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IL GAZZETTINO, 9 MARZO 2010

Carceri? Sono fabbriche di maggiore insicurezza


Un altro suicidio in carcere, gi il secondo dall'inizio dell'anno. Nicola Boscoletto, cosa succede? Potrei rispondere che e un problema "di quantit", ovvero che ci sono troppi detenuti in poco spazio, il classico sovraffollamento, a fronte di troppo pochi assistenti, agenti, psichiatri e via dicendo. E invece? Invece e anche un problema "di qualit", della perdita di senso del vivere e del lavorare. Certo, in carcere quel senso merce rara... In realt la crisi che c' dentro al carcere e la stessa che c' fuori, magari solo un po' accentuata da depressioni e isolamento. E la crisi attuale non economica, ma e perdita del valore della persona, del lavoro. Per sentirsi in prigione non occorre andare in carcere. Ognuno ha la prigione che si crea? Basta guardare la facce della gente il luned mattina, per alcuni gi la domenica pomeriggio, gente intristita perch vive il lavoro come una prigione, e pensa di uscire libera solo il venerd sera. E' il senso di vivere e lavorare che s' perso. Boscoletto, lei ha una laurea in Scienze forestali. Com' finito in carcere? L'idea nacque tra un gruppo di amici. Avevamo vissuto negli anni dell'universit una bella esperienza, tutti insieme, sostanziata anche dall'incontro con l'esperienza di CI di don Giussani. E avevamo visto quelli pili grandi di noi iniziare un'avventura di lavoro. Quindi? Noi stavamo per finire gli studi ed eravamo a bivio: bisognava cominciare a concorrere a competere, era matematico che il gruppo di amici si sarebbe dissolto. Ed invece volevamo andare avanti insieme. E andaste dal notaio. Nel luglio del 1986 ci trovammo in nove davanti al notaio, dove piantammo questo semino: una cooperativa allora "normale", vocata alla gestione del verde. Eravamo tutti laureati in Agraria o Scienze Forestali. Perche una cooperativa? Perch metteva tutti noi sullo stesso piano, senza scopi di lucro, e teneva al centro l'aspetto societario inteso come risorsa umana. Bene. E dopo I'atto formale? La cosa rimase cos per quattro, cinque anni. Nel1991 incrociammo due grandi realt sociali, il carcere e la disabilita. Partecipammo alIa gara per il recupero delle aree verdi del carcere nuovo, il Due Palazzi, che era gi finito da alcuni anni, ma rimaneva sigillato sotto sequestro. Come mai? Era uno dei famosi "carceri d'oro" dell'allora ministro Nicolazzi, di fatto in degrado totale, proprio mentre si doveva organizzare il trasloco dal vecchio carcere di piazza Castello. L'appalto per cui concorremmo riguardava il recupero dell'area verde, un appalto per circa 30 milioni delle vecchie lire, per noi una cifra. Otteneste l'appalto? L'amministrazione penitenziaria tardava a dare l'esito della gara. II tempo passava. A quel punto lanciammo un'idea: in carcere vivevano 700 persone che non facevano niente dalla mattina alla sera. Possibile non riuscire farli lavorare?. Una provocazione? Che per ebbe successo. La gara d'appalto venne soppressa, e noi organizzammo un corso di giardinaggio per venti detenuti, che part nel '91. Oggi siamo arrivati alla diciannovesima edizione, con un totale di 380 detenuti formati. Formati e avviati al lavoro? Sono stati selezionati per lavorare all'interno, poi all'esterno in misure alternative: escono a lavorare e rientrano per la notte. Mai avuto spiacevoli sorprese? NeI 2001, dopo dieci anni, abbiamo tirato una riga: tra tutte le persone che con noi sono passate al lavoro all'esterno, contrariamente alla media reale nazionale della recidiva che s'attesta sul 90%, questi tornavano a delinquere con una media tra il 15 e il 18%. Avevamo dato lor un'alternativa. Parliamo di gente senza altre particolari capacit professionali?

In carcere nove su dieci non hanno un curriculum lavorativo, non sanno nemmeno cosa sia lavorare. Pi che una rieducazione, la nostra una educazione. Nessuna modifica nella vostra coop iniziale? Nei primi anni Novanta, con la nuova legge, la nostra cooperativa divenne "sociale", per l'inserimento lavorativo di fasce svantaggiate e deboli, disabili, tossicodipendenti, detenuti, alcolisti, invalidi, sensoriali, psichiatrici. Divento poi possibile anche il lavoro interno? Nel 2001 arriv la normativa per far ritornare appetibile il lavoro all'interno delle carceri. Padova del resto un pezzetto di storia, con i palloni di Vallesport, le bici Atala e via dicendo. Per le carceri furono abbandonate dalle imprese. A meta degli anni Ottanta c'era stato l'abbandono totale dell'attivit manifatturiera in carcere, per battaglie sindacali rivelatesi poi sbagliate. Le imprese fuggirono via, e fino al 2001 nelle carceri fu il deserto, e l'inedia pi totale. Un guaio? Quando non si fa nulla, il carcere e solo l'universit del crimine. Entrano ladruncoli, escono criminali professionisti. In realt, proprio oggi, quando si chiede pi sicurezza, il carcere, avendo perso il suo fine vero, sostanzialmente invece di produrre bene, produce male. Si chiede sicurezza, creiamo il contrario. Per di pi con costi elevatissimi. Tipo? Se un disabile psichiatrico gravissima costa alla collettivit 54 mila euro all'anno, un detenuto mediamente ne costa 100 mila. Quindi spendiamo miliardi di euro per farci del male. E allora cosa si deve fare? Vanno bene tante carceri, costruite bene, che diano dignit al "vivere minima", ma bisogna chiederci "qual e la funzione?". In realt se c' redenzione c' sicurezza, altrimenti no. Arrestare in fretta tutti coloro che commettono un reato, processarli subito, metterli in galera con una pena certa, sono solo enunciati ipocriti, se non si aggiunge a tutto ci anche il recupero. Si produce esattamente il contrario di quel che si vorrebbe. Solo pena, niente rieducazione? La filiera della sicurezza o si porta fino all'ultimo stadio, cio il recupero, oppure resta opera morta. E' un problema economico? No, falso. Bisogna vedere come si spendono i soldi che ci sono. Solo se si verifica che non bastano si pu dire che ne servono altri, come per qualsiasi altra attivit. Oggi la "redditivit" di un detenuto zero, ed invece potrebbe arrivare almeno a coprire il 50% dei suoi costi. Voi come cercate di intervenire? Noi abbiamo lavorato in primis per noi stessi, dovevamo mantenerci, pensare alle nostre famiglie, quindi abbiamo vissuto la nostra esperienza come un modo serio e bello per stare insieme, ma senza tirare in ballo buonismo o pietismo, nessuna fissa sui diritti umani, gli ultimi e via dicendo... . Ma come, e i carcerati, iI sociale? Nel fare bene il nostro lavoro, con noi poteva essere chiunque, detenuto, disabile o altri ancora. Questo abbiamo fatto: impresa sociale. E fummo anche molto combattuti. Da chi? Dal terzo settore, il "volontariato" organizzato, perch noi avevamo messo davanti al sociale la vicenda professionale, della qualit. Ci imputavano di fare impresa, quasi la distinzione fosse profit e non profit, quando invece evidente che anche un imprenditore profit pu fare carit. Come voi? Nel nostro caso abbiamo affrontato il lavoro in maniera imprenditorialmente seria e qualificata per dare un'opportunit a persone con handicap di varia natura. Non credo abbia senso parlare di profit e non profit: alla fine, chi aiuta di pi chi?. L'etica, comunque, resta ferrea nel dna della vostra coop? Certo, se un'impresa "normale" d 100 io devo dare 101, non 99. Siamo in gioco noi, in prima persona. Come cooperativa sociale siamo onlus di diritto, ma non bisogna confondere il tutto col no agli utili, no alla professionalit. Quindi, l'utile non peccato. Il problema semmai come fare profitto: la strada scelta per fare profitto all'origine della crisi di oggi. Il profitto una cosa buona se rispetta la natura dell'uomo e della collettivit, altrimenti.... Intanto pero crisi per tutti. Per noi la crisi un dato positivo: ha costretto a riflettere sul valore delle cose, su quel che si fa, sulle persone, sul recupero dell'essenziale, del buono.

Una cosa buona, si dice da pi parti, sarebbe la certezza della pena. La pena certa un non problema: in Italia la pena e gi certa, rispetto alle leggi che ci sono. Si pu discutere semmai su come impostato il sistema. Ma va tenuto presente che anche le misure alternative sono solo modi diversi di "pagare". Ma si intendono diversamente. E stato creato l'automatismo reato-carcere, cos che alla fine non si distingue tra omicidio e rissa, furto e sequestro, tutti allo stesso modo in carcere, anche se per tempi diversi. Qualsiasi altra modalit sembra una non punizione, ma non affatto cos. Si pensa alla pena "vera". In realt la vera pena non la si sconta in carcere, dove si sta nascosti in una cella, riparati dalla societ, addirittura vittime per i diritti calpestati, trasformati da chi dovrebbe risarcire la collettivit a chi dev'essere risarcito. E l'indulto? L'indulto, fatto per l'emergenza, non come segnale di speranza, paradossalmente comunque servito. Va detto che il detenuto prima esce meglio . Mi sembra un concetto discutibile. Faccio un esempio. Diciamo che ho un panno sporco e lo ficco in una lavatrice che per non il massimo della vita, per di pi senza nessun detersivo, e dove gi ci sono parecchi altri panni ancora pi sporchi. Il risultato sar che il mio panno non uscir bello ripulito, ma pi sporco di prima. Oggi insomma la scelta il male minore. C' pero il problema delle recidive. La prova del nove che l'indulto ha creato una recidiva inferiore di quella che si sarebbe registrata se i detenuti avessero scontate tutta la pena. Voi sareste quel detersivo? Su una popolazione carceraria attuale in Italia di 66 mila persone, solo 700 hanno un lavoro vero, secondo le regole del mercato, e di questi 100 sono qui a Padova. E tra costoro che lavorano che recidiva si registra? Fino al 2001 avevamo inserito carcerati solo al lavoro esterno, in misura alternativa. Dal 2001 in poi abbiamo iniziato il lavoro interno. E da allora fino al 2008 per chi aveva iniziato a lavorare dentro il carcere, poi in misura alternativa ed era arrivato cos a fine pena, la recidiva e scesa all'1%. Alberto Beggiolini

Il consorzio Rebus, un ponte con il mondo


A fianco, o sopra, la Giotto, nel 2004 sorto Rebus Consorzio di Cooperative Sociali, per "rispondere in maniera pi efficace alle esigenze di alcune cooperative operanti nella Casa di Reclusione di Padova fin dal 1991". Rebus (450 dipendenti, 150 di categorie svantaggiate, 100 detenuti, 50 disabili) progetta e attua strategie volte a consolidare e incrementare Ie attivit delle consorziate in carcere, nei confronti delle aziende esterne e del mercato del lavoro. Rebus associa tre cooperative: Giotto, Work Crossing e Cusl, e ognuna gestisce laboratori specifici per un totale di sei poli lavorativi. Attualmente impiegano 100 detenuti all'interno, e 15 che godono dell'articolo 21 per lavorare all'esterno, pi altre sette persone che hanno finito di scontare la pena. Le attivit e i numeri del consorzio Rebus. Biciclette Esperia: 30 dipendenti. Valigeria Roncato, gioielleria e bijoux Morellato e Infocert (chiavette digitali per documenti e digitalizzazione materiale cartaceo): 25 dipendenti. Cartotecnica e ceramica: 3 dipendenti. Call-center soprattutto per l'azienda ospedaliera: 10 dipendenti, con 25 postazioni per dare lavoro a oltre 50 persone. Ristorazione: 28 dipendenti. Pasticceria: 12 dipendenti, i cui prodotti vengono venduti all'esterno; oramai celebre il pluripremiato "panettone Giotto", seguito dalla stagionale "colomba". Nel 2004 l'avvio di un nuovo progetto, "Ristorazione Due Palazzi": la Giotto e partner operativo nella gestione del servizio, con selezione, formazione e gestione del personale, che nella cucina del carcere 7 giorni su 7 preparano i tre pasti per i detenuti.

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