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S ocrate, che pur si procla- Liliana Dell’Osso Luciano Conti La verità è così potente che anche
€ 28,00 In copertina:
Mariano Chelo, Pinocchio Narciso;
sul retro copertina: Mariano Chelo,
ETS Edizioni ETS Pinocchio vitruviano.
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ISBN 978-884674813-3
in largo i vari campi, attingendo alle diverse fonti per giungere all’amara
conclusione che la verità, tanto lodata, amata, invocata, è in via di estin-
zione.
Verità e menzogna sono i due poli di un’unica dimensione, la comu-
nicazione, che esiste solo in funzione della loro contrapposizione. Fra le
due, la verità ha il ruolo più scomodo e più difficile da ogni punto di vista,
filosofico, morale, sociale, psicologico e persino psicopatologico.
Si impara a mentire così presto e bene che, nel corso dello sviluppo,
più che a mentire, sembra quasi si debba imparare a dire la verità per gra-
tificare i genitori, acquistare la stima di sé e adeguarsi alle richieste sociali.
Un ruolo comunque perdente, se si considera che la filosofia continua
ancora oggi ad avere idee divergenti su che cosa sia la verità.
Se ci fossero dubbi sul fatto che l’inclinazione a mentire sia una tenden-
za innata, è sufficiente ricordare che tutti gli esseri viventi, piante e animali,
ordiscono inganni con i mezzi di cui dispongono: non ultimo il neonato,
che affamato, si autoinganna succhiandosi il pollice. D’altra parte è ormai
documentato che la capacità di mentire è tanto più sviluppata quanto più
lo è l’intelligenza dell’animale, cioè quanto maggiori sono le dimensioni
della neocortex4 – e l’uomo è l’essere con la neocortex più sviluppata.
Durante la crescita il genitore, stimolando la già ricca fantasia dei figli
con fiabe e novelle, contribuisce a far sì che, già verso i tre anni, il bam-
bino sia in grado di elaborare le consapevoli “realtà” alternative che defi-
niamo bugie. Questa capacità segue la crescita e aumenta con l’età. Infatti
è stato osservato che giovani liceali, parlando informalmente per dieci
minuti con persone appena incontrate, dicevano una bugia (generalmen-
te inutile) ogni tre o quattro minuti [83] e che, nel gruppo, i leader erano
i mentitori migliori [82]. Con queste premesse è facile immaginare quale
eterogeneità e raffinatezza d’impiego troverà la menzogna nell’età adulta!
Socrate, cui pure si deve la famosa frase “Amicus Plato, sed magis ami-
ca veritas”5, sosteneva la superiorità dell’intelligenza di chi sa mentire ri-
spetto alla stolidità di chi non ne è capace [151]. A conferma di ciò, la
Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) dimostra che mentire richiede
un livello di attivazione cerebrale maggiore rispetto a quello necessario a
dire la verità, per cui non stupisce che soggetti con ritardo mentale non
mentano, non sappiano mentire o, se ci provano, siano facilmente sco-
perti perché l’elaborazione della menzogna presuppone un buon funzio-
namento del cervello.
per il naso come una bufala”: com’è noto, per guidare buoi e bufali, si mette loro un anello al naso
attraverso il quale si fa passare una corda. Un’espressione simile, “prendere per il naso”, è forse di
analoga derivazione.
10 Post-truth è stato tradotto letteralmente in italiano come post-verità, termine che non
esprime il significato originale, cioè di “al di là della verità” o, come suggerisce la Crusca, “supera-
mento”, “annullamento” della verità.
d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere
afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza
radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in
modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di
un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero
sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disinte-
grato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero siste-
ma porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati
con uguale peso» [171].
Liliana Dell’Osso
Luciano Conti
12 In realtà c’è un ulteriore livello di lettura rappresentato dalla lente “deformante” psichiatri-
Fino agli anni ’90, le bambine giocavano con molto realismo a “fare la mamma” con
bambolotti (che la tecnologia e l’elettronica rendevano sempre più simili a bambini
veri), mentre i maschietti erano impegnati in giochi più “violenti” volti a creare le
prime gerarchie sociali. Ma potremmo dire lo stesso anche oggi? Chi ha visto crescere,
negli ultimi vent’anni, figli o nipotini, ai quali, già a 2-3 anni, vengono messi a dispo-
sizione giochi elettronici, tablet o smartphone, non può certamente aspettarsi che, se
leggesse loro le fiabe della tradizione classica, otterrebbe reazioni e commenti simili a
quelli dei coetanei di qualche decennio fa.
Nel suo blog (http://ilmiolibro.kataweb.it/articolo/scrivere/11278/dieci-fiabe-dei-
fratelli-grimm/?ref=fb), Amleto De Silva ha provato a immaginare le reazioni di sua
figlia alle più conosciute fiabe dei fratelli Grimm. Ne riportiamo alcune a titolo di
esempio:
“Cappuccetto Rosso” - Un giorno sua madre le disse: «Vieni, Cappuccetto Rosso,
eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna; è debole e malata e
si ristorerà. Sii gentile, salutala per me, e va’ da brava senza uscire di strada, se no cadi,
rompi la bottiglia e la nonna resta a mani vuote».
– Papà, fammi capire, la nonna sta male e lei le manda il vino? E i trigliceridi? E il
colesterolo? E il fegato?
“Biancaneve” - Proprio in quel momento, arrivò di corsa un cinghialetto. Il caccia-
tore lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova. Ella, nella
sua bramosia, li fece cucinare sotto sale e li divorò credendo di mangiare i polmoni e il
fegato di Biancaneve.
– La matrigna era cattiva e va bene, ma pure cannibale?
“Il lupo e i sette caprettini” - I sette capretti vennero di corsa, gridando: «Il lupo è
morto! il lupo è morto!» E con la loro mamma ballarono di gioia intorno alla fontana.
– Ma i lupi sono buoni, e in via d’estinzione, ce l’hanno detto a scuola!
“I musicanti di Brema” - Un uomo aveva un asino che lo aveva servito assiduamen-
te per molti anni; ma ora le forze lo abbandonavano e di giorno in giorno diveniva sem-
pre più incapace di lavorare. Allora il padrone pensò di toglierlo di mezzo, ma l’asino si
accorse che non tirava buon vento, scappò e prese la via di Brema.
– Fammi capire, papà: l’asino ha lavorato per lui tutta la vita e adesso il padrone,
per ringraziarlo, lo vuole uccidere?
“Rosaspina” - La fata disse ad alta voce: «A quindici anni, la principessa si pungerà
con un fuso e cadrà a terra morta».
– Ecco, a me leggi queste cose e poi dici che se vado su YouTube la notte non dor-
mo. Ma sei scemo?
“La principessa sul pisello” - Così capirono che era una principessa vera, perché
aveva sentito il pisello attraverso venti materassi e venti grossi cuscini di piume. Solo
una principessa poteva avere una pelle così sensibile!
– Mammaaa! Papà è di nuovo ubriacooo!
Certamente uno dei racconti che più ci hanno colpito è quello di Pi-
nocchio, con il suo naso di dimensioni variabili secondo le bugie che rac-
contava. Le avventure di Pinocchio [48], vero romanzo “di formazione”, è
probabilmente uno dei testi italiani più tradotti all’estero e gli adattamen-
ti cinematografici, da quello di Walt Disney (1947) a quelli di Comencini
(1972) e di Benigni (2002), hanno contribuito a rafforzarne la popolarità.
Pinocchio mente spesso e, quando lo fa, il suo naso si allunga palesan-
do la menzogna:
1 I giovani che avevano preso parte a una ricerca di Feldman e coll. [83] (di cui diremo al
Cap. III), mentivano mediamente ogni 3,3 minuti nel corso di conversazioni generiche nelle quali
non vi era alcuna reale motivazione per mentire.
2 Ma, come dice R.L. Stevenson, «Le bugie più crudeli sono spesso dette in silenzio».
– Con il termine affermazione (punto 1) non si intende l’uso del solo lin-
guaggio convenzionale, parlato o scritto, ma anche di tutti i linguaggi
“speciali”, anche non verbali (come la lingua dei segni) e di tutte quelle
azioni e simboli che sono riconosciuti e accettati come comunicati-
vi, come far cenno di sì o di no con la testa, sventolare una bandiera
bianca in segno di resa e altro ancora. Sono considerate menzogne sia
l’alterazione della verità sia la sua negazione o il suo occultamento.
– L’affermazione (punto 2) deve essere ritenuta falsa dal mentitore, in-
dipendentemente dalla sua falsità intrinseca: non c’è menzogna se egli
dice il falso credendo in buona fede che sia vero3.
– Ovviamente, per mentire è necessario che ci sia un interlocutore (pun-
to 3), ma non necessariamente deve essere diretto: i politici, i mass
media, gli evasori fiscali mentono a interlocutori indefiniti.
– Fondamentale è l’intento, la volontà esplicita di ingannare4 (punto 4):
in assenza, non si può parlare di menzogna; né è in funzione dell’esito:
la menzogna rimane tale anche se viene scoperta.
Ben diverso è il caso di affermazioni precedute da espressioni come
«credo», «potrebbe darsi», che ne mitigano o mettono in dubbio il con-
tenuto, o quelle in cui l’inganno è esplicito come nel teatro, nella satira,
nelle metafore, negli scherzi, nelle formule di cortesia e altro ancora e
pertanto non si richiede all’interlocutore di credere in quelle affermazioni
(e se lo fa è perché ha frainteso).
Affinché l’azione del mentitore abbia successo, è necessario che non
sia volta a far credere alla vittima ciò che la stessa non potrebbe mai cre-
dere (per cultura, esperienza, fede, età o altro). Al contrario, la menzogna
deve riguardare contenuti in cui il livello di credenza non sia assoluto ma
suscettibile di variare sulla base di nuove informazioni5.
Locutio contra mentem, affermazione contraria al pensiero, secondo
gli antichi, che davano alla parola locutio il più ampio significato. D.L.
Smith [179] ha estremizzato il concetto di menzogna in una definizione
omnicomprensiva:
una qualsiasi forma di comportamento la cui funzione è fornire agli altri
false informazioni, o privarli di informazioni vere.
In tal modo, tutto ciò che non è genuino, verbale o non verbale, con-
3 Questa definizione ha una limitazione perché pone la condizione che si tratti di una “affer-
mazione”.
4 Fallendi cupiditas, voluntas fallendi diceva Sant’Agostino.
5 Se, ad esempio, credo fino a un certo punto nei vantaggi di una dieta vegetariana rispetto a
una omnivora, notizie scientificamente fondate (o provenienti da persone in cui ho fiducia) a favore
o contro tale dieta possono aumentare o ridurre il mio livello di “credenza” o certezza.
6 In questo senso, anche gli animali superiori (e soprattutto i primati) mentono quando, ad
esempio, di fronte a un avversario più forte, gli voltano la schiena, vuoi per nascondere l’espressione
di paura, vuoi per mostrare di non temerlo. L’argomento è comunque molto dibattuto tra i biologi.
7 Gerione era una figura della mitologia greca, un gigante con tre teste messo a guardia delle
vacche rosse di Apollo. Ercole, per ordine di Euristeo, uccise Gerione e rubò le vacche.
Il grido di Iago, «Io non sono quel che sono»9, è il grido di chi abita la
menzogna [130], è lo stesso del protagonista del film di Chabrol (1999),
Il colore della menzogna, quando confessa a sua moglie di avere ucciso il
giornalista (che sospettava essere suo amante): «Non mi conosci... non sai
chi sono». Aggiungerà, quando intuisce l’intenzione della moglie di con-
dividere il suo segreto, «Benvenuta nel regno dei morti».
Siamo uomini e legati gli uni agli altri solo per mezzo della parola. Se cono-
scessimo l’orrore e la portata di tale vizio [la menzogna], lo puniremmo col
fuoco più giustamente di altri delitti [64].
8 Iago, in tutta la tragedia, si limita a sottolineare maliziosamente dei fatti accaduti favorendone
l’interpretazione distorta di Otello, mente soltanto sul sogno di Cassio e dietro pressione di Otello stes-
so che vuole una “prova”, attenuando subito dopo la sua affermazione con un «Ma era solo un sogno».
9 Come non ricordare che Dio si era presentato a Mosè come «Io sono colui che sono»?
Fedra, figlia di Minosse, re di Creta, e di Parsifae, sorella di Arianna (che aveva aiutato
Teseo a uccidere il Minotauro ed era stata da lui abbandonata sull’isola di Nasso), spo-
sò Teseo, il quale aveva un figlio, Ippolito, avuto da Ippolita, regina delle Amazzoni,
un giovane bellissimo, dedito solo alla caccia, schivo della vita sociale e della sessualità
e anche orgoglioso della propria verginità. Afrodite, per punirlo, suscitò in Fedra, sua
matrigna, una forte passione verso di lui:
Da quando amore mi ferì, io cercai
come sopportarlo nel modo più nobile,
[...] tacere e nascondere questo morbo.
[...]
A me, allora, è toccato solo il dolore.
Si confida con la vecchia nutrice che, nel tentativo di aiutarla, rivela a Ippolito il suo
amore. La reazione del giovane è così offensiva e brutale che Fedra decide di vendicarsi:
a Teseo, tornato dagli Inferi, dice che Ippolito ha cercato di abusare di lei. L’eroe in-
voca suo padre Poseidone lanciando un anatema mortale contro il proprio figlio e lo
bandisce da Atene. Mentre Ippolito si allontana su un carro, un mostro esce dal mare,
fa imbizzarrire i cavalli e il carro va a schiantarsi contro le rocce. Quando il cadavere di
Ippolito viene riportato alla reggia, Fedra confessa la sua menzogna a Teseo e si uccide.
aver messo in atto una truffa da oltre 50 miliardi di dollari, il broker Ber-
nard Madoff, Bernie per gli amici.
Negli anni Sessanta, investendo i propri guadagni di bagnino, Bernard Madoff entrò
nel mondo della grande finanza applicando su vastissima scala il “sistema Ponzi”, un
sistema piramidale consistente nel pagare agli investitori interessi superiori a quelli di
mercato utilizzando i capitali portati da nuovi investitori: il sistema funziona fintanto
che si trovano nuovi investitori. L’inventore del sistema, Charles Ponzi, durò poco
perché si rivolgeva a investitori modesti. Bernie, invece, si rivolgeva a banche e a so-
cietà finanziarie di prima grandezza (evidentemente anche lì allignano tanti Pinocchi
in cerca di “campi dei miracoli” in cui seminare i propri zecchini d’oro aspettandosi
di trovare, all’indomani, alberi carichi di monete!). Quando fu scoperto (nell’anno
fatidico della crisi economica mondiale, il 2008), fu condannato a 150 anni di carcere
ma un anno dopo cercò di uscire di galera affermando, senza alcuna documentazione,
di avere una malattia terminale per cui chiedeva di poter passare gli ultimi mesi in
famiglia: gli fu negato e a tutt’oggi, vivo e vegeto, sconta la sua condanna in un peni-
tenziario del North Carolina.
tadini alla spesa pubblica: la cosa funzionò (come funziona ancora adesso) e ne fu
nominato responsabile.
Fra le avventure più curiose c’è quella con un cantante sedicente castrato: convinto
che fosse una donna gli fece una corte tale che gli consentì alla fine, di scoprire di aver
ragione poiché, di fatto, era una ragazza che, rimasta orfana, si faceva passare per un
castrato per poter cantare nei teatri, allora preclusi alle donne. La storia continuò anche
in seguito, in giro per l’Europa, essendo lei richiesta dai maggiori teatri. Sul versante
opposto si colloca la storia con una ragazza inglese, Charpillon, che gli si negò sempre
portandolo sull’orlo del suicidio, non tanto per l’amore quanto per l’onta del rifiuto.
Rimasto orfano in tenera età, Cagliostro cresce in istituti dai quali, a testimonianza
della sua precoce indole ribelle, fugge più volte. È in uno di questi istituti, annesso a
un ospedale, che inizia a conoscere le proprietà delle erbe, cosa che gli tornerà utile
in seguito. Incomincia ben presto a viaggiare per il mondo cambiando spesso nome
e spacciandosi per nobile, discendente di Carlo Martello. Depositario dei più recon-
diti segreti delle scienze occulte, cabalista, sedicente medico, “scopritore” dell’elisir
dell’immortalità e di polveri miracolose per rinvigorire i nervi indeboliti di nobili sfi-
brati dagli stravizi.
Si sposa a 25 anni con Lorenza, una giovane romana bella e analfabeta che, dopo
circa vent’anni di avventure, tradimenti e riconciliazioni per mezza Europa, lo de-
nuncerà. Fu condannato dal Sant’Uffizio per esercizio dell’attività di massone, magia,
bestemmie contro Dio, Cristo, la Madonna, i santi e i culti della religione cattolica,
lenocinio, falso, truffa, calunnia e pubblicazione di scritti sediziosi. Sarà rinchiuso pri-
ma a Castel Sant’Angelo e poi, dopo l’abiura, nella Rocca di San Leo dove morirà nel
1795 all’età di 52 anni.
Negli anni della prigionia alternerà fasi di devozione a violente ribellioni, apatia
e rabbia finché, come scrisse il cappellano del carcere, «Dio benedetto giustamente
sdegnato contro un empio, che ne aveva arrogantemente violate le sante leggi, lo abban-
donò al suo peccato ed in esso miseramente lo lasciò morire: esempio terribile per tutti
coloro che si abbandonano alla intemperanza de’ piaceri in questo mondo e ai deliri
della moderna filosofia».
Figure epiche che hanno portato la menzogna e l’inganno alle loro vet-
te più eccelse!
A chiusura del capitolo, giova ricordare che Machiavelli [123] scriveva:
Sono tanto semplici gli uomini e tanto obbediscano alle necessità presenti,
che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Se non ci fosse chi è disposto ad ascoltare e a credere, la carriera del
mentitore sarebbe senza sbocchi!
Chi sia stato colui che per primo, senza essere andato a caccia,
raccontò agli esterrefatti cavernicoli come aveva ucciso il mammut
non posso dirlo. Tuttavia, qualunque fosse il suo nome e la sua razza,
egli certamente fu il fondatore delle relazioni sociali.
(Oscar Wilde, The decay of lying, 1889)
Le origini naturali
Il pavone mente per conquistare la femmina:
tra le sue tattiche anche la menzogna.
Sicuri che l’uomo discenda dalla scimmia?
(Anonimo)
Affermando che
la menzogna è il male particolare che l’uomo ha introdotto nella natura
[...] è l’invenzione che più ci contraddistingue
Martin Buber [34] evidenzia il nesso inscindibile fra natura umana, co-
municazione verbale e intento mendace (sul piano etico). Da un punto
di vista scientifico si può osservare come in natura, non solo nel mondo
animale ma anche in quello vegetale, sia molto diffuso l’inganno, general-
mente finalizzato alla conservazione di sé e della specie.
Nella lotta per la sopravvivenza è fondamentale avere gli strumenti
adatti a ingannare nemici e rivali. L’inganno è certamente uno degli stru-
menti più raffinati di cui il mondo naturale dispone [106]. Sappiamo be-
nissimo, ad esempio, che i virus adottano strategie ingannevoli per scon-
figgere il sistema immunitario dell’organismo ospite e, salendo nella scala
biologica, s’incontrano a ogni passo animali che adottano diverse forme
di dissimulazione, di mascheramento che consentono loro di vincere la
battaglia per la sopravvivenza e/o la riproduzione. Il soldato che indossa
la tuta mimetica fa semplicemente ciò che fanno gli animali quando cer-
cano di confondersi con l’ambiente, e le tute mimetiche sono il prodotto
di studi di naturalisti. Fin dall’alba dei tempi, gli animali si adornano, nel
periodo degli amori, per essere più attraenti; noi (e ormai non più solo le
donne) lo facciamo regolarmente perché non abbiamo un periodo degli
amori e la sessualità non è strettamente legata alla riproduzione.
Anche il mondo vegetale fa uso di tecniche di simulazione e dissimula-
zione, per nutrirsi, per diffondere il polline, per difendersi dai nemici. Le
piante carnivore usano colori sgargianti o profumi intensi per attrarre gli
insetti, intrappolarli e mangiarli procurandosi in questo modo le proteine
di cui hanno bisogno. Alcune orchidee assumono l’aspetto e l’odore della
femmina di imenottero per attirare gli imenotteri maschi e ricoprirli di
polline con il quale impollineranno altre orchidee. La patata, per allon-
tanare gli afidi, imita il segnale chimico della loro predatrice naturale, la
coccinella. E che dire del gigaro che, per impedire l’autoimpollinazione
(l’incesto!) sequestra i moscerini dentro il fiore per diversi giorni? [43]
A ben riflettere, tuttavia, se l’inganno per sottrarsi ai predatori fosse
assoluto, i predatori non avrebbero speranza di sopravvivere se non svi-
luppando sistemi percettivi più efficienti che consentano di distinguere le
apparenze dalla realtà: la capacità di riconoscere l’inganno è, in termini
evolutivi, funzionale quanto la capacità di ingannare.
Altrettanto vantaggiosa è la simbiosi, un’associazione intima, spesso
obbligata, che si osserva sia all’interno di una specie sia fra specie diver-
se; la collaborazione presuppone un comportamento di lealtà1: a volte,
condividere la verità con un amico può essere utile quanto ingannare un
nemico [106], e gli organismi che collaborano con altri, generalmente,
sopravvivono di più rispetto a quelli che non lo fanno.
Ispirandosi al modello evoluzionistico, il sociobiologo D.L. Smith
[179] sostiene che la capacità di mentire è intrinseca all’inconscio uma-
no evoluto, dati i vantaggi funzionali che offre a coloro che la usano con
giudizio e definisce “modulo machiavellico” l’area dell’inconscio che ci in-
segna a mentire; Maestripieri [124] sostiene che tanto gli umani quanto i
macachi Rhesus hanno una “intelligenza machiavellica”.
Sono numerosi gli studiosi che hanno osservato a lungo, nel loro habitat naturale,
diverse specie di primati, soprattutto grandi primati, e tutti hanno riportato episodi
inequivocabilmente riferibili al mentire, al simulare, per trarne dei vantaggi o per sot-
trarsi a situazioni critiche.
Possiamo citare l’episodio dei due giovani scimpanzé intenti a scavare per raggiun-
gere del cibo in precedenza nascosto sotto terra, i quali, all’arrivo di uno scimpanzé più
1 Curiosa è la simbiosi tra il piviere egiziano e il coccodrillo: il piviere entra nelle fauci spa-
lancate del coccodrillo e si nutre dei residui del cibo e dei parassiti che si annidano fra i denti e in
questo modo si crea una difesa da possibili aggressori che difficilmente si avvicinerebbero al cocco-
drillo per catturare l’uccello.
Una nostra amica ha un orto, dietro casa, dove tiene alcune galline e possiede anche
un cane il quale, quando vede una di queste galline, sempre la stessa, si mette a rin-
correrla: lei, quando il cane sta per raggiungerla, si lascia cadere in terra e se ne sta
immobile fingendosi morta. Il cane le dà un’annusatina e se ne torna sui suoi passi
lasciandola libera di riprendere a becchettare. Con buona pace di Cochi e Renato che
cantavano «la gallina non è un animale intelligente»!
2 Koko, una gorilla addestrata per anni a comunicare con il linguaggio del segni, arrivò ad
accusare il suo gattino preferito, Lipstick, di avere divelto un lavandino dal muro!
Le origini sociali
Mi racconti una fiaba?
No, ti racconto una balla, così ti abitui.
(Altan)
Questa società, che la Gimbutas ha chiamato gilanica (nome derivato dalla fusione di
“gi” e “an”, abbreviazioni dei termini greci “gyne”, donna e “andros”, uomo), avrebbe
avuto la sua culla nell’area dei Balcani, raggiungendo anche l’isola di Creta, e avrebbe
influenzato gran parte dell’Europa del nord (se ne sono trovate tracce anche in Asia e
nell’America del Sud).
Nei loro scavi, le due archeologhe non hanno mai trovato armi, neppure quando già
si lavoravano i metalli, non hanno trovato alcuna rappresentazione di guerre, ma han-
no trovato un’infinità di statuette rappresentanti, inequivocabilmente, la Dea Madre
(o la Grande Dea, come la chiamava la Gimbutas), a documentare che, all’inizio, il dio
era donna. Questa società, matrilineare, non prevedeva l’impiego della forza fisica né a
scopo offensivo né difensivo, né l’uso di strumenti di morte; non aveva eserciti o mura
di cinta, il contesto era libero e pacifico, non c’erano repressioni, ingiustizie, gerarchie,
3 Il sito http://www.guerrenelmondo.it/ che tiene il conto delle guerre in atto nel modo, alla
data del 31 Dicembre 2016 riportava – considerando, oltre alle guerre tradizionali, quelle civili, gli
scontri con ribelli, la guerra al narcotraffico ecc.) – 25 guerre in atto (10 in Africa, 5 in Asia, 4 in Eu-
ropa e nel Medio Oriente e 2 in America) che coinvolgevano 67 Stati e 745 fra milizie, guerriglieri,
gruppi terroristici, separatisti, anarchici.
smentendo chi sostiene che gli esseri umani siano portati, per natura, al dominio e alla
malvagità; il sistema era strutturato orizzontalmente, basato sul concetto della libertà
senza autorità, e questo clima aveva favorito lo sviluppo scientifico, artistico e tecno-
logico.
Il declino di queste società avvenne per l’afflusso in Europa, fra il 4° e il 3° millennio
a.C., di popolazioni indoeuropee, patriarcali e guerriere, provenienti dal Caucaso e
dalla Siberia, che assoggettarono le società gilaniche imponendo il loro modello socia-
le patrilineare che, nella sostanza, è alla base della nostra civiltà. Grazie al suo essere
isola, Creta fu l’ultimo baluardo gilanico fino al 1500 a.C., l’unico luogo in cui donne
e uomini vivevano in un rapporto paritario che non si ritroverà mai più nelle culture
“civili”, “democratiche”, in Grecia e nel resto del mondo.
Il legittimismo può esser fatto risalire alla Lex Salica (voluta dal re dei franchi, Clo-
doveo, verso il 503), che stabiliva la linea successoria per via maschile e legittimava
l’assolutismo monarchico. Il potere del re, rifacendosi a interpretazioni dell’Antico
Testamento, derivava direttamente da Dio, trasferito al figlio primogenito, era asso-
luto e ribellarsi al re equivaleva a ribellarsi a Dio. La Rivoluzione francese stabilì che
la sovranità spetta alla Nazione e il governo legittimo è quello deciso dai cittadini.
Durante il Congresso di Vienna (1814-1816) Talleyrand cercò, inutilmente, di ripri-
stinare la Lex Salica.
imparentati, o contro eroi nemici protetti da dèi rivali, ora, più semplice-
mente, per togliersi qualche capriccio4. Gli dèi, per far questo, non disde-
gnavano di assumere aspetto umano o, addirittura, animale. Tutte le pas-
sioni erano motivo per intervenire direttamente nella vita degli umani.
Zeus, re degli dèi e degli uomini, dio del cielo e del tuono, era anche re delle menzo-
gne, degli inganni, delle frodi, delle prevaricazioni, degli stupri.
Già la sua nascita fu un inganno: Crono, suo padre, divorava tutti i suoi figli appena
nati perché gli era stato predetto che sarebbe stato spodestato da uno di loro, come
lui aveva fatto con suo padre Urano. Quando fu prossima a partorire Zeus, Rea, sua
madre, aiutata da Gea, dette a Crono, che aveva già mangiato i cinque figli precedenti,
al posto del figlio, un sasso avvolto in un panno che Crono divorò immediatamente,
mentre il neonato veniva nascosto in una grotta sul monte Ida di Creta.
Zeus, quando raggiunse l’età adulta, spodestò Crono: Metis, sua moglie, gli fornì
un potente emetico, che indusse il padre a vomitare la pietra che lo aveva sostituito e
tutti i fratelli e le sorelle ingeriti prima di lui. Sconfisse prima Crono e gli altri Titani,
quindi i Ciclopi, dopo di che spartì il mondo con Poseidone (le acque) e Ade (il regno
dei morti) mentre a lui spettarono il cielo e l’aria. Ebbe diverse spose, di cui l’ultima
fu Era5, sua sorella, con la quale ebbe Ares, Ebe ed Efesto, e, nonostante la terribile
gelosia di Era (da lui contraccambiata!), ebbe una serie infinita (almeno un’ottantina)
di relazioni con altre divinità, con ninfe e con mortali, in parte consenzienti e in parte
con l’inganno, da cui nacquero 150 fra figli e figlie.
La storia dei matrimoni di Zeus può essere considerata la metafora del passaggio
dal matriarcato al patriarcato, dalla matrilinearità alla patrilinearità. La prima spo-
sa fu Metis che, con la sua saggezza profetica, gli consentì di conquistare e gestire il
potere; rimasta incinta di Atena, prima che partorisse, Zeus la ingoiò e quindi Atena,
che sintetizzava in sé il potere e il sapere, nacque dalla sua testa. La seconda fu Temi
portatrice della pace, della giustizia e dell’ordine; la terza, Eurinome, portatrice della
bellezza; la quarta Demetra, madre dell’abbondanza, delle messi, dei frutti; la quinta
Mnemosine, madre delle Muse e quindi della gioia, del canto, dell’armonia; la sesta,
Leto, madre di Apollo e di Artemide quindi della poesia e della luce. L’ultima fu Era,
simbolo della fedeltà coniugale, del matrimonio monogamico. Il regno di Zeus si ca-
ratterizza perciò per la saggezza, la stabilità politica, la bellezza, la maternità, la poesia,
e culmina con l’istituzione del matrimonio. Nonostante le sue continue avventure
4 Ci potremmo chiedere se gli umani, dopo essersi tolti qualche capriccio tra di loro, per
galanti, il padre degli dei era in continua lite con Era ma non si separò mai da lei.
Attraverso questi matrimoni, Zeus si appropriava delle caratteristiche del matriarcato
trasferendole nel patriarcato.
Ma se gli dei erano “falsi e bugiardi”, potevano gli uomini non sentirsi
autorizzati a imitarli? A questo proposito la letteratura greca annovera tra
le sue fila alcuni fra i più famosi bugiardi, come l’Ulisse di Omero [140],
ma si può anche citare Aristofane che, nelle sue commedie, portava in
scena le fanfaronate iperboliche di una quantità inesauribile d’imbroglio-
ni, truffatori, ciarlatani.
Tralasciando gli Scribi e i Farisei, di cui è ben noto ciò che disse Gesù6,
citiamo la Compagnia di Gesù – la cui regola ammetteva la simulazione,
stabilendone anche le norme –, che Benedetto Croce [53] bollò definen-
dola “la più cospicua incarnazione storica del principio che si possa ragio-
nevolmente frodare la legge etica”.
Attraversando la storia dei popoli, delle nazioni, delle religioni e anche
della scienza, vediamo, senza dubbio alcuno, la menzogna protagonista in
tutte le epoche e in tutte le latitudini. L’autorità costituita, laica o religiosa
che fosse, mal tollerando i dissidenti, li costringeva ad attestare il falso per
salvarsi la vita. Si pensi non solo alle streghe e all’Inquisizione ma anche a
scienziati, pensatori e filosofi – fra i tanti Galileo Galilei, Tommaso Cam-
panella, Giordano Bruno – costretti ad abiurare le loro scoperte o le loro
idee per sottrarsi alla morte (qualche volta, come avvenne per Giordano
Bruno, inutilmente).
Abbiamo già detto che proprio il costituirsi di gruppi sociali ha posto
di necessità dei limiti al mentire: è possibile stare insieme solo se i membri
del gruppo sono sinceri, onesti, leali, affidabili nei rapporti reciproci. La
fiducia fra i membri di un gruppo sociale è fondamentale e deve prevalere
sulle spinte individualistiche. La pressione sull’onestà, sulla verità è un
bisogno di natura sociale più che spirituale poiché la menzogna, minando
la fiducia all’interno della società, ne compromette gli equilibri. Non a
caso, in molte lingue, il termine “verità” ha anche il significato di dovere,
obbligo, lealtà, affidabilità. È interessante osservare che, in molte società
tribali, la verità ha una diversa implicazione etica a seconda che sia rivolta
ai membri della tribù o agli estranei o, a maggior ragione, agli avversari7.
Secondo Keyes [112], è del tutto ragionevole pensare che, finché i
gruppi sociali sono di dimensioni limitate, consentendo la conoscenza
reciproca dei componenti, ci sia poco spazio per la menzogna. Il contatto
costante renderebbe onesti:
nessuna macchina della verità è paragonabile alle persone che si conoscono
bene tra loro.
In realtà, in una comunità (intesa, come ha detto qualcuno, come un
luogo in cui i residenti non possono mentire sulla propria età), non ne-
cessariamente i membri sono onesti e solidali tra loro, anzi, spesso è l’op-
6 “... sepolcri imbiancati, i quali di fuori appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti
e di ogni putredine” Matteo [129].
7 “Quando ho letto ciò che l’uomo bianco ha scritto dei nostri costumi, mi è venuto da ridere
perché è usanza della nostra gente mentire regolarmente agli estranei e in particolare all’uomo bian-
co”: così avrebbe raccontato un membro di una tribù nigeriana a Salamone [163].
strumenti più efficaci per avvicinarci alla verità, ha finito per creare una
confusione, una Babele dell’informazione, matrice ideale, terreno di col-
tura ottimale per la menzogna. In definitiva, non è cambiata la sostanza
delle cose, forse la menzogna è diventata più democratica, più alla portata
di tutti. Pertanto, quando c’è un utile da conseguire, una colpa da giusti-
ficare, un desiderio da appagare, un capriccio da soddisfare, e la verità
potrebbe rappresentare un ostacolo al raggiungimento del fine agognato,
è automatico (com’è sempre stato) il ricorso alla menzogna.
Su un altro versante si colloca l’uso della menzogna nel contesto dei
rapporti sociali, cioè la menzogna convenzionale, la cui nascita può essere
collocata nelle corti italiane e francesi durante il Rinascimento. Natural-
mente si è evoluta nel corso dei secoli; pur con molti salti e lacune, ve-
diamo di seguirne qui il filo conduttore principale. Nell’alto medioevo, le
corti di re, principi e nobili vari erano generalmente castelli severi, quasi
dei bivacchi militari, le cui regole e logiche ricalcavano quelle del milita-
rismo feudale e, fra guerre, congiure e tradimenti, c’era poco spazio per i
rapporti di politesse, di cortesia. È solo con l’avvento delle Signorie, dedite
più ai commerci che alle guerre (delegate a milizie mercenarie), che le
corti si sono trasformate in luoghi raffinati, complessi, regolati da rituali
e codici i quali tenevano conto delle apparenze e della socialità più che
della sincerità. Questo approccio ha la sua culla nell’Italia del XVI secolo,
terra allora di vivace sperimentazione sociopolitica: è l’epoca in cui, con
il Principe di Machiavelli, cade il tabù della menzogna strumentale e, con
esso, l’idea del sovrano che, in quanto investito di un potere divino, non
dovesse mentire. Senza svolazzi moraleggianti o colte citazioni di filosofi
classici, si afferma che il principe non può farsi carico di scrupoli morali
nell’esercizio della sua funzione politica: è un lusso che non può – e, per il
bene del suo regno, non deve – permettersi. Nel passaggio dal basso me-
dioevo al XVI e XVII secolo nasce una specifica “etichetta” di corte, la co-
siddetta dissimulazione onesta, codificata da Baldassarre Castiglione [42],
nel Libro del Cortegiano. Giordano Bruno la riteneva uno scudo contro
la persecuzione religiosa di chi predicava la verità. Pascal [145] sosteneva
che l’esistenza della società si fonda sul reciproco inganno. I grandi dissi-
mulatori facevano scuola: esistono vari libelli – di cui il più celebre è forse
l’anonimo Breviario di Mazzarino, che la tradizione ascriverebbe al Car-
dinale stesso – in cui si descrivono tutte le tecniche, i consigli e persino
la fisiognomica necessaria per il giovane aspirante alla carriera politica.
Con l’Illuminismo prendono vita, in contrapposizione alla corte, i “sa-
lotti”, più egalitari e a più marcata impronta femminile. Nell’esaltazione
della centralità dell’uomo e delle sue virtù, si gettano le basi di verità e giu-
stizia, le quali, dopo la Rivoluzione francese, si tradurranno nelle “virtù
Le origini neurobiologiche
Secondo questo studioso, il cervello dei primati è proporzionalmente più grande nelle
specie che vivono in gruppi di grandi dimensioni rispetto a quello di specie che vivono
in piccoli gruppi. Egli ipotizzò che la dimensione del cervello fosse in funzione della
complessità del gruppo di appartenenza. I conti sono presto fatti: se il tuo gruppo è di
cinque soggetti devi memorizzare dieci rapporti diversi per orientarti nelle dinamiche
sociali (chi è alleato con chi, chi merita il tuo tempo e la tua attenzione ecc). Se il tuo
gruppo è di venti soggetti, devi tenere sotto controllo novanta rapporti bidirezionali
(di cui diciannove ti coinvolgono direttamente) oltre a centosettantuno che riguarda-
no il resto del gruppo per cui, essendo il gruppo quadruplicato, le relazioni sono venti
volte maggiori.
Dumbar prese come parametro di confronto il volume della neocortex, quella parte
della corteccia cerebrale di più recente acquisizione, considerata la parte “pensante”
del cervello, responsabile dell’astrazione, dell’autoriflessione, delle previsioni, insom-
ma quella deputata a gestire la complessità della vita sociale. I suoi studi gli consenti-
rono di poter prevedere, con un lievissimo margine di errore, la numerosità del grup-
po in rapporto al volume della neocortex. In base ai suoi calcoli, l’uomo, con la sua
neocortex, è in grado di gestire un gruppo sociale di circa centocinquanta persone,
corrispondente, secondo gli studi di sociologia, al numero medio di componenti della
maggior parte dei gruppi sociali umani, associazioni, unità dell’esercito, reparti azien-
dali ecc.
8 Al tempo stesso, mentire induce una modificazione dello stato emotivo che, secondo
alcune ricerche, sarebbe mediato dall’amigdala. È stato ipotizzato che la corteccia cingolata sia
coinvolta nella produzione delle risposte false e nell’inibizione di quelle vere e si è visto, inol-
tre, che il nucleo striato, anch’esso sviluppatosi – evolutivamente parlando – più di recente nei
primati, potrebbe essere coinvolto in quanto modula, tramite le connessioni alla corteccia fron-
tale, varie funzioni comportamentali e cognitive ed è responsabile dell'integrazione di messaggi
inerenti a uno stimolo di ricompensa, fungendo da mediatore con il sistema limbico; questo
è importante perché, generalmente, l’inganno è messo in atto per ottenere un qualche tipo di
beneficio, e quindi è verosimile che siano coinvolti anche i meccanismi della gratificazione. Da-
gli studi di neuroradiologia sembra che, anche nell’uomo, i mentitori patologici mostrino un
maggior volume della sostanza bianca nella corteccia prefrontale e in particolare nella corteccia
orbito-frontale e nella corteccia frontale media e inferiore. Chiaramente, resta da capire se questo
dato sia da considerare una causa o un effetto. In considerazione della particolare abilità verbale
di questi soggetti, è stato ipotizzato che la maggiore quantità di sostanza bianca potrebbe essere
in relazione a una facilitazione della processazione delle informazioni durante la messa in atto
dell'inganno [1].
Un interessante studio condotto da Greene e Paxton nel 2009 [98] ha cercato di met-
tere a fuoco questo aspetto, basandosi su una versione computerizzata del gioco della
moneta.
I partecipanti dovevano scrivere in anticipo il risultato del lancio della moneta e
avrebbero ricevuto un premio in denaro se avessero indovinato su quale faccia sa-
rebbe caduta. La risposta non era sempre controllata dagli esaminatori e il premio
veniva elargito “sulla parola”. È evidente che la tentazione di ottenere il premio sem-
plicemente affermando di aver predetto il risultato corretto fosse forte. Lo scopo dello
studio era proprio quello di indagare cosa succedeva in un cervello esposto a una
simile pressione, e cioè quali aree cerebrali si sarebbero attivate in rapporto alla scelta
di avere un comportamento “onesto” o “disonesto”.
Attraverso l’uso della fMRI, è stato rilevato che i soggetti che si mostravano talvol-
ta “disonesti” avevano costantemente un incremento dell’attività della corteccia pre-
frontale, sia quando decidevano di mentire, sia quando decidevano di dire la verità.
Quelli che invece non mentivano mai, non mostravano questo tipo di attivazione,
anche se confrontati con individui di controllo ai quali non era data l’occasione di
barare.
prefrontale anteriore destre [1]. Numerosi sono anche gli studi, su soggetti sani, volti a indagare i
meccanismi cognitivi dell'inganno, effettuati mediante l’impiego delle tecniche di neuroradiologia
fra cui possiamo citare, ad esempio, l’aumento dei tempi di reazione nella corteccia prefrontale
ventrolaterale, o un’aumentata attività nella corteccia del cingolo: la maggiore attivazione della cor-
teccia frontopolare si osserverebbe soprattutto nei casi di menzogne ben articolate e finalizzate a uno
scopo, mentre nella corteccia del cingolo accadrebbe l’opposto. Potremmo citare molti altri esempi,
ma tutti confermano la costante centralità del sistema esecutivo frontale nell’arte dell’inganno. Né
avremmo potuto attenderci qualcosa di diverso se si pensa che la corteccia prefrontale anteriore è
responsabile dell’integrazione di più processi cognitivi per la messa in atto di un comportamento
finalizzato, la corteccia prefrontale dorsolaterale è implicata nella manipolazione dei dati prove-
nienti dalla memoria di lavoro e nel controllo cognitivo, mentre la corteccia del cingolo interviene
nell’elaborazione delle emozioni e nella rilevazione dei conflitti. Tutte funzioni, queste, che devono
essere chiamate in causa quando vogliamo mentire: e pensare che sembra un atto così semplice!
10 L’attivazione della corteccia prefrontale potrebbe essere il correlato della scelta compor-
tamentale attiva dell’onesto tra più possibilità, mentre il disonesto mantiene attivi i meccanismi
cognitivi di valutazione critica delle informazioni al fine di scegliere come indirizzare il comporta-
mento. In alternativa, l’attività dei meccanismi di controllo (il circuito “di stop” cerebrale) sarebbe
in rapporto al tentativo di resistere alla tentazione. Questo ci riporta al problema del coinvolgimen-
to dell’amigdala, che media le risposte emozionali, e dello striato, centrale nel circuito dopaminer-
gico della gratificazione. Non è ancora chiara la modalità del loro coinvolgimento ma, da alcuni
studi, sembra che la presenza di recettori dopaminergici nello striato ventrale sia addirittura diversa
in chi abbia la tendenza a mentire [1].
Jonatham Swift [183] racconta che Gulliver, durante il suo quarto e ultimo viaggio, ar-
riva fortunosamente nella terra abitata dagli Houyhnhnms, cavalli dotati di raziocinio
e di linguaggio, e dai loro servitori, gli Yahoo, esseri umani nell’aspetto ma abbrutiti
nel corpo e nello spirito. La società degli Houyhnhnms si basa sui principi della più
pura razionalità: non hanno religione, non conoscono il dolore per la morte anche dei
loro cari, la loro struttura sociale è basata sulla famiglia con due figli di ambo i sessi e
nella loro lingua non ci sono termini per definire i sentimenti, la falsità, l’ipocrisia, la
menzogna. Disprezzano gli Yahoo tanto che, quando vogliono esprimere un concetto
negativo, pospongono a ciò che dicono il termine “yahoo”.
Gli Houyhnhnms non conoscono il dubbio o l’incertezza: «non sanno come com-
portarsi quando si tratta di dubitare o di non credere» poiché il loro linguaggio è con-
cepito sull’idea di uno scambio linguistico utile per farsi «capire gli uni gli altri, e per
avere informazioni dei fatti [...] se qualcuno mi dice “la cosa che non è”, questi fini [le
informazioni dei fatti (n.d.r.)] restano frustrati; perché non si può dire che io abbia
capito, e tanto meno che io abbia ricevuto informazioni, quando colui che m’ha detto la
cosa che non è, mi lascia in uno stato peggiore dell’ignoranza, m’induce, cioè, a credere
nero ciò che è bianco, e corto ciò che è lungo».
Gulliver è attratto dall’idea di poter vivere in un paese pacifico dove domina la ra-
gione e la menzogna è bandita e vorrebbe rimanere, ma gli Houyhnhnms, temendo
che la sua natura malvagia, comune a tutti gli esseri umani (come gli Yahoo), possa
prima o poi manifestarsi, lo bandiscono.
I bambini non hanno una chiara percezione delle differenze fra fanta-
sia, gioco e bugia fin verso i sei anni, quando incominciano a distinguere
il reale dal fantastico e ad elaborare i valori sociali e morali. A mentire in-
cominciano molto prima, senza alcun pregiudizio morale e forse, proprio
per questo, non hanno quelle reazioni neurovegetative e comportamenta-
li che ci potremmo aspettare ma mantengono un’espressione indifferente.
Charles Darwin [118] racconta che suo figlio William, all’età di circa due anni e mez-
zo, era entrato nella dispensa dove aveva mangiato delle zollette di zucchero; sorpreso
mentre ne usciva di soppiatto e interrogato, aveva negato di averlo fatto a dispetto
dell’evidenza senza mostrare alcuna particolare reazione.
Ricerche condotte mediante il Gioco di Sbirciare, Picking Game, hanno fornito inte-
ressanti risultati. Lo sperimentatore fa mettere il bambino con la faccia rivolta verso il
muro e gli dice che metterà sul tavolo tre giocattoli e, se indovinerà che cosa sono dal
rumore avrà un premio. I primi due sono molto facili (la macchina della polizia, una
bambola che piange) mentre il terzo è un peluche e, prima che il bambino risponda,
gli dice che deve uscire un momento e che lui non dovrà sbirciare mentre è assente.
Appena uscito, il bambino, ignaro di essere ripreso da una telecamera, si volta a guar-
dare. Il ricercatore rientra (facendo un po’ di rumore per dare al bambino il tempo di
tornare al suo posto) e chiede la terza risposta, che sarà, ovviamente, giusta e, a quel
punto, chiede al bambino se ha sbirciato. È emerso che, fino ai tre anni circa, i bam-
bini di solito ammettono di aver sbirciato, verso i quattro anni mente circa l’80% e
prima dei sei anni i mentitori salgono fino al 95%. Dopo i sei anni le bugie, in genere,
Non è infrequente che alcuni soggetti mentano abilmente su esami mai sostenuti du-
rante il corso di laurea e spesso la cosa viene scoperta all’approssimarsi della laurea.
Altri, più ingegnosi, riescono a falsificare il libretto, laureandosi in qualche modo e
inserendosi anche nella professione (non di rado quella medica) talora con successo.
Altri, infine, millantano lauree, master o specializzazioni.
Un caso che ha fatto scalpore in Italia alcuni anni orsono è quello di un giornalista
politico-economico, Oscar Giannino, uomo di cultura, intelligente, stravagante, che si
presentò con un proprio partito alle elezioni politiche del 2013 elencando nel proprio
curriculum lauree mai conseguite. Scoperto, si ritirò dalla competizione politica e fu
licenziato dal giornale per cui scriveva. Successivamente ha ripreso la sua professione di
giornalista. In un’intervista a Libero, ha giustificato quel suo comportamento definendo-
lo: «Un grave errore dovuto a un complesso di inferiorità che ho inconsciamente covato nel
Partito Repubblicano Italiano. Era un mondo di élite, pieno di persone con titoli accade-
mici a bizzeffe. [Quando si è svelato l’inganno] sono rimasto di peste per la delusione che
davo a centinaia di migliaia di persone e per la sofferenza di mia madre e mia moglie che
non se lo aspettavano. Quanto a me, mi sono chiesto se avessi perso per sempre qualsiasi
credibilità. Ho ricevuto molti insulti, ma non ho mai polemizzato. Ho detto: è giusto».
gerare le proprie capacità) e per le femmine (per le quali si tratta più spesso
di confidenze violate, segreti traditi); possono manifestarsi solo in certi
contesti e non in altri (solo a casa, a scuola o con gli amici). Saper mentire
richiede anche la capacità di saper tenere le cose per sé, di mantenere uno
spazio privato, non condiviso. Se il ragazzino ha bisogno della costante ap-
provazione dei genitori, significa che non è capace di rendersi autonomo;
per contro, i genitori i quali pretendono di conoscere tutto dei propri figli
violano il loro diritto alla privacy e impediscono la loro crescita armonica.
Saper mentire significa saper leggere il pensiero degli altri. I bambini,
man mano che crescono, migliorano le loro capacità di mentire e, cosa
meno scontata, gli adolescenti popolari sono mentitori migliori rispetto a
quelli non popolari [82].
Feldman [83] ha condotto una ricerca su 121 studenti liceali, i quali dovevano parlare
per 10 minuti in maniera informale con persone appena incontrate. La conversazio-
ne veniva registrata e rivista assieme a ciascuno studente, al quale veniva chiesto di
indicare quando aveva detto qualcosa di non vero. Nonostante gli studenti avessero
assicurato di non aver detto bugie, rivedendo la registrazione, si rendevano conto che,
invece, avevano detto una bugia dopo l’altra. È risultato che, in media, ciascuno aveva
detto tre bugie, cioè una ogni 3,3 minuti di conversazione e, salvo qualche eccezione,
quasi tutte le bugie erano banali. Nel colloquio, pochi si mostrarono preoccupati per
le bugie dette, affermando che «Lo fanno tutti».
Nella vita quotidiana, si mente per mille ragioni come per nessuna ragione apparente,
al punto che ci potremmo chiedere se dire la verità sia ancora l’opzione di default. La
tolleranza verso la menzogna è molto cresciuta al punto da far dire a Philip Holson
[104], in un articolo su Independent, che «Oggi è accettabile mentire così come superare
i limiti di velocità quando si guida: nessuno ci pensa su due volte». Una spia di questa
tendenza a mentire è la frequenza con cui le conversazioni sono infarcite di: «voglio
essere sincero», «sarò franco», «in tutta franchezza» e tante altre promesse/premesse di
sincerità. In un articolo su Time, Martin Marty riferisce che un sacerdote gli ha confi-
dato che sono rare le confessioni in cui non vi sia un qualche inganno sessuale e che,
praticamente, tutti confessano di aver mentito.
In L’anatra selvatica di Ibsen [105], il dottor Relling dice a Greger Werle che Hjalmar
Ekdal è ammalato e «quasi tutti gli uomini sono ammalati»; alla domanda di Greger
riguardo alla cura il dottore afferma: «La mia solita, cerco di alimentare in lui la men-
zogna vitale». Questa menzogna vitale è ciò che ci dà la forza per affrontare le avver-
sità, che funge da cappa protettiva «Se lei toglie a un individuo comune la menzogna
vitale – continua il dottore – gli porta via in pari tempo la felicità».
3 Per i giornalisti è comunque revocato questo diritto qualora la veridicità delle notizie rela-
tive al reato è accertabile solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia.
In molte occasioni Ulisse ha superato la forza con l’astuzia: quando era prigioniero
nella caverna di Polifemo, chiusa con un masso che nessuna forza umana avrebbe
potuto rimuovere, per salvare sé e i suoi dal gigante monocolo e cannibale, fece uso di
una serie di astuzie: dal farlo ubriacare per poterlo accecare, al legarsi alla pancia delle
pecore affinché non potesse individuarli con il tatto mentre faceva uscire gli animali,
ma soprattutto affermando di chiamarsi Nessuno, facendolo così passare per pazzo o
ubriaco quando, chiedendo aiuto agli altri Ciclopi, rispondeva che “Nessuno” lo aveva
accecato.
Basti citare, a questo proposito, due eventi della seconda guerra mondiale in cui l’in-
ganno è stato determinante. Il primo evento è l’invasione dell’Unione Sovietica: la
Germania, che nel 1939 aveva firmato con i sovietici un patto di non aggressione (il
patto Molotov-Ribbentrop), il 22 Giugno 19414 dichiarò a sorpresa guerra all’Unione
Sovietica (operazione Barbarossa) che, colta impreparata, fu rapidamente invasa e in
circa quattro mesi le armate tedesche si attestarono a pochi chilometri da Mosca. Que-
sto successo, rapido e praticamente indolore, ebbe comunque vita breve: la controf-
fensiva sovietica, iniziata nel dicembre 1941, porterà alla disfatta dell’esercito tedesco
e si concluderà con l’entrata in Berlino dell’esercito sovietico nel 1945. Da notare che,
ancora prima di salire al potere, Hitler aveva scritto in Mein Kampf: «Noi vogliamo
arrestare il continuo movimento tedesco verso il sud e l’ovest dell’Europa e volgiamo il
nostro sguardo verso i paesi dell’Est [...] Quando oggi parliamo di un nuovo territorio in
Europa, dobbiamo pensare in prima linea alla Russia e agli stati limitrofi suoi vassalli.
Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni. [...] Il colossale impero
dell’Est è maturo per il crollo e la fine del dominio ebraico in Russia sarà anche la fine
della Russia quale stato».
Il secondo evento è lo sbarco in Normandia (operazione Overlord) degli eserciti
Alleati, il 6 Giugno 1944: nell’imminenza dell’azione, tramite le reti spionistiche, era
stata fatta circolare ad arte la notizia che gli Alleati sarebbero sbarcati nella zona di
Calais, la più vicina all’Inghilterra, e i tedeschi l’avevano presa a tal punto per buona
da ritenere i primi sbarchi in Normandia solo una manovra diversiva per cui non la
contrastarono adeguatamente: per la Germania fu l’inizio della fine.
4 Il giorno successivo coincideva con il 129° anniversario dell’inizio della Campagna di Rus-
sia da parte di Napoleone.
volezza o di complessità, per contenuto, scopo, motivazione ecc.), sono numerosi ma nessuno è
esauriente anche perché già le denominazioni di per sé sono usate con significati diversi e qualsiasi
tentativo di sistematizzazione rischierebbe di essere o riduttivo, unificando cose eterogenee, o trop-
po estensivo, trasformandosi, alla fine, in una lista noiosa e ripetitiva. Noi non ci avventureremo
sulla strada di una classificazione ma useremo un approccio descrittivo.
L’oracolo aveva predetto a Ulisse che, se fosse andato a Troia, sarebbe tornato dopo
vent’anni, solo e in miseria. Quando Agamennone, Menelao e Palamede andarono a
cercarlo per chiedergli di partecipare alla spedizione, lo trovarono con un cappello da
contadino a forma di mezzo uovo mentre arava un campo pungolando un bue e un
asino aggiogati assieme e si gettava alle spalle manciate di sale. Finse di non riconosce-
re gli ospiti e faceva discorsi incomprensibili. Palamede prese dalle braccia di Penelo-
pe il figlioletto Telemaco e lo posò a terra davanti ai due animali. Ulisse tirò subito le
redini per non uccidere il figlio mostrando così di non essere pazzo e, suo malgrado,
dovette partecipare alla spedizione.
Nell’esempio famoso riportato dal filosofo Josiah Royce [159], il comandante di una
nave, preoccupato perché il nostromo beve troppo, annota ogni giorno sul diario di
bordo «oggi il nostromo è ubriaco». Il nostromo, letto il diario, scrive una sola volta
«oggi il comandante non è ubriaco». È evidente che, in questo modo, lascia intendere,
senza dirlo, che gli altri giorni sia ubriaco: così, con una verità, riesce a diffamare una
persona.
A proposito della calunnia, ci piace far menzione qui dell’aria “La calunnia”, che don
Basilio canta in “Il barbiere di Siviglia” di Gioacchino Rossini (testo di Cesare Ster-
bini), che descrive mirabilmente questo tipo di menzogna e il modo con cui agisce:
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
Dopo lo scisma di Lutero e quello di Enrico VIII, ebbe fine la relativa tolleranza re-
ligiosa e incominciarono le persecuzioni. Le inquisizioni, che coinvolsero cattoli-
ci, ebrei e protestanti, costringevano a scegliere fra l’abiura della propria religione,
l’esilio o addirittura la pena capitale per eresia. In quel contesto i Gesuiti formularono
la teoria della riserva mentale secondo la quale non era una menzogna dire solo una
parte della verità, dicendone solo mentalmente la parte che avrebbe messo in pericolo.
Un esempio autorevolissimo di riserva mentale è quello del Papa Pio XI che, nel
1931, nell’Enciclica “Non abbiamo bisogno” consigliava agli italiani di aderire al par-
tito fascista per salvare il lavoro, il pane e la vita e salvare al contempo la propria
coscienza facendo, dentro di sé (ma anche dichiarandola pubblicamente in caso di
bisogno), la riserva: «fatti salvi i doveri del buon cristiano».
Un altro illustre esempio di riserva mentale è rappresentato dalle dichiarazioni di
Bill Clinton, presidente degli USA, in occasione del processo per l’impeachment in
relazione al “caso Lewinsky”. Egli, infatti, ammette che tra lui e Monica Lewinsky ci
sono state delle “relazioni inappropriate” ma di non aver considerato il sesso orale
un “atto sessuale” perché, ricevendolo, non era entrato in contatto con nessuna delle
parti del corpo indicate nel documento come “zone sessuali” né era sua intenzione
“gratificarla” dal punto di vista sessuale.
3 Ordalia, o giudizio di Dio, era un’antica pratica giuridica, secondo la quale l’innocenza o la
colpevolezza dell’accusato veniva determinata sottoponendolo a una prova dolorosa o a un duello.
Il giudizio d’innocenza derivava dal completamento della prova senza riportare danni (o dalla rapi-
da guarigione delle lesioni riportate) oppure dalla vittoria nel duello.
mente al marito, mente alla corte, mente a Dio spergiurando di non aver mai avuto tra
le gambe altro uomo che il marito e un pellegrino (in realtà Tristano travestito) che l’a-
veva aiutata ad attraversare un fiume a cavalcioni sulle sue spalle. Forse la pietà divina
per gli innamorati consente a Isotta di uscire impunita dalla prova finale: le sue mani,
nonostante le menzogne proferite, non vengono bruciate dal ferro rovente.
Basti pensare all’afflato poetico con cui Dante [58] (Inferno, Canto V) racconta del
tragico amore fra Paolo e Francesca, cognati, travolti dalla passione e uccisi per questo
da Gianciotto, rispettivamente fratello e marito. Già il preludio, il loro avvicinarsi al
richiamo del poeta, lascia immaginare la tenerezza dell’idillio:
4 Secondo alcune sette gnostiche, esoteriche (come i Cainisti), e secondo alcuni filosofi
(come Bertrand Russell), quello di Giuda non fu un “tradimento” ma un atto previsto, necessario,
affinché, attraverso la morte di Gesù, si realizzasse la salvezza dell’umanità: Giuda, pertanto, non
poté esercitare il libero arbitrio, non aveva nessuna possibilità di evitare di tradire Gesù.
Parleremo più diffusamente del romanzo 1984 di George Orwell [141] nel Cap. XIX,
Menzogna e politica; qui, a proposito di autoinganno, vogliamo accennare al bipensie-
ro – termine della neolingua ideata dal Grande Fratello, il Capo assoluto di Oceania,
una delle tre potenze totalitarie che governano la Terra nel 1984, dopo una guerra
nucleare –, meccanismo psicologico che consente di sostenere un’idea e il suo opposto
in modo da non uscire mai dall’ortodossia del regime.
Il bipensiero implica la capacità di cogliere simultaneamente nella propria mente due
opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. Il bipensiero è fondamentale per
alterare le informazioni presenti e passate in modo da fornire una versione dei fatti
tale che il Partito risulti sempre infallibile e che i cittadini non abbiano termini di
confronto né con il passato né con gli altri Paesi: saranno così convinti che le loro con-
dizioni di vita siano migliori rispetto a quelle sia del passato sia degli altri popoli e che
il benessere sia sempre in crescita. Questo meccanismo deve essere conscio altrimenti
non potrebbe essere applicato con sufficiente precisione ma al tempo stesso deve essere
inconscio perché, altrimenti, produrrebbe una sensazione di falso e quindi un senso di
colpa... Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero,
dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che
ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall’oblio per tutto il tempo che
serve, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella
stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile. Anche solo per usare
il termine bipensiero è necessario ricorrere al bipensiero perché, usarlo, significa essere
coscienti di manipolare la realtà ma al tempo stesso, grazie al bipensiero, si cancella
questa consapevolezza e così via all’infinito. È grazie a questo sistema che il Partito ha
potuto rendere duraturo il proprio potere: se si desidera governare e si vuole continua-
re a farlo, si deve avere la capacità di condizionare il senso della realtà.
Non è che tanti politici di oggi abbiano imparato a usare il bipensiero?!
Nel ’43, la Repubblica Sociale di Salò diffuse la notizia (supportata da manifesti con
falce e martello sullo sfondo e la scritta Chi salverà i vostri figli? o Papà salvami) che
i comunisti mangiassero i bambini ed esistesse un piano per deportare in Russia, a
questo scopo, bambini italiani dai 4 ai 14 anni. Nel dopoguerra la leggenda venne
sfruttata nella propaganda politica per combattere il Partito Comunista, molto forte
nell’Europa occidentale.
realtà dei nostri giorni, tanto attuale che gli Oxford Dictionaries6, i quali
registrano l’evoluzione della lingua e il suo uso attuale, l’ha scelta come la
parola dell’anno 20167. Sarà oggetto di trattazione nel capitolo XXII, qui
ne facciamo solo un breve cenno. Questa parola ha, in inglese, un’acce-
zione specifica, non di “dopo” la verità ma di “al di là” della verità, cioè
indipendentemente dalla verità, ed è nata per descrivere il fenomeno,
vecchio quanto l’uomo, di diffondere false verità, generalmente a fini po-
litici per colpire, influenzare l’opinione pubblica ma, rispetto al passato,
in maniera molto più efficace grazie ai social media che fanno da cassa
di risonanza. Della post-truth si è fatto largo uso soprattutto in due im-
portanti eventi politici che hanno caratterizzato il 2016, il referendum
inglese sulla Brexit (l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea) e
le elezioni presidenziali americane, eventi che, secondo gli osservatori, ne
sarebbero stati influenzati pesantemente.
Ci sono poi, come abbiamo accennato, le menzogne socialmente accet-
tate, le cosiddette menzogne convenzionali (o di convenienza), cioè tutto
il complesso di convenzioni, di cortesie puramente esteriori e di piccole
ipocrisie che, nelle relazioni umane, sono frequenti e a cui in genere si dà
molta importanza sul piano della vita sociale. Non possiamo certamente
classificare come menzogne tutte quelle espressioni e manifestazioni che
fanno parte delle comuni regole di cortesia. Un tempo si diceva servo vo-
stro, espressione di cortesia comunemente usata in alcune regioni, alla
quale, ovviamente, non credeva né chi la formulava né chi la riceveva e lo
stesso vale per certe formule, oggi passate di moda, con cui si chiudevano
le lettere (deferenti ossequi, con profonda stima ecc.). Potremmo pensare
che si tratti solo di una sorta di “cosmesi” fatta per ingentilire le relazio-
ni sociali. Tutti sappiamo, chi le dice e chi le ascolta, che i vivi rallegra-
menti, le sentite condoglianze, gli auguri tradizionali sono solo menzogne
eppure, chi non le pratica, rischia di finire sul “libro nero” del parente,
dell’amico, del collega, del conoscente destinatario. Pestare un piede o
colpire con il gomito qualcuno nella calca, se non fossero seguiti da «Par-
don!», «Scusi», cui la persona educata risponde «Ma le pare?», «Prego»,
addirittura essere la causa di un litigio o, quanto meno, potrebbero farci
giudicare maleducati o prepotenti, e non responsabili di un atto in realtà
involontario. Se comunque le esaminiamo con attenzione, queste menzo-
gne non sono solo convenzioni verbali utili a una civile convivenza, ma
6 Gli Oxford Dictionaries (da non confondersi con l’Oxford English Dictionary - OED) regi-
strano le novità linguistiche illustrando come le parole e i loro significati sono cambiati nel corso
del tempo.
7 La decisione degli Oxford Dictionaries è dovuta al fatto che l’impiego di questa parola è
cresciuto, nel 2016, del 2000%.
verità” sulla sua salute. Una volta il medico parlava con i familiari ed era-
no loro a interagire con il malato e/o a prendere le decisioni. Oggi le cose
sono cambiate perché, per ogni indagine, esame, ricovero, intervento, è
necessario il consenso informato da parte del paziente e quindi, in teo-
ria, non dovrebbero esserci più dubbi sul destinatario dell’informazione.
Nondimeno, espressioni quali «Le resta sì e no un anno di vita», «Se non
fa la cura morirà entro sei mesi» (e magari si tratta di una cura eroica)
non dovrebbero comparire in un colloquio con un paziente poiché non
hanno alcuna utilità e neanche senso in un rapporto terapeutico. Ferme
restando le regole sull’informazione “informata” da somministrare al pa-
ziente, è evidente che la verità debba essere detta, ma dovrebbero esserci
(e ci sono), modi diversi di comunicarla, compresi alcuni ingannevoli: un
inganno complice, somministrato nelle giuste dosi, sostenuto magari dal-
la reticenza, e addolcito dall’empatia. Il buon medico deve essere capace
di curare secondo i dettami della scienza ma anche di utilizzare le proprie
capacità empatiche per rafforzare psicologicamente l’effetto delle terapie
prescritte e il dialogo con il paziente che, in questo senso, è la prima e più
importante arma di cui dispone.
Per chiudere la descrizione dei mille modi di mentire, vogliamo ac-
cennare all’effetto distruttivo che può avere la verità quando diventa stru-
mento di offesa. La menzogna, come abbiamo detto, è caratterizzata, oltre
che dalla volontà di ingannare (voluntas fallendi) anche dalla volontà di
fare del male (voluntas nocendi), ma può esserci anche una voluntas no-
cendi della verità di cui un terribile esempio è quello raccontato in uno
smilzo libricino, un romanzo epistolare, dal titolo Destinatario Sconosciu-
to, di Taylor Kresmann8, pubblicato nel 1938 su Story e giunto in Europa
solo nel 1999.
Due amici e soci in affari di origine tedesca, Martin e Max, hanno fatto fortuna in
America. Nel 1932 Martin, tedesco, sposato con figli, che ha avuto una relazione con
la sorella del socio, Giselle, torna in Germania per investirvi i propri guadagni. Max,
ebreo tedesco, scapolo, pessimista, rimane in America ed è preoccupato per la sorella,
attrice, che si trova in Europa proprio nel momento della conquista del potere da parte
di Hitler e delle prime persecuzioni agli ebrei.
I due si scrivono lettere piene di sincerità, affetto e stima, finché Martin, che ha ac-
quisito un buon livello sociale a Monaco di Baviera, ha aderito al nazionalsocialismo
ed è entrato a far parte dell’élite cittadina, scrive a Max di interrompere la corrispon-
denza perché, nella sua posizione, non può intrattenere rapporti, anche solo epistolari,
con un ebreo a causa della censura.
Max approfitta della corrispondenza commerciale (sono ancora soci) per racco-
mandargli Giselle, andata a recitare a Berlino e che lui non riesce più a contattare:
le lettere gli tornano tutte indietro con su stampigliato “Destinatario sconosciuto”9.
Martin gli risponde dopo oltre un mese dicendo che Giselle era giunta alla sua villa
inseguita dalle SS e non l’aveva accolta per timore di rappresaglie, che le SS, soprag-
giunte nel frattempo, l’avevano uccisa proprio nel suo giardino: lui aveva poi spedito
il corpo in paese per farla seppellire e non vuole più essere contattato.
Max, invece, continua a scrivergli finché, qualche mese dopo, una sua lettera torna
al mittente con su stampigliato “Destinatario sconosciuto”: per la legge del taglione,
Martin ha fatto la stessa fine che lui aveva lasciato fare a Giselle, una terribile vendetta
messa in atto da Max con un abile inganno: semplicemente continuando a scrivere,
senza profferire alcuna menzogna.
9 Destinatario sconosciuto era la dicitura con cui tornavano al mittente le lettere inviate a
persone che le SS avevano ucciso o fatto sparire.
Ricordate quel che disse la Fatina dai capelli turchini a Pinocchio? «Le
bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie.
Vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso
lungo». Non è così, non ci sono segni fisici patognomonici di un’afferma-
zione menzognera... o invece esistono?
Non ci sono dubbi che Pinocchio sia il simbolo, l’icona della menzogna e tutto per quel
suo benedetto naso che non la smetteva di crescere tanto da non potersi più girare da
nessuna parte. Eppure, a ben vedere, di bugie ne dice veramente poche, se si eccettua
quella raccontata alla Fatina sul fatto di non avere più gli zecchini d’oro. Semmai è vitti-
ma delle menzogne degli altri, dal gatto e la volpe all’omino di burro, dai medici Corvo
e Civetta ai profittatori del Regno di Acchiappacitrulli ecc. È così ingenuo e sprovvedu-
to da non riuscire a cogliere i chiari segnali delle loro menzogne, che Collodi mette in
bella evidenza. Pinocchio ascolta le parole ma non sa “comprendere” [89] il discorso,
non presta neppure attenzione ai segni e perciò si lascia facilmente ingannare1.
1 Anche quando incomincia a leggere e a scrivere, Pinocchio continua a non leggere i segnali
di inganno. L’alfabetizzazione, infatti, non è sufficiente di per sé, non basta leggere le parole o le
frasi ma è necessario capire il senso di ciò che è scritto o detto. Secondo una ricerca dell’OCSE di
una quindicina di anni fa, circa il 40% dei maschi italiani tra i 16 e i 25 anni non era in grado di
comprendere testi in prosa di livello considerato dagli organizzatori dell’indagine come appena
adeguato rispetto alle esigenze di vita quotidiana e di lavoro di una società complessa e tecnologica-
mente avanzata.
dal preconcetto che l’interlocutore sia sincero, a meno che non abbiamo
motivi per pensare che voglia ingannarci: altrimenti, vivremmo in una
condizione paranoidea incompatibile con la vita sociale. È la nostra con-
dizione di default che dà al mentitore la possibilità di successo.
Affinché la menzogna sia efficace e raggiunga il suo scopo, cioè ingan-
nare, è necessario che sia presentata in maniera tale da non far sospettare
in alcun modo alla vittima che quanto gli viene proposto come vero sia,
in realtà, falso. E il buon mentitore è, in genere, capace di proporre la
propria “verità” in modo credibile. Un osservatore attento, tuttavia, potrà
cogliere nel linguaggio del corpo e nella mimica segnali che dovrebbero
metterlo in guardia sulla sua possibile mendacità: nessun mentitore, per
quanto bravo, è in grado di controllare tutta la gamma dei comportamen-
ti (soprattutto quelli involontari) che potrebbero tradirlo.
Dobbiamo anche dire che, in generale, la nostra attenzione è polariz-
zata sulle parole, al più sulla mimica facciale, e prestiamo meno attenzio-
ne al resto dei segni somatici: il mentitore lo sa e curerà perciò con par-
ticolare attenzione l’aspetto linguistico della sua comunicazione. Non a
caso Pinocchio si lascia ingannare dalle chiacchiere del gatto e della volpe
e non da Mangiafuoco che è semplice, leggibile nei suoi comportamenti
(«... ha starnutito e questo è segno che s’è mosso a compassione per te...»);
a un altro livello si colloca il Renzo manzoniano che, come afferma Eco
[78], come tutti gli umili sa interpretare i segni, i comportamenti, l’abbi-
gliamento, le posture, ma non
il linguaggio verbale che può essere usato come strumento di potere e inti-
midazione, si pensi ai paroloni dell’Azzeccagarbugli col povero Renzo, che
non capisce quel “latinorum” [...] Il notaio che arresta Renzo gli parla in
modo incoraggiante. Però gli fa mettere i manichini2...
Oggi, nell’era della rete, la trappola sta anche nelle parole scritte che
vengono usate sapientemente da chi è intenzionato a frodare, inducendo,
ad esempio, molti sprovveduti a spedirgli anche migliaia di euro per en-
trare in possesso di fantomatiche vincite milionarie in concorsi ai quali,
ovviamente, non hanno neppure partecipato!
Ekman [81], uno dei principali studiosi della comunicazione non ver-
bale, afferma che
nessun indizio di falsità è attendibile per tutti gli esseri umani, ma singo-
larmente o in combinazione possono aiutare a giudicare la sincerità della
maggior parte delle persone.
2 Le manette.
3 Quando Bill Clinton disse al Reverendo Robert Schuller di non aver mai fatto sesso con
Monica Lewinsky, «lo disse – ricorda Schuller – con molta passione e con gli occhi fissi nei miei».
Newsweek, September 14, 1998.
In uno studio sui segnali somatici della menzogna, fu mostrato a diversi valutatori,
con differenti tipi di preparazione e background professionale, la videoregistrazione
di una serie d’interviste chiedendo di individuare coloro che mentivano. I risultati
peggiori erano quelli ottenuti dai soggetti che avevano osservato soltanto la faccia e
ascoltato le parole, i quali avevano giudicato onesti i soggetti che mentivano in per-
centuale maggiore; risultati migliori li avevano ottenuti coloro che avevano osservato
soltanto il corpo, con circa il 65% di risposte esatte (rispetto alla probabilità casuale
del 50%). Solo pochi esaminatori (in genere psicoterapeuti con una lunga esperienza
clinica) avevano identificato l’85% dei mentitori [81].
cosa vuol dirci l’artista? Intanto che, per quanto dipinta in maniera tale
da sembrare vera, è solo una rappresentazione dell’oggetto e, più in gene-
rale, che l’arte non deve rappresentare nel modo più realistico possibile la
realtà poiché essa non ha a che fare con la realtà ma con il modo in cui la
vediamo: è un’espressione che vuole fornirci un’idea, un particolare pun-
to di vista sulla realtà. Allo stesso modo, nessuno penserebbe di trovare la
realtà in un quadro o in un romanzo, in un dramma o in un film, eppure
non rinunciamo a guardare un film o a leggere un romanzo poiché, oltre
al possibile piacere estetico che possiamo ricavarne,
in fondo noi cerchiamo, nel corso della nostra esistenza, una storia origina-
ria, che ci dica perché siamo nati e abbiamo vissuto. Talora cerchiamo una
storia cosmica, la storia dell’universo, talora la nostra storia personale (che
raccontiamo al confessore, allo psicoanalista, che scriviamo sulle pagine di
un diario). Talora speriamo di far coincidere la nostra storia personale con
quella dell’universo [77].
Non solo la recitazione è reggere lo specchio alla natura, come dice
Shakespeare nell’Amleto, lo è tutta l’arte indistintamente.
Un aspetto paradossale dell’arte è che, in genere, l’artista cerca di tra-
sfondere nella propria opera la “verità”, anche se filtrata attraverso la sua
sensibilità, la sua cultura, le sue credenze, i suoi sogni, in rapporto al con-
testo socioculturale nel quale vive, dal quale trae ispirazione. Chi fruisce
dell’opera dell’artista tanto più l’apprezzerà quanto più troverà in essa la
“propria verità” e potrà, quindi, identificarsi in essa.
A ben vedere, tutte le produzioni artistiche rappresentano una fuga dal
reale attraverso la creazione di mondi fantastici, in grado di modificare la
realtà tanto per l’autore quanto per il fruitore.
Non di rado, l’opera artistica nasce e si sviluppa nella mente dell’auto-
re un po’ come una confabulazione2 che si differenzia da quella patologica
perché l’artista è in grado di guidare le invenzioni della mente e di esercitare
su di esse un controllo decidendo quali siano da accettare e quali da censu-
rare. Molto spesso l’ispirazione dell’artista nasce da un elemento “catalizza-
tore”, magari anche insignificante, ma che a lui apre un mondo in cui tutto
si concatena in una costruzione che, con gli strumenti che gli sono propri,
trasforma in un’opera d’arte. Non si può negare che, in ultima analisi, il
potere creativo dell’artista consista nell’assemblare, mescolare i materiali
forniti dall’esperienza ma è la capacità di creare collegamenti nuovi, ina-
2 La confabulazione, come diremo più ampiamente nel Cap. IX, può essere definita come
una produzione di ricordi inventati, distorti o travisati, su se stessi o sul mondo, senza l’intento con-
sapevole di ingannare.
Un’ottima introduzione al tema del rapporto tra menzogna e arte potrebbe essere il
film F. For Fake (Verità e Menzogna) di Orson Welles (1975): già l’autore/regista è,
di per sé, una garanzia, basti pensare alla sua trasmissione radiofonica del 1938, La
guerra dei mondi, che scatenò una psicosi collettiva simulando un’invasione degli USA
da parte degli extraterrestri.
Welles, che interpreta se stesso, è in una stazione ferroviaria con la sua bellissima
compagna, Oja Kodar, e mentre esegue alcuni giochi di prestigio ci dice che, nei suc-
cessivi sessanta minuti, racconterà una storia e dirà solo la verità3. Il tema è cosa sia la
verità nell’arte e nella vita, e lo affronterà mediante aneddoti, ricordi autobiografici e
un’intervista a due noti falsari, Elmyr de Hory, falsario d’arte, e Clifford Irving, autore
di una falsa autobiografia di Howard Hughes; anche Oja Kodar non è estranea a que-
sto mondo essendo nipote di un grande falsario che aveva allestito a Parigi una mostra
con copie perfette dei ritratti fatti da Picasso alla nipote, nel periodo in cui era stata sua
modella.
In F. For Fake si raccontano fatti veri che hanno per oggetto il falso: in un’opera in
cui i protagonisti sono dei falsari, qual è la possibilità di verità, soprattutto quando il
falso è doppio, quando cioè un falsario d’arte viene raccontato da un falsario lettera-
rio? Se ai due falsari aggiungiamo il Welles-narratore-impostore, il quadro si com-
plica ulteriormente. È lo stesso Welles che offre un elemento di chiarimento quando
afferma che il dilemma vero-falso viene a cadere di fronte all’assioma del bello come
autentico.
Il film, in definitiva, si propone come una riflessione sull’inganno come condizione
quasi naturale dell’esistenza, una dimostrazione dei poteri illusionistici del cinema da
parte di uno dei suoi massimi esponenti che, proprio per questa sua capacità di affa-
bulatore, è stato definito il “meraviglioso bugiardo”. Impagabile Welles quando, con
(finta) disillusione afferma: «Ho incominciato la mia carriera con un falso, l’invasione
dei marziani. Non mi è andata male. Sarei dovuto finire in prigione, invece sono finito
a Hollywood!».
3 E, come abbiamo visto, i più grandi mentitori non perdono occasione per ribadire che
La pittura
Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla,
ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza,
trasformano una macchia gialla nel sole.
(Pablo Picasso)
La letteratura
Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso
e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima.
(George Bernard Shaw)
Ne è degnissima testimonianza già la prima novella della prima giornata in cui ser
Cepperello, notaio pratese, viene così presentato: Testimonianze false con sommo di-
letto diceva, richiesto e non richiesto... Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in
commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali...
Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volentero-
samente v’andava; e più volte a ferire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò
volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo... Egli era il piggiore uomo
forse che mai nascesse...
In Francia per recuperare crediti per conto di messer Musciatto, ser Ciappelletto
(così era conosciuto in quel Paese), ospite di due fratelli usurai fiorentini, ha un malo-
re che gli fa capire di essere prossimo alla morte e i due fratelli si preoccupano perché,
morendo senza essere confessato, non avrebbe potuto essere sepolto in luogo consa-
crato e, se avessero chiamato un prete, questi, venuto a conoscenza di tutte le sue ma-
lefatte, quasi certamente gli avrebbe negato l’assoluzione. Per toglierli dall’imbarazzo,
fa chiamare lui stesso un santo e valente frate [...], se alcun ce n’è, al quale si confessa e
la confessione è, oltre che paradossale, conoscendo il “curriculum” di ser Ciappelletto,
un gioiello linguistico e sintattico che coglie tutte le sfumature del discorso di un de-
voto cristiano che scandaglia la sua vita alla ricerca di peccati da confessare: nega, con
finto imbarazzo, ogni peccato di lussuria (io sono così vergine come uscii dal corpo della
mamma); confessa di aver peccato di gola cedendo alla tentazione, fra digiuni e qua-
resime, di insalatuzze d’erbucce; di essersi spesso adirato veggendo tutto il dì gli uomini
fare le sconce cose, non servare i comandamenti; di aver avvertito i parenti della moglie
di un vicino il quale non faceva altro che battere la moglie... ogni volta che bevuto avea
troppo; di non aver mai ingannato nessuno e di avere anzi reso a uno, dopo un anno,
quattro monete che gli aveva dato in più; di non aver santificato la festa per aver fatto
spazzare la casa ad un servitore, di avere inavvertitamente sputato in chiesa e, a coro-
namento di tutto, fra pianti e sospiri confessa che quando era piccolino, io bestemmiai
una volta la mamma mia [...] la mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il
dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! Dopo una tale confessione, chiede
anche la comunione e l’estrema unzione acciò che io, se vivuto son come peccatore,
almeno muoia come cristiano e al santo frate che, estasiato per aver incontrato un’a-
nima così pura, gli chiede addirittura se, in caso di morte, potesse fargli piacere essere
sepolto nella loro chiesa, risponde non vorre’ io essere altrove.
I due fratelli che l’ospitavano, avendo seguito da dietro una parete la confessione,
aveano sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che
quasi scoppiavano, ma la stessa voglia non può non prendere chi legga la novella, tal’è
lo stile della narrazione! Ma non è finita qui perché, durante il funerale, il santo frate,
salito sul pulpito, tanto ed in tal modo disse delle grandi virtù di ser Ciappelletto che
la gente si accalcava intorno al feretro per toccarlo o per strappargli i panni come
reliquie e nei giorni seguenti si recava all’arca in cui era stato sepolto ad accendere
candele e a chiedere miracoli.
Il Boccaccio, forse a coronamento della colossale menzogna e strizzandoci l’occhio,
lascia impregiudicato il futuro ultraterreno (negar non voglio essere possibile lui essere
beato nella presenza di Dio) di ser Cepparello, notaio, il piggiore uomo forse che mai
nascesse, diventato per caso San Ciappelletto.
A proposito di letteratura e menzogna, una piccola perla che ci sembra giusto non di-
menticare è la fiaba di Hans Christian Andersen [6], I vestiti nuovi dell’Imperatore, di
cui tutti probabilmente ricordano la frase finale, «L’Imperatore è nudo». In breve, due
imbroglioni, conoscendo quanto l’imperatore sia vanitoso e tenga al suo abbigliamen-
to, spargono la voce di essere capaci di tessere un tessuto così sottile e leggero da essere
invisibile agli stolti e agli indegni. Sono chiamati a corte dove mostrano il tessuto (in
realtà inesistente), ma tutti i cortigiani, per non essere giudicati stolti o indegni, ne
decantano la bellezza tanto che l’imperatore ordina che gli venga preparato un abito
per i quale pagherà un prezzo spropositato data la rarità di quel tessuto. Alla conse-
gna, ovviamente, neppure lui lo vede ma, conoscendo le proprie indegnità, si mostra
estasiato per l’opera dei tessitori. Lo indossa e sfila per le vie della città dove tutti,
pur non vedendo alcun vestito, ma ritenendosi anch’essi in qualche modo indegni,
applaudono l’eleganza dell’Imperatore: è l’apoteosi della menzogna. L’incantesimo è
rotto dall’innocenza di un bambino che, meravigliato, grida «L’Imperatore è nudo!»,
ma l’imperatore continua a sfilare come se niente fosse. A conferma che la menzo-
gna e l’inganno sono patrimonio tanto di chi comanda quanto della gente comune.
È la parabola dell’uomo cresciuto in una società che l’ha condizionato a vivere nella
menzogna al punto da non saperla più riconoscere se non recuperando il bambino
ingenuo nascosto in qualche piega del suo essere.
Il romanzo, ambientato nella Londra vittoriana del XIX secolo, ha come protagonista
un giovane, Dorian Gray, molto bello, che prende coscienza della propria bellezza
quando un suo amico pittore, Basil Hallward, gli fa un ritratto.
Il “Mefistofele” di Dorian è Lord Wotton, conosciuto nello studio del pittore, che
gli fa intravedere cosa potrebbe ottenere grazie alla sua bellezza, al suo aspetto inno-
cente e rassicurante, commentando però che la giovinezza è breve. Così, quando Basil
gli dona il quadro, Dorian, rattristato, esclama: «Che cosa triste! Io diventerò vecchio,
orribile, disgustoso, ma questo quadro resterà sempre giovane, [...] Se solo potesse essere
il contrario! Se potessi io rimanere sempre giovane e invecchiasse il quadro, invece! Per
questo... per questo darei qualunque cosa! Sì, non c’è nulla al mondo che non darei!
Darei l’anima!».
Sotto la guida di Lord Wotton, Dorian finisce per diventare sempre più avido di pia-
ceri e più spietato e, pur conducendo una vita dissoluta, grazie a quella sorta di “patto
col Diavolo”, rimarrà giovane e bello, mentre il quadro mostrerà i segni della sua de-
cadenza fisica e della sua corruzione morale. Dorian nasconde il quadro in soffitta e di
tanto in tanto vi si reca per controllare e schernire il suo ritratto che invecchia giorno
dopo giorno, ma che, al tempo stesso, gli crea anche tanti timori per cui, in preda a
una sorta di follia, a un certo punto uccide l’amico pittore, che ritiene causa dei suoi
mali in quanto creatore dell’opera. Alla fine, stanco del peso che il ritratto gli causa,
nel tentativo di liberarsi della vita malvagia che sta conducendo, lacera il quadro con il
coltello con cui aveva ucciso il pittore, e si uccide conficcandosi un pugnale nel cuore:
i servi lo troveranno, irriconoscibile e precocemente invecchiato, ai piedi del ritratto,
ritornato meravigliosamente giovane e bello.
Wilde, che nell’arco della sua esistenza, ha perseguito il culto della bellezza attra-
verso la sua produzione artistica e la sua condotta di vita anticonformista, sprezzante
del buonsenso e dei canoni della morale comune, in quest’opera, rovescia il principio
secondo cui è l’arte che imita la vita, nel suo opposto e cioè che è la vita a imitare l’arte.
E in questa prospettiva, si giustifica l’importanza attribuita all’apparenza e al dominio
dei sensi, all’estetismo esasperato che persegue la ricerca del piacere assoluto, al di là
di ogni valore morale.
Il teatro
Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire,
non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno.
(Bertolt Brecht)
4 A queste bugie, i tre servitori rispondono argutamente: Tristàn chiede a Garcìa – il quale
cerca di propinargli la menzogna che ci sono incantesimi capaci di riappiccicare istantaneamente
al corpo arti staccati – di insegnargli la formula dell’incantesimo e lui l’avrebbe ripagato con la
sua devozione e i suoi servigi; Garcìa risponde che è impossibile perché è in ebraico e lui conosce
dieci lingue ma non quella, e Tristàn ironicamente commenta che, per mentire, non gli bastano
tutte e dieci. Anche Cliton, il servitore di Dorante, chiede di essere messo a parte del segreto della
Nella Verdad Sospechosa, García, di famiglia nobile, al suo ritorno a Madrid da Sala-
manca, dove aveva studiato, incontra due belle ragazze, Lucrecia e Jacinta e si innamo-
ra di quest’ultima ma, confondendo i nomi, si convince che sia Lucrecia e, in questo
gioco degli equivoci, entra in un vortice di bugie e di “spiritose invenzioni” finché suo
padre gli impone di sposare Jacinta; convinto che si tratti di Lucrecia, mente dicendo
di essersi sposato a Salamanca. Suo padre allora desiste e solo allora García scopre
l’equivoco e dichiara il proprio amore per Jacinta, ma ormai non gli crede più nessuno
ed è costretto a sposare Lucrecia. Alarcòn, moralista, si schiera dalla parte della verità
e punisce perciò il mentitore García, costretto a sposare la donna che non ama.
Il Bugiardo di Goldoni trae ispirazione da Alarcòn e Corneille, come egli stesso am-
mette nelle Mémoires [96], apportandovi importanti innovazioni: la figura dell’aman-
te timido contrapposto al protagonista, le più numerose occasioni in cui Lelio è co-
stretto a cimentarsi nell’invenzione di bugie «le quali sono per natura così feconde, che
una ne suol produrre più di cento, e l’une hanno bisogno dell’altre per sostenersi», e altri
artifici nell’intreccio della storia. Il bugiardo qui è il figlio di Pantalone, Lelio, un gio-
vane brillante che torna a Venezia con il suo servo Arlecchino, dopo aver soggiornato
vent’anni da uno zio a Napoli. Qui conosce le figlie del Dottor Balanzoni, Rosaura e
Beatrice, mentre sono oggetto di una serenata da parte di un ignoto ammiratore (che
poi si scoprirà essere Fiorindo, innamorato timido di Rosaura). Lelio, presentandosi
come un ricco marchese, afferma di essere l’autore della serenata non specificando a
quale delle due fosse dedicata nel tentativo di conquistarle entrambe.
Incomincia così la girandola delle spiritose invenzioni di Lelio che causano diversi
problemi: le ragazze vengono accusate di aver fatto entrare in casa nottetempo uno
sconosciuto disonorando la famiglia e Ottavio, pretendente di Beatrice, non la vuole
più per questa ragione; rischia di saltare l’accordo fra Pantalone e Balanzoni per dare
Rosaura in sposa a Lelio, cosa che entrambi rifiutano, Rosaura perché non conosce
poudre de sympathie in cambio della paga, ma anche il suo padrone tira in ballo la conoscenza di pa-
role ebraiche e di molte altre lingue e a Cliton non resta che concludere ironicamente, come Tristàn,
che dovrebbe conoscerne almeno dieci per dire tutte le bugie che racconta. Alla menzogna di Lelio,
Arlecchino risponde: «M’immagino che l’averì ammazzà colla spada d’una spiritosa invenzion».
Dei tre mentitori, i veri geni della bugia sono Lelio e García artefici di
sutilezas de ingenio (spiritose invenzioni), mentre Dorante non possiede
abbastanza spirito per stare alla pari con gli altri due e, come dice il suo
servo Cliton, racconta semplici rêveries (fantasticherie).
Parlando de Il bugiardo di Goldoni, abbiamo citato, fra i personag-
gi, Arlecchino, Balanzone, Pantalone, tutti maschere della Commedia
dell’Arte, la rappresentazione teatrale caratteristica dell’Italia dal XVI al
XVIII secolo, recitata da personaggi fissi, che, indipendentemente dal
contenuto della rappresentazione (che non aveva un testo scritto ma un
canovaccio in base al quale gli attori improvvisavano), recitavano sempre
lo stesso ruolo ed erano perciò immediatamente riconoscibili.
Un dramma che merita la nostra attenzione proprio per l’intreccio
inestricabile di finzione, realtà e follia è senza dubbio l’Enrico IV di Luigi
Pirandello [149].
Nei primi del ’900, un nobile, nelle vesti di Enrico IV, prende parte a una cavalcata
in costume organizzata per il carnevale, alla quale partecipano la marchesa Matilde,
della quale è innamorato, e il rivale in amore, barone Belcredi. Durante la cavalcata,
Belcredi disarciona il rivale che, cadendo, batte la testa e si convince di essere real-
mente Enrico IV. Suo nipote, Carlo di Nolli, per alleviarne le sofferenze, gli mette a
disposizione dei servitori che assecondano la sua follia. Dopo 12 anni guarisce e si
rende conto che Belcredi lo ha fatto cadere intenzionalmente per sottrargli Matilde.
Non accettando questa realtà dolorosa decide di continuare a fingersi pazzo. Dopo
vent’anni, Matilde, Belcredi, la loro figlia e uno psichiatra interessato al caso, vanno
a trovarlo e lo psichiatra suggerisce che, ripetendo la scena della caduta da cavallo,
Enrico IV potrebbe guarire. Viene allestita la scena e al posto di Matilde recita la fi-
glia, che assomiglia incredibilmente alla madre da giovane. Enrico IV ha l’impulso di
abbracciarla ma Belcredi si oppone, Enrico IV sguaina la spada e l’uccide: per sfuggire
alla pena, deciderà di continuare a fingersi pazzo.
Il cinema
Il cinema dovrebbe farti dimenticare
che sei seduto su una poltrona di un teatro.
(Roman Polanski)
chiatra italiana (Giovannina Conchiglia [49]) che l’ha descritta per prima. La sindro-
me di Zelig è stata accostata al disturbo borderline di personalità e il suo nucleo psico-
patologico individuato nell’identificazione proiettiva di Melania Klein.
Un tema per certi versi non molto distante da questo, è quello di For-
rest Gump, il film di Zemekis del 1994, premiato con sei Oscar, e interpre-
tato magistralmente da Tom Hanks.
Forrest Gump è un ragazzo con uno sviluppo cognitivo inferiore alla norma e con una
malformazione alle gambe che lo costringe a portare dei tutori. Per una serie di coinci-
denze, diventa testimone diretto d’importanti avvenimenti della storia americana nel
periodo che va approssimativamente dal 1950 al 1980, che racconta a quanti siedono
accanto a lui sulla panchina alla fermata dell’autobus di Savannah, la stessa panchina
dove, molti anni prima, il primo giorno di scuola, aveva incontrato Jenny, il suo unico
grande amore. Forrest Gump è “un eroe per caso”, l’uomo puro che fa grandi cose
senza cercarle e, anzi, senza rendersi conto di ciò che fa e di ciò che gli accade.
Casualmente finisce per primeggiare in quasi tutto ciò che fa: dismessi i tutori per
sfuggire a dei bulletti, scopre di essere un ottimo corridore e diventa un campione della
squadra di football senza conoscerne le regole; per i suoi meriti sportivi viene ammesso
all’Università dell’Alabama prendendo involontariamente parte ai movimenti per l’in-
tegrazione razziale; assieme ad altri atleti è ricevuto alla Casa Bianca da J.F. Kennedy (e
nel bagno presidenziale nota una foto autografata di Marilyn Monroe); laureatosi quasi
esclusivamente per meriti sportivi, si arruola nell’esercito dove diventa amico di un
soldato afroamericano, il caporale Bubba, il cui sogno è comprare un peschereccio per
pescare gamberi nel Golfo e convince Forrest a diventare suo socio quando torneranno
dalla guerra del Vietnam, dove sono stati mandati a cercare «un tizio di nome Charlie»,
non avendo realizzato che con il termine “charlies” erano indicati i Vietcong; qui salva
cinque commilitoni, compreso il tenente Taylor gravemente ferito, ma non Bubba, che
spira fra le sue braccia e lui stesso viene colpito da una pallottola a un gluteo.
Tornato dal Vietnam, riceve una medaglia al valore dal nuovo presidente, L.B.
Johnson; durante la convalescenza per la ferita, diventa un campione di ping-pong
e viene inserito nella squadra mandata da Nixon a giocare in Cina nell’ambito della
cosiddetta “Diplomazia del ping-pong”; di ritorno dalla Cina, viene ricevuto alla Casa
Bianca da Nixon, il quale gli trova una sistemazione al Watergate Hotel e qui, vedendo
gente strana nell’appartamento di fronte, avverte la sorveglianza dell’albergo facendo
scoppiare lo scandalo del Watergate. Fedele alla promessa fatta a Bubba, compra il
peschereccio per la pesca dei gamberi, che va a gonfie vele facendo diventare ricco lui
e il suo socio, il tenente Taylor, al quale consiglia di investire nella Apple che, secondo
lui, è «una cooperativa della frutta».
A un certo punto, dopo che Jenny ha rifiutato di sposarlo non sentendosi degna di
lui5, Forrest inizia a correre attraversando l’America dall’Atlantico al Pacifico e tor-
nando indietro (senza sapere, come lui stesso ammette, per quale motivo stia cor-
5 Jenny, infatti, al contrario di Forrest, ha condotto una vita sregolata inquieta, corrotta,
Nel film è Marguerite Dumont, una ricca baronessa francese sposata a un aristocratico
che ha venduto il titolo (e la nobiltà) e che la tollera per i suoi soldi e pensa solo alle
macchine e alle donne. Marguerite non ha voce, non ha attitudine al canto ma ha la
convinzione, alimentata dal fedele maggiordomo, dall’entourage familiare e dal marito
che non ha il coraggio di disilluderla (ma è crudele abbastanza da illuderla) di essere
una brava soprano. Sostenuta dalla propria convinzione, si esibisce in una grande festa
organizzata nella propria villa per raccogliere fondi per un’associazione musicale. Per
amicizia o per il timore di perdere il suo generoso contributo, tutti la applaudono.
Un giovane anarchico e un suo amico giornalista individuano nella baronessa ‘sto-
nata’ una voce di ‘rottura’ per demolire il sistema “borghese” dell’arte. Marguerite
studia sotto la guida di uno squattrinato tenore italiano ma, al momento del debutto,
le sue corde vocali, sforzate, non reggono e deve essere ricoverata. Durante la convale-
scenza, parla con il medico del suo (fantomatico) passato di grande artista internazio-
nale e questi le chiede di registrare una sua esibizione: quando riascolterà la propria
voce al registratore, verrà colta da un infarto e ne morirà. Marguerite, donna inna-
morata dell’arte, spaventata dalla solitudine, vive ed è tenuta in vita dalla menzogna
compiacente o interessata di chi la circonda e sarà la verità a ucciderla.
mente Florence Foster Jenkins con la regia di Stephen Frears, che si man-
tiene, rispetto a Giannoli, più aderente alla storia vera.
Florence è affiancata dal marito (Hugh Grant), uomo di “immensa fedeltà e coraggio”,
attore shakespeariano di mediocri qualità ma “libero dalla tirannia dell’ambizione”,
che per venticinque anni si spenderà per tenerle lontani schernitori e sbeffeggiatori, e
dal musicista (Simon Helberg) il quale l’ha accompagnata al piano durante le sue tra-
gicomiche esibizioni in club privati o in eccentriche feste. I tre, quasi coinvolti in una
sorta di folie à trois, aspirano alla consacrazione ufficiale, ma la loro grande illusione
naufraga sul palco della Carnegie Hall non potendo il marito controllare anche qui
tutti gli invitati. Florence ne morirà due giorni dopo d’infarto.
Il film narra la storia di una diva del muto, Norma Desmond (interpretata da Gloria
Swanson6) che, ritiratasi dalle scene con l’avvento del sonoro, vive sola, con il mag-
giordomo Max (Erich von Stroheim) – nella realtà era stato suo pigmalione e primo
marito –, in un’immensa villa fatiscente, buia, decadente7, contornata da centinaia di
sue foto, disprezzando il cinema moderno, che considera rovinato e corrotto dall’av-
vento del sonoro e del colore («Noi eravamo grandi, è il cinema che è diventato picco-
lo», «Non avevamo bisogno di parole, avevamo dei volti!») e sognando di tornare alla
celebrità con un film su Salomè, di cui ha scritto il copione.
Joe Gillis (William Holden), uno sceneggiatore in difficoltà, per sfuggire agli esatto-
ri che vorrebbero sequestrargli la macchina, si rifugia nella villa di Norma, credendola
abbandonata. Joe, incuriosito dall’ambiente, si intrattiene con Norma la quale gli sot-
topone il copione e lo ospita per lavorare al progetto del film. La donna s’innamora
di lui, lo lusinga con costosi regali, ma viene rifiutata e per questo, durante un party,
lo colpisce; lui fugge e poi telefona al maggiordomo per farsi mandare i propri effetti
personali: scopre così che la Desmond ha tentato il suicidio, per cui corre al suo ca-
pezzale promettendole di non lasciarla. Joe, intanto, ha incominciato a lavorare a una
sceneggiatura con una giovane, Betty Shaaefer, ed inizia una doppia vita, passando le
giornate con Norma e andando la sera a lavorare con Betty, anch’essa innamorata di
lui. Intanto Norma, ormai psicotica, scoperta la doppia vita di Joe, invita Betty alla
villa dove Joe le spiega della sfarzosa vita che conduce con la matura diva. Betty fugge
in lacrime, Joe fa i bagagli per andarsene ma Norma lo segue fino al giardino e gli spara
tre colpi di pistola uccidendolo. All’arrivo della polizia, la diva appare completamente
estraniata dalla realtà, il maggiordomo le dice che sono arrivati gli operatori (in re-
altà gli operatori dei cinegiornali) per iniziare il suo film. Convinta che ci sia il “suo”
regista, Cecil DeMille, per filmarla, Norma scende maestosamente le scale sentendosi
l’acclamata diva di un tempo e, guardando la cinepresa, pronuncia la battuta finale:
«Eccomi DeMille, sono pronta per il mio primo piano».
6
Che era stata, appunto, una diva del muto.
7
Per ottenere questo effetto, il regista fece mettere sull’obiettivo della cinepresa della polvere
di pomice.
La maschera e il volto
C’è una maschera per la famiglia, una per la società,
una per il lavoro. E quando stai solo resti nessuno.
(Luigi Pirandello, Uno, nessuno centomila, 1926)
8 Chi ha visitato l’anfiteatro di Epidauro non può non essere rimasto colpito dalla chiarezza
con cui, da ogni posizione, è perfettamente udibile il rumore di una monetina lasciata cadere a terra
al centro della scena, nonostante la grandezza dell’anfiteatro stesso.
più reale della realtà. Donata, alla fine, rinuncia alla propria vita per vivere, in una
disperata solitudine, quella dei personaggi che interpreta.
Erano gli anni ’70, Graziella era una ragazzina appena sedicenne, molto carina; du-
rante quell’inverno era maturata fisicamente e aveva acquistato quei caratteri sessuali
malizioso, e il terreno su cui si era posato era pronto a riceverlo: solo che
la cosa le era stata dipinta a tinte fosche. E che il terreno fosse pronto lo
testimonia anche l’inclusione del padre nel delirio allucinatorio: un pa-
dre affettuoso, molto attaccato (morbosamente?) alla figlia, la quale aveva
certamente sviluppato nei suoi confronti un complesso di Elettra1 che
realizzò attraverso l’abuso sessuale allucinatorio da parte del padre.
Le idee di riferimento, che rappresentavano il contenuto esplicito
del suo delirio («Mi guardano come si guarda una donna, come se fossi
nuda»), non presentavano niente di abnorme, esprimendo qualcosa che
poteva essere (e probabilmente era), ma che cosa l’aveva indotta a convin-
cersi di questo con modalità “assoluta” tanto da renderla, non solo refrat-
taria a ogni critica, ma anche da ampliarla, generalizzarla, approfondirla
fino ad allucinare (e naturalmente a considerare vera) la violenza sessuale
da parte del padre?
In condizioni normali, nella formulazione del pensiero, il soggetto sot-
topone il prodotto della sua mente (derivato dall’associazione tra i vari
elementi percettivi, intuitivi, mnemonici ecc.) a un processo di critica e di
giudizio da cui deriva un sentimento di certezza in base al quale conside-
rerà il suo pensiero “vero fino a prova contraria”. È ipotizzabile che il deli-
rante, per effetto di conflitti interiori particolarmente intensi, non porti a
termine il normale procedimento ideativo, e conferisca a questo processo
incompleto, distorto, il sentimento di certezza che, per effetto di quegli
stessi conflitti, acquista un valore assoluto. All’evidenza della ragione con-
trappone l’assurdità, l’infondatezza, l’errore, l’irrazionalità del delirio.
È piuttosto facile cogliere (a grandi linee e senza addentrarci nel terre-
no psicoanalitico) la situazione conflittuale alla base della psicosi deliran-
te della ragazza: sono emerse le fisiologiche pulsioni di una giovane don-
na, ma queste confliggono con l’educazione ricevuta e lei non ha potuto
fare altro, per evitare i sentimenti di colpa, che spiazzare inconsciamente
sugli altri i propri impulsi – Non sono io che desidero gli altri, sono gli altri
che desiderano me, anzi hanno abusato di me.
Non sempre i quadri deliranti hanno alla loro base dinamiche semplici
e facilmente comprensibili come queste, spesso le cose sono molto più
complesse ma il meccanismo di base consiste sempre nella necessità di
spostare il sentimento di certezza da un contenuto interiore inaccettabile a
un contenuto esterno che, anche se doloroso, è accettabile perché trasferito
fuori da sé. Con il delirio si conferisce la patente di verità a qualcosa che,
Agamennone e Clitennestra, quando scoprì che la madre aveva fatto uccidere suo padre, si vendicò
facendola uccidere dal fratello Oreste.
Maria è una signora settantenne che ha avuto in passato due episodi psicotici per i
quali è stata ricoverata in ambito psichiatrico. Divorziata, il marito l’ha abbandonata
qualche tempo dopo il primo episodio psicotico, quando la figlia aveva 4 anni. Lei ha
conservato il proprio impiego e cresciuto la figlia, che ha mantenuto buoni rapporti
con il padre, frequentandolo abbastanza regolarmente; probabilmente la paziente non
ha mai accettato di buon grado il rapporto della figlia con il padre, colpevole di averla
tradita e abbandonata.
Maria entrò in contatto con noi in occasione del secondo episodio psicotico. In quel
periodo la figlia, che lavorava nella città in cui viveva il padre, rimaneva spesso da lui
anche a dormire per comodità: forse fu questo fatto che riattivò il quadro psicotico
fino ad allora rimasto pressoché silente (erano residuate, infatti, sfumate idee perse-
cutorie nei confronti dei colleghi di lavoro, non interferenti con il suo adattamento
lavorativo giacché Maria le teneva sotto controllo limitando il più possibile i contatti
interpersonali).
Dopo la risoluzione parziale del secondo episodio, nonostante la terapia psicofar-
macologica, persistevano le idee persecutorie nei confronti dell’ex marito che Maria
era convinta le mettesse la figlia contro, cercando di farla passare per “matta” in modo
da farla rinchiudere in qualche istituto o comunità, per prendersi la sua casa. Con gli
anni, questa convinzione si è sempre più radicata, ha coinvolto anche gli altri familia-
ri, che sarebbero stati d’accordo con la figlia. Per questo la paziente ha praticamente
rotto i rapporti con tutti, figlia e familiari, esce pochissimo da casa, lo stretto indispen-
sabile, perché sua figlia e persone in combutta con lei o da lei pagate, la diffamano e le
mettono contro tutti quanti.
cezioni senza oggetto”, sulle quali, nonostante i numerosi studi, non sia-
mo riusciti finora a formulare ipotesi eziopatogenetiche sufficientemente
affidabili.
Tenendo conto dell’elevato grado di concomitanza di allucinazioni e
deliri (con buona frequenza, la presenza dell’uno è associata alla presenza
anche dell’altro: il delirio favorisce il prodursi di allucinazioni e queste lo
alimentano – quando non ne sono alla base) è ipotizzabile che abbiano la
stessa dinamica.
Anna è una donna di 54 anni, infermiera professionale, che ha alle spalle un’infanzia
abusata: il padre, con una depressione cronica psicotica a causa della quale era da
tempo senza lavoro, aveva praticamente escluso la madre dalla cura della bambina (ad
esempio, la metteva a letto prima che tornasse dal lavoro perché non avesse contatti
con lei). È quasi certo che, quando ne curava l’igiene personale, avesse atteggiamenti
“equivoci” ma non risulta che ci siano stati approcci sessuali espliciti. Molto rigido
nell’educazione della figlia, anche nell’infanzia e nell’adolescenza non le concedeva né
libertà né occasioni per frequentare i coetanei. Quando Anna aveva circa 14 anni, un
cugino di qualche anno maggiore, presso la cui famiglia erano ospiti in villeggiatura,
tentò di violentarla; quando il padre lo seppe, attribuì a lei tutta la colpa facendola
sentire una “poco di buono”, “sporca” e umiliandola pesantemente.
All’età di 24 anni, apparentemente senza motivi scatenanti, Anna ebbe un epi-
sodio depressivo grave, con idee di colpa riferite ai giudizi e alle accuse del padre
relativamente all’episodio della tentata violenza da parte del cugino; durante questo
episodio tentò il suicido mediante defenestrazione riportando danni fisici relati-
vamente modesti da cui si riprese pienamente. A 30 anni, il medico che dirigeva il
reparto presso il quale lavorava, fu sostituito da un altro il quale mise in discussione
il suo modo di lavorare e questo la precipitò di nuovo in uno stato depressivo carat-
terizzato dalle solite tematiche di colpa che, nonostante le terapie, richiese diversi
mesi prima di risolversi. Un episodio del tutto analogo si verificò verso i 38 anni.
Poco dopo la risoluzione di questo episodio si sposò: i primi anni di matrimonio
andarono bene da ogni punto di vista; dopo circa 4-5 anni, il marito incominciò a
essere violento e lei decise di separarsi.
Verso i 48 anni, ebbe un nuovo episodio depressivo nel quale le idee di colpa, in
precedenza parzialmente criticate, divennero, prima francamente deliranti e, succes-
sivamente, si accompagnarono ad allucinazioni uditive a carattere persecutorio: udiva
voci che la offendevano, le dicevano che era cattiva, era una donnaccia, che doveva
uccidersi; queste voci, le sentiva dentro la sua testa, ma per lei erano assolutamente
reali, la tenevano in un continuo stato di angoscia e di terrore e ridestavano in lei idee
di suicidio. Dopo qualche mese, nonostante le terapie, si presentarono anche allucina-
zioni visive abbastanza particolari: la sua casa era “invasa” da uomini molto piccoli, gli
“omìni”, che venivano fuori dai mobili, dal frigorifero ecc. e che avevano preso il ruolo
delle voci dicendo le stesse cose. Con il miglioramento del quadro psicopatologico,
gli “omìni” incominciarono a essere meno (verbalmente) aggressivi, si ridussero di
numero e alla fine scomparvero e con essi anche le voci.
Giuseppina, con cui siamo venuti in contatto agli inizi degli anni ’80, era accompa-
gnata dal figlio che si era preoccupato poiché la madre «parlava da sola, come se ri-
spondesse a qualcuno»; era una signora di 65 anni, una donna semplice e dolce, vedova
da oltre vent’anni, che viveva con il figlio di 42 anni, omosessuale, il quale le teneva
nascosto il proprio orientamento sessuale (all’epoca la discriminazione sessuale era
ancora molto forte). In sintesi questo fu il suo racconto:
«Sono vedova da oltre vent’anni e vivo con mio figlio che è tanto un bravo ragazzo,
peccato che non si è ancora sposato, a me avrebbe fatto piacere avere dei nipotini da
crescere ma lui non sembra interessato. Ha qualche amica e diversi amici ma non ha
mai avuto una relazione seria, non mi ha mai presentato una fidanzata... Da 3 o 4
anni ho incominciato a sentire delle voci quando sono in casa da sola e magari faccio
le faccende. Non so chi sia che parla, sono più di una persona, mi parlano del più e del
meno, commentano quello che sto facendo e a volte mi danno dei consigli... io ci parlo,
rispondo, mi sfogo del fatto che mio figlio non riesce a trovare la donna giusta per lui e
finirà che non avrò nipotini da crescere. Molte volte le voci parlano tra di loro, fanno
commenti su diverse cose, anche su mio figlio, magari con parole di cui non conosco
il significato... a volte mi sembrano brutte parole ma io non le conosco... per stare ad
ascoltarle mi capita che mi distraggo e mi brucia quello che ho sul fuoco... non mi danno
fastidio, anzi, mi fanno compagnia...».
1 Alla stessa stregua Freud considerava anche altre alterazioni momentanee non patologiche
che, con ben altro peso, si manifestano anche nelle psiconevrosi, come i lapsus, i gesti automatici, lo
smarrimento di oggetti, le sviste ecc., che, quando ci capitano, consideriamo casuali e non certamen-
te “intenzionali”.
Per fare un esempio del procedimento, riassumiamo un episodio occorso allo stesso
Freud.
Un giovane studioso ebreo, conversando con lui, si rammarica del fatto che il suo
popolo sia stato privato dei suoi diritti e cita l’invettiva di Didone che, abbandonata
da Enea, auspica una nuova generazione vendicatrice degli oppressi: «Exoriar aliquis
nostris ex ossibus ultor» (Sorga un vendicatore dalle nostre ossa), ma nel riportare la cita-
zione il giovane omette la parola aliquis. Freud ne chiede il motivo e il giovane risponde
che aveva diviso istintivamente la parola in “a” e “liquis”, si era soffermato sulla seconda
collegandosi al suo significato di reliquia, fluido, liquefazione. Per associazione gli era
tornato alla mente San Simonino da Trento (un bambino ucciso nel ’400 quando gli
ebrei, accusati d’infanticidio rituale, furono cacciati da Trento), di cui aveva visto le reli-
quie un paio d’anni prima, e da qui passò, prima a un articolo in cui si parlava di Sant’A-
gostino, e poi all’incontro con uno strano vecchio di nome Benedetto che subito collegò
a San Gennaro, alla liquefazione del sangue, all’ansia che prende il popolo quando la
liquefazione tarda a verificarsi e a una signora dalla quale avrebbe potuto ricevere una
notizia sgradevole per entrambi. A questo punto Freud interviene con una domanda
che riguarda la signora “Che non ha avuto le mestruazioni?” concludendo il percorso
innescato da aliquis.
In effetti, il giovane aveva avuto una storia con una signora italiana in compagnia
della quale aveva visitato anche Napoli e che probabilmente era rimasta incinta cre-
andogli non pochi problemi di ordine morale oltre a una gran confusione mentale:
infatti, mentre invoca una progenie che vendichi il suo popolo, si preoccupa di come
risolvere una gravidanza indesiderata ed è certo che valuti un possibile aborto poiché
pensa a San Simonino, presunta vittima di un infanticidio rituale.
qualcosa agli altri, tentativi spesso mal riusciti al punto da saltare imme-
diatamente agli occhi dell’osservatore. I lapsus possono manifestarsi in
vari modi, come anticipazione o posticipazione di una o più parole in
una frase, assonanza fra la parola che vogliamo nascondere con quella
che diciamo, somiglianza o contrasto fra le due parole e così via, sebbene
la maggior parte prescinda da queste regole formali. Nella produzione
dei lapsus si trovano a coincidere un libero flusso di associazioni e un
calo dell’attenzione critica, magari sotto l’azione perturbatrice del conflit-
to che vorremmo tenere nascosto. È grazie ai lapsus che si riesce, non di
rado, a cogliere il contenuto mentale che i pazienti inconsciamente tenta-
no di nascondere. Freud ne riporta numerosi episodi.
Non richiede spiegazioni il lapsus della signora che, raccontando di una visita medica
a cui si era sottoposto il marito, afferma che il medico «ha detto che non ha bisogno di
una dieta e che può mangiare e bere quello che voglio».
Più malizioso il lapsus del signore che, a un ricevimento, conversando sui prepara-
tivi per la Pasqua a Berlino con una signora giovane, bella e con un generoso decolleté,
le chiede: «Ha visto la mostra nella vetrina di Wertheim? È decollatissima» tentando
maldestramente di nascondere l’ammirazione per il decolletè che la signora metteva in
mostra.
Quanto a malizia, non è da meno il lapsus della signora che, in circostanze analo-
ghe, afferma: «Una donna dev’essere bella per piacere agli uomini. Gli uomini sono
più fortunati; basta che uno abbia i cinque arti diritti e non ha bisogno d’altro!», non
lasciando dubbi su quale fosse il suo pensiero nascosto.
Il Dott. Brill incontra un collega, il Dott. R., che non vede da anni e della cui vita
privata non sa nulla; nel corso della conversazione gli chiede se sia sposato e questi
risponde:
- No. Perché un uomo come me dovrebbe sposarsi?
Poi gli chiede:
- Vorrei sapere che cosa faresti in un caso come questo: conosco un’infermiera che
è stata indicata come correa in un caso di divorzio. La moglie ha citato in giudizio il
marito per adulterio, facendo il suo nome come complice, e lui ha ottenuto il divorzio.
- Vuoi dire che lei ha ottenuto il divorzio.
- Sì... sì, certo, lei ha ottenuto il divorzio
E continua spiegando che l’infermiera ha risentito a tal punto del procedimento legale
e dello scandalo che ha incominciato a bere, è diventata molto nervosa, e così via e gli
chiede un consiglio su come trattarla. Appena corretto l’errore, il Dott. Brill chiede di
spiegarglielo, ma riceve una risposta meravigliata:
- Forse che uno non ha diritto di fare un lapsus? È solo un errore, non c’è niente
dietro.
Gli spiega che, se prima non avesse affermato di non essere sposato, sarebbe stato
tentato di supporre che fosse lui stesso il protagonista del racconto, perché in quel
caso il lapsus si sarebbe spiegato col desiderio di ottenere lui il divorzio in modo da
non essere tenuto a pagare gli alimenti e da potersi risposare nello Stato di New York.
- Sempre che tu non voglia che io ti menta, devi credere che non sono mai stato
sposato e quindi la tua interpretazione psicoanalitica è sbagliata.
Il Dott. Brill, convinto dell’esattezza della propria interpretazione, anche per l’esage-
rata risposta emotiva del Dott. R., qualche giorno dopo va a trovare un vecchio ami-
co del Dott. R., il quale gli conferma in ogni particolare l’interpretazione del lapsus:
l’udienza si era tenuta qualche settimana prima, e l’infermiera era stata citata come
correa nell’adulterio.
Gli stessi meccanismi del lapsus verbale sono alla base del lapsus di
lettura2 e di scrittura, funzioni strettamente correlate. Freud prende in
considerazione, inoltre, gli errori della memoria, le dimenticanze sia di
esperienze sia di propositi (cioè omissioni), riportando esempi, soprattutto
personali, di dimenticanze chiaramente legate all’influenza di stati emo-
tivi, per lo più negativi.
Il matrimonio di due persone ancora giovani era un po’ in crisi perché la moglie, per
quanto avesse ottime qualità, era piuttosto fredda e fra i coniugi non c’erano tenerez-
ze. Un giorno la moglie, tornando da una passeggiata, portò al marito un libro che
aveva acquistato perché pensava potesse interessargli. Riproponendosi di leggerlo, lui
lo mise da parte e ogni volta che gli tornava in mente lo cercava ma non riusciva a
trovarlo. Qualche tempo dopo si ammalò la madre di lui e la moglie si dedicò alla cura
della suocera mostrando così i suoi lati migliori. Una sera, tornato a casa pieno di gra-
titudine e di ammirazione per quanto la moglie faceva, gli tornò in mente il libro e, in
maniera quasi automatica, aprì un cassetto della scrivania e, coincidenza significativa,
vi trovò il libro tante volte cercato invano.
Emblematico è l’episodio di quel signore che una sera, tornando stanco dall’ufficio,
avrebbe dovuto intrattenere degli ospiti non particolarmente graditi e, senza pensarci,
invece della chiave di casa, tirò fuori quella dell’ufficio molto più grande e che teneva
in un’altra tasca.
2 Per quanto riguarda la lettura, vogliamo ricordare che, a parziale smentita delle tesi di
Freud, l’uomo (ma anche gli animali) sono dotati del cosiddetto completamento amodale, cioè della
capacità di riconoscere un oggetto vedendone solo un particolare (vedi Appendice Tecnica 3).
Fra i vari esempi di tale errore, Freud riporta quello di un paziente che, dopo molte
incertezze, si decide a chiedere in sposa la ragazza che lo ama e che lui ricambia. La
sera, accompagnata a casa la ragazza, prende il tram e alla biglietteria acquista due
biglietti. Qualche tempo dopo essersi sposato, ed essersi ampiamente pentito di quella
scelta, una sera che va a prendere la moglie a casa dei suoceri, prende il tram con lei
per tornare a casa ma acquista un solo biglietto.
Spie del rifiuto inconscio a fare qualcosa sono gli atti mancati. In-
teressante è quanto Ferenczi racconta di se stesso: noto ai suoi amici e
conoscenti per la frequenza e stranezza dei suoi atti mancati (che cessa-
rono quando iniziò a praticare la psicoanalisi), un giorno commise un
errore tecnico con un paziente e quel giorno fu artefice di una serie di
1 Il ricordo è il prodotto dell’interazione di diversi sistemi di memoria correlati tra loro strut-
Negli anni Ottanta si verificò negli Stati Uniti un fatto assai strano: numerose persone
denunciarono di essere state vittime di abusi durante l’infanzia, in genere da parte di
familiari. Come si giustificava questa sindrome della memoria recuperata – recovered
memory syndrome, fenomeno dell’apparente recupero di ricordi non corrispondenti
a reali tracce mnestiche, con contenuti dello stesso tipo, in un consistente numero di
persone? Semplicemente perché fra gli psicoterapeuti si era affermata la convinzione
che molto spesso i bambini abusati rimuovessero dalla memoria cosciente gli eventi di
questo tipo a causa del forte impatto traumatico e che il loro ricordo potesse riemer-
gere a seguito di una lunga terapia. A questi soggetti, che erano ricorsi allo psicotera-
peuta perché affetti da disturbi psichici, veniva fatto intendere che alla base dei loro
disturbi potessero esserci abusi infantili, rimossi dalla coscienza in quanto dolorosi;
e così, nel corso delle sedute terapeutiche (magari anche sotto ipnosi), essi incomin-
ciavano a “ricordare” particolari che, man mano che emergevano, si strutturavano
in maniera sempre più complessa fino al punto di convincersi di essere stati abusati
realmente e di denunciare i presunti molestatori.
Una psicologa, Elisabeth Loftus [120,121], che era spesso chiamata nelle aule dei
tribunali come consulente, ebbe il (fondato) sospetto che, in molti di questi casi, si
trattasse di falsi ricordi indotti dalla terapia e avanzò pubblicamente i suoi dubbi, dive-
nendo oggetto di insulti e anche di minacce di morte da parte di pazienti che avevano
denunciato le presunte molestie. La Loftus condusse numerosi esperimenti in cui di-
mostrò la facilità con cui la nostra memoria poteva essere manipolata senza neppure
ricorrere a lunghe sedute o a pressioni martellanti.
di vita con i loro parametri temporo-spaziali e cronologici = ricordare) e una memoria semanti-
ca (conoscenze astratte e generali, organizzate in modo tassonomico e associativo = sapere). La
memoria può essere procedurale (sapere come), cioè la conoscenza (tacita) di come svolgiamo un
compito, e dichiarativa (sapere cosa), cioè la conoscenza esplicita (cosciente) dei fatti. Importante
è la memoria autobiografica che ha un carattere ricostruttivo, comportando spesso l’integrazione di
dettagli ricavati da episodi simili. I disturbi della memoria possono essere quantitativi o qualitativi.
I primi sono le amnesie e le ipomnesie, che comportano una riduzione (fino alla perdita completa)
della capacità di ricordare, per disturbi dell’acquisizione e/o della ritenzione e/o del recupero delle
informazioni; sono generalmente causati da un danno organico cerebrale di varia natura, e sono
di prevalente interesse neurologico. Minore rilevanza hanno le ipermnesie caratterizzate da iperat-
tività mnestica; si possono osservare come caratteristiche permanenti di alcune persone – famoso
è Pico della Mirandola –, o transitorie in alcuni stati di alterazione della coscienza. Ipermnesia
settoriale si può osservare in soggetti con sindrome di Asperger o in pazienti con insufficienza
mentale. I disturbi qualitativi, o paramnesie, sono generalmente di natura psicogena e comportano
un’alterazione qualitativa, una distorsione, della rievocazione e del riconoscimento dei ricordi, si
distinguono in allucinazioni (pseudomnesie) e illusioni (allomnesie) della memoria e sono di preva-
lente interesse psicopatologico.
sioni, di fallimenti. In realtà, in molti casi, noi sappiamo dal racconto dei
familiari che questo non corrisponde alla realtà di una vita in cui, come
nella maggior parte dei casi, possono esserci stati anche eventi negativi
ma che nell’insieme è stata positiva. Illusioni della memoria non sono
rare nel delirio di gelosia in cui il paziente, rievocando episodi della pro-
pria vita, attribuisce al partner comportamenti che, secondo lui, erano
in qualche modo segni di intesa ai presunti amanti (nel delirio di gelosia
quasi mai c’è un solo presunto amante, ma ce ne sono più di uno e spesso
anche molti), per indicare il luogo e l’ora dell’incontro o cose del genere.
Fra le illusioni deliranti, ritroviamo la sindrome di Capgras, cioè l’in-
capacità di riconoscere i familiari e la convinzione che siano stati rim-
piazzati da impostori o alieni o sosia (illusione del sosia) e la sindrome
di intermetamorfosi, cioè la metamorfosi di familiari che si trasformano
continuamente gli uni negli altri, un quadro simile alla sindrome di Fre-
goli in cui, però, il soggetto ritiene di essere perseguitato da una persona
che modifica il proprio aspetto per non essere riconosciuta.
2 La perdita di una parte più o meno consistente del patrimonio mnestico può dipendere
da numerosi fattori di natura organica (traumi cranici, disturbi vascolari, intossicazioni endoge-
ne ed esogene, processi degenerativi, neoplastici, infettivi ecc.: le amnesie o ipomnesie organiche)
ma anche psichica (traumi emotivi, disturbi dissociativi ecc.: le amnesie psicogene). Questi disturbi
quantitativi della memoria possono manifestarsi in varie forme in rapporto alla causa che le ha
provocate, alla diversa durata (transitorie o permanenti), alla quantità di contenuti mnestici (globale
o lacunare) e, in quest’ultime, se è compromessa la rievocazione dei ricordi antecedenti l’evento
patogeno (retrograde), la fissazione dei ricordi successivi a quell’evento (anterograde) o entrambi
(anteroretrograde), se sono cancellati tutti i ricordi (massive) o solo quelli riguardanti specifiche
tracce mnestiche accomunate dal loro significato affettivo (selettive) (amnesie queste che si osserva-
no quasi esclusivamente nelle amnesie psicogene).
3 Di recente è stata segnalata una sindrome amnestica da uso di marijuana nel contesto della
sindrome amotivazionale.
Niente di Marilyn era spontaneo, tutto è stato costruito dal caos, dove nulla era al po-
sto giusto1: un carico familiare pesantissimo per linea materna (ignoto quello pater-
no), a partire dall’avo con delirio genealogico (convinto di discendere dal quinto pre-
sidente degli Stati Uniti, James Monroe), passando per il bisnonno, morto suicida per
impiccamento, quindi per nonna Della, affetta da psicosi maniaco-depressiva, morta
in ospedale psichiatrico, per arrivare alla madre, Gladys, che trascorse gli ultimi de-
cenni istituzionalizzata – con diagnosi che andavano dalla psicosi maniaco-depressiva
alla schizofrenia paranoide – in uno stato di cronico ritiro autistico, totalmente igna-
ra tanto del successo quanto, poi, della morte della figlia.
All’età di otto anni, con la prima ospedalizzazione psichiatrica della madre, inizia-
no i ricoveri in orfanatrofio e gli affidamenti familiari, le molestie e gli abusi sessuali2.
A sedici anni, per non rientrare in orfanatrofio, sposa James Daugherty: «una specie
di amicizia con privilegi sessuali», dirà più tardi, modello di rapporto che riprodurrà
più volte con la lunga serie dei suoi amici/amanti.
All’inizio della carriera fu una modella fotografica, mestiere in cui riusciva molto
bene perché facilitata dalla totale assenza di inibizioni. Fra il 1948 e il 1950, sotto la
1 Chi volesse approfondire gli aspetti della vita, della carriera e della morte di Marilyn Mon-
roe ne troverà un’approfondita descrizione nel volume L’altra Marilyn – Psichiatria e psicoanalisi
di un cold case [68], da cui sono tratte le informazioni che utilizziamo in questa sede.
2 Verso i quindici anni un “padre” affidatario l’avrebbe messa incinta e il figlio sarebbe stato
dato in adozione vista l’età della madre.
guida del regista Ben Lyon, si compie la metamorfosi: Norma Jeane, la ragazzotta
procace e dai lineamenti forti, fra “ritocchini” chirurgici e make-up, si trasforma in
Marilyn Monroe, la diva dal viso fragile, tenero, infantile e, al tempo stesso, da femme
fatale. In realtà un personaggio costruito artificialmente utilizzando un corpo splen-
dido, una bocca sensuale, uno sguardo seduttivo di cui ognuno, ingannevolmente,
poteva sentirsi unico destinatario (effetto dello sguardo diretto all’infinito), una ma-
schera abilmente costruita per realizzare un sogno, quello di essere la meraviglio-
sa, svampita, impudica, ipersexy Marilyn, di diritto nella top ten delle dieci persone
più seduttive di sempre. La maschera Marilyn, confinata nello stereotipo della dump
blonde (bionda sciocca) che la rese celebre in alcune commedie di grande successo
degli anni ’50, forniva un’identità completamente artefatta a Norma Jeane, con la sua
insicurezza ontologica e le sue paure inespresse e inesprimibili.
A partire dalla metà degli anni ’50, Marylin Monroe fu curata da diversi psicoa-
nalisti (tra cui Anna Freud, Marianne Kris, Ralph Greenson), all’epoca famosi e a
lei estremamente devoti, che concordarono sulla diagnosi di Schizofrenia paranoide
marginale; Greenson, sottolineò l’importante elemento tossicofilo (aggiungendo ad-
dictive, dipendente) e, da ultimo, prese in considerazione anche l’ipotesi di una psico-
si maniaco-depressiva. Marilyn presentava un quadro psicopatologico grave, caratte-
rizzato da insonnia resistente e poliabuso di alcol e farmaci, oltre a molte dipendenze
comportamentali, che compromettevano fortemente la sua capacità di lavoro. Nel
1959, durante la lavorazione di The Misfits, nel deserto del Nevada, ebbe il suo primo
ricovero nella clinica dei divi di Los Angeles, il Cedar Lebanon, per sottoporsi a disin-
tossicazione da barbiturici. Dopo un ennesimo aborto e il divorzio da Arthur Miller,
le sue condizioni si aggravarono rendendo necessari, nel 1961, due successivi ricoveri
sia per l’abuso di alcool e farmaci, sia per il grave rischio suicidario. Particolarmente
traumatico fu il ricovero nell’Ospedale Psichiatrico Payne Whitney dove, sentendosi
chiudere la porta del reparto alle spalle, fu presa da claustrofobia e presentò una crisi
di agitazione psicomotoria durante la quale, dopo aver sfondato una finestra, minac-
ciò di tagliarsi i polsi con un vetro.
Negli ultimi mesi di vita, a conferma della gravità delle sue condizioni, a fronte
dell’impotenza dei mezzi terapeutici dell’epoca – alcuni farmaci specifici erano stati
scoperti da poco in Europa, ma non erano ancora entrati nella pratica clinica –, Gre-
enson la vedeva 5 o 6 volte la settimana; egli cercò di curare l’ingravescente poliabuso
farmacologico sostituendo i barbiturici con altri ipnoinducenti più facili da gestire,
con il solo risultato di aggiungere farmaci a farmaci che Marilyn, come del resto mol-
ti pazienti fanno anche oggi, si procurava facendoseli prescrivere da medici diversi.
Tuttavia, fino a poche settimane prima della morte, che a distanza di oltre ses-
sant’anni rimane un cold case, era ancora un’ottima fotomodella, come testimonia
il backstage di Something’s got to give, rimasto incompiuto, dove si mostra, nuda,
in tutta la sua sfolgorante seduttività. Greenson, e con lui la maggior parte dei te-
stimoni, sostenne che, nonostante la turbolenza del periodo, Marilyn all’epoca della
morte non fosse depressa e stesse facendo progetti per il suo futuro; tuttavia il grave
poliabuso rendeva il suo umore estremamente instabile e disforico e le performan-
ce cognitive sempre più scadenti; disintossicarla era impossibile, anche perché non
voleva saperne di ulteriori ricoveri psichiatrici. Marilyn, in effetti, non era soltanto
depressa, ma presentava un ben più grave stato misto bipolare in comorbidità con un
disturbo borderline di personalità3.
Dietro l’immagine della diva più amata dal mondo intero si celava
quindi una donna gravemente ammalata, che, come un’eroina tragica,
non riuscì a sottrarsi al destino psichiatrico familiare, tanto ossessiva-
mente temuto.
Icona intramontabile, ormai parte dell’immaginario collettivo, era
un prototipo di disturbo borderline. I moltissimi biografi e le altrettan-
to numerose testimonianze concordano sul fatto che, dietro la maschera
Marilyn, si nascondesse una donna infantile, socialfobica, rimuginativa,
insoddisfatta, continuamente bisognosa di conferme e appoggio, total-
mente priva di senso morale. Una patologia ricca e complessa che acco-
muna molte star di grande successo – Jim Morrison, Jimi Hendrix, Brian
Jones, Amy Winehouse, Kurt Cobain, Michael Jackson, Prince tanto per
citarne alcuni –, tutti morti giovani per droga o per suicidio, dopo un suc-
cesso planetario – “muore giovane chi è caro agli dei”4 – e tutti con spiccati
tratti riconducibili al disturbo borderline.
Comportamenti tipici e fortemente sintomatici sono i rapidi passaggi
dall’idealizzazione alla svalutazione di persone (incluso il terapeuta), cose
e situazioni e la creazione di legami nei quali il controllo dell’altro prevale
sulla relazione paritaria. Altri elementi sono la difficoltà nella gestione
delle emozioni, soprattutto di fronte a eventi, come le separazioni e gli
abbandoni, e un’instabilità affettiva cronica. Il risultato di quest’organiz-
zazione disfunzionale è la “triade impossibile”: intolleranza alla solitudine,
incapacità di mantenere le relazioni, non accettazione delle separazioni.
Il quadro è caratterizzato, inoltre, da forte impulsività e facilità a porre
3 Letteralmente il termine “borderline” definisce chi sta in una posizione di mezzo tra due
condizioni differenti – in questo caso, anche tra più di due –, un pirandelliano “personaggio in cerca
di autore”. Moskovitz [134] lo descrive come una personalità con «un carattere elusivo che manca in
identità» sopraffatto com’è «da una barriera di emozioni dolorose», consumato «dalla fame d’amo-
re» al punto da «sbandare di relazione in relazione e da impulso a impulso in un tentativo disperato
di controllare questi sentimenti».
Fin verso la metà del ventesimo secolo il termine “borderline” stava a indicare pazienti affetti
da forme di schizofrenia pseudonevrotica, non grave, da trattare ambulatorialmente, ad andamento
cronico, scarsamente responsiva ai trattamenti (prevalentemente psicoanalitici data la totale man-
canza di psicofarmaci), con una sintomatologia complessa e mutevole (ma con scarsi o assenti sin-
tomi tipici della schizofrenia). Dai primi tentativi di sistematizzazione di questo disturbo, verso la
metà del Novecento, ai criteri diagnostici attuali, poche sono le modifiche sostanziali apportate. La
prima è il definitivo distacco dalla schizofrenia, la seconda è la sua concettualizzazione come speci-
fica organizzazione di personalità.
4 Menandro.
8 Ma anche le altre ipotesi potrebbero essere considerate cause di morte inevitabili: a) l’in-
tossicazione accidentale, tenendo conto della gravità del poliabuso di ipnotici e barbiturici che assu-
meva, per di più in associazione all’alcol; b) l’errore medico dovuto all’indisponibilità, all’epoca, di
farmaci specifici, e quindi alla necessità di aumentare le dosi dei barbiturici (farmaci con uno scarto
minimo tra dose terapeutica e dose letale) nel tentativo di ottenere un effetto sedativo e ipnotico
sul grave stato misto bipolare; c) l’omicidio, in considerazione della possibilità che rivelasse notizie
compromettenti di cui era venuta a conoscenza nel corso delle sue frequentazioni dei Kennedy,
come sembra avesse minacciato: intorno alla mezzanotte, quando verosimilmente Marilyn era già
morta, un poliziotto avrebbe fermato una Mercedes, guidata dal cognato di Bob Kennedy, con a
bordo lo stesso Bob e il dott. Ralph Greenson, lo psicoanalista della diva.
9 Lo spettro autistico potrebbe rappresentare un substrato neuroatipico di vulnerabilità su
matizzata, che non avrebbe potuto vivere senza la sua maschera ipercom-
pensativa, nasce il dramma che ha attraversato tutta la vita dell’attrice,
fino all’exitus.
Ma la grande menzogna della maschera Marilyn è nello sguardo.
Niente è più ingannevole dello sguardo di Marilyn, come di quello delle
moltissime pazienti borderline dei nostri giorni: lo sguardo seduttivo che
l’ha resa immortale, al tempo stesso profondo e melanconico, è in real-
tà un compendio di psicopatologia; in esso convergono le tre principali
dimensioni psicopatologiche in gioco, tre tessere importanti del puzzle
borderline: a) lo spettro autistico, caratterizzato tipicamente dall’evita-
mento oculare – oppure da uno sguardo iperintenso, che è equivalente
a quello evitante –; b) il grave poliabuso di alcol e sostanze, con gli evi-
denti effetti sedativi; c) lo spettro post-traumatico da stress, con i sintomi
dissociativi (derealizzazione) e di ottundimento affettivo, che sostengono
uno sguardo che guarda all’infinito, come in un cronico stato crepuscola-
re. Marilyn è riuscita a ribaltare tutto questo trasformando l’impotenza e
la dipendenza in dominio, l’isolamento in seduzione: moderna Medusa,
dallo sguardo “pietrificante”, in realtà, come nella rappresentazione cara-
vaggesca, lei stessa “pietrificata“ da un trauma antico.
Con un po’ di cinismo, potremmo dire che la sessualità, con tutto ciò
che le ruota intorno, è terreno fertile per la menzogna. A ben vedere, quel
sentimento elevato, spirituale, dolce, che chiamiamo amore, che cos’è se
non la maschera dietro la quale si nasconde il ben più prosaico istinto
riproduttivo? Che cosa sono i corteggiamenti, le ritrosie, le finzioni mali-
ziose se non dei modi per dissimulare il desiderio e, al tempo stesso, per
aumentare l’eccitazione del partner, rendere più appassionato e gratifi-
cante il rapporto e aumentare in questo modo le probabilità di conserva-
zione della specie?
Ma noi non siamo cinici e non lo affermiamo! Lasciamo che sia Scho-
penhauer [170] a farlo, ad affrontare in maniera razionale il sentimento
decantato dai poeti di tutti i tempi e di cui tutti hanno gioito e sofferto,
l’amore. Egli ce ne rivela il lato oscuro, non per deprimerci, ma per libe-
rarci dalle illusioni e dagli inganni cui siamo naturalmente esposti, per
renderci consci dell’arroganza delle nostre sconsiderate e puerili pretese
alla felicità. In fondo, per quanto l’umanità evolva, la caverna divenga
un castello, i tronchi si trasformino in navi, una sola cosa permane tanto
immutabile quanto irraggiungibile e inesplicabile: l’amore.
fragili come cristalli, di amori che divampano come incendi o sono solo accettati, che
noi, ingenuamente, crediamo di poter controllare e sono, invece, parte di una trama
più vasta ordita dalla natura. L’innamorato vive nella piacevole ed egoistica illusione
che l’amore possa rappresentare il massimo grado della felicità, possa riempire le sue
giornate di dolcezza, essere un sollievo per i dolori della vita e che l’amplesso con quella
persona gli procurerà una felicità infinita, per poi accorgersi, con stupore e con un po’
di delusione, che non è proprio così; ma intanto la natura ha raggiunto il suo scopo: la
riproduzione, la perpetuazione della specie.
La natura ci ha “usato”, piacevolmente ma ci ha usato: l’eros è funzionale all’ap-
pagamento del desiderio umano, ma è soprattutto necessario alla specie nella quale,
secondo il filosofo, è la radice del nostro essere. Il desiderio sessuale costituisce l’essenza
stessa dell’uomo, in quanto mantiene attivo quel meccanismo che consente alla specie
di continuare a esistere. Per questo la forza dell’amore arriva a livelli così alti, fino a
diventare incontrollabile, un desiderio che rende pronti a qualsiasi sacrificio [...] e può
condurre alla pazzia o al suicidio. La volontà di vivere è connaturata all’essere e si
estrinseca nell’atto della generazione. E, se non bastasse, la natura ci ha programmati
per farci inconsapevolmente innamorare di qualcuno che potrebbe darci dei figli più
sani. La finalità procreativa richiede solo un’adeguata proporzione tra il grado di ‘vi-
rilità’ di lui e il grado di ‘femminilità’ di lei, ed è questa concordanza che conta, molto
di più che non la romantica armonia delle loro anime.
Per il filosofo, ognuno ama ciò che a lui manca [...] le due persone si devono neu-
tralizzare a vicenda e quindi non dobbiamo meravigliarci se tanti individui, appa-
rentemente incompatibili e con caratteristiche personologiche opposte, si attraggano
invincibilmente. La volontà della specie è così potente che l’amante chiude gli occhi su
tutte le qualità per lui ripugnanti; trascura tutto, disconosce tutto e si unisce per sempre
con l’oggetto del suo amore, tanto lo acceca quella passione, che tuttavia, appena la
volontà della specie è stata adempiuta, sparisce e lascia un’odiosa compagna di vita.
Nel racconto di Quim Monzò [133], Con el corazòn en la mano [130], una coppia, in-
namorata dell’amore, giura di eliminare dalla convivenza tutto ciò che non sia chiaro:
«Anche una sola bugia sarebbe la morte del nostro amore». Ben presto i due si sepa-
reranno nell’impossibilità di mantenere la promessa; il motivo della separazione non
Harry (Billy Cristal) e Sally (Meg Ryan), conclusa l’università a Chicago si trasferisco-
no a New York per iniziare le loro carriere lavorative. Messi in contatto da Amanda,
ragazza di lui e amica di lei, affrontano insieme un lungo viaggio in auto, nel corso del
quale, parlando del più e del meno, Harry sostiene che l’amicizia tra uomo e donna
non può esistere poiché l’uomo desidera sempre andare a letto con la donna; Sally è
di parere opposto e anzi si scandalizza quando lui le dice di trovarla molto attraente.
Arrivati a New York si separano e si rivedono casualmente cinque anni dopo al-
l’aeroporto mentre Sally sta baciando Joe, un vecchio conoscente di Harry. Viaggian-
do sullo stesso aereo, Sally confida a Harry di convivere con Joe e lui le dice che sta per
sposarsi con Helen.
Si rivedono ancora una volta casualmente dopo altri cinque anni: Harry è stato la-
sciato dalla moglie e ne soffre, Sally dal compagno ma senza particolari problemi. Van-
no a cena in una tavola calda e, parlando dei vari aspetti dell’amore, Harry sostiene di
saper riconoscere quando una donna simula l’orgasmo e di essere sicuro che nessuna
2 In una recente indagine sulla sessualità, effettuata su un campione di mille persone dal
centro statistiche RCS, è risultato che quattro italiani su 10 non si masturbano o non si sono
masturbati mai. Questo dato, in contrasto con il resto dell’indagine che documenta l’importan-
za attribuita al sesso e all’amore, lascia adito al dubbio che su questo tema gli intervistati non
siano stati del tutto sinceri. È verosimile che l’autoerotismo sia ancora un tabù, che ci siano
delle remore morali di vecchia tradizione, ma anche remore sociali in quanto, o ci si vergogna
di desiderare il piacere sessuale senza un partner, o non si vuole ammettere di non avere un
partner.
donna ha mai finto con lui. Sally gli dimostra il contrario simulandone uno proprio
lì, mentre sono seduti alla tavola calda (tanto verosimile che una signora, a un tavolo
vicino, chiede al cameriere di portare anche a lei «quello che ha servito alla signora»!).
Qualche tempo dopo Sally chiama disperata Harry perché ha saputo che Joe sta
per sposarsi mentre, finché stava con lei, sosteneva di non volersi mai sposare. Lui la
consola e finiscono a letto convenendo entrambi, il giorno dopo, di aver commesso un
errore. Si incontrano, ancora una volta casualmente, a una festa la notte di Capodan-
no, lui le confessa di amarla e tre mesi dopo parlano di matrimonio.
Con l’avvento dei social network e dei siti di incontri di ogni tipo e
per ogni gusto, la menzogna ha raggiunto la sua massima espressione:
nascosto dietro un computer, ognuno si sente libero di barare, anche se
oggi le video chat lo consentono un po’ meno, almeno sull’aspetto fisico.
Nel relazionarsi tramite la rete, l’inganno inizia già nel profilo: si calcola
che quasi il 90% degli utenti dei siti di incontri mentano, per apparire più
attraenti, sull’età, sul proprio aspetto, sugli interessi e inclinazioni.
Nonostante che la verginità di per sé abbia perso gran parte del pro-
prio valore, non possiamo non menzionarla.
Gli antichi romani conferivano alla verginità un grande valore al punto che, già allora,
si conoscevano frodi e inganni per ridare alle fanciulle che l’avevano persa l’aureola
della vergine casta, pudica e incorrotta (virgo casta, verecunda et incorrupta).
Le tecniche chirurgiche oggi sono talmente evolute che ricostruire un imene è un’o-
perazioncina da nulla (ma anche in passato, visto che si racconta di una celebre mon-
dana parigina che si vantava di aver venduto più di ottanta volte la propria verginità!),
addirittura un fai-da-te se è vero, come si legge in un vecchissimo numero di Il Cesal-
pino [190], di una giovane, che aveva avuto una relazione incestuosa per sei anni, dalla
quale era nato anche un figlio, e che per rassicurare il fidanzato della sua verginità, si
suturò con due punti l’ostio vaginale affrettandosi a concederglisi per far cessare i suoi
“offensivi” sospetti.
Il re degli dei e degli uomini era, come dice Luciano di Samosata [122], un gran femmi-
niere e, per quanto riportato nei miti e nelle leggende, ebbe relazioni con non meno di
ottanta donne fra dee, ninfe e comuni mortali, in molti casi con inganni di vario tipo,
tanto che in più occasioni lo abbiamo definito stupratore seriale.
Ma questo è solo un aspetto della vita sessuale di Zeus poiché la leggenda ci racconta
anche che, innamorato di Ganimede, trasformatosi in aquila, lo rapì e lo portò con sé
sull’Olimpo dove ne fece il coppiere degli dei e, soprattutto, il suo amante (secondo il
costume della pederastia greca); si innamorò anche di Euforione, che però lo rifiutò
fuggendo nell’isola di Melo dove lo raggiunse con un fulmine uccidendolo (e trasfor-
3 È opportuno ricordare che nella cultura greca il ruolo paterno era considerato superiore
a quello materno, anche se con diverse sfumature, tra coloro che ritenevano che la madre fosse la
“nutrice” del seme seminato in lei e che il genitore fosse colui che l’aveva fecondata, e coloro che
ammettevano un ruolo più attivo, comunque indispensabile, della madre nella riproduzione. Ari-
stotele [10] sosteneva che l’uomo avesse un ruolo creatore, per la forma e per lo spirito, mentre il
contributo della donna fosse quello della materia.
4 La sessualità fluida dovrebbe consentire di superare le limitazioni del concetto di identità
sessuale, dando la possibilità a ciascuno – compresi gli eterosessuali e i cisgender (“qualcuno a pro-
L’amore malato
Sono andato al mercato degli uccelli
E ho comprato degli uccelli
Per te
amore mio
Sono andato al mercato dei fiori
E ho comprato dei fiori
Per te
amore mio
Sono andato al mercato dei rottami
E ho comprato catene
Pesanti catene
Per te
amore mio
Poi sono andato al mercato degli schiavi
E ti ho cercata
Ma senza trovarti
amore mio
(Jaques Prévert, Per te amore mio, 2008)
prio agio con il genere che gli è stato assegnato alla nascita”) – di costruirsi un’identità propria in cui
sentirsi a proprio agio, libero di esprimere qualsiasi desiderio, pensiero, fantasia.
Nella mitologia greca, il passaggio dal matriarcato al patriarcato è segnato dal mito
di Teseo e Arianna: Teseo, eroe ateniese, si reca a Creta (ultimo baluardo della civiltà
matriarcale) per uccidere il Minotauro; lì viene aiutato da Arianna, figlia del re, che
gli dà un gomitolo di filo (il famoso filo di Arianna) da srotolare man mano che si
inoltra nel labirinto in modo da poter ritrovare la via del ritorno, una volta compiuta
la missione. Arianna, innamorata di Teseo, lo segue nella fuga da Creta ma lui, dopo
5 Gelosia deriva dal greco ζῆλος (zelos) che indica emulazione, brama, desiderio. “Stato emo-
tivo di dubbio e di tormentosa ansia di chi, con o senza giustificato motivo, teme (o constata) che la
persona amata gli sia insidiata da un rivale” (Treccani).
Apollo, fiero di aver ucciso il serpente Pitone, se ne vanta con Cupido, il dio dell’A-
more, e lo irride, non ritenendolo adatto a portare arco e frecce. Cupido, per ven-
dicarsi, colpisce Apollo con la freccia d’oro, quella che fa innamorare, e con una di
piombo, quella che fa rifuggire dall’amore, la ninfa Dafne, di cui Apollo si invaghisce.
Dafne, che aveva rinunciato all’amore per dedicarsi alla caccia al seguito di Diana,
non appena vede Apollo, fugge finché, stremata, raggiunge le rive del fiume Peneo,
suo padre, invocandolo di far dissolvere il suo corpo. Così, mentre Apollo la rag-
giunge, lei si trasforma in un albero di alloro: il dio decide allora di rendere la pianta
sempreverde e di considerarla a lui sacra adornandosene la chioma, le cetra e la fa-
retra e facendone la pianta con cui incoronare condottieri e vincitori. Ma leggiamo
i versi di Ovidio:
6 Alla fine di agosto del 2017 un “mediatore culturale” di una cooperativa sociale bolognese,
Abid Jee, ventiquattrenne crotonese, studente di giurisprudenza, ha così “commentato” su Facebook
alla fanciulla)? Giustificando con ciò l’uso della violenza per superare le
resistenze e le ritrosie delle donne, quasi si trattasse di un gioco! Ed è
sempre lui a dire:
Alla mia donna un giorno,
se lo ricordo! Scompigliai le chiome vinto dall’ira.
Quanti giorni belli, tutti d’amore, mi costò quell’ira!
Per secoli, da Medusa in poi, la violenza di genere, lo stalking, lo stupro,
ipocritamente giustificati dall’amore (omnia vincit amor!), per quanto de-
scritti nella loro tragica realtà da artisti e poeti, non sono stati compresi
nel loro potenziale psicopatogenetico, nel loro impatto sull’equilibrio psi-
chico, non sono stati analizzati “dalla parte della donna”.
Lo stalker, spesso affetto da delirio erotomanico, deficitario nelle abilità
empatiche, non riesce a decodificare, intuire, sentire, comprendere, con-
dividere pensieri, sentimenti, emozioni e vissuti della vittima e risponde-
re in modo appropriato. Incapace di instaurare una vera relazione, intra-
prende tentativi di approccio maldestri, credendo di essere ricambiato7 e,
nella propria ossessione amorosa, finisce per mettere in atto comporta-
menti persecutori.
Il recente l’episodio di Torino vede un uomo (due volte ex, perché dopo una prima
separazione di circa quindici anni prima, i due si erano ri-sposati a Cuba nel 2014 per
separarsi nuovamente poco dopo), che gestisce con la ex moglie e i figli un bar, con un
leitmotiv di litigi, violenze, sfuriate, maltrattamenti, denunce.
L’uomo, arrestato l’8 marzo, Festa della Donna, dopo aver sparato al figlio che face-
va da scudo alla madre, salvo solo perché la pistola si è inceppata, il 10 marzo viene ri-
lasciato con il divieto assoluto di avvicinare i familiari. Rimessosi immediatamente in
cerca della moglie, la trova e la picchia e il 28 marzo è di nuovo in carcere. Rilasciato il
giorno dopo torna a perseguitare la famiglia; il 26 aprile, dopo un nuovo fermo, viene
mandato agli arresti domiciliari, che poche ore dopo viola ricominciando il compor-
tamento di stalking.
Le legge, generalmente, non può fare altro che diffidare questi sogget-
ti, imporre loro di mantenere una certa distanza fisica dalla vittima, ma
come controllare che queste diffide vengano rispettate?
il duplice stupro avvenuto pochi giorni prima a Rimini: «Lo stupro? Peggio solo all’inizio, una volta si
entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale»!
7 Nel delirio erotomanico o sindrome di Clerambault, il paziente è infondatamente convinto
che una persona (nella forma classica una persona famosa o di rango più elevato) sia innamorata di
lui e che non manifesti il suo amore perché impedita da qualcosa o qualcuno. In casi estremi può
giungere anche a uccidere la persona amata e/o chi ostacolerebbe il loro amore.
Chi non ricorda il caso di Lucia Annibali, avvocato trentacinquenne, fatta sfregia-
re con l’acido da due albanesi dall’ex fidanzato, Luca Varani, anch’egli avvocato, nel
2013? Lucia aveva rotto il rapporto con lui, che aveva un’altra donna, una fidanzata
“storica”, all’epoca in attesa di un figlio; di fronte alla determinazione della ragazza,
che si era sottratta al suo dominio fisico e psicologico, l’amore (?) si trasforma in odio
distruttivo e, dopo aver fallito un tentativo di ucciderla manomettendole il gas di casa,
Varani si affida a due sicari che le gettano addosso dell’acido solforico.
Più recente è il caso di Gessica Notaro, la ventottenne riminese che il 10 gennaio
del 2017 è stata sfregiata con l’acido dall’ex compagno capoverdiano al quale, pochi
mesi prima, pur a seguito di circostanziate denunce, il GIP non aveva dato la custodia
cautelare come richiesto dal PM.
Sessualità e disabilità
Disabilità non significa inabilità.
Significa semplicemente adattabilità.
(Chris Bradford. Young samurai. 2009)
È del 2012 il film The Sessions, di Ben Lewis, che racconta la storia vera del poeta Mark
O’Brian – basata su un suo articolo On Seeing a Sex Surrogate –, tetraplegico a causa di
una poliomielite contratta da bambino, costretto a vivere in un polmone d’acciaio. A
38 anni, rendendosi conto di essere vicino alla morte e di non aver mai fatto sesso, ne
parla con il suo sacerdote e, aiutato dal personale che provvede a lui, entra in contatto
con Cheryl, un’assistente sessuale, con la quale riesce a fare sesso. Tra i due nasce un
rapporto sentimentale per cui gli incontri vengono interrotti anche per l’intervento
del marito di Cheryl il quale accetta il lavoro della moglie ma è geloso dei sentimenti
che scopre, in una lettera di Mark, essere sorti fra i due.
Barbara Garlaschelli [91], nel libro Non volevo morire vergine, raccon-
ta la propria esperienza di donna diventata tetraplegica a 15 anni dopo un
tuffo in mare: «Niente – scrive – dovrebbe restare vergine. Nessuna vita,
nessuna pagina bianca, nessun pensiero, nessun luogo» e sottolinea come,
ancora oggi, la sessualità, l’affettività dei disabili sia ancora un tabù. In re-
altà, continua, «i disabili sentono impulsi, desideri, esattamente come i non
disabili, non sono angeli né esseri asessuati né persone solo da accudire».
Animata dalla voglia di vivere (non di sopravvivere), Barbara è riuscita,
nonostante gli ostacoli, a realizzare se stessa laureandosi e pubblicando
libri «Ho capito di poter essere amata, desiderata e di poter amare. Mi sono
sentita completa, pur nelle mie mancanze: mai mi sarei immaginata che
avrei avuto un marito».
Naturalmente, se in generale la vita sessuale dei disabili è complicata,
forse più sul piano concettuale che su quello pratico, ci sono le debite ec-
cezioni: quella più affascinante riguarda un personaggio universalmente
conosciuto, il cosmologo, fisico, matematico e astrologo inglese Stephen
William Hawking, uno dei più autorevoli fisici teorici.
Nato nel 1942, nel 1963 gli fu diagnosticata una malattia degenerativa del motoneuro-
ne che, a detta dei medici, gli avrebbe lasciato due anni di vita. Continuò comunque
gli studi e si sposò con Jane Wilde, che gli fece da infermiera e dalla quale ebbe tre figli.
Dagli anni ottanta è costretto all’immobilità ed ha necessità di assistenza 24 ore su
24. Nel 1985, a seguito di una polmonite, è stato tracheotomizzato in maniera perma-
nente e parla per mezzo di un sintetizzatore vocale. Dal 2011 può scrivere mediante
un computer, grazie a un sistema di riconoscimento facciale che trasforma in parole i
movimenti minimi della bocca, della guancia destra, delle sopracciglia e i movimenti
oculari trasmessi mediante un sistema di infrarossi. Nel 2013 è stato aggiunto a questo
sistema uno scanner cerebrale (di cui al momento non ha bisogno) che dovrebbe so-
stituire l’eventuale perdita dei movimenti oculari.
Nel 1977 il matrimonio entrò in crisi perché Jane iniziò una relazione con Hellyer
Jones, che rimase a lungo platonica.
Nel 1990 Hawkings iniziò una relazione sentimentale con Elaine Mason, sua in-
fermiera personale e moglie dell’inventore del sistema di comunicazione usato dallo
scienziato, nel 1991 se ne andò di casa e nel 1995 divorziò da Jane e sposò Elaine
(«È meraviglioso. Ho sposato la donna che amo»). Nel 2004 furono aperte indagini per
una serie di indizi che facevano pensare che Hawkings fosse oggetto di maltrattamen-
ti, si pensò a una sindrome di Münchhausen per procura e furono indagate Elaine e al-
tre infermiere: lo scienziato sostenne di essere caduto accidentalmente e la cosa finì lì.
Nel 2006 divorziò da Elaine e riprese rapporti stabili con Jane e i figli.
Nel 2014 è uscito il film La teoria del tutto, di James March tratto dalla biografia
scritta dalla ex-moglie Jane, Travelling to Infinity: My Life with Stephen.
Ricordate sempre,
per quanto siate sicuri di poter vincere con facilità,
non ci sarebbe una guerra se l’altro non fosse
altrettanto convinto di poter avere la meglio.
(Winston Churchill)
– penso che, nella mia professione, siano pochi i colleghi che ritengo migliori di me, più
intelligenti, più capaci
– spesso mi capita di pensare che, in fondo, sono bello/a, attraente
– sono pochi quelli con i quali temo il confronto
– mi sembra che fra i miei colleghi ce ne siano pochi che meriterebbero una posizione
migliore della mia
– sessualmente sono molto attivo/a e bravo/a
– i miei figli sono sopra alla media rispetto ai loro coetanei come intelligenza/bellezza/
capacità atletiche/bontà/simpatia
– il mio rapporto di coppia è migliore rispetto a quello degli altri
– la mia capacità di guida è certamente migliore rispetto a quella degli altri
– se mi impegno in qualcosa riesco a portarla a termine con successo
– penso di essere più bravo/a degli altri negli affari.
fallito ma quei pochi che hanno avuto successo hanno arricchito l’umani-
tà e forse si deve a loro se la nostra specie non si è estinta.
Come abbiamo appena detto, il narcisismo è positivo, ma entro certi
limiti, altrimenti si scade nel ridicolo o, peggio, nel tragico. In molti, ad
esempio, abbiamo riso davanti alle esibizioni grottesche, talora pietose, di
dilettanti senza talento a caccia di notorietà, “allo sbaraglio” in trasmis-
sioni televisive che, nonostante questo, e grazie al pubblico che ne rideva,
hanno avuto successo, così come ci è capitato di vedere persone convinte
di avere capacità imprenditoriali, dilapidare grandi fortune in imprese
improbabili.
e solida che reggerà fino alla vecchiaia senza gravi problemi. Il destino
dell’autoinganno ottimistico può essere presente anche nel breve e medio
periodo quando riteniamo di essere capaci di metterci a dieta o di fare
attività sportiva, di smettere di fumare o di bere o, ancora, di metterci in
pari con il lavoro: il nostro comportamento passato (sovrappeso, alcol,
fumo, scarsa applicazione al lavoro e quant’altro) ha scarso, o nullo, peso
sulla previsione del comportamento futuro.
Un altro autoinganno positivo comune è quello del controllo, la con-
vinzione, cioè, di poter influire con la nostra abilità su cose che, in realtà,
sono totalmente fuori da tale possibilità. È una tendenza comune, infatti,
quella di ritenere che le nostre decisioni siano fondamentali nel plasmare
la realtà.
Nel corso di uno stage per trader di una banca, i soggetti furono messi di fronte a com-
puter sui cui schermi una linea simulava l’andamento dei titoli azionari. Fu detto loro
che premendo una serie di tasti, avrebbero influenzato l’andamento dei titoli azionari
come mostrato nella linea: gli stagisti premettero i tasti e furono tutti soddisfatti per
aver spostato verso l’alto la linea, cioè il valore dei titoli... ma quei tasti non erano
collegati al computer!
Per contro, quando le cose non vanno bene, siamo pronti a scarica-
re le nostre responsabilità sugli altri o sulle circostanze – se finiamo con
la macchina contro un muro, è il muro che «d’improvviso ci si è parato
davanti!».
L’autoinganno, entro certi limiti, non è necessariamente un elemento
negativo perché, se non fossimo in grado di autoingannarci circa la ca-
pacità di controllare il nostro destino, avremmo come alternative un’in-
sicurezza paralizzante o rituali ossessivo-compulsivi di rassicurazione.
Dobbiamo riconoscere che l’autoinganno ha avuto certamente un ruolo
positivo nella sopravvivenza dell’individuo e della specie: come avrebbe
potuto l’uomo sopravvivere in un ambiente ostile come quello primor-
diale senza una buona dose di autoinganno? Senza le illusioni positive sa-
remmo più tristi, meno dinamici, meno pronti ad accettare le sfide: sono
loro il carburante che alimenta la creatività, le motivazioni, le aspirazioni
più alte [176].
Abbiamo detto che la maggior parte delle persone tende a esercitare
un certo grado di autoinganno, a creare illusioni positive e questo, tutto
sommato, ha in generale un valore positivo poiché rappresenta una buona
base per affrontare gli eventi della vita con una discreta probabilità di suc-
cesso. Ad esempio, da studi condotti sul rendimento degli atleti è emerso
che, a parità di condizioni fisiche e atletiche, coloro che riuscivano ad
autoconvincersi di essere bravi avevano maggiori probabilità di vincere:
Un personaggio cui non mancava certamente una forte autostima è Dante che, a detta
del Boccaccio, era piuttosto superbo e aveva un’alta opinione di sé, come testimonia
l’episodio che egli stesso riferisce: si doveva nominare il capo di una delegazione di-
plomatica da inviare a Roma per trattare cose importanti con il papa; all’unanimità
fu scelto Dante il quale accolse la notizia con non poca perplessità dicendo agli amici
«S’io vo’, chi resta? E s’io resto, chi va?» a dire che riteneva di essere, a Firenze, il per-
sonaggio di maggior valore.
1 A volte, però, capita il contrario, si circondano di nullità per avere il dominio assoluto.
Depressione e Mania
Le sorgenti dell’umore sono straordinariamente oscure
e talvolta rimango sbalordito davanti a ciò che scopro
scaturire da esse, davanti alle idee e agli atteggiamenti
che si presentano, già del tutto formati, agli occhi della mente.
(Patrick O’Brian, Il porto del tradimento, 1983)
2 Dal punto di vista clinico, è verosimile che questi soggetti soffrano piuttosto di distimia
(o, secondo il DSM-5, di disturbo depressivo persistente), una forma depressiva a esordio precoce e
decorso protratto.
Esiste anche un disturbo bipolare II nel quale la fase espansiva non raggiunge i pic-
chi della mania ma si ferma alle più moderate elevazioni dell’umore, dell’energia e
dell’attività dell’ipomania (che, naturalmente, si alternerà nel suo decorso con episo-
di depressivi). L’ipomania può talora non essere svantaggiosa in senso stretto, le ca-
pacità di critica e di giudizio possono non essere compromesse e, per alcuni soggetti,
è una fase decisamente positiva, ricca di idee e di iniziative non necessariamente
irragionevoli.
Possiamo citare, a titolo di esempio, un paziente, Sergio, che è entrato in contatto
con noi nel corso di un marcato episodio depressivo all’età di circa cinquant’anni. La
sua storia era caratterizzata da fasi ipomaniacali, durante le quali aveva avviato impre-
se commerciali, aziende e quant’altro che anticipavano il trend del settore ed avevano
successo. Il problema era che ne era lui a capo e regolarmente accadeva che, quando
sopravveniva la fase depressiva, non c’era nessuno che potesse sostituirlo nella gestio-
ne dell’impresa e perciò o questa andava rapidamente in rovina o, nel migliore dei
casi, la svendeva per liberarsene.
Prototipo dei soggetti con elevati tassi temperamentali di ricerca del nuovo (novelty
seeking) può essere considerato Ulisse: nella tradizione latina (Virgilio, Ovidio, Ora-
zio, Cicerone e altri), l’ansia di ricerca spinta ai suoi limiti era considerata la caratte-
ristica positiva dell’eroe omerico il quale, dopo il ritorno a Itaca, spinto dalla sete di
1 Abbiamo premesso (Cap. VII) che “il rapporto tra malattia mentale e menzogna è certa-
mente molto più complesso di quanto non lo sia in altri aspetti della vita” e abbiamo anche ribadito
che la definizione generalmente accettata di menzogna – Affermazione contraria a ciò che è o si
crede corrispondente a verità, pronunciata o propalata con l’intenzione esplicita di ingannare [125]
– mal si attaglia alla maggior parte dei disturbi psichici. In realtà, abbiamo visto (Cap. IV) che, il
vasto e articolato mondo della menzogna, accoglie numerose “non verità” che pur non rispondendo
pienamente ai criteri canonici, fanno parte anch’esse di quel mondo e si attagliano perfettamente
all’ambito della psicopatologia.
conoscenza, aveva ripreso il mare ed era giunto al limite del mondo conosciuto, le
colonne d’Ercole. Dante (canto XXVI dell’Inferno) ce lo descrive a questo punto del
suo viaggio mentre cerca di motivare i propri compagni ad andare avanti, a spingersi
oltre i limiti, per scoprire “cosa c’è di là”:
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”
Paradossalmente, Dante lo mette nell’Inferno per aver ignorato i limiti posti alla
natura umana.
2 Il soggetto si sente in uno stato di continuo pericolo e questo provoca una perdita di con-
tatto con la realtà.
I possibili stimoli fobici sono moltissimi e per molti di essi è stato anche coniato un
nome specifico, generalmente derivato dal greco e spesso così complicato o astruso
da essere incomprensibile: vi dice qualcosa la parola hexakosioihexekontahaxafobia?4.
Forse la fobia degli animali – da quelli molto piccoli come ragni e insetti in genere,
topi, lucertole, a quelli più grandi, quali serpenti, gatti e cani – è fra le più frequenti,
ma non rara è quella degli ambienti chiusi – ascensori, aerei, gallerie e ponti e altro
ancora – o elevati o aperti; a queste fobie possiamo aggiungere quella del sangue, delle
iniezioni, delle malattie, degli agenti atmosferici – soprattutto lampi e tuoni – e tante
altre ancora.
Molte di queste fobie specifiche si trovano anche nel contesto del disturbo ossessivo-
compulsivo (DOC), con la differenza che, nel fobico l’ansia si attiva in presenza dello
stimolo o nella previsione di doverne venire in contatto, mentre nel DOC è legata
bico non ha paura degli altri ma del giudizio degli altri, come se lui fosse
al centro dell’attenzione. Più che per altri disturbi, è del tutto ragionevole
ipotizzare che il socialfobico abbia vissuto nell’infanzia situazioni (anche
solo soggettivamente) di emarginazione, incuria, bullismo, violenza, abu-
si. Naturalmente la paura del giudizio negativo è, in generale, ampiamen-
te sproporzionata e, né le persone né le circostanze, meriterebbero una
tale considerazione; questo non impedisce al socialfobico di vivere con
grande angoscia e terrore ogni occasione di esposizione sociale, anche
marginale (come mangiare in pubblico, fare un acquisto in un negozio), e
di logorarsi nell’ansia anticipatoria in previsione di una situazione socia-
le. A nulla valgono le rassicurazioni, l’unica via d’uscita nelle forme gravi
è l’evitamento, un crescente doloroso isolamento speso nel rimuginare
sull’ennesima occasione persa, su una vita non vissuta. Naturalmente
esistono strategie di compenso che possono risultare abbastanza efficaci,
soprattutto se messe in atto a partire dall’infanzia. Fra queste, paradossal-
mente (almeno in apparenza), si collocano le manifestazioni istrioniche e
teatrali, le imitazioni e la recitazione che fanno da substrato alla carriera
professionale di molti attori.
Il primo esempio che ci viene in mente è quello di Marilyn Monroe la cui immagine
pubblica, la maschera, che l’ha resa famosa, amata, immortale, era solo una facciata –
che le costava ore di sedute davanti allo specchio per raggiungere la perfezione estetica
–, dietro la quale c’era un’enorme insicurezza, la fobia per le performances pubbliche
che la paralizzava proprio là dove si era costruita la sua fama: il palcoscenico, il set,
la troupe, le occasioni in cui era sottoposta al giudizio, alla critica. Lei stessa racconta
che, anche quando aveva ben preparato una parte, appena entrava in scena, perdeva la
concentrazione e non ricordava più nulla (arrivando ad affermare «la concentrazione
è l’unica barriera tra l’attore e il suicidio»). Sul set doveva avere sempre accanto la
propria insegnate di recitazione che, nei primi piani, le teneva addirittura la mano. In
apparente contrasto con questo, Marilyn aveva atteggiamenti controfobici di estrema
sfrontatezza: non mostrava infatti nessun pudore a girare nuda per casa o a posare
nuda davanti ai fotografi [68].
7 Damocle, principe siciliano, era ospite di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa (IV sec.
a.C.) e non perdeva occasione per ricordare al padrone di casa quanto fosse fortunato ad avere tanta
autorità e prestigio. Dionigi lo invitò a prendere il suo posto per un giorno per rendersi conto di
quanto fosse fortunato: organizzò un banchetto ricco di cibi squisiti e fece sedere Damocle al suo
posto. Solo alla fine del banchetto Damocle, alzando la testa, si accorse che sul suo capo pendeva
una spada sorretta da un crine di cavallo che avrebbe potuto cadergli in capo in ogni momento:
impaurito chiese a Dionigi di lasciarlo tornare a fare il semplice cortigiano.
un momento all’altro, da solo, in mezzo ai campi. La fase acuta passò e pian piano si
riprese tanto da riuscire a tornare a casa spingendo la bicicletta con cui si era recato sul
posto. La moglie lo accompagnò dal medico curante, che non riscontrò alcuna anoma-
lia ma che, per scrupolo, gli fece fare una serie di controlli risultati tutti quanti negativi.
Rientrato al lavoro, quando si trattò di andare nuovamente a fare un sopralluogo in
una zona isolata, al solo pensiero, presentò un attacco di panico per cui dovette rifiu-
tare; parlò del suo problema al dirigente del servizio il quale decise di affidargli solo
lavoro d’ufficio. Questo non fu sufficiente a rassicurarlo e, dopo un po’, incominciò
a pensare di non essere al sicuro nel fare da solo il viaggio di andata e ritorno da casa
all’ufficio e chiese alla moglie di accompagnarlo. Dopo qualche tempo incominciò a
non sentirsi sicuro anche in ufficio, non perché temesse il ripresentarsi di attacchi di
panico (peraltro ormai abbastanza rari) e che ormai sapeva bene, avendo consultato
diversi specialisti, trattarsi di un disturbo psichico che, di per sé, non aveva conseguen-
ze pericolose. In realtà temeva che, se gli fosse venuto un attacco di panico, i colleghi
avrebbero potuto chiamare l’ambulanza che lo avrebbe accompagnato al Pronto Soc-
corso dove c’era il rischio – questa ora era diventata la sua fobia – che i medici, non
rendendosi conto che la sua era una malattia psichica, avrebbero potuto praticargli te-
rapie inappropriate che, quelle sì, avrebbero potuto danneggiarlo. Convinto di questo,
pretese che la moglie non solo lo accompagnasse ma rimanesse anche fuori dall’ufficio
in modo che, in caso di crisi, lei potesse intervenire evitandogli questo rischio.
Abitava in un paese abbastanza piccolo ed era abituato a frequentare, nel tempo libe-
ro, un bar che distava poche centinaia di metri da casa sua: a un certo punto incominciò
a pensare che, nel tragitto, avrebbe potuto sentirsi male e qualcuno avrebbe potuto chia-
mare l’ambulanza con tutte le conseguenze che lui temeva, e così rinunciò anche al bar.
Quando giunse alla nostra osservazione, era ormai ridotto a vivere nell’ufficio con
la moglie “di guardia” fuori dalla porta e in casa. Con un’adeguata terapia, il disturbo
si risolse completamente e stabilmente in tempi ragionevolmente brevi.
8 Se riflettiamo sullo sviluppo e il decorso del disturbo di panico, non possiamo non renderci
conto che il “motore” di tutto il processo è la ruminazione continua, praticamente inarrestabile, sul-
le esperienze negative sperimentate in occasione dell’attacco di panico che, ingigantite, mantengo-
no elevato l’arousal innescando l’anticipazione ansiosa del possibile ripetersi dell’attacco: pronto a
scattare al minimo segnale, il paziente vive in uno stato di allarme ipocondriaco cronico, abbattuto
dal “fuoco amico” dei suoi stessi pensieri!
9 Strettamente correlata al disturbo di panico, ma non simbioticamente legata ad esso, è
l’agorafobia, cioè l’ansia di dovere affrontare o trovarsi in situazioni da cui può essere difficile fug-
gire, o ricevere soccorsi in caso di panico o di sintomi imbarazzanti (ad esempio, svenire, perdere
il controllo degli sfinteri ecc.). Gli ambienti e le situazioni possono essere diversi, da spazi aperti a
spazi chiusi, da veicoli in movimento a ponti o gallerie, a fare la fila, a essere da soli o fra la folla.
Molti uomini politici ricorrono a maghi o a cartomanti per “sapere” in anticipo l’esito
delle proprie decisioni politiche: abbiamo accennato ai consoli e ai condottieri romani
che facevano ricorso (come già gli etruschi prima di loro) agli arùspici e agli àuguri i
quali “prevedevano” il futuro attraverso l’esame delle viscere degli animali e, rispetti-
vamente, il volo degli uccelli; in epoche più recenti, possiamo citare Napoleone, che
consultava una famosa indovina, Marie Anne Lenormand; l’arciduca Francesco Fer-
dinando d’Asburgo cui Madame de Thèbes, che consultava regolarmente, predisse
che sarebbe morto in un attentato al quale sarebbe seguita una guerra mondiale. Molti
gerarchi nazisti, il presidente argentino Juan Peron, il presidente americano Ronald
Reagan tenevano in grande considerazione astrologia e occultismo; anche il segretario
generale del PCUS, Leonid Breznev, consultava regolarmente una sensitiva. Donald
Trump ha l’abitudine scaramantica di gettarsi alle spalle un pizzico di sale alla fine del
pasto. I cinesi fecero iniziare le olimpiadi di Pechino l’8/8/2008 alle 8 di sera perché l’8
è per loro un numero fortunato.
10 Le fate (da fata, plurale di fatum) erano le esecutrici delle decisioni degli dei.
Non è eccezionale che il DOC insorga nel post-partum e che il tema del disturbo sia
la possibilità di fare, direttamente o indirettamente, del male al figlio. È il caso di una
paziente, Elvira, giunta all’osservazione a cinquantacinque anni, per un DOC esordito
a circa trent’anni, dopo la nascita del figlio. Premesso che la signora era sempre sta-
ta donna molto precisa e scrupolosa, dopo la nascita del figlio aveva incominciato a
preoccuparsi che, nel riporre negli armadi e nei cassetti la biancheria lavata e stirata,
potesse esserci rimasto inavvertitamente impigliato un ago o uno spillo che avrebbe
potuto ferire il figlio. All’inizio era capace di non soffermarsi su questo pensiero, con-
siderandolo assurdo, ma successivamente, un po’ alla volta, incominciò a non poter
fare a meno di controllare, prima gli ultimi capi stirati, in seguito tutto il cassetto dove
li aveva risposti, per ripetere la verifica subito dopo. Il passo successivo fu il controllo
dei cassetti vicini e, alla fine, fu imperativo tirare fuori tutta la biancheria dall’armadio
e controllarla pezzo per pezzo dedicando gran parte della giornata a questi rituali: «Io
lo so che non può essere vero, sto molto attenta agli aghi e alle spille, ma non riesco a
mandare via il dubbio che qualcuna possa esserci rimasta e devo controllare tutto altri-
menti entro in uno stato d’ansia terribile, non dormo e sono agitata».
11 I due termini che definiscono questo disturbo ne racchiudono anche l’essenza. Il termine
“ossessione”, deriva dal latino obsidere, cioè assediare, e i pensieri ossessivi, di fatto, stringono d’as-
sedio la mente del soggetto, incapace di – e impotente a – rompere quell’assedio che lascia sempre
meno spazio ai pensieri razionali, utili. Anche il termine “compulsione” deriva dal latino, compel-
lere, cioè spingere, obbligare, e infatti il soggetto non può fare a meno di mettere in atto ripetitiva-
mente quell’attività che dovrebbe neutralizzare il flusso – o, meglio, il vortice – dei suoi contenuti
mentali. Un altro termine per definire questo disturbo è “anacasmo” (dal greco ἀναγκασμός, co-
strizione, necessità), cioè obbligo a pensare/fare indipendentemente dalla presenza di uno stimolo
specifico e a mettere in atto meccanismi di (pseudo)difesa.
12 Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa Cattolica, all’inizio della Messa pone il Confiteor
(o preghiera penitenziale) che recita: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto pec-
cato in pensieri, parole, opere e omissioni, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa».
13 Non è infrequente che certi rituali di pulizia siano circoscritti e limitati; a titolo di esempio
(ma ne potremmo fare molti) ci sono soggetti che puliscono minuziosamente la casa o che si lavano
ripetitivamente le mani, con saponi e detersivi, fino a provocarsi lesioni dermatologiche, ma hanno
poca cura e igiene del proprio corpo in toto.
surdità dei suoi pensieri e dei suoi comportamenti, li critica ma non può
uscire dall’assedio delle ossessioni né resistere alla coercizione delle com-
pulsioni: così come il disturbo di panico induce il paziente, attraverso
la minaccia dei possibili attacchi di panico e le conseguenti condotte di
evitamento, a vivere una vita sempre più impoverita, privata di ogni mo-
tivo di gioia e di soddisfazione, analogamente il DOC diventa il padrone
della vita del soggetto non solo obbligandolo a un’assurda ripetitività ma
anche, al di fuori di quella, a evitare tutte le occasioni che potrebbero ri-
attivare la drammatica spirale dei rituali OC.
In alcuni casi, come ad esempio quello che riportiamo qui, il soggetto può perdere
l’insight, la coscienza di malattia, e le sue idee ossessive finiscono per diventare con-
vinzioni deliranti inaccessibili a qualsiasi tentativo di critica, di razionalizzazione.
Rita, 35 anni, nubile, introversa e timida, si recava, un giorno, a far visita alla tomba
del padre nel cimitero del paese, un cimitero di campagna raggiungibile attraverso
straduzze sterrate delimitate da erba. Essendosi dovuta spostare di lato per il passaggio
di un mezzo agricolo, aveva calpestato l’erba, alta abbastanza da sfiorarle il soprabito.
Qualche passo più avanti, vide sul margine della strada un grosso topo morto. Imme-
diatamente pensò che, se il topo era morto, verosimilmente era stato sparso del veleno
per topi e perciò, quando aveva camminato sull’erba, poteva essere entrata in contatto
con quel veleno con le scarpe e con il soprabito.
Tornata a casa, si spogliò completamente per lavarsi e si cambiò; nel frattempo sua
madre aveva messo in lavatrice, assieme ad altri capi, quelli che si era tolti; la paziente
volle gettare nella spazzatura le scarpe e i vestiti (e tutto ciò che era assieme a loro nella
lavatrice) temendo che, nonostante il lavaggio, potesse esservi rimasta qualche traccia
del presunto veleno. Dovette pulire e disinfettare il pavimento su cui era passata al
momento del ritorno a casa. In breve, attraverso passaggi – sempre più illogici – tutta
la casa sarebbe stata contaminata e così anche i vestiti, la biancheria e quant’altro, e si
convinse che, ogni volta che usciva, disseminava il veleno ovunque e doveva tenere
tutti a debita distanza per evitare di contaminarli; non riuscendo sempre nell’intento,
finiva per aumentare il numero dei possibili contaminati andando così incontro a un
crescendo di angoscia, di sentimenti di colpa tali che si era praticamente chiusa in casa.
sapemmo dopo) si era fatta prestare da un’altra paziente (lei che fino a pochi giorni
prima era inavvicinabile!) una camicia da notte molto elegante e sexy perché aveva
intenzione di passare quelle ore in intimità con il marito in un albergo della zona.
In una ricerca condotta in oltre 2.000 sopravvissuti che abbiamo intervistato dopo 10
mesi dal drammatico terremoto che colpì L’Aquila nell’aprile 2009, abbiamo rilevato
tassi di PTSD attorno al 37.5%, con un ulteriore 30% di forme parziali, altrettanto inva-
lidanti. I dati hanno confermato una maggiore vulnerabilità delle donne, in particolare
giovani, con tassi circa doppi rispetto agli uomini, forse per la maggiore predisposizio-
ne all’ansia. Poi ci sono i soggetti con un’esposizione maggiore (vicinanza all’epicentro,
14 Accenneremo qui a eventi traumatici estremi, che hanno coinvolto intere popolazioni,
come lo tsunami in Thailandia del 2004 e in Giappone del 2011, il terremoto di L’Aquila del 2006 e
quello di Haiti del 2010 o comunque un numero notevole di persone come nell’attentato alle Twin
Towers del 2001. Non prenderemo in esame gli eventi traumatici estremi che hanno coinvolto
soggetti singoli o in numero limitato, come nel caso di incidenti stradali anche mortali, di stupro,
di gravi e/o ripetute violenze fisiche. In tutti i soggetti, ferme restando le caratteristiche personali e
quelle relative alle modalità attraverso cui la vittima ne fa esperienza, il quadro clinico del PTSD è,
nelle grandi linee, abbastanza omogeneo.
esposizione ripetuta o prolungata): anche in questo caso donne e bambini sono i più
vulnerabili. Gli studi hanno confermato gli effetti comportamentali a lungo termine
del PTSD, in particolare negli uomini: guida spericolata, assunzione di alcol e sostanze,
comportamenti autolesionistici, tentativi di suicidio15.
15 Dell’Osso L. et al.: Age, gender and epicenter proximity effects on post-traumatic stress
anzi del tutto normale; sono così abili nel mentire, da riuscire a trarre in
inganno anche il più attento e smaliziato interlocutore. Il bugiardo pato-
logico, in sintesi, è un attore nato il cui ruolo preferito è quello di perso-
na buona, sincera, generosa, altruista, amica: un’accattivante maschera e,
dunque, con cui riesce a manipolare gli altri e a raggiungere i propri scopi.
Se scoperto, può, in alcuni casi, arrivare ad ammettere di aver raccontato
qualche bugia ma sostenendo convincentemente di averlo fatto per pro-
teggersi, per autodifesa, o comunque a fin di bene.
La dimensione narcisistica abbraccia un universo eterogeneo, che
spazia da forme gravi ad altre addirittura clownesche, che hanno come
caratteristiche condivise la richiesta di attenzione, il porsi al centro della
scena, l’essere amplificativi e imprevedibili, tipiche di alcuni disturbi di
personalità1.
Nelle forme più gravi, si tratta di soggetti che usano senza scrupoli la
menzogna strumentalizzando gli altri ai fini dell’autoaffermazione, incu-
ranti delle conseguenze a cui li espongono: l’espressione tipica di questa
condizione è il disturbo narcisistico di personalità.
Una forma abbastanza vicina a questo è la pseudologia fantastica che,
pur vivendo anch’essa di menzogne, è quasi esclusivamente orientata a
dare un’immagine molto (troppo) positiva di sé senza utilizzare/sfruttare
gli altri (almeno non direttamente).
Ai confini della pseudologia (e spesso assimilata ad essa) vi è la mi-
tomania, cioè la tendenza a stravolgere fantasticamente i fatti, in modo
consapevole o inconsapevole, o a raccontare, come fossero veri, eventi
immaginari: il rischio per i mitomani è perdere il giudizio di realtà e finire
nel delirio di grandezza.
L’aspetto ridicolo, buffonesco, della dimensione narcisistica è la mil-
lanteria, cioè assumere in pubblico atteggiamenti boriosi e vanagloriosi
facendo ricorso a menzogne iperboliche o a clamorose esagerazioni, o
attribuendosi qualità o titoli non propri.
Infine, meritano di essere menzionati i bugiardi compulsivi, cioè gli indi-
vidui che mentono in maniera praticamente automatica, generalmente sen-
za che ci sia un reale motivo per mentire né fini particolari da raggiungere.
Prima di addentrarci nella descrizione delle diverse tipologie sopra
elencate, è necessario premettere che, tra loro, i confini sono tutt’altro
che netti e nella pratica non è infrequente trovare forme intermedie. Qui
descriveremo gli aspetti prototipici delle varie tipologie.
1 Il DSM-5 colloca queste forme nei disturbi di personalità del gruppo B, che comprende
Disturbo narcisistico
Aveva espresso un pazzo desiderio:
che potesse lui rimanere giovane,
e il ritratto invecchiare,
la sua bellezza rimanere intatta
e il viso dipinto sulla tela portare il peso
delle sue passioni e dei suoi peccati.
Pareva mostruoso persino pensarlo.
(Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, 1890)
Figlio della ninfa Liriope, violentata dal dio fluviale Cèfiso, Narciso era un giovane di
straordinaria bellezza; l’indovino Tiresia aveva predetto alla madre che avrebbe rag-
giunto la vecchiaia solo «se non avesse mai conosciuto se stesso». La sua bellezza susci-
tava passioni nei mortali e negli dei, maschi e femmine, passioni alle quali lui resisteva
fino a farli desistere per incapacità di amare. Solo il giovane Aminia non si dava per
vinto e, alla fine, Narciso gli dette una spada affinché mettesse fine al suo dolore ucci-
dendosi: lui lo fece ma non prima di aver chiesto agli dei una giusta vendetta. Nemesi,
la dea della vendetta, fece in modo che Narciso si specchiasse in una fonte limpida e si
2 Nella nostra società, in cui si esaltano gli aspetti narcisistici, quali l’individualismo, la supre-
mazia, il potere, la vittoria, i successi, può essere difficile tracciare un confine netto tra il narcisismo
normale e quello patologico: il discrimine può essere individuato nelle relazioni interpersonali, che
sono carenti e di scarsa qualità nel narcisista patologico che è, per definizione, “incapace di amare”.
innamorasse perdutamente di se stesso. Malato d’amore per sé, cercò invano di affer-
rare la propria immagine, annegando nella fonte. Secondo un’altra versione, pentito
per ciò che aveva fatto ad Aminia, prese la spada e si uccise e dal suo sangue nacque il
fiore cui fu dato il suo nome.
Nella versione di Ovidio [142], la ninfa Eco – punita da Giunone per aver coperto
i tradimenti di Giove, con la condanna a ripetere solo le ultime parole di ciò che le
veniva detto –, si innamorò di Narciso e gli si buttò fra le braccia; lui la cacciò in
malo modo e lei fuggì vagando per valli solitarie, lamentandosi per il suo amore non
corrisposto e struggendosi fino a rimanere solo voce. Nemesi, udendo questi lamenti,
decise di punire Narciso: fece sì che, fermatosi a bere a una profonda pozza d’acqua
cristallina, vedesse per la prima volta la propria immagine riflessa e se ne innamoras-
se follemente: accortosi di essere innamorato della propria immagine, capì che non
avrebbe mai potuto realizzare quell’amore e si lasciò morire: quando le ninfe andaro-
no a prendere il suo corpo per collocarlo sulla pira funebre, trovarono al suo posto un
fiore al quale dettero il nome di narciso.
Gli autori [87] che hanno approfondito questo tema distinguono due tipi di narcisi-
smo, rispettivamente inconsapevole (“overt”) e ipervigile o timido (“covert”), conside-
rati gli estremi di un continuum che avrebbe come fine, seppure con modalità opposte,
la ricerca dell’autostima.
Il narcisista inconsapevole è certamente quello che, nell’immaginario comune,
rappresenta il narcisista tipico: un individuo “speciale” che non può non essere no-
tato, sicuro di sé, protagonista, centro dell’attenzione, sempre perfettamente curato,
esibizionista, seduttivo, affabulatore, invadente, intrigante, manipolativo, competi-
tivo, in cerca d’immediati riconoscimenti e gratificazioni, privilegi e considerazione
particolari. Ha numerose relazioni ma tutte superficiali: tutti meri figuranti della
corte di cui si circonda – che gli servono per alimentare la propria autostima e i pro-
pri sentimenti di superiorità –, ma nei confronti dei quali non prova empatia, non
li considera individui ma solo meri specchi deputati a rimandargli un’immagine di
sé grandiosa, onnipotente. Una volta raggiunto l’obiettivo del momento, ben presto
si rende conto che non soddisfa le sue aspettative, non lo fa sentire unico, magari lo
espone a invidie, insidie, critiche. Davanti a questa consapevolezza di fallimento il
narcisista diventa distruttivo. Si lancia quindi in nuove conquiste, in nuove avventu-
3 Raramente quella di disturbo narcisistico di personalità è una diagnosi isolata, non è infre-
quente incontrare soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per due o più disturbi di personalità
del gruppo B e, in tal caso, devono essere tutti diagnosticati.
Si tratta di casi che hanno tragicamente segnato la cronaca italiana negli ultimi qua-
rant’anni, di cui si sono resi protagonisti generalmente soggetti adolescenti o giovani
adulti. Oltre alla notevole risonanza mediatica, un dato colpisce subito: la loro fre-
quenza è andata aumentando negli anni e questo potrebbe essere messo in relazione
con la maggiore diffusione dei mezzi di informazione, con spettacolarizzazione degli
eventi4 e con l’uso crescente di sostanze stupefacenti e alcol.
Per quel che riguarda i moventi che hanno indotto all’azione delittuosa, pur non
disponendo di informazioni specifiche e dettagliate, la loro banalità o inconsistenza,
unitamente alla mancanza di profonde e sentite reazioni emotive nei confronti dei
delitti compiuti, sono elementi fortemente suggestivi di narcisismo maligno.
1975 – Vercelli, Doretta Graneris, diciottenne, e il fidanzato Guido Badini, uccidono a
colpi di pistola tutti i familiari, nonni, genitori e fratello, cinque persone, perché
«erano di idee troppo ristrette».
1989 – Parma, Ferdinando Carretta, venticinquenne, uccide i genitori e il fratello a col-
pi di pistola. Per circa dieci anni è riuscito a tenere nascosta la strage. Confessa in
televisione il suo delitto: «Ho impugnato quell’arma da fuoco e ho sparato ai miei
genitori e a mio fratello». I corpi e la pistola non sono mai stati trovati.
1991 – Verona, Pietro Maso, diciannovenne, aiutato da tre amici (Paolo Cavazza, 18
anni, Giorgio Carbognin, 18, e Damiano Burato, 17) uccide a bastonate i genitori;
dopo la strage i quattro vanno in discoteca. Diranno che volevano darsi alla bella
vita con i soldi dell’eredità dei Maso. Rimesso in libertà nel 2013, nel 2016 è stato
iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di tentata estorsione; nello stesso
anno è stato ricoverato in una clinica psichiatrica per turbe mentali e dipendenza
da cocaina.
1994 – Verona, Nadia Frigerio, 33 anni, aiutata dal fidanzato/protettore, uccide la ma-
dre strangolandola dopo averle somministrato un sonnifero, per avere a dispo-
sizione la casa.
1995 – Sestri Levante, Carlo Nicolini, ventiseienne, uccide i genitori e ne dilania i corpi
estraendo con le mani le viscere. Sembra che la furia omicida fosse stata scatena-
ta da una pietanza che non aveva gradito. Era un soggetto solitario, preferiva la
compagnia degli animali che accudiva in campagna.
2001 – Padova, Paolo Pasimeni, 23 anni, uccide a pugni il padre reo di aver scoperto
che aveva falsificato il verbale di alcuni esami.
2005 – Brescia, Guglielmo Gatti, quarantunenne, uccide gli zii che abitavano al piano
di sotto, ne smembra i cadaveri e li butta da un dirupo. Orfano di madre, due
mesi prima del delitto aveva perso il padre. Gli zii erano una coppia felice e piena
di vita. Lui era studente d’ingegneria fuori corso, taciturno, appassionato di com-
puter e studiava il giapponese. In carcere si è dedicato allo studio di matematica,
fisica, filosofia e storia.
2008 – Mentana, Valerio Ullasci, trentenne, massacra i genitori a colpi di machete;
lavorava come cameriere nel loro ristorante.
2010 – Verona, Piergiorgio Zorzi, ventenne, accoltella il padre poi lo disseziona e lo
4 Basti pensare alla spettacolarizzazione che di questi episodi viene fatta in numerosi pro-
grammi televisivi, fra i quali, in particolare “Porta a porta” e “Chi l’ha visto?”
getta nel bidone della spazzatura sotto il palazzo. In famiglia c’era una grande
conflittualità. Non ha mai mostrato alcun segno di pentimento.
2011 – Novi Ligure, Erika De Nardo, sedicenne, e il fidanzatino Omar Favaro, dicias-
settenne, uccidono la madre e il fratello undicenne di lei, con 96 coltellate e avreb-
bero ucciso anche il padre se Omar, stanco, non se ne fosse andato. In carcere,
a Erika, che si è laureata in Filosofia, non è mai mancata la vicinanza del padre.
2016 – Cagliari, Igor Diana, ventottenne, uccide a bastonate i genitori adottivi. Durante
l’inchiesta sono emersi un rapporto conflittuale con i genitori, la mancanza di la-
voro, la richiesta continua di soldi e problemi psicologici con tentativi di suicidio.
«Non so cosa mi sia preso, li ho uccisi, non ricordo nulla di quello che è accaduto».
Si è suicidato in carcere.
2016 – Ancona, Antonio Tagliata, diciannovenne, uccide a colpi di pistola i genitori
della fidanzata, sedicenne, su istigazione di lei: non volevano che si frequentassero.
2017 – Ferrara, Riccardo Vincelli, 16 anni fa uccidere i genitori dall’amico Manuel
Sartori, 17 anni, dandogli 85 euro e promettendogliene 1.000 dopo l’omicidio. I
giornali hanno riportato scarso rendimento scolastico, conflitti familiari («Odio
mia madre» aveva detto a un amico). Dopo il delitto (al quale non ha voluto assi-
stere), smascherato, ha dichiarato: «Ho fatto una cazzata. Ma non volevo».
Circa l’identikit della vittima, è evidente che il narcisista tende a frequentare perso-
ne che può dominare e manipolare; le sceglierà, perciò, deboli, ingenue, fragili e con
scarsa autostima, con cui instaura rapidamente una relazione di dipendenza5. Queste,
non sospettando la malvagità del partner (omnia munda mundis), sono pronte a col-
pevolizzarsi, a sentirsi responsabili, accettando le critiche e impegnandosi a cercare
delle impossibili giustificazioni. Bisognoso di essere amato e ammirato, il narcisista
ricerca figure materne devote, piene di energia, che siano a sua totale disposizione. È
un predatore [101].
Non dice mai ciò che pensa, allude, in modo da aver sempre la pos-
sibilità di dire che è stato frainteso; manda messaggi ambigui; fa accuse
velate, subdole, ripetute; la sua comunicazione è fatta di false verità; il suo
gioco è far sì che la vittima appaia come colpevole e, in caso estremo, si fa
cente.
passare per matto, irresponsabile dei suoi atti perché si sa che i matti posso-
no permettersi tutto [131].
Una forma recente di narcisismo è quella legata al web e alle tecnologie informatiche,
definita narcisismo digitale, una sorta di culto della personalità che si concretizza con
l’esibirsi sul web con foto, video, messaggi, scritti. La tecnologia attuale permette di
essere protagonisti con blog, diffusione di foto e video, twitter, musica e quant’altro,
prodotti autoreferenziali, che gratificano il suo narcisismo.
Proprio recentemente si è assistito a due eventi tragici – verosimilmente ascrivibili a
narcisismo maligno – che hanno destato molto clamore, sia per i fatti in sé, sia perché
sono stati trasmessi praticamente in diretta su Facebook, sia, infine, per il ritardo con
cui i gestori hanno eliminato le immagini dalla piattaforma.
Il primo è accaduto il 17 aprile 2017 a Cleveland dove un uomo di 37 anni ha ucciso
con un colpo di pistola un pensionato di 74 anni (sembra scelto a caso) filmando l’e-
secuzione e postandola su Facebook.
Il secondo è accaduto circa dieci giorni dopo a Phuket, in Thailandia, dove un uomo
di 21 anni, dopo un litigio con la moglie, si è chiuso in una squallida stanza di un hotel
abbandonato con la figlia di undici mesi e qui ha ucciso la bambina per impiccagione,
togliendosi poi la vita, il tutto in diretta su Facebook Live.
Un fenomeno, ancora non del tutto chiarito – e sulla cui veridicità il condizionale è
d’obbligo –, giunto in Italia solo agli inizi del 2017 ma che in Russia sembra aver pro-
vocato, in poco più di un anno, oltre 150 suicidi, è il Blue Whale Challenger, un “gioco”
che sarebbe stato ideato e condotto da un ventiduenne russo, studente di psicologia,
Philipp Budeikin (arrestato e sotto processo per il suicidio di quindici adolescenti),
“gioco” che consisterebbe nel sottostare a cinquanta regole che avrebbero come con-
clusione il suicidio mediante precipitazione dall’edificio più alto della città. Ne parle-
remo più diffusamente nel Cap. XXI.
Pseudologia fantastica
È una malattia che Jung identificò
quando studiava Hitler,
e chiamò pseudologia fantastica.
Consiste nell’inventarsi una bugia
e finire col credere che sia una verità.
(Federico Orlando)
Nel 1978 Enric Marco Battle pubblicò il libro Memorie dall’inferno nel quale descrive-
va la propria reclusione nel campo di concentramento nazista di Flossenbürg. Dopo
la caduta del Franchismo in Spagna (1978), Marco era stato segretario generale della
Confederaciòn National del Trabajo, un sindacato anarchista, e nel 2000 era stato eletto
presidente di un’associazione di repubblicani deportati nei campi di concentramento
nazisti (Amical de Mauthausen). Nel 2005, quando era sul punto di diventare il primo
ex deportato spagnolo a parlare in una commemorazione ufficiale nel sessantesimo
anniversario della liberazione del lager, Javier Cercas [44] pubblica il libro L’impostore
nel quale smaschera la colossale menzogna di cui Marco era stato autore e interprete:
non era mai stato rinchiuso in un campo di sterminio; era stato in Germania volon-
tariamente per lavorare nell’industria bellica tedesca, era stato arrestato dalla Gestapo
per ragioni imprecisate ma poi processato e assolto. Egli aveva riscritto la propria vita
facendo crescere la sua finzione all’inverosimile, stemperandola con le giuste dosi di
verità e, vivendo della sua menzogna, aveva acquistato prestigio e onori. Poi arriva uno
storico, Benito Bermejo, che nel corso dei suoi studi scopre che Marco aveva mentito
su aspetti cruciali della propria biografia e che, invece che un eroe, era un impostore.
J.T. Leroy (Jeremiah Terminator Leroy), è figlio di Sarah, una prostituta tossicodi-
pendente quattordicenne, dato in adozione appena nato essendo stata la madre di-
chiarata “inadatta al ruolo di genitore”. Compiuti i 18 anni, Sarah, che non ha cam-
biato vita, fa causa ai genitori adottivi e riprende il figlio a vivere con lei, sulla strada,
vittima di molestie e abusi, diventando ben presto tossicodipendente. A 13 anni, ab-
bandonato definitivamente dalla madre, incontra due musicisti falliti, Laura Albert
e Geoffrey Knoop, che lo inseriscono in un consultorio per ragazzi disagiati dove lo
prende in cura lo psicoterapeuta Terrance Owens il quale gli chiede di scrivere le sue
esperienze di vita. Pubblica così alcuni racconti con lo pseudonimo di Terminator e
nel 1999 esce Sarah, storia di un minorenne figlio di una prostituta, scambiato per
una ragazzina; nel 2000 esce Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, in cui un ragaz-
zino viene condotto dalla madre in una vita fatta di violenza; nel 2005 esce La fine di
Harold in cui racconta di persone che fingono di prendersi cura dei giovani mirando
però ad attività perverse.
Nel 2005 il New York Times pubblica la notizia che J.T. Leroy non esiste, i libri sono
opera di fantasia di Laura Albert, che, assieme a Geoffrey Knoop, suo compagno, si
sarebbe occupata del presunto Leroy; la sorella di Geoffrey, Savannah, si era prestata a
interpretare Leroy nelle sue rare uscite pubbliche, mascherata con parrucche e grandi
occhiali.
Laura Albert confessa che tutto era incominciato nel 1996 quando aveva contattato
Dennis Cooper, famoso scrittore gay di romanzi scabrosi; temendo che costui non
avrebbe preso in considerazione una scrittrice trentenne madre di famiglia, aveva pre-
sentato i suoi scritti fingendosi un ragazzo di strada.
L’inganno è stato svelato da Geoffrey Knoop in seguito alla separazione da Laura.
Tutt’altro che rari sono i casi di soggetti che dichiarano titoli acca-
demici o professionali mai conseguiti ed esercitano abusivamente la ri-
spettiva professione non solo nel privato ma addirittura in enti pubblici
– dove solitamente si entra per concorso o presentando comunque un
curriculum e dei documenti! Ne abbiamo già accennato nel Cap. III, dove
Mitomania
Il megalomane è uno che dice ad alta voce
ciò che ognuno pensa di sé nel suo intimo.
(Emil Cioran)
6 Vulgus vult decipi, ergo decipiatur (Il popolo vuole essere ingannato, e allora sia ingannato).
Millanteria
Il ciarlatano è invece colui che esalta, più che i meriti personali, i pro-
dotti che si propone di vendere. È una figura nota probabilmente fin dai
tempi più remoti, quando il commercio non era particolarmente orga-
nizzato essendo le comunità troppo piccole e lontane le une dalle altre: il
ciarlatano, con il suo carro pieno delle cose più svariate, girava per villag-
gi, per fiere e feste, magnificando la propria merce e, spesso, presentan-
dosi come guaritore, vendeva elisir o unguenti miracolosi, capaci di cu-
rare qualsiasi male (compreso il “mal d’amore”). Oggi i ciarlatani vecchia
maniera sono estinti, sostituiti dai loro epigoni non più iteranti ma fermi
davanti alla telecamera che diffonde in lungo e in largo nell’etere la loro
esibizione con le cosiddette televendite. E proprio grazie alla televisione, i
moderni ciarlatani e imbonitori raggiungono grande notorietà.
In Italia possiamo citare Guido Angeli che, negli anni ’80, pubblicizzava i mobili Aiaz-
zone con uno slogan rimasto famoso, «Provare per credere!» e qualche anno dopo,
Vanna Marchi che, con uno stile tutto personale, molto urlato, ha propagandato e
venduto improbabili cure dimagranti a base di estratti di alghe e tarassaco e la crema
“scioglipancia”.
Nel 2001 Vanna Marchi fu denunciata per truffa: lei, la figlia Stefania Nobile e il
sedicente mago brasiliano Mario Pacheco Do Nascimiento vendevano numeri fortu-
nati da giocare a lotto, talismani, amuleti e kit contro le influenze maligne, compreso
il rito del sale. Questo consisteva nel vendere bustine di sale da cucina con rametti di
edera per scacciare il malocchio: dovevano essere seguite procedure rituali che, in caso
di fallimento (il non completo scioglimento del sale), avrebbero indicato la presenza
di malocchio e quindi la necessità di sottoporsi a specifici rimedi che vendevano loro
stessi. Poiché la quantità di sale era tale che, per le leggi della chimica (saturazione),
non avrebbe potuto sciogliersi completamente nella quantità d’acqua indicata, molti,
convinti di avere il malocchio, ricorrevano ai loro costosi rimedi.
Vanna Marchi, il convivente Francesco Campana e sua figlia Stefania Nobile furono
condannati a diversi anni di carcere per associazione a delinquere finalizzata alla truf-
fa e truffa aggravata; Mario Pacheco Do Nascimiento, fuggito in Brasile, fu condanna-
to in contumacia a 4 anni.
Lo slogan-urlo di Vanna Marchi era «D’accordo?!».
In Italia, una legge del 1931 punisce il ciarlatano (chi spaccia qualcosa
per ciò che non è), ma i ciarlatani sopravvivono con altro nome e conti-
nuano a vendere al pubblico (oggi televisivo o internettiano) la propria
merce, incantando la gente con abbondanza di chiacchiere e gabbandola.
Nei casi in cui le capacità di critica del truffatore siano più compro-
messe, la preparazione della truffa è più approssimativa, le millanterie
sono al limite della credibilità, al punto da rischiare di essere scoperto già
in questa fase, o scegliendo la persona sbagliata, ad esempio un soggetto
scaltro; spesso la tattica del raggiro è ingenua, puerile, facilmente eviden-
ziabile e, infine, il possibile guadagno è inadeguato rispetto al rischio a
cui si espone.
Dei tre tipi di millantatore, il truffatore è senz’altro quello più “fragile”
psichicamente, generalmente con capacità intellettive ai limiti o sotto la
norma.
Menzogna compulsiva
Io sono il più fenomenale bugiardo
che abbiate mai incontrato in vita vostra.
È spaventoso.
Perfino se vado in edicola a comprare il giornale,
e qualcuno mi domanda che cosa faccio,
come niente gli dico che sto andando all’opera.
È spaventoso.
(Jerome D. Salinger, Il giovane Holden, 1951)
La testimonianza
Si sa che gli avvocati hanno strappato a riluttanti giurie
trionfanti verdetti di non colpevolezza per i loro clienti
anche quando questi clienti, come spesso accade,
erano chiaramente e indiscutibilmente innocenti.
(Oscar Wilde, The Decay of Lying, 1889)
7 Negli Stati Uniti, da quando è stata introdotta nel procedimento giudiziario la prova del
DNA, la revisione di numerosi processi indiziari ha portato all’assoluzione di oltre un terzo dei
soggetti che erano stati condannati solo sulla base di prove testimoniali.
testimoni. In uno di questi veniva simulata una rissa per strada alla quale assisteva, senza prendere
parte all’azione, un afroamericano: un certo numero di testimoni riferì che costui era armato e non
solo aveva partecipato alla rissa ma l’aveva addirittura provocata. D’altra parte è esperienza comune
che giornali e TV, quando danno notizia di eventi criminosi, si affrettino a specificare che gli autori
sono cittadini dell’Est Europa, o Rom, o extracomunitari e siano un po’ meno pronti ed enfatici se
gli autori sono italiani.
Grande clamore destò, circa 25 anni fa, la notizia che due fisici, Martin Fleischmann e
Stanley Pons, avevano scoperto la “fusione fredda”, cioè la fusione nucleare di due nu-
clei di deuterio in un reticolo di palladio, con produzione di grandi quantità di calore
e addirittura la fusione esplosiva di un blocchetto di palladio nella sede della reazione.
La scoperta accese molte speranze per le grandi prospettive di sfruttamento pratico.
Ma i luminosi orizzonti che sembravano aprirsi si sono piano piano ingrigiti: i risultati
di Fleishmann e Pons risultarono irripetibili. L’assenza di nuovi dati ha provocato la
perdita di investimenti economici in quel settore e il conseguente languire della ricerca
(i fusionisti parlano di «oscuri complotti»). Di tanto in tanto si legge sui giornali la noti-
zia di un “ritorno della fusione fredda”, ma sono notizie che cadono subito nel vuoto. È
vero che, non di rado, le scoperte anche brillanti stentano a decollare, ma è abbastanza
improbabile che una scoperta clamorosa finisca rapidamente nel silenzio.
Una cosa interessante è che molti cultori della fusione fredda sono anche interessati
a forme di scienza “particolari” come l’omeopatia o la “memoria dell’acqua”, di cui
diremo più avanti.
È recente la polemica accesa intorno alla presunta nocività del vaccino trivalente (mor-
billo-parotite-rosolia), correlato all’autismo, sostenuto da Andrew Wakefield [193] in
un articolo su Lancet del 1998. Come si è scoperto più tardi, lo studio era stato commis-
sionato al dottor Wakefield da un avvocato britannico che voleva promuovere un’azio-
ne legale collettiva contro il produttore del vaccino, pagato 560.000 sterline più le spese
(non dichiarate a Lancet, come dovuto) dal fondo1 britannico per l’assistenza legale.
Lo studio, condotto su un campione di dodici bambini vittime di cambiamenti a
seguito della vaccinazione con il vaccino trivalente, avrebbe dimostrato come quel
vaccino potesse alterare il sistema immunitario agendo sull’intestino e provocando
anche danni al cervello. Wakefield, sull’onda del clamore suscitato dalla sua pubbli-
cazione, in una conferenza stampa aveva consigliato di usare vaccini monovalenti
(guarda caso, nove mesi prima aveva brevettato un vaccino monovalente contro il
morbillo). Intanto, come conseguenza del clamore mediatico suscitato dall’articolo,
vi era stato un calo significativo delle vaccinazioni. Nel 2009 le autorità sanitarie di
vari Paesi segnalarono la pericolosa ricomparsa di focolai di morbillo per cui la com-
missione disciplinare dell’ordine dei medici ritenne opportuno esaminare il caso. La
conclusione fu che Wakefield aveva agito irresponsabilmente e disonestamente e ne
fu decisa la radiazione dall’Albo professionale.
Nonostante ciò, ancora oggi Wakefield conta numerosi sostenitori, compresi diver-
si VIP, convinti che il medico sia stato vittima di un complotto (!) ordito dalle azien-
de produttrici di vaccini le quali avrebbero pagato scienziati e media per screditarlo.
Inoltre molti social media hanno dato largo credito a Wakefield, sminuendo o igno-
rando gli studi che contraddicevano la sua tesi, dando spazio a testimonial del tutto
estranei al mondo scientifico (attori, cantanti e gente di spettacolo) più che a esperti
del settore. Dobbiamo prendere atto che, nell’epoca dei social network, cento utenti
senza cultura specifica, che ritengono i vaccini responsabili della comparsa di casi di
autismo, contano più di dieci scienziati che documentano il contrario!
Di fronte al calo significativo di vaccinazioni e al conseguente rischio del riaccender-
si di epidemie che sembravano ormai debellate nel nostro Paese, nell’autunno 2016,
l’Ordine dei Medici ha stabilito di procedere con sanzioni varie, fino alla radiazione
dall’Albo, per “infrazione del codice deontologico”, contro i medici che sconsigliano i
genitori di sottoporre i figli alle vaccinazioni obbligatorie.
Nell’aprile 2017, l’Ordine dei Medici di Treviso ha radiato dall’albo un medico, Ro-
bero Gava, per il suo comportamento non etico e antiscientifico. Naturalmente, per i
suoi difensori, Gava, novello Galilei, «è stato condannato soltanto per le sue idee».
Il 20 luglio 2017 è stata emanata in Italia la legge n. 119 che rende obbligatoria, per
l’accesso dei minori agli asili nido e alle scuole materne, la vaccinazione contro die-
ci malattie (poliomielite, diferite, tetano, epatite B, pertosse, haemophilus influenzae
tipo b, morbillo, rosolia, parotite e varicella); per i bambini e i ragazzi fino a 16 anni
non vaccinati è prevista una multa da 100 a 500 euro. Fortemente consigliate – ma
non obbligate – sono anche le vaccinazioni anti-meningococcica B e C, anti-pneumo-
coccica e anti-rotavirus.
Costui, negli anni Cinquanta, convinto che le capre fossero immuni dal cancro3,
propose un estratto biologico di capra – un composto di feci e urine diluite in acqua
– nella convinzione che avrebbe protetto anche gli uomini dalla malattia. L’estratto,
in base al tipo di tumore, doveva essere prodotto a partire dall’animale femmina o
maschio. La notizia del Siero Bonifacio uscì dall’ambito locale (Agropoli) grazie ai
giornali e ci fu una vera e propria corsa per procurarselo. In Italia, ma anche all’estero,
la richiesta fu enorme.
Bonifacio fece sperimentare il suo preparato da alcuni amici dell’Istituto Pascale di
Napoli e, nonostante i risultati fossero negativi, i giornali continuarono a pubblicare
“testimonianze” emozionanti di pazienti “guariti”, gonfiando ulteriormente il caso
tanto che vi furono petizioni al governo (e persino al Papa) che chiedevano speri-
mentazioni controllate e distribuzione gratuita del siero. La sperimentazione fu fatta,
con risultati negativi, ma questo non impedì che la richiesta rimanesse elevata e che la
fama di questa presunta terapia varcasse l’oceano tanto che alcuni medici americani
proposero di sperimentarla sui loro pazienti.
2 Dulcamara è il ciarlatano ambulante che si spaccia per medico e vende al protagonista del
melodramma L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti la pozione che avrebbe dovuto fare innamorare
di lui la bella Adina.
3 Sembra improbabile che Bonifacio non avesse avuto occasione di vedere capre ammalate
di cancro operando in un’area in cui la pastorizia era un’attività piuttosto fiorente e possedendo egli
stesso un allevamento di capre.
Nel 1982 (erano passati circa trent’anni) avrebbe dovuto avere inizio, sempre dietro
la pressione popolare, una nuova sperimentazione da parte del Ministero della Sanità
ma Bonifacio annunciò il suo ritiro e l’anno dopo morì. Il figlio continuò a vendere
il siero, che brevettò con il nome di Oncoclastina, facendolo produrre da un’azienda
chimica. Alla fine degli anni Novanta un gruppo di Messina tentò un rilancio, senza
successo, dell’Oncoclastina sostenendo di avere le prove della sua efficacia (mai rese
pubbliche). Finì così la lunga storia del Siero Bonifacio che dimostra, se ce ne fosse
bisogno, che la volontà popolare è più meritevole d’attenzione della scienza “ottusa”.
Il plurilaureato professor Luigi Di Bella, che aveva incominciato a trattare pazienti dalla
fine degli anni Settanta, nel 1989 presenta il suo cocktail come capace di prevenire le
metastasi tumorali. Fino alla metà degli anni Novanta, pur essendo noto che Di Bel-
la usava già da tempo una terapia non convenzionale per il trattamento dei tumori,
nessuno aveva mai sollevato il problema, che emerse, invece, quando la Commissione
del Farmaco collocò la somatostatina, elemento cardine della terapia, nella fascia H e
quindi disponibile solo per uso ospedaliero, mentre fuori era a pagamento (costoso).
Si accesero così i riflettori su questo caso perché i pazienti (appoggiati da certa stampa)
chiesero che la somatostatina venisse di nuovo liberamente prescritta a carico del Siste-
ma Sanitario Nazionale.
Il clamore fu tale che il pretore di Maglie, Carlo Madaro, ordinò all’ASL di fornire
gratuitamente il farmaco e il Ministero della Sanità fu praticamente costretto ad auto-
rizzare una sperimentazione clinica che evidenziò come il multitrattamento Di Bella
non dimostrasse un’attività terapeutica significativa (1999). Naturalmente si gridò al
complotto (!), a difetti nella preparazione del cocktail, a errori nella selezione dei pa-
zienti e così via. Ci furono anche nuove pressioni per un’ulteriore sperimentazione;
nuovi pretori (addirittura ancora nel 2014) che imponevano alle ASL la dispensazione
gratuita dei farmaci.
I figli di Di Bella (deceduto nel 2003) hanno istituito una Fondazione che porta
avanti la battaglia per il riconoscimento del trattamento ideato dal padre e che alcuni
medici continuano a praticare ancora oggi.
Due sono gli aspetti di questo caso che meritano di essere segnalati,
uno è la pressione mediatica, da parte sia della stampa che della televi-
sione, pressione che un gruppo di giornalisti scientifici stigmatizzò con
un documento ufficiale, soprattutto per il modo in cui era stata condotta;
l’altro è l’intervento spericolato della magistratura che si è avventurata su
un terreno squisitamente tecnico.
Anche il più recente caso Stamina ha visto un’ampia interferenza della
magistratura che, nonostante i dubbi iniziali sull’efficacia del trattamento,
Quella del “complotto” delle case farmaceutiche che ostacolerebbero “miracolose” te-
rapie anticancro (o anti-qualsiasi-cosa) per difendere i loro ricchissimi guadagni con
farmaci inefficaci o solo parzialmente efficaci (una volta si diceva che l’augurio dei
Sono talmente pochi gli scienziati che levano la loro voce per smentire
le bufale ormai imperanti sul web, che ha fatto notizia la presa di posi-
zione, via web e sui quotidiani, di un virologo del San Raffaele di Milano,
Roberto Burioni, che combatte le false credenze sui vaccini. In un suo post
su Facebook (letto da milioni di lettori) ha scritto testualmente:
Preciso che questa pagina non è un luogo dove della gente che non sa nulla
può avere un ‘civile dibattito’ per discutere alla pari con me.
Dichiara che ciò che scrive per cercare di chiarire la verità scientifica,
gli richiede tempo per documentarsi e per rendere accessibili a tutti le
informazioni e pertanto invita chi non è adeguatamente preparato, a non
mettersi a discutere con lui:
Qui ha diritto di parola solo chi ha studiato e non il cittadino comune. La
scienza non è democratica.
Secondo una recente indagine, coloro che ricorrono alle pratiche te-
rapeutiche alternative (PTA) in sostituzione delle pratiche terapeutiche
tradizionali (PTT) non sono, nei Paesi industrializzati, degli “abbrutiti
Yahoo”, di swiftiana memoria, con un livello scolastico-culturale basso
e facilmente circuibili, ma soggetti giovani (35-50 anni), laureati (50%) e
benestanti (poco meno della metà ha un reddito annuo medio di circa 50
mila euro). Come diceva la Regina di Cuori in Il Paese delle Meraviglie,
«tutti crediamo almeno a sei cose impossibili prima di colazione» [40].
Dobbiamo però chiarire che il termine “alternative” non è corretto
poiché molto spesso sono somministrate in associazione con terapie “tra-
dizionali” – in realtà non è corretto neppure l’uso dei termini “pratiche
terapeutiche” e “terapie” in quanto le loro proprietà curative sono tutt’al-
tro che dimostrate. Sono state proposte altre definizioni, ma sono tutte
più meno criticabili per cui useremo il termine “alternative” per conven-
zione, conoscendone i limiti e considerandolo una semplice “etichetta”.
Nell’ultimo quarto di secolo si è affermato il concetto di “medicina
basata sulle evidenze” (evidence-based medicine)2, un metodo clinico ide-
ato per trasferire le conoscenze derivanti dalle ricerche scientifiche diret-
tamente alla cura dei singoli pazienti, che si propone di valutare rischi
e benefici dei trattamenti (compresa la mancanza di trattamento) e dei
test diagnostici. Questo è lo stato dell’arte, la “verità” della medicina. Ma
non è tutta la medicina: ancora oggi, una parte della medicina “ufficiale”
continua a prescrivere farmaci – regolarmente approvati, registrati e di-
spensati dal SSN – di efficacia terapeutica incerta.
Non dobbiamo sottovalutare che, negli ultimi anni, la fiducia nei con-
fronti della medicina ufficiale è diminuita per diversi motivi. In primo luo-
go per le crescenti criticità del SSN, che vanno dalla carenza di organici
medici e paramedici, ai generalmente lunghi(ssimi) tempi di attesa per
visite, esami e ricoveri, all’eccessiva burocratizzazione, ai frequenti casi di
malasanità che, veri o presunti, sono sfruttati scandalisticamente dai me-
dia. A ciò dobbiamo aggiungere la scarsa disponibilità e il poco tempo che
i medici riservano all’ascolto e al dialogo con il paziente, mentre bisogna
ammettere che chi pratica le medicine alternative ha un atteggiamento più
“ippocratico” dedicando molto tempo al rapporto interpersonale3. Questo
gratifica il paziente facendolo sentire una persona e non un insieme di or-
gani da riparare, approccio che favorisce la scelta fra una medicina e l’altra.
2 Evidence-Based Medicine – EBM: il termine “evidenze”, ormai generalmente accettato, non è
corretto poiché il concetto su cui si fonda la EBM è piuttosto la verifica delle “prove di efficacia”.
3 È noto che il Prof. Di Bella aveva lunghi colloqui con i suoi pazienti e sosteneva che proprio
la mancanza di questo approccio sarebbe stato uno dei motivi per cui la sperimentazione ufficiale
del suo metodo non aveva dato risultati positivi.
4 Quanto alla cicuta, ricordiamo che Socrate fu ucciso con questa sostanza e che gli indigeni
Non aiutano a fare chiarezza le iniziative di alcune Regioni, tra cui la Regione Tosca-
na8, che tendono ad avallare e a dare una parvenza di scientificità alle PTA appro-
vando progetti miranti a individuare «le strategie e gli indirizzi da adottare in tema
di “Integrazione delle medicine non convenzionali negli interventi per la salute” [e fi-
dell’Amazzonia intingono le loro frecce nel curaro per ottenere una morte quasi immediata delle
loro prede o dei loro nemici.
5 Navigando su Internet alla ricerca di informazioni su quali fossero i prodotti più redditizi
per le multinazionali del farmaco ci siamo imbattuti in un blog che sparava a zero su queste multi-
nazionali e sulla stessa pagina, in bella evidenza, c’era la pubblicità di un prodotto “anticaduta” per
capelli!
6 Diverse industrie farmaceutiche hanno sfruttato commercialmente le conoscenze mediche
tradizionali, anche brevettando i principi attivi isolati da piante usate da secoli dalle tribù primitive
per curarsi. È il caso, tanto per citarne alcune, della pervinca del Madagascar, da cui è stata isolata la
vincristina e la vinblastina utilizzate nel trattamento di leucemie e linfomi (Eli Lilly), oppure quello
della Hoodia del Kalahari, un cactus dal quale è stato isolato il principio attivo noto come P57, che
sopprime l’appetito, di prossima immissione sul mercato (Unilever).
7 L’esposoma è definito come il “registro” di tutte le esposizioni, sia endogene che esogene,
cui un essere umano va incontro nell’arco della sua vita, dal concepimento in poi. È considerato
il responsabile di circa il 90% del rischio di malattie croniche. È oggetto di studio di équipe mul-
tidisciplinari che hanno come obiettivo “sequenziare” l’esposoma così come è stato fatto con il
genoma.
8 Delibera n. 41/1999.
nanziando] “iniziative di studio e di ricerca nel campo delle MNC” (Medicine Non
Convenzionali) [... aventi] come campo d’indagine tecniche terapeutiche e riabilitative,
azioni di prevenzione, aspetti conoscitivi ed applicativi per lo sviluppo delle MNC, in-
tegrazione con le cure della Medicina convenzionale, in relazione a quelle MNC rivolte
alla salute umana e animale che per la loro diffusione appaiono di maggiore interesse,
quali l’agopuntura, la medicina cinese, l’omeopatia, l’omotossicologia, la fitoterapia,
la medicina manipolativa e le arti per la salute»9 ammettendo però soltanto «soggetti
pubblici e privati [con] comprovata esperienza nel settore delle MNC da documentarsi
con una breve relazione di accompagnamento al progetto stesso».
Non sono previsti studi controllati (e certamente ci sarebbero difficoltà tecniche
notevoli se non insuperabili, per realizzarli), ma neppure osservatori indipendenti; è
un dato di fatto che, esaminando la letteratura scientifica, gli studi condotti da cultori
delle MNC danno regolarmente risultati positivi, mentre supervisioni o metanalisi da
parte di ricercatori non cultori delle MNC sono per lo più negative. È vero che anche
per i trattamenti convenzionali si rilevano differenze tra i risultati prodotti dall’in-
dustria farmaceutica e quelli prodotti da ricercatori indipendenti, ma non sono mai
differenze così marcate.
9 L’Interassociazione delle Arti per la Salute (IAS) riunisce al suo interno Associazioni Na-
zionali di varie discipline quali: Shiatsu, Reflessologia del piede, Ortho-Bionomy, Craniosacrale,
Tai Chi, Essenze Floreali, Watsu, Kinesiologia, Biopranoterapia, Tuina e Reiki che si distinguono
completamente dalle “medicine alternative o complementari” e si definiscono “Arti per la Salute o
Discipline BioNaturali (DBN)”, in quanto si pongono nel campo del sostegno delle risorse autocu-
rative dell’essere vivente, al di fuori quindi di qualsiasi concetto terapeutico attinente all'ambito sa-
nitario. La IAS è attiva, fin dalla sua fondazione, per garantire la reale preparazione (iter formativi)
degli Operatori e degli Insegnanti DBN.
10 Omeopatia, dal greco ὅμοιος (simile) e πάθος (sofferenza), riassume il pensiero di Hahne-
mann che le malattie devono essere curate da sostanze che, nel soggetto sano, provocano sintomi
simili alla malattia.
Nel 1988, l’immunologo francese Jaques Benveniste pubblicò sulla più importante
rivista scientifica internazionale, Nature, i risultati di esperimenti che avrebbero di-
mostrato che l’acqua era capace di conservare, per un determinato periodo di tempo e
anche dopo numerose trasformazioni, “memoria” di sostanze in essa disciolte o diluite
attraverso una geometria molecolare derivata dagli elementi chimici con cui è venuta
a contatto [61]. Questo sarebbe dovuto alla coerenza interna dei campi elettroma-
gnetici, prevista dall’elettrodinamica quantistica. La soluzione diluita, grazie a questo
fenomeno, conserverebbe l’informazione del principio attivo e avrebbe migliori effetti
terapeutici di una dose maggiore. Nessuno, tuttavia, ha spiegato perché l’acqua con-
serverebbe soltanto le proprietà terapeutiche e non quelle tossiche delle sostanze con
cui è stata a contatto, senza contare che ogni molecola d’acqua, nella sua storia, entra
in contatto con molteplici sostanze, ma, a suo dire, conserverebbe “memoria” solo
delle sostanze desiderate “ignorando” quelle indesiderate. I dati sulla memoria dell’ac-
qua non sono mai stati seriamente confermati. Benveniste ha continuato a sostenere
che la sua ricerca fosse valida e si è spinto a sostenere che la memoria dell’acqua potes-
se essere digitalizzata, trasmessa via email e reintrodotta nell’acqua!
11 La diluizione delle sostanze è il punto chiave dell’omeopatia e viene detta “potenza”: mag-
tish Homeopathic Association, ha ammesso che non esiste alcun modo per distinguere tra di loro
due prodotti omeopatici una volta diluiti, a eccezione dell'etichetta sulla confezione.
Due ricercatori dell’università di Exeter hanno inviato a 168 omeopati un’email con
la quale, fingendosi madre di un bambino, chiedevano se ritenessero necessario sotto-
porre il figlio al vaccino trivalente (morbillo, parotite e rosolia) e, dei 77 che avevano
risposto, solo due consigliavano la vaccinazione.
Sempre in Inghilterra, nel 2006, una giornalista, spacciandosi per una studentessa
in procinto di fare un viaggio attraverso l’Africa Occidentale (zona malarica per ec-
cellenza), si è rivolta a dieci cliniche omeopatiche di Londra chiedendo consigli per la
prevenzione della malaria e tutte hanno consigliato come protezione prodotti omeo-
patici: l’anno precedente la Health Protection Agency, un’autorità indipendente, aveva
diffuso un avvertimento mettendo in guardia sul fatto che non esistono prodotti ome-
opatici in grado di prevenire o curare la malaria [54].
Non possiamo non accennare alla Nuova Medicina Germanica (NMG), una terapia al-
ternativa messa a punto negli anni ’80 dal Ryke Geerd Hamer14 basata sul concetto che
la causa delle malattie (compreso il cancro) risiederebbe in un trauma irrisolto o in un
conflitto inconscio e che la cura dovrebbe consistere nella psicoterapia e in tisane o al-
tri rimedi naturali. Hamer è stato radiato dall’Ordine dei Medici nel 1986 per omessa
assistenza medica ma, come spesso accade, ha trovato un certo numero di proseliti che
adottano la sua NMG, nonostante si contino ormai a centinaia i pazienti deceduti per
non essere stati sottoposti alle terapie tradizionali che, in molti casi, avrebbero avuto
un buon margine di successo.
È recente (2017) la condanna, da parte del tribunale di Torino, di un medico segua-
ce della NMG, Germana Durando, per la morte di una paziente che troppo tardi si era
rivolta alle terapie tradizionali per un melanoma non curato15. Il tribunale non ne ha
deciso la sospensione dall’esercizio della professione: lo farà l’ordine dei medici?
13 E in questo non è certamente aiutata dalle disposizioni degli organi competenti. Riportia-
mo a titolo di esempio il “tempario” per le prestazioni specialistiche dei sanitari degli ospedali e
degli ambulatori della Regione Lazio, emanato nel giugno 2017. Sono state prese in considerazione
63 prestazioni sanitarie per ognuna delle quali è stabilita la durata massima (indipendentemente
dalla gravità del caso). Ad esempio, le visite oncologiche, neurologiche, ortopediche, ginecologiche,
urologiche ecc. non possono superare i 20 minuti; all’endocrinologo sono consentiti 30 minuti; per
un elettrocardiogramma bastano 15 minuti e così via. Sembra che anche altre Regioni siano orien-
tare a emanare “tempari” di questo tipo.
14 Il figlio diciannovenne di Hamer morì nell’agosto del 1978 a seguito di una ferita prodotta
da un colpo di fucile sparato dall’ex principe ereditario Vittorio Emanuele di Savoia mentre si tro-
vava in vacanza all’isola di Cavallo. Qualche tempo dopo Hamer fu operato per un carcinoma al
testicolo. Nel 1981 elaborò la teoria della NMG.
15 Nel corso delle indagini emerse che in precedenza la Durando era stata indagata per la
morte di una bambina di 14 mesi colpita da meningite e curata secondo lo stesso metodo.
16 E l’arte non è solo ragione è anche emozione. è stato dimostrato che i pazienti operati per
calcolosi colecistica o per ernia discale, miglioravano più rapidamente se venivano mostrati loro i
calcoli o, rispettivamente, i frammenti discali rimossi.
17 Sono moltissimi i Santuari che hanno quantità incredibili di ex-voto (alcuni anche artisti-
camente notevoli) per guarigioni o per incidenti scampati, che poco hanno di miracoloso e rientra-
no piuttosto nel range delle possibilità/probabilità.
Il nocebo è “il fratello cattivo” del placebo. Si indicano con questo termine gli effetti
dannosi, aspecifici, di un trattamento. Generalmente l’effetto nocebo è indotto dalle
minimo in attesa dell’inevitabile fine. Ma il signor Wright aveva letto di un nuovo far-
maco sperimentale, il Krebiozen, che pareva potesse assicurare guarigioni miracolose
(anche se le prime ricerche ne avevano messa in dubbio l’efficacia). Convinse il medi-
co di reparto a includerlo nella sperimentazione con il nuovo preparato e questi, un
venerdì sera, gli iniettò il farmaco. Il lunedì mattina si aspettava di trovare il paziente
morto, date le precarie condizioni in cui lo aveva lasciato prima del weekend e invece
lo trovò a spasso nel corridoio che conversava con gli infermieri: le masse superficiali
si erano ridotte del cinquanta per cento e la respirazione non era più affannosa; dopo
10 giorni non presentava più alcun segno visibile di malattia tanto che poté essere
dimesso in remissione completa.
Di lì a poco comparvero sulla stampa servizi sull’inefficacia del Krebiozen, Wright
li lesse e, dopo circa due mesi, si ripresentò in ospedale con i classici segni della ri-
caduta. Il medico, convinto che nel caso della spettacolare remissione fosse in gioco
un qualche fattore che avesse poca attinenza con la biochimica e molta invece con
la psiche, pensò di sfruttare l’effetto placebo, e gli disse che lo avrebbe sottoposto
a una nuova sperimentazione con un nuovo derivato, rinforzato e più potente, del
Krebiozen.
Il signor Wright acconsentì e il medico, dopo alcuni giorni di attesa, gli
somministrò un sostituto inattivo del Krebiozen, cioè un placebo. Entro pochi giorni
dall’iniezione, le masse linfonodali cominciarono a regredire e il versamento pleurico
scomparve:
Wright era stato restituito di nuovo alla vita. Lasciò l’ospedale e per i mesi
successivi godette di ottima salute.
Infine l’American Cancer Association diede l’annuncio ufficiale che il Krebiozen era
del tutto privo di efficacia nel trattamento del cancro.
A distanza di pochissimi giorni
dal comunicato, il signor Wright tornò in ospedale con il corpo disseminato di tume-
fazioni. «La sua fede era perduta, l’ultima speranza svanita», commentò il medico. Il
paziente morì due giorni dopo.
L’episodio riportato dal dott. Kopfer illustra in ma-
niera paradigmatica tanto l’effetto placebo (la disponibilità di un farmaco che potesse
curarlo) quanto l’effetto nocebo (le notizie dell’inefficacia terapeutica del farmaco)18.
18 La fede non potrebbe essere un forte placebo capace di guarigioni “miracolose” attribu-
ite ai Santi? Del resto, una ricerca di cui diremo più avanti [177], ha evidenziato come una certa
percentuale di medici suggeriva come valide alternative al placebo meditazione, yoga, tecniche di
rilassamento e preghiera.
In una ricerca [177] del 2008, condotta a Chicago su 466 medici internisti, il 45% degli
intervistati ha ammesso di aver usato almeno una volta nella propria pratica clinica il
placebo. Di questi, il 34% riteneva che fosse una sostanza che può aiutare il paziente sen-
za nuocere, il 19% lo considerava comunque un farmaco e il 9% era convinto che fosse
un medicinale senza specifici effetti. Fra quelli che affermavano di non usare il placebo,
il 12% era convinto che si dovesse vietarlo perché la reazione psicologica avrebbe potuto
nuocere al paziente e comunque, molti fautori del “no” suggerivano come valide alter-
native al placebo meditazione, yoga, tecniche di rilassamento e preghiera.
Risultati analoghi sono stati rilevati in Gran Bretagna, Danimarca, Israele, Svezia,
dove almeno la metà dei medici intervistati ammette l’uso di placebo (o farmaci aspe-
cifici rispetto alla patologia del soggetto, come vitamine, sali minerali, integratori) giu-
stificandolo sia con l’efficacia dimostrata sia con il gran numero di malati immaginari
che chiedono trattamenti per i loro disturbi chiaramente psicosomatici.
Rimane quindi aperta la questione etica sull’uso del placebo nella pra-
tica clinica, ma, al di là dell’inganno, un buon medico userà bene anche il
placebo, che è, sì, inattivo dal punto di vista strettamente farmacologico
ma, come ormai dimostrano numerosi studi, è attivo non solo psicologi-
camente ma anche biologicamente.
Vorremmo concludere ricordando che abbiamo paragonato il place-
bo al bacio della mamma sulla banale contusione del figlioletto: coloro
che usano pratiche terapeutiche alternative (PTA) hanno, evidentemente,
imparato bene l’arte del bacio della mamma che, in altri termini, significa
prestare attenzione al paziente. Pur non condividendo, per queste prati-
che, la definizione di trattamenti in senso medico-sanitario (molte sono
più adatte a una beauty farm che a un setting medico), dobbiamo ricono-
scere che coloro che le praticano sanno utilizzare al massimo il rapporto
con il soggetto e conoscono l’arte dell’ascolto: è questo che colma il vuoto
di efficacia che i trattamenti offrono. Operazione questa che la medicina
tradizionale non sempre fa, probabilmente convinta che il sapere scienti-
fico sia sufficiente. Talora ci si dimentica che l’uomo non è una macchina
ma un essere dotato di emozioni e sentimenti, che ha bisogno di relazioni
umane, terreno su cui agisce primariamente il placebo. Il placebo sarà
una menzogna ma, come tale, ha bisogno di qualcuno che la racconti, e
che la sappia raccontare.
Il buon medico deve essere capace di curare secondo i dettami della
scienza ma utilizzare anche le proprie capacità empatiche per rafforzare
psicologicamente l’effetto delle terapie prescritte: il dialogo con il pazien-
te è, in questo senso, la prima e più importante arma di cui dispone. E se
veramente è un bravo medico, in caso di necessità, saprà usare bene anche
il placebo.
Franz Boas [22], nel 1887, raccolse il racconto di uno di essi, Quesalid, che in gioventù
considerava gli sciamani degli imbroglioni. Quesalid si propose di smascherarli fre-
quentandoli e così uno di essi lo prese come apprendista e gli svelò tutti i trucchi ai
quali faceva ricorso (svenimenti, lotte con gli spiriti, spiare gli eventi di un villaggio
per far credere alla “terza vista” ecc.) e in particolare, nei casi più gravi, il complesso
rituale che avveniva alla luce dei falò, con canti, musiche, litanie, e si concludeva con
l’estirpazione dello spirito maligno dal corpo del malato. La messa in scena era sug-
gestiva: lo sciamano la preparava accuratamente nascondendo in bocca un ciuffetto
di piume che insanguinava al momento topico mordendosi la lingua. Quando posava
le labbra sulla parte del corpo ammalata, con i tamburi che rullavano al massimo,
strappava via lo spirito (le piume intrise di sangue) che sputava nel fuoco dimostrando
il buon esito dell’esorcismo. Quesalid era ormai deciso a svelare i trucchi degli scia-
mani, quando fu chiamato in un’isola vicina a curare un ragazzo che aveva sognato di
essere guarito proprio da lui. Fu accompagnato nella casa del nonno, dove era radu-
nato tutto il villaggio intorno al fuoco, la musica era assordante, il ragazzo respirava a
fatica e, toccandosi le costole gli chiese di farlo vivere. Quesalid, che aveva preparato
le sue piume, si morse la lingua avvicinando la testa al petto del malato e dopo qual-
che secondo l’alzò di scatto sputando le piume insanguinate sul palmo della mano e
mostrandole in giro e, mentre partecipava alla danza sacra, gettò le piume nel fuoco.
Il ragazzo, intanto, si era alzato a sedere e respirava meglio. Da contestatore degli scia-
mani era diventato sciamano pur essendo ancora scettico riguardo alla magia; divenne
famoso e, nonostante il suo scetticismo, scoprì di poter curare pazienti considerati
senza speranza, ed era orgoglioso del suo lavoro. E quando un suo familiare si amma-
lava lo faceva curare... da qualche collega sciamano!
1 È considerata come una condizione che può essere oggetto di attenzione clinica.
corsero re David e Ulisse, il primo per sottrarsi (con successo) alle ire
del re Achish e il secondo (invano) per evitare di partecipare alla guerra
di Troia, ma non dovevano essere casi isolati giacché Galeno dedica alla
simulazione di malattia una trattazione specifica, Come scoprire i simula-
tori di malattie2.
Nei casi citati non sussistono dubbi che ci troviamo di fronte a una
vera simulazione e quindi davanti a un soggetto che, consapevolmente,
cerca di sottrarsi a una situazione critica, per ottenere un vantaggio com-
prensibile (che può essere la non-imputabilità o la riduzione di pena in
ambito forense, l’indennizzo o l’invalidità per fini assicurativi/infortuni-
stici, ottenere farmaci nel caso di tossicodipendenza ecc.): chi non cono-
sce il detto fare il tonto per non pagare gabella3?
Certamente la simulazione di malattia mentale è eccezionale nella po-
polazione generale. È assai frequente, invece, in ambito carcerario, giudi-
ziario, criminologico, dove generalmente il soggetto adotta strategie che
mettono facilmente sull’avviso l’esaminatore: la sproporzione fra lo stress
esibito e la reale compromissione, la non collaborazione all’accertamento
diagnostico, un’anamnesi psichiatrica negativa, la presentazione di un set
limitato di sintomi, tra cui alcuni che il vero malato negherebbe, o altri,
talora artatamente suggeriti dall’esaminatore, descritti in maniera scien-
tificamente esatta e ogni volta perfettamente ripetuti. Talora sono possi-
bili atteggiamenti regressivi, infantili, teatrali, totalmente inappropriati e,
ciliegina sulla torta, una prodigiosa guarigione quando il simulatore ha
raggiunto il suo obiettivo.
Non dobbiamo, comunque, sottovalutare la possibilità che, in ambito
carcerario, nel simulare una malattia mentale, il soggetto possa compiere
gesti autolesivi, anche molto rischiosi, per richiamare l’attenzione degli
operatori penitenziari, dimostrando così la “realtà” della sua malattia, in
modo da raggiungere l’obiettivo prefissato. Simulare una malattia men-
tale in maniera verosimile è difficile, anche se ben conosciuta e, soprat-
tutto, è quasi impossibile sostenere a lungo la simulazione, anche quando
il soggetto è solo o ritiene comunque di non essere osservato (evenienza
oggi sempre meno frequente per la possibilità di videosorvegliare gli am-
bienti).
I disturbi psichici simulati mostrano spesso le caratteristiche di qua-
dri demenziali, pseudo-demenziali o confusionali, più vicini, cioè, all’im-
magine della “follia” che hanno i profani. Un quadro che ha avuto una
discreta fama soprattutto in passato, sia in ambito militare (in periodi
bellici ma anche dopo, quando il servizio militare era obbligatorio) che
carcerario, è la sindrome di Ganser (o pseudodemenza), diventato il pro-
totipo della simulazione della malattia mentale al punto che, nella pratica
clinica parliamo di “atteggiamento ganseriano” per definire la tendenza
alla simulazione – generalizzazione che ha portato a estendere eccessi-
vamente la diagnosi. Su questa sindrome, descritta per la prima volta da
Sigbert Ganser [90] nel 1898, pesa, infatti, il peccato originale di essere
stata individuata in soggetti sottoposti a carcerazione preventiva e per-
tanto sono sopravvissute a lungo altre denominazioni in casi con una sin-
tomatologia sovrapponibile ma osservati in altri contesti4.
4 Fin dall’inizio, molte sono state le interpretazioni circa la sua natura simulatoria, da quella
di Sarteschi [169], che la definisce come simulazione vera e propria, cosciente, voluta, troppo evi-
dentemente ingenua, frutto di una mentalità priva di critica o anche del senso morale, a quella di
Whitlock [194], che la interpreta come psicosi, passando dalla simulazione inconscia di Bleuler [18]
e dalla psicosi di simulazione su base isterica di Ganser [90] e altre ancora.
5 L’aprassia è un disturbo neurologico caratterizzato dall’incapacità di pianificare, organiz-
zare e realizzare i movimenti finalizzati, anche quelli che eseguiamo in maniera automatica.
6 Nelle diverse edizioni del DSM ha migrato in varie categorie (disturbi fittizi con sintomi
un unguento e dell’alloro così, qualche tempo dopo, dalla cicatrice nasce un pergolato
d’alloro che gli offre una comoda ombra. Racconta, inoltre, di essere andato per due
volte sulla luna (la prima volta arrampicandosi su una pianta di fave), di aver viaggiato
a cavallo di una palla di cannone, di essersi salvato dalle sabbie mobili tirandosi su per
i capelli, di aver visitato il fondo del mare su un cavallo marino e così via.
Rudolf Erich Raspe [156] ne fece il protagonista del romanzo Le avventure del baro-
ne di Münchhausen. È da lui che ha preso il nome il disturbo fittizio con sintomi fisici:
la sindrome di Münchhausen.
Ascher riporta il caso di un paziente che riferiva fantasiose esperienze belliche molto
drammatiche: imbarcato su un mercantile, era stato affondato da un siluro nemico,
quindi fatto prigioniero dai giapponesi e liberato solo alla fine della guerra; in un’altra
circostanza aveva raccontato di essere un pilota di aerei che, negli stessi anni, era stato
abbattuto nel cielo di Mannheim riportando lesioni per le quali aveva dovuto sotto-
porsi a ben otto interventi chirurgici all’addome.
Un altro paziente sosteneva di essere pilota di caccia ed eroe di guerra, diceva di
possedere fantastiche residenze in luoghi esotici, ogni volta diversi, di aver fatto l’oce-
anografo assieme a Cousteau, di essere professore di psicologia, dirigente della Boeing,
fisico nucleare della NATO, ministro della Chiesa Scozzese e altro ancora. Sosteneva
di aver subito 48 interventi chirurgici (e aveva effettivamente l’addome “a graticola”)
in conseguenza di esplosioni belliche. Nel corso di un intervento si scoprì che gli era
stato asportato un rene; aveva almeno 300 ricoveri documentati.
Come abbiamo detto, questi soggetti hanno, di solito, una buona intel-
ligenza e alcuni di essi hanno lavorato in campo sanitario. Per certi aspet-
ti, è come se volessero mettere in discussione la buona fede del medico, la
sua capacità di accertare o escludere la malattia, la sua autorità di alleviare
il disagio. Il loro comportamento, in definitiva, può essere considerato
una sfida alla quale il medico non può sottrarsi sia per ragioni deontolo-
giche, sia perché il suo operato è sempre di più soggetto a controlli critici
e non può trascurare accertamenti con valore probatorio di esclusione di
patologia per il rischio di essere accusato di negligenza o imperizia (se si
esamina con attenzione la ricca documentazione che presentano questi
pazienti, non è eccezionale trovare richieste di indennizzi assicurativi o
documenti indicanti ricorsi a tribunali). Naturalmente, possono coesi-
stere con il disturbo fittizio, segni e sintomi di reali patologie somatiche
che devono essere diagnosticate e curate. Né deve essere sottovalutata la
latente componente suicidaria implicita nei molteplici interventi chirur-
gici e diagnostici, nell’autolesionismo, nell’autoinduzione di patologie,
nel riscontro di pregressi tentativi di suicidio: non a caso la sindrome di
Münchhausen è stata considerata un equivalente suicidario10.
chhausen e il disturbo da sintomi somatici (vedi Cap. XVIII) non sono quantitative ma qualitative: il
soggetto con disturbo da sintomi somatici non fornisce false informazioni, non cerca di ingannare
il medico, non agisce per provocarsi i sintomi, non si sottoporrebbe a inutili e rischiose pratiche
diagnostiche o a ripetuti interventi chirurgici (fino alla cosiddetta “surgical addiction” e al conse-
guente addome “a graticola” o “a carta geografica”) come fa, invece, il soggetto con disturbo fittizio.
11 La sindrome di Münchhausen per procura si può osservare anche a carico di familiari inca-
Intermittente.
Nei casi a prognosi favorevole, si tratta di madri ansiose, che non rie-
scono a sostenere la responsabilità genitoriale senza riuscire a razionaliz-
zarla e la comunicano attraverso la “malattia” del figlio: una volta chiarito
il quadro e ottenuto il supporto terapeutico e/o pratico, si assiste a una
rapida remissione.
Ben più gravi sono i casi di sindrome di Münchhausen per procura
in personalità paranoidi, donne con situazioni coniugali conflittuali, che
sono convinte della malattia del figlio e riportano false notizie anamnesti-
che o falsi sintomi recenti o provocano in vario modo (somministrazione
impropria di farmaci, iniezioni settiche, maltrattamenti e altro) sintomi
anche drammatici: tipicamente cercano un’alleanza con il medico mo-
strandosi come madri premurose, attente alla salute del figlio.
La sindrome di Münchhausen è stata ed è oggetto di particolare inte-
resse per le difficoltà che pone quando si voglia capirne le motivazioni.
In primo piano c’è l’atteggiamento ambivalente verso la medicina, alla
quale il paziente fa ricorso in misura a dir poco esagerata per poi entrarci
in conflitto mettendo in discussione la competenza dei medici. Nella sua
storia non è eccezionale la presenza della figura di un medico che ha avu-
to un ruolo importante, tant’è vero che spesso ci sono stati approcci (fal-
liti) agli studi dell’area medica, magari seguiti da interessi autodidattici
e/o da passione per film, fiction, trasmissioni culturali di argomento me-
dico. Non sembra assurdo ipotizzare che il fallimento dell’identificazione
con la figura del medico lo porti a ripiegare sul ruolo passivo di paziente.
Nell’infanzia, per quanto difficile sia raccogliere informazioni attendibi-
li, figurano spesso, carenze affettive, abusi, maltrattamenti, malattie e/o
morte di uno o entrambi i genitori, istituzionalizzazione, nuclei familiari
caotici e non è improbabile che, in questo contesto, un medico possa aver
rappresentato un punto di riferimento.
Il soggetto, per la scarsa autostima, tende, per essere accettato, ad as-
sumere il ruolo di vittima o martire. Questo ha fatto ipotizzare tratti di
dipendenza da cui la richiesta di aiuto e sostegno a figure professionali,
con funzione vicaria rispetto alle figure genitoriali; il ruolo di malato con-
sentirebbe la soddisfazione dei bisogni regressivi di rassicurazione, ma al
tempo stesso permetterebbe al paziente di esprimere i suoi sentimenti di
rabbia, di ostilità verso i medici (genitori) frustrati dal «non capire», dal
«non riuscire a curare».
delle sensazioni provenienti da muscoli, articolazioni, posizione nello spazio (sensazioni propriocet-
tive) e dai recettori degli organi interni (interocettive o viscerali).
Disturbi di somatizzazione
L’ipocondria è l’unica malattia che non ho.
(Anonimo)
funzionale di un organo o apparato al di sotto di quella normale, tale da renderlo più vulnerabile
agli agenti patogeni.
9 Il disturbo di conversione o disturbo da sintomi neurologici funzionali si caratterizza per la
presenza di sintomi a carico delle funzioni motoria volontaria o sensoriale che imitano condizioni
Un nostro collega, che negli anni ’70 fu chiamato in cattedra in una Università del
meridione, ci parlò di alcune sue osservazioni riguardanti il personale infermieristico
femminile che prestava servizio nel suo reparto: alcuni mesi dopo il suo arrivo, si
rese conto che molte delle infermiere, soprattutto quelle più giovani, presentavano, in
coincidenza con il periodo mestruale, manifestazioni funzionali (lipotimie, disturbi
pseudo-vertiginosi, tremori ecc.) che spesso le costringevano a mettersi in malattia e
che “guarivano” spontaneamente in 3-4 giorni. Il collega ne parlò con loro e le con-
vinse ad assumere in quei giorni blande dosi di ansiolitici: il problema si risolse favo-
revolmente ma, paradossalmente, alcune di queste infermiere si lamentarono con lui
di non essere “più normali” perché non avevano, come prima, i disturbi funzionali.
neurologiche o mediche senza alcuna relazione con alterazioni della struttura anatomica o dei mec-
canismi fisiologici e che per questo sono detti anche pseudo-neurologici. L’elenco dei possibili sinto-
mi è lungo e comprende debolezza o paralisi, movimenti abnormi, disturbi della deambulazione o
della postura; sensibilità tattile, visiva o uditiva alterata, ridotta o assente; disfonia/afonia/disartria,
diplopia, disfagia, lipotimie, amnesia ecc. Talora i soggetti presentano anche il fenomeno de “la
belle indifférence”, cioè la mancanza di preoccupazione rispetto all’apparente gravità dei disturbi.
Va da sé che la diagnosi di disturbo di conversione non può essere posta solo perché i sintomi sono
bizzarri ma perché sono chiaramente incompatibili con una malattia neurologica.
vedove), nel periodo estivo. La responsabilità del disturbo – la crisi isterica – veniva
attribuita al morso velenoso della “tarantola”, un animale non corrispondente ad alcun
ragno o serpente realmente esistente: secondo la tradizione, alcuni musicanti poteva-
no guarire o attenuare la gravità dei sintomi della “pizzicata” (la persona morsa) con
musiche dal ritmo sfrenato, la pizzica (una sorta di tarantella), una specie di esorci-
smo musicale che poteva durare molte ore10.
Nel leccese si attribuiva a San Paolo, sopravvissuto al morso di un serpente nel-
l’isola di Malta, il ruolo di protettore dei “pizzicati” per cui, il 29 giugno, le tarantate
venivano portate a bere l’acqua della chiesa di San Paolo a Galatina (LE). La chiesa fu
sconsacrata poiché durante la trance isterica le tarantate mimavano rapporti sessuali
o orinavano sugli altari o facevano altre cose “sconvenienti”. È il motivo per cui San
Paolo, da protettore degli avvelenati, divenne il santo della sessualità. Nelle altre zone
in cui esiste, la tradizione del tarantismo ha caratteristiche più pagane.
Negli ultimi decenni le tradizioni musicali legate al tarantismo, e in particolare la
pizzica, inserite in manifestazioni folkloristiche, sono state rivitalizzate e richiamano
un numeroso pubblico anche da oltre i confini tradizionali del tarantismo.
Sempre riferito alla sfera sessuale, il koro è una sindrome “esotica”, caratteristica di
alcune aree dell’Estremo Oriente, che consiste in gravi crisi di angoscia provocate
dalla sensazione/convinzione che il pene stia per ritirarsi e scomparire nell’addome
determinando la morte del soggetto (esiste anche una versione femminile in cui sono
le mammelle e le grandi labbra che verrebbero risucchiate nell’addome). Per impedire
che questo accada, il soggetto trattiene il pene con tutte le sue forze, talora aiutato dai
familiari, o impiegando speciali apparecchi costruiti ad hoc.
La medicina cinese lo considera uno squilibrio fra il principio maschile (Yan) e
quello femminile (Yin), con prevalenza di quest’ultimo, curabile con medicine “ma-
schili”, come la polvere di corno di rinoceronte.
chicardia e sudorazione favorendo l’eliminazione del veleno e alleviando il dolore del morso (grazie
al rilascio di endorfine).
11 È la preoccupazione intrusiva, indesiderata, che assilla questi pazienti per buona parte della
mente paradossali.
Un esempio molto suggestivo è quello fornito da Saverio Costanzo nel film del 2014,
Hungry Hearts, che racconta la storia di due giovani che vivono un’appassionata sto-
ria d’amore e di convivenza nel corso della quale la ragazza, Mina, rimane incinta e
si convince che, come le aveva profetizzato una chiromante, il suo sarà un bambino
speciale, “indaco”. Per difenderlo dall’inquinamento esterno, lo alimenta con frutta e
verdura coltivata da lei stessa sul terrazzo ma Jude, il suo compagno, che inizialmente
l’asseconda, ben presto si rende conto che il bambino non cresce, è denutrito, rischia
la vita e incomincia ad alimentarlo di nascosto. Mina, quando lo scopre, fa vomitare al
figlio il cibo datogli dal padre e gli somministra lassativi.
Jude decide di portare il bambino dalla propria madre ma Mina lo accusa (falsa-
mente) di averla picchiata e, accompagnata dalla polizia, riprende il bambino. Pur
supportato da certificazioni mediche, Jude è disperato perché si rende conto che il
cammino per ottenere la custodia del figlio e salvarlo è lungo.
Riceverà dopo qualche giorno una telefonata dalla polizia che lo informa che sua ma-
dre ha ucciso Mina, nella convinzione che fosse l’unico modo per salvare il bambino.
timi anni in cui il mercato è stato invaso dal cosiddetto “junk food”, il cibo
spazzatura. Comune alle due condizioni è la ruminazione continua sui
temi sopra riportati ma anche sui “sentimenti di colpa” dopo violazioni,
anche involontarie, delle rigide regole alimentari, che portano, di solito, a
un loro ulteriore irrigidimento.
Nell’ortoressia è frequente anche lo sviluppo di una farmacofobia nei
confronti della medicina tradizionale con un crescente orientamento ver-
so medicine alternative (omeopatiche, naturistiche ecc.) la cui efficacia e
innocuità sono tutt’altro che provate.
Un aspetto drammatico di questa condizione (ma anche di altre, come,
ad esempio, il veganismo)13, che non deve essere sottovalutato, è che in
questa visione ossessivo/paranoide della purezza dei cibi vengono coin-
volti, spesso fin dalla nascita, anche i figli che sono così esposti a problemi
di malnutrizione anche gravi per la loro salute se non per la loro vita.
è paradossale, in questi casi, che debba intervenire un giudice a stabilire
con una sentenza quante volte a settimana il bambino debba mangiare
carne, con buona pace dei genitori vegani o vegetariani.
In definitiva, un comportamento che potrebbe essere di base logico,
razionale, tuttalpiù originale ma non dannoso o pericoloso, può trasfor-
marsi in una “religione” fanatica che travolge l’individuo su tutti i versan-
ti, fisico, psicologico e sociale, e può diventare un grave fattore di rischio
per coloro che dipendono dal soggetto che ne è affetto, con l’aggravante
che l’assoluta mancanza di coscienza di malattia (insight) ne rende diffi-
cile la cura.
Se è vera l’impressione che la prevalenza dell’anoressia stia gradata-
mente diminuendo, l’ortoressia ha ottime probabilità di raccoglierne l’e-
redità e di proporsi come l’anoressia del terzo millennio.
cibo cattivo è predefinita dal concetto filosofico che lo sottende, cioè il rifiuto totale di ogni tipo di
sfruttamento degli animali (e dei loro prodotti, uova, latte ecc.).
1 Ai bambini americani si racconta la storiella del piccolo George Washington che, a sei anni,
pur in previsione di una punizione, ammette virilmente al padre, di essere stato lui ad abbattere con
un’accetta l’albero di ciliegio e che il padre lo loda dicendo: «George, dopo tutto sono contento che tu
abbia abbattuto l’albero, perché sentirti dire la verità anziché una menzogna è meglio di mille ciliegi».
2 Intervista al San Francisco Chronicle, 28 ottobre 1982.
3 Voi siete la luce del mondo; una città posta sopra un monte non può essere nascosta (Matteo
5:14) è una frase del Discorso della Montagna.
4 La nascita degli Stati Uniti d’America è stata opera dei discendenti dei Padri Pellegrini,
protestanti puritani, seguaci di un movimento sorto dal calvinismo inglese, che si proponevano di
riportare la fede alla lettera delle Sacre Scritture, ripulendola dai compromessi del cattolicesimo.
In particolare erano decisamente contrari al concetto cattolico della “riserva mentale” tant’è che
la formula del giuramento dei funzionari pubblici e di coloro cui viene concessa la cittadinanza si
conclude sempre con: “senza alcuna riserva mentale”.
sue osservazioni franche, impavide, con il suo sano disprezzo naturale per
qualsiasi tipo di prova! Dopotutto, che cosa è una bella menzogna? Sempli-
cemente quello che è dimostrazione di se stesso. Se un uomo è tanto privo di
fantasia da produrre prove a sostegno della menzogna, tanto vale che dica
subito la verità. No! Gli uomini politici non contano».
La politica è certamente un luogo privilegiato per la menzogna [72]
ma sarebbe riduttivo assimilare i due termini senza tener conto che, la
menzogna, per poter funzionare, ha bisogno della veridicità come norma
a cui fare riferimento. A variare è il rapporto fra veridicità e menzogna e
probabilmente, nel discorso politico, il rapporto tende a essere a favore
della menzogna strumentale. Non sono mancati tentativi di bandire la
menzogna dalla politica (la dottrina gandhiana ne è un illustre esempio)
ma in generale la politica è stata considerata una riserva naturale per la
sua protezione.
Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi stru-
menti, non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quel-
lo dello statista. Perché è così? E che cosa significa ciò, da un lato, per la
natura e la dignità dell’ambito politico e, dall’altro lato, per la natura e la
dignità della verità e della sincerità?
Con queste parole Hannah Arendt [7] inizia un suo famoso articolo,
Verità e Politica, in cui sottolinea il ruolo dei media nel fare da cassa di
risonanza agli inganni e agli autoinganni dei politici che, in questa epoca,
avrebbero raggiunto le loro vette più alte e la menzogna sarebbe diventata
completa e definitiva: il trionfo della menzogna! E pensare che, già meno
di un secolo prima, Oscar Wilde aveva attribuito questa presunta deca-
denza ai politici, agli avvocati e ai giornali! [196]
Ma già nel 1943 (nel pieno della seconda guerra mondiale!) Koyré
[115] scriveva:
Non si è mai mentito tanto come ai nostri giorni. Né mentito in maniera
così spudorata, sistematica e costante [...] È incontestabile il fatto che l’uo-
mo abbia sempre mentito. Mentito a se stesso. E agli altri.
Koyré si riferiva ai regimi totalitari di allora, ma le cose non sono di-
verse oggi: il “cittadino” respira la menzogna, è totalmente sottomesso a
essa: saremmo veramente ingenui se pensassimo che oggi non accada lo
stesso magari grazie ai raffinati strumenti mediatici di cui disponiamo.
Tornando a quegli anni e a quei regimi, non possiamo non fare men-
zione del fatto che, nel 1920, uno dei punti programmatici del nascente
Partito Nazionalsocialista tedesco recitava:
Joseph Goebbels, uno dei più importanti gerarchi del regime, spiegava così la grande
menzogna: «Se proclami una bugia colossale e continui a ripeterla, arriverà il momento
in cui le persone crederanno a questa bugia. Comunque essa può sopravvivere solo se lo
Stato riesce a isolare le persone dalle conseguenze politiche, economiche e militari della
menzogna. Diventa quindi di importanza vitale che lo Stato usi tutto il suo potere per
reprimere il dissenso, perché la verità è il nemico mortale della menzogna e quindi, in
linea generale, la verità è la più grande nemica dello Stato».
5 A onor del vero, Mein Kampf, al di là della teorizzazione della menzogna, era una lucida e
chiara esposizione del progetto politico di Hitler e una dettagliata illustrazione dell’organizzazione
del movimento, della politica estera, dell’espansione verso l’Est ecc.: tutto questo era sotto gli occhi
dei tedeschi ma anche dei governi degli altri Paesi, che pure non fecero nulla per contrastare Hitler.
Paradossalmente, la grande tragedia europea del secolo scorso è nata e cresciuta sulla verità! Proba-
bilmente Hitler pensava che le sue dichiarazioni non sarebbero state prese sul serio e così, dicendo
la verità, ha depistato i suoi avversari.
Vale la pena fare una breve digressione su questo romanzo, una delle più cupe di-
stopìe6 del secolo scorso, che ci proietta in un desolato e desolante Medioevo post-nu-
cleare, in una Terra dominata da tre grandi potenze totalitarie, – Oceania (Americhe,
7 La situazione è uguale anche nelle altre due potenze, cambiano solo i nomi, Neobolscevismo
in Eurasia e Culto della Morte in Estasia.
8 Winston Smith, il protagonista del romanzo, lavora proprio in questo ministero aggior-
nando (e manipolando) costantemente le notizie dei giornali e dei libri, in modo tale da rendere
infallibile la strategia del partito.
a uno stadio infantile. Il mancato sviluppo del linguaggio, e quindi del pensiero, rende
le persone facilmente manipolabili e vittime inconsapevoli del bipensiero9, cioè della
logica della contraddizione che è alla base del dominio del Socing: ogni cosa può essere
e non essere; gli stessi slogan del partito affermano: la guerra è pace, la libertà è schiavi-
tù, l’ignoranza è forza. Tutto nell’ottica dell’Ortodossia perché Ortodossia significa non
pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza.
Lasciamo che, chi è interessato, si goda il piacere di leggere il romanzo e conoscere
la storia del protagonista, Winston Smith. Ciò che a noi interessa in questa sede è
enfatizzare, attraverso un paradosso, a quale livello può giungere la menzogna, la fal-
sificazione, in politica.
Nel 431 a.C., Pericle realizzò pienamente la democrazia in Atene e le diede un fonda-
mento teorico. Idea centrale di Pericle fu che l’assemblea di tutti i cittadini ateniesi,
l’Ecclesia, avesse il diritto di decidere il destino di Atene senza altri limiti se non quelli
imposti da se stessa. Egli riteneva la democrazia la forma più evoluta di governo, per
cui Atene, madre della democrazia, poteva e doveva considerarsi Scuola della Grecia.
Sul piano culturale Pericle incentrò la celebrazione della democrazia intorno al
concetto di kleos (κλέος), cioè la fama che si riverbera nel tempo, dando luogo a una
memoria. Mentre in precedenza il kleos era raggiungibile solo dagli aristocratici, o da
chi avesse i mezzi necessari per far celebrare le proprie gesta attraverso canti, monu-
menti e opere in suo ricordo, la democrazia offrì al cittadino comune, la possibilità di
consegnare il suo nome alla storia attraverso la partecipazione attiva all’assemblea.
Pericle riteneva che gli ateniesi, avendo sviluppato l’economia di mercato, si fossero
svincolati dalle rigide norme precostituite dalla tradizione, rendendosi individui liberi
e in grado di far funzionare la libera assemblea democratica gestendo così il governo
della città in ogni suo aspetto. Le funzioni dei vari apparati governativi, amministrati-
vi, giudiziari e militari erano prerogativa diretta dell’Ecclesia, che sceglieva i cittadini
destinati alle diverse mansioni, riservandosi il diritto di controllo permanente sulle
loro attività e di revoca dalle loro cariche in qualsiasi momento.
La funzione giurisdizionale aveva un’enorme importanza nella democrazia atenie-
se, perché non si limitava a risolvere le controversie tra i cittadini, ma stabiliva anche
se essi avessero adempiuto alle loro mansioni pubbliche e ai loro doveri religiosi, oltre
che deliberare sulla conformità delle decisioni popolari rispetto alla costituzione di
Atene.
La democrazia ateniese fu soppressa dai Macedoni nel 322 a.C.
10 Nei regimi dittatoriali l’unica informazione possibile è quella di regime che non può che
fornire informazioni positive privando (o, piuttosto, privandosi) i dittatori dell’importante perce-
zione del Paese reale.
L’eminenza grigia
delle eminenze grigie, che non sembra abbia in qualche modo brigato
per diventare il consigliere del cardinale Richelieu ma diventandolo in
maniera eccelsa una volta chiamato a farlo.
Ben altra storia è quella di Licio Gelli, eminenza grigia sui generis, nel
senso che la sua vita è stata tutta una trama complessa, finalizzata alla
conquista del potere attraverso, sembra, un colpo di stato.
Licio Gelli partecipa, a 18 anni, come volontario delle Camicie Nere, alla guerra civile
spagnola; nel ’42, in qualità di ispettore del Partito Nazionale Fascista, viene incarica-
to di trasportare in Italia il tesoro del re Pietro II di Jugoslavia: al momento della sua
restituzione, nel ’47, mancano 20 tonnellate di lingotti d’oro in parte, sembra, spediti
in Argentina e in parte nascosti nelle fioriere di villa Wanda, la sua residenza. Nel ’43
aderisce alla Repubblica di Salò ma quando si rende conto che il nazi-fascismo sta per
perdere la guerra, passa nelle file dei partigiani.
Nel ’56 è direttore generale della Permaflex a Frosinone e il suo ufficio è frequen-
tatissimo da politici, vescovi, ministri, generali. Nel ’63 è iniziato alla massoneria e in
breve tempo diventa maestro venerabile di una loggia “coperta”, la P2 (Propaganda
2), che vede crescere rapidamente il numero dei suoi affiliati e, quasi tutti, in posizioni
chiave nella politica, nelle forze armate, nell’amministrazione dello stato, nel giornali-
smo, insomma tutto il Gotha dell’affarismo politico11.
Gelli è stato implicato in vari scandali, dal presunto colpo di stato Borghese al fal-
limento del Banco Ambrosiano. È stato condannato per procacciamento di notizie
contenenti segreti di Stato; per calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colom-
bo, Turone e Viola; per calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato
di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna (10 anni) e per bancarotta
fraudolenta (Banco Ambrosiano) (12 anni).
È morto nel 2015 a 96 anni nella sua villa Wanda di cui era stato nominato curatore
giudiziario dopo che tutte le aste tenute per venderla erano andate deserte.
11 Negli elenchi degli affiliati (che si ritengono incompleti perché un certo numero di adepti
sarebbe stato noto solo a lui: “all’orecchio” come si dice in gergo massonico) figurano i nomi di
Silvio Berlusconi, Vittorio Emanuele di Savoia, Fabrizio Cicchitto (deputato), Maurizio Costanzo,
Gino Birindelli (ammiraglio), Luigi Bisignani (faccendiere), Roberto Calvi (banchiere), Ferruccio
De Lorenzo (deputato), Franco Di Bella (direttore Corriere della Sera), Roberto Gervaso (scrittore),
Gian Adelio Maletti (capo controspionaggio), Luigi Mariotti (deputato), Vito Miceli (capo Servizio
Informazioni Difesa), Duilio Poggiolini (direttore servizio farmaceutico nazionale), Gustavo Selva
(giornalista), Michele Sindona (banchiere), Gaetano Stammati (Ragioniere Generale dello Stato,
più volte ministro) e molti altri: 209 fra militari e forze dell’ordine, 67 uomini politici, 52 dirigenti
ministeriali, 49 dirigenti di banca, 47 industriali, 38 medici, 36 docenti universitari e così via, per
un totale di 842 soggetti. Fra gli iscritti figuravano anche Claudio Villa, Gino Latilla e Alighiero
Noschese!
12 Il Club Bilderber prende il nome dall’Hotel de Bieldberg (Paesi Bassi) dove si tenne la pri-
ma riunione, nel ’52, per iniziativa di David Rockefeller, di persone autorevoli nei settori politico,
economico e militare, col fine di favorire la cooperazione tra Europa e Stati Uniti. Molti dei parte-
cipanti al Club, che si riunisce una volta l’anno in località diverse, sono capi di Stato, ministri del
Tesoro, politici ed esponenti di spicco dell'alta finanza europea e anglo-americana. Mario Monti è
membro del Consiglio direttivo.
13 La Trilaterale, Fondata nel ’73 da David Rockefeller, è un gruppo di studio non governativo
lizzato ad alcune riforme del titolo V della Costituzione, la sostituzione del Senato con una “Camera
delle autonomie” e l’approvazione di una nuova legge elettorale; il patto si è sciolto nel 2015 con
l’elezione a Presidente della Repubblica di Sergio Mattarella, sgradita a Berlusconi.
2006, alla fine del mandato di Carlo Azelio Ciampi, lo propose come can-
didato alla presidenza della Repubblica (fu poi eletto Giorgio Napolitano)
e più tardi, nel 2016, quando lo stesso Berlusconi dovette sottoporsi a un
intervento al cuore, gli affidò, a tutti gli effetti, la gestione del suo partito,
Forza Italia.
In circostanze particolari possono assurgere al ruolo di eminenza
grigia soggetti che sono chiaramente psicopatici quando non psicotici.
L’esempio più clamoroso è quello di Rasputin nella Russia degli zar.
Senza alcun titolo nobiliare e semianalfabeta, Grigorij Efimevič detto Rasputin (che
significa “depravato”) ammaliò lo zar Nicola II e tutta la corte.
Alto, vestito di una lunga tonaca nera, uno sguardo penetrante, quasi da folle, dotato
di una sciolta parlantina, si autoproclamava veggente e guaritore e si diceva guidato
dal volere di Dio.
Entrò in contatto con la Corte, nel 1907, fermando una grave emorragia di Alessio,
il figlio dello Zar Nicola II, affetto da emofilia16: acquistò così un enorme ascendente
sulla famiglia reale e soprattutto sulla zarina, attraverso la quale influenzava le deci-
sioni dell’insicuro Nicola II. Nel frattempo era scoppiata la prima guerra mondiale e
l’esercito russo, impreparato e male equipaggiato, subiva devastanti sconfitte. Raspu-
tin conduceva una vita sempre più depravata coinvolgendovi, sembra, anche la zarina
e le sue figlie.
Membri della casa reale, che in precedenza avevano simpatizzato con Rasputin, si
erano trasformati in accaniti nemici e avevano deciso di eliminarlo. Per inspiegabi-
li ragioni, ucciderlo fu un’impresa granguignolesca: nonostante il “monaco” avesse
trangugiato una quantità incredibile di madera – il suo vino preferito – e di dolci,
entrambi “corretti” con il cianuro, appariva solo ubriaco e perciò un congiurato gli
sparò alla schiena pensando che sarebbe morto dissanguato, ma dopo un’ora era an-
cora vivo e cercava di uscire dalla casa; gli spararono quattro colpi di pistola di cui due
andarono a segno, uno alla testa e uno alla spalla ma lui cercava ancora, strisciando, di
raggiungere il cancello. Sembra che a questo punto sia stato anche preso a randellate
e pugnalate, ma quando lo avvolsero in una coperta per gettarlo nella Neva, respirava
ancora: morì annegato.
Tre mesi dopo tutti i membri della famiglia reale furono arrestati e, un paio d’anni
dopo, furono massacrati, crivellati dai proiettili, infilzati con le baionette, fatti a pezzi
con seghe e asce, bruciati e le ossa rimaste gettate in una miniera che fu poi fatta saltare.
Nella nostra ricerca abbiamo incontrato poche donne che abbiano rico-
perto il ruolo di eminenze grigie: è verosimile che questo sia in larga misura
correlabile con la struttura della nostra società che ha operato una discri-
minazione sessuale al punto che, nel tentativo di sanare questa palese in-
giustizia, si è dovuti ricorrere a stabilire per legge le cosiddette “quote rosa”.
bero giunti alla conclusione che egli non fece altro che sospendere la somministrazione di aspirina.
Non piacerà molto alle donne, e alle femministe in particolare, Virginia Oldoini con-
tessa di Castiglione, che rinfacciava a sua madre di averla sposata a 17 anni al conte di
Castiglione invece di portarla a Parigi: se così fosse stato – ne era convinta – la Francia
avrebbe avuto una sovrana italiana invece che una spagnola, Eugenia.
Ambiziosa e intelligente, audace e altera, oltre che bellissima, forse la donna più
bella della sua epoca (la principessa di Metternich la definì “una statua di carne”), fin
da giovanissima era stata protagonista di storie galanti che non cessarono certamente
con il matrimonio con quello che lei chiamava “il povero becco”.
Cavour, cugino acquisito, pensò di utilizzarla per ottenere dall’imperatore francese
Napoleone III un’alleanza franco-piemontese in funzione anti-austriaca: «Usate tutti
i mezzi che vi pare, ma riuscite». Alla ventenne Virginia bastò mezz’ora d’amore con
l’Imperatore cinquantenne nella stanza azzurra del Castello di Compiègne per riusci-
re nella “delicata” missione che le era stata affidata. Per circa tre anni sarà l’amante
dell’imperatore che la ricoprirà di regali oltre a un ricco appannaggio mensile (le ma-
lelingue la battezzarono “vulva d’oro”).
Il suo posto fu poi preso dalla contessa Walewska, che ebbe breve durata. Comun-
que la stella di Virginia, nei confronti dell’imperatore, era tramonata e, tornata a Pari-
gi, dovette “accontentarsi” di tessere relazioni con personaggi importanti: si racconta
che abbia avuto 43 amanti di cui 12 contemporaneamente e l’uno all’insaputa dell’al-
tro. Morirà a Parigi a 69 anni: negli ultimi anni, per non vedere la propria decadenza
fisica, aveva tolto dalla sua casa tutti gli specchi e si copriva il volto con un velo. È
sepolta tra i grandi al cimitero Père Lachaise.
Dopo questa galleria di eminenze grigie molto serie e, alcune, anche truci, vogliano
chiudere con una che può suscitarci il sorriso (anche se non proprio liberatorio), quel-
la di Gennaro “Gerry” Salerno (molto ben interpretato da Sergio Rubini) nel film del
2011, Qualunquemente, diretto da Giulio Manfredonia.
Cetto La Qualunque (Antonio Albanese), rientrato da una lunga latitanza all’estero
con una ragazza sudamericana, che lui chiama “Cosa”, e la figlia di lei, si rende conto
che, nelle imminenti elezioni, potrebbe tornare la legalità poiché il candidato favorito,
il maestro Giovanni De Santis, potrebbe vincere ripristinando, appunto, la legalità
mettendo a rischio tutte le sue proprietà, frutto di abusi, soprusi, illegalità. Nel tenta-
tivo di scongiurare questo pericolo, fonda un suo partito formato da parenti e amici.
I sondaggi del ragioniere, falso invalido grazie a Cetto, gli sono però sfavorevoli e
questi lo mette perciò in contatto con “Gerry” Salerno, faccendiere che gli promette di
farlo vincere dietro pagamento. Sotto la guida di Gerry, Cetto si comporta in maniera
apparentemente onesta: va in chiesa, a teatro, nei comizi fa numerose promesse, ridi-
pinge l’ospedale, paga gite agli anziani, vince un dibattito televisivo con l’avversario...
ma alle elezioni il risultato è in bilico e Cetto ordina a un suo infiltrato al seggio di
riempire con il suo nome le schede bianche e in questo modo vince.
Durante i festeggiamenti per la vittoria all’elezioni, la polizia fa irruzione per arresta-
re Cosa e sua figlia perché clandestine. Gerry Salerno, pagato, torna alla propria città
portandosi via anche Cosa e sua figlia e Cetto, scongiurato il pericolo della legalità,
inaugura il lavori per il ponte sullo stretto di Messina da lui ribattezzato “ponte di pilu”.
Il limite dell’informazione
non consiste in quello che dice,
ma in quello che tace.
(Pino Caruso, Ho dei pensieri
che non condivido, 2009)
Mai, nella storia dell’umanità, gli uomini sono stati immersi nell’in-
formazione come oggi: potremmo dire che ne siamo letteralmente som-
mersi.
Dovremmo esserne felici, pensando che quanto maggiore è l’informa-
zione cui possiamo accedere tanto minore è la possibilità di essere ingan-
nati, manipolati, da coloro che ci governano, o che gestiscono l’economia
mondiale, o che amministrano la giustizia, la sanità o altro. Ma le cose non
vanno proprio così, anzi, il più delle volte, vanno nella direzione opposta.
Lo sviluppo esponenziale della tecnologia della comunicazione ha ri-
voluzionato gli strumenti attraverso cui diffondere le informazioni, ma
soprattutto ha reso possibile praticamente a tutti l’accesso ai flussi infor-
mativi nel ruolo tanto di destinatari quanto di potenziali emittenti, a li-
vello globale.
Ma andiamo con ordine.
Come scriveva Aristotele (IV secolo a.C.) nella sua Politica [10], l’uo-
mo è un animale sociale in quanto gli individui tendono ad aggregarsi
con altri e a costituirsi in società. Ma si tratta di un istinto primario o è
il risultato di altre esigenze? Poiché nasciamo e cresciamo in un gruppo
sociale, la famiglia, potremmo ritenere che l’istinto di socializzazione sia
innato. Dal nostro punto di vista, poco cambierebbe anche se ci fosse un
apprendimento poiché l’associarsi consente di soddisfare bisogni fonda-
mentali per l’individuo e per il gruppo pur comportando la necessità, in
caso di bisogno, di anteporre gli interessi del gruppo a quelli individuali.
Non ci sono dubbi che l’informazione rappresenti l’elemento più im-
portante per la sussistenza e l’equilibrio del “sistema” uomo. Di fronte al
continuo afflusso d’informazione, l’uomo non si limita a decodificare i
segnali ma si pone in un atteggiamento attivo di esplorazione. I problemi
Gli esempi abbondano. Molto scalpore ha fatto il suicidio di Tiziana, una ragazza
trentatreenne del napoletano, che si era fatta filmare durante un rapporto sessuale
con il fidanzato e che aveva inviato il video a quattro “amici” i quali lo avevano diffuso
su internet. Prima di ottenere dal tribunale la sentenza favorevole al “diritto all’o-
blio”, era passato molto tempo durante il quale la ragazza, messa al centro della gogna
mediatica, aveva cambiato città e nome con scarso successo, fino al gesto estremo.
Per dare una misura dell’ampiezza del fenomeno, è sufficiente pensare che alla frase
pronunciata dalla ragazza durante la ripresa, «Stai facendo il video? Bravo» sono state
dedicate oltre 100 mila pagine web.
Qualche anno fa a Novara, una ragazzina quattordicenne, Carolina, che aveva be-
vuto un po’ troppo nel corso di una festa, viene seguita in bagno da cinque coetanei
che la violentano a turno, filmando tutto e pubblicando il video su Facebook; qualche
tempo dopo, non reggendo alla vergogna, la ragazza si è suicidata. Anche in questo
caso il social non ha effettuato alcun controllo sulla diffusione del video tanto da dare
il tempo di diffondersi su Twitter su cui si scatenarono migliaia di messaggi offensivi.
Potremmo citare innumerevoli casi finiti nelle cronache ma sono certamente molti
di più quelli rimasti nel silenzio, il cui epilogo è stato la sofferenza psichica sotto varie
forme, spesso non curata perché la vittima, per la vergogna, non ha avuto il coraggio
di parlarne neppure con i familiari o con il medico.
Si possono fare due considerazioni, la prima è che giocare sul web con
certi contenuti è estremamente rischioso, la seconda è che chi pubblica
materiale che lo riguarda deve tener presente che è estremamente dif-
ficile, in seguito, farlo rimuovere. La legge sul “diritto all’oblio” non è
sufficiente, sia per il tempo fra la richiesta e l’esecuzione dell’eventuale
sentenza (durante il quale i contenuti continuano a girare), sia perché il
materiale viene “deindicizzato”, tolto cioè dagli indici di ricerca, ma non
materialmente cancellato (e, se anche fosse cancellato, potrebbe essere
stato scaricato da qualcuno e tornare in circolazione).
Un’altra caratteristica del social è la facilità con cui si formano grup-
pi di opinione e/o di pressione che, se finalizzati a obiettivi positivi, di
interesse sociale possono avere una loro utilità, ma se usati per finalità
improprie possono portare a conseguenze anche drammatiche. Abbiamo
visto nel capitolo Menzogna e scienza, come i media siano stati in grado di
montare campagne assurde a favore di obiettivi privi di ogni fondamento
scientifico, come la cura Di Bella e quella Stamina, imponendo sperimen-
tazioni inutili o addirittura l’obbligo di somministrare legalmente queste
cosiddette terapie. Qui vogliamo riportare un tragico evento recente su
cui si sono scatenati sul web i peggiori istinti con un finale tragico.
Poco tempo fa a Vasto una giovane donna, Roberta, sposata da poco, è deceduta vitti-
ma di un incidente stradale: un giovane alla guida di un’auto non ha rispettato il sema-
foro rosso e l’ha investita mentre era alla guida del suo motorino. L’investitore, che non
era in preda all’alcol o a droghe, si è fermato e ha chiamato i soccorsi per cui, in base
alla legge, non è stato incarcerato. La cosa non è stata accettata dagli amici della ragazza
e dal marito, che in un primo momento si son limitati a organizzare una fiaccolata che
chiedeva “Giustizia per Roberta”, ma gli eventi che ne sono seguiti hanno fomentato il
risentimento del giovane vedovo al punto da cercare vendetta uccidendo il responsa-
bile dell’incidente. L’episodio, infatti, aveva scatenato su Facebook “cori” drammatici a
favore o contro i protagonisti di questa tragica storia (in uno degli ultimi gruppi nati,
che si chiamava ‘La giusta fine’, si leggevano commenti pesantissimi contro l’investito-
re). Una deriva inarrestabile, fino al tragico epilogo, cui hanno fatto da controcanto le
dichiarazioni soft delle tre famiglie, loro malgrado coinvolte nel dramma.
Pisa è stata la culla dell’informatica nazionale. Nel 1965, infatti, nasceva il Centro
Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico – CNUCE il cui cuore era un compu-
ter 7090 donato dall’IBM, istallato in due prefabbricati a temperatura stabilizzata, al
quale si portavano – pedibus calcantibus – i dati su schede perforate (rigorosamente
ordinate!), dalla cui elaborazione si ottenevano pacchi di tabulati. Nel ’70 il 7090 era
già obsoleto e fu sostituito dal 360/158 che avrebbe consentito l’accesso online e in
time-sharing... linee telefoniche (scarsamente affidabili) permettendo. Poi i gestori te-
lefonici si accordarono su standard e connessioni e i contatti sono diventati più facili.
Solo negli anni ’90, l’informatica uscì dal campo dello studio e della ricerca per di-
ventare rapidamente un mezzo “di consumo”, conquistandosi ben presto uno spazio
anche nel campo della patologia psichica.
re: finché c’è dialogo non può esserci guerra. Ma dobbiamo anche tener
conto che internet è stato messo nelle mani degli uomini e l’esperienza ci
insegna, da sempre, che anche lo strumento migliore può essere usato nel
modo peggiore. È saggio, perciò, non abbassare mai la guardia per non
diventare vittime di hacker e cercare di educare gli utenti a un uso cor-
retto, civile, rispettoso della pluralità di opinioni in modo da evitarne (o
limitarne) usi distorti e abusi, di alcuni dei quali abbiamo già accennato e
di altri diremo qui di seguito.
Cyberbullismo
L’impatto dei mutamenti socio-culturali provoca, quasi sempre, una
sorta di restyling dei comportamenti che, in passato, si manifestavano in
“vesti” diverse.
Prendiamo, ad esempio, il bullismo, un comportamento aggressivo in-
tenzionale, reiterato, messo in atto, in genere, da un gruppo di persone,
meno frequentemente da un solo individuo, nei confronti di un soggetto
che non è in grado di difendersi. Il fenomeno del bullismo è sempre esisti-
to: è più frequente fra le persone giovani che condividono gli stessi spazi
per diverse ore della giornata e perciò si osserva soprattutto a scuola, in
collegi, ma anche in ambienti di aggregazione extrascolastica e addirit-
tura di lavoro. In passato, quando era ancora attivo il servizio militare di
leva, la caserma era luogo di elezione del “nonnismo” (così si chiama il
bullismo in quel contesto) dove spesso i bulli, i “nonni”, erano i militari
più anziani, magari spalleggiati dai graduati di più basso livello, i caporali.
Nella scuola si realizza, necessariamente, la coesistenza di soggetti di
temperamento e carattere diverso, dai più timidi, scarsamente socializ-
zanti e più concentrati nello studio, ai “maschi alfa”, soggetti portati mol-
to di più alle attività fisiche, ai giochi violenti, alla competizione, che allo
studio. Sono di solito questi, spesso riuniti in piccoli gruppi, che prendono
di mira qualcuno dei ragazzi introversi, schernendoli, taglieggiandoli fino
a esercitare su di loro, nei casi estremi, violenze anche gravi. Il gruppo è
fondamentale, i soggetti si spalleggiano gli uni con gli altri sentendosi più
forti, imbattibili e giustificati nel momento in cui, con minacce e ritorsio-
ni, ottengono la sottomissione della vittima che, assolutamente passiva,
non denuncerà mai la situazione né a scuola né a casa consolidandola,
così, nel tempo e nell’escalation di violenza. Non eccezionalmente, il bullo
è stato a sua volta vittima di bullismo.
In passato il bullismo era un fenomeno esclusivamente, o quasi, ma-
schile. Negli ultimi anni, sempre più frequentemente la cronaca riporta
Cyberstalking
Nel febbraio del 2017 è stata aperta una pagina Facebook che invitava a usare violenza
a Bebe Vio, la campionessa paraolimpica di scherma. La pagina, dopo ripetute segna-
lazioni da parte di utenti di Facebook e la denuncia del Codacons2 all’Autorità giu-
diziaria, è stata rimossa. Sono state avviate anche indagini per individuare i soggetti
responsabili e adottare gli eventuali provvedimenti sanzionatori.
1 Spesso le donne cadono nell’inganno scambiando, con grande ingenuità, i soprusi del
partner per segnali d’amore: è la classica sindrome di Desdemona (vittima della gelosia del marito
Otello – vedi Cap. I).
2 Codacons - Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli
utenti e dei consumatori.
Hate speech
Nel capitolo precedente abbiamo accennato al fatto che la rete sia ca-
pace di scatenare gli istinti peggiori, abbiamo visto come possa porta-
re soggetti, sottoposti alla gogna mediatica, al suicidio, o, come nel caso
dell’episodio di Vasto, si siano scatenati su Facebook, per un malinteso
senso di giustizia, “cori” a favore o contro i protagonisti di quella tragica
storia: un gruppo in particolare ha rinfocolato lo spirito di vendetta del
marito della vittima, rimasto vedovo a breve distanza dal matrimonio,
sostenendolo anche dopo l’omicidio su un sito dalla denominazione elo-
quente, “La giusta vendetta”.
Siamo all’apoteosi dell’hate speech, il linguaggio dell’odio (o di incitamen-
to all’odio), che, oltre al cyberbullismo e al cyberstalking, si esprime con il
revenge porn, cioè la diffusione online di immagini intime, rapporti sessua-
li, stupri, senza il consenso della vittima o addirittura per vendetta (come
capita talora quando una relazione sentimentale viene interrotta unilate-
ralmente), il sexting (invio di materiale di varia natura a sfondo sessuale), il
grooming (adescamento di minori), l’incitamento all’odio (raziale e non), le
violenze verbali e altro ancora. Tutti comportamenti diretti contro soggetti
più deboli (donne, bambini), o percepiti come diversi per orientamento
sessuale, religione, colore della pelle, condizioni economico-sociali. Fra i
settori in cui questi comportamenti si manifestano in maniera particola-
re, non dobbiamo dimenticare le tifoserie sportive che trovano nel web un
prolungamento del tifo da stadio più becero e violento.
Si calcola che, fra coloro che navigano in rete (in Italia sono circa 30
milioni), oltre un terzo sia stato più o meno violentemente attaccato, of-
feso, insultato, denigrato in varie maniere, ma sono molti di più (forse i
due terzi) se si considerano anche coloro che si sono imbattuti, magari
sporadicamente, in mail, blog, video, immagini, offensive o violente.
È diventato un comportamento ampiamente diffuso quello di scarica-
re la rabbia, l’odio, l’intolleranza, la violenza, coperti dall’anonimato della
rete: tutti eroi sapendo di non correre rischi poiché ancora non abbiamo
alcuna legge ad hoc e, anche se ci fosse, possiamo immaginare le difficoltà
della sua applicazione. Secondo una recente indagine SGW (2017), il 15%
degli intervistati ammette di conoscere direttamente persone (amici, fa-
miliari, conoscenti) che creano e condividono hate speech e un altro 15%
ammette di frequentarle solo online.
L’hate speech ha una diffusione virale, si diffonde rapidamente in tutto
il mondo poiché trova con estrema facilità supporter che fanno da cassa
di risonanza amplificandone la diffusione e, spesso, aggiungendo ulteriori
espressioni di odio e di violenza e includendo fra le vittime nuovi soggetti.
Imbattersi nell’hate speech, anche senza esserne oggetto, suscita senti-
menti di disagio, di fastidio, di amarezza, d’imbarazzo, quando non moti
di rabbia, in parte sostenuti dall’evidenza che ben poche sono le voci che si
levano contro questa barbarie e pochissime quelle autorevoli. Chi si trova
a esserne oggetto non può che sentirsi isolato, indifeso, non trovando ade-
guato appoggio nei gestori dei social network – ancora molto lenti a inter-
venire (quando intervengono!) – e nella giustizia che, comunque, non ha,
come abbiamo detto, strumenti legislativi adeguati. È diffusa anche la paura
che, intervenendo, ci si possa esporre e diventare vittime a propria volta di
questi moderni “untori” dell’odio le cui capacità sono probabilmente so-
pravvalutate, come dimostrano chiaramente la qualità degli insulti e delle
violenze perpetrate e i bersagli contro cui sono generalmente diretti.
È ragionevole chiedere alle forze dell’ordine e al legislatore di inter-
venire efficacemente, ma è altrettanto ragionevole chiedere ai gestori dei
social network un’azione più decisa di filtro contro queste espressioni di
inciviltà. Un primo passo potrebbe essere consentire al solo proprietario
di postare sul proprio sito e cancellare tempestivamente (se non preven-
tivamente) interventi chiaramente violenti, offensivi, istiganti all’odio e/o
al crimine. La prima prevenzione è tuttavia quella dell’utente, che deve
essere cauto nell’affidare ai social informazioni personali.
3 Riportiamo, a titolo di esempio, alcune delle regole del Blue Whale Challenger (vedi il Gior-
nale.it):
1 - Incidetevi sulla mano con il rasoio “f57” e inviate una foto al curatore
2 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e guardate video psichedelici e dell’orrore che il curatore vi
invia direttamente
avesse notato qualcosa: solo dopo che è stata data pubblicità al caso, com-
pagni, genitori, insegnanti, hanno incominciato a notare i segni tipici del
“gioco”. Sul problema dell’autenticità del Blue Whale Challenger ci sono
comunque punti ancora oscuri.
Dipendenza da internet
3 - Tagliatevi il braccio con un rasoio lungo le vene, ma non tagli troppo profondi. Solo tre tagli,
poi inviate la foto al curatore
5 - Se siete pronti a “diventare una balena” incidetevi “yes” su una gamba
10 - Dovete svegliarvi alle 4.20 del mattino e andare sul tetto di un palazzo altissimo
11 - Incidetevi con il rasoio una balena sulla mano e inviate la foto al curatore
12 - Guardate video psichedelici e dell'orrore tutto il giorno
14 - Tagliatevi il labbro
17 - Andate sul tetto del palazzo più alto e state sul cornicione per un po’ di tempo
18 - Andate su un ponte e state sul bordo
19 - Salite su una gru o almeno cercate di farlo
26 - Il curatore vi dirà la data della vostra morte e voi dovrete accettarla
27 - Alzatevi alle 4.20 del mattino e andate a visitare i binari di una stazione ferroviaria
28 - Non parlate con nessuno per tutto il giorno
dalla 30 alla 49 - Ogni giorno svegliatevi alle 4.20 del mattino, guardate i video horror, ascoltate
la musica che il curatore vi manda, fatevi un taglio sul corpo al giorno, parlate a “una balena”
50 - Saltate da un edificio alto. Prendetevi la vostra vita.
sociali tanto che è considerato disadattivo il loro non uso. Per non parlare
della funzione di gratificazione e di stimolo del “mi piace” di Facebook o
dei follower di Twitter, che inducono ad aumentare i contenuti condivisi,
e a spendere sempre maggior tempo online. Le relazioni tra utenti di que-
ste piattaforme sono, erroneamente, ritenute prive di ripercussioni sulla
vita reale, meno dannose, tanto che si può arrivare a preferire a quelle
reali le amicizie virtuali che rappresentano invece un reale isolamento.
Interessati in quanto ci fanno intravedere la possibilità di uno sviluppo
futuribile del software informatico sono due film, uno risalente addirittura
al 1980, in cui, con approccio diverso, umoristico il primo, drammatico/
sentimentale il secondo, viene affrontato il problema della dipendenza da
computer.
Premonitore dei possibili effetti paradossali del rapporto uomo/computer (sotto for-
ma di robot) è il film di Alberto Sordi del 1980, Io e Caterina, in cui un robot tuttofare
dalle fattezze femminili, Caterina, finisce per sottomettere ai propri voleri il maschili-
sta Melotti (Sordi) che l’aveva acquistato.
Melotti, che considera le donne solo per ciò che possono dargli (affetto, sesso e pre-
stazioni lavorative), è in difficoltà con tre donne della sua vita, la moglie, la segretaria-
amante e la domestica Teresa. Durante un viaggio in America, scopre che l’amico Artu-
ro ha risolto i suoi stessi problemi con il robot Caterina, che svolge alla perfezione tutte
le faccende al costo di un po’ di energia elettrica: una sola cosa lo lascia perplesso, una
sorta di apprensione del robot nei confronti di Arturo, tipica di una compagna umana,
ma non gli dà peso.
Tornato in Italia, si trova nuovamente invischiato nelle beghe delle tre donne e de-
cide di rompere i rapporti con loro e di acquistare (anche se a caro prezzo) un robot
Caterina. Tutto sembra andare per il meglio finché, durante una visita della ex moglie,
il robot dà strani segni di inquietudine; qualche tempo dopo, Melotti invita a casa una
giovane molto bella, Elisabetta (Edwige Fenech), nei confronti della quale Caterina si
mostra ostile al punto che, quando i due decidono di passare la notte insieme, perde il
controllo, mette a soqquadro la casa e tenta, addirittura, di uccidere il suo padrone.
Viene chiamato l’ingegnere costruttore, al quale Caterina, che ha ormai sviluppato
un’autonomia pressoché totale, si mostra tranquilla e remissiva per evitare che le ven-
ga sostituito qualche componente; ma rimasta sola col proprietario, detta la proprie
condizioni: lei lo servirà alla perfezione, solo se lui avrà per lei il rispetto e la dedizione
dovute a una donna vera. E quando una ragazza conosciuta in America gli chiederà di
ospitarla, lui dovrà opporle un energico rifiuto a scanso di guai con Caterina.
Hikikomori
Verso la fine degli anni ’80, il Giappone andò incontro a una grave crisi
economica e parallelamente si incominciò a osservare un fenomeno che
colpiva quasi esclusivamente giovani. Lo psichiatra Tamaki Saito [162] lo
definì “Hikikomori”, termine che significa “isolarsi”, “stare in disparte”,
poiché la caratteristica comune era rappresentata da una volontaria esclu-
sione sociale, un isolamento totale all’interno della propria casa, senza con-
tatti né con l’esterno né con gli stessi familiari. Inizialmente il fenomeno fu
meno che, in precedenza era semplicisticamente bollato come pigrizia o indolenza o considerato
il prodotto di una bizzarria culturale delle nuove generazioni, dal nome esotico, quasi un atteg-
giamento messo in atto volontariamente. Forse si riferiva a questi giovani che avevano difficoltà
ad adattarsi a un contesto sociale ed economico complesso il ministro Tommaso Padoa Schioppa
quando, nel 2007, diceva «Mandiamo i “bamboccioni” fuori di casa».
La realtà virtuale
Così è se vi pare!
1 Gli Oxford Dictionaries sono diversi dall’Oxford English Dictionary (OED) che illustra
come le parole e i loro significati sono cambiati nel corso del tempo.
2 La decisione degli Oxford Dictionaries è dovuta al fatto che l’impiego di questa parola è
cresciuto, nel 2016, del 2000%.
3 L’Accademia della Crusca, fondata nel 1583, è la più importante e prestigiosa istituzione
linguistica italiana il cui impegno è volto alla difesa della purezza della lingua.
I due candidati, Donald J. Trump e Hillary R. Clinton, non si sono certamente ri-
sparmiati i colpi bassi, anche se quelli di Trump sono stati molto più clamorosi (e del
resto lui stesso si è definito “bullshitter”, cioè contaballe). La principale “bufala” è stata
forse quella secondo cui il Presidente uscente, Barack Obama, non sarebbe nato negli
USA (come prescrive la Costituzione), che sarebbe stato mussulmano e che, addirit-
tura, sarebbe stato “il fondatore”, assieme a Hillary Clinton, dell’ISIS (salvo dire, più
tardi – tipica post-verità! – che non intendeva “fondatore” in senso letterale, ma che,
lasciando l’Iraq rapidamente, aveva creato un vuoto che era stato occupato dai ter-
roristi) [188]. Trump ha speculato su una presunta malattia della rivale e sulle storie
extraconiugali del marito, Bill Clinton, ha minacciato di farla incriminare per l’affaire
delle email5 e altre amenità.
4 Aldo Moro, giurista, è stato un esponente politico della Democrazia Cristiana (di cui è
stato anche segretario politico); ha fatto parte dell’Assemblea Costituente, per due volte Presidente
del Consiglio, fu rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo. Era
stato il protagonista della cosiddetta “strategia dell’attenzione” nei confronti del Partito Comunista
Italiano che portò al governo di “solidarietà nazionale”, guidato da Giulio Andreotti, che includeva
anche quel partito: quel governo si presentava alle Camere proprio il giorno in cui Moro fu rapito.
5 Nei quattro anni in cui era segretario di Stato americano, Hillary Clinton ha usato sempre e
solo il suo indirizzo personale di posta elettronica anche per la corrispondenza di lavoro: in questo
modo, le autorità federali non hanno potuto acquisire i registri delle sue comunicazioni professio-
nali, come da prassi per chi ricopre incarichi pubblici, e questo potrebbe configurarsi come una
violazione della legge.
I punti salienti della campagna elettorale di Trump sono stati: costruire un muro al
confine con il Messico, deportare due milioni d’immigrati illegali, abolire la riforma
sanitaria di Obama, ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, abolire la
legge sulle nozze gay, rompere alcuni accordi commerciali internazionali, dichiarare
guerra commerciale alla Cina e approvare un decreto fiscale per diminuire le tasse
della classe media al 35%.
A meno di un mese dalla sua elezione, ha dichiarato di voler mantenere gli aspetti
fondamentali della riforma sanitaria, che in alcune parti del confine con il Messico
può essere sufficiente una recinzione più che un muro, che espellerà solo gli immigrati
senza documenti, che sta ripensando al problema del clima, che le nozze gay sono
già regolate da una legge e, inoltre, che non cercherà di mandare in galera la Clinton.
Tutto questo apparentemente in stile post-verità: menzogne e annunci clamorosi per
ottenere un risultato e, una volta ottenutolo, fare marcia indietro, ridimensionare.
Ma non è andata proprio così. Non appena insediato alla presidenza, non solo ha
continuato il suo bombardamento di twitter aggressivi come quelli della campagna
elettorale, ma sono partiti a raffica ordini esecutivi che hanno distrutto praticamente
tutto ciò che Obama aveva fatto in otto anni di presidenza. Ha confermato il muro
con in Messico (che intende far pagare al Messico stesso attraverso dazi doganali);
ha bloccato da un momento all’altro l’accesso agli Stati Uniti ai migranti (ma anche
ai cittadini che lavoravano per gli USA, come gli interpreti) provenienti da sette Paesi
islamici6 e di religione mussulmana (sono previsti test agli aeroporti) e questo ha crea-
to non pochi problemi agli aeroporti nei quali queste persona stavano per imbarcarsi;
ha annullato le delibere di Obama sugli oleodotti in aree protette; ha annullato accordi
economici internazionali con l’intento di sostituire gli accordi di libero scambio con
accordi bilaterali nei quali, evidentemente, il peso del mercato USA è più forte; ha
praticamente imposto agli industriali di produrre solo negli USA pena pesanti dazi
doganali.
Alcuni di questi “ordini esecutivi” sono stati bloccati dalle agenzie federali; l’abo-
lizione della riforma assistenziale di Obama è stata bloccata dal Congresso; l’accordo
economico tra Stati Uniti, Canada e Messico non è stato abolito; è entrato in “rotta
di collisione” con la Corea del Nord e altro ancora: sarà interessante (speriamo non
drammatico) vedere come evolverà questa presidenza, sia a livello interno che estero,
tenendo conto della rete di sottili e precari equilibri costruiti nel secondo dopo guerra
e soprattutto con la fine della guerra fredda.
6 Fra questi Paesi non è inclusa l’Arabia Saudita, di rigida osservanza Salafita, con cui gli USA
hanno rapporti economici e politici molto stretti e coperti da impenetrabili segreti, come dimostra-
no gli eventi politici e bellici che hanno avuto il Medio Oriente come teatro principale. Da questo
Paese, inoltre, proveniva la maggior parte degli attentatori delle Twin Towers del 2001.
7 Nel settembre 2007, Beppe Grillo, un comico che si era dato alla politica e che due anni
dopo, assieme a un imprenditore del web, Gianroberto Casaleggio, fonderà un movimento politico,
il Movimento 5 Stelle, iniziò, partendo da Bologna, una serie di manifestazioni di piazza contro i
politici e la classe politica, denominate Vaffanculo day o V-Day «Una via di mezzo tra il D-Day dello
sbarco in Normandia e V come Vendetta. [...] per ricordare che dal 1943 non è cambiato niente. Ieri il
re in fuga e la Nazione allo sbando, oggi politici blindati nei palazzi immersi in problemi “culturali”».
comizi, nei dibattiti, nei blog, nei social network ecc. In realtà, i fatti non
hanno più voce, ormai contano solo le post-verità che vellicano l’emotivi-
tà, la rabbia, lo scontento, la sfiducia della gente.
Il recente referendum sull’approvazione o meno della riforma della Costituzione (4
Dicembre 2016) ha portato anche a un lievitare di interventi sui social che possono
essere definiti come veri e propri linciaggi mediatici. Pochi sono stati gli interventi
civili, razionali, in cui veniva analizzata la legge in discussione dibattendo sui conte-
nuti, in genere si amplificava, distorcendolo, qualche aspetto marginale associandovi
la salvezza o la rovina del Paese, ma soprattutto si chiamavano in causa personalmente
gli avversari (o, meglio, nemici, visti i toni usati) con argomenti lontani dall’oggetto
del contendere e con espressioni ed epiteti al limite della querela.
Tanto per citarne alcuni, un presidente di Tribunale ha paragonato su Facebook chi
vota “Sì” ai repubblichini di Salò; la firmataria della riforma, il Ministro Maria Elena
Boschi, ha paragonato i sostenitori del “No” ai neonazisti di CasaPound; quando un
giornale autorevole, per lo più straniero, si schierava per una delle due opzioni, quelli
della fazione opposta gridavano che “i poteri forti” (quali?) stavano con il nemico;
Beppe Grillo ha definito “serial killer” i sostenitori del “Sì”, ha paragonato Matteo
Renzi a una scrofa ferita e ha minacciato di denunciarlo per il reato di “abuso di cre-
dulità popolare”. Sul web sono circolate anche altre bufale, dalla presunta scelta della
moglie di Renzi di votare “No”, al ritrovamento di migliaia di schede già contrasse-
gnate con il “Sì”, all’affermazione (scherzosa?) di D’Alema che «la Madonna è per il
No»; il “Comitato per il No” ha preventivamente denunciato per brogli il presidente
del Consiglio nel caso in cui i “Sì” nel voto degli italiani all’estero fossero stati determi-
nanti per la vittoria (e Renzi è stato fortunato perché, avendo vinto il “No”, ha evitato
una denuncia!); e addirittura a urne aperte, un noto cantautore rock, Piero Pelù, ha
denunciato (subito smentito) che le matite usate per votare non erano indelebili, come
avrebbero dovuto essere.
que cosa antica, la manipolazione della verità a fini politici esiste da sem-
pre. Fino a epoca recente, l’accesso all’informazione è stato limitato dalla
scarsità dei mezzi di comunicazione e dal basso livello culturale di gran
parte della popolazione. Solo nella seconda metà del secolo scorso, il livel-
lo di scolarizzazione è nettamente aumentato, gli strumenti di comunica-
zione di massa hanno avuto un’ampia diffusione e, soprattutto nell’ultimo
quarto di secolo, sono diventati accessibili alla maggior parte dei cittadini.
Questi cambiamenti hanno ampliato enormemente l’accesso all’informa-
zione e, parallelamente, ne hanno abbassato il livello di qualità al punto
che, nel generale appiattimento, la differenza è legata alla reazione emo-
tiva, al clamore, alla sorpresa, che un’informazione suscita negli utenti.
Per di più, non solo è cresciuto a dismisura l’accesso all’informazione, ma
tutti, potenzialmente, possiamo essere fonti di informazione indipenden-
temente dalla nostra conoscenza del tema e questo ha esponenzialmente
accresciuto la Babele informativa: forse a questo si riferisce il detto «Dio
toglie prima il senno a colui che vuole mandare in rovina»9.
E tutto senza alcun filtro, vuoi per una questione di principio (la pro-
prietà dei contenuti che girano sulle piattaforme dei social è degli utenti
e non dei gestori), vuoi perché più le informazioni circolano maggiore è
il guadagno10. Chi viene preso di mira, non ha interesse a replicare per
mantenere la cosa il più possibile limitata.
nita come la qualità dei concetti o dei fatti che uno vorrebbe fossero veri, piuttosto che concetti o fatti
che sappiamo essere veri.
12 Stephen Colbert coniò questa parola nel primo episodio della serie televisiva “The Colbert
1 Allo stesso modo con cui Paesi balcanici (e non) hanno costruito muri alle loro frontiere
per impedire l’accesso ai migranti.
nale, non sono mancate bufale e aggressioni verbali nei confronti di chi
l’aveva proposta con il risultato che molti non hanno votato valutando
il merito della riforma, bensì il Presidente del Consiglio (pro o contro
Renzi). Infatti, fra i più accesi sostenitori del “No” al referendum c’erano,
oltre alla minoranza del suo stesso partito, i partiti dell’estrema destra,
quella destra “contro” la quale, nel 1948, era stata scritta la Costituzione
con il preciso scopo di prevenire nuove dittature e perciò troppo ricca di
meccanismi di controllo tanto da rendere quasi ingovernabile il Paese.
Insomma, dobbiamo concludere che la verità è morta? Forse si do-
vrebbe dire che non è mai nata – o è nata male. Proprio gli effetti, veri
o presunti, della post-truth sui principali eventi politici di cui abbiamo
detto, hanno suscitato notevole allarme nel mondo sociopolitico al punto
che tutti reclamano sistemi capaci di smascherare le fake news ristabilen-
do l’obiettività dei fatti. Proprio per ridare vita alla verità o per tentare
di ristabilire una certa obiettività si è assistito a nobili iniziative, di cui
alcune probabilmente peggiori del male che dovrebbero curare. Così, ad
esempio, è stato chiesto ai principali gestori dei social network di filtrare
le notizie che circolano sulle loro piattaforme, censurando quelle false,
ottenendo netti rifiuti. D’altra parte chi e con quale autorità dovrebbe
sceverare il vero dal falso tra i miliardi di informazioni che circolano sul
web? Chi può decidere se sono vere quelle di destra o quelle di sinistra?
I gestori dei social non hanno questo obbligo, vivono e prosperano sulla
circolazione dell’informazione (cui associano la pubblicità) e, com’è noto,
le bufale, più sono clamorose, più circolano e più portano guadagni. Ab-
biamo visto in più occasioni quanto sia difficile far rimuovere dai social
contenuti (drammaticamente) virali nonostante l’intervento anche della
magistratura.
Qualcuno ha proposto la creazione di Agenzie sopranazionali per
combattere la diffusione in rete di fake news. A costoro si potrebbe sug-
gerire, prima di tutto, di ripensare allo scandalo dello “spionaggio elet-
tronico” della National Security Agency (NSA), messo sotto accusa, dopo
che, nel 2013, Edward Snowden, un dipendente di un’azienda informati-
ca che lavorava per la NSA, rivelò i programmi di sorveglianza di massa
del governo statunitense, che comprendevano anche le comunicazioni di
governi alleati, suscitando le loro più vivaci proteste. Sul piano pratico,
si dovrebbe riflettere sui problemi tecnici e pratici che un’impresa di tal
genere comporta: a giudizio dei più abili informatici, è praticamente im-
possibile definire un algoritmo capace di cogliere tutte le infinite sfuma-
ture tra verità e falsità in lingue, contesti e culture diverse, per cui i falsi
positivi e i falsi negativi finirebbero per fare più confusione che chiarezza.
Costoro, evidentemente, pensano che le fake news siano una minaccia per
2 Per diversi decenni, nel secondo dopoguerra, era cosa abituale, quasi uno stereotipo, vedere
i militanti del Partito Comunista che esibivano come un simbolo, nella tasca della giacca, la copia
del giornale di partito, l’Unità, ripiegata in modo che si potesse leggere la testata. La stessa cosa non
si vedeva praticamente mai con i militanti di altri partiti e il loro giornale di riferimento.
contrasto con ciò che la sua cerchia ritiene vero o falso: ciascuno di noi,
infatti, non valuta una notizia di per sé ma in funzione di altri fattori non
solo personali (credenze, ideologie ecc.) ma anche sociali, cioè della fidu-
cia in chi fornisce la notizia e di quanto essa sia condivisa.
Ci saremmo potuti aspettare che l’avvento della rete, con un’offerta
d’informazione molto ricca, eterogenea e facilmente accessibile, potesse
cambiare i comportamenti delle persone: non è stato così. Si è osservato,
invece, il fenomeno delle echo chambers (casse di risonanza), spazi auto-
referenziali in cui si ha a che fare con persone che la pensano allo stesso
modo – per cui le informazioni, le credenze, le idee, vengono amplifica-
te, rinforzate dalla comunicazione ripetitiva – e nei quali opinioni e idee
differenti o contrastanti vengono censurate. È anche per questo che, non
solo ognuno tende a frequentare siti che rispondono alle proprie idee e
non rischiano di metterlo in conflitto con se stesso, ma gli stessi motori di
ricerca, una volta individuate le preferenze del soggetto, gli proporranno
altri siti, altri blog dello stesso tenore tendendo così a chiuderlo in echo
chambers.
D’altra parte è ben nota la tendenza degli individui a non mettere in
discussione i propri pregiudizi, a non cambiare opinione anche davanti
all’evidenza, mossi come sono dalle emozioni più che dalla ragione. È
ormai evidente che le persone hanno trovato nei social uno strumento
attraverso cui esprimere il proprio disagio nei confronti di una politica
che è sempre più distante dalla realtà sociale.
In passato, volenti o nolenti, erano i media a scegliere quali informa-
zioni darci, i giornali secondo le linee di partito, la televisione che dosava il
minutaggio delle presenze, la gerarchia degli interventi e dei contenuti3
organizzata in funzione della linea editoriale (governativa o antigoverna-
tiva). Oggi che l’informazione circola liberamente sul web e potremmo
essere in grado di scegliere quella “vera” con un semplice click, andiamo
a cercare, invece, qualcuno che ce la indichi! Forse non siamo maturati
con la stessa velocità con cui è cresciuta la circolazione dell’informazione.
Nell’era post-ideologica, in assenza di dogmi da seguire, senza leader
che ci guidino, sembra quasi che si siano perdute tutte le certezze. Siamo
arrivati a un punto critico in cui è il numero che fa la verità: cento, mille
cittadini senza alcuna preparazione specifica che sostengono l’efficacia di
una cura “Di Bella” o “Stamina” o che i vaccini causano l’autismo, conta-
3 Un escamotage classico per amplificare le notizie o le interviste coerenti con la linea edito-
riale e sminuire quelle contrarie, era il cosiddetto sandwich: si collocavano, cioè, all’inizio e alla fine
le notizie o le interviste coerenti e si metteva in mezzo quella contraria che veniva così per perdere
evidenza e colpire di meno.
Una storia che potremmo definire di fact-checking ante litteram è quella del cosiddetto
affaire Dreyfus, che ha avuto fra i protagonisti il famoso scrittore e giornalista Emile
Zola e che è, probabilmente, una delle prime grandi battaglie politiche combattute
attraverso i mass-media.
La drammatica sconfitta francese nella guerra Franco-Prussiana, conclusasi con la
disfatta di Sedan del primo settembre 1870 e con la resa sul campo, il giorno successi-
vo, dell’Imperatore Napoleone III, portò alla fine del Secondo Impero e alla creazione
della Terza Repubblica (4 settembre). Ma la ferita della sconfitta tardava a risanarsi
poiché i militari (prevalentemente nazionalisti e antisemiti) cercavano “il traditore”
che alla fine (dopo quattordici anni!) fu identificato in un ufficiale impiegato presso il
ministero della Guerra, Alfred Dreyfus, che ben si prestava per le sue caratteristiche –
di origine ebraica e alsaziano (l’Alsazia è terra di confine con la Germania, da sempre
contesa fra le due Nazioni) –: fu accusato, sulla base di documenti poi dimostratisi
falsi, di aver rivelato segreti ai Prussiani. Arrestato nell’ottobre 1884, dopo un giudizio
sommario fu degradato e condannato alla deportazione a vita nell’Isola del Diavolo
(Cayenna francese).
Due anni dopo, il comandante G. Picquart, nuovo responsabile dell’ufficio informa-
zioni del ministero, riaprì le indagini accusando un altro ufficiale francese, il maggiore
Esterhazy, giocatore, pieno di debiti, già in precedenza invischiato in affari loschi, che
venne però scagionato nel 1898 nonostante l’evidente somiglianza della sua calligrafia
con quella dei documenti. Nel tentativo di chiudere il caso, due giornali conserva-
tori, Le Matine e L’Éclair, pubblicano frammenti dei documenti che si rivelano un
boomerang viste le rimarchevoli differenze con la calligrafia di Dreyfus. Si creano due
schieramenti, uno a favore e uno contro Dreyfus.
Due quotidiani, L’Intransigeant e La Libre Parole, si fanno promotori di una campa-
gna contro ebrei, democratici e socialisti; intanto Picquart, con evidenti scopi punitivi,
viene trasferito in aree della Tunisia infestate da tribù ribelli. Emile Zola, che già dal
1896 aveva incominciato a pubblicare su Le Figaro articoli in difesa degli ebrei, decise
di attaccare direttamente la gerarchia militare e politica, facendo nomi e cognomi: il
13 gennaio 1898, pubblicò sul giornale socialista L’Aurore un editoriale divenuto fa-
moso, dal titolo J’Accuse...!, una lettera aperta al Presidente della Repubblica francese,
Félix Faure, nella quale denunciava le irregolarità e le illegalità commesse nel processo
a Dreyfus. Altri giornali appoggiarono la campagna di Zola che però fu processato
e condannato per vilipendio delle forze armate, ma il suo J’Accuse...! provocò la ri-
4 Non è certo casuale che il Washington Post abbia chiuso la sua rubrica settimanale di fact
checking, “What was fake this week” (“Cosa era falso questa settimana”).
apertura del caso che portò, nel 1906 (Zola era ormai morto da quattro anni), alla
riabilitazione di Dreyfus, al suo reintegro nell’esercito e alla concessione della croce di
cavaliere della Légion d’Honneur.
Con il termine verità (in latino veritas, in greco alétheia)1 si indica classica-
mente2
la piena e assoluta corrispondenza di qualità e di contenuto con la realtà effettiva.
In tal senso, la verità è definita in modo proposizionale, come l’accordo fra
un predicato e uno stato di cose3. Il termine, cui sono in genere collegati i concet-
ti di onestà, buona fede, sincerità, è variamente definito dagli studiosi e, in par-
ticolare, è argomento di dibattito la definizione della verità, se sia, cioè, qualcosa
di soggettivo o oggettivo, relativo o assoluto. Diverso è il caso della verità inte-
sa come affermazione o conoscenza di un concetto superiore e ideale, accettato
come basilare dal punto di vista religioso, etico, storico, che esula dall’obbiettivo
di questo saggio.
Nel tentativo di fornire dei punti di riferimento per inquadrare la verità, dob-
biamo, di necessità, chiamare in causa autorevoli filosofi, da quelli più antichi
(Socrate, Platone, Aristotele ecc.) ai più moderni (Kant, Nietzsche ecc.), e anche
i Dottori della Chiesa (Sant’Agostino, San Tommaso ecc.).
Occorre a tal proposito sottolineare la circostanza che sia il pensiero religioso
che quello laico, che hanno permeato la cultura occidentale, si sono guardati
bene dal connotare la verità come virtù assoluta. Nella catechesi cattolica non
viene annoverata tra le virtù teologali (fede, speranza e carità) e neppure tra quel-
le cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza). Il cattolicesimo (ma non
il protestantesimo) si è più dedicato ai vizi, i sette vizi capitali (superbia, avarizia,
lussuria, invidia, gola, ira e accidia) e alla loro demonizzazione. Alcuni Dottori
1 Alétheia (ἀλήθεια) è una parola greca tradotta in più maniere, come dischiudimento, sve-
lamento, rivelazione o verità. Il significato letterale della parola ἀ–λήθεια è lo stato del non essere
nascosto; lo stato dell’essere evidente e implica anche la sincerità, così come fattualità o realtà. È
interessante osservare che, per i Greci, la verità non si contrappone al falso (pseudo, ψευδής) ma
all’oblio (λήθε).
2 Sulla concezione classica della verità, e in particolare quella espressa da Aristotele [10] nel
libro III della Metafisica, Vedi Tarski [185].
3 Questa posizione filosofica è stata definita come corrispondentista [16].
della Chiesa, come Sant’Agostino (De mendacio e Contra mendacio), San Tom-
maso e Sant’Ambrogio, hanno invece dedicato alla verità importanti opere.
Due sono le posizioni filosofiche relative alla verità, la corrispondentista e la
relativista e, ai nostri fini, è sufficiente dire che, nel corso dei secoli, queste due
posizioni si sono incrociate più volte e anche mescolate in relazione al contesto
storico-politico del momento.
La posizione corrispondentista4, forse di più immediata comprensione e an-
che più aderente al concetto di morale comune, fa riferimento alla definizione
della verità di San Tommaso come “corrispondenza tra realtà e intelletto” (adae-
quatio rei et intellectus): una proposizione è vera solo se corrisponde a uno stato
di cose vero. Sembrerebbe una tautologia, che saremmo portati a far nostra sen-
za riserve ma, come vedremo, le cose non sono così semplici.
Secondo questa posizione, la contrapposizione vero/falso è netta sia in senso
logico (gli enunciati falsi non sono validi) che etico (mentire è sbagliato). Dal
punto di vista della conoscenza della realtà, la verità è considerata come una pro-
prietà intrinseca dell’essere: se qualcosa esiste, l’affermazione della sua esistenza
è necessariamente vera. Platone e Aristotele5 faranno proprio questo postulato e
su di esso si fonderanno non solo gran parte della filosofia successiva ma anche
scienze ben più rigorose della filosofia quale, ad esempio, il metodo scientifico
che, nella sua descrizione classica, impone, in una situazione sperimentale, la
verifica delle ipotesi, se cioè l’essere ipotizzato sia o non sia.
Non ci sono dubbi sul fatto che la definizione corrispondentista della verità
abbia un’immediata ricaduta nell’ambito della morale. E dalla morale alla legge,
il passo è breve. Infatti, come scrive de Montaigne [64]:
Poiché i nostri rapporti si regolano per la sola via della parola, colui che la falsa
tradisce la pubblica società. È il solo strumento per mezzo del quale si comunicano
le nostre volontà e i nostri pensieri, è l’interprete della nostra anima: se ci viene a
mancare, non abbiamo più nessun legame, non ci conosciamo più tra noi. Se ci
inganna, distrugge ogni scambio e dissolve tutti i vincoli della nostra società.
La posizione relativista, invece, considera la verità come un postulato del lin-
guaggio: una proposizione è vera fintantoché non se ne provi la falsità. È la po-
sizione dei sofisti, per i quali non c’è una netta contrapposizione vero/falso, ma
una “scala di grigi”, di possibilità, in rapporto alle circostanze: ad esempio, per
Machiavelli, sostenitore della tesi sofista, mentire può essere anche sbagliato ma
è necessario poiché la politica non si fa con le buone intenzioni.
I filosofi della Scuola sofistica, che avevano studiato con una raffinatezza
4 Il corrispondentismo può essere fatto risalire a Parmenide che, con il suo fondamentale
principio di non-contraddizione – L’essere è, il non essere non è –, indica la necessità di attenersi a
una corrispondenza fra ciò che esiste (l'essere) e ciò che si dice (espresso dal verbo “è”).
5 Su questo principio si fonda la definizione di Platone secondo cui è vero il discorso che dice
gli enti come sono e falso quello che dice come non sono. Allo stesso modo, Aristotele [10], in accordo
con Parmenide, afferma che dire di ciò che è che non è, o di ciò che non è che è, è falso; dire di ciò che
è che è, o di ciò che non è che non è, è vero.
Si narra che Epimenide, cretese, avesse affermato «Tutti i cretesi sono bugiardi»: essendo lui
cretese, avrebbe dovuto essere bugiardo e di conseguenza l’affermazione avrebbe dovuto
essere falsa; ma se Epimenide, per quanto cretese, in quella circostanza avesse detto la veri-
tà, l’affermazione sarebbe stata ugualmente falsa perché, evidentemente, non tutti i cretesi
sarebbero stati bugiardi. Come si fa, in questo caso, a dire «che è ciò che è»?
Si tratta di un’antinomia elegantissima, che nelle varie formulazioni successive – anche
matematiche – è rimasta insoluta per quasi venticinque secoli.
Sulla base di osservazioni consimili, i sofisti adottarono una posizione “più elastica” sul
problema della verità. Nei Ragionamenti Doppi6, un’opera anonima di tradizione sofistica,
si sottolinea a più riprese che non esiste una verità assoluta, valida per ogni uomo e in ogni
tempo, al massimo, si possono fare affermazioni “persuasive” e credibili.
La Scuola dei sofisti ebbe grande successo in quelle polis che adottavano siste-
mi democratici dove era importante, per aver successo in politica o nei tribunali,
saper argomentare in modo persuasivo (soprattutto se l’oggetto dell’argomenta-
re non era il massimo della verità). Per Platone, politici e avvocati non produ-
cevano buona scienza, e non condivideva l’assunto che qualsiasi affermazione
potesse essere equivalente al suo contrario: le cose erano o non erano, girarci
intorno con le parole poteva essere interessante ma non determinante. Per su-
perare ogni incertezza introdusse il concetto di idea che indica uno strato più
profondo e meno arbitrario della realtà. Studiando le idee si capisce meglio che
cosa sia “sempre vero” e che cosa sia “sempre falso”: quale che sia l’abilità di un
oratore, il triangolo avrà sempre tre lati. Questa dottrina fu ripresa, per motivi
diversi, da Aristotele7 per il quale il problema era eminentemente scientifico.
Roma, pur con qualche significativo apporto originale, adottò praticamente
in toto la filosofia greca. Se, ad esempio, Catone e Cicerone, politici e avvocati,
avevano ben appreso la lezione dei sofisti, Plinio8, scienziato, seguiva i principi
aristotelici.
Le cose cambiarono radicalmente con l’avvento del cristianesimo: religione
monoteista, non avrebbe potuto non scegliere una filosofia secondo cui ci sono
cose sicuramente vere (fra cui Dio) e cose sicuramente false (la molteplicità degli
dei); mai avrebbe potuto accettare il relativismo, per il quale «l’uomo è misura di
tutte la cose» (Protagora), e quindi della verità, della falsità e perfino della divinità!
I primi pensatori cristiani non avevano approfondito il problema della verità
e della menzogna e, anche rifacendosi all’Antico Testamento, non avevano tro-
vato elementi precisi per condannare la menzogna: è pur vero che nelle Tavole
della Legge è scritto: Non attestare il falso contro il tuo prossimo, ma questo suona
come spergiuro, piuttosto che come menzogna, e lo stesso vale per il Non dire
falsa testimonianza del Nuovo Testamento. In entrambi i Libri non viene mai
affrontato il problema se, almeno in determinate occasioni, possa essere o meno
lecito mentire, sebbene entrambi riportino episodi di menzogne e inganni che
sembrano suggerire che possa essere lecito mentire per una giusta causa9.
Fu Agostino d’Ippona, filosofo, in seguito santificato e proclamato Dottore
della Chiesa, che, avvalendosi della filosofia classica, espose la summa del pensie-
ro cristiano sulla menzogna10 in due suoi scritti (il De Mendacio [165] e il Contra
Mendacium [166]): non è la verità o la falsità delle cose in sé (rerum ipsarum veri-
tas aut falsitas), ma l’intenzione (animi sententia), a stabilire ciò che è menzogna.
Chi spaccia il falso per vero, e tuttavia ritiene d’esser nel vero, può esser definito
persona colpevole d’errore e incauta; a torto lo si dirà mentitore, poiché in ciò che
afferma non v’è doppiezza di cuore e volontà d’inganno: semplicemente egli si sba-
glia. Il bugiardo invece si propone d’ingannare nel dar voce ai suoi pensieri ed è
questa la sua colpa.
Sant’Agostino ammette la possibilità di servirsi di una bugia pietosa, onore-
vole, ma sostiene che non è lecito mentire per procurare a qualcuno la salvezza,
anteporre alla verità vantaggi temporali a sé o ad altri. Mentire è violare il co-
mandamento di Dio, Non dire falsa testimonianza, e per rafforzare questo con-
cetto Gesù avrebbe detto: «Sia sulla vostra bocca il sì, sì, e il no, no. Il di più viene
dal maligno». Con il mentire, come con ogni altra violazione dei Comandamen-
ti, si perde la vita eterna e pertanto non si deve mai assolutamente mentire, nep-
pure per salvare una vita perché la salvezza dell’anima vale di più della salvezza
del corpo: poiché l’anima è superiore al corpo, all’integrità del corpo deve essere
anteposta quella dell’anima.
Se Sant’Agostino, nel definire la menzogna, dà la preminenza alla volontà di
ingannare (voluntas fallendi), San Tommaso [56] – che distingue la menzogna in
dannosa (mendacium perniciosum), detta per ingannare l’interlocutore, giocosa
(mendacium iocosum), che ha lo scopo di intrattenere, e utilitaristica (menda-
cium officiosum) tesa a ricavare un’utilità – riconosce che
l’indole della menzogna si desume dalla falsità formale, ovvero dal fatto che qual-
cuno ha la volontà di enunciare il falso.
Egli nega tuttavia che l’essenza specifica della menzogna consista nella volun-
tas fallendi, che ne sarebbe solo un segno, un effetto necessario per perfezionare
l’azione tecnica del mentire. Afferma, infine, che la menzogna è un peccato con-
tro una virtù – la verità –, e non contro la giustizia.
Il punto di vista cristiano può essere sintetizzato con l’affermazione che la verità coincide
e si esaurisce in Cristo.
Nel Vangelo di Giovanni [95] si legge:
Allora Pilato gli disse: «Dunque sei tu re?». Gesù rispose: «Tu dici giustamente che io sono
re; per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza
alla verità; chiunque è per la verità ascolta la mia voce».
Pilato gli chiese: «Che cosa è verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse
loro: «Io non trovo alcuna colpa in lui». (Giovanni,18:37-38)
In precedenza Gesù aveva detto:
«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete
veduto». (Giovanni, 14:6-7)
E ancora prima:
«Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e
la verità vi farà liberi». (Giovanni, 8:31-32)
Oltre a questo, ricordiamo che Gesù faceva precedere le proprie affermazioni più solenni
dalla formula «In verità, in verità vi dico...».
Se dal settore più teoretico della filosofia ci spostiamo agli ambiti di pensie-
ro più strettamente legati alla politica, il concetto di verità viene liquidato come
astratto e semplicistico. Esempio di questo approccio è Machiavelli, la cui caustica
e iconoclasta opera suscitò scandalo in tutta Europa11 e anche Hobbes [103], nel
suo Leviatano, non fu da meno. E se Kant [107] prescrisse la necessità di dire sem-
11 “Old Nick”, uno dei nomignoli che ancora oggi, nell’inglese colloquiale, indicano il Diavo-
lo, deriva appunto da Niccolò (Nick) Machiavelli, considerato alla stregua del Maligno in persona.
pre la verità, ben più flessibile su questo tema si dimostrò Hegel [100], nella sua
Fenomenologia dello Spirito12. Marx, allievo di Hegel e interessato alla politica an-
cor più del maestro, definisce la ricerca di una verità obiettiva, nel senso di corri-
spondenza fra pensiero e realtà, come una fola speculativa, di poca utilità pratica.
Interessante è la diatriba che vide Kant opposto al filosofo francese Benjamin Constant
relativamente all’affermazione di Kant [107] che mentire era sbagliato sempre, dovunque
e senza eccezioni, anche all’assassino che bussa alla porta chiedendo dov’è il vostro amico
con l’intento di ucciderlo.
Constant [108], che aveva avuto testimonianze dirette del periodo del Terrore durante il
quale “l’assassino alla porta” era stato una realtà per migliaia di famiglie, era profondamen-
te convinto delle ragioni di chi si fosse trovato a dover mentire per proteggere la propria
famiglia, se stesso o gli amici dai carnefici; dissentiva con chi ritenesse immorale qualsiasi
menzogna, nella convinzione che dire sempre e comunque la verità, inteso in termini as-
soluti, avrebbe reso impossibile ogni tipo di società. Più che condannare la menzogna, egli
enfatizzava l’opportunità di rafforzare le istituzioni sociali perché non accadesse più che le
persone fossero imprigionate e uccise sulla base di “chiacchiere malevole”.
Kant [108], naturalmente, rispose confermando di non ammettere eccezioni di sorta
alla legge morale universale che impone di dire la verità: certi principi sono più importanti
della vita di un amico.
12 Non è un caso che al corrispondentismo della logica classica, Hegel risponda con un proce-
La verità non può essere che assoluta (è così o non è) e, quindi, rigida, e per-
ciò fragile, come di norma sono le cose rigide, al contrario della menzogna che
è malleabile e perciò resistente. La troppa verità non è “sana” perché abbiamo
bisogno delle nostre illusioni, dei nostri miti, delle nostre bugie, per sopravvivere
alla dura realtà dell’esistenza.
Dire la verità, come sottolinea la D’Agostini [55], è dire «le cose come stan-
no» (ma è possibile stabilire come stanno le cose?), dire ciò che è «conforme ai
fatti» (ma come sono i fatti?). Non essendoci, secondo la filosofia moderna,
una sola realtà, non c’è neppure una sola verità. Si sono aperte così le porte del
nichilismo13:
quel che ci caratterizza è che non abbiamo verità
13 Nichilismo o nihilismo (dal latino nihil, nulla), indica una dottrina filosofica che nega uno
conoscere alla perfezione tutto ciò che concerne l’auto, il suo funzionamento, la teoria della guida,
il Codice della strada (conoscenza proposizionale), ma, se non avessi fatto anche lezioni di pratica
di guida (conoscenza procedurale), sarei saggio a mettermi alla guida di un’auto?
quale si avvicina, in misura maggiore o minore, tutto ciò che orbita intorno all’idea stessa: è un po’
come per i cani, ci sono bassotti e alani, volpini e sanbernardo, setter e bulldog, che noi chiamiamo
cani perché, più o meno, corrispondono all’idea di cane.
vero esiste soltanto perché l’opinione pubblica ritiene vero ciò che viene detto e ri-
petuto con convinzione, indipendentemente dal fatto che sia oggettivamente vero,
credibile o improbabile o addirittura assurdo. Se non ci credete, andate a rileggere
la novella di Pirandello [150], La patente, in cui, estremizzando i fatti – non veri
ma verosimili –, com’è nel suo stile, ce ne fornisce un’icastica rappresentazione.
Il signor Chiarchiaro ha, nel suo paese, la fama di iettatore e viene perciò scansato, emar-
ginato, rovinato economicamente. Denuncia per calunnia due giovani che al suo passaggio
hanno fatto evidenti scongiuri, nella speranza che il giudice riconosca ufficialmente il suo
ruolo di iettatore al fine di sfruttare tale fama. Al giudice, che nel frattempo tocca ferro e
fa scongiuri, e che gli chiede di ritirare la denuncia per evitare ulteriore ostracismo, egli
chiede invece “la patente di iettatore” per poter esercitare legalmente tale professione ri-
cavandone vantaggi economici perché tutti avrebbero pagato per tenerlo lontano da sé e,
magari, mandarlo vicino a concorrenti o nemici.
Come sosteneva Gorgia da Lentini (V-IV sec. a.C.) (anche lui siciliano!):
nulla esiste, e se anche esistesse non sarebbe conoscibile, e se anche fosse conoscibile,
nessuno potrebbe darne conoscenza a un altro, per il fatto che le esperienze non sono
parole, e che nessuno riesce a farsi una rappresentazione concettuale identica a quella
di un altro.
È evidente che tutti i meccanismi descritti hanno come finalità ultima quella
di decodificare i segnali che giungono ai nostri sensi, organizzarli e interpretarli
in un qualcosa che abbia per noi un significato logico; quando abbiamo comple-
tato questo procedimento è difficile cambiare idea!
Se le percezioni sono ben definite e ci sono abbastanza familiari, è facile rag-
giungere la comprensione, ma in molti casi le informazioni sono incomplete,
frammentarie e non strettamente coerenti tra loro tanto che può essere difficile
attribuire loro un significato. Il procedimento diagnostico del medico è un esem-
pio efficace. I sintomi lamentati dal paziente appaiono spesso come frammenti
d’informazione scarsamente connessi tra loro: è solo esaminandoli attentamen-
te, integrandoli con altre informazioni, facendo riferimento all’esperienza pre-
cedente e al sapere medico, che possiamo individuare il legame che unisce i vari
“frammenti” in modo da formulare un’ipotesi diagnostica. Questa verrà sotto-
posta al vaglio delle ulteriori informazioni provenienti dall’esame obiettivo, dalle
indagini strumentali ecc. e, in casi particolarmente complessi, può essere utile
sentire anche l’opinione di specialisti di altre discipline per giungere a una dia-
gnosi attendibile. È stato dimostrato che, una volta che la diagnosi è stata formu-
lata, il medico tende a ignorare eventuali ulteriori informazioni che potrebbero
contraddirla. Paradossalmente, i sistemi esperti computerizzati di diagnosi assi-
stita tendono a essere più validi dei clinici poiché prendono in considerazione
tutte le informazioni disponibili e non si “affezionano” a una diagnosi formulata
in precedenza.
Il nostro cervello crea le immagini del mondo: di fronte a un nuovo stimolo,
infatti, non lo analizza come se lo incontrasse per la prima volta (sarebbe un pro-
Oltre che commettere errori, il nostro sistema cognitivo può anche essere ingannato, come
quando, ad esempio, osserviamo la “magia” di un prestigiatore che lancia in aria una palla
alcune volte finché, a un certo punto, la palla sembra scomparire a mezz’aria (mentre, in
realtà, è nascosta nella sua mano). Dove sta il trucco? Semplicemente nel movimento della
testa e dello sguardo del prestigiatore che, come nei lanci preliminari, segue il movimento
della palla e il nostro cervello ha già creato l’aspettativa su dove si sarebbe trovata la palla
dopo il lancio e lì l’ha vista! Una vera e propria allucinazione. Nessuno (o quasi) si rende
conto del trucco, ma se il prestigiatore, all’ultimo lancio, non esegue il movimento della
testa e dello sguardo, la maggior parte degli spettatori si renderà conto del trucco (come è
stato dimostrato da un illusionista compiacente che ha accettato di collaborare alla ricerca).
Il nostro cervello può ingannarci, come nel caso della televisione: quando la
televisione muoveva i primi passi, gli ingegneri risolsero brillantemente il pro-
blema di sincronizzare il segnale audio con quello video, con una sfasatura tra
i due segnali di un decimo di secondo: i telespettatori non si accorgevano del
problema perché il cervello sincronizza automaticamente i due segnali. Se vi toc-
caste simultaneamente la punta del naso e la punta del piede vi aspettereste che la
percezione dei due segnali fosse contemporanea: errore! In realtà, la percezione
relativa al naso arriva immediatamente grazie alla vicinanza, quella del piede
richiede circa un decimo di secondo (anche più se il soggetto è molto alto) per
giungere al cervello, ma noi li avvertiamo contemporaneamente come ci sarem-
mo attesi perché il cervello ha messo in stand-by il primo segnale in attesa del
secondo, per non deludere la nostra aspettativa.
Gli architetti conoscevano fin dall’antichità gli inganni del nostro sistema
percettivo tant’è vero che, ad esempio, hanno costruito lo stilobate (il piano
su cui poggiano le colonne) del Partenone leggermente convesso in modo che
all’osservatore appaia rettilineo e prospetticamente più ampio.
Perché il cervello ci inganna? In parte, certamente, per colmare le lacune dei
nostri organi sensoriali ma anche, in parte, per organizzare e interpretare il caos
dei segnali che arrivano ai nostri sensi in modo da consentirci di non dover ri-
spondere all’impulso singolo ma all’insieme degli impulsi organizzati in qual-
cosa di strutturato più rispondente alle nostre aspettative; è per questo che, nel
rumore di una discoteca, siamo in grado di sentire qualcuno che pronuncia il
nostro nome.
Il nostro cervello ci inganna molte volte al giorno guidandoci in numerose
scelte che noi, ingenuamente, consideriamo frutto del nostro libero arbitrio: se
proviamo antipatia o simpatia a prima vista o scegliamo un prodotto di una
determinata marca è perché il nostro cervello, attraverso associazioni mentali
inconsce, ci suggerisce una scelta piuttosto che un’altra e solo a posteriori noi
cerchiamo di trovare una ragione plausibile delle nostre scelte.
Una cosa su cui riflettiamo poco o punto, e che possiamo immaginare solo
grossolanamente, è l’enorme sforzo che il cervello compie in silenzio per coor-
dinare con precisione millimetrica anche i più fini movimenti del nostro corpo
grazie alla propriocezione e al sistema extrapiramidale, cioè al continuo scambio
di informazioni tra muscoli, articolazioni, pelle, barocettori e quant’altro e il si-
stema muscolare involontario: è grazie a questo che possiamo muoverci, cam-
minare, correre, usare un qualsiasi strumento con precisione millimetrica e in
maniera armonica.
Il filosofo Immanuel Kant [107], già alla fine del XVIII secolo, intuì per pri-
mo l’esistenza di una sorta di stadio intermedio fra ciò che i nostri sensi captano
e ciò che noi percepiamo, e concluse che la nostra conoscenza si basa sui dati
sensoriali elaborati ricorrendo alle nostre categorie mentali. Anche Freud [85]
ebbe un’intuizione analoga quando ipotizzò che ricevere segnali sensoriali e re-
gistrarli fossero due funzione distinte. È un dato di fatto che il nostro cervello,
per renderci consapevoli della realtà a partire dal materiale che gli forniscono i
nostri sensi, deve compiere un lavoro talmente enorme da farci sorgere il dubbio
che ciò che consideriamo “realtà” sia effettivamente tale.
Possiamo dire che la conoscenza consiste nel sostituire il noto all’ignoto, il
certo all’incerto, utilizzando l’informazione, acquisendo, attraverso la percezio-
ne, i segnali che provengono dal mondo esterno. Ognuno di noi è costantemente
bersagliato da una quantità enorme di segnali che è indispensabile selezionare
poiché, se tutti giungessero alla coscienza, sarebbero praticamente inutilizzabili
e non saremmo in grado di ricavarne alcuna informazione. Il primo filtro è ana-
tomo-fisiologico ed è rappresentato dalla struttura dei recettori sensoriali che
sono deputati a captare i segnali e che non sono uguali per tutti gli esseri viventi:
l’uomo possiede recettori solo per determinati tipi di informazione, mentre ci
sono animali che possono percepirne solo altri, come gli infrarossi o gli ultravio-
letti, gli infrasuoni o gli ultrasuoni, le onde elettromagnetiche e così via1. Per il
1 L’uomo, animale visivo per eccellenza, ha sviluppato la vista in modo tale da avere una per-
cezione molto efficace e dettagliata; nel buio, quando le capacità visive si annullano, ci sono invece
molti animali che vivono e si muovono agilmente perché guidati da altri sensi o da altri stimoli: i
serpenti e gli uccelli predatori notturni “vedono” con gli infrarossi, i pipistrelli con gli ultrasuoni
ecc. Nel mondo animale il senso più usato è probabilmente l’olfatto: gli animali seguono le tracce
olfattive, segnano il territorio con l’urina ecc. Nell’uomo questo senso ha perso gran parte della
corretto funzionamento dei recettori di cui ogni essere vivente dispone, è neces-
sario che lo stato di coscienza del soggetto sia in condizioni funzionali adeguate,
e che l’intensità dei segnali raggiunga la soglia percettiva2. Già questo ci dice che
specie animali diverse possono convivere nello stesso territorio percependo mondi
sensoriali diversi. Oltre ai filtri fisiologici naturali, l’uomo dispone anche di ulte-
riori filtri di natura psicologica, culturale e sociale di cui diremo più avanti.
La maggior parte degli animali non si serve di un solo senso, ma ne utilizza
più di uno favorendo quello principale. In genere i diversi sensi sono attivati in
sequenza, in funzione delle finalità: in condizioni di riposo, quando è importante
percepire tempestivamente eventuali pericoli, entrano in funzione prima quelli
più generici, seguiti gradualmente, da quelli più specifici e selettivi capaci di in-
dicare la provenienza del segnale, se possibile la sua natura e la sua vicinanza, in
modo da predisporre il tono muscolare alla difesa o alla fuga.
L’atto percettivo modifica la percezione nel momento stesso in cui questa
avviene, trasformando lo stimolo sensoriale, che è specifico (visivo, tattile, gu-
stativo ecc.), in un segnale bio-elettrico che è uguale per tutti gli stimoli, e che è
ulteriormente modificato nel passaggio dai recettori periferici alle fibre nervose
corrispondenti3. Lo stimolo sensitivo segue poi due vie, una diretta, privilegiata,
che arriva quasi direttamente all’area destinata alla sua decodifica, e una indiretta
(polisinaptica) che prende contatto, nel suo decorso, con una serie di centri e di
nuclei facendo sì che lo stimolo si metta in rapporto con altri apparati sensoriali,
con aree integrative, viscerali e motorie, in modo che la stimolazione di un orga-
no di senso venga condivisa, di fatto, da tutto il Sistema Nervoso Centrale (SNC):
questa seconda via ci rende conto della “tonalità affettiva” della percezione, dei
riflessi viscerali e di quelli motori. Le vie sensitive, inoltre, non contengono solo
fibre centripete (che convogliano, cioè, i segnali dai recettori al SNC) ma anche
fibre centrifughe, che dal centro tornano ai recettori e attraverso le quali il SNC
regola automaticamente, in vario modo, la percezione degli stimoli. È noto che
la percezione può variare per motivi intrinseci, migliorare per aumento dell’in-
teresse e quindi della concentrazione o peggiorare, per effetto dell’ansia, dell’as-
suefazione allo stimolo stesso, della stanchezza e di altre condizioni fisiologiche
o psicologiche: ad esempio, quando entriamo in una discoteca, siamo assordati
dal volume della musica ma, dopo un po’, quello stesso rumore finisce per diven-
sua importanza, anche se ha mantenuto certe caratteristiche che lo chiamano fortemente in causa:
ad esempio, le zone del corpo legate alla sessualità sono dotate di ghiandole apocrine che liberano
odori che hanno la funzione di richiamo sessuale, odori che la nostra società considera sgradevoli
(o sconvenienti) e che cerca di nascondere, di eliminare, sostituendoli con profumi artificiali che
comunque hanno la stessa funzione.
2 Per la loro acquisizione, i segnali devono raggiungere la soglia sensoriale, cioè un’intensità
tale da essere percepiti almeno nel 50% delle loro applicazioni. La soglia sensoriale non è una soglia
on-off, ma è un valore probabilistico condizionato da diversi fattori, fra cui, in particolare, il cosid-
detto rumore di fondo.
3 Ad esempio, dai 6 milioni di coni e dai circa 100 milioni di bastoncelli per ogni occhio, si
passa alle 400.000 mila fibre del nervo ottico.
È importante, per il suo significato conoscitivo, sapere che i nostri sensi non
registrano l’oggetto ma lo schema dell’oggetto, il suo circuito di scansione5, con
un meccanismo che, oltre a rappresentare una semplificazione dell’atto percet-
tivo, pone le basi per la formazione delle idee e per la formulazione del pensiero
astratto. È grazie all’acquisizione del circuito di scansione del “cane” che, osser-
vando cani diversi, siamo in grado di riconoscere come “cani” animali di taglie
e forme molto eterogenee: per mezzo del ragionamento astratto, sostituiamo
getto) descritto da Konrad Lorenz si basa sullo stesso meccanismo di apprendimento: le oche, per
le poche ore in cui questo meccanismo è attivo, proiettano, in chi interagisce con loro, la propria
essenza (coscienza?) di oche (verrebbe da dire la propria “ochità”!) trasformandolo in un soggetto
uguale a loro, che seguiranno come se fosse la loro madre.
5 Se, ad esempio, registriamo con appositi strumenti i movimenti che compiono gli occhi di
fronte a un oggetto da riconoscere, ci rendiamo facilmente conto che lo sguardo si sofferma soprat-
tutto su elementi di particolare contenuto informativo; questo percorso, che è stato definito circuito
di scansione, viene ripetuto più volte, è sempre uguale per lo stesso oggetto, non differisce significa-
tivamente per tutti coloro che fanno parte di una specifica cultura, ed è diverso per ciascun oggetto.
In questo modo, noi fissiamo nella memoria non l’immagine esatta, fotografica, dell’oggetto ma la
serie dei suoi punti significativi e le linee che li uniscono, riducendo al minimo le informazioni ne-
cessarie per identificarlo e, di conseguenza, il numero delle sensazioni necessarie per comprenderne
il significato ogni volta che lo percepiamo.
l’oggetto con il concetto che lo definisce nei suoi dati essenziali, svincolato dalla
realtà specifica. È anche vero che in questo modo, riducendo il numero delle
informazioni che concorrono alla formazione delle idee, si corre il rischio di
una possibile distorsione del giudizio, quindi della conoscenza della realtà, che
è molto pericolosa poiché la scelta dei dati percettivi essenziali non dipende sol-
tanto dalle leggi naturali ma è influenzata anche da fattori socio-culturali legati
alla inculturazione6, da cui derivano stereotipi e pregiudizi7.
Anche il linguaggio usato influenza la percezione delle cose: il significato del-
le parole è in rapporto alla cultura e all’esperienza personale anche fra soggetti
di stessa madre-lingua.
A titolo di esempio, vogliamo ricordare un esilarante sketch di Roberto Benigni che, in una
trasmissione televisiva di alcuni anni fa, elencò i nomi con cui, nelle varie parti d’Italia,
vengono denominati gli organi sessuali maschili e femminili. Ricerche più scientificamente
fondate, ne elencano complessivamente 948 per la sfera sessuale maschile e 766 per quella
femminile (esclusi i glutei, che possono essere una zona erogena per entrambi i sessi e che
comunque contano 266 denominazioni) [186].
rante l’infanzia, ciascun soggetto “assorbe” e fra proprie le norme culturali del gruppo al quale
appartiene [50].
7 Il circuito di scansione, fra le altre cose, è influenzato anche dalle modalità di scrittura delle
diverse culture e perciò sarà diverso per noi occidentali, che scriviamo da sinistra a destra, rispetto
alle culture in cui si scrive da destra a sinistra. Ma più importante ancora è il fatto che il circuito di
scansione è influenzabile anche da fattori culturali: è stato visto, infatti, che, di fronte a uno stesso
oggetto, il circuito di scansione era diverso se l’osservazione era spontanea o se, invece, era prece-
duta dall’illustrazione di ciò che l’oggetto rappresentava (o si presumeva che rappresentasse).
Non si può quasi far finta d’amare se non si è molto vicini all’esse-
re innamorati, o almeno non si sta indirizzando il proprio amore
in una precisa direzione. Infatti bisogna avere lo spirito e i pen-
sieri dell’amore per far finta, altrimenti come trovare i mezzi per
parlar d’amore? La verità delle passioni non si nasconde così bene
come le verità serie.
(Blaise Pascal, Discorso sulle passioni d’amore, XVII sec.)
1 Facevano mettere una piccola quantità di riso sotto la lingua del sospettato e questi, dopo
l’interrogatorio, doveva sputarlo sulla mano: se il riso era asciutto significava che il soggetto era col-
pevole poiché l’ansia di essere scoperto gli aveva bloccato la salivazione, se era umido indicava che era
innocente poiché, non avendo nulla da nascondere e, non avendo ansia, non aveva la bocca asciutta.
giro del cingolo (inibizione della risposta e monitoraggio degli errori) e nel giro frontale (aumento
dell’attenzione): in altri termini, mentire significa sottoporre il nostro cervello a un surplus di lavoro
rispetto al dire la verità! A proposito della fMRI, sono interessanti i risultati di una ricerca di Raine e
collaboratori [155] i quali hanno evidenziato che i bugiardi patologici, rispetto ai controlli sani, oltre
ad avere una prevedibile minore quantità di corteccia prefrontale (responsabile della consapevolez-
za di sé e dell’introspezione), avevano, un “eccesso” di materia bianca, cioè di fibre responsabili dei
collegamenti, delle reti neurali: maggiori sono le reti neurali, maggiore, più vario e più originale sarà
il flusso dei pensieri e maggiori le capacità verbali. Questi dati inducono a ritenere che i bugiardi pa-
tologici siano ben “attrezzati” per mentire avendo minori inibizioni (minore corteccia) e maggiore
inventiva (maggiori reti neurali).
Ekman, studiando i movimenti oculari che il soggetto esaminato compie mentre pensa
a cosa rispondere, ha potuto determinare, fra l’altro, che alcuni movimenti oculari e la
contrazione pupillare sono indicativi della natura della risposta che il soggetto darà alla
domanda:
– occhi rivolti in alto a destra: produzione di un’immagine costruita per la prima volta
(come nel caso della menzogna);
– occhi rivolti in alto a sinistra: rievocazione d’immagini vissute e quindi recupero di un
ricordo, quindi veritiero;
– occhi a livello rivolti a destra: neoproduzione di un’esperienza auditiva (quindi una co-
struzione menzognera);
– occhi a livello rivolti a sinistra: riproduzione di un’esperienza auditiva reale e quindi
veritiera;
– sguardo rivolto verso il basso: potrebbe esprimere sia introspezione sia volontà di sottrar-
si allo sguardo dell’osservatore (“sguardo sfuggente”);
– dilatazione (midriasi) o restringimento (miosi) della pupilla (senza che vi siano variazioni
di luminosità): indicatori di attivazione emotiva, ma la midriasi sarebbe più spesso indi-
cativa di menzogna.
Un’altra tecnica è quella della Scientific Content Analysis (SCAN) [116] che
si basa sull’analisi del comportamento linguistico del soggetto nella descrizio-
ne (orale o scritta) dell’evento in cui è implicato o di cui è stato testimone e,
attraverso la comparazione con apposite griglie interpretative che contengono
le costruzioni linguistiche più frequentemente usate da chi mente, orientano
sull’attendibilità del soggetto.
Poiché, nessuna di queste tecniche ha un’affidabilità assoluta (neppure l’EEG
e la fMRI, i cui risultati possono essere inficiati da una serie di fattori esterni)
l’integrazione di due o più di esse potrebbe essere utile per rendere più affidabili
i risultati.
Il limite di queste tecniche è rappresentato dall’elevato numero di falsi posi-
tivi (innocenti con attività neurovegetativa alterata) o di falsi negativi (colpevoli
con attività neurovegetativa normale): le manifestazioni indagate sono, infatti,
il prodotto di emozioni e queste possono essere in sintonia, o in contrasto, con
quanto stiamo esprimendo in quel momento e pertanto possono fornire solo
contributi di valore indiziario e non sono ammessi come prova in quasi tutti i
Tribunali.
Naturalmente l’applicazione di queste tecniche deve essere accompagnata
da un’attenta osservazione dei movimenti delle mani e del corpo del soggetto e,
soprattutto, dalla consapevolezza che ciò che osserviamo esprime solo l’attiva-
zione di emozioni e non è la “dimostrazione” di una menzogna. Non dimenti-
chiamo che, nonostante il principio per cui si è innocenti fintantoché non è stata
dimostrata la colpevolezza, essere sospettati di un crimine, essendo innocenti, è
un’esperienza sconvolgente: sappiamo bene, ad esempio, che è molto più difficile
dimostrare ciò che non abbiamo fatto rispetto a dimostrare ciò che si è fatto e che
non sono eccezionali i casi in cui un innocente è stato condannato. E, comunque,
anche solo essere sospettati può avere conseguenze gravi sul piano familiare, eco-
nomico, sociale e di immagine in generale, per cui, è difficile che un individuo
si mantenga sereno nel corso di un interrogatorio (o nell’eseguire un test). Le
reazioni fisiologiche, neurovegetative, in quelle circostanze, sono verosimilmente
peggiori nel soggetto innocente rispetto a quelle del criminale che è, invece, pre-
parato a mentire per difendersi e che di frequente, come in genere gli psicopatici,
ha un deficit di empatia ed è quindi in grado di ipercontrollare le emozioni.
Oliver Sacks, neurologo e brillante scrittore, che sa coniugare la scienza all’u-
manesimo e che sa far parlare la malattia trasformando l’empatia per i pazienti
in “intrattenimento”, nel suo volume, L’uomo che scambiò sua moglie per un
cappello [160], racconta della sua esperienza con i pazienti afasici nel capitolo
Il discorso del Presidente, che ben si collega alle “macchine della verità” di cui
abbiamo fin qui parlato.
I pazienti con afasia percettiva o globale3 sono incapaci di capire le parole come tali, ma
sono in grado di capire ciò che viene detto loro attraverso l’elaborazione degli elementi
extraverbali del discorso ai quali sono particolarmente sensibili. Il tono di voce, le infles-
sioni, le espressioni del viso, i gesti, la postura... insomma, tutto ciò che è, in larga misura,
inconscio si sostituisce alla mera parola consentendo una sua perfetta comprensione4.
Un giorno che un gruppo di afasici si trovava nella sala di soggiorno, la televisione tra-
smetteva in diretta il discorso del Presidente e Sacks, che passava lì vicino, li udì ridere ru-
morosamente. Ne rimase meravigliato e si soffermò ad ascoltare: il Presidente, abile oratore,
appariva persuasivo, toccava il tasto della commozione, ma gli afasici coglievano la mimica,
i toni, le cadenze della voce che suonavano a loro falsi, con evidenti incongruità, improprie-
tà addirittura grottesche che rendevano il discorso del Presidente assolutamente comico.
Inoltre, fra i pazienti afasici era presente anche una paziente affetta da agnosia tonale
(o atonia) per un glioma del lobo temporale destro (le afasie interessano il lobo tempo-
rale sinistro); costei, insegnante d’inglese e buona poetessa, era in grado di comprendere
cerebrali destinati alla comprensione e alla formulazione del linguaggio, pur avendo l’apparato udi-
tivo e la capacità di verbalizzare indenni. L’afasia percettiva (sensoriale di Wernicke) impedisce, a
chi ne è colpito, di associare un significato alle parole udite (è detta anche sordità cerebrale), l’afa-
sia espressiva (o motoria di Broca) impedisce, invece, di dare il nome appropriato a oggetti che il
paziente sa di conoscere di per sé e nel loro impiego. Nell’afasia totale sono perdute entrambe le
capacità e, in pratica, il paziente perde ogni forma di linguaggio, udito e parlato.
4 Per verificare a pieno l’afasia, il neurologo, deve ricorrere, nei casi estremi, al sintetizzatore
Si può mentire con la bocca, ma con la smorfia che l’accompagna si dice ugualmente la
verità. [137]
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Premessa 5
Introduzione 13
I. La menzogna e il mentitore 19
II. Le origini della menzogna 29
III. La menzogna nello sviluppo dell’individuo 45
IV. I mille modi di mentire 57
V. Il linguaggio segreto della menzogna 73
VI. Menzogna e arte 79
VII. La “follia” tra verità e menzogna 99
VIII. Menzogna e psicoanalisi: le verità tradite 109
IX. Gli inganni della memoria 115
X. Menzogna e seduzione: il disturbo borderline 121
XI. Menzogna e sessualità 129
XII. L’autoinganno 145
XIII. La paura della paura 153
XIV. Menzogna e criminologia: la dimensione narcisistica 167
XV. Menzogna e scienza 189
XVI. Menzogna e salute 199
XVII. La simulazione di malattia 215
XVIII. Gli inganni del corpo 225
XIX. Menzogna e politica 237
XX. Menzogna e informazione 255
In copertina:
Mariano Chelo, Pinocchio Narciso;
sul retro copertina: Mariano Chelo,
ETS Edizioni ETS Pinocchio vitruviano.
www.marianochelo.it