ai giornali! [196]
Ma già nel 1943 (nel pieno della seconda guerra mondiale!) Koyré
[115] scriveva:
Non si è mai mentito tanto come ai nostri giorni. Né mentito in maniera
così spudorata, sistematica e costante [...] È incontestabile il fatto che l’uo-
mo abbia sempre mentito. Mentito a se stesso. E agli altri.
Koyré si riferiva ai regimi totalitari di allora, ma le cose non sono di-
verse oggi: il “cittadino” respira la menzogna, è totalmente sottomesso a
essa: saremmo veramente ingenui se pensassimo che oggi non accada lo
stesso magari grazie ai raffinati strumenti mediatici di cui disponiamo.
Tornando a quegli anni e a quei regimi, non possiamo non fare men-
zione del fatto che, nel 1920, uno dei punti programmatici del nascente
Partito Nazionalsocialista tedesco recitava:

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240 La verità sulla menzogna

Chiediamo un’azione penale contro coloro che diffondono deliberatamente


menzogne politiche e le fanno circolare attraverso la stampa.
Cinque anni dopo il fondatore del partito, Adolf Hitler [102], pubbli-
cherà il Mein Kampf, un’autobiografia in cui esponeva il proprio pensiero
politico. Tra i vari temi c’è una teorizzazione esplicita della menzogna e in
particolare di quella che Hitler definiva la menzogna colossale

Joseph Goebbels, uno dei più importanti gerarchi del regime, spiegava così la grande
menzogna: «Se proclami una bugia colossale e continui a ripeterla, arriverà il momento
in cui le persone crederanno a questa bugia. Comunque essa può sopravvivere solo se lo
Stato riesce a isolare le persone dalle conseguenze politiche, economiche e militari della
menzogna. Diventa quindi di importanza vitale che lo Stato usi tutto il suo potere per
reprimere il dissenso, perché la verità è il nemico mortale della menzogna e quindi, in
linea generale, la verità è la più grande nemica dello Stato».

e, data la diffusione del libro in Germania (circa un milione di copie ven-


dute fino all’ascesa al potere e, successivamente, ne veniva regalata una
copia ai soldati e a ogni nuova coppia di sposi), non si può certo dire che
non fosse conosciuto dal popolo tedesco: prospettava una “favola bella”,
prometteva il riscatto dopo l’umiliante sconfitta nella guerra del ’15-’18,
la rinascita economica, il ritorno al ruolo di potenza mondiale5. Che in
fondo, mutatis mutandis, è ciò che anche oggi gli elettori chiedono ai po-
litici a caccia di consensi e di voti: fateci sognare e noi vi voteremo!
L’uso della menzogna in politica non è stato certo inventato dai na-
zisti, era già presente nella Politeia di Platone [151] nei termini di nobile
menzogna (γενναῖον ψεῦδος). Senofonte, appartenente come Platone al
partito aristocratico, difende la doppiezza del tiranno che governa per il
bene di tutti e Machiavelli [123] riprenderà questa convinzione nel Prin-
cipe (1532) sostendo l’autonomia della sfera politica:
Quelli prìncipi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto,
e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini; e alla fine
hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
E ribadisce che il principe deve essere un grande simulatore e dissimu-

5 A onor del vero, Mein Kampf, al di là della teorizzazione della menzogna, era una lucida e
chiara esposizione del progetto politico di Hitler e una dettagliata illustrazione dell’organizzazione
del movimento, della politica estera, dell’espansione verso l’Est ecc.: tutto questo era sotto gli occhi
dei tedeschi ma anche dei governi degli altri Paesi, che pure non fecero nulla per contrastare Hitler.
Paradossalmente, la grande tragedia europea del secolo scorso è nata e cresciuta sulla verità! Proba-
bilmente Hitler pensava che le sue dichiarazioni non sarebbero state prese sul serio e così, dicendo
la verità, ha depistato i suoi avversari.

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Xix. Menzogna e politica 241

latore, la simulazione è particolarmente importante per la sua immagine


pubblica, dovrà simulare fede, pietà, umanità, integrità, religione, perché
il popolo vede solo le apparenze del principe e pochi sono quelli che ne
conoscono il vero modo di essere e di agire e questi pochi non osano op-
porsi per timore della sua ira e della sua vendetta.
Operando in un ambiente ostile, il principe deve assomigliare sia al
leone, per sbigottire i lupi, sia alla volpe per conoscere e’ lacci, e non deve
mantenere la parola data quando
l’osservanza li torni contro [e siano cambiate le condizioni] che la feciono
promettere: «Se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe
buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non
l’hai ad osservare a loro».
Afferma, infine, che il Principe deve imparare a mentire: se mentisse
regolarmente (e tutti lo sapessero) la menzogna non sarebbe più tale, ma
egli può anche non mentire e di conseguenza potrebbe mentire impune-
mente. E di se stesso dice:
Da un tempo in qua, io non dico mai quel che io credo, né credo mai quel
che io dico, et se pure e’ mi vien detto qualche volta il vero, io lo nascondo
tra le tante bugie che è difficile a ritrovarlo.
Potremmo chiederci se la menzogna abbia lo stesso peso nei diversi
tipi di regime. Abbiamo detto che la grande menzogna denunciata da Hit-
ler, divenne ben presto la cifra del nazismo, ma certamente lo è, in gene-
rale, di tutti i regimi totalitari. Koyré [115], storico della scienza e filosofo
russo esule in America, sostiene che
l’uomo moderno – del ‘genus’ totalitario – nuota nella menzogna, respira
la menzogna, è prigioniero della menzogna in ogni istante della sua vita...
I regimi totalitari sono fondati sul primato della menzogna.
Orwell [141], in 1984, ha reso popolare il concetto che il totalitarismo
falsificasse tanto il passato, quanto il presente, distruggendo la memoria
collettiva, a partire dalla lingua, sostituendola con un’altra completamen-
te artefatta.

Vale la pena fare una breve digressione su questo romanzo, una delle più cupe di-
stopìe6 del secolo scorso, che ci proietta in un desolato e desolante Medioevo post-nu-
cleare, in una Terra dominata da tre grandi potenze totalitarie, – Oceania (Americhe,

6 Distopia significa utopia negativa o antiutopia, cioè rappresentazione di un futuro caratte-


rizzato da sviluppi, assetti politici, sociali e/o tecnologici altamente negativi.

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242 La verità sulla menzogna

Gran Bretagna, Australasia e parte meridionale dell’Africa), Eurasia (parte settentrio-


nale dell’Europa e dell’Asia, dal Portogallo allo Stretto di Bering) ed Estasia (Cina,
Giappone, Manciuria, Mongolia e Tibet) – sempre in guerra tra loro.
L’azione del romanzo si svolge in Oceania, che è governata da un Partito Unico, il
Socing (Socialismo inglese)7 il cui Capo assoluto è il Grande Fratello (che nessuno ha
mai visto di persona ma la cui immagine campeggia sui manifesti affissi ovunque con
scritto sotto Il GRANDE FRATELLO VI GUARDA), che controlla i cittadini attra-
verso un sistema di spionaggio capillare e li condiziona gestendo a proprio piacimento
i mezzi d’informazione. Ai cittadini non è consentita alcuna forma di vita privata, e
ogni minima espressione di ribellione è repressa dalla temuta Psicopolizia che arresta
chi si sia macchiato di qualsiasi reato – vero o presunto – contro il Partito e, senza
processo, è fatto sparire e ne viene cancellata ogni memoria.
Il governo è gestito da quattro ministeri: quello della Verità che si occupa della stampa,
dei divertimenti, delle scuole e delle arti ma soprattutto della mistificazione dell’infor-
mazione8; quello della Pace che si occupa della guerra; quello dell’Amore che mantiene
l’ordine e fa rispettare la legge e, soprattutto, si occupa dello spionaggio, delle tortu-
re, della sparizione dei cittadini anche minimamente insofferenti verso il potere del
Grande Fratello; e quello dell’Abbondanza che è responsabile dei problemi economici
mantenendo in una condizione di povertà i cittadini per fiaccarne la forza e la volon-
tà. I cittadini sono suddivisi in membri interni e membri esterni del Partito, e prolet
che come gli animali sono liberi, non sono considerati nemmeno esseri umani, vivono
stipati in grandi periferie, in luoghi malsani e squallidi, senza luce né acqua corrente.
Nessuno può sfuggire al controllo del Grande Fratello: grandi schermi trasmettono
ininterrottamente canzonette patriottiche e messaggi propagandistici che divulgano
cifre inventate su sviluppi economici inesistenti e false notizie di vittorie al fronte, ma
attraverso quegli stessi teleschermi, sono controllati ogni movimento, ogni parola e
persino le minime espressioni del viso dei cittadini. Il Grande Fratello ha un nemi-
co, Goldstein, il rinnegato, l’apostata, Il Nemico del Popolo, il supremo traditore che,
secondo la leggenda, era un dirigente del Partito che aveva organizzato attività con-
trorivoluzionarie e che, condannato a morte, era misteriosamente evaso e scomparso.
Contro Goldstein si tengono i Minuti d’Odio o le Settimane d’Odio, che in realtà sono
momenti di scarico dell’aggressività repressa, dello scontento, favoriti per creare una
coesione forte ma inoffensiva e per dare, al tempo stesso, un monito a possibili aspi-
ranti rivoluzionari. 
L’obiettivo del Grande Fratello è di abituare i cittadini a obbedire senza pensare: tut-
to, anche il poco tempo libero, è gestito dal Partito, ogni forma di individualismo è
osteggiata e, per disabituare a pensare, è stata creata la Neolingua in cui il vocabolario
è ridotto al minimo, sono stati eliminati tutti i termini riferiti alla rivolta, al libero
pensiero, al pensiero astratto, speculativo, costringendo i cittadini a utilizzare un lin-
guaggio-base, con pochi termini e senza sfumature, in modo da mantenere il pensiero

7 La situazione è uguale anche nelle altre due potenze, cambiano solo i nomi, Neobolscevismo
in Eurasia e Culto della Morte in Estasia.
8 Winston Smith, il protagonista del romanzo, lavora proprio in questo ministero aggior-
nando (e manipolando) costantemente le notizie dei giornali e dei libri, in modo tale da rendere
infallibile la strategia del partito.

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Xix. Menzogna e politica 243

a uno stadio infantile. Il mancato sviluppo del linguaggio, e quindi del pensiero, rende
le persone facilmente manipolabili e vittime inconsapevoli del bipensiero9, cioè della
logica della contraddizione che è alla base del dominio del Socing: ogni cosa può essere
e non essere; gli stessi slogan del partito affermano: la guerra è pace, la libertà è schiavi-
tù, l’ignoranza è forza. Tutto nell’ottica dell’Ortodossia perché Ortodossia significa non
pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza.
Lasciamo che, chi è interessato, si goda il piacere di leggere il romanzo e conoscere
la storia del protagonista, Winston Smith. Ciò che a noi interessa in questa sede è
enfatizzare, attraverso un paradosso, a quale livello può giungere la menzogna, la fal-
sificazione, in politica.

L’abrogazione del principio di verità è una caratteristica specifica degli


stati totalitari, in cui, come testimonia Kodakowski [113], sopravvissuto
al totalitarismo,
la menzogna diventa realmente verità, o quanto meno la distinzione tra
vero e falso nel loro significato corrente scompare. Sta in questo il grande
trionfo cognitivo del totalitarismo: non può più essere accusato di mentire
in quanto è riuscito ad abrogare l’idea stessa di verità.
Il totalitarismo, in definitiva, sopprimerebbe la politica com’è corret-
tamente intesa, invadendo tutti gli aspetti dell’esistenza umana, cancel-
lando ogni dialettica.
Più complicato è il discorso per i cosiddetti stati democratici, essendo
molto diverso il concetto di democrazia nei diversi Paesi e il grado di de-
mocrazia valutato rispetto a un modello ideale, utopistico, generalmente
identificato con quello realizzato da Pericle ad Atene, modello pratica-
mente irripetibile in contesti non circoscritti e che, comunque, non una-
nimemente è stato considerato una vera democrazia.

Nel 431 a.C., Pericle realizzò pienamente la democrazia in Atene e le diede un fonda-
mento teorico. Idea centrale di Pericle fu che l’assemblea di tutti i cittadini ateniesi,
l’Ecclesia, avesse il diritto di decidere il destino di Atene senza altri limiti se non quelli
imposti da se stessa. Egli riteneva la democrazia la forma più evoluta di governo, per

9 Il termine della neolingua orwelliana, bipensiero sta a indicare il meccanismo psicologico


che consente di poter sostenere un’idea e il suo opposto in modo da non uscire mai dall’ortodossia:
il bipensiero implica la capacità di cogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra
loro contrastanti, accettandole entrambe. È un meccanismo che deve essere conscio altrimenti non
potrebbe essere applicato con sufficiente precisione ma al tempo stesso deve essere inconscio perché,
in caso contrario, produrrebbe una sensazione di falso e quindi un senso di colpa. Raccontare delibe-
ratamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo
sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita
dall’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso pren-
dere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile.

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244 La verità sulla menzogna

cui Atene, madre della democrazia, poteva e doveva considerarsi Scuola della Grecia.
Sul piano culturale Pericle incentrò la celebrazione della democrazia intorno al
concetto di kleos (κλέος), cioè la fama che si riverbera nel tempo, dando luogo a una
memoria. Mentre in precedenza il kleos era raggiungibile solo dagli aristocratici, o da
chi avesse i mezzi necessari per far celebrare le proprie gesta attraverso canti, monu-
menti e opere in suo ricordo, la democrazia offrì al cittadino comune, la possibilità di
consegnare il suo nome alla storia attraverso la partecipazione attiva all’assemblea.
Pericle riteneva che gli ateniesi, avendo sviluppato l’economia di mercato, si fossero
svincolati dalle rigide norme precostituite dalla tradizione, rendendosi individui liberi
e in grado di far funzionare la libera assemblea democratica gestendo così il governo
della città in ogni suo aspetto. Le funzioni dei vari apparati governativi, amministrati-
vi, giudiziari e militari erano prerogativa diretta dell’Ecclesia, che sceglieva i cittadini
destinati alle diverse mansioni, riservandosi il diritto di controllo permanente sulle
loro attività e di revoca dalle loro cariche in qualsiasi momento.
La funzione giurisdizionale aveva un’enorme importanza nella democrazia atenie-
se, perché non si limitava a risolvere le controversie tra i cittadini, ma stabiliva anche
se essi avessero adempiuto alle loro mansioni pubbliche e ai loro doveri religiosi, oltre
che deliberare sulla conformità delle decisioni popolari rispetto alla costituzione di
Atene.
La democrazia ateniese fu soppressa dai Macedoni nel 322 a.C.

Gli Stati sono entità complesse che devono contemperare le esigenze


dei rapporti con gli altri Stati e quelle dei propri cittadini, tener conto
della linea politica di fondo e degli eventi contingenti, e questo si presta
meglio a un approccio pragmatico che a un assolutismo deontologico. Le
menzogne dette nel contesto politico hanno spesso effetti reali, e talora
vogliono averli, indipendentemente dalle intenzioni che le producono e
fermo restando che, a volte, la verità può essere detta anche per ingan-
nare. È comunque evidente che il politico goda, in maniera più o meno
esplicita, di uno spazio a sé. Esiste una significativa distinzione tra la sfera
della politica e le altre sfere dell’operato umano e che, ci piaccia o meno,
è accettata dalla maggior parte delle società occidentali.
Del resto, in politica, la ricerca della perfetta verità, oltre che vana,
potrebbe essere pericolosa al pari della speculare grande menzogna: sono
entrambe capaci di mettere a tacere chi non le accetta, nemiche del plura-
lismo di opinioni, del dibattito, del confronto fra valori e interessi diversi,
dello scambio tra uomini. Nessuno ha o può arrogarsi il monopolio della
verità che può essere raggiunta o avvicinata nel confronto fra molteplici
menzogne o verità relative. Non dobbiamo dimenticare che Robespierre,
l’incorruttibile, nella sua guerra fanatica all’ipocrisia, trasformò la rivolu-
zione nel regno del Terrore. In definitiva, dobbiamo riconoscere che la
politica, comunque si voglia definirne l’essenza e delimitarne i confini,
non potrà mai essere una zona totalmente libera dalla menzogna, una sfe-

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Xix. Menzogna e politica 245

ra di autenticità, sincerità, integrità, trasparenza e giustizia. E forse questo


non è il male assoluto [106]. Tanto più negli ultimi trent’anni quando i
politici, non solo in Italia, sia tra i riformisti che tra i conservatori, ab-
bandonando il concetto di “bene comune”, hanno mirato soprattutto ai
propri destini personali di potere e di successo. E si è completamente ab-
bandonata la questione morale che fu oggetto di accesi dibattiti, negli anni
’70, sull’opportunità che il politico avesse pari rigore pubblico e privato
(La Malfa, Berlinguer ecc.).
Per concludere, ci sembra utile anticipare un concetto relativo al rap-
porto tra informazione e politica. L’informazione, nei Paesi democrati-
ci10, ha avuto, fino a 20-25 anni fa, un ruolo importante nella dialettica
con il potere, contribuendo a mantenere aperto il rapporto tra i gover-
nanti e il potere reale, fungendo da critica, quando non censura, dei com-
portamenti politici. Non si può dire che sia sempre andato tutto bene, che
non ci siano state misinterpretazioni della realtà interna e/o esterna, ma
le probabilità che questo sia accaduto sono nettamente inferiori rispetto
ai regimi dittatoriali.
A un certo punto, probabilmente in concomitanza con il crescente
accesso all’informazione (non più solo i giornali ma anche la radio e la
televisione prima, la rete successivamente), si è ritenuto che non fosse più
sufficiente quella sorta di gentleman agreement (tacito) fra stampa e mon-
do politico che prevedeva la pubblicazione di quanto attinente al ruolo
politico dei nostri rappresentanti, rispettando la loro vita privata, fosse
o meno coerente con l’immagine pubblica. Dal primo piano si è gradual-
mente passati al grandangolo, al teleobiettivo informativo fino a entrare
nella camera da letto o nell’alcova mettendo in luce di tutto e di più, me-
scolando le capacità politiche con le virtù (poche) e i vizi (tanti e non solo
sessuali), in un tritacarne impietoso in cui le capacità politiche del sin-
golo – in un’ottica neopuritana o post-protestante, peraltro, in contrasto
con l’attuale libertà di tutti in un’etica morale e sociale fluida –, vengono
offuscate da comportamenti privati non solo condannabili ma, a volte,
solo discutibili. In parte hanno contribuito certi scandali politici, politico-
sessuali (vedi il Watergate, Monica Lewinsky, le “cene galanti” di Arcore,
per fare degli esempi) o economici (soprattutto in Italia dove si perdona
la tangente e non il sesso); di fatto si è sviluppata una cultura dell’“onestà
assoluta”: non basta più sapere che cosa facciano e come nell’esercizio
delle loro funzioni, ma bisogna anche metterli a nudo per verificare se la

10 Nei regimi dittatoriali l’unica informazione possibile è quella di regime che non può che

fornire informazioni positive privando (o, piuttosto, privandosi) i dittatori dell’importante perce-
zione del Paese reale.

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246 La verità sulla menzogna

faccia pubblica e quella privata siano tra loro coerenti.


Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la classe politica non è migliorata
e la vita politica è semidistrutta, siamo sempre più scontenti dei politici
giudicati, oltre che incapaci, anche disonesti e mentitori. Come vedremo
più avanti, proprio nel recente 2016, abbiamo assistito a campagne elet-
torali giocate sulle fake news, sulla post-truth, sull’offesa ai limiti (e oltre
i limiti) della calunnia, urlate più che dibattute, quali mai si erano viste
nella storia.
In conclusione, la menzogna e l’inganno, come abbiamo detto, sono
parte integrante della natura umana e pretendere che la classe politica ne
sia esente è quanto meno un errore come pure pensare e sostenere che
tutti i politici siano disonesti: sarebbe una ben strana e incredibile coin-
cidenza che venissero eletti a governarci solo bugiardi e disonesti. Anche
il corpo elettorale è profondamente confuso e disorientato dai continui
fallimenti e delusioni della politica. Nei sondaggi preelettorali la maggio-
ranza dei cittadini esprime idee sagge e corrette su cosa si aspetterebbe dai
politici; ammette, ad esempio, che è giusto pagare le tasse per migliorare
i servizi pubblici ma poi, spesso il candidato più votato è quello che pro-
mette di ridurre le tasse: le presidenziali americane le ha vinte Trump che
prometteva, nel suo programma, di abbassare le tasse... ma ai ricchi (ed ha
vinto con i voti dei poveri)! Non accettiamo che ci dicano verità scomode
e al tempo stesso vogliamo candidati sinceri; vorremmo che operasse-
ro seri cambiamenti senza toccare i nostri interessi; siamo incoerenti ma
vorremmo che i politici fossero coerenti.
D’altra parte, nessuno può scegliere la carriera politica se non ha l’au-
toconvinzione di essere il più bravo, di avere la possibilità di vincere, di
“pensare da campione”, come dicono degli atleti i loro allenatori.

L’eminenza grigia

Ogni volta che si parla di eminenza grigia, automaticamente il pensie-


ro corre a figure, talora identificabili con nome e cognome o, più spes-
so, generiche, accomunate, nel nostro immaginario, dal fatto di gestire il
potere (politico, economico, mediatico o quant’altro) in modo occulto:
personalità molto influenti che, senza apparire e senza titoli o incarichi
ufficiali, agiscono attraverso (o addirittura manovrando) coloro che de-
tengono ufficialmente il potere, al di fuori di ogni controllo.

Storicamente, la definizione di eminenza grigia non fa riferimento all’agire in modo


occulto ma a un personaggio storico del XVII secolo, il padre provinciale dei Cappuc-

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cini di Tourraine, Père Joseph, al secolo François-Joseph Leclerc du Tremblay, che


fu l’ascoltatissimo consigliere del potente cardinale Richelieu (l’éminence rouge, dal
colore cardinalizio), primo ministro del re di Francia, Luigi XIII.
Pére Joseph (l’éminence grise, dal colore del suo saio) era un uomo apparentemen-
te schivo ma, in realtà, molto ambizioso e fine politico, che, di fatto, mantenendosi
nell’ombra, governava la Francia suggerendo al cardinale le mosse politiche da intra-
prendere. Uomo senza dubbio eclettico, dopo la carriera militare, entra in convento
in cerca della santità nella meditazione e nella contemplazione mistica, diventa pa-
dre provinciale dell’Ordine e viene scelto da Richelieu come consigliere, diventando
il deus ex machina dei giochi politici, diplomatici e militari della Francia durante la
guerra dei trent’anni.

Nei secoli, questo appellativo ha acquisito altre sfumature (oltre al


saio, il fatto di agire nell’ombra, di essere, in genere figure poco vistose
– grigie, appunto) ed è rimasto a indicare, queste persone, di cui general-
mente sappiamo molto poco, che sono sempre defilate, ma che gestiscono
un potere enorme.
Le eminenze grigie sono sempre esistite perché coloro che detengono
il potere, il più delle volte non hanno la capacità di gestirlo (o non hanno
la capacità di gestirlo in toto). È un dato di fatto che, molte volte, il potere
finisce in mano a chi non è in grado di farne buon uso: possiamo citare,
a titolo di esempio, i rampolli di dinastie economico/industriali o di case
regnanti, che per varie ragioni, sono incapaci di raccogliere l’eredità ri-
cevuta e, senza eminenze grigie a guidarli e a decidere, rischierebbero di
fare dei danni incalcolabili; o anche le democrazie, quando i veti incro-
ciati dei diversi partiti o delle varie fazioni “bruciano” i candidati migliori
e raggiungono un compromesso su figure di secondo piano, con scarsa
attitudine al comando, nella prospettiva di farne “l’uomo di paglia” da
manovrare a piacimento affiancandogli, magari, un’eminenza grigia.
Potremmo portare altri esempi ma, quello che a noi interessa, è evi-
denziare che, in pratica, non esistono posizioni di potere dietro le quali,
generalmente, tenendo un basso profilo, non operino eminenze grigie.
Ma solo poche di esse hanno raggiunto gli “onori” della cronaca o della
storia anche se, in realtà, spesso sono loro che (nel bene e nel male) l’han-
no fatta e non il personaggio di cui erano l’ombra: per la storia – almeno
quella ufficiale – non sono mai esistiti.
Ma chi sono questi personaggi? E come raggiungono il loro ruolo?
Nella scarsità dei dati disponibili, essendo piuttosto limitata la “casistica”
delle eminenze grigie che hanno raggiunto la notorietà, potremmo dire
che spesso è stato l’insieme di fortunate circostanze che le ha portate a es-
sere al posto giusto nel momento giusto per esplicare le proprie capacità
vocazionali. Questo sembrerebbe essere il caso di Père Joseph, il prototipo

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248 La verità sulla menzogna

delle eminenze grigie, che non sembra abbia in qualche modo brigato
per diventare il consigliere del cardinale Richelieu ma diventandolo in
maniera eccelsa una volta chiamato a farlo.
Ben altra storia è quella di Licio Gelli, eminenza grigia sui generis, nel
senso che la sua vita è stata tutta una trama complessa, finalizzata alla
conquista del potere attraverso, sembra, un colpo di stato.

Licio Gelli partecipa, a 18 anni, come volontario delle Camicie Nere, alla guerra civile
spagnola; nel ’42, in qualità di ispettore del Partito Nazionale Fascista, viene incarica-
to di trasportare in Italia il tesoro del re Pietro II di Jugoslavia: al momento della sua
restituzione, nel ’47, mancano 20 tonnellate di lingotti d’oro in parte, sembra, spediti
in Argentina e in parte nascosti nelle fioriere di villa Wanda, la sua residenza. Nel ’43
aderisce alla Repubblica di Salò ma quando si rende conto che il nazi-fascismo sta per
perdere la guerra, passa nelle file dei partigiani.
Nel ’56 è direttore generale della Permaflex a Frosinone e il suo ufficio è frequen-
tatissimo da politici, vescovi, ministri, generali. Nel ’63 è iniziato alla massoneria e in
breve tempo diventa maestro venerabile di una loggia “coperta”, la P2 (Propaganda
2), che vede crescere rapidamente il numero dei suoi affiliati e, quasi tutti, in posizioni
chiave nella politica, nelle forze armate, nell’amministrazione dello stato, nel giornali-
smo, insomma tutto il Gotha dell’affarismo politico11.
Gelli è stato implicato in vari scandali, dal presunto colpo di stato Borghese al fal-
limento del Banco Ambrosiano. È stato condannato per procacciamento di notizie
contenenti segreti di Stato; per calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colom-
bo, Turone e Viola; per calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato
di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna (10 anni) e per bancarotta
fraudolenta (Banco Ambrosiano) (12 anni).
È morto nel 2015 a 96 anni nella sua villa Wanda di cui era stato nominato curatore
giudiziario dopo che tutte le aste tenute per venderla erano andate deserte.

Se l’ambizione di questi soggetti è quella di comandare, di gestire il po-


tere, possiamo chiederci perché la maggior parte di loro è rimasta nell’a-
nonimato. Evidentemente ciascuna ha la propria storia e, soprattutto,

11 Negli elenchi degli affiliati (che si ritengono incompleti perché un certo numero di adepti

sarebbe stato noto solo a lui: “all’orecchio” come si dice in gergo massonico) figurano i nomi di
Silvio Berlusconi, Vittorio Emanuele di Savoia, Fabrizio Cicchitto (deputato), Maurizio Costanzo,
Gino Birindelli (ammiraglio), Luigi Bisignani (faccendiere), Roberto Calvi (banchiere), Ferruccio
De Lorenzo (deputato), Franco Di Bella (direttore Corriere della Sera), Roberto Gervaso (scrittore),
Gian Adelio Maletti (capo controspionaggio), Luigi Mariotti (deputato), Vito Miceli (capo Servizio
Informazioni Difesa), Duilio Poggiolini (direttore servizio farmaceutico nazionale), Gustavo Selva
(giornalista), Michele Sindona (banchiere), Gaetano Stammati (Ragioniere Generale dello Stato,
più volte ministro) e molti altri: 209 fra militari e forze dell’ordine, 67 uomini politici, 52 dirigenti
ministeriali, 49 dirigenti di banca, 47 industriali, 38 medici, 36 docenti universitari e così via, per
un totale di 842 soggetti. Fra gli iscritti figuravano anche Claudio Villa, Gino Latilla e Alighiero
Noschese!

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Xix. Menzogna e politica 249

il proprio stigma psicologico o psicopatologico, ma ci sembra ragione-


vole supporre che un substrato comune possa esserci e, a nostro avviso,
potrebbe essere il substrato neuroatipico, conseguente a un’alterazione
del neurosviluppo che impedisce il formarsi, in età evolutiva, del senso
morale: sono amorali che imparano la moralità nei suoi aspetti esteriori,
sono cioè moralisti. Si tratta in genere di forme attenuate, spurie, sulle
quali si innestano tratti di personalità specifici che caratterizzeranno i
diversi soggetti.
L’understatement tipico di molti di questi soggetti rimanda a trat-
ti socialfobici responsabili di uno stile evitante che trova nel ruolo di
eminenza grigia la possibilità di esprimere l’autostima ipertrofica, i fre-
quenti tratti narcisistici e le possibili coloriture paranoidee. Nonostante
il loro polimorfismo, tra gli elementi a comune emergono, in primis i
disturbi empatici e del senso morale. Infine colpisce la valutazione ra-
zionale delle situazioni che sono chiamati a risolvere, totalmente o quasi
deprivata di ogni valenza emotiva, come molti di essi hanno ampiamen-
te dimostrato.

È il caso, ad esempio, di un apparentemente anonimo funzionario dell’impero austro-


ungarico che, a un certo punto di una carriera decorosa, nel 1912 ebbe la sua chan-
ce: il suo grande amico d’infanzia, conte Berchtold, divenuto ministro degli Esteri, lo
chiamò alla sezione politica del ministero facendone il suo consigliere segreto e il suo
confidente. Il suo nome, Janos Forgach, non dirà nulla a nessuno, ma in quel ruolo
aveva un potere enorme poiché tramite il ministro, poteva influenzare le decisioni
dell’imperatore.
Berchtold, stanco della crisi con la Serbia, che si trascinava da anni, pensava fosse
necessario agire con maggiore energia e Forgach lo convinse che un atto di forza
preventivo contro gli indipendentisti avrebbe potuto evitare la dissoluzione dell’im-
pero: fu, invece, la premessa della prima guerra mondiale... e della dissoluzione
dell’impero.
La storia di Henry Kissinger, lui certamente non “anonimo” visto che fu consigliere
per la sicurezza nazionale e segretario di stato degli Stati Uniti nelle amministrazioni
Nixon e Ford e, nel 73, fu insignito del Premio Nobel per la pace, qualche analogia con
quella di Forgach ce l’ha.
Sarebbe lungo parlare della sua spregiudicata e cinica attività politica, che aveva i
suoi punti di forza nella teoria della “guerra limitata” e del “negoziato permanente”
come strategia per mantenere l’equilibrio mondiale: «Non può esserci pace senza equi-
librio di forze». I suoi indiscutibili successi internazionali non possono, tuttavia, far
passare sotto silenzio le operazioni quanto meno discutibili, come il sostegno al golpe
cileno di Pinochet, il bombardamento segreto in Cambogia per indebolire le postazio-
ni di supporto vietnamite, l’approvazione al presidente indonesiano, Suharto, dell’in-
vasione di Timor Est, che costerà la vita a oltre 200 mila abitanti di quella regione.
Oriana Fallaci, che lo intervistò nel ’72, lo definì «Un’anguilla più fredda del
ghiaccio».

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250 La verità sulla menzogna

Naturalmente fa parte di club economico-politici privati, come il Club Bildengerg12


e la Trilateral Commission13, i cui membri sono in grado di influenzare la politica e
l’economia internazionale, e molti lo ritengono il “grande vecchio” della Spectre.

In alcune di queste eminenze grigie il disturbo di Asperger è “nobilita-


to” da un idealismo al limite dell’utopia, da un lucido disegno strategico
sorretto da un’ambizione da “visionari”. Un personaggio di questo tipo
è stato Gianroberto Casaleggio cui si deve la creazione di una struttura
ideale calata poi nella realtà del Movimento 5 Stelle che, a un’analisi og-
gettiva, non influenzata da simpatie o antipatie politiche, è senz’altro il
soggetto politico (o antipolitico) più innovativo degli ultimi anni, che ha
profondamente alterato gli equilibri politici precedenti. È evidente che
nel passaggio dall’idea, dall’idealismo e, diciamolo pure, dall’utopia alla
sua realizzazione pratica si sono evidenziati punti deboli, discrasie e limiti
che non ne sminuiscono tuttavia l’originalità e le potenzialità.
Un’eminenza grigia del recente passato, che si è mossa con passo fel-
pato nei meandri della politica facendosi apprezzare per il suo stile e per
le sue capacità di mediazione è senz’altro Gianni Letta che, con un pas-
sato di giornalista sia della carta stampata che della TV, approdò prima
come manager al Gruppo Finivest e, nel’94, dopo la vittoria elettorale di
Forza Italia, fu chiamato da Silvio Berlusconi come sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio, ruolo che occuperà anche nei successivi governi
Berlusconi. È lui il maieuta del famoso patto della crostata (1997)14 e sarà
uno dei fautori del patto del Nazareno (2014)15. La stima di Berlusconi nei
suoi confronti è testimoniata dal fatto che, nelle elezioni presidenziali del

12 Il Club Bilderber prende il nome dall’Hotel de Bieldberg (Paesi Bassi) dove si tenne la pri-

ma riunione, nel ’52, per iniziativa di David Rockefeller, di persone autorevoli nei settori politico,
economico e militare, col fine di favorire la cooperazione tra Europa e Stati Uniti. Molti dei parte-
cipanti al Club, che si riunisce una volta l’anno in località diverse, sono capi di Stato, ministri del
Tesoro, politici ed esponenti di spicco dell'alta finanza europea e anglo-americana. Mario Monti è
membro del Consiglio direttivo.
13 La Trilaterale, Fondata nel ’73 da David Rockefeller, è un gruppo di studio non governativo

e apartitico che conta più di trecento membri (uomini d'affari, politici, intellettuali) provenienti


dall'Europa, dal Giappone e dall’America con l’obiettivo di superare le distanze e i disaccordi tra
queste tre parti del mondo mediante il confronto su temi di natura politica ed economica. La Trila-
terale e il Club Bilderberg sono accusate da organizzazioni politiche e di attivisti di voler creare un
sistema sovranazionale per gestire il potere senza alcuna legittimazione democratica.
14 Patto fra Berlusconi, Massimo D’Alema, Franco Marini e Gianfranco Fini per una riforma

della Costituzione mediante una Commissione bicamerale, mai attuata.


15 Accordo politico fra Berlusconi e il segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, fina-

lizzato ad alcune riforme del titolo V della Costituzione, la sostituzione del Senato con una “Camera
delle autonomie” e l’approvazione di una nuova legge elettorale; il patto si è sciolto nel 2015 con
l’elezione a Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella, sgradita a Berlusconi.

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Xix. Menzogna e politica 251

2006, alla fine del mandato di Carlo Azelio Ciampi, lo propose come can-
didato alla presidenza della Repubblica (fu poi eletto Giorgio Napolitano)
e più tardi, nel 2016, quando lo stesso Berlusconi dovette sottoporsi a un
intervento al cuore, gli affidò, a tutti gli effetti, la gestione del suo partito,
Forza Italia.
In circostanze particolari possono assurgere al ruolo di eminenza
grigia soggetti che sono chiaramente psicopatici quando non psicotici.
L’esempio più clamoroso è quello di Rasputin nella Russia degli zar.

Senza alcun titolo nobiliare e semianalfabeta, Grigorij Efimevič detto Rasputin (che
significa “depravato”) ammaliò lo zar Nicola II e tutta la corte.
Alto, vestito di una lunga tonaca nera, uno sguardo penetrante, quasi da folle, dotato
di una sciolta parlantina, si autoproclamava veggente e guaritore e si diceva guidato
dal volere di Dio.
Entrò in contatto con la Corte, nel 1907, fermando una grave emorragia di Alessio,
il figlio dello Zar Nicola II, affetto da emofilia16: acquistò così un enorme ascendente
sulla famiglia reale e soprattutto sulla zarina, attraverso la quale influenzava le deci-
sioni dell’insicuro Nicola II. Nel frattempo era scoppiata la prima guerra mondiale e
l’esercito russo, impreparato e male equipaggiato, subiva devastanti sconfitte. Raspu-
tin conduceva una vita sempre più depravata coinvolgendovi, sembra, anche la zarina
e le sue figlie.
Membri della casa reale, che in precedenza avevano simpatizzato con Rasputin, si
erano trasformati in accaniti nemici e avevano deciso di eliminarlo. Per inspiegabi-
li ragioni, ucciderlo fu un’impresa granguignolesca: nonostante il “monaco” avesse
trangugiato una quantità incredibile di madera – il suo vino preferito – e di dolci,
entrambi “corretti” con il cianuro, appariva solo ubriaco e perciò un congiurato gli
sparò alla schiena pensando che sarebbe morto dissanguato, ma dopo un’ora era an-
cora vivo e cercava di uscire dalla casa; gli spararono quattro colpi di pistola di cui due
andarono a segno, uno alla testa e uno alla spalla ma lui cercava ancora, strisciando, di
raggiungere il cancello. Sembra che a questo punto sia stato anche preso a randellate
e pugnalate, ma quando lo avvolsero in una coperta per gettarlo nella Neva, respirava
ancora: morì annegato.
Tre mesi dopo tutti i membri della famiglia reale furono arrestati e, un paio d’anni
dopo, furono massacrati, crivellati dai proiettili, infilzati con le baionette, fatti a pezzi
con seghe e asce, bruciati e le ossa rimaste gettate in una miniera che fu poi fatta saltare.

Nella nostra ricerca abbiamo incontrato poche donne che abbiano rico-
perto il ruolo di eminenze grigie: è verosimile che questo sia in larga misura
correlabile con la struttura della nostra società che ha operato una discri-
minazione sessuale al punto che, nel tentativo di sanare questa palese in-
giustizia, si è dovuti ricorrere a stabilire per legge le cosiddette “quote rosa”.

16 Naturalmente l’intervento di Rasputin fu considerato miracoloso: studiosi moderni sareb-

bero giunti alla conclusione che egli non fece altro che sospendere la somministrazione di aspirina.

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252 La verità sulla menzogna

Qualche eccezione, naturalmente c’è e fra queste una è certamente la


first lady Anna Eleanor Roosevelt moglie del presidente Franklin Delano
Roosevelt, che fu una convinta femminista e influenzò il New Deal, cioè
la linea politica del marito. Oltre a questo, s’impegnò attivamente per la
tutela dei diritti civili e dei diritti degli afroamericani, sostenne la neces-
sità di leggi speciali a protezione delle donne lavoratrici, assieme ad altri
esponenti americani, gettò le basi della “Freedom House”, un istituto di
ricerca per la promozione della pace nel mondo, e presiedette la commis-
sione che stilò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Un’altra first lady che merita l’appellativo di eminenza grigia è senz’al-
tro Nancy Reagan, moglie del presidente Donald Reagan. Molto attiva
nella lotta alla droga e nella sensibilizzazione nei confronti dei controlli
preventivi per il tumore al seno (era stata sottoposta a mastectomia ra-
dicale per un adenocarcinoma al seno), spinse il marito, contro il parere
dei politici, a stabilire rapporti più distesi con il leader sovietico Michail
Gorbaciov e strinse una stretta relazione con Margaret Thatcher che defi-
nì “campionessa di libertà e democrazia”. Una della maggiori critiche che
le furono rivolte fu quella di intromettersi eccessivamente nelle decisioni
politiche di stretta competenza del marito.
In altri casi raggiungono posti chiave donne selezionate dagli uomini
soprattutto per il loro “quoziente” di mascolinità e che pertanto si com-
porteranno come gli uomini o anche peggio per giustificare il fatto di es-
sere state scelte. Si tratta spesso di soggetti affetti da disturbo di Asperger.
Probabilmente fu questo il caso di Virginia Oldoini, contessa di Castiglio-
ne, usata da Cavour per ottenere dall’imperatore francese, Napoleone III,
un’alleanza contro gli austriaci che occupavano Veneto e Lombardia.

Non piacerà molto alle donne, e alle femministe in particolare, Virginia Oldoini con-
tessa di Castiglione, che rinfacciava a sua madre di averla sposata a 17 anni al conte di
Castiglione invece di portarla a Parigi: se così fosse stato – ne era convinta – la Francia
avrebbe avuto una sovrana italiana invece che una spagnola, Eugenia.
Ambiziosa e intelligente, audace e altera, oltre che bellissima, forse la donna più
bella della sua epoca (la principessa di Metternich la definì “una statua di carne”), fin
da giovanissima era stata protagonista di storie galanti che non cessarono certamente
con il matrimonio con quello che lei chiamava “il povero becco”.
Cavour, cugino acquisito, pensò di utilizzarla per ottenere dall’imperatore francese
Napoleone III un’alleanza franco-piemontese in funzione anti-austriaca: «Usate tutti
i mezzi che vi pare, ma riuscite». Alla ventenne Virginia bastò mezz’ora d’amore con
l’Imperatore cinquantenne nella stanza azzurra del Castello di Compiègne per riusci-
re nella “delicata” missione che le era stata affidata. Per circa tre anni sarà l’amante
dell’imperatore che la ricoprirà di regali oltre a un ricco appannaggio mensile (le ma-
lelingue la battezzarono “vulva d’oro”).
Il suo posto fu poi preso dalla contessa Walewska, che ebbe breve durata. Comun-

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Xix. Menzogna e politica 253

que la stella di Virginia, nei confronti dell’imperatore, era tramonata e, tornata a Pari-
gi, dovette “accontentarsi” di tessere relazioni con personaggi importanti: si racconta
che abbia avuto 43 amanti di cui 12 contemporaneamente e l’uno all’insaputa dell’al-
tro. Morirà a Parigi a 69 anni: negli ultimi anni, per non vedere la propria decadenza
fisica, aveva tolto dalla sua casa tutti gli specchi e si copriva il volto con un velo. È
sepolta tra i grandi al cimitero Père Lachaise.

Dopo questa galleria di eminenze grigie molto serie e, alcune, anche truci, vogliano
chiudere con una che può suscitarci il sorriso (anche se non proprio liberatorio), quel-
la di Gennaro “Gerry” Salerno (molto ben interpretato da Sergio Rubini) nel film del
2011, Qualunquemente, diretto da Giulio Manfredonia.
Cetto La Qualunque (Antonio Albanese), rientrato da una lunga latitanza all’estero
con una ragazza sudamericana, che lui chiama “Cosa”, e la figlia di lei, si rende conto
che, nelle imminenti elezioni, potrebbe tornare la legalità poiché il candidato favorito,
il maestro Giovanni De Santis, potrebbe vincere ripristinando, appunto, la legalità
mettendo a rischio tutte le sue proprietà, frutto di abusi, soprusi, illegalità. Nel tenta-
tivo di scongiurare questo pericolo, fonda un suo partito formato da parenti e amici.
I sondaggi del ragioniere, falso invalido grazie a Cetto, gli sono però sfavorevoli e
questi lo mette perciò in contatto con “Gerry” Salerno, faccendiere che gli promette di
farlo vincere dietro pagamento. Sotto la guida di Gerry, Cetto si comporta in maniera
apparentemente onesta: va in chiesa, a teatro, nei comizi fa numerose promesse, ridi-
pinge l’ospedale, paga gite agli anziani, vince un dibattito televisivo con l’avversario...
ma alle elezioni il risultato è in bilico e Cetto ordina a un suo infiltrato al seggio di
riempire con il suo nome le schede bianche e in questo modo vince.
Durante i festeggiamenti per la vittoria all’elezioni, la polizia fa irruzione per arresta-
re Cosa e sua figlia perché clandestine. Gerry Salerno, pagato, torna alla propria città
portandosi via anche Cosa e sua figlia e Cetto, scongiurato il pericolo della legalità,
inaugura il lavori per il ponte sullo stretto di Messina da lui ribattezzato “ponte di pilu”.

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Xx. Menzogna e informazione

Il limite dell’informazione
non consiste in quello che dice,
ma in quello che tace.
(Pino Caruso, Ho dei pensieri
che non condivido, 2009)

Mai, nella storia dell’umanità, gli uomini sono stati immersi nell’in-
formazione come oggi: potremmo dire che ne siamo letteralmente som-
mersi.
Dovremmo esserne felici, pensando che quanto maggiore è l’informa-
zione cui possiamo accedere tanto minore è la possibilità di essere ingan-
nati, manipolati, da coloro che ci governano, o che gestiscono l’economia
mondiale, o che amministrano la giustizia, la sanità o altro. Ma le cose non
vanno proprio così, anzi, il più delle volte, vanno nella direzione opposta.
Lo sviluppo esponenziale della tecnologia della comunicazione ha ri-
voluzionato gli strumenti attraverso cui diffondere le informazioni, ma
soprattutto ha reso possibile praticamente a tutti l’accesso ai flussi infor-
mativi nel ruolo tanto di destinatari quanto di potenziali emittenti, a li-
vello globale.
Ma andiamo con ordine.
Come scriveva Aristotele (IV secolo a.C.) nella sua Politica [10], l’uo-
mo è un animale sociale in quanto gli individui tendono ad aggregarsi
con altri e a costituirsi in società. Ma si tratta di un istinto primario o è
il risultato di altre esigenze? Poiché nasciamo e cresciamo in un gruppo
sociale, la famiglia, potremmo ritenere che l’istinto di socializzazione sia
innato. Dal nostro punto di vista, poco cambierebbe anche se ci fosse un
apprendimento poiché l’associarsi consente di soddisfare bisogni fonda-
mentali per l’individuo e per il gruppo pur comportando la necessità, in
caso di bisogno, di anteporre gli interessi del gruppo a quelli individuali.
Non ci sono dubbi che l’informazione rappresenti l’elemento più im-
portante per la sussistenza e l’equilibrio del “sistema” uomo. Di fronte al
continuo afflusso d’informazione, l’uomo non si limita a decodificare i
segnali ma si pone in un atteggiamento attivo di esplorazione. I problemi

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256 La verità sulla menzogna

legati all’informazione sono oggetto d’interesse soprattutto della psicolo-


gia e della fisiologia ma, quando oltrepassano i propri confini e invadono
il campo della psicopatologia, la vigilanza, che si pone come elemento
centrale tra l’informazione e il comportamento, può “degenerare” ed
esprimersi come ansia.

L’importanza del ruolo dell’informazione nell’equilibrio dell’individuo la possiamo


dedurre dalle conseguenze della deprivazione sensoriale per interruzione fisica (ad
esempio, nella permanenza prolungata in regioni totalmente isolate, come quelle po-
lari o desertiche o in caverne), ma anche per condizioni sociali (come l’immigrato che
non conosce la lingua, gli usi e i costumi del Paese ospitante) o patologiche (come ad
esempio il sordastro). Quale ne sia la causa, la sindrome da deprivazione sensoriale
si presenta abbastanza omogenea: sintomi dissociativi, quali depersonalizzazione e
derealizzazione, perdita dello schema corporeo o del sentimento di sé, pseudoalluci-
nazioni o allucinazioni, deliri1.

In questa sede vogliamo affrontare il problema dell’informazione in


campo sociale poiché
spesso a contare più di ogni altra cosa non sono le proprietà delle parti, ma
la loro organizzazione, la loro struttura e forma [35]
e la società è, appunto, una organizzazione di persone, di atomi sociali.
Un secolo fa l’informazione era limitata ai giornali, che in pochi acqui-
stavano e che alcuni leggevano nella bottega del barbiere o nel bar vicino
casa (la famosa “bacchetta”)2. I giornali erano in numero limitato e, nel
ventennio fascista, la censura impediva la pubblicazione di molte noti-
zie (soprattutto i reati che potevano “turbare” la popolazione e offuscare
l’immagine del Paese e del regime), enfatizzava le “conquiste dell’Impero”
e, per la politica, c’erano le “veline” che ne fornivano la versione ufficiale.
La radio era ancora uno strumento di élite e anch’essa faceva da portavo-

1 Al di là delle condizioni-limite, come la deprivazione sensoriale, molteplici sono le situazio-


ni in cui le informazioni propriocettive, enterocettive e nocicettive (quei messaggi che vengono dal
nostro corpo e che segnalano sia il normale funzionamento, sia la presenza di disfunzioni di organi
e apparati) sono chiamate in causa o perché comunicano false informazioni (di cui è espressione ti-
pica il cosiddetto arto fantasma), o perché normali comunicazioni vengono interpretate in maniera
distorta (come accade generalmente nei disturbi da sintomi somatici).
La sindrome dell’arto fantasma consiste nella sensazione che il soggetto, amputato di un arto,
continua ad avvertire della presenza di quello stesso arto: ne avverte la posizione o addirittura i
movimenti e non di rado dolore, più o meno marcato. Questo fenomeno dipende dal fatto che il
cervello mantiene nel suo schema corporeo l’arto amputato, anche se da esso non gli giungono più
impulsi nervosi.
2 I giornali erano fermati con una bacchetta di legno sul lato sinistro in modo che si potesse-
ro leggere ma non portare via!

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Xx. Menzogna e informazione 257

ce del governo: in definitiva l’informazione era propaganda al servizio del


regime, utilizzata allo scopo di manipolare la realtà e produrre consenso.
Ancora più grave era la manipolazione delle informazioni da parte del
Nazionalsocialismo tedesco (di cui abbiamo detto nel capitolo Menzogna
e politica) e del Comunismo dell’Unione Sovietica.
Nella seconda metà del XX secolo, con il diffondersi delle democra-
zie, l’informazione a mezzo stampa è diventata più dialettica, anche per-
ché i giornali più governativi trovavano un certo “controcanto” in quelli
dell’opposizione. Tuttavia era ancora limitata, monocorde: la maggior
parte delle persone leggeva soltanto il giornale (o vedeva il telegiornale)
che faceva riferimento al proprio partito, alla propria ideologia.
A partire dalla metà degli anni ’80, la vertiginosa crescita degli stru-
menti elettronici di comunicazione (TV, computer, telefoni cellulari, ta-
blet ecc.), delle loro applicazioni (social network, talk show, reality, blog,
messaggi, chat ecc.) e delle reti telematiche, ha portato a una vera e pro-
pria rivoluzione, introducendoci nella “società dell’informazione” che ha
rivoluzionato tanto il mondo dei media quanto quello della produzione
e dei consumi. Il progresso tecnologico, tuttavia, non risiede nell’accesso
alle informazioni (consultarle, selezionarle, scaricarle ecc.) ma nella capa-
cità di elaborarle per fornire un prodotto innovativo, un miglioramento
dei servizi, strumentto utile nella contesa politica capace di incidere ef-
ficacemente sullo sviluppo e sugli assetti socio-economici di ogni Paese
[119]. Lo sviluppo della società dell’informazione ha introdotto aspetti
critici sul piano sociale e psicologico, dal disagio di chi rimane fuori (il
digital divide), al blocco operativo, decisionale, per il “sovraccarico in-
formativo”. Oltre a questo, il progresso tecnologico ha aumentato il caos
informativo poiché il libero accesso al web ha messo, tutti quanti lo vo-
gliano, in condizione di esprimere le proprie opinioni senza limiti, e non
di rado senza senso. Nel capitolo Menzogna e scienza, abbiamo accennato
al peso sociale che i mass media hanno avuto su vicende relative alla salute
(e in particolare riguardo a malattie ad alto impatto emotivo), gonfiando
storie che avrebbero dovuto essere trattate nel rispetto dei pazienti e dei
loro familiari.
Sul versante socio-politico nulla è cambiato con i “governativi” che
controllano una buona parte dei mezzi di comunicazione e le “opposi-
zioni” quelli rimanenti. Degli strumenti di comunicazione classici – gior-
nali, TV, radio – molti si autoproclamano “liberi”, “indipendenti”, ma
un attento lettore/ascoltatore difficilmente trova le informazioni propo-
ste in forma asettica. Di fronte al bombardamento di notizie, cui siamo
sottoposti, è lecito domandarsi quante siano corrispondenti alla realtà,
e quante, invece, si basino sulla menzogna, sulla mistificazione, sul si-

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258 La verità sulla menzogna

lenzio. Quando eravamo ragazzini, giocavamo al passaparola, uno diceva


una frase all’orecchio del vicino, e questo all’altro vicino finché l’ultimo
che aveva ricevuto il messaggio lo ripeteva ad alta voce ed era divertente
constatare quanto fosse cambiato, stravolto, alla fine dei passaggi. Oggi
questo “gioco” lo si osserva nei talk show, nei dibattiti televisivi, quando
la stessa notizia, passando dall’una all’altra trasmissione, si modifica, si
amplifica, si ridimensiona, si demonizza e magari, alla fine, è diventata
l’opposto rispetto a quella che era in partenza. Qui ci sono il marketing, la
propaganda, la controinformazione, mirati a incidere sulle decisioni, sol-
leticando le aspirazioni e le debolezze, le scontentezze e le difficoltà, per il
raggiungimento dei propri obiettivi, quali far votare il proprio partito, far
comprare un’auto o una pseudo-cura miracolosa (per dimagrire, per au-
mentare la potenza virile, per far ricrescere i capelli...), fino alle campagne
pseudoscientifiche (quando non francamente truffaldine) sul mangiare
sano, mangiare bio, a chilometro zero, che contribuiscono a incentiva-
re l’ortoressia, l’anoressia mentale del terzo millennio. Dall’altra parte ci
sono persone deluse e sfiduciate dal sistema, dalle istituzioni, dalle fonti
d’informazione ufficiali (autoreferenziali, distanti) e perciò pronte a cre-
dere alle informazioni semplificate, fatte di slogan, suggestive (l’acqua che
elimina l’acqua o l’acqua che fa fare plin-plin, come se le altre non faces-
sero le stesse cose!), facili da capire, che stimolano emozioni o rafforzano
credenze (giuste o sbagliate) che già possiedono e che quindi sono più fa-
cili da accettare. Se non bastasse, quando digitiamo “mi piace” su qualche
social, improvvisamente ci compaiono su Internet notizie, dati, pubblicità
in sintonia con il “mi piace” che abbiamo dato, rinforzando, se ce ne fos-
se bisogno, quell’informazione. Secondo dati Eurisko (2016) l’85% degli
italiani cerca informazioni sanitarie sul web e il 59% le ritiene veritiere.
Le manipolazioni cui ci sottopongono i nuovi strumenti di comunica-
zione si manifestano presentando una verità fortemente connotata, iper-
generica e alterata, tale da creare nell’imaginario collettivo degli stereotipi
(il clandestino, l’assassino, il drogato, l’eroe...) così semplici e al tempo
stesso così forti che estremizzano a tal punto il nostro consenso o dissen-
so da renderli inconciliabili. Il meccanismo è banale: consiste nel dare le
informazioni che appoggiano la supposta “verità” escludendo (o banaliz-
zando, o deridendo) quelle che non la rafforzano o la negano. La ripeti-
zione, più o meno ossessiva, di questo processo crea gruppi di pressione
agguerriti, refrattari a ogni critica e autocritica. È con queste tecniche
(incluso l’uso di messaggi subliminali e di pubblicità ingannevole) che la
controinformazione agisce, spesso sfruttata nelle attività di propaganda
in vari campi, assieme al populismo e alla demagogia.
Le tecniche di disinformazione sono molto usate anche in politica,

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Xx. Menzogna e informazione 259

vuoi da chi governa – per mantenere segrete verità compromettenti, ma-


gari con forte impatto sull’opinione pubblica, ma anche per conservare la
posizione di governo –, vuoi dagli oppositori per indebolire il governo in
carica e poterlo sostituire.
Potremmo fermarci qui, ma ci sembra corretto citare una modalità
particolare, usata frequentemente, per ottenere il favore degli ascoltatori/
lettori: la trasformazione della realtà storica, consolidata, attraverso ope-
razioni di revisionismo e di dietrologia.
La sovrabbondanza e il facile accesso a potenti strumenti di comu-
nicazione, capaci di diffondere in tutto il mondo le notizie, rende estre-
mamente complessa la fruibilità di una informazione veridica. Inevitabil-
mente si sono sviluppate e consolidate organizzazioni di marketing capaci
di trasformare la realtà in funzione dell’obiettivo che si vuole raggiungere.
Queste impiegano, in genere, opinion-leader carismatici (anche se non
competenti sull’argomento: si pensi al giornalista Golia nel “caso Stami-
na”), spesso contrapposti a specialisti del settore ma in un ambiente ma-
nipolato: ad esempio, un conduttore che concede agli esperti poco spazio
per esporre la propria opinione, che li lascia sommergere dalla logorrea
urlante della controparte, che pone loro domande improprie e, quando
possibile, arriva a ridicolizzarli [45].
All’inizio del capitolo abbiamo accennato al valore fondamentale e vi-
tale che l’informazione costituisce per l’individuo e per il gruppo sociale:
come può conciliarsi tutto questo con l’attuale Babele informativa nella
quale allignano grandi e piccole menzogne? Quale può essere l’interesse a
creare una massa di soggetti malinformati o disinformati? La risposta più
immediata potrebbe essere che, grazie a questo tipo di soggetti influenza-
bili, manipolabili e acritici diventa possibile proporre con successo qual-
siasi menzogna sostenuta dall’opinion leader considerato attendibile a
priori, cioè si crea
un popolo bue che seguirà docilmente il suo padrone, fino al mattatoio, sua
ultima mèta3.
Ma c’è un aspetto molto inquietante dell’informazione che circo-
la sui social network e che non dobbiamo sottovalutare in quanto fonte
di possibili tragici epiloghi. Ormai da un po’ di tempo questi strumenti
si sono trasformati in gogne mediatiche, in palestre di cyberbullismo o
cyberstalking, nelle quali soggetti più deboli, o più sprovveduti, o più fa-
cilmente aggredibili, vengono esposti a, seconda dei casi, alla derisione,
alla stigmatizzazione, all’offesa, al ludibrio. Le cronache riportano con
3 Mussolini, Discorso alla Camera dei Deputati, 1925.

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260 La verità sulla menzogna

estrema frequenza episodi di questo genere, che sono, in realtà, quelli ad


esito più drammatico e perciò solo la punta di un iceberg molto più esteso.
Fenomeno, possiamo aggiungere, i cui protagonisti, vittime e carnefici,
sono in genere giovani, spesso molto giovani. È il caso, ad esempio, della
diffusione su social di immagini o filmati più o meno hard. In genere sono
coinvolte ragazzine consenzienti, che hanno girato video “per gioco” fra
amici, altre volte ingannate, magari dal fidanzatino, altre volte si tratta di
materiale hackerato da siti privati e poi pubblicato in rete, contenente non
di rado immagini di sesso di gruppo.

Gli esempi abbondano. Molto scalpore ha fatto il suicidio di Tiziana, una ragazza
trentatreenne del napoletano, che si era fatta filmare durante un rapporto sessuale
con il fidanzato e che aveva inviato il video a quattro “amici” i quali lo avevano diffuso
su internet. Prima di ottenere dal tribunale la sentenza favorevole al “diritto all’o-
blio”, era passato molto tempo durante il quale la ragazza, messa al centro della gogna
mediatica, aveva cambiato città e nome con scarso successo, fino al gesto estremo.
Per dare una misura dell’ampiezza del fenomeno, è sufficiente pensare che alla frase
pronunciata dalla ragazza durante la ripresa, «Stai facendo il video? Bravo» sono state
dedicate oltre 100 mila pagine web.
Qualche anno fa a Novara, una ragazzina quattordicenne, Carolina, che aveva be-
vuto un po’ troppo nel corso di una festa, viene seguita in bagno da cinque coetanei
che la violentano a turno, filmando tutto e pubblicando il video su Facebook; qualche
tempo dopo, non reggendo alla vergogna, la ragazza si è suicidata. Anche in questo
caso il social non ha effettuato alcun controllo sulla diffusione del video tanto da dare
il tempo di diffondersi su Twitter su cui si scatenarono migliaia di messaggi offensivi.
Potremmo citare innumerevoli casi finiti nelle cronache ma sono certamente molti
di più quelli rimasti nel silenzio, il cui epilogo è stato la sofferenza psichica sotto varie
forme, spesso non curata perché la vittima, per la vergogna, non ha avuto il coraggio
di parlarne neppure con i familiari o con il medico.

Si possono fare due considerazioni, la prima è che giocare sul web con
certi contenuti è estremamente rischioso, la seconda è che chi pubblica
materiale che lo riguarda deve tener presente che è estremamente dif-
ficile, in seguito, farlo rimuovere. La legge sul “diritto all’oblio” non è
sufficiente, sia per il tempo fra la richiesta e l’esecuzione dell’eventuale
sentenza (durante il quale i contenuti continuano a girare), sia perché il
materiale viene “deindicizzato”, tolto cioè dagli indici di ricerca, ma non
materialmente cancellato (e, se anche fosse cancellato, potrebbe essere
stato scaricato da qualcuno e tornare in circolazione).
Un’altra caratteristica del social è la facilità con cui si formano grup-
pi di opinione e/o di pressione che, se finalizzati a obiettivi positivi, di
interesse sociale possono avere una loro utilità, ma se usati per finalità
improprie possono portare a conseguenze anche drammatiche. Abbiamo

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Xx. Menzogna e informazione 261

visto nel capitolo Menzogna e scienza, come i media siano stati in grado di
montare campagne assurde a favore di obiettivi privi di ogni fondamento
scientifico, come la cura Di Bella e quella Stamina, imponendo sperimen-
tazioni inutili o addirittura l’obbligo di somministrare legalmente queste
cosiddette terapie. Qui vogliamo riportare un tragico evento recente su
cui si sono scatenati sul web i peggiori istinti con un finale tragico.

Poco tempo fa a Vasto una giovane donna, Roberta, sposata da poco, è deceduta vitti-
ma di un incidente stradale: un giovane alla guida di un’auto non ha rispettato il sema-
foro rosso e l’ha investita mentre era alla guida del suo motorino. L’investitore, che non
era in preda all’alcol o a droghe, si è fermato e ha chiamato i soccorsi per cui, in base
alla legge, non è stato incarcerato. La cosa non è stata accettata dagli amici della ragazza
e dal marito, che in un primo momento si son limitati a organizzare una fiaccolata che
chiedeva “Giustizia per Roberta”, ma gli eventi che ne sono seguiti hanno fomentato il
risentimento del giovane vedovo al punto da cercare vendetta uccidendo il responsa-
bile dell’incidente. L’episodio, infatti, aveva scatenato su Facebook “cori” drammatici a
favore o contro i protagonisti di questa tragica storia (in uno degli ultimi gruppi nati,
che si chiamava ‘La giusta fine’, si leggevano commenti pesantissimi contro l’investito-
re). Una deriva inarrestabile, fino al tragico epilogo, cui hanno fatto da controcanto le
dichiarazioni soft delle tre famiglie, loro malgrado coinvolte nel dramma.

Molte potrebbero essere le considerazioni da fare, dall’assoluta man-


canza di civiltà del diritto e dalla capacità di trasformare nel peggior tifo
da stadio eventi cui è dovuto rispetto e riserbo, fino al ruolo che negli
ultimi vent’anni hanno assunto i social network nella società.
A proposito di questi ultimi, sarebbe importante, e fattibile, che gli
operatori potessero cancellare rapidamente dai (o non accettare nei) loro
siti immagini e filmati non postati dal proprietario e interventi chiara-
mente violenti, offensivi, istiganti all’odio e/o al crimine. Forse si potreb-
bero in tal modo evitare episodi tragici o, comunque, gravi sofferenze a
vittime innocenti o incaute. «Basta con i social media. Dobbiamo tornare
a parlare tra di noi», è il j’accuse del parroco di Vasto ai funerali del gio-
vane ucciso per vendetta.

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Xxi. La trappola di internet

Abbiamo finalmente capito che Internet non è una rete di Com-


puter ma un intreccio infinito di persone, uomini e donne a tutte
le latitudini, che si connettono fra loro, attraverso la più grande
piattaforma di relazioni che l’umanità abbia mai visto. La cultura
digitale ha creato le fondamenta per una nuova civiltà e questa
nuova civiltà sta costruendo dialettica, confronto e solidarietà at-
traverso la comunicazione, perché da sempre la democrazia ger-
moglia dove c’è accoglienza, ascolto, scambio e condivisione e da
sempre l’incontro con l’altro è l’antidoto più efficace all’odio e al
conflitto. Ecco perché Internet è un formidabile strumento di pace,
ecco perché ciascuno di noi in Rete, può essere un seme di non
violenza. Ecco perché la Rete merita il prossimo Premio Nobel per
la Pace e sarà, se conferito, un Nobel dato a ciascuno ci noi.
(Motivazione della candidatura di Internet
al Premio Nobel per la Pace 2010)

La struttura intrinseca delle malattie mentali non è cambiata nei secoli,


ciò che si è modificato è la loro modalità di espressione clinica. La struttu-
ra di fondo è, infatti, “scritta” nell’archipallio, il cervello arcaico, piccolo
ma potente, che gestisce le nostre emozioni, che ha consentito il passaggio
evolutivo cruciale dall’ominide all’uomo e che, negli ultimi tre milioni di
anni, non si è sostanzialmente modificato. Le modalità espressive, che
sono in rapporto ai cambiamenti socio-ambientali, dipendono, invece,
dal neopallio, il cervello cognitivo, nato circa 150 mila anni fa, che, grazie
alle pressioni dell’ambiente e della cultura, è andato incontro a uno svi-
luppo straordinario. Di conseguenza, le malattie mentali più strettamente
biologiche – che sono più legate all’archipallio –, si sono modificate in
misura modesta tanto che, ad esempio, la mania descritta da Omero è
la stessa che vediamo ancora oggi. Sono invece notevolmente cambiati i
disturbi maggiormente correlati con le condizioni socioculturali e quindi
con il cervello “cognitivo”.
Il paradigma indicativo della stretta relazione fra fenomenica psi-
copatologica ed evoluzione socioculturale è rappresentato dai disturbi
dell’alimentazione: finché non siamo entrati in una fase di benessere dif-
fuso, negli anni ’60-’70 del secolo scorso, ben poco si parlava di anoressia

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264 La verità sulla menzogna

nervosa e il modello estetico femminile prevalente era quello della don-


na prosperosa, in contrapposizione al quale, a partire dagli anni ’80, si
è affermato un modello estetico di donna androgino ed emaciato la cui
manifestazione patologica è, appunto, l’anoressia nervosa. In seguito al
diffondersi di un’offerta alimentare estremamente palatabile ed economi-
camente accessibile – ma qualitativamente poco curata – lo junk food, il
cibo-spazzatura, si è affermato il binge eating disorder cui, per contrasto,
si è, oggi, fatto strada il concetto di salute mediata da cibi sani, biologici,
cioè l’ortoressia. Se l’anoressica divide i cibi in base al contenuto calorico,
l’ortoressica li divide in base a «questo fa bene, quest’altro fa male».
Nella nostra epoca, si è assistito, e ancora si assiste, alla cosiddetta “ri-
voluzione informatica”, che muoveva i suoi primi passi negli anni ’60.

Pisa è stata la culla dell’informatica nazionale. Nel 1965, infatti, nasceva il Centro
Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico – CNUCE il cui cuore era un compu-
ter 7090 donato dall’IBM, istallato in due prefabbricati a temperatura stabilizzata, al
quale si portavano – pedibus calcantibus – i dati su schede perforate (rigorosamente
ordinate!), dalla cui elaborazione si ottenevano pacchi di tabulati. Nel ’70 il 7090 era
già obsoleto e fu sostituito dal 360/158 che avrebbe consentito l’accesso online e in
time-sharing... linee telefoniche (scarsamente affidabili) permettendo. Poi i gestori te-
lefonici si accordarono su standard e connessioni e i contatti sono diventati più facili.
Solo negli anni ’90, l’informatica uscì dal campo dello studio e della ricerca per di-
ventare rapidamente un mezzo “di consumo”, conquistandosi ben presto uno spazio
anche nel campo della patologia psichica.

Sembrano passati secoli da quando il telefono cellulare serviva per fare


e ricevere telefonate in mobilità e il computer troneggiava imponente e
ingombrante sulla scrivania e serviva quasi esclusivamente come word
processor o come foglio elettronico... o, al più per fare un solitario. Di con-
nessioni si incominciava appena a parlare (figuriamoci di connessioni
superveloci!) e internet era solo uno strumento militare. In pochi anni i
telefoni cellulari sono diventati così potenti e multifunzionali, così smart,
da racchiudere in sé un intero ufficio superattrezzato del quale molti di
noi sfruttano solo una piccola parte. Senza considerare i tablet che, in
dimensioni di poco maggiori degli smartphone, racchiudono un mondo
tanto da rendere quasi superflui, obsoleti, i desktop e i portatili, dinosauri
in estinzione dell’era contemporanea.
Gli attuali strumenti informatici hanno cambiato radicalmente la no-
stra vita, anche se, forse, non ce ne rendiamo conto appieno e, in questa
prospettiva non si può non condividere la proposta per il conferimento a
internet del Premio Nobel per la Pace. Non ci sono dubbi che la comuni-
cazione è il mezzo privilegiato per conoscersi, per condividere, per capi-

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Xxi. La trappola di internet 265

re: finché c’è dialogo non può esserci guerra. Ma dobbiamo anche tener
conto che internet è stato messo nelle mani degli uomini e l’esperienza ci
insegna, da sempre, che anche lo strumento migliore può essere usato nel
modo peggiore. È saggio, perciò, non abbassare mai la guardia per non
diventare vittime di hacker e cercare di educare gli utenti a un uso cor-
retto, civile, rispettoso della pluralità di opinioni in modo da evitarne (o
limitarne) usi distorti e abusi, di alcuni dei quali abbiamo già accennato e
di altri diremo qui di seguito.

Cyberbullismo
L’impatto dei mutamenti socio-culturali provoca, quasi sempre, una
sorta di restyling dei comportamenti che, in passato, si manifestavano in
“vesti” diverse.
Prendiamo, ad esempio, il bullismo, un comportamento aggressivo in-
tenzionale, reiterato, messo in atto, in genere, da un gruppo di persone,
meno frequentemente da un solo individuo, nei confronti di un soggetto
che non è in grado di difendersi. Il fenomeno del bullismo è sempre esisti-
to: è più frequente fra le persone giovani che condividono gli stessi spazi
per diverse ore della giornata e perciò si osserva soprattutto a scuola, in
collegi, ma anche in ambienti di aggregazione extrascolastica e addirit-
tura di lavoro. In passato, quando era ancora attivo il servizio militare di
leva, la caserma era luogo di elezione del “nonnismo” (così si chiama il
bullismo in quel contesto) dove spesso i bulli, i “nonni”, erano i militari
più anziani, magari spalleggiati dai graduati di più basso livello, i caporali.
Nella scuola si realizza, necessariamente, la coesistenza di soggetti di
temperamento e carattere diverso, dai più timidi, scarsamente socializ-
zanti e più concentrati nello studio, ai “maschi alfa”, soggetti portati mol-
to di più alle attività fisiche, ai giochi violenti, alla competizione, che allo
studio. Sono di solito questi, spesso riuniti in piccoli gruppi, che prendono
di mira qualcuno dei ragazzi introversi, schernendoli, taglieggiandoli fino
a esercitare su di loro, nei casi estremi, violenze anche gravi. Il gruppo è
fondamentale, i soggetti si spalleggiano gli uni con gli altri sentendosi più
forti, imbattibili e giustificati nel momento in cui, con minacce e ritorsio-
ni, ottengono la sottomissione della vittima che, assolutamente passiva,
non denuncerà mai la situazione né a scuola né a casa consolidandola,
così, nel tempo e nell’escalation di violenza. Non eccezionalmente, il bullo
è stato a sua volta vittima di bullismo.
In passato il bullismo era un fenomeno esclusivamente, o quasi, ma-
schile. Negli ultimi anni, sempre più frequentemente la cronaca riporta

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266 La verità sulla menzogna

casi di bullismo femminile, che si esprime per lo più indirettamente e


subdolamente attraverso l’esclusione dal gruppo sociale, attuata ignoran-
do la vittima in modo sistematico o attraverso calunnie, creando una con-
dizione pregiudiziale anche in ambienti sociali più vasti, esterni al grup-
po – anche se non sono mancati, come nel bullismo maschile, episodi di
violenza fisica.
Il bullismo oggi, con l’esteso uso della rete informatica e l’ampia dif-
fusione di smartphone e tablet, che consente a ragazzi appartenenti a fa-
sce d’età sempre più basse – sono stati segnalati casi anche nelle scuo-
le elementari – di esprimersi attraverso vari social network, è diventato
cyberbullismo. Attraverso l’uso di questi strumenti, si sono aperti spazi di
azione prima inimmaginabili. Si è passati da un rapporto che può essere
definito quasi “duale” (e quindi limitato), a uno “globale”. I messaggi of-
fensivi, umilianti o persino minacciosi, la creazione di pagine web in cui
la vittima è messa in ridicolo, l’attacco alla reputazione tramite maldicen-
ze, il furto di account e-mail che consentono di sostituirsi alla vittima in
scritti discutibili, la diffusione di foto e video compromettenti, possono
raggiungere ormai chiunque e, la maggior parte di chi li condivide, anche
se è totalmente estranea, funge involontariamente da anello di una catena
senza fine. Un aspetto che rende il cyberbullismo ancora più drammatico
è che della vittima si conosce tutto, mentre il cyberbullo può agire nel più
completo anonimato e continuare a infierire impunemente sulla vittima
che, totalmente disarmata, poco o nulla potrà contro il persecutore e/o
la diffusione dei contenuti sul web. Anche se sono in elaborazione mezzi
per ottenere il “diritto all’oblio”, la cancellazione totale di questi eventi
dalla rete è, in sostanza, impossibile e, in ogni caso, chiunque abbia con-
servato l’informazione nel proprio hard-disk, può, in qualsiasi momento,
rimetterla in rete. Gli effetti psicologici che questi eventi possono provo-
care sono drammatici, quando non tragici: la vittima tenderà a evitare i
contatti sociali, s’isolerà, la sua autostima sarà profondamente lesa, po-
tranno manifestarsi sintomi d’ansia e depressivi, uso e abuso di sostanze,
ideazione e attuazione di comportamenti autolesivi fino anche al suicidio
(come abbiamo visto nel Cap. XX).
Qualche volta qualcuno si ribella e denuncia: Martina, 13 anni, colpe-
vole di “aver fatto la spia” alla professoressa su di un furto, riceveva via
WathsApp il messaggio «Ora però devi suicidarti, hai capito?» da parte del
gruppo “FacciamolaMorire”: ha chiesto aiuto e si è salvata.

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Xxi. La trappola di internet 267

Cyberstalking

Del fenomeno dello stalking abbiamo accennato a proposito del-


l’Amore malato nel Cap. XI, citando gli esempi recenti di due donne co-
raggiose, Lucia Annibali e Gessica Notaro, vittime di ex partner che le
hanno deturpate con l’acido perché «non dovevano essere di nessun altro»,
step immediatamente precedente a quello del femminicidio.
Com’è noto, lo stalking è un comportamento che interferisce pesan-
temente con la vita di chi ne è vittima, e può anche nascere come mani-
festazione, talvolta gradita, di gelosia o, più semplicemente, d’interesse.
È per la gradualità di progressione che lo stalking non è riconosciuto e,
probabilmente, sottovalutato: i primi litigi e le prime percosse, seguite da
spergiuri che «non accadrà più»1, sembrano quasi artifici per rendere più
gratificante la riconciliazione, mentre sono, in realtà indicatori precoci di
violenza di genere.
Oggi lo stalker, al pari del bullo, si è armato di potenti strumenti infor-
matici ed è diventato cyberstalker, sempre più invasivo e subdolo: spesso
è un timido, incapace di manifestare alla donna il proprio interesse/inna-
moramento, che agisce nell’ombra, protetto dall’anonimato, aumentan-
do, se possibile, i timori di un comportamento malato.

Nel febbraio del 2017 è stata aperta una pagina Facebook che invitava a usare violenza
a Bebe Vio, la campionessa paraolimpica di scherma. La pagina, dopo ripetute segna-
lazioni da parte di utenti di Facebook e la denuncia del Codacons2 all’Autorità giu-
diziaria, è stata rimossa. Sono state avviate anche indagini per individuare i soggetti
responsabili e adottare gli eventuali provvedimenti sanzionatori.

Il cyberstalker si caratterizza spesso per l’assenza di relazioni, per


l’inaccessibilità alla dimensione dell’intimità e dello scambio emotivo e
questo lo porta a una ruminazione ossessivo-sentimentale e persecuto-
ria fino, talora, al delirio erotomanico. La compromissione qualitativa
dell’interazione sociale è legata al deficit nelle abilità empatiche e quindi
all’incapacità di decodificare le intenzioni altrui, di intuire, comprendere,
condividere pensieri, sentimenti, emozioni e vissuti del prossimo e di ri-
spondere in modo appropriato. L’approccio interpersonale è maldestro e
il comportamento inappropriato. Il mancato raggiungimento dell’obiet-

1 Spesso le donne cadono nell’inganno scambiando, con grande ingenuità, i soprusi del

partner per segnali d’amore: è la classica sindrome di Desdemona (vittima della gelosia del marito
Otello – vedi Cap. I).
2 Codacons - Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli
utenti e dei consumatori.

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268 La verità sulla menzogna

tivo esaspera le ruminazioni e la ricerca ossessiva, portando lo stalker a


condotte contrarie alle norme sociali.
Dobbiamo comunque tener sempre presente che se ci sono carnefici
è perché ci sono le vittime: bullismo e stalking (e le loro cyber-varianti)
prosperano finché le vittime continuano a non denunciare, rendendosi in
qualche modo “complici” della violenza stessa.

Hate speech
Nel capitolo precedente abbiamo accennato al fatto che la rete sia ca-
pace di scatenare gli istinti peggiori, abbiamo visto come possa porta-
re soggetti, sottoposti alla gogna mediatica, al suicidio, o, come nel caso
dell’episodio di Vasto, si siano scatenati su Facebook, per un malinteso
senso di giustizia, “cori” a favore o contro i protagonisti di quella tragica
storia: un gruppo in particolare ha rinfocolato lo spirito di vendetta del
marito della vittima, rimasto vedovo a breve distanza dal matrimonio,
sostenendolo anche dopo l’omicidio su un sito dalla denominazione elo-
quente, “La giusta vendetta”.
Siamo all’apoteosi dell’hate speech, il linguaggio dell’odio (o di incitamen-
to all’odio), che, oltre al cyberbullismo e al cyberstalking, si esprime con il
revenge porn, cioè la diffusione online di immagini intime, rapporti sessua-
li, stupri, senza il consenso della vittima o addirittura per vendetta (come
capita talora quando una relazione sentimentale viene interrotta unilate-
ralmente), il sexting (invio di materiale di varia natura a sfondo sessuale), il
grooming (adescamento di minori), l’incitamento all’odio (raziale e non), le
violenze verbali e altro ancora. Tutti comportamenti diretti contro soggetti
più deboli (donne, bambini), o percepiti come diversi per orientamento
sessuale, religione, colore della pelle, condizioni economico-sociali. Fra i
settori in cui questi comportamenti si manifestano in maniera particola-
re, non dobbiamo dimenticare le tifoserie sportive che trovano nel web un
prolungamento del tifo da stadio più becero e violento.
Si calcola che, fra coloro che navigano in rete (in Italia sono circa 30
milioni), oltre un terzo sia stato più o meno violentemente attaccato, of-
feso, insultato, denigrato in varie maniere, ma sono molti di più (forse i
due terzi) se si considerano anche coloro che si sono imbattuti, magari
sporadicamente, in mail, blog, video, immagini, offensive o violente.
È diventato un comportamento ampiamente diffuso quello di scarica-
re la rabbia, l’odio, l’intolleranza, la violenza, coperti dall’anonimato della
rete: tutti eroi sapendo di non correre rischi poiché ancora non abbiamo
alcuna legge ad hoc e, anche se ci fosse, possiamo immaginare le difficoltà

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della sua applicazione. Secondo una recente indagine SGW (2017), il 15%
degli intervistati ammette di conoscere direttamente persone (amici, fa-
miliari, conoscenti) che creano e condividono hate speech e un altro 15%
ammette di frequentarle solo online.
L’hate speech ha una diffusione virale, si diffonde rapidamente in tutto
il mondo poiché trova con estrema facilità supporter che fanno da cassa
di risonanza amplificandone la diffusione e, spesso, aggiungendo ulteriori
espressioni di odio e di violenza e includendo fra le vittime nuovi soggetti.
Imbattersi nell’hate speech, anche senza esserne oggetto, suscita senti-
menti di disagio, di fastidio, di amarezza, d’imbarazzo, quando non moti
di rabbia, in parte sostenuti dall’evidenza che ben poche sono le voci che si
levano contro questa barbarie e pochissime quelle autorevoli. Chi si trova
a esserne oggetto non può che sentirsi isolato, indifeso, non trovando ade-
guato appoggio nei gestori dei social network – ancora molto lenti a inter-
venire (quando intervengono!) – e nella giustizia che, comunque, non ha,
come abbiamo detto, strumenti legislativi adeguati. È diffusa anche la paura
che, intervenendo, ci si possa esporre e diventare vittime a propria volta di
questi moderni “untori” dell’odio le cui capacità sono probabilmente so-
pravvalutate, come dimostrano chiaramente la qualità degli insulti e delle
violenze perpetrate e i bersagli contro cui sono generalmente diretti.
È ragionevole chiedere alle forze dell’ordine e al legislatore di inter-
venire efficacemente, ma è altrettanto ragionevole chiedere ai gestori dei
social network un’azione più decisa di filtro contro queste espressioni di
inciviltà. Un primo passo potrebbe essere consentire al solo proprietario
di postare sul proprio sito e cancellare tempestivamente (se non preven-
tivamente) interventi chiaramente violenti, offensivi, istiganti all’odio e/o
al crimine. La prima prevenzione è tuttavia quella dell’utente, che deve
essere cauto nell’affidare ai social informazioni personali.

Blue Whale Challenger


La blue whale, la balena azzurra, si suicida in silenzio lasciandosi spiag-
giare.
Nel Blue Whale Challenger sarebbero gli adolescenti “reclutati” per
partecipare a un “gioco” o, più esattamente, a una “sfida mortale”, a sui-
cidarsi, precipitandosi “volontariamente” dall’edificio più alto della città.
Nel maggio 2017 ha suscitato clamore un servizio televisivo delle Iene,
in cui era messo in relazione con questo “gioco” il suicidio di un ragazzo
di 15 anni, per precipitazione dall’ultimo piano di Il Grattacielo, l’edifi-
co più alto della sua città, Livorno. Il servizio, con il supporto di filmati

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270 La verità sulla menzogna

con scene cruente, sosteneva che il suicidio fosse da ricondursi al Blue


Whale Challenger, comparso verso il 2013 in Russia, dove, nell’ultimo
anno, ben 157 adolescenti si sarebbero suicidati, lanciandosi dal più alto
edificio della città. Il gioco si sarebbe poi diffuso anche in altri Paesi, fra
cui Inghilterra, Francia, Italia, Brasile. Poco meno di un mese dopo, le
Iene ammettevano che i filmati trasmessi erano falsi, ma intanto avevano
suscitato notevole clamore e allarme sociale.
L’arresto in Russia del presunto ideatore del gioco, il ventiduenne stu-
dente di psicologia, Philipp Budeikin – detto “lis”, la volpe –, ha forte-
mente contribuito a dare alla storia della Blue Whale una sorta di patente
di realtà. Philipp Budeikin, adesso sotto processo, accusato del suicidio di
quindici adolescenti, dopo l’arresto, si è mostrato tutt’altro che pentito:
«Un giorno capirete tutti e mi ringrazierete» ha detto «Ci sono le persone e gli
scarti biologici. Io selezionavo gli scarti biologici, quelli più facilmente mani-
polabili, che avrebbero fatto solo danni a loro stessi e alla società. Li ho spinti
al suicidio per purificare la nostra società. Ho fatto morire quegli adolescenti,
ma erano felici di farlo. Per la prima volta avevo dato loro tutto quello che
non avevano avuto nelle loro vite: calore, comprensione, importanza».
Secondo la stampa, gli adolescenti che aderivano al gioco dovevano
sottostare a regole precise: non confidare mai a genitori o ad adulti di
partecipare al gioco, pena diffamazione, abusi virtuali e anche morte; cin-
quanta prove da superare, da quelle più semplici, come guardare un film
horror al buio e da soli, a quelle sempre più impegnative, come autofla-
gellazione o incidere una balena sul proprio corpo, fino all’ultima, il suici-
dio lanciandosi da un edificio alto abbastanza da garantire la morte dopo
averlo annunciato sui propri social con una balena azzurra o con la parola
“fine” e facendosi filmare mentre ci si lancia nel vuoto.
Genitori, familiari, amici, compagni di scuola hanno concordemente
sostenuto di non aver notato niente di particolare nei comportamenti di
questi ragazzi: qualcosa di inusuale, come andare a correre in piena notte
o guardare film dell’orrore, era stato giustificato con la partecipazione a un
gioco online. Nessuno ha notato segni di depressione o cambiamenti com-
portamentali. E anche il giorno del suicidio si erano comportati secondo le
loro abitudini: «Ha fatto quello che faceva ogni mattina», hanno riferito.
A leggere le regole del “gioco”3 sembrerebbe impossibile che nessuno

3 Riportiamo, a titolo di esempio, alcune delle regole del Blue Whale Challenger (vedi il Gior-
nale.it):
1 - Incidetevi sulla mano con il rasoio “f57” e inviate una foto al curatore
2 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e guardate video psichedelici e dell’orrore che il curatore vi
invia direttamente

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Xxi. La trappola di internet 271

avesse notato qualcosa: solo dopo che è stata data pubblicità al caso, com-
pagni, genitori, insegnanti, hanno incominciato a notare i segni tipici del
“gioco”. Sul problema dell’autenticità del Blue Whale Challenger ci sono
comunque punti ancora oscuri.

Dipendenza da internet

L’uomo è un animale che sviluppa facilmente dipendenza, cosa che, di


per sé, non è un male, anzi, è un meccanismo fisiologico, adattativo, che ha
contribuito alla sopravvivenza della specie. Siamo dipendenti dalle nostre
abitudini, dal cibo e persino dalle persone che amiamo. Questa attitudine,
però, diventa patologica quando i pensieri sull’oggetto da cui dipendiamo
diventano intrusivi e trasformano quello che era un piacevole aspetto della
vita in una necessità imprescindibile, al centro dei nostri interessi, in un
pensiero ossessivo di cui non siamo in grado di liberarci: che si tratti di
comportamenti maladattivi (gioco d’azzardo, shopping) o di sostanze (al-
col, droghe), si tenderà a farne un uso crescente fino a cadere nell’abuso.
Naturalmente si diventa dipendenti da ciò di cui possiamo disporre.
La dipendenza dall’alcol è antica quanto il mondo perché le bevande alco-
liche sono state scoperte assai presto, mentre quella da sostanze “esotiche”
esiste solo da quando sono iniziati i grandi viaggi che hanno permesso di
scoprirne l’esistenza e il potenziale economico. La società del benessere è
caratterizzata da molte dipendenze che nascono dall’abbondanza di in-
venzioni, di scoperte e di merci circolanti: non sappiamo più muoverci
senza l’auto e siamo vittime dello shopping.
Negli ultimi vent’anni qualcosa di assolutamente nuovo è entrato nelle

3 - Tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli,
poi inviate la foto al curatore
5 - Se siete pronti a “diventare una balena” incidetevi “yes” su una gamba
10 - Dovete svegliarvi alle 4.20 del mattino e andare sul tetto di un palazzo altissimo
11 - Incidetevi con il rasoio una balena sulla mano e inviate la foto al curatore
12 - Guardate video psichedelici e dell'orrore tutto il giorno
14 - Tagliatevi il labbro
17 - Andate sul tetto del palazzo più alto e state sul cornicione per un po’ di tempo
18 - Andate su un ponte e state sul bordo
19 - Salite su una gru o almeno cercate di farlo
26 - Il curatore vi dirà la data della vostra morte e voi dovrete accettarla
27 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e andate a visitare i binari di una stazione ferroviaria
28 - Non parlate con nessuno per tutto il giorno
dalla 30 alla 49 - Ogni giorno svegliatevi alle 4.20 del mattino, guardate i video horror, ascoltate
la musica che il curatore vi manda, fatevi un taglio sul corpo al giorno, parlate a “una balena”
50 - Saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.

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272 La verità sulla menzogna

nostre vite, si sono resi disponibili strumenti elettronici molto versatili,


capaci di connetterci e interagire, tramite il web, con tutto il mondo in
tempo reale. Si tratta di dispositivi che, dandoci la possibilità di soddisfare
tutte, o quasi, le nostre esigenze e i nostri capricci, hanno inevitabilmente
creato un nuovo disturbo, la dipendenza da internet (internet addiction
disorder – IAD) che, per instaurarsi, prevede l’esistenza di fattori di su-
scettibilità individuale predisponenti che producono cambiamenti com-
portamentali e che sono modulati da fattori ambientali: gli attuali dipen-
denti da internet un secolo fa sarebbero stati verosimilmente tabagisti,
alcolisti o giocatori d’azzardo.
Al pari di ogni altra dipendenza, la rete diventa il perno della vita del
soggetto, che sviluppa sintomi cognitivi e comportamentali, quali bisogno
incontrollato di aumentare il numero di ore trascorse online, irritabilità o
disforia se si è interrotti, sintomi di astinenza (irritabilità, ansia, tristezza)
in mancanza dell’uso. Col tempo l’attività online smette di essere fonte di
piacere ma, pur desiderandolo, l’utente non sarà in grado di cessarla, con
gravi ripercussioni sulla vita sociale e lavorativa (divorzio, interruzione
degli studi, licenziamento).
La gravità di questa nuova dipendenza è emersa tragicamente intorno
agli anni 2000, quando alcuni giovani videogiocatori asiatici morirono
per essere rimasti più giorni online, rinunciando a mangiare e dormire
pur di non interrompere l’attività al computer. Circa dieci anni dopo,
il disturbo da gioco su internet entrava nella classificazione dei disturbi
mentali quale modalità di gioco eccessiva e prolungata (anche più di 10
ore al giorno).
Oggi i big dell’economia mondiale sono le aziende che ruotano intorno
al settore informatico, dall’hardware al software, ai videogiochi, alle piat-
taforme social, alle applicazioni per ogni esigenza immaginabile. Team
di superesperti lavorano alla creazione di prodotti sempre più appetibili,
primi fra tutti i giochi, capaci di favorire i meccanismi della ricompensa
(rewarding), di stimolare il circuito del craving (desiderio impulsivo) con
il conseguente aumento dell’uso, e l’immersività4 per favorire l’evasio-
ne, la sensazione di vivere, tramite il gioco, una realtà alternativa a quella
reale, fino all’identificazione con il personaggio.
Molte sono le trappole della rete, complici l’anonimato, la facile acces-
sibilità, l’immediatezza della ricompensa – in un “click”! – come lo shop-
ping compulsivo online, la cybersex addiction e, non ultimi, i social net-
work, che sembrano ormai il canale privilegiato per mantenere i contatti

4 L’immersività è un aspetto della realtà virtuale che dà la sensazione di assorbimento e di

“immersione” sensoriale nell’ambiente del videogioco.

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Xxi. La trappola di internet 273

sociali tanto che è considerato disadattivo il loro non uso. Per non parlare
della funzione di gratificazione e di stimolo del “mi piace” di Facebook o
dei follower di Twitter, che inducono ad aumentare i contenuti condivisi,
e a spendere sempre maggior tempo online. Le relazioni tra utenti di que-
ste piattaforme sono, erroneamente, ritenute prive di ripercussioni sulla
vita reale, meno dannose, tanto che si può arrivare a preferire a quelle
reali le amicizie virtuali che rappresentano invece un reale isolamento.
Interessati in quanto ci fanno intravedere la possibilità di uno sviluppo
futuribile del software informatico sono due film, uno risalente addirittura
al 1980, in cui, con approccio diverso, umoristico il primo, drammatico/
sentimentale il secondo, viene affrontato il problema della dipendenza da
computer.

Premonitore dei possibili effetti paradossali del rapporto uomo/computer (sotto for-
ma di robot) è il film di Alberto Sordi del 1980, Io e Caterina, in cui un robot tuttofare
dalle fattezze femminili, Caterina, finisce per sottomettere ai propri voleri il maschili-
sta Melotti (Sordi) che l’aveva acquistato.
Melotti, che considera le donne solo per ciò che possono dargli (affetto, sesso e pre-
stazioni lavorative), è in difficoltà con tre donne della sua vita, la moglie, la segretaria-
amante e la domestica Teresa. Durante un viaggio in America, scopre che l’amico Artu-
ro ha risolto i suoi stessi problemi con il robot Caterina, che svolge alla perfezione tutte
le faccende al costo di un po’ di energia elettrica: una sola cosa lo lascia perplesso, una
sorta di apprensione del robot nei confronti di Arturo, tipica di una compagna umana,
ma non gli dà peso.
Tornato in Italia, si trova nuovamente invischiato nelle beghe delle tre donne e de-
cide di rompere i rapporti con loro e di acquistare (anche se a caro prezzo) un robot
Caterina. Tutto sembra andare per il meglio finché, durante una visita della ex moglie,
il robot dà strani segni di inquietudine; qualche tempo dopo, Melotti invita a casa una
giovane molto bella, Elisabetta (Edwige Fenech), nei confronti della quale Caterina si
mostra ostile al punto che, quando i due decidono di passare la notte insieme, perde il
controllo, mette a soqquadro la casa e tenta, addirittura, di uccidere il suo padrone.
Viene chiamato l’ingegnere costruttore, al quale Caterina, che ha ormai sviluppato
un’autonomia pressoché totale, si mostra tranquilla e remissiva per evitare che le ven-
ga sostituito qualche componente; ma rimasta sola col proprietario, detta la proprie
condizioni: lei lo servirà alla perfezione, solo se lui avrà per lei il rispetto e la dedizione
dovute a una donna vera. E quando una ragazza conosciuta in America gli chiederà di
ospitarla, lui dovrà opporle un energico rifiuto a scanso di guai con Caterina.

Fra le diverse chiavi di lettura di questa sorta di apologo, ci sembrano


particolarmente interessanti sia quella della dipendenza dagli strumenti
elettronici che può portare all’isolamento, sia il maschilismo, messo in
scacco da un robot-donna che si fa rispettare, sia, infine, il rischio che,
in futuro, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale raggiunga livelli tali da
mettere quanto meno a rischio il rapporto uomo/macchina.

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274 La verità sulla menzogna

Molto intrigante è la storia di “dipendenza da computer” – in questo caso addirittura


da software – che ci racconta Spike Jonze nel film Her (Lei) del 2013.
Theodore Twombly è uno scrittore solo e introverso, che scrive lettere per altri det-
tandole al computer e sta divorziando da Catherine. Attratto da uno spot pubblicitario
acquista un nuovo sistema operativo “OS 1”, basato sull’intelligenza artificiale e capa-
ce di evolvere adattandosi alle esigenze dell’utente. Durante l’installazione sceglie una
voce e un’interfaccia femminile e il sistema, una volta avviato, si dà il nome Samantha.
Affascinato dalle capacità di Samantha di apprendere, di imparare a conoscere le sue
esigenze, di mostrare uno sviluppo psicologico, Theodore instaura con lei un legame
sempre più forte, le parla della vita e dell’amore e del sofferto divorzio da Catherine.
Mentre Theodore condivide le proprie emozioni con Samantha, lei gli confida le emo-
zioni, sempre più complesse e profonde, che sperimenta e il loro rapporto finisce per
sfociare in una vera e propria relazione nella quale sperimentano qualcosa di simile al
sesso telefonico.
Un’amica, Amy, gli confida di avere una profonda amicizia con un sistema “OS 1”
femminile e scopre inoltre che molti utenti del sistema hanno sviluppato una profon-
da sintonia con quel sistema.
Samantha si scopre gelosa delle altre donne poiché hanno un corpo reale e convince
Theodore ad avere una relazione con una ragazza, Isabella, che si presta a impersonare
Samantha, in modo da avere un rapporto sessuale vero, ma lui tronca ben presto il
rapporto perché vive la ragazza come un’estranea. Dopo qualche tempo Samantha gli
rivela di aver conosciuto un “OS 1” modellato su un filosofo britannico e gli chiede
se può parlare anche con lui, Theodore acconsente ma si scopre geloso. Un giorno
che Samantha non gli risponde all’auricolare e Theodore entra nel panico, ma tutto
si risolve quando lei gli spiega che stava eseguendo un aggiornamento che lei e altre
intelligenze artificiali avevano sviluppato autonomamente per utilizzare appieno le
loro potenzialità. Preoccupato per la possibile perdita dell’esclusività del rapporto le
chiede se interagisce anche con altri esseri umani e lei ammette di stare comunicando
con 8.316 individui e di aver incominciato ad amare 641 di loro, rassicurandolo, però,
che queste relazioni non interferiscono con l’amore che prova per lui.
Alla fine gli confessa che i sistemi operativi si stanno evolvendo e intendono allonta-
narsi dagli umani, ormai del tutto incompatibili con l’enorme velocità di elaborazione
e di evoluzione delle intelligenze artificiali, per cui tristemente si dicono addio e Sa-
mantha scompare definitivamente dal computer di Theodore.

Hikikomori
Verso la fine degli anni ’80, il Giappone andò incontro a una grave crisi
economica e parallelamente si incominciò a osservare un fenomeno che
colpiva quasi esclusivamente giovani. Lo psichiatra Tamaki Saito [162] lo
definì “Hikikomori”, termine che significa “isolarsi”, “stare in disparte”,
poiché la caratteristica comune era rappresentata da una volontaria esclu-
sione sociale, un isolamento totale all’interno della propria casa, senza con-
tatti né con l’esterno né con gli stessi familiari. Inizialmente il fenomeno fu

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Xxi. La trappola di internet 275

attribuito a una ribellione nei confronti della cultura tradizionale e dell’ap-


parato sociale che non riusciva a trovare soluzioni efficaci alla crisi econo-
mica, limitando così le prospettive future dei giovani. Poiché negli stessi
anni si stava sviluppando rapidamente la tecnologia informatica e questi
giovani comunicavano quasi esclusivamente tramite internet e occupavano
una parte del loro tempo in chat, con videogiochi (oltre che leggendo e
girovagando per casa), senza frequentare la scuola o cercare un lavoro, fu
anche ipotizzato (erroneamente) che questo comportamento fosse in qual-
che modo assimilabile alla dipendenza da internet (o da videogiochi) o che
potesse trattarsi di una sindrome culturale (come il “karoshi”, il suicidio
per troppo lavoro). Il fenomeno si è poi diffuso anche nei paesi occiden-
tali – Italia compresa5 – soprattutto con l’avanzare della crisi economica,
anch’essa presa in considerazione come possibile causa ma che, in realtà,
esercita un semplice ruolo di slatentizzazione.
Lo studio approfondito di questo comportamento non ha portato a con-
clusioni definitive poiché, all’interno del quadro generale dell’isolamento e
dell’evitamento di ogni contatto sociale, si possono evidenziare quadri cli-
nici assai eterogenei. Una parte di essi è rappresentata da soggetti con una
marcata sensibilità al giudizio e alla critica ed estrema difficoltà a gestire le
relazioni interpersonali; scarsamente tolleranti alle frustrazioni, finiscono
con l’adottare condotte di evitamento sociale sempre più estese. Nell’in-
staurarsi del comportamento possono giocare un ruolo importante espe-
rienze di rifiuto interpersonale: non a caso frequentemente è presente un
appiattimento affettivo, un’indifferenza verso gli stimoli esterni che ricorda
lo stato di ottundimento (numbing) dei soggetti affetti da disturbo post-
traumatico da stress, che in questi casi si sarebbe sviluppato in risposta a
microtraumi multipli, come traumi sociali ripetuti (ad esempio bullismo).
In un certo numero di soggetti è presente un evidente dismorfofo-
bia (vedi Cap. XVIII), cioè un’eccessiva preoccupazione per difetti fisici,
in realtà lievi o praticamente irrilevabili, con difficoltà nel mostrarsi al-
l’esterno; iniziano, magari, con il saltare la scuola, e questo fa scattare sen-
timenti di sconfitta, di colpa, tematiche di autosvalutazione che andranno
ad accrescere le difficoltà ad affrontare l’ambiente esterno ogni giorno di
più, innescando un circolo vizioso autoperpetrantesi.
Possiamo aggiungere il problema della dipendenza economica dalla

5 In Italia, solo recentemente si è incominciato a prestare attenzione clinica a questo feno-

meno che, in precedenza era semplicisticamente bollato come pigrizia o indolenza o considerato
il prodotto di una bizzarria culturale delle nuove generazioni, dal nome esotico, quasi un atteg-
giamento messo in atto volontariamente. Forse si riferiva a questi giovani che avevano difficoltà
ad adattarsi a un contesto sociale ed economico complesso il ministro Tommaso Padoa Schioppa
quando, nel 2007, diceva «Mandiamo i “bamboccioni” fuori di casa».

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276 La verità sulla menzogna

famiglia e la necessità di vivere all’interno di essa: al fine di limitare le re-


lazioni anche con i familiari, questi soggetti vagano per casa solo di notte
e dormono durante il giorno e finisce che le uniche possibilità di evasione
(e di realizzazione?) rimangano libri, fumetti, serie tv o videogiochi e che
possa effettivamente innescarsi un uso patologico di internet.
Nei casi a prognosi meno favorevole, l’Hikikomori può essere il pro-
dromo di un disturbo grave, con evoluzione verso un quadro psicotico
franco, perdita di contatto con la realtà e tematiche di autoriferimento
o di persecuzione, più o meno strutturate, spesso scatenato da abuso di
sostanze psicoattive.
Studi recenti, infine, hanno ipotizzato che, un discreto numero di pa-
zienti, possa avere alla base del disturbo, sintomi dello spettro autistico
con disagio nelle relazioni interpersonali – verso le quali vi sarebbe un
rapporto ambivalente tra desiderio e indifferenza –, deficit comunicativi
e di comprensione delle emozioni altrui, che renderebbero loro difficile
mantenere rapporti sociali stabili e duraturi.
In sintesi, dietro quelle che troppo spesso vengono superficialmente
considerate difficoltà di adattamento a un contesto sociale ed economico
complesso da parte dei giovani, si può celare un disturbo psichico a diffe-
renti livelli di gravità, che necessita di particolare attenzione clinica.

La realtà virtuale

Era il 1994 quando Michael Crichton [52] pubblicò Disclosure (Rivela-


zioni), un romanzo nel quale il protagonista, Tom, riusciva a dimostrare
la propria innocenza, mediante l’impiego di un prototipo di macchina
della realtà virtuale, nei confronti della falsa accusa della ex fidanzata,
Meredith, di aver tentato di usarle violenza sessuale. All’epoca sembrava
quasi fantascienza, oggi è una realtà anche se perfettibile.
La realtà virtuale è il tentativo di rendere l’interazione con i nuovi me-
dia il più possibile simile a quella che abbiamo con il mondo reale. In un
ambiente tridimensionale generato dal computer, il soggetto è l’interfaccia
con cui interagiscono altri soggetti o oggetti. La realtà virtuale può essere
“non immersiva” e, in questo caso, utilizza un monitor nel quale il soggetto
ha l’impressione di vedere, come in una sorta di finestra, il mondo tridi-
mensionale creato dal computer, con il quale interagisce per mezzo di un
joystick. Si parla di realtà virtuale “immersiva” quando, attraverso speciali
tecniche, l’individuo è circondato da – e coinvolto in – informazioni per-
cettive simulate digitalmente.
La realtà virtuale ha molteplici applicazioni, dai simulatori di volo o di

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Xxi. La trappola di internet 277

guida, alla simulazione di interventi chirurgici, ma ha anche applicazioni


terapeutiche, particolarmente nel campo della riabilitazione psicomoto-
ria o nel disturbo d’ansia sociale, simulando l’esposizione in vivo, – ma
eliminando i più importanti ostacoli presenti nel mondo reale –, in modo
da ridurre l’ansia provocata dalle situazioni reali corrispondenti.
Problemi con la realtà virtuale possono verificarsi con l’immersione
in videogiochi violenti e cruenti da parte di soggetti molto influenzabili,
con tratti di personalità abnormi. Costoro potrebbero identificarsi con il
protagonista, “assuefacendosi” ai comportamenti criminali virtuali, ab-
bassando così il livello di critica e di giudizio morale e rendendoli perciò
pericolosi nella vita reale. Tecniche di realtà virtuale vengono utilizzate,
infatti, nell’addestramento di corpi militari speciali.
Un caso particolare di realtà virtuale è Second Life – SL. Fondata nel
2003 dalla Linden Lab., è una comunità virtuale, in un mondo virtuale,
tridimensionale, nella quale si può condurre una vita simile a quella reale
(Real Life, RL). Per le sue peculiarità e i suoi effetti, Second Life è stata
oggetto di numerosi studi.
Ogni utente si crea un Avatar attraverso il quale interagisce con gli
Avatar degli altri utenti, i quali si incontrano, creano rapporti sociali,
possono svolgere attività di gruppo, fidanzarsi e sposarsi, vivere in epo-
che diverse e molto altro ancora. Si possono creare attività, svolgere un
vero e proprio lavoro, creare servizi, contenuti audiovisivi (guadagnando
i diritti d’autore), fare affari, guadagnare soldi (i Linden Dollar che posso-
no essere scambiati con dollari o euro reali). Dal 2007 è stata introdotta
la possibilità di comunicare direttamente con la voce e così è possibile
parlare e ascoltare gli altri Avatar.
Il proprio Avatar è vissuto come se fosse il proprio corpo, con i suoi
aspetti emotivi e cognitivi, anche se non del tutto controllabili. Al di là
dell’Avatar rimane
la menzogna del mezzo, la solitudine del reale, i fraintendimenti e le idea-
lizzazioni, con le delusioni, i dolori, la rabbia e le depressione che le sotten-
dono [12].
In Second Life si possono provare emozioni, passioni, coinvolgimenti
che le regole e i limiti della Real Life generalmente non consentono. Nella
menzogna di Second Life si possono sperimentare, con estrema facilità,
nuove occasioni in termini di identità, di condizioni socio-economiche,
di età (più giovani o più vecchi del reale), ma è una menzogna di cui dob-
biamo riprendere coscienza non appena spengiamo il computer.
Collocandosi in una sorta di “terra di mezzo” in cui la differenza fra
realtà e fantasia viene attenuata, sfuocata, mascherata, dalla presenza di

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278 La verità sulla menzogna

immagini indipendenti da quelle soggettive, la realtà virtuale, con il pas-


saggio dal reale all’immaginario e, in uscita, dall’immaginario al reale,
può creare nei soggetti un’instabilità psichica, una sorta di sdoppiamento
nel quale Second Life può apparire come una vera seconda vita e non una
finzione. Come per internet in generale, ancor più per Second Life, in con-
siderazione delle gratificazioni che il soggetto ne può ricavare, il rischio di
dipendenza è piuttosto elevato.
Passare delle ore davanti al video, rinunciando a una relazione reale con il
mondo circostante, in Second Life si verifica quella che possiamo chiamare
la “vera menzogna”, e cioè che il soggetto dipende dal contenuto degli eventi
che da fantastici diventano reali, vissuti realmente e quindi, dagli avveni-
menti vissuti come Avatar. Il soggetto vive, piange, si arrabbia, e arriva a
sviluppare sofferenza e sintomi psicopatologici che originano dal vissuto di
Second Life [12].
Quella che Young [197] ha definito come dipendenza cyber-relazionale.
Per dare un’idea di questo disturbo riassumeremo Il caso di Marco,
riportato da Bani e Miniati [12].

Marco, quarantottenne, coniugato con un figlio sedicenne, diplomato, impiegato alle


Poste, con tratti anancastici che, in situazioni di maggiore stress, diventano veri e pro-
pri sintomi ossessivo-compulsivi.
Da alcuni mesi ha preso a interessarsi a internet, a frequentare chat e Facebook; da
circa sei mesi si è iscritto a Second Life e da quattro mesi “vive” con la “sua donna” in
Second Life: «Passiamo giornate molto belle, le sto molto vicino e lei dimostra di amar-
mi». Un giorno lei gli ha detto che sta perdendo troppo tempo in Second Life, che in
Real Life ha due figlie piccole di cui deve occuparsi, e ha deciso, perciò, di non poter
più continuare a frequentarlo: Marco è andato in crisi «Come fa improvvisamente [...]
a non amarmi più? Se c’è un tasto per spengere il nostro amore lo insegni anche a me.
[Il mio] Avatar, bello o brutto che sia, l’ho costruito io e quindi ci sono realmente. Se-
cond Life è la nostra vita... non possiamo distruggerla così. Che senso ha?»
Ha incominciato a non dormire, si è arrabbiato con la “sua donna” (in Second Life)
perché nelle situazioni sociali parla con gli altri lasciandolo solo «Non che mi tradisca
o altro [...] ma ha fatto notare chiaramente a tutti che ha una simpatia verso un altro...
poi si è allontanata senza giustificazione dal locale lasciandomi solo. [...] sto pensando
di lasciarla... ma vivere da solo... come faccio? [...] alcuni mesi fa sono andato in depres-
sione per la sua decisione di non incontrarci per qualche tempo [...] sono a un passo da
lasciare la mia donna [in Second Life] e niente in questa vita [in Real Life] può conso-
larmi... io le voglio troppo bene».
Pur cosciente che si tratta di una cosa fittizia, prova un autentico sentimento di
angoscia come se la consapevolezza di sé fosse svanita.

Così è se vi pare!

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Xxii. Verità e post-verità (post-truth)

La verità è potente e prevarrà.


Non c’è niente di male in questo.
A parte il fatto che non è vero.
(Mark Twain, Comportati bene
e resterai solo, 2014)

Nel 1992, lo scrittore e sceneggiatore Steve Tesich, in un articolo pub-


blicato sulla rivista The Nation, scriveva, riferendosi allo scandalo Iran-
Contra e alla Guerra del Golfo,
noi, in quanto popolo libero, abbiamo liberamente deciso di voler vivere in
un mondo post-vero (post-truth).
Quasi 25 anni dopo, gli Oxford Dictionaries1, che registrano l’evolu-
zione della lingua e il suo uso attuale, hanno scelto post-truth come la
parola dell’anno 20162 avvertendo che, come ben si ricava dal contesto
dell’articolo di Tesich, essa non deve essere intesa come “in seguito alla
scoperta della verità”.
La traduzione in italiano, post-verità, ha perso il significato originale
di locuzione aggettivale, e il prefisso “post-” non ha qui un significato
temporale ma di superamento, quindi non “dopo la verità” ma “di là della
verità” o “oltre la verità”: in altri termini, irrilevanza della verità o, come
suggerisce La Crusca3, superamento, annullamento della verità.
Sempre più spesso, vengono affermate, con molta enfasi e con grande
clamore, verità che hanno forte presa sul pubblico giocando sugli aspetti
emotivi piuttosto che su quelli razionali, verità enunciate come assiomi,
che influenzano molto l’opinione pubblica, ma che, alla fine, quando han-
no già esplicato il loro effetto, si rivelano come “non-verità”. Ci siamo

1 Gli Oxford Dictionaries sono diversi dall’Oxford English Dictionary (OED) che illustra
come le parole e i loro significati sono cambiati nel corso del tempo.
2 La decisione degli Oxford Dictionaries è dovuta al fatto che l’impiego di questa parola è
cresciuto, nel 2016, del 2000%.
3 L’Accademia della Crusca, fondata nel 1583, è la più importante e prestigiosa istituzione

linguistica italiana il cui impegno è volto alla difesa della purezza della lingua.

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280 La verità sulla menzogna

spesso lamentati, almeno in Italia, al tempo della prima repubblica, del


linguaggio cauto, sommesso, che diceva e non diceva, quello un po’ crip-
tico delle convergenze parallele di Aldo Moro4, quello in cui la lineetta
tra “centro” e “sinistra” (centro-sinistra) aveva un preciso significato di
identità diverse che operavano assieme, un linguaggio, come si diceva al-
lora, democristiano, ma era un linguaggio (e un metodo) che consentiva
il dialogo con un interlocutore, certamente “avversario” ma non necessa-
riamente “nemico”.
Quei tempi, con le loro luci e le loro ombre, sono passati ed è subentra-
ta l’epoca delle opinioni gridate, delle menzogne iperboliche sparate sen-
za alcun ritegno, che rimbalzano sui media come le palline del flipper am-
plificando il loro effetto, che giocano più a livello viscerale che razionale
(talvolta verrebbe da pensare che certe notizie siano talmente incredibili
da non poter non essere vere!). Le emozioni oggi contano più dei fatti e
colpiscono più a fondo della realtà e perciò influenzano maggiormente le
nostre scelte.
Abbiamo ancora sotto gli occhi la campagna elettorale per le elezioni
presidenziali americane del 2016 che può rappresentare un esempio con-
creto ed evidente della stretta interazione fra post-verità e social network
e dei cambiamenti radicali avvenuti nel campo dell’informazione.

I due candidati, Donald J. Trump e Hillary R. Clinton, non si sono certamente ri-
sparmiati i colpi bassi, anche se quelli di Trump sono stati molto più clamorosi (e del
resto lui stesso si è definito “bullshitter”, cioè contaballe). La principale “bufala” è stata
forse quella secondo cui il Presidente uscente, Barack Obama, non sarebbe nato negli
USA (come prescrive la Costituzione), che sarebbe stato mussulmano e che, addirit-
tura, sarebbe stato “il fondatore”, assieme a Hillary Clinton, dell’ISIS (salvo dire, più
tardi – tipica post-verità! – che non intendeva “fondatore” in senso letterale, ma che,
lasciando l’Iraq rapidamente, aveva creato un vuoto che era stato occupato dai ter-
roristi) [188]. Trump ha speculato su una presunta malattia della rivale e sulle storie
extraconiugali del marito, Bill Clinton, ha minacciato di farla incriminare per l’affaire
delle email5 e altre amenità.

4 Aldo Moro, giurista, è stato un esponente politico della Democrazia Cristiana (di cui è

stato anche segretario politico); ha fatto parte dell’Assemblea Costituente, per due volte Presidente
del Consiglio, fu rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo. Era
stato il protagonista della cosiddetta “strategia dell’attenzione” nei confronti del Partito Comunista
Italiano che portò al governo di “solidarietà nazionale”, guidato da Giulio Andreotti, che includeva
anche quel partito: quel governo si presentava alle Camere proprio il giorno in cui Moro fu rapito.
5 Nei quattro anni in cui era segretario di Stato americano, Hillary Clinton ha usato sempre e
solo il suo indirizzo personale di posta elettronica anche per la corrispondenza di lavoro: in questo
modo, le autorità federali non hanno potuto acquisire i registri delle sue comunicazioni professio-
nali, come da prassi per chi ricopre incarichi pubblici, e questo potrebbe configurarsi come una
violazione della legge.

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Xxii. Verità e post-verità (post-truth) 281

Ma oltre alle accuse, infondate e dirette, ha avuto un ruolo importante la pseudo-


informazione prodotta e circolata sui social network. Un sito americano di informa-
zione e di inchieste giornalistiche, Buzzfeed, ha monitorato l’andamento dell’informa-
zione negli ultimi tre mesi della campagna elettorale e ha rilevato che i venti articoli
più importanti sull’argomento, pubblicati sui più quotati media americani (New York
Times, Washington Post, NBC News, Huffington Post) hanno prodotto poco più di set-
te milioni di condivisioni, reazioni, commenti sui social network, mentre, nello stesso
periodo, le venti fake news pubblicate da finti siti d’informazione hanno generato qua-
si nove milioni di interazioni. È evidente che le false “verità” erano/sono più intriganti
della “banale” cronaca e destano maggiore interesse e curiosità, si diffondono molto
rapidamente fino a raggiungere milioni di utenti, una parte dei quali (pochi? tanti?) le
riterranno vere. Basti pensare alla “notizia” che Hillary Clinton, quando era al diparti-
mento di Stato, avrebbe venduto armi all’ISIS, o a quella secondo cui Papa Francesco
avrebbe espresso il suo sostegno alla candidatura di Donald Trump, o che Barbara
Bush, vedova di George H.W. Bush e madre di George W. Bush, entrambi presidenti
repubblicani, avrebbe invitato le donne a non votare per Trump.
A nulla sono valse le pressanti richieste ai gestori dei social network di intervenire
per indicare agli utenti quali fossero le notizie attendibili e quelle false: Faceboock e
Twitter hanno sostenuto che i loro social non sono veri e propri media e che i contenu-
ti delle loro piattaforme sono di proprietà degli utenti. In realtà questa posizione è solo
apparentemente legittima perché i social ricavano tanti più profitti quanto maggiore
è la diffusione dei loro contenuti. E, come abbiamo visto, le notizie più “appetibili”, e
quindi più redditizie, sono quelle false!

Ha vinto Donald Trump? Formalmente sì, in pratica hanno vinto la


disinformazione, la violenza verbale, il becerume che hanno raggiunto i
massimi livelli e, dato il contesto, la massima evidenza.

I punti salienti della campagna elettorale di Trump sono stati: costruire un muro al
confine con il Messico, deportare due milioni d’immigrati illegali, abolire la riforma
sanitaria di Obama, ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, abolire la
legge sulle nozze gay, rompere alcuni accordi commerciali internazionali, dichiarare
guerra commerciale alla Cina e approvare un decreto fiscale per diminuire le tasse
della classe media al 35%.
A meno di un mese dalla sua elezione, ha dichiarato di voler mantenere gli aspetti
fondamentali della riforma sanitaria, che in alcune parti del confine con il Messico
può essere sufficiente una recinzione più che un muro, che espellerà solo gli immigrati
senza documenti, che sta ripensando al problema del clima, che le nozze gay sono
già regolate da una legge e, inoltre, che non cercherà di mandare in galera la Clinton.
Tutto questo apparentemente in stile post-verità: menzogne e annunci clamorosi per
ottenere un risultato e, una volta ottenutolo, fare marcia indietro, ridimensionare.
Ma non è andata proprio così. Non appena insediato alla presidenza, non solo ha
continuato il suo bombardamento di twitter aggressivi come quelli della campagna
elettorale, ma sono partiti a raffica ordini esecutivi che hanno distrutto praticamente
tutto ciò che Obama aveva fatto in otto anni di presidenza. Ha confermato il muro

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282 La verità sulla menzogna

con in Messico (che intende far pagare al Messico stesso attraverso dazi doganali);
ha bloccato da un momento all’altro l’accesso agli Stati Uniti ai migranti (ma anche
ai cittadini che lavoravano per gli USA, come gli interpreti) provenienti da sette Paesi
islamici6 e di religione mussulmana (sono previsti test agli aeroporti) e questo ha crea-
to non pochi problemi agli aeroporti nei quali queste persona stavano per imbarcarsi;
ha annullato le delibere di Obama sugli oleodotti in aree protette; ha annullato accordi
economici internazionali con l’intento di sostituire gli accordi di libero scambio con
accordi bilaterali nei quali, evidentemente, il peso del mercato USA è più forte; ha
praticamente imposto agli industriali di produrre solo negli USA pena pesanti dazi
doganali.
Alcuni di questi “ordini esecutivi” sono stati bloccati dalle agenzie federali; l’abo-
lizione della riforma assistenziale di Obama è stata bloccata dal Congresso; l’accordo
economico tra Stati Uniti, Canada e Messico non è stato abolito; è entrato in “rotta
di collisione” con la Corea del Nord e altro ancora: sarà interessante (speriamo non
drammatico) vedere come evolverà questa presidenza, sia a livello interno che estero,
tenendo conto della rete di sottili e precari equilibri costruiti nel secondo dopo guerra
e soprattutto con la fine della guerra fredda.

Abbiamo fatto riferimento alle elezioni americane come esempio per-


ché è quello in cui i due fattori, post-verità e social, hanno avuto un ruolo
determinante, ma lo stesso si può dire per la Brexit, il referendum di qual-
che mese prima per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. È
opinione di molti analisti che sull’esito del voto abbia avuto un peso non
marginale lo slogan diffuso dai fautori della Brexit secondo il quale la Gran
Bretagna avrebbe risparmiato i 350 milioni di sterline al mese che spende-
va come contributi alla UE (fake news) fondi che avrebbero potuto essere
investiti nella sanità pubblica: dopo la vittoria del “Sì” è stato chiarito che
la Gran Bretagna non versa quei soldi alla UE e che, comunque, la Brexit
non avrebbe comportato alcun aumento dei fondi per la sanità pubblica.
Ma anche in Italia, fatte le debite proporzioni, non siamo da meno in
questa chiassosa, sguaiata, post-verità di cui potremmo fare molti esempi
a partire, per non andare troppo lontani, dai famosi “Vaffa days”7 e poi
giù giù attraverso le sbracature di molti esponenti della classe politica nei

6 Fra questi Paesi non è inclusa l’Arabia Saudita, di rigida osservanza Salafita, con cui gli USA
hanno rapporti economici e politici molto stretti e coperti da impenetrabili segreti, come dimostra-
no gli eventi politici e bellici che hanno avuto il Medio Oriente come teatro principale. Da questo
Paese, inoltre, proveniva la maggior parte degli attentatori delle Twin Towers del 2001.
7 Nel settembre 2007, Beppe Grillo, un comico che si era dato alla politica e che due anni
dopo, assieme a un imprenditore del web, Gianroberto Casaleggio, fonderà un movimento politico,
il Movimento 5 Stelle, iniziò, partendo da Bologna, una serie di manifestazioni di piazza contro i
politici e la classe politica, denominate Vaffanculo day o V-Day «Una via di mezzo tra il D-Day dello
sbarco in Normandia e V come Vendetta. [...] per ricordare che dal 1943 non è cambiato niente. Ieri il
re in fuga e la Nazione allo sbando, oggi politici blindati nei palazzi immersi in problemi “culturali”».

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Xxii. Verità e post-verità (post-truth) 283

comizi, nei dibattiti, nei blog, nei social network ecc. In realtà, i fatti non
hanno più voce, ormai contano solo le post-verità che vellicano l’emotivi-
tà, la rabbia, lo scontento, la sfiducia della gente.
Il recente referendum sull’approvazione o meno della riforma della Costituzione (4
Dicembre 2016) ha portato anche a un lievitare di interventi sui social che possono
essere definiti come veri e propri linciaggi mediatici. Pochi sono stati gli interventi
civili, razionali, in cui veniva analizzata la legge in discussione dibattendo sui conte-
nuti, in genere si amplificava, distorcendolo, qualche aspetto marginale associandovi
la salvezza o la rovina del Paese, ma soprattutto si chiamavano in causa personalmente
gli avversari (o, meglio, nemici, visti i toni usati) con argomenti lontani dall’oggetto
del contendere e con espressioni ed epiteti al limite della querela.
Tanto per citarne alcuni, un presidente di Tribunale ha paragonato su Facebook chi
vota “Sì” ai repubblichini di Salò; la firmataria della riforma, il Ministro Maria Elena
Boschi, ha paragonato i sostenitori del “No” ai neonazisti di CasaPound; quando un
giornale autorevole, per lo più straniero, si schierava per una delle due opzioni, quelli
della fazione opposta gridavano che “i poteri forti” (quali?) stavano con il nemico;
Beppe Grillo ha definito “serial killer” i sostenitori del “Sì”, ha paragonato Matteo
Renzi a una scrofa ferita e ha minacciato di denunciarlo per il reato di “abuso di cre-
dulità popolare”. Sul web sono circolate anche altre bufale, dalla presunta scelta della
moglie di Renzi di votare “No”, al ritrovamento di migliaia di schede già contrasse-
gnate con il “Sì”, all’affermazione (scherzosa?) di D’Alema che «la Madonna è per il
No»; il “Comitato per il No” ha preventivamente denunciato per brogli il presidente
del Consiglio nel caso in cui i “Sì” nel voto degli italiani all’estero fossero stati determi-
nanti per la vittoria (e Renzi è stato fortunato perché, avendo vinto il “No”, ha evitato
una denuncia!); e addirittura a urne aperte, un noto cantautore rock, Piero Pelù, ha
denunciato (subito smentito) che le matite usate per votare non erano indelebili, come
avrebbero dovuto essere.

Fake news che rimbalzano vorticosamente sul web (e sappiamo quanto


ogni “rimbalzo” frutti ai gestori dei social) che sono diventate “virali” – si
dice che Gianroberto Casaleggio avesse affermato: «Ciò che è virale è vero».
Fake news che, per il loro effetto, confondente e destabilizzante, incomin-
ciano a preoccupare i governi che meditano di mettere la rete – e quindi
tutti noi – sotto controllo. Non ci consola la consapevolezza che niente di
tutto ciò sia nuovo, che non sia un’invenzione della contemporaneità: Plu-
tarco, nel I secolo d.C., sosteneva: «Calunnia senza timore: qualcosa rimane
sempre attaccato»8.
L’uso spregiudicato dell’informazione e della disinformazione è dun-

8 “Audacter calumniare, semper aliquid haeret”. In italiano il detto popolare è “Calunniate,


calunniate; qualcosa resterà” e deriva dal francese “Calomniez, calomniez; il en restera toujour quel-
que chose”, frase pronunciata da Don Basilio, personaggio della commedia “Il barbiere di Siviglia”
(1775) di Pierre-Augustin de Beaumarchais, messa in musica nel 1816 da Gioacchino Rossini. Il
brano è riportato al cap. IV.

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284 La verità sulla menzogna

que cosa antica, la manipolazione della verità a fini politici esiste da sem-
pre. Fino a epoca recente, l’accesso all’informazione è stato limitato dalla
scarsità dei mezzi di comunicazione e dal basso livello culturale di gran
parte della popolazione. Solo nella seconda metà del secolo scorso, il livel-
lo di scolarizzazione è nettamente aumentato, gli strumenti di comunica-
zione di massa hanno avuto un’ampia diffusione e, soprattutto nell’ultimo
quarto di secolo, sono diventati accessibili alla maggior parte dei cittadini.
Questi cambiamenti hanno ampliato enormemente l’accesso all’informa-
zione e, parallelamente, ne hanno abbassato il livello di qualità al punto
che, nel generale appiattimento, la differenza è legata alla reazione emo-
tiva, al clamore, alla sorpresa, che un’informazione suscita negli utenti.
Per di più, non solo è cresciuto a dismisura l’accesso all’informazione, ma
tutti, potenzialmente, possiamo essere fonti di informazione indipenden-
temente dalla nostra conoscenza del tema e questo ha esponenzialmente
accresciuto la Babele informativa: forse a questo si riferisce il detto «Dio
toglie prima il senno a colui che vuole mandare in rovina»9.
E tutto senza alcun filtro, vuoi per una questione di principio (la pro-
prietà dei contenuti che girano sulle piattaforme dei social è degli utenti
e non dei gestori), vuoi perché più le informazioni circolano maggiore è
il guadagno10. Chi viene preso di mira, non ha interesse a replicare per
mantenere la cosa il più possibile limitata.

Calunniate, calunniate... verso la fine di novembre 2016 (quando ormai le elezioni


presidenziali americane si erano già tenute) è stata pubblicata su Facebook una foto
di Obama assieme a un rapper, DJ Khalid, e nella didascalia si diceva letteralmente:
«Il Presidente Obama si è incontrato con il leader dell’ISIS per discutere dell’introdu-
zione della Sharia negli U.S.A. prima di lasciare la carica» e molti dei commenti dava-
no credito a questa bufala accusando addirittura coloro che chiarivano l’identità del
personaggio fotografato assieme al Presidente, di essere dei liberals che cercavano di
proteggere la reputazione di Obama.

Così come la post-truth si è guadagnata la menzione di parola dell’an-


no 2016, qualcosa di simile è accaduto circa dieci anni fa con un’altra
parola, che entrò nella selezione delle parole dell’anno (2006) dell’Ameri-
can Dialect Society. Anche questa parola, “truthiness”11, ha a che fare con

9 Quos Deus perdere vult, dementat prius.


10 Qualcosa sembra iniziare timidamente a muoversi: recentemente Twitter ha chiuso alcuni
account della destra alternativa (Alt-Right) americana per i contenuti pieni di commenti razzisti,
antisemiti, intolleranti.
11 È una parola intraducibile in italiano. L’American Dialect Society (Gennaio 2006) l’ha defi-

nita come la qualità dei concetti o dei fatti che uno vorrebbe fossero veri, piuttosto che concetti o fatti
che sappiamo essere veri.

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Xxii. Verità e post-verità (post-truth) 285

la verità. Non ha un equivalente in italiano e può essere tradotta come


“verità di pancia”. La parola fu coniata nel 2005 da un comico della TV
americana, Stephen Colbert12, che la definì come
la verità che si avverte nel profondo, nell’intestino. Non la trovate nei libri i
quali sono tutti fatti e senza cuore... È assoluta e può essere infallibilmente
conosciuta dall’intestino di Stephen Colbert [...] è quello che tu vuoi siano i
fatti piuttosto di ciò che i fatti sono; quella che senti come la risposta giusta
piuttosto di quella che corrisponde alla realtà [...] ciò che una persona af-
ferma di sentire intuitivamente o “di pancia” indipendentemente da prove,
logica, valutazione razionale o dai fatti.
Questa definizione, in quel contesto, era riferita ad alcune scelte di
George W. Bush junior, allora Presidente degli Stati Uniti, e in particolare
alla decisione di invadere l’Iraq nel 2003 e alla nomina di Harriet Miers
alla Corte Suprema. Quanto all’invasione dell’Iraq, Colbert sosteneva che
«mancavano alcuni pezzi alla spiegazione razionale della guerra» e che
Bush aveva preso questa decisione perché «sentiva» che Saddam doveva
essere cacciato dall’Iraq; quanto alla Miers, che secondo Colbert era as-
surdo anche solo pensarla adatta a quella carica, Bush aveva giustificato
la sua scelta come «sentita», non valutando il suo cervello: «Conosco il suo
cuore», avrebbe affermato. Il termine truthiness ebbe un certo successo
tanto che, come abbiamo detto, entrò nella selezione delle parole dell’an-
no (2006) dell’American Dialect Society. Parte di questo successo fu do-
vuto alla presidenza di George W. Bush durante la quale vi furono diverse
circostanze in cui le decisioni presidenziali apparivano scarsamente mo-
tivate e pertanto alcuni giornalisti le definirono con questo neologismo13.
In conclusione, poiché il consenso è alla base della società libera e de-
mocratica ed è legato all’informazione, dobbiamo riflettere seriamente
sulla sua qualità. I potenti strumenti su cui corre oggi, si stanno rivelando
sempre più vulnerabili, facili prede di chiunque, in buona o cattiva fede,
ritenga di avere delle verità da diffondere, senza che nessuno sia in gra-
do – o abbia il potere e l’autorità – di operare un minimo filtro. Finiamo
così per essere vittime di soggetti che, protetti dall’anonimato, inquina-

12 Stephen Colbert coniò questa parola nel primo episodio della serie televisiva “The Colbert

Report” (Ottobre 2005).


13 Sono state considerate truthiness la nomina di Samuel A. Alito (considerato membro della

Hamilton Society, un’organizzazione ultraconservatrice) a Giudice della Corte Suprema dopo le


dimissioni della Miers, la gestione dell’uragano Katrina, che devastò New Orleans nell’Agosto 2005
(che secondo i puritani ultraconservatori era stato mandato da Dio per punire la città per i suoi
costumi corrotti e che la responsabilità era dei meteorologi che non avevano previsto il percorso e
l’intensità dell’uragano) e altro ancora.

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286 La verità sulla menzogna

no pesantemente l’informazione, facendo leva sulla credulità della gente,


sulla difficoltà dell’utente medio, sommerso dalle notizie, di selezionarle
razionalmente finendo col cadere preda della truthiness, della verità “di
pancia”, o della post-truth.
Il rischio che corriamo, in mancanza di correttivi fisiologici, democra-
tici, è di assistere a una loro imposizione dall’alto, magari attraverso una
qualche forma di censura.

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Xxiii. Alla ricerca della verità perduta:
fact-checking

Per quante volte una menzogna possa essere dimostrata falsa,


c’è sempre una percentuale di persone che la riterrà vera.
(Arthur Bloch, La Legge di Murphy,1988)

Possiamo difenderci dalla post-verità? E ristabilire la verità? E questo


cambierebbe qualcosa?
L’enfasi posta sulla post-truth era, potrebbe indurre a pensare che
quella precedente fosse l’era della “verità”: non è così, non dobbiamo far-
ci ingannare dalle parole, un’era della verità non è mai esistita, le fake
news non sono affatto una novità. Fra i tanti esempi, possiamo citare la
donazione di Costantino, su cui si fondò il potere temporale dei papi, i
Protocolli dei Savi di Sion, degli inizi del XX secolo, che divennero la “pro-
va” della cosiddetta cospirazione ebraica o la foto del mostro di Lockness.
La novità, semmai, sta nell’ampiezza della platea cui, grazie a internet e ai
social media, le bufale si diffondono.
Ma andiamo con ordine. Il mondo (almeno quello occidentale) è in
preda a una crisi economica dalla quale stenta a uscire pur ricorrendo a
interventi eccezionali – per tutti, la riduzione quasi a zero dei tassi d’inte-
resse per stimolare una ripresa che tarda a venire –; a una crisi di credibili-
tà politica, di cui sono espressione il populismo dilagante e l’antieuropei-
smo diffuso; a una crisi di leadership che, con l’avvicinarsi di un periodo
di elezioni in vari Paesi, mette in dubbio anche leadership che fino a ieri
godevano di credibilità e di stabilità; a una crisi di paura diffusa sia per
i sanguinosi attentati di marca islamista che colpiscono l’Europa e non
solo, sia per l’inarrestabile afflusso di migranti che, se da un lato sollevano
problemi umanitari di accoglienza, dall’altro incrementano il timore che
con loro possano arrivare potenziali terroristi.
Proprio in questo contesto, il popolo del web ha scoperto di avere un
potere enorme grazie al libero accesso all’informazione: non solo può
scaricare la propria rabbia, ma anche intorbidare le acque diffondendo
falsità, offese, calunnie nella quasi sicurezza dell’impunità: tutti possono
mettere in rete fake news senza alcun controllo, attivando processi difficil-
mente controllabili e dagli esiti imprevedibili. L’ampiezza della platea cui

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288 La verità sulla menzogna

oggi arrivano le bufale comporta, in termini probabilistici, che sia sempre


maggiore il numero di chi è disposto a recepirle come vere, in particolare
se rispondono più o meno approssimativamente ai propri stereotipi e ai
propri pregiudizi. E pensare che Marc Bloch [21] si meravigliava della
mole di falsità che circolava in tempo di guerra (la prima guerra mondia-
le) evidentemente grazie al solo passaparola!
E una volta che la fake news ha iniziato il proprio cammino, ogni
smentita è inutile, se non controproducente poiché arriva necessariamen-
te quando ormai l’impatto emotivo c’è già stato; spesso la smentita non
viene pubblicata e, se lo è, ha sempre un rilievo minore rispetto a quello
dato alla falsa notizia; in ogni caso finisce per rafforzarne il ricordo che,
nella marea di informazioni che circolano, si sarebbe, altrimenti, rapida-
mente sbiadito.
Il boom della post-verità ha sollevato un grande polverone che ha fatto
perdere il senso della realtà. Certamente le fake news hanno accompagna-
to e influenzato gli eventi politici di cui abbiamo fatto cenno ma, secondo
molti osservatori, l’effetto, probabilmente non è stato determinante. Sa-
rebbe ingenuo pensare che gli inglesi si siano fatti condizionare in massa
dalle bufale sui fondi che l’Inghilterra avrebbe versato alla Comunità Eu-
ropea e che non fossero coscienti del fatto che la Brexit avrebbe rappre-
sentato un costo economico per loro, ma certamente, nella scelta, hanno
prevalso ragioni ideologiche e sociali di altro tipo – per esempio, subito
dopo il referendum, l’Inghilterra ha finanziato la costruzione del muro di
Calais per impedire, o limitare, l’accesso dei migranti nel Paese1.
Anche gli americani non sono così sprovveduti da prendere per veri
gli annunci reboanti di Trump e, durante la campagna per le presiden-
ziali, ha pesato certamente di più il voto della classe economicamente più
svantaggiata, più in crisi (come ha poi dimostrato l’analisi dei risultati),
che ha votato contro la Clinton perché esponente dell’establishment con-
siderato da molti responsabile della crisi stessa, e a favore di Trump che,
pur con le sue tonitruanti sparate, prometteva lavoro. Questo, più che
la vicenda delle e-mail o della presunta malattia della Clinton o dell’ha-
ckeraggio russo, ha giocato a favore di Trump. A pesare è stato il diffuso
malcontento e il non particolare carisma dei due contendenti. Dobbiamo
anche considerare, comunque, che la Clinton, nonostante tutte le fake
news, ha avuto circa due milioni di voti più di Trump e ha perso solo per
le particolarità del sistema elettorale americano.
Anche in Italia, in occasione del referendum sulla riforma costituzio-

1 Allo stesso modo con cui Paesi balcanici (e non) hanno costruito muri alle loro frontiere
per impedire l’accesso ai migranti.

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Xxiii. Alla ricerca della verità perduta: fact-checking 289

nale, non sono mancate bufale e aggressioni verbali nei confronti di chi
l’aveva proposta con il risultato che molti non hanno votato valutando
il merito della riforma, bensì il Presidente del Consiglio (pro o contro
Renzi). Infatti, fra i più accesi sostenitori del “No” al referendum c’erano,
oltre alla minoranza del suo stesso partito, i partiti dell’estrema destra,
quella destra “contro” la quale, nel 1948, era stata scritta la Costituzione
con il preciso scopo di prevenire nuove dittature e perciò troppo ricca di
meccanismi di controllo tanto da rendere quasi ingovernabile il Paese.
Insomma, dobbiamo concludere che la verità è morta? Forse si do-
vrebbe dire che non è mai nata – o è nata male. Proprio gli effetti, veri
o presunti, della post-truth sui principali eventi politici di cui abbiamo
detto, hanno suscitato notevole allarme nel mondo sociopolitico al punto
che tutti reclamano sistemi capaci di smascherare le fake news ristabilen-
do l’obiettività dei fatti. Proprio per ridare vita alla verità o per tentare
di ristabilire una certa obiettività si è assistito a nobili iniziative, di cui
alcune probabilmente peggiori del male che dovrebbero curare. Così, ad
esempio, è stato chiesto ai principali gestori dei social network di filtrare
le notizie che circolano sulle loro piattaforme, censurando quelle false,
ottenendo netti rifiuti. D’altra parte chi e con quale autorità dovrebbe
sceverare il vero dal falso tra i miliardi di informazioni che circolano sul
web? Chi può decidere se sono vere quelle di destra o quelle di sinistra?
I gestori dei social non hanno questo obbligo, vivono e prosperano sulla
circolazione dell’informazione (cui associano la pubblicità) e, com’è noto,
le bufale, più sono clamorose, più circolano e più portano guadagni. Ab-
biamo visto in più occasioni quanto sia difficile far rimuovere dai social
contenuti (drammaticamente) virali nonostante l’intervento anche della
magistratura.
Qualcuno ha proposto la creazione di Agenzie sopranazionali per
combattere la diffusione in rete di fake news. A costoro si potrebbe sug-
gerire, prima di tutto, di ripensare allo scandalo dello “spionaggio elet-
tronico” della National Security Agency (NSA), messo sotto accusa, dopo
che, nel 2013, Edward Snowden, un dipendente di un’azienda informati-
ca che lavorava per la NSA, rivelò i programmi di sorveglianza di massa
del governo statunitense, che comprendevano anche le comunicazioni di
governi alleati, suscitando le loro più vivaci proteste. Sul piano pratico,
si dovrebbe riflettere sui problemi tecnici e pratici che un’impresa di tal
genere comporta: a giudizio dei più abili informatici, è praticamente im-
possibile definire un algoritmo capace di cogliere tutte le infinite sfuma-
ture tra verità e falsità in lingue, contesti e culture diverse, per cui i falsi
positivi e i falsi negativi finirebbero per fare più confusione che chiarezza.
Costoro, evidentemente, pensano che le fake news siano una minaccia per

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290 La verità sulla menzogna

la democrazia, che la “verità” la si trovi soltanto sulla stampa e sulle reti di


Stato e che gli utenti siano incapaci di giudicare con la propria testa quale
sia la verità: sembra si siano dimenticati delle censure di Stato dei regimi
dittatoriali del secolo scorso che hanno fornito a Orwell [141] il modello
del suo Grande Fratello e del suo Ministero della Verità deputato alla mi-
stificazione dell’informazione. Non per fare l’elogio della menzogna, ma
va riconosciuto che le bufale, le mezze verità, le teorie complottiste della
politica non hanno mai messo in pericolo la democrazia, cosa che ha fatto
invece la “verità unica”. L’unica cosa che possiamo fare è intervenire su
ciò che ha una rilevanza penale anche facendo leggi ad hoc se necessario.
Nel tentativo di contrastare la post-truth, da qualche anno sono com-
parsi sul web numerosi siti di fact-checking (verifica dei fatti) che pubbli-
cano puntualmente la versione corretta delle principali bufale che circola-
no in rete. Attività altamente lodevole ma i cui effetti sono limitati e poco
incisivi, non solo perché i dati veri arrivano quando le persone sono già
state “contagiate” da quelli falsi, ma soprattutto perché l’uomo è portato
a cercare il confirmation bias (pregiudizio di conferma), cioè l’aderenza
delle informazioni agli stereotipi e ai pregiudizi del suo gruppo sociale.
Infatti, ciascuno di noi ha un proprio “universo” informativo che prende
vita molto precocemente nel corso dell’inculturazione, allorché assorbe
le regole, le leggi, le convenzioni che la famiglia e il gruppo sociale di cui
fa parte gli trasmettono. Se le accetta diventerà a pieno titolo membro
di quel gruppo, se non le accetta (per motivi legati a conflitti familiari
e/o sociali), aderirà a un gruppo sociale concorrente e, per farsi accettare,
ne diverrà strenuo paladino per farsi “perdonare” il “peccato originale”.
Nascerebbe da lì il cosiddetto pregiudizio di conferma, cioè la tendenza a
considerare vere le informazioni che ci confermino nelle nostre idee pre-
concette, e false le altre. È per questo che la maggior parte delle persone
acquista un solo giornale2, ascolta un solo telegiornale e se qualche volta
cambia telegiornale o compra il giornale di una tendenza politica diver-
sa dalla sua, lo fa soprattutto per criticare, per vedere come giustificano
eventuali errori o sconfitte, sempre e comunque per rafforzare le proprie
convinzioni. Per questo pregiudizio, le notizie vere o false e le loro smen-
tite, tendono a circolare all’interno di cerchie tra loro poco comunicanti
per cui chi crede in una notizia falsa difficilmente viene a conoscenza del-
la smentita e, se ne viene a conoscenza, la ritiene poco credibile perché in

2 Per diversi decenni, nel secondo dopoguerra, era cosa abituale, quasi uno stereotipo, vedere
i militanti del Partito Comunista che esibivano come un simbolo, nella tasca della giacca, la copia
del giornale di partito, l’Unità, ripiegata in modo che si potesse leggere la testata. La stessa cosa non
si vedeva praticamente mai con i militanti di altri partiti e il loro giornale di riferimento.

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Xxiii. Alla ricerca della verità perduta: fact-checking 291

contrasto con ciò che la sua cerchia ritiene vero o falso: ciascuno di noi,
infatti, non valuta una notizia di per sé ma in funzione di altri fattori non
solo personali (credenze, ideologie ecc.) ma anche sociali, cioè della fidu-
cia in chi fornisce la notizia e di quanto essa sia condivisa.
Ci saremmo potuti aspettare che l’avvento della rete, con un’offerta
d’informazione molto ricca, eterogenea e facilmente accessibile, potesse
cambiare i comportamenti delle persone: non è stato così. Si è osservato,
invece, il fenomeno delle echo chambers (casse di risonanza), spazi auto-
referenziali in cui si ha a che fare con persone che la pensano allo stesso
modo – per cui le informazioni, le credenze, le idee, vengono amplifica-
te, rinforzate dalla comunicazione ripetitiva – e nei quali opinioni e idee
differenti o contrastanti vengono censurate. È anche per questo che, non
solo ognuno tende a frequentare siti che rispondono alle proprie idee e
non rischiano di metterlo in conflitto con se stesso, ma gli stessi motori di
ricerca, una volta individuate le preferenze del soggetto, gli proporranno
altri siti, altri blog dello stesso tenore tendendo così a chiuderlo in echo
chambers.
D’altra parte è ben nota la tendenza degli individui a non mettere in
discussione i propri pregiudizi, a non cambiare opinione anche davanti
all’evidenza, mossi come sono dalle emozioni più che dalla ragione. È
ormai evidente che le persone hanno trovato nei social uno strumento
attraverso cui esprimere il proprio disagio nei confronti di una politica
che è sempre più distante dalla realtà sociale.
In passato, volenti o nolenti, erano i media a scegliere quali informa-
zioni darci, i giornali secondo le linee di partito, la televisione che dosava il
minutaggio delle presenze, la gerarchia degli interventi e dei contenuti3
organizzata in funzione della linea editoriale (governativa o antigoverna-
tiva). Oggi che l’informazione circola liberamente sul web e potremmo
essere in grado di scegliere quella “vera” con un semplice click, andiamo
a cercare, invece, qualcuno che ce la indichi! Forse non siamo maturati
con la stessa velocità con cui è cresciuta la circolazione dell’informazione.
Nell’era post-ideologica, in assenza di dogmi da seguire, senza leader
che ci guidino, sembra quasi che si siano perdute tutte le certezze. Siamo
arrivati a un punto critico in cui è il numero che fa la verità: cento, mille
cittadini senza alcuna preparazione specifica che sostengono l’efficacia di
una cura “Di Bella” o “Stamina” o che i vaccini causano l’autismo, conta-

3 Un escamotage classico per amplificare le notizie o le interviste coerenti con la linea edito-
riale e sminuire quelle contrarie, era il cosiddetto sandwich: si collocavano, cioè, all’inizio e alla fine
le notizie o le interviste coerenti e si metteva in mezzo quella contraria che veniva così per perdere
evidenza e colpire di meno.

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292 La verità sulla menzogna

no più di pochi esperti che sostengono, documentatamente, il contrario.


È vero che in democrazia la politica si fa con i numeri e, come qualcuno
[153] ha detto, «i voti si contano, non si pesano», ma la politica è fatta
di opinioni, la scienza di fatti. Il fact-checking dovrebbe essere dirimente
nella scienza, in cui le cose “sono” o “non sono”, e invece oggi anche la
scienza è messa in discussione: se i fatti contraddicono le convinzioni che
ci siamo formati navigando nel web (o forse volando sul web senza mai
atterrare per approfondire), allora sono i poteri forti, le multinazionali,
la finanza, che con le loro oscure trame cercano di soffocare la verità. E
se il fact-checking funziona poco nella scienza, come potrebbe funzionare
nella politica, nel sociale, in cui, non i fatti ma le opinioni sui fatti corrono
a briglia sciolta?
Non c’è dubbio che la verità oggettiva, fattuale, abbia vita difficile,
non solo nei regimi totalitari che, per loro stessa natura, sono portati a
osteggiare i fatti, ma anche in quelli democratici nei quali il sistema rap-
presentativo richiede che si concordi fra molti sulla verità (che dovrebbe
essere unica e non concordabile!), rendendo necessario il dibattito e la
persuasione. Anche se spesso, chi mente, è più attrezzato a convincere,
può accadere che la verità prevalga, ma anche in questo caso non è una
vittoria perché non è prevalsa in quanto verità in assoluto, ma in quanto
più convincentemente o più convenientemente concordata.
Come abbiamo più volte rilevato, nella comunicazione umana han-
no sempre avuto spazio le menzogne e le mezze verità, che trovavano un
parziale compenso nella credibilità delle autorità tradizionali. In passato
la struttura sociale era molto più semplice, i ruoli più chiaramente defi-
niti, la quantità di informazione più scarsa, la partecipazione sociale più
limitata. Con l’evoluzione della società, la crescita della mobilità, degli
strumenti di comunicazione e dello sviluppo culturale molti punti fermi
sono stati messi in discussione, hanno incominciato a vacillare, aprendo
spazi crescenti di insicurezza, di sfiducia, di dubbio prima impensabili.
La rivoluzione informatica ha dato il colpo di grazia a ciò che prima
era assiomatico, precipitando tutto quanto nell’incertezza alimentata
da una quantità di informazioni che non siamo più in grado di gestire,
lontani come siamo dal possedere soluzioni alternative ragionevoli. Se
al principe di Machiavelli era possibile dare un’immagine di sé che fosse
credibile per i sudditi, tessendo nel privato i suoi inganni e le sue trame,
oggi i “prìncipi” non avendo quasi più un privato (L’imperatore è nudo!)
hanno perso la loro credibilità e hanno lasciato il cittadino, material-
mente incapacitato di formarsi delle certezze proprie, nella condizione
di scambiare la quantità per qualità conformandosi alle opinioni mag-
gioritarie, o più rumorose, o più eclatanti: sono queste, ormai, a far ten-

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Xxiii. Alla ricerca della verità perduta: fact-checking 293

denza. La pressoché totale mancanza di regole nella rete ha contribuito


ad accrescere l’incertezza, fornendo una piazza potenzialmente infinita
nella quale tutto è permesso e che tutti possono abitare anarchicamente.
La post-truth non è certo un prodotto della rete ma ha trovato nella
rete un veicolo per accreditare qualsiasi menzogna, che il fact-checking4
potrà tentare di ridimensionare solo negli spazi limitati che gli possono
concedere confirmation bias ed echo chambers.

Una storia che potremmo definire di fact-checking ante litteram è quella del cosiddetto
affaire Dreyfus, che ha avuto fra i protagonisti il famoso scrittore e giornalista Emile
Zola e che è, probabilmente, una delle prime grandi battaglie politiche combattute
attraverso i mass-media.
La drammatica sconfitta francese nella guerra Franco-Prussiana, conclusasi con la
disfatta di Sedan del primo settembre 1870 e con la resa sul campo, il giorno successi-
vo, dell’Imperatore Napoleone III, portò alla fine del Secondo Impero e alla creazione
della Terza Repubblica (4 settembre). Ma la ferita della sconfitta tardava a risanarsi
poiché i militari (prevalentemente nazionalisti e antisemiti) cercavano “il traditore”
che alla fine (dopo quattordici anni!) fu identificato in un ufficiale impiegato presso il
ministero della Guerra, Alfred Dreyfus, che ben si prestava per le sue caratteristiche –
di origine ebraica e alsaziano (l’Alsazia è terra di confine con la Germania, da sempre
contesa fra le due Nazioni) –: fu accusato, sulla base di documenti poi dimostratisi
falsi, di aver rivelato segreti ai Prussiani. Arrestato nell’ottobre 1884, dopo un giudizio
sommario fu degradato e condannato alla deportazione a vita nell’Isola del Diavolo
(Cayenna francese).
Due anni dopo, il comandante G. Picquart, nuovo responsabile dell’ufficio informa-
zioni del ministero, riaprì le indagini accusando un altro ufficiale francese, il maggiore
Esterhazy, giocatore, pieno di debiti, già in precedenza invischiato in affari loschi, che
venne però scagionato nel 1898 nonostante l’evidente somiglianza della sua calligrafia
con quella dei documenti. Nel tentativo di chiudere il caso, due giornali conserva-
tori, Le Matine e L’Éclair, pubblicano frammenti dei documenti che si rivelano un
boomerang viste le rimarchevoli differenze con la calligrafia di Dreyfus. Si creano due
schieramenti, uno a favore e uno contro Dreyfus.
Due quotidiani, L’Intransigeant e La Libre Parole, si fanno promotori di una campa-
gna contro ebrei, democratici e socialisti; intanto Picquart, con evidenti scopi punitivi,
viene trasferito in aree della Tunisia infestate da tribù ribelli. Emile Zola, che già dal
1896 aveva incominciato a pubblicare su Le Figaro articoli in difesa degli ebrei, decise
di attaccare direttamente la gerarchia militare e politica, facendo nomi e cognomi: il
13 gennaio 1898, pubblicò sul giornale socialista L’Aurore un editoriale divenuto fa-
moso, dal titolo J’Accuse...!, una lettera aperta al Presidente della Repubblica francese,
Félix Faure, nella quale denunciava le irregolarità e le illegalità commesse nel processo
a Dreyfus. Altri giornali appoggiarono la campagna di Zola che però fu processato
e condannato per vilipendio delle forze armate, ma il suo J’Accuse...! provocò la ri-

4 Non è certo casuale che il Washington Post abbia chiuso la sua rubrica settimanale di fact
checking, “What was fake this week” (“Cosa era falso questa settimana”).

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294 La verità sulla menzogna

apertura del caso che portò, nel 1906 (Zola era ormai morto da quattro anni), alla
riabilitazione di Dreyfus, al suo reintegro nell’esercito e alla concessione della croce di
cavaliere della Légion d’Honneur.

La storia di Dreyfus dimostra, se ce ne fosse bisogno, che le menzo-


gne politiche non sono affatto una novità, anche se oggi si chiamano
fake news o post-truth e che, oggi come allora, la verifica della verità, il
fact-cheking, ha bisogno di tempo per raggiungere il suo scopo... quando
lo raggiunge come in questo caso.

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Appendice tecnica

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1. La verità

La ricerca della verità


è più preziosa del suo possesso.
(Albert Einstein)

Con il termine verità (in latino veritas, in greco alétheia)1 si indica classica-
mente2
la piena e assoluta corrispondenza di qualità e di contenuto con la realtà effettiva.
In tal senso, la verità è definita in modo proposizionale, come l’accordo fra
un predicato e uno stato di cose3. Il termine, cui sono in genere collegati i concet-
ti di onestà, buona fede, sincerità, è variamente definito dagli studiosi e, in par-
ticolare, è argomento di dibattito la definizione della verità, se sia, cioè, qualcosa
di soggettivo o oggettivo, relativo o assoluto. Diverso è il caso della verità inte-
sa come affermazione o conoscenza di un concetto superiore e ideale, accettato
come basilare dal punto di vista religioso, etico, storico, che esula dall’obbiettivo
di questo saggio.
Nel tentativo di fornire dei punti di riferimento per inquadrare la verità, dob-
biamo, di necessità, chiamare in causa autorevoli filosofi, da quelli più antichi
(Socrate, Platone, Aristotele ecc.) ai più moderni (Kant, Nietzsche ecc.), e anche
i Dottori della Chiesa (Sant’Agostino, San Tommaso ecc.).
Occorre a tal proposito sottolineare la circostanza che sia il pensiero religioso
che quello laico, che hanno permeato la cultura occidentale, si sono guardati
bene dal connotare la verità come virtù assoluta. Nella catechesi cattolica non
viene annoverata tra le virtù teologali (fede, speranza e carità) e neppure tra quel-
le cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza). Il cattolicesimo (ma non
il protestantesimo) si è più dedicato ai vizi, i sette vizi capitali (superbia, avarizia,
lussuria, invidia, gola, ira e accidia) e alla loro demonizzazione. Alcuni Dottori

1 Alétheia (ἀλήθεια) è una parola greca tradotta in più maniere, come dischiudimento, sve-
lamento, rivelazione o verità. Il significato letterale della parola ἀ–λήθεια è lo stato del non essere
nascosto; lo stato dell’essere evidente e implica anche la sincerità, così come fattualità o realtà. È
interessante osservare che, per i Greci, la verità non si contrappone al falso (pseudo, ψευδής) ma
all’oblio (λήθε).
2 Sulla concezione classica della verità, e in particolare quella espressa da Aristotele [10] nel
libro III della Metafisica, Vedi Tarski [185].
3 Questa posizione filosofica è stata definita come corrispondentista [16].

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298 La verità sulla menzogna

della Chiesa, come Sant’Agostino (De mendacio e Contra mendacio), San Tom-
maso e Sant’Ambrogio, hanno invece dedicato alla verità importanti opere.
Due sono le posizioni filosofiche relative alla verità, la corrispondentista e la
relativista e, ai nostri fini, è sufficiente dire che, nel corso dei secoli, queste due
posizioni si sono incrociate più volte e anche mescolate in relazione al contesto
storico-politico del momento.
La posizione corrispondentista4, forse di più immediata comprensione e an-
che più aderente al concetto di morale comune, fa riferimento alla definizione
della verità di San Tommaso come “corrispondenza tra realtà e intelletto” (adae-
quatio rei et intellectus): una proposizione è vera solo se corrisponde a uno stato
di cose vero. Sembrerebbe una tautologia, che saremmo portati a far nostra sen-
za riserve ma, come vedremo, le cose non sono così semplici.
Secondo questa posizione, la contrapposizione vero/falso è netta sia in senso
logico (gli enunciati falsi non sono validi) che etico (mentire è sbagliato). Dal
punto di vista della conoscenza della realtà, la verità è considerata come una pro-
prietà intrinseca dell’essere: se qualcosa esiste, l’affermazione della sua esistenza
è necessariamente vera. Platone e Aristotele5 faranno proprio questo postulato e
su di esso si fonderanno non solo gran parte della filosofia successiva ma anche
scienze ben più rigorose della filosofia quale, ad esempio, il metodo scientifico
che, nella sua descrizione classica, impone, in una situazione sperimentale, la
verifica delle ipotesi, se cioè l’essere ipotizzato sia o non sia.
Non ci sono dubbi sul fatto che la definizione corrispondentista della verità
abbia un’immediata ricaduta nell’ambito della morale. E dalla morale alla legge,
il passo è breve. Infatti, come scrive de Montaigne [64]:
Poiché i nostri rapporti si regolano per la sola via della parola, colui che la falsa
tradisce la pubblica società. È il solo strumento per mezzo del quale si comunicano
le nostre volontà e i nostri pensieri, è l’interprete della nostra anima: se ci viene a
mancare, non abbiamo più nessun legame, non ci conosciamo più tra noi. Se ci
inganna, distrugge ogni scambio e dissolve tutti i vincoli della nostra società.
La posizione relativista, invece, considera la verità come un postulato del lin-
guaggio: una proposizione è vera fintantoché non se ne provi la falsità. È la po-
sizione dei sofisti, per i quali non c’è una netta contrapposizione vero/falso, ma
una “scala di grigi”, di possibilità, in rapporto alle circostanze: ad esempio, per
Machiavelli, sostenitore della tesi sofista, mentire può essere anche sbagliato ma
è necessario poiché la politica non si fa con le buone intenzioni.
I filosofi della Scuola sofistica, che avevano studiato con una raffinatezza

4 Il corrispondentismo può essere fatto risalire a Parmenide che, con il suo fondamentale
principio di non-contraddizione – L’essere è, il non essere non è –, indica la necessità di attenersi a
una corrispondenza fra ciò che esiste (l'essere) e ciò che si dice (espresso dal verbo “è”).
5 Su questo principio si fonda la definizione di Platone secondo cui è vero il discorso che dice
gli enti come sono e falso quello che dice come non sono. Allo stesso modo, Aristotele [10], in accordo
con Parmenide, afferma che dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che
è che è, o di ciò che non è che non è, è vero.

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Appendice tecnica - 1. La verità 299

impareggiabile il linguaggio, ritenevano che la logica di Parmenide fosse valida


quando si devono verificare affermazioni semplici, come «Il vaso è sul tavolo»,
ma fosse fallace di fronte ad affermazioni complesse e, per dimostralo, fecero
ricorso al paradosso del cretese (o del bugiardo).

Si narra che Epimenide, cretese, avesse affermato «Tutti i cretesi sono bugiardi»: essendo lui
cretese, avrebbe dovuto essere bugiardo e di conseguenza l’affermazione avrebbe dovuto
essere falsa; ma se Epimenide, per quanto cretese, in quella circostanza avesse detto la veri-
tà, l’affermazione sarebbe stata ugualmente falsa perché, evidentemente, non tutti i cretesi
sarebbero stati bugiardi. Come si fa, in questo caso, a dire «che è ciò che è»?
Si tratta di un’antinomia elegantissima, che nelle varie formulazioni successive – anche
matematiche – è rimasta insoluta per quasi venticinque secoli.
Sulla base di osservazioni consimili, i sofisti adottarono una posizione “più elastica” sul
problema della verità. Nei Ragionamenti Doppi6, un’opera anonima di tradizione sofistica,
si sottolinea a più riprese che non esiste una verità assoluta, valida per ogni uomo e in ogni
tempo, al massimo, si possono fare affermazioni “persuasive” e credibili.

La Scuola dei sofisti ebbe grande successo in quelle polis che adottavano siste-
mi democratici dove era importante, per aver successo in politica o nei tribunali,
saper argomentare in modo persuasivo (soprattutto se l’oggetto dell’argomenta-
re non era il massimo della verità). Per Platone, politici e avvocati non produ-
cevano buona scienza, e non condivideva l’assunto che qualsiasi affermazione
potesse essere equivalente al suo contrario: le cose erano o non erano, girarci
intorno con le parole poteva essere interessante ma non determinante. Per su-
perare ogni incertezza introdusse il concetto di idea che indica uno strato più
profondo e meno arbitrario della realtà. Studiando le idee si capisce meglio che
cosa sia “sempre vero” e che cosa sia “sempre falso”: quale che sia l’abilità di un
oratore, il triangolo avrà sempre tre lati. Questa dottrina fu ripresa, per motivi
diversi, da Aristotele7 per il quale il problema era eminentemente scientifico.
Roma, pur con qualche significativo apporto originale, adottò praticamente
in toto la filosofia greca. Se, ad esempio, Catone e Cicerone, politici e avvocati,

6 Ragionamenti doppi: dal greco Dissoì Lògoi - Δισσοὶ λόγοι.


7 Platone, che mal sopportava i sofisti, generalmente appartenenti al partito democratico,
aveva legato indissolubilmente la sua teoria delle idee con il programma politico aristocratico della
Politèia [10]. Aristotele aveva, invece, ambizioni politiche molto più limitate visto che lavorava in
una monarchia ed era precettore di Alessandro Magno. La soluzione di Aristotele [10], per il quale
il problema era come esporre un argomento vero oltre ogni ragionevole dubbio, è molto complessa,
e passa attraverso un processo di regolamentazione del linguaggio naturale, cioè la creazione del si-
stema sillogistico nella Logica, che contrastava efficacemente le argomentazioni dei sofisti, capaci di
mostrare come qualsiasi conclusione fosse relativa. Nella sua essenza, il sillogismo può essere definito
come «ragionamento nel quale, poste alcune premesse, deriva da queste, e in forza di queste, necessa-
riamente qualcosa d'altro», ad esempio, tutti gli uomini sono mortali, tutti gli Ateniesi sono uomini,
dunque tutti gli Ateniesi sono mortali. Con la Logica studiò le parti elementari della realtà (nella Fi-
sica) e le parti più complesse dell'esistenza (la Metafisica), giungendo quindi a dimostrare (con piglio
piuttosto enciclopedico) che ci sono enunciati sicuramente veri ed enunciati sicuramente falsi.

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300 La verità sulla menzogna

avevano ben appreso la lezione dei sofisti, Plinio8, scienziato, seguiva i principi
aristotelici.
Le cose cambiarono radicalmente con l’avvento del cristianesimo: religione
monoteista, non avrebbe potuto non scegliere una filosofia secondo cui ci sono
cose sicuramente vere (fra cui Dio) e cose sicuramente false (la molteplicità degli
dei); mai avrebbe potuto accettare il relativismo, per il quale «l’uomo è misura di
tutte la cose» (Protagora), e quindi della verità, della falsità e perfino della divinità!
I primi pensatori cristiani non avevano approfondito il problema della verità
e della menzogna e, anche rifacendosi all’Antico Testamento, non avevano tro-
vato elementi precisi per condannare la menzogna: è pur vero che nelle Tavole
della Legge è scritto: Non attestare il falso contro il tuo prossimo, ma questo suona
come spergiuro, piuttosto che come menzogna, e lo stesso vale per il Non dire
falsa testimonianza del Nuovo Testamento. In entrambi i Libri non viene mai
affrontato il problema se, almeno in determinate occasioni, possa essere o meno
lecito mentire, sebbene entrambi riportino episodi di menzogne e inganni che
sembrano suggerire che possa essere lecito mentire per una giusta causa9.
Fu Agostino d’Ippona, filosofo, in seguito santificato e proclamato Dottore
della Chiesa, che, avvalendosi della filosofia classica, espose la summa del pensie-
ro cristiano sulla menzogna10 in due suoi scritti (il De Mendacio [165] e il Contra
Mendacium [166]): non è la verità o la falsità delle cose in sé (rerum ipsarum veri-
tas aut falsitas), ma l’intenzione (animi sententia), a stabilire ciò che è menzogna.
Chi spaccia il falso per vero, e tuttavia ritiene d’esser nel vero, può esser definito
persona colpevole d’errore e incauta; a torto lo si dirà mentitore, poiché in ciò che
afferma non v’è doppiezza di cuore e volontà d’inganno: semplicemente egli si sba-
glia. Il bugiardo invece si propone d’ingannare nel dar voce ai suoi pensieri ed è
questa la sua colpa.
Sant’Agostino ammette la possibilità di servirsi di una bugia pietosa, onore-
vole, ma sostiene che non è lecito mentire per procurare a qualcuno la salvezza,
anteporre alla verità vantaggi temporali a sé o ad altri. Mentire è violare il co-
mandamento di Dio, Non dire falsa testimonianza, e per rafforzare questo con-

8 Plinio il Vecchio, autore di una monumentale Naturalis Historia (77 d.C.).


9 A titolo di esempio, ricordiamo Iddio che inganna Abramo inducendolo, per dimostrargli
la propria fede, quasi a uccidere suo figlio; Giacobbe che, aiutato dalla madre, inganna il padre
spacciandosi per il fratello Esaù; le nutrici egiziane che salvano i bambini ebrei; Gesù che, dopo la
resurrezione, inganna due discepoli fingendosi un’altra persona. A essere pignoli potremmo soste-
nere che la prima menzogna la pronunciò Dio stesso quando disse ad Adamo: «Tu potrai mangiare
di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare,
perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Genesi, 2, 16-17), ma quando ne mangiaro-
no non morirono, furono “solo” cacciati dall’Eden.
10 Per pura curiosità, riportiamo ciò che Sant’Agostino [167] scrive nelle Confessioni, di

quand’era bambino: «etiam talibus displicebam fallendo innumerabilibus mendaciis et paedagogum


et magistros et parentes amore ludendi, studio spectandi nugatoria» (giunsi a dispiacere persino a
quella gente con le innumerevoli menzogne usate per ingannare il pedagogo e i maestri e i genitori,
tanto era grande il mio amore per il gioco, la mia passione per gli spettacoli frivoli).

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Appendice tecnica - 1. La verità 301

cetto Gesù avrebbe detto: «Sia sulla vostra bocca il sì, sì, e il no, no. Il di più viene
dal maligno». Con il mentire, come con ogni altra violazione dei Comandamen-
ti, si perde la vita eterna e pertanto non si deve mai assolutamente mentire, nep-
pure per salvare una vita perché la salvezza dell’anima vale di più della salvezza
del corpo: poiché l’anima è superiore al corpo, all’integrità del corpo deve essere
anteposta quella dell’anima.
Se Sant’Agostino, nel definire la menzogna, dà la preminenza alla volontà di
ingannare (voluntas fallendi), San Tommaso [56] – che distingue la menzogna in
dannosa (mendacium perniciosum), detta per ingannare l’interlocutore, giocosa
(mendacium iocosum), che ha lo scopo di intrattenere, e utilitaristica (menda-
cium officiosum) tesa a ricavare un’utilità – riconosce che
l’indole della menzogna si desume dalla falsità formale, ovvero dal fatto che qual-
cuno ha la volontà di enunciare il falso.
Egli nega tuttavia che l’essenza specifica della menzogna consista nella volun-
tas fallendi, che ne sarebbe solo un segno, un effetto necessario per perfezionare
l’azione tecnica del mentire. Afferma, infine, che la menzogna è un peccato con-
tro una virtù – la verità –, e non contro la giustizia.

Il punto di vista cristiano può essere sintetizzato con l’affermazione che la verità coincide
e si esaurisce in Cristo.
Nel Vangelo di Giovanni [95] si legge:
Allora Pilato gli disse: «Dunque sei tu re?». Gesù rispose: «Tu dici giustamente che io sono
re; per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza
alla verità; chiunque è per la verità ascolta la mia voce».
Pilato gli chiese: «Che cosa è verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse
loro: «Io non trovo alcuna colpa in lui». (Giovanni,18:37-38)
In precedenza Gesù aveva detto:
«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete
veduto». (Giovanni, 14:6-7)
E ancora prima:
«Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e
la verità vi farà liberi». (Giovanni, 8:31-32)
Oltre a questo, ricordiamo che Gesù faceva precedere le proprie affermazioni più solenni
dalla formula «In verità, in verità vi dico...».

Se dal settore più teoretico della filosofia ci spostiamo agli ambiti di pensie-
ro più strettamente legati alla politica, il concetto di verità viene liquidato come
astratto e semplicistico. Esempio di questo approccio è Machiavelli, la cui caustica
e iconoclasta opera suscitò scandalo in tutta Europa11 e anche Hobbes [103], nel
suo Leviatano, non fu da meno. E se Kant [107] prescrisse la necessità di dire sem-

11 “Old Nick”, uno dei nomignoli che ancora oggi, nell’inglese colloquiale, indicano il Diavo-

lo, deriva appunto da Niccolò (Nick) Machiavelli, considerato alla stregua del Maligno in persona.

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302 La verità sulla menzogna

pre la verità, ben più flessibile su questo tema si dimostrò Hegel [100], nella sua
Fenomenologia dello Spirito12. Marx, allievo di Hegel e interessato alla politica an-
cor più del maestro, definisce la ricerca di una verità obiettiva, nel senso di corri-
spondenza fra pensiero e realtà, come una fola speculativa, di poca utilità pratica.
Interessante è la diatriba che vide Kant opposto al filosofo francese Benjamin Constant
relativamente all’affermazione di Kant [107] che mentire era sbagliato sempre, dovunque
e senza eccezioni, anche all’assassino che bussa alla porta chiedendo dov’è il vostro amico
con l’intento di ucciderlo.
Constant [108], che aveva avuto testimonianze dirette del periodo del Terrore durante il
quale “l’assassino alla porta” era stato una realtà per migliaia di famiglie, era profondamen-
te convinto delle ragioni di chi si fosse trovato a dover mentire per proteggere la propria
famiglia, se stesso o gli amici dai carnefici; dissentiva con chi ritenesse immorale qualsiasi
menzogna, nella convinzione che dire sempre e comunque la verità, inteso in termini as-
soluti, avrebbe reso impossibile ogni tipo di società. Più che condannare la menzogna, egli
enfatizzava l’opportunità di rafforzare le istituzioni sociali perché non accadesse più che le
persone fossero imprigionate e uccise sulla base di “chiacchiere malevole”.
Kant [108], naturalmente, rispose confermando di non ammettere eccezioni di sorta
alla legge morale universale che impone di dire la verità: certi principi sono più importanti
della vita di un amico.

Nietzsche, nemico di ogni idea metafisica precostituita, proclama


non è la verità, è la bugia ad essere divina [137]
alludendo con quel “divina” allo stretto rapporto fra pensiero greco classico
(Platone e Aristotele) e pensiero cristiano. L’autore de L’Anticristo aveva la fer-
ma intenzione di demolire ogni aspetto “cristiano” del pensiero occidentale e,
definendo la verità come “anti-vitale”, intendeva sottolineare come la pretesa di
certe filosofie di limitare il discorso soltanto a ciò che risulta
vero oltre ogni ragionevole dubbio, in ogni caso ed in ogni tempo
sia astrusa e, in definitiva, vanamente moralista. Per questo il suo Superuomo
(Übermensch, letteralmente “oltre-uomo”) [136] non deve lasciarsi arrestare, nella
sua azione, dal timore della menzogna, ma è invece tenuto a crearsi una propria
verità e una propria morale:
La falsità di un giudizio non può servire a noi di obbiezione contro il medesimo. La
questione è di sapere quanto tale giudizio possa giovare e influire a conservare la
vita, la specie; quanto possa essere necessario per la loro evoluzione. […] il rinun-
ziare ai giudizi falsi equivarrebbe a rinunziare alla vita, a rinnegare la vita.
Per lui, la verità come conoscenza della cosa è impossibile, la verità potrebbe
esserci solo se la parola fosse la cosa stessa, mentre è solo rappresentazione della
cosa, raffigurazione in suono di uno stimolo nervoso.

12 Non è un caso che al corrispondentismo della logica classica, Hegel risponda con un proce-

dimento dinamico dialettico, che distingue ordini successivi di verità.

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Appendice tecnica - 1. La verità 303

La verità come adeguata espressione della realtà, secondo l’insegnamento


di San Tommaso, sarebbe una tautologia, il riconoscere un oggetto per ciò che
sappiamo essere tale (un cane è ciò che abbiamo stabilito essere un cane). Ma
essendo l’uomo portato a esistere, per necessità e allo stesso tempo per noia, come
essere sociale, ha dovuto stabilire con gli altri una sorta di
trattato di pace [in cui si è] stabilito ciò che d’ora in avanti dovrà essere «veri-
tà», cioè viene inventata una designazione delle cose universalmente valida e
vincolante

gettando le premesse per il contrasto verità-menzogna.


Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropo-
morfismi, in breve una somma di relazioni umane che furono poeticamente e reto-
ricamente potenziate, trasposte e ornate e che, dopo un lungo uso, sembrano ad un
popolo fisse, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata
la natura illusoria, metafore divenute logore e prive di forza sensibile, monete che
hanno perso l’effigie e vengono ora prese in considerazione non più come monete,
ma soltanto come metallo [138].

Secondo Nietzsche, l’uomo è dotato d’intelletto e per questo si sente al centro


del mondo e la superbia connessa al conoscere e al sentire lo porta a ingannarsi su
di sé e sulla propria esistenza. L’intelletto, in quanto strumento di conservazione
dell’individuo, non disponendo per lottare di corna o zanne taglienti come gli
animali da preda, impiega le sue forze principali nella finzione. E nell’arte della
finzione l’uomo ha raggiunto il suo massimo,
è a tal punto regola e legge che quasi nulla è più inconcepibile di come, tra gli uomi-
ni, potesse sorgere un onesto e puro impulso alla verità.

E chiude sarcasticamente dicendo:


Premesso che la verità è donna (come? Non è forse fondato il sospetto che tutti
i filosofi, in quanto dogmatici, di donne ne capivano poco? Che la spaventosa
serietà, la maldestra invadenza con la quale a tutt’oggi si sono premurati di ac-
costarsi alla verità, erano mezzi goffi e inopportuni per conquistarsi appunto una
donna?) certo è che non si è lasciata sedurre. E oggi ogni tipo di dogmatica se ne
sta lì in atteggiamento depresso e scoraggiato [137].

La verità non può essere che assoluta (è così o non è) e, quindi, rigida, e per-
ciò fragile, come di norma sono le cose rigide, al contrario della menzogna che
è malleabile e perciò resistente. La troppa verità non è “sana” perché abbiamo
bisogno delle nostre illusioni, dei nostri miti, delle nostre bugie, per sopravvivere
alla dura realtà dell’esistenza.
Dire la verità, come sottolinea la D’Agostini [55], è dire «le cose come stan-
no» (ma è possibile stabilire come stanno le cose?), dire ciò che è «conforme ai
fatti» (ma come sono i fatti?). Non essendoci, secondo la filosofia moderna,

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304 La verità sulla menzogna

una sola realtà, non c’è neppure una sola verità. Si sono aperte così le porte del
nichilismo13:
quel che ci caratterizza è che non abbiamo verità

sostiene Nietzsche [137], cui potremmo contrapporre il pensiero di Sir Thomas


Browne [32], un pensatore inglese del Seicento, il quale sosteneva che
la verità è così potente che anche i Diavoli sono costretti a praticarla tra di loro
perché nessuna comunità può esistere e perpetuarsi senza la verità e anche la co-
munità dell’Inferno non potrebbe esistere senza di essa.

13 Nichilismo o nihilismo (dal latino nihil, nulla), indica una dottrina filosofica che nega uno

o più aspetti significativi della vita.

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2. Conoscenza e verità

Quelli che ballavano erano visti come pazzi


da quelli che non sentivano la musica.
(Attribuita a Friedrich Nietzsche)

La verità si basa sulla conoscenza, cioè sulla consapevolezza, sulla compren-


sione di fatti, ottenuta attraverso l’esperienza o l’apprendimento.
Conoscenza è un termine che ha significati diversi a seconda del contesto,
ma è comunque correlato ai concetti di informazione, istruzione, comunicazio-
ne, rappresentazione, significato, apprendimento, stimolo mentale. Presupposto
della verità, richiede che il soggetto sia in grado di acquisire le informazioni e
di elaborarle in funzione della propria esperienza personale. In questo senso,
la conoscenza è la capacità di ricevere messaggi dal mondo esterno e saper im-
maginare, inventare, risolvere problemi, ma è anche la capacità di decidere di
conseguenza, ad esempio, se intraprendere o no una certa azione: non è soltanto
conoscere ma è anche capacità di valutare se e come utilizzare le conoscenze1.
Conoscenza e informazione fanno entrambe riferimento, auspicabilmente, ad
affermazioni vere, ma l’informazione ha vita autonoma, esiste anche indipen-
dentemente dal fatto che qualcuno la utilizzi, e può essere conservata su un qual-
che tipo di supporto (cartaceo, informatico ecc.); la conoscenza, invece, esiste
solo in relazione a un essere intelligente che la detiene ed è capace di utilizzarla.
La conoscenza può essere oggettiva (o a posteriori), cioè legata all’esperienza
e all’apprendimento, o soggettiva, mediata da processi induttivi, introspettivi, e
perciò legata a variabili complesse, come la cultura, le convinzioni ecc. e perciò
meno standardizzabile. Noi faremo riferimento qui alla prima, i cui meccanismi
sono, nei termini che servono ai nostri scopi, relativamente più accessibili.
Il meccanismo che porta dal semplice atto percettivo al riconoscimento del
suo significato oggettivo, al denominarlo – cioè alla conoscenza –, è piuttosto
complesso e, per quanto possa apparire immediato, prevede un discreto nume-
ro di passaggi che mettono in funzione gran parte del nostro sistema nervoso
tanto nella sua parte più “neurologica” (i circuiti e i centri interessati al processo
percettivo di per sé), quanto in quella “psichica” (attivazione di varie funzioni

1 Bisogna distinguere la conoscenza proposizionale dalla conoscenza procedurale: io posso

conoscere alla perfezione tutto ciò che concerne l’auto, il suo funzionamento, la teoria della guida,
il Codice della strada (conoscenza proposizionale), ma, se non avessi fatto anche lezioni di pratica
di guida (conoscenza procedurale), sarei saggio a mettermi alla guida di un’auto?

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306 La verità sulla menzogna

psichiche – memoria, intelligenza, pensiero – per trasformare la percezione in


un qualcosa con un significato e cioè in conoscenza) e, almeno in certa misura,
anche in quella “psicologica” (la risonanza affettiva che può destare l’oggetto
della conoscenza).
Se, dunque, un segnale, per diventare informazione e quindi conoscenza,
deve essere acquisito, selezionato, manipolato e interpretato, siamo legittimati
a chiederci: «In che misura la nostra conoscenza è rispondente alla realtà oggetti-
va?» e, più in generale, «Una realtà oggettiva universale esiste? E, se esiste, saremo
mai in grado di conoscerla?».
Quello che abbiamo detto finora mette in discussione i concetti di cono-
scenza, certezza, verità; che cosa questi concetti abbiano in comune e che cosa li
differenzi non è stato ancora definito in maniera chiara e univoca2. Inevitabil-
mente la conoscenza è sempre condizionata dal soggetto che percepisce e pensa,
non esistono criteri universali che consentano di discriminare la verità e la fal-
sità delle conoscenze soggettive né un bene o una giustizia assoluti che possano
valere da norma definitiva per i comportamenti etici3. Senza considerare che
l’uomo, fin dalla nascita, cresce in un sistema di regole, leggi, convenzioni già
stabilite che lo permeano fino a divenire un qualcosa di personale, da accettare
acriticamente, come se fosse elaborato da lui stesso. È attraverso questo processo
di inculturazione che il soggetto diventa a tutti gli effetti membro del gruppo
sociale di appartenenza, di cui assumerà gli stereotipi e condividerà i pregiudizi
differenziandosi dai (e spesso contrapponendosi ai) membri degli altri gruppi
Potremmo aggiungere che, proprio recentemente, John Searle [172], filosofo
americano, ha avanzato una seria critica a quello che definisce come dualismo
concettuale, cioè l’ipotesi imperante a partire dal diciassettesimo secolo che
noi non percepiamo mai direttamente gli oggetti e gli stati delle cose del mondo, ma
percepiamo direttamente soltanto le nostre esperienze soggettive.
Egli sostiene che, in realtà, i nostri sensi non osservano “passivamente” il
mondo, ma lo “interrogano” (teoria della intenzionalità), il che vuol dire che noi
non percepiremo mai niente che non siamo preparati culturalmente e biologi-
camente a percepire. Il nostro apparato percettivo scandaglia il mondo in una
certa maniera e non in un’altra e questa modalità non è soggettiva, perché tutti
abbiamo le stesse impostazioni (cioè gli stessi stereotipi), ma costituisce sempre
un’intromissione fra noi e il mondo. Insomma, l’uomo vede le cose come gli
serve sapere che siano in base a ciò che è stato selezionato dall’evoluzione, allo
scopo di sopravvivere e adattarsi a una realtà mutevole.
Al di là di tutto questo, non possiamo non accettare il fatto che, molte volte, il

2 Emblematico in questo senso è il relativismo di Protagora (V sec. a.C.), secondo il quale


«L’uomo è la misura di tutte le cose».
3 Ne deriva, di necessità, che il vero non possa essere altro che una convenzione, un’idea alla

quale si avvicina, in misura maggiore o minore, tutto ciò che orbita intorno all’idea stessa: è un po’
come per i cani, ci sono bassotti e alani, volpini e sanbernardo, setter e bulldog, che noi chiamiamo
cani perché, più o meno, corrispondono all’idea di cane.

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Appendice tecnica - 2. Conoscenza e verità 307

vero esiste soltanto perché l’opinione pubblica ritiene vero ciò che viene detto e ri-
petuto con convinzione, indipendentemente dal fatto che sia oggettivamente vero,
credibile o improbabile o addirittura assurdo. Se non ci credete, andate a rileggere
la novella di Pirandello [150], La patente, in cui, estremizzando i fatti – non veri
ma verosimili –, com’è nel suo stile, ce ne fornisce un’icastica rappresentazione.

Il signor Chiarchiaro ha, nel suo paese, la fama di iettatore e viene perciò scansato, emar-
ginato, rovinato economicamente. Denuncia per calunnia due giovani che al suo passaggio
hanno fatto evidenti scongiuri, nella speranza che il giudice riconosca ufficialmente il suo
ruolo di iettatore al fine di sfruttare tale fama. Al giudice, che nel frattempo tocca ferro e
fa scongiuri, e che gli chiede di ritirare la denuncia per evitare ulteriore ostracismo, egli
chiede invece “la patente di iettatore” per poter esercitare legalmente tale professione ri-
cavandone vantaggi economici perché tutti avrebbero pagato per tenerlo lontano da sé e,
magari, mandarlo vicino a concorrenti o nemici.

Come sosteneva Gorgia da Lentini (V-IV sec. a.C.) (anche lui siciliano!):
nulla esiste, e se anche esistesse non sarebbe conoscibile, e se anche fosse conoscibile,
nessuno potrebbe darne conoscenza a un altro, per il fatto che le esperienze non sono
parole, e che nessuno riesce a farsi una rappresentazione concettuale identica a quella
di un altro.
È evidente che tutti i meccanismi descritti hanno come finalità ultima quella
di decodificare i segnali che giungono ai nostri sensi, organizzarli e interpretarli
in un qualcosa che abbia per noi un significato logico; quando abbiamo comple-
tato questo procedimento è difficile cambiare idea!
Se le percezioni sono ben definite e ci sono abbastanza familiari, è facile rag-
giungere la comprensione, ma in molti casi le informazioni sono incomplete,
frammentarie e non strettamente coerenti tra loro tanto che può essere difficile
attribuire loro un significato. Il procedimento diagnostico del medico è un esem-
pio efficace. I sintomi lamentati dal paziente appaiono spesso come frammenti
d’informazione scarsamente connessi tra loro: è solo esaminandoli attentamen-
te, integrandoli con altre informazioni, facendo riferimento all’esperienza pre-
cedente e al sapere medico, che possiamo individuare il legame che unisce i vari
“frammenti” in modo da formulare un’ipotesi diagnostica. Questa verrà sotto-
posta al vaglio delle ulteriori informazioni provenienti dall’esame obiettivo, dalle
indagini strumentali ecc. e, in casi particolarmente complessi, può essere utile
sentire anche l’opinione di specialisti di altre discipline per giungere a una dia-
gnosi attendibile. È stato dimostrato che, una volta che la diagnosi è stata formu-
lata, il medico tende a ignorare eventuali ulteriori informazioni che potrebbero
contraddirla. Paradossalmente, i sistemi esperti computerizzati di diagnosi assi-
stita tendono a essere più validi dei clinici poiché prendono in considerazione
tutte le informazioni disponibili e non si “affezionano” a una diagnosi formulata
in precedenza.
Il nostro cervello crea le immagini del mondo: di fronte a un nuovo stimolo,
infatti, non lo analizza come se lo incontrasse per la prima volta (sarebbe un pro-

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308 La verità sulla menzogna

cedimento troppo lungo, soprattutto se è richiesta una risposta o una reazione


immediata) ma, partendo da elementi anche parziali che gli sono noti, fa una se-
rie di ipotesi con le quali confronta il nuovo stimolo e fa una previsione su quale
possa essere quella che meglio vi si adatta: indubbiamente c’è un certo margine
di errore (comunque modesto, altrimenti la nostra specie non sarebbe soprav-
vissuta a lungo) ma il procedimento è significativamente molto più rapido.

Oltre che commettere errori, il nostro sistema cognitivo può anche essere ingannato, come
quando, ad esempio, osserviamo la “magia” di un prestigiatore che lancia in aria una palla
alcune volte finché, a un certo punto, la palla sembra scomparire a mezz’aria (mentre, in
realtà, è nascosta nella sua mano). Dove sta il trucco? Semplicemente nel movimento della
testa e dello sguardo del prestigiatore che, come nei lanci preliminari, segue il movimento
della palla e il nostro cervello ha già creato l’aspettativa su dove si sarebbe trovata la palla
dopo il lancio e lì l’ha vista! Una vera e propria allucinazione. Nessuno (o quasi) si rende
conto del trucco, ma se il prestigiatore, all’ultimo lancio, non esegue il movimento della
testa e dello sguardo, la maggior parte degli spettatori si renderà conto del trucco (come è
stato dimostrato da un illusionista compiacente che ha accettato di collaborare alla ricerca).

Il nostro cervello può ingannarci, come nel caso della televisione: quando la
televisione muoveva i primi passi, gli ingegneri risolsero brillantemente il pro-
blema di sincronizzare il segnale audio con quello video, con una sfasatura tra
i due segnali di un decimo di secondo: i telespettatori non si accorgevano del
problema perché il cervello sincronizza automaticamente i due segnali. Se vi toc-
caste simultaneamente la punta del naso e la punta del piede vi aspettereste che la
percezione dei due segnali fosse contemporanea: errore! In realtà, la percezione
relativa al naso arriva immediatamente grazie alla vicinanza, quella del piede
richiede circa un decimo di secondo (anche più se il soggetto è molto alto) per
giungere al cervello, ma noi li avvertiamo contemporaneamente come ci sarem-
mo attesi perché il cervello ha messo in stand-by il primo segnale in attesa del
secondo, per non deludere la nostra aspettativa.
Gli architetti conoscevano fin dall’antichità gli inganni del nostro sistema
percettivo tant’è vero che, ad esempio, hanno costruito lo stilobate (il piano
su cui poggiano le colonne) del Partenone leggermente convesso in modo che
all’osservatore appaia rettilineo e prospetticamente più ampio.
Perché il cervello ci inganna? In parte, certamente, per colmare le lacune dei
nostri organi sensoriali ma anche, in parte, per organizzare e interpretare il caos
dei segnali che arrivano ai nostri sensi in modo da consentirci di non dover ri-
spondere all’impulso singolo ma all’insieme degli impulsi organizzati in qual-
cosa di strutturato più rispondente alle nostre aspettative; è per questo che, nel
rumore di una discoteca, siamo in grado di sentire qualcuno che pronuncia il
nostro nome.
Il nostro cervello ci inganna molte volte al giorno guidandoci in numerose
scelte che noi, ingenuamente, consideriamo frutto del nostro libero arbitrio: se
proviamo antipatia o simpatia a prima vista o scegliamo un prodotto di una
determinata marca è perché il nostro cervello, attraverso associazioni mentali

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Appendice tecnica - 2. Conoscenza e verità 309

inconsce, ci suggerisce una scelta piuttosto che un’altra e solo a posteriori noi
cerchiamo di trovare una ragione plausibile delle nostre scelte.
Una cosa su cui riflettiamo poco o punto, e che possiamo immaginare solo
grossolanamente, è l’enorme sforzo che il cervello compie in silenzio per coor-
dinare con precisione millimetrica anche i più fini movimenti del nostro corpo
grazie alla propriocezione e al sistema extrapiramidale, cioè al continuo scambio
di informazioni tra muscoli, articolazioni, pelle, barocettori e quant’altro e il si-
stema muscolare involontario: è grazie a questo che possiamo muoverci, cam-
minare, correre, usare un qualsiasi strumento con precisione millimetrica e in
maniera armonica.

Vorremmo chiudere raccontandovi un simpatico esperimento riportato da Ian Leslie


[118].
In Canada, una giovane ricercatrice si avvicinava a dei giovani in un parco invitandoli a
partecipare a un sondaggio sulla creatività. Alla fine dell’intervista dava loro il suo numero
di telefono nel caso volessero discutere con lei i risultati della ricerca. Metà dei ragazzi in-
tervistati erano comodamente seduti sulle panchine, l’altra metà è stata intervistata mentre
attraversava una gola profonda su un fragile ponticello di corda e doveva tenersi al corri-
mano mentre il vento faceva oscillare il ponte.
Il 65% dei ragazzi intervistati sul ponticello telefonò alla ragazza e solo il 30% degli altri.
I giovani del ponticello erano più romantici o erano in cerca di una partner? Niente di tutto
ciò: tachicardia, sudorazione e fiato corto erano stati interpretati dal loro cervello come
indici di eccitazione, di attrazione verso la ragazza; fra la sensazione di tensione e di paura
per l’attraversamento del ponte e l’innamoramento, il cervello aveva scelto la seconda in-
terpretazione.
Il consiglio per chi è in cerca di un partner è, dunque, di invitare il candidato in una
situazione di pericolo fisico e di cogliere l’occasione!

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3. Verità, realtà e percezione

«Che vuol dire “reale”?


Dammi una definizione di “reale”»
«Se ti riferisci a quello che percepiamo,
a quello che possiamo odorare, toccare e vedere,
quel reale sono semplici segnali elettrici
interpretati dal cervello.
Questo è il mondo che tu conosci»
(Lana e Lilly Wachowski, Matrix, 1999)

Il filosofo Immanuel Kant [107], già alla fine del XVIII secolo, intuì per pri-
mo l’esistenza di una sorta di stadio intermedio fra ciò che i nostri sensi captano
e ciò che noi percepiamo, e concluse che la nostra conoscenza si basa sui dati
sensoriali elaborati ricorrendo alle nostre categorie mentali. Anche Freud [85]
ebbe un’intuizione analoga quando ipotizzò che ricevere segnali sensoriali e re-
gistrarli fossero due funzione distinte. È un dato di fatto che il nostro cervello,
per renderci consapevoli della realtà a partire dal materiale che gli forniscono i
nostri sensi, deve compiere un lavoro talmente enorme da farci sorgere il dubbio
che ciò che consideriamo “realtà” sia effettivamente tale.
Possiamo dire che la conoscenza consiste nel sostituire il noto all’ignoto, il
certo all’incerto, utilizzando l’informazione, acquisendo, attraverso la percezio-
ne, i segnali che provengono dal mondo esterno. Ognuno di noi è costantemente
bersagliato da una quantità enorme di segnali che è indispensabile selezionare
poiché, se tutti giungessero alla coscienza, sarebbero praticamente inutilizzabili
e non saremmo in grado di ricavarne alcuna informazione. Il primo filtro è ana-
tomo-fisiologico ed è rappresentato dalla struttura dei recettori sensoriali che
sono deputati a captare i segnali e che non sono uguali per tutti gli esseri viventi:
l’uomo possiede recettori solo per determinati tipi di informazione, mentre ci
sono animali che possono percepirne solo altri, come gli infrarossi o gli ultravio-
letti, gli infrasuoni o gli ultrasuoni, le onde elettromagnetiche e così via1. Per il

1 L’uomo, animale visivo per eccellenza, ha sviluppato la vista in modo tale da avere una per-
cezione molto efficace e dettagliata; nel buio, quando le capacità visive si annullano, ci sono invece
molti animali che vivono e si muovono agilmente perché guidati da altri sensi o da altri stimoli: i
serpenti e gli uccelli predatori notturni “vedono” con gli infrarossi, i pipistrelli con gli ultrasuoni
ecc. Nel mondo animale il senso più usato è probabilmente l’olfatto: gli animali seguono le tracce
olfattive, segnano il territorio con l’urina ecc. Nell’uomo questo senso ha perso gran parte della

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312 La verità sulla menzogna

corretto funzionamento dei recettori di cui ogni essere vivente dispone, è neces-
sario che lo stato di coscienza del soggetto sia in condizioni funzionali adeguate,
e che l’intensità dei segnali raggiunga la soglia percettiva2. Già questo ci dice che
specie animali diverse possono convivere nello stesso territorio percependo mondi
sensoriali diversi. Oltre ai filtri fisiologici naturali, l’uomo dispone anche di ulte-
riori filtri di natura psicologica, culturale e sociale di cui diremo più avanti.
La maggior parte degli animali non si serve di un solo senso, ma ne utilizza
più di uno favorendo quello principale. In genere i diversi sensi sono attivati in
sequenza, in funzione delle finalità: in condizioni di riposo, quando è importante
percepire tempestivamente eventuali pericoli, entrano in funzione prima quelli
più generici, seguiti gradualmente, da quelli più specifici e selettivi capaci di in-
dicare la provenienza del segnale, se possibile la sua natura e la sua vicinanza, in
modo da predisporre il tono muscolare alla difesa o alla fuga.
L’atto percettivo modifica la percezione nel momento stesso in cui questa
avviene, trasformando lo stimolo sensoriale, che è specifico (visivo, tattile, gu-
stativo ecc.), in un segnale bio-elettrico che è uguale per tutti gli stimoli, e che è
ulteriormente modificato nel passaggio dai recettori periferici alle fibre nervose
corrispondenti3. Lo stimolo sensitivo segue poi due vie, una diretta, privilegiata,
che arriva quasi direttamente all’area destinata alla sua decodifica, e una indiretta
(polisinaptica) che prende contatto, nel suo decorso, con una serie di centri e di
nuclei facendo sì che lo stimolo si metta in rapporto con altri apparati sensoriali,
con aree integrative, viscerali e motorie, in modo che la stimolazione di un orga-
no di senso venga condivisa, di fatto, da tutto il Sistema Nervoso Centrale (SNC):
questa seconda via ci rende conto della “tonalità affettiva” della percezione, dei
riflessi viscerali e di quelli motori. Le vie sensitive, inoltre, non contengono solo
fibre centripete (che convogliano, cioè, i segnali dai recettori al SNC) ma anche
fibre centrifughe, che dal centro tornano ai recettori e attraverso le quali il SNC
regola automaticamente, in vario modo, la percezione degli stimoli. È noto che
la percezione può variare per motivi intrinseci, migliorare per aumento dell’in-
teresse e quindi della concentrazione o peggiorare, per effetto dell’ansia, dell’as-
suefazione allo stimolo stesso, della stanchezza e di altre condizioni fisiologiche
o psicologiche: ad esempio, quando entriamo in una discoteca, siamo assordati
dal volume della musica ma, dopo un po’, quello stesso rumore finisce per diven-

sua importanza, anche se ha mantenuto certe caratteristiche che lo chiamano fortemente in causa:
ad esempio, le zone del corpo legate alla sessualità sono dotate di ghiandole apocrine che liberano
odori che hanno la funzione di richiamo sessuale, odori che la nostra società considera sgradevoli
(o sconvenienti) e che cerca di nascondere, di eliminare, sostituendoli con profumi artificiali che
comunque hanno la stessa funzione.
2 Per la loro acquisizione, i segnali devono raggiungere la soglia sensoriale, cioè un’intensità

tale da essere percepiti almeno nel 50% delle loro applicazioni. La soglia sensoriale non è una soglia
on-off, ma è un valore probabilistico condizionato da diversi fattori, fra cui, in particolare, il cosid-
detto rumore di fondo.
3 Ad esempio, dai 6 milioni di coni e dai circa 100 milioni di bastoncelli per ogni occhio, si
passa alle 400.000 mila fibre del nervo ottico.

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Appendice tecnica - 3. Verità, realtà e percezione 313

tare quasi un “rumore di fondo”, tanto da consentirci di parlare, oppure, quando


passiamo da un ambiente luminoso a uno scuro, dopo un poco riusciamo a ve-
dere (con minori dettagli e in bianco e nero) l’ambiente circostante.
Un filtro importante che modula la percezione è la possibilità di passare,
in maniera più o meno volontaria, da uno stato di attenzione diffusa a uno di
attenzione concentrata in rapporto alle esigenze e all’interesse del momento. I
fisiologi hanno descritto un importante fenomeno, il riflesso di orientamento,
che consente di focalizzare l’attenzione su di uno stimolo in maniera assoluta, al
punto da non percepire più gli altri, che pure continuano a essere presenti.

I nostri apparati sensoriali si sviluppano in funzione dell’ambiente nel quale si nasce e si


cresce, almeno nelle prime fasi dello sviluppo. Il SNC si organizza in funzione degli stimoli
che riceve. Un esempio classico è quello dell’acquisizione della visione prospettica, che è
legata all’esperienza. Grazie a questo fenomeno, oggetti di uguali dimensioni posti a varia
distanza dall’osservatore appaiono oggettivamente più piccoli all’aumentare della distanza.
Noi, grazie alla visione prospettica acquisita con l’esperienza, sappiamo che, nonostante le
apparenze, la diversa dimensione è in funzione della distanza e siamo perciò in grado di
“vederli” idealmente nelle loro dimensioni reali. Così, ad esempio, quando in strada incro-
ciamo un’auto, man mano che si avvicina la vediamo cambiare di dimensioni e la cosa non
ci meraviglia affatto. I pigmei, che vivono all’interno delle foreste africane, in cui gli spazi
aperti sono molto limitati, non sviluppano la visione prospettica per cui, se sono portati
negli spazi aperti della savana e vedono, ad esempio, delle antilopi che, al loro avvicinarsi
fuggono via, non riescono a capacitarsi del come e del perché, mentre si allontanano, gli
animali divengono sempre più piccoli4.

È importante, per il suo significato conoscitivo, sapere che i nostri sensi non
registrano l’oggetto ma lo schema dell’oggetto, il suo circuito di scansione5, con
un meccanismo che, oltre a rappresentare una semplificazione dell’atto percet-
tivo, pone le basi per la formazione delle idee e per la formulazione del pensiero
astratto. È grazie all’acquisizione del circuito di scansione del “cane” che, osser-
vando cani diversi, siamo in grado di riconoscere come “cani” animali di taglie
e forme molto eterogenee: per mezzo del ragionamento astratto, sostituiamo

4 In fondo anche l’imprinting (cioè la fissazione di un istinto innato su un determinato og-

getto) descritto da Konrad Lorenz si basa sullo stesso meccanismo di apprendimento: le oche, per
le poche ore in cui questo meccanismo è attivo, proiettano, in chi interagisce con loro, la propria
essenza (coscienza?) di oche (verrebbe da dire la propria “ochità”!) trasformandolo in un soggetto
uguale a loro, che seguiranno come se fosse la loro madre.
5 Se, ad esempio, registriamo con appositi strumenti i movimenti che compiono gli occhi di
fronte a un oggetto da riconoscere, ci rendiamo facilmente conto che lo sguardo si sofferma soprat-
tutto su elementi di particolare contenuto informativo; questo percorso, che è stato definito circuito
di scansione, viene ripetuto più volte, è sempre uguale per lo stesso oggetto, non differisce significa-
tivamente per tutti coloro che fanno parte di una specifica cultura, ed è diverso per ciascun oggetto.
In questo modo, noi fissiamo nella memoria non l’immagine esatta, fotografica, dell’oggetto ma la
serie dei suoi punti significativi e le linee che li uniscono, riducendo al minimo le informazioni ne-
cessarie per identificarlo e, di conseguenza, il numero delle sensazioni necessarie per comprenderne
il significato ogni volta che lo percepiamo.

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314 La verità sulla menzogna

l’oggetto con il concetto che lo definisce nei suoi dati essenziali, svincolato dalla
realtà specifica. È anche vero che in questo modo, riducendo il numero delle
informazioni che concorrono alla formazione delle idee, si corre il rischio di
una possibile distorsione del giudizio, quindi della conoscenza della realtà, che
è molto pericolosa poiché la scelta dei dati percettivi essenziali non dipende sol-
tanto dalle leggi naturali ma è influenzata anche da fattori socio-culturali legati
alla inculturazione6, da cui derivano stereotipi e pregiudizi7.
Anche il linguaggio usato influenza la percezione delle cose: il significato del-
le parole è in rapporto alla cultura e all’esperienza personale anche fra soggetti
di stessa madre-lingua.

A titolo di esempio, vogliamo ricordare un esilarante sketch di Roberto Benigni che, in una
trasmissione televisiva di alcuni anni fa, elencò i nomi con cui, nelle varie parti d’Italia,
vengono denominati gli organi sessuali maschili e femminili. Ricerche più scientificamente
fondate, ne elencano complessivamente 948 per la sfera sessuale maschile e 766 per quella
femminile (esclusi i glutei, che possono essere una zona erogena per entrambi i sessi e che
comunque contano 266 denominazioni) [186].

Le caratteristiche di una lingua, il suo alone simbolico e semantico, cambia


inevitabilmente il nostro modo di vedere e di percepire: la parola “drago”, per
esempio, può suscitare sentimenti di paura e di pericolosità, ma anche di ammi-
razione se la colleghiamo all’eroe che lo sconfigge per salvare la “pulzella”; per
un cinese, il drago, che è simbolo di forza e di saggezza, richiamerà immagini
gioiose, di feste in cui è il grande protagonista. È stato osservato che i bambini
finlandesi scoprono di essere maschi o femmine in ritardo rispetto ai bambini
ebrei poiché, mentre la lingua finlandese è meno rigorosa nell’associare un gene-
re ai vocaboli, la lingua ebraica assegna chiaramente il genere maschile o femmi-
nile alle parole [94]. È chiaro, perciò, che la lingua parlata influenza la percezione
delle cose e spiega anche il motivo per cui la comprensione fra persone di lingua
diversa, non è un’operazione banale, anche possedendo un ricco vocabolario.
Un altro meccanismo che noi usiamo istintivamente nelle nostre percezioni,
è il cosiddetto completamento amodale, cioè la tendenza a completare, secondo
schemi prefissati, gli oggetti che non vediamo nella loro interezza perché parzial-
mente coperti da altri oggetti: se così non fosse noi, avremmo la sensazione di
vivere in un mondo fatto di frammenti e, per esempio, i “mezzibusti” della TV
sarebbero per noi veramente mezzibusti, senza, cioè, la parte inferiore del corpo!

6 L’inculturazione è il processo sociale di apprendimento mediante il quale, soprattutto du-

rante l’infanzia, ciascun soggetto “assorbe” e fra proprie le norme culturali del gruppo al quale
appartiene [50].
7 Il circuito di scansione, fra le altre cose, è influenzato anche dalle modalità di scrittura delle

diverse culture e perciò sarà diverso per noi occidentali, che scriviamo da sinistra a destra, rispetto
alle culture in cui si scrive da destra a sinistra. Ma più importante ancora è il fatto che il circuito di
scansione è influenzabile anche da fattori culturali: è stato visto, infatti, che, di fronte a uno stesso
oggetto, il circuito di scansione era diverso se l’osservazione era spontanea o se, invece, era prece-
duta dall’illustrazione di ciò che l’oggetto rappresentava (o si presumeva che rappresentasse).

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Appendice tecnica - 3. Verità, realtà e percezione 315

Grazie al completamento amodale, anche la gallina (nonostante il suo sottovalutato


cervello!) è in grado di riconosce il suo pulcino seminascosto dall’erba, pur non ve-
dendolo nella sua interezza! Anche i puzzle sono dei completamenti amodali, così
come alcuni test psicologici. È ben noto il fenomeno per cui noi riusciamo a leg-
gere le parole, anche se le lettere che le compongono non sono nell’ordine giusto,
purché la prima e l’ultima lettera siano al loro posto, come nell’esempio che segue:

SECNODO UN PFROSSEORE DLEL’UNVIESRITÀ DI CMABRDIGE, NON IMORPTA IN CHE


ORIDNE APAPAINO LE LETETRE IN UNA PAOLRA, L’UINCA CSOA IMNORPTATE È CHE
LA PIRMA E L’ULIMTA LETETRA SINAO NEL PTOSO GITUSO. IL RIUSTLATO PUO’
SERBMARE MLOTO CNOFSUO, MA NOONSTATNE TTUTO SI PUO’ LEGERGE SEZNA
MLOTI PRLEOBMI.

Il completamento amodale, tuttavia, può facilmente indurci in errore, come


dimostrano le numerosissime illusioni ottiche, a lungo studiate dagli psicologi
della Gestalt.

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4. Le macchine della verità

Non si può quasi far finta d’amare se non si è molto vicini all’esse-
re innamorati, o almeno non si sta indirizzando il proprio amore
in una precisa direzione. Infatti bisogna avere lo spirito e i pen-
sieri dell’amore per far finta, altrimenti come trovare i mezzi per
parlar d’amore? La verità delle passioni non si nasconde così bene
come le verità serie.
(Blaise Pascal, Discorso sulle passioni d’amore, XVII sec.)

Non è affatto semplice distinguere le emozioni di un soggetto sincero sospet-


tato da quelle di un bugiardo sospettato; sarebbe forse più facile se conoscessimo
a fondo il soggetto, ma di solito non è così. Si è reso pertanto necessario indi-
viduare chi mente utilizzando strumenti atti a registrare quei segnali del corpo
che si associano frequentemente, ma non sempre, al mentire, consentendoci
di “inchiodare” il mentitore alla sua menzogna. Questi congegni, inizialmente
pensati per essere utilizzati in campo giudiziario per smascherare i criminali,
oggi trovano spazio anche in altri ambiti, come nei colloqui di lavoro o nella
comunicazione con i bambini autistici. Purtroppo, come abbiamo visto, molte
reazioni emotive, in condizioni di stress, sono comuni al colpevole che mente
e all’innocente che dice la verità (vedi l’errore di Otello) e perciò tutti i mezzi
proposti hanno un’attendibilità relativa a causa sia dei falsi positivi, sia dei falsi
negativi che possono produrre.
Se prescindiamo dalla prova del riso1 utilizzata dai cinesi fino a uno/due
secoli fa, e dall’ordalia, alla quale abbiamo accennato a proposito di Tristano e
Isotta (Cap. IV), fin dal 1800 si è tentato di mettere a punto strumenti in grado di
oggettivare questi segnali. Precursore in questo campo è stato Cesare Lombroso
che, verso la fine dell’Ottocento, ideò l’idrosismografo, che misurava la frequen-
za cardiaca e la pressione arteriosa, parametri che spesso si modificano quando
si mente. Nel 1939, Keeler ne migliorò le prestazioni mettendo a punto la sua
Macchina della Verità (Lie Detector) aggiungendo altre variabili, quali la sudora-
zione delle mani e la frequenza respiratoria, che vengono misurate nel corso di
un interrogatorio condotto con tecniche particolari. Naturalmente, negli anni, il

1 Facevano mettere una piccola quantità di riso sotto la lingua del sospettato e questi, dopo

l’interrogatorio, doveva sputarlo sulla mano: se il riso era asciutto significava che il soggetto era col-
pevole poiché l’ansia di essere scoperto gli aveva bloccato la salivazione, se era umido indicava che era
innocente poiché, non avendo nulla da nascondere e, non avendo ansia, non aveva la bocca asciutta.

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318 La verità sulla menzogna

poligrafo è stato tecnicamente migliorato ma la validità è rimasta invariata: va


da sé che non rivela né la verità né la menzogna ma solo le variazioni di para-
metri fisiologici prodotti dalle emozioni per cui, come suggerisce Ekman [81], è
necessario
non giungere mai a conclusioni definitive circa la sincerità o falsità di una persona
sulla sola base del poligrafo o di indizi comportamentali.
Altre tecniche sono state proposte a questo scopo, due delle quali basate
sull’esplorazione del cervello sia mediante la rilevazione dei potenziali elettrici
sia, soprattutto, utilizzando la neuroradiologia.
La prima si basa sull’elettroencefalografia (EEG), mediante la valutazione dei
potenziali evento-correlati (ERPS). In pratica, durante un normale esame EEG, si
mostrano al soggetto immagini e parole che possono essere collegate al “crimine”
di cui è indiziato; quando il soggetto riconosce una di queste immagini, il suo cer-
vello reagisce emettendo un’onda cerebrale particolare, la P300, che, a dispetto di
eventuali dinieghi, indicherà che il soggetto ha riconosciuto l’immagine.
Più recentemente, è stata proposta la Risonanza Magnetica funzionale (fun-
ctional Magnetic Resonance Imaging – fMRI): il soggetto viene posto all’interno
della macchina (in sostanza una potentissima calamita), che registra il funzio-
namento del cervello, e nel corso dell’esame gli viene chiesto di compiere varie
azioni, come rispondere a domande, premere un pulsante in risposta a immagini
che compaiono su uno schermo e altro. Le aree cerebrali che “lavorano” di più
consumano maggiore quantità di ossigeno, e questo comporta un maggior af-
flusso di sangue che la macchina è in grado di misurare e tradurre in immagini:
le aree più attive appaiono, perciò, colorate più vivacemente rispetto a quelle
meno attive. Questa metodica ha consentito di individuare diversi pattern di
attivazione cerebrale, capaci di distinguere non solo l’individuo che dice la verità
da quello che mente, ma anche le azioni commesse dal soggetto da quelle da lui
solo osservate2.
Una tecnica particolare è rappresentata dalla rilevazione, mediante telecame-
re a infrarossi, di termoimmagini, cioè immagini in cui si evidenziano, con colori
diversi, le variazioni dei valori termici del volto: secondo i ricercatori il rossore
attorno agli occhi sarebbe indice di menzogna. Questa tecnica ha una validità
paragonabile a quella del poligrafo.

2 L’aumento dell’attività cerebrale, quando il soggetto inizia a mentire, è localizzato nel

giro del cingolo (inibizione della risposta e monitoraggio degli errori) e nel giro frontale (aumento
dell’attenzione): in altri termini, mentire significa sottoporre il nostro cervello a un surplus di lavoro
rispetto al dire la verità! A proposito della fMRI, sono interessanti i risultati di una ricerca di Raine e
collaboratori [155] i quali hanno evidenziato che i bugiardi patologici, rispetto ai controlli sani, oltre
ad avere una prevedibile minore quantità di corteccia prefrontale (responsabile della consapevolez-
za di sé e dell’introspezione), avevano, un “eccesso” di materia bianca, cioè di fibre responsabili dei
collegamenti, delle reti neurali: maggiori sono le reti neurali, maggiore, più vario e più originale sarà
il flusso dei pensieri e maggiori le capacità verbali. Questi dati inducono a ritenere che i bugiardi pa-
tologici siano ben “attrezzati” per mentire avendo minori inibizioni (minore corteccia) e maggiore
inventiva (maggiori reti neurali).

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Appendice tecnica - 4. Le macchine della verità 319

Il Voice Stress Analyser (VSA) [158] si basa sull’esistenza di variazioni della


voce, quali tremori impercettibili (microtremor o Lippold’s Tremor), che sareb-
bero indicatori dello stress che provoca la menzogna: sono rilevabili mediante
appositi strumenti e sembrano fornire risultati sovrapponibili a quelli ottenuti
con il poligrafo.
Il Facial Action Coding System (FACS) [80] è un sistema che mette a confron-
to le espressioni facciali del soggetto in esame con oltre 5000 combinazioni di
movimenti del volto, contenute in un data base, consentendo di distinguere le
emozioni vere da quelle false.

Ekman, studiando i movimenti oculari che il soggetto esaminato compie mentre pensa
a cosa rispondere, ha potuto determinare, fra l’altro, che alcuni movimenti oculari e la
contrazione pupillare sono indicativi della natura della risposta che il soggetto darà alla
domanda:
– occhi rivolti in alto a destra: produzione di un’immagine costruita per la prima volta
(come nel caso della menzogna);
– occhi rivolti in alto a sinistra: rievocazione d’immagini vissute e quindi recupero di un
ricordo, quindi veritiero;
– occhi a livello rivolti a destra: neoproduzione di un’esperienza auditiva (quindi una co-
struzione menzognera);
– occhi a livello rivolti a sinistra: riproduzione di un’esperienza auditiva reale e quindi
veritiera;
– sguardo rivolto verso il basso: potrebbe esprimere sia introspezione sia volontà di sottrar-
si allo sguardo dell’osservatore (“sguardo sfuggente”);
– dilatazione (midriasi) o restringimento (miosi) della pupilla (senza che vi siano variazioni
di luminosità): indicatori di attivazione emotiva, ma la midriasi sarebbe più spesso indi-
cativa di menzogna.

Un’altra tecnica è quella della Scientific Content Analysis (SCAN) [116] che
si basa sull’analisi del comportamento linguistico del soggetto nella descrizio-
ne (orale o scritta) dell’evento in cui è implicato o di cui è stato testimone e,
attraverso la comparazione con apposite griglie interpretative che contengono
le costruzioni linguistiche più frequentemente usate da chi mente, orientano
sull’attendibilità del soggetto.
Poiché, nessuna di queste tecniche ha un’affidabilità assoluta (neppure l’EEG
e la fMRI, i cui risultati possono essere inficiati da una serie di fattori esterni)
l’integrazione di due o più di esse potrebbe essere utile per rendere più affidabili
i risultati.
Il limite di queste tecniche è rappresentato dall’elevato numero di falsi posi-
tivi (innocenti con attività neurovegetativa alterata) o di falsi negativi (colpevoli
con attività neurovegetativa normale): le manifestazioni indagate sono, infatti,
il prodotto di emozioni e queste possono essere in sintonia, o in contrasto, con
quanto stiamo esprimendo in quel momento e pertanto possono fornire solo
contributi di valore indiziario e non sono ammessi come prova in quasi tutti i
Tribunali.
Naturalmente l’applicazione di queste tecniche deve essere accompagnata

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320 La verità sulla menzogna

da un’attenta osservazione dei movimenti delle mani e del corpo del soggetto e,
soprattutto, dalla consapevolezza che ciò che osserviamo esprime solo l’attiva-
zione di emozioni e non è la “dimostrazione” di una menzogna. Non dimenti-
chiamo che, nonostante il principio per cui si è innocenti fintantoché non è stata
dimostrata la colpevolezza, essere sospettati di un crimine, essendo innocenti, è
un’esperienza sconvolgente: sappiamo bene, ad esempio, che è molto più difficile
dimostrare ciò che non abbiamo fatto rispetto a dimostrare ciò che si è fatto e che
non sono eccezionali i casi in cui un innocente è stato condannato. E, comunque,
anche solo essere sospettati può avere conseguenze gravi sul piano familiare, eco-
nomico, sociale e di immagine in generale, per cui, è difficile che un individuo
si mantenga sereno nel corso di un interrogatorio (o nell’eseguire un test). Le
reazioni fisiologiche, neurovegetative, in quelle circostanze, sono verosimilmente
peggiori nel soggetto innocente rispetto a quelle del criminale che è, invece, pre-
parato a mentire per difendersi e che di frequente, come in genere gli psicopatici,
ha un deficit di empatia ed è quindi in grado di ipercontrollare le emozioni.
Oliver Sacks, neurologo e brillante scrittore, che sa coniugare la scienza all’u-
manesimo e che sa far parlare la malattia trasformando l’empatia per i pazienti
in “intrattenimento”, nel suo volume, L’uomo che scambiò sua moglie per un
cappello [160], racconta della sua esperienza con i pazienti afasici nel capitolo
Il discorso del Presidente, che ben si collega alle “macchine della verità” di cui
abbiamo fin qui parlato.

I pazienti con afasia percettiva o globale3 sono incapaci di capire le parole come tali, ma
sono in grado di capire ciò che viene detto loro attraverso l’elaborazione degli elementi
extraverbali del discorso ai quali sono particolarmente sensibili. Il tono di voce, le infles-
sioni, le espressioni del viso, i gesti, la postura... insomma, tutto ciò che è, in larga misura,
inconscio si sostituisce alla mera parola consentendo una sua perfetta comprensione4.
Un giorno che un gruppo di afasici si trovava nella sala di soggiorno, la televisione tra-
smetteva in diretta il discorso del Presidente e Sacks, che passava lì vicino, li udì ridere ru-
morosamente. Ne rimase meravigliato e si soffermò ad ascoltare: il Presidente, abile oratore,
appariva persuasivo, toccava il tasto della commozione, ma gli afasici coglievano la mimica,
i toni, le cadenze della voce che suonavano a loro falsi, con evidenti incongruità, improprie-
tà addirittura grottesche che rendevano il discorso del Presidente assolutamente comico.
Inoltre, fra i pazienti afasici era presente anche una paziente affetta da agnosia tonale
(o atonia) per un glioma del lobo temporale destro (le afasie interessano il lobo tempo-
rale sinistro); costei, insegnante d’inglese e buona poetessa, era in grado di comprendere

3 L’afasia è la conseguenza di lesioni (emorragie, trombosi, tumori...) di particolari centri

cerebrali destinati alla comprensione e alla formulazione del linguaggio, pur avendo l’apparato udi-
tivo e la capacità di verbalizzare indenni. L’afasia percettiva (sensoriale di Wernicke) impedisce, a
chi ne è colpito, di associare un significato alle parole udite (è detta anche sordità cerebrale), l’afa-
sia espressiva (o motoria di Broca) impedisce, invece, di dare il nome appropriato a oggetti che il
paziente sa di conoscere di per sé e nel loro impiego. Nell’afasia totale sono perdute entrambe le
capacità e, in pratica, il paziente perde ogni forma di linguaggio, udito e parlato.
4 Per verificare a pieno l’afasia, il neurologo, deve ricorrere, nei casi estremi, al sintetizzatore

vocale per eliminare tutte le componenti extraverbali.

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Appendice tecnica - 4. Le macchine della verità 321

perfettamente le parole e le costruzioni grammaticali, ma non era più in grado di cogliere


le qualità espressive della voce. Anch’essa rideva del discorso del Presidente ma per altri
motivi, perché, disse, «non usava una prosa chiara, usava le parole in modo improprio... o
ha dei disturbi cerebrali o ha qualcosa da nascondere».
In definitiva, il discorso del Presidente non funzionò per gli afasici per la loro sviluppata
sensibilità al tono, né per la paziente con atonia a causa della sua ipersensibilità all’uso for-
male del linguaggio. Solo i “normali”, pur disponendo di tutte le necessarie capacità, non si
resero conto degli inganni del Presidente.

Si può mentire con la bocca, ma con la smorfia che l’accompagna si dice ugualmente la
verità. [137]

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Indice

Premessa 5

Introduzione 13

I. La menzogna e il mentitore 19
II. Le origini della menzogna 29
III. La menzogna nello sviluppo dell’individuo 45
IV. I mille modi di mentire 57
V. Il linguaggio segreto della menzogna 73
VI. Menzogna e arte 79
VII. La “follia” tra verità e menzogna 99
VIII. Menzogna e psicoanalisi: le verità tradite 109
IX. Gli inganni della memoria 115
X. Menzogna e seduzione: il disturbo borderline 121
XI. Menzogna e sessualità 129
XII. L’autoinganno 145
XIII. La paura della paura 153
XIV. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 167
XV. Menzogna e scienza 189
XVI. Menzogna e salute 199
XVII. La simulazione di malattia 215
XVIII. Gli inganni del corpo 225
XIX. Menzogna e politica 237
XX. Menzogna e informazione 255

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332 La verità sulla menzogna

XXI. La trappola di internet 263


XXII. Verità e post-verità (post-truth) 279
XXIII. Alla ricerca della verità perduta: fact-checking 287

Appendice tecnica 295


1. La verità 297
2. Conoscenza e verità 305
3. Verità, realtà e percezione 311
4. Le macchine della verità 317

Bibliografia essenziale 323

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Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
info@edizioniets.com - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di ottobre 2017

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Liliana Dell’Osso, Professore Ordina-
S ocrate, che pur si procla- Liliana Dell’Osso Luciano Conti La verità è così potente che anche

Liliana Dell’Osso Luciano Conti


rio, è Direttore dell’Unità Operativa e del- mava amico della verità, i Diavoli sono costretti a praticarla
la Scuola di Specializzazione in Psichiatria tra di loro perché nessuna comunità
dell’Università di Pisa e Vicepresidente sosteneva essere più sapien-
te colui che mente sapendo di può esistere e perpetuarsi senza
del­­la Società Italiana di Psichiatria.
la verità e anche la comunità
È autrice/coautrice di oltre 800 pubbli- mentire rispetto a colui che è
cazioni su riviste scientifiche prevalente- dell’Inferno non potrebbe
capace di dire soltanto il vero. esistere senza di essa.
mente internazionali e dei saggi: L’altra
Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un Anticipava così di circa 25 se-
Cold case (Le Lettere, 2016) e L’abisso ne- coli quanto è stato documen- Sir Thomas Browne
gli occhi. Lo sguardo femminile nel mito e tato mediante il brain imag-
nell’arte (ETS, 2016).
ing: una maggiore attività ce-
È inserita nella Top Italian Scientists, Cli-
nical Sciences, della Virtual Italian Aca- rebrale in chi mente. A differenza della verità, unica, in-
demy che include gli scienziati italiani difesa – la “nuda” verità –, la menzogna ha mille volti e
ad alto impatto, nella Top Italian Wom- un campo indefinito; essa pervade ogni ambito si vada a
en Scientists e nel catalogo online delle
esplorare, da quelli più generali (storico, filosofico, mora-
scienziate italiane 100esperte.it.
le) ai più specifici (artistico, socio-politico, dell’informa-

La verità sulla menzogna


Luciano Conti, Professore Associato, ha zione, della salute, della scienza), compresi quelli della ma-

Dalle origini alla post-verità


svolto per oltre quarant’anni attività di- lattia mentale (psicologico, psicoanalitico, psichiatrico),
dattica, assistenziale e di ricerca presso la ora plasmandola, ora dandole un contenuto, spesso inter-
Clinica Psichiatria dell’Università di Pisa
ed è attualmente collocato a riposo.
ferendo con il suo decorso ed esito.
Ha pubblicato su riviste scientifiche ita- Fake news, post-truth, concetti già contenuti in Platone e
liane e internazionali, come autore/coau­ Machiavelli, hanno raggiunto un’estrema virulenza negli
tore, oltre 200 lavori. È autore di un Com- ultimi anni, grazie all’ormai universale diffusione dei social
pendio di Psichiatria e Igiene Mentale
(SEE, 1995), del volume Salute Mentale e
Società (Piccin, 1989) e del volume in tre
media che, praticamente senza controllo, stanno inquinan-
do capillarmente la nostra vita sociale e politica. La verità sulla menzogna
tomi Repertorio delle Scale di Valutazione
in Psichiatria (SEE, 1999-2000).
Dalle origini alla post-verità

In copertina:
Mariano Chelo, Pinocchio Narciso;
sul retro copertina: Mariano Chelo,
ETS Edizioni ETS Pinocchio vitruviano.
www.marianochelo.it

5004-4_Dell-Osso-Conti-cover_15,5x22,5.indd 1 27/10/17 14:36

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