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PASSAGGIO

AL BOSCO
P.clizioni lì6ere
J.i
Il Progetto

Corre l'anno 1951 quando Ernst ]unger scrive il suo Der


"Waldgang, il "Passaggio al Bosco" che sussurra l'eco di una ri­
bellione interiore e di una resistenza spirituale al dominio della
tecnica, oltre l'automatismo delle masse.

"Passaggio al Bosco" è un progetto editoriale ispirato alla ne­


cessità di ricercare un nuovo ordine di significati in divergenza
rispetto ai mantra di questo tempo.

"Passaggio al Bosco" è esistere qui ed ora, ristabilendo l'es­


senziale protagonismo delle scelte, praticando la via dell'esempio,
manifestando la secessione dal volgare, il disprezzo dell'effimero,
la lotta metafisica contro i demoni del pensiero unico, contro le
tentazioni del calcolo, contro l'apatia della neutralità, contro le
accademie del buonsenso.

"Passaggio al Bosco" è il coraggio di investire in quella cultura


che tutti considerano defunta e improduttiva, ma che noi ri­
teniamo essere il più autentico mezzo di autodeterminazione
della persona.

Liberamente controcorrente

Le nostre Edizioni si rivolgono al Ribelle, a colui che possiede


un nativo rapporto con la libertà e vuole scrivere nuove narrazioni,
a chi nuota controcorrente portando in dote la propria consape-
volezza. Uomo e non oggetto, il Ribelle si è spinto oltre, trasfor­
mandosi in un nemico atavico del silenzio imposto, in un critico
sedizioso dell'ideologia del Medesimo, dei dogmi del profitto,
della mercificazione dell'esistente, del trionfo dell'indifferenziato
e dell'abbassamento della Polis ad appendice del mercato.

L'albero antico

Il nostro emblema è composto da tre alberi: rappresenta la


stabilità del bosco in contrapposizione al nomadismo del deserto,
il senso del limite oltre l'insensibilità dell'illimitato, il solido anco­
raggio offerto dalla terra a dispetto del perenne movimento della
sabbia.

È la metafora di una audace scom,messa culturale: l'albero che


purifica l'aria regalando ossigeno alle menti, che contrappone
i colori della natura ai grigi orizzonti del cemento, che perfino
da morto ci restituisce se stesso per costruire le nostre dimore,
per armare i nostri bastioni, per accendere i nostri focolari, per
sfamare le nostre bocche, per scrivere i nostri libri, per costruire i
vascelli che salperanno verso nuovi mari in tempesta.

L'albero antico, protagonista di riti e miti, con le sue radici


profonde, con i suoi semi fecondi, con il suo fusco dritto e
slanciato, con la sua chioma che si scaglia verso l'alto come in una
corsa all'eterno, come in un invito alla tensione verticale, come
il ritorno alla stabilità dei riferimenti in una società che si è fatta
liquida. Come quella volontà di riprovare - nel disprezzo del
sonno e della tregua - il meraviglioso assalto al cie!o.
Di re ba rbaro
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lB 2022
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Pr ima e diz ion :e Be c omin g a barbarian, Li ghtnin g SourceInc., 201
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Pro G ido Cabrele


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ISBN 9 7 9-12-5462-008-3

www. passaggioa os c o.com


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Jack Donovan

DIVENTARE UN
BARBARO
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LA C/VILTA E SOPRAWALUTATA

PASSAGGIO AL BOSCO
Collana

BASTIAN CONTRARI
Saggi dissidenti

La via del saggio e del pamphlet in tutte le sue for­


me, con una cond#t'o slne qua non: lo spirito di scis­
sione rispetto ai mantra di questo tempo.
Prospettive inattuali e di rottura, necessarie a placa­
re la sete di verità degli animi liberi
e controcorrente.
PREFAZIONE

In una sua forma grossolana e distorta, con tn'balismo si


intende oggi nient'altro che un motto accattivante, una paroletta
carina e superficiale affibbiata dal mercato ai suoi più "fedeli
consumatori".
Tuttavia, il vero tribalismo - adesione ad un gruppo, oltre
e potenzialmente a scapito di ogni altro - rimane un autentico
tabù. Assillo e tormento delle Nazioni Unite, il tribalismo non
cessa di essere lo spauracchio per eccellenza di cuori umanitari,
pacifisti ed anime belle assortite in tutto l'Occidente.
Persino l'opposizione politica convenzionale, la blanda e con­
trollata opposizione dei partiti, non è esentata da reprimende di
routine per questo o quell'atteggiamento dal sapore anche solo
vagamente tribale. Bisogna stare attenti a non esultare troppo
forte, o battersi troppo duramente. Tutto è un gioco, da risolversi
in un mare di abbracci dopo il fischio finale. Persino la guerra è
ormai una mera questione di "vincere i cuori e le menti".
La via degli' uomini - il mio libro sulla mascolinità, che an­
drebbe letto prima di accostarsi a queste pagine - si concludeva
sugge�endo che quanti desiderassero vivere da veri uomini, cir­
condati da altri uomini con valori affini, dovrebbero uscire e
fondare una gang. In questa mia esortazione, era implicita l'idea
che da quelle gang, gli uomini avrebbero tratto delle tribù, se­
guendo l'esempio semi-mitico dei primi romani. Nel mio scritto
"La fratellanza", incluso nella raccolta A Sky Wt'thout Eagles1,
mi sono ampiamente espresso circa l'importanza di incastonare
la famiglia ed il culto degli avi nel granito della nostra fratellanza
tribale.

(1) J. Donovan, "A Sky Wi"thout.Eagles", Milwaukie, Dissonane Hum, 2014. (N. d. T.)

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Per quanto mi riguarda, cerco di mantenermi coerente con
quanto consiglio ai miei lettori, al meglio delle mie possibilità.
Ho detto loro di uscire ed unirsi ad una gang o a una tribù, e
così io stesso ho fatto. Nel giugno 2015, infatti, mi sono messo
in contatto con una tribù pagana nota come i Lupi di Vinland2,
dopo circa un anno passato ad esplorare e valutare, ed ho quindi
proseguito a dar vita al mio personale Miinnerbund qui nell'area
di Cascadia. Tante lezioni sul tribalismo e sulla leadership ho ri­
cevuto da allora, e. sono sicuro che tanto altro mi resta ancora
da imparare. Qualunque cosa scriverò in futuro, non potrà che
risentire di tali lezioni.
Uomini desiderosi di formare una tribù continuano a
chiedermi delle linee guida. Tornate fra dieci anni, o magari venti,
e vi racconterò tutto.
Quel che mi si è fatto chiarissimo da quando ho iniziato a tirare
in ballo con altri uomini l'idea di unirsi ad una tribù o fondarne
una, è che la maggioranza dei maschi occidentali è estremamente
titubante a concedersi un pensiero tribale.
Il maschio occidentale, infatti, e specialmente il maschio occi­
dentale bianco - per quanto anche uomini di differente origine
abbiano ormai assorbito in gran parte le stesse idee - non sa
come diventare quel tipo d'uomo in grado di esser membro di
una tribù. E', questo, uno sviluppo abbastanza recente, giacché
non è trascorso molto da quando gli Europei mostravano di
saper mettere da parte quanto li accomunava, e combattersi fino
alla morte in nome della religione o dell'onore nazionale. Ciò è
sempre stato vero anche ad altre latitudini, che si parli di Asia,
Africa o America Centrale.
A tutti gli occidentali moderni e civilizzati viene oggi insegnato
ad essere bravi cittadini del mondo, le cui particolari lealtà di ca-

(2) Gruppo neopagano statunitense, fondato presso Lynchburg (VA) dai fratelli Paul
e Manhias Waggener. (N. d. T.)

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rattere razziale, culturale e religioso devono in ogni caso subor­
dinarsi ad una più ampia ed inclusiva razza umana. Affermare di
curarsi di un determinato gruppo di persone più che di un altro
viene ad essere, nel mondo moderno, un vero e proprio peccato.
Un'inciviltà. Una barbarie.
Eppure, diventare quel tipo d'uomo capace di fondare o
unirsi a una tribù è esattamente quanto serve che tu sia disposto
a volere. Deve sorgere in te il desiderio di diventare un estraneo,
un barbaro agli occhi del resto del mondo.
La prima metà del libro esplora questo conflitto fra masco­
linità, tribalismo, identità e moderna civiltà occidentale, che io
chiamo «L'Impero del Nulla". La seconda metà, invece, descrive
alcune delle trasformazioni mentali necessarie a divenire quel
tipo d'uomo in grado di vivere in modo autenticamente tribale,
barbaro e libero dalle cavezze psicologiche dell'Impero.
Da bravo barbaro, non mi scuserò per aver inquadrato capitoli
ed argomenti nell'ottica culturale della mia tribù, grossomodo
basata su elementi propri della tradizione germanica. Che essa
sia di tuo interesse o meno, credo che i concetti fondamentali
discussi in queste pagine possano applicarsi a realtà tribali che
traggono ispirazione da una vastissima varietà di differenti altri
retroterra culturali, religiosi ed etnici.

DAI VITA AL MONDO!

jack Donovan,
Bioregione di Cascadia, febbraio 2016.

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IL DESTINO DELL'UOMO

Esser maschi è tragico.


La mascolinità è una lotta lunga tutta la vita, un guanto di
sfida gettato in faccia alla natura e agli altri uomini per dimostrare
a tutti la propria virilità ed il proprio valore di uomo. Esser maschi
è una sfida da onorare della quale solo la morte può sancire l'e­
saurirsi - una sfida da vincere, accompagnata dalla sicurezza che,
prima o poi, anche i migliori perdono.
La mascolinità è il ragazzo che si fa uomo, rafforzandosi,
vincendo la paura, acquistando consapevolezza e fiducia nelle
proprie abilità, e guadagnandosi infine il rispetto e l'ammirazione
degli altri maschi.
Dal giorno in cui viene al mondo� ogni ragazzo è maledetto.
Mettersi alla prova e misurarsi con gli altri sarà il suo pane quo­
tidiano, e non tarderà a percepire - capire istintivamente; no,
sapere con certezza - quanto la via degli uomini sia intrisa di com­
petizione e conflitto. La lunga strada per farsi uomo passa neces­
sariamente attraverso la sfida, e questa non avrà mai fine. Essere
uomo non è un punto d'arrivo, ma un titolo da difendere.
L'idea che un uomo debba sentirsi "sicuro nella sua masco­
linità" è una fantasia borghese, creata dai terapeuti e ripetuta dalle
donne. Ogni re, ogni leader, ogni detentore di record ed ogni
gorilla capobranco deve guardarsi le spalle. Esser bravi nell'arte di
essere uomo significa che la posta in gioco inevitabilmente si alza,
e gli avversari si fanno più formidabili.
Che a un ragazzo piaccia o meno, che lo accetti o lo respinga,
quel guanto di sfida è il suo destino. Rifiutare di battersi equivale
a disertare. Fuggire la lotta è un'ammissione di sconfitta, oltre che
una chiarissima prova di vigliaccheria spirituale.

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Alcuni applaudiranno il rinunciatario, spingendosi a definirlo
coraggioso, ma chi sono costoro se non spregiatori della forza e
della mascolinità? Donnette stupide, uomini fallici o perfidi ma­
nipolatori, tutti con un qualche interesse in un maschio passivo
ed imbelle.
Ad ogni modo, ogni uomo che accetterà il suo destino e vorrà
lanciarsi nella grande sfida della mascolinità comprenderà che
il combattimento non è mai davvero equo, e che non tutti gli
uomini sono nati ugualmente gagliardi e vigorosi.
Per un uomo, accettare la propria sorte significa anche capire
che la lotta, in fondo, è truccata, e che dovrà morire giovane, o
sopravvivere abbastanza a lungo da assistere al proprio declino.
Ogni uomo che non muore nel fiore dei suoi anni sarà costretto
a vedere il proprio corpo deteriorarsi ed indebolirsi, rendendolo
sempre più incerto e titubante. Prima sarà suo padre a vivere il
proprio decadimento, poi lui stesso, sino a perdere la stima degli
altri uomini. Quanto di meglio un uomo anziano può sperare è
essere rispettato per la sua saggezza, consultato per la sua espe­
rienza, e non dimenticato per quanto di buono ha fatto.
Comprendere la mascolinità significa comprendere anche
che solo tramite il conflitto e la competizione con i propri simili
l'uomo può raggiungere il suo massimo potenziale. Sulla via
degli uomini si caccia in branco, e non esiste selvaggina più peri­
colosa dell'uomo stesso. La mascolinità umana è il prodotto di un
processo evolutivo di selezione fra gruppi - bande di uomini che,
cacciando e combattendo, si sono fatte strada attraverso epoche
assai più difficili e pericolose. Alla mascolinità umana - continua
messa alla prova di forza, coraggio, abilità e desiderio di guada­
gnarsi il rispetto di un dato gruppo di uomini - il conflitto serve
per prosperare, ma anche per sopravvivere.
Nella pace eterna muore il maschio. Il segno della pace è la
runa della morte.

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Solo la resistenza può validamente testare la forza, e solo
nel rischio può provarsi il coraggio. Le proprie doti e capacità
contano di più solo quando se ne ha un disperato bisogno.
L'onore richiede un gruppo d'onore - un gruppo numeri­
camente finito di uomini il cui giudizio abbia un valore. Nessun
uomo può provare sé stesso ovunque a chiunque, e l'idea di
mettersi alla prova dinanzi alla totalità degli uomini e delle donne
restituisce senz'altro un senso di futilità. Se il numero dei giudici
e degli sfidanti è infinito, perché curarsene? Se ogni uomo è sia
un fratello che una potenziale minaccia, per chi combatti? Per
chi dovresti diventare la versione più forte, più coraggiosa e più
abile di te stesso? Quanto può valere l'onore di un uomo quando
si trova a dover rispondere e a vedersi raffrontato a miliardi di altri
uomini, sconosciuti ai quali nulla interessa - e neppure dovrebbe
- cosa lui faccia, come viva, o se vive oppure muore? In mezzo
a torme senza numero, un uomo ed il suo onore si disperdono.
Poiché non è possibile ad un uomo rendere conto a chiunque,
senza un gruppo d'onore - senza una tribù - finisce per farlo
soltanto al proprio ego. Un uomo privo di unMdnnerbund può
lusingarsi a piacimento, e tenderà a dar per buone le proprie scuse
molto più facilmente di quanto gli altri farebbero. Perlopiù, le
religioni rimettono al divino il giudizio finale sulle azioni di un
uomo, ma qualunque sentenza questi riceva post mortem dinanzi
al tribunale celeste, essa sarà sempre sin troppo conveniente. Il
giudizio dei fratelli avviene invece qui, oggi, adesso, dritto in
faccia.
La mascolinità è un fenomeno universale. Uomini di ogni
latitudine, lungo tutto il corso della Storia, hanno condiviso il
medesimo destino. In ogni cultura dominante conosciuta, gli
uomini si sono sempre spronati a vicenda a farsi più forti e co­
raggiosi, ed a raffinare le proprie abilità. A vicenda si sono messi
alla prova, nell'onta di quanti, espulsi per essersi sottratti al

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giudizio collettivo, facevano apparire debole l'intero gruppo. La
mascolinità è sempre stata esigente, un tragico sentiero che inevi­
tabilmente conduce alla morte.
Se la mascolinità è un fenomeno universale, dalla cui tragicità
tutti gli uomini sono accomunati, l' universalismo ne rappresenta
invece la distruzione. Senza separazione non può esserci con­
flitto, e senza conflitto la fiamma della mascolinità è destinata a
spegnersi. Dire di amare ogni uomo come un fratello non è solo
una menzogna, ma anche - e soprattutto - una rassegnazione
all'impotenza ed un venir meno alla propria virilità.
È stato detto che molti nemici portano molto onore, ed al­
trettanto vero è che senza nemici l'onore scompare. Se non vi
sono estranei, non vi sono neppure amici. Un "loro" è necessario
per avere un "noi", e senza questo, senza un "noi", non vi sarà
alcun gruppo d'onore e, pertanto, alcun onore.
L'esperienza di essere uomo è qualcosa che tutti i maschi
hanno in comune, un'esperienza condivisa e compresa dagli
amici come dai nemici, ma la più autentica natura della masco­
linità sprona ciascuno a raggiungere il proprio, personalissimo,
angolo di mondo, e da lì passare all'attacco.
In questo bisogno di conflitto ricade il destino dell'uomo.
È tragico, certo, ma l'intera vita è tragica.
Viviamo, ma siamo condannati a morire.
La cronaca delle nostre esistenze è un succedersi di alti e bassi,
di vittorie e di sconfitte, di fatiche e di successi. Senza conflitti,
nessuna storia di vita merita di essere raccontata, ed è il cimento
della lotta ad impedire che alla domanda "cosa è accaduto?" la
risposta sia "niente".
Come Odino e Thor, siamo consapevoli che un giorno mo­
riremo, ma astenendoci dal combattere, è come se fossimo già
morti.

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Meglio uno strenuo vivere, dunque, meglio l'ardore dello
scontro, che un mesto rassegnarsi ad attendere la fine... in pace.

Ber er hver alf baki� nema sér brolfur eigi


"Nuda è la schiena di un uomo senza fratelli"
Saga di Njall

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L'IDENTITÀ È TUTTO

La via degli uomini richiede di identificarsi con un gruppo di


amici, alleati e consimili, di tracciare loro intorno un perimetro, e
di combattere in difesa dei loro interessi.
L'assenza di un'identità sociale - di un'appartenenza, cioè, ad
un gruppo chiaramente definito - evoca la fantasia hobbesiana
della guerra del "tutti contro tutti", in cui non esistono amici
ed ogni uomo, donna, bambino è da considerarsi un potenziale
nemico. Un simile mondo, popolato da volti ostili ed intriso di
diffidenza, non può che essere caotico, caduco e disumano.
Potremmo figurarci un simile scenario come un film, uno
di quei film di fantascienza in cui prigionieri di mondi e idiomi
diversi vengono abbandonati ad arrangiarsi su un piane­
ta-prigione, oppure una città cosmopolita devastata da qualche
calamità, colma di pendolari apolidi costretti a sbranarsi a vicenda
per sopravvivere.
Tuttavia, sappiamo bene come vanno le cose. Anche do­
vessero ricorrere ad un'improvvisata lingua dei segni, le persone
proveranno sicuramente a farsi degli amici. I deboli andranno in
cerca di protezione, i forti li difenderanno associandosi ad altri
guardiani loro pari, al contempo tutelando ed espandendo le
proprie risorse, i propri oneri, e la rete di quanti si trovano alle
loro dipendenze. L;instaurarsi di tutte queste alleanze restituirà
al caos ed al generale disorientamento un senso di ordine ed una
rotta da seguire.
L'ordine chiama violenza, ma la decisiva spinta verso l'ordine è
data dall'identità. Che si tratti di decidere come procedere o come
sottomettere gli "altri", l'ordine scaturisce necessariamente da un
"noi", e non può essere stabilito e mantenuto senza adeguate
azioni collettive di carattere coercitivo. La violenza ordinata non

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può essere che quella coordinata - esattamente l'opposto rispetto
al caotico mischione del tutti contro tutti.
Tali alleanze costituiscono la base dell'identità collettiva, ed
ogni gruppo costituito, ogni "noi" deciso ad esser tale, tenderà
inevitabilmente a sviluppare la propria cultura interna, fatta
all'inizio magari soltanto da battute che tutti capiscono, memorie
collettive, aneddoti condivisi e gusti e preferenze che accomunano
i vari membri. Col tempo, la creatività umana saprà trasformare
questi semplici scambi in una ricca e ben definita identità cul­
turale, che - come tutte le altre identità culturali - sarà un
prodotto della discriminazione, e di un "noi" che finalmente
riesce a separarsi dagli "altri". Già, ogni cultura può fiorire e man­
tenersi viva solo osservando e tutelando i confini che dividono
chi è dentro da chi è fuori.
Gli uomini che non sentono come propria alcuna identità col­
lettiva - alleati di nessuno ed estranei a tutto - sono nient'altro
che vagabondi, assoggettati a un sistema che dall'alto detta legge
per loro. Gli uomini sono animali sociali. Il solitario che desidera
rimanere tale è un'anomalia, per quanto romantico possa apparire
il meditabondo archetipo del viandante individualista. L'uomo
solitario manca essenzialmente di metà della propria identità. È
un pesce fuor d'acqua, privo di orientamento.
Un simile, fluttuante stato di caos rende gli esseri umani
nervosi, e preda di una frenetica smania di simboli da adottare per
potersi identificare in qualche gruppo, per quanto superficiale,
effimero e irrilevante esso possa rivelarsi. Il consumismo borghese
ha buon gioco a sfruttare questa disperazione, incoraggiando la
gente a far dei propri svaghi preferiti, dei propri passatempi, delle
proprie abitudini commerciali la propria identità, e su ciò mo­
dellare sé stessi.
L' identità del consumatore è usa-e-getta, superficiale e mu­
tevole in base alla moda e alle circostanze. Alla fine, non c'è

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soddisfazione in essa, poiché un'identità che con tanta facilità
potremmo scrollarci via di dosso e rimpiazzare, o che potrebbe
teoricamente coesistere in noi con altre identità contrastanti
o addirittura avverse, mancherà di stabilizzare l'immagine che
abbiamo di noi stessi una volta che l'iniziale manto di novità avrà
finito per sbiadire. Ciò dà luogo ad un'incessante irrequietezza,
che muove il mercato verso sempre nuove identità commerciali
e labili affiliazioni. Tali esili e cangianti connessioni non sono in
alcun modo in grado di supplire a quel senso di vuoto necessario
perché la solita domanda fastidiosamente narcisista si riaffacci
alla mente del ramingo e viziato cosmopolita:
"Chi sono io?
Un uomo che ha saputo guadagnarsi il suo spazio in un
gruppo sa chi è. Un uomo che conosce il proprio "noi" non avrà
mai da chiedersi chi egli sia, né avrà bisogno di spremere a fondo
il proprio candido cuoricino per riuscire a "ritrovare sé stesso."
Egli non ha affatto da ritrovare sé stesso, poiché ha perfettamente
presente quale sia il suo posto. La sua identità personale ricade
all'interno della sua identità sociale, e ad essa è strettamente
legata. L'idea che ha di sé stesso non è una lagna o un sogno ad
occhi aperti, bensì una realtà di fatto, ripetutamente verificata e
validata. In ogni momento, è il suo Super-Io a tenere le redini del
suo Io.
Ci si immagini le risate divertite dei membri di questa o
quella remota tribù, o degli abitanti di un qualche villaggio
isolato, dinanzi ai classici occidentali frivoli e sradicati, giunti
in Sudamerica o in Estremo Oriente in cerca di "senso" o
"illuminazione".
Quel senso, che costoro sperano invano di rintracciare altrove,
è l'identità sociale. Essa è quel "perché" che naturalmente sca­
turisce dal "noi". Senza un solido contesto sociale, gli esseri umani
non possono che disorientarsi, e le loro azioni si fanno arbitrarie e

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prive di significato. L'identità sociale è quell'orientamento ad essi
tanto necessario. È il teniere, il cursore da cui scocca il dardo.
L'identità è un radicamento in grado di fornire una ragione
per agire.
L'identità è ogni uomo, ogni cosa che ricade entro il nostro
perimetro. È il Super-lo che restituisce contesto all'Io, la sua casa
. naturale - la casa del nostro essere.
In sintesi, l'identità tribale è tutto ciò che conta.

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IMPOTENZA UNIVERSALE

Se l'identità tribale è cucco ciò che conca, allora, in mancanza di


questa, nulla veramente importa. Senza di essa, esistono soltanto
caos e disorientamento, ansia e confusione, ed all'arbitrarietà delle
azioni si accompagna nient'altro che il vuoto più insensato.
L'interesse preminente dei governi e delle compagnie indu­
striali del moderno Occidente - tanto sinergico quanto egoistico
fronte di entità internazionali indipendentemente operanti al
quale darò il nome collettivo di "Impero del Nulla" - è la faci­
litazione del commercio globale, e pertanto il loro continuo
incoraggiare l'universalismo morale ha una ragione del tutto
pragmatica. Con universalismo morale, mi riferisco all'appli­
cazione a chiunque, dovunque, degli stessi principi, trattando
ogni individuo, indiscriminatamente, come parte del medesimo
tutto.
È nell'interesse dell'Impero dissuadere da ogni identità
esclusiva, da ogni tribalismo, ed anche da ogni nazionalismo,
a qualunque grado ciò si esprima in una data area, in un dato
gruppo di persone, in un determinato momento storico. All'Oc­
cidente benestante e sicuro è richiesto di spalancare le braccia ben
più di mille minoranze spiantate, diseredate ed assai più tribali,
ed accogliere quest'ulcime nell'immenso ovile del mondo, aiu­
tandole a aderire alla norma del consumismo occidentale.
Ogni residua traccia di identità sociale ancora presence
nell'uomo d'Occidente, ogni intenzione di preservare i confini
sociali, ogni volontà di arroccarsi sulla linea del perimetro è al­
tamente scoraggiata tanto dai governi quanto dalle varie culture
d'impresa. Identità razziale, identità religiosa, nazionalismo e
persino identità sessuale sono concetti sempre più tabù agli occhi
dell'uomo bianco. Agli occidentali buoni e bravi, moderni e ci-

21
vilizzati, è richiesto di ripulire mente e cuore da ogni traccia di
quel naturale tribalismo umano che rischierebbe di impedire alle
persone di sentirsi a proprio agio nell'Impero.
Malgrado il "multiculturalismo", la "diversità nostra ric­
chezza" ed altri grossolani mezzucci, la realtà è che - nel giro di
un paio di generazioni - ogni cultura esistente finirà per sbiadire
in un' innocua e semi-dimenticata "eredità culturale", e gruppi
autonomi, talvolta caratterizzati persino da una spiccata intran­
sigenza, avranno come discendenti nient'altro che elettori, im­
piegati, consumatori intercambiabili e indistinguibili. Chi riesce
a trarsi fuori da un simile destino, si è assicurato un futuro da
prigioniero, ed anche le sbarre del suo carcere saranno a maggior
gloria dell'Impero del Nulla.
Mentre questo processo è in corso... ai bravi, civilizzati maschi
moderni è chiesto di pensare sé stessi non come cittadini di una o
un'altra nazione, bensì come "cittadini del mondo".
I bravi, civilizzati maschi moderni non devono curarsi della
propria gente, perché chi'unque, in fondo, è parte di essa.
I bravi, civilizzati maschi moderni devono sentire il proprio
cuore battere per l'umanità intera.
Devono aver cara la felicità di chiunque, e contrastare la sof­
ferenza e l'ingiustizia ovunque nel mondo esse compaiano.
I bravi, civilizzati maschi moderni sono oppressi dall'a­
spettativa di farsi, paradossalmente, eterni tutori di tutti e di
nessuno.
7,2 miliardi di anime in pena ... e dovremmo pensare a ognuna
di esse, ma a nessuna con particolare attenzione.
Per chiunque, persino un singolo miliardo di persone rap­
presenta un numero pressoché infinito. La mente umana non
può davvero figurarsi concretamente una simile quantità di
scimmie deambulanti. È solo un numero, nient'altro che un
numero. Volendo scrivere i nomi di ciascuna di queste persone

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- inutili etichette di vite intere, di esistenze, pensieri, esperienze
- ad una media di 6 secondi a nome, senza mai interrompersi né
dormire, ci vorrebbero circa 190 anni per completare l'intero
elenco. Non riusciresti a saper niente di costoro, né finiresti per
ricordarti più di un paio di nomi, e nella diabolica stanza dei
supplizi dove qualcuno ti ha relegato a svolgere l'ingrato compito
faresti in tempo a vivere e morire almeno due volte prima di
aver terminato. Non dimenticarti, poi, che mentre tu sarai 11
a sgobbare, in moltissimi vedranno la luce o chiuderanno gli
occhi per sempre. Stime riportano che la popolazione mondiale
ammonterà nel 2050 a 9,6 miliardi, stando agli attuali tassi di
crescita. Per allora, povero stronzo che sei, mi duole dirti che sarai
stato in grado di buttar giù nient'altro che 178 inadeguatissimi
milioni di nomi.
Avere a cuore la sorte di chiunque su questo pianeta è qualcosa
di talmente al di là delle capacità di elaborazione del cervello
umano da paragonarsi alla percezione dell'eternità, dello spazio
infinito, o di ogni altro concetto di cui possiamo parlare soltanto
in termini astratti e teorici.
Per riuscire a percepirsi in un contesto misurabile sulla scala
dei miliardi, ed immagino esser questo un gullty pleasure carat­
teristico soprattutto delle élite e di quanti hanno un'elevata con­
cezione di sé stessi, è necessario fare un passo indietro e sopra il
mondo, e considerare le persone soltanto come meri trend, per­
centuali, sciami di organismi microscopici invisibili ad occhio
nudo.
Se avessi voglia di disperarti, prova a immaginare te ed il senso
della tua vita perso in mezzo a un miliardo di altre persone, pre­
occupandoti di tutte allo stesso modo. A tal punto ne saresti diso­
rientato, che sarebbe come galleggiare solo nello spazio. L'umanità
universale è qualcosa di così grande che, in fondo, finisce per non

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essere affatto. Collocati in mezzo ai miliardi, e la tua anima ne sarà
abbandonata alla deriva, naufraga nel vuoto sconfinato.
Essere uno in mezzo ai miliardi non è "illuminazione", ma ne­
gazione di sé. È qualcosa di disumano.
L'unità totale è una morte totale.
Si potrebbe replicare che nessuno si aspetta davvero questo,
e che quanto realmente importa è trattare chi il caso pone sulla
nostra strada secondo i dettami della morale universale. Ciò
sarebbe senz'altro più vicino alle giuste proporzioni della vita
umana, ed anche i nostri antenati troverebbero una simile idea
ben più sensata, loro che per lungo tempo neppure erano certi di
quale forma avesse il pianeta e men che meno di quante persone
lo abitassero, o di cosa accadesse a 3000, o anche soltanto a 300
miglia di distanza.
Tuttavia, un simile discorso è minato alla base dagli obbiettivi
dichiarati di molti dei cosiddetti "soda!justice movements" - o
sciami di microbi, se preferite - che lavorano attivamente per
imporre un universalismo morale, i valori globalisti, o qualunque
razza di "diritto umano" aggradi loro su individui che in realtà
non hanno mai incontrato. Ad incrinare la credibilità di tale tesi
abbiamo anche le varie organizzazioni internazionali, per non
parlare delle farsesche motivazioni morali offerte per giustificare
questa o quella guerra oltremare.
"Non possiamo permettere che queste persone che non avete
mai incontrato opprimano queste altre che neppure avete mai
incontrato in Medio Oriente, in Vietnam, o dovunque altro
volete ... ricordatevi i 'diritti umani'."
"Alzatevi e combattete, e magari lasciateci pure la pelle, in
nome della 'verità', della 'giustizia', o magari ... di qualcos'altro
ancora."
Ad ogni modo, giusto per parlare, ammettiamo per un istante
che tu non sia un uomo, bensì un bravo e civilizzato maschietto

24
moderno, pienamente coinvolto nel progetto globalista di
estirpare l'ingiustizia sociale, il razzismo, il sessismo, il classismo.
Ti sei ripromesso di trattare ogni altro essere umano come parte
della tua famiglia. Non esiterai, dunque, ad applicare norme
tribali di comportamento come la Regola d'Oro a chiunque
dovesse parartisi davanti. Ripeterai che tutti sono innocenti sino
a prova contraria, e farai loro nient'altro che quanto vorresti fosse
fatto a te. Gli stereotipi - informazioni di carattere collettivo
che possono o meno rivelarsi accurate nel singolo - li ignorerai
tutti, moderno come sei, e considererai ogni individuo un tuo
compagno, rivolgendoglisi come se questi condividesse gli stessi
cuoi valori "umani" fondamentali.
L'universalismo morale rende l'uomo debole, vulnerabile e
stupido.
I ricercatori affermano che il cervello umano può reggere re­
lazioni significative con non più di 150-250 persone alla volta, a
seconda di quali relazioni davvero vogliamo reputare significative.
150-250 persone: di più non potrai conoscerne tanto da poterti
fidare, e chiunque altro sarà per te un estraneo. All'interno di
un gruppo culturale omogeneo, dove valori e codici sociali sono
normalizzati, potrai probabilmente permetterti di trattare i più
come tu stesso vorresti essere trattato, perché, almeno in teoria,
le regole del loro gioco saranno anche le tue. Ciononostante, è
comunque sempre buona norma essere prudenti quando si ha
a che fare con degli sconosciuti, e se tua madre ti ha realmente
voluto bene, senz'altro già te l'avrà insegnato.
In un contesto pluralistico o multiculturale, dove coesistono
molte persone provenienti da gruppi eterogenei e caratterizzati da
codici di comportamento, valori e legami differenti, non tarderai
invece ad accorgerti di quanto la tua generosa bonomia risulti
mal riposta. Sei libero di credere che pace ed armonia siano ob­
biettivi condivisi, o che quel che la gente vuole sia soltanto andar

25
d'accordo ed osservare le regole, ma la tua pervicace supposizione
mostrerà assai presto la propria fallacia. Convincersi di qualcosa
non lo rende necessariamente vero.
Tatticamente parlando, ha assai più senso speculare sul com­
portamento altrui basandosi su eventuali indicatori sociali di ap­
partenenza e su altri spunti del genere.
Ad esempio, è del tutto ragionevole pensare che un nero che
gironzola su un marciapiede conciato come un delinquente
del ghetto sia davvero un delinquente del ghetto. Il suo atteg­
giamento e il suo vestiario sono precisi indicatori sociali di appar­
tenenza, e non possono che qualificarlo come un delinquente del
ghetto. Un ragazzo nero con indosso cardigan e camicia, seduto
al banco della sua aula, non desterebbe le medesime preoccu­
pazioni. Magari potrai pure sbagliarti su uno o un altro dei due,
ma stando alle informazioni che hai, le probabilità di aver ragione
giocano a tuo favore.
Scansare una possibile minaccia dando per scontato che il nero
conciato da delinquente del ghetto sia proprio quello che sembra
non sarebbe affatto meno sensato di entrare in una bettola con­
tadina e renderti conto che ai suoi bifolchi e minacciosi avventori
possa non andar cosl a genio il tuo aspetto. Non saranno le tue in­
tenzioni a far sl che ti considerino dei loro, ammesso che davvero
gliene importi qualcosa. Potrebbero benissimo decidere di crearti
problemi per divertimento, o magari anche soltanto per vincere
la noia.
Uno dei motivi per cui alcune religioni prescrivono di in­
dossare determinate vesti è identificare i propri fedeli e separarli
dai miscredenti. Quando vediamo qualcuno portare un co­
pricapo dal chiaro significato religioso o altri indumenti ricono­
scibili, appare evidente la sua volontà di render nota la propria
appartenenza a un dato gruppo, subcultura interna alla tua o se­
parata da essa. È un messaggio quello che costui sta lanciando,

26
comunicandoti che i suoi valori sono diversi dai tuoi, che ha tutta
l'intenzione di rimanere aderente ai codici propri del suo gruppo,
e che talmente tiene alla linea tracciata fra chi è dei suoi e chi non
lo è da accettare di attirarsi la tua diffidenza. Egli è fedele al suo
gruppo, e fiero di appartenervi. Senza neppure aprir bocca, già ti
sta d.1cendo "I a mia
· gente non e' Ia tua gente" , o, a1meno, "questa
è la mia gente, prima di tutto".
Tuttavia, nelle pluralistiche democrazie occidentali è di norma
considerato moralmente esecrabile giudicare un libro dalla sua
copertina. Di continuo, si dice e si ridice che trarre conclusioni
rapide è sbagliato, e che nel prendere delle decisioni non bisogna
mancare mai di dare per assodato lo scenario più positivo pos­
sibile. Persino dinanzi a gente che ammette a chiare lettere di non
essere affatto dei tuoi e di stare anzi adoperandosi attivamente
contro di te ci sarà qualcuno che ti ricorderà di non saltare a con­
clusioni affrettate e di non dare retta ai soliti stereotipi.
In Occidente, innumerevoli uomini e donne sono a tal punto
intrisi di universalismo morale da rifiutarsi con ostinazione di
accettare la realtà per quella che è dinanzi a detti o atti altrui pa­
lesemente inequivocabili, preferendo sminuire ad ogni costo,
fornire stiracchiate giustificazioni, o prendersi direttamente la
colpa di tutto.
"Morte ai bianchi!"
Dovremmo ascoltare quello che ha da dire, e cercare di metterci
nei suoi panni.
"Fancu1o Ia po1·ma.
· 1"
Èprobabilmente il suo modo di reagire aipregi'udizi etnici e ad
un 'economia ingiusta.
"Allahu Akbar!" [BOOM!]
Forse lo abbiamo offeso.
Qualunque informazione venga messa loro davanti agli occhi,
molti occidentali si sono fatti cosl leziosamente deferenti, cosl

27
succubi di quella pia illusione in stile Lennon-cazzetto-moscio
che l'intero mondo debba vivere "come una cosa sola" 3, cosl
schiacciati dai propri sensi di colpa di bianchi pentiti da non
esitare a mettere gli interessi di chiunque dinanzi ai propri che
siamo certi si rifiuterebbero a prescindere di esaminarla con l'at­
tenzione che merita.
In pratica, l'universalismo morale - vergognosamente spesso
chiamato "umanismo" - è diventato un vero e proprio cate­
chismo laico, intessuto di odio di sé ed arrendevolezza spirituale.
Come penitenti, gli universalisti si flagellano e tormentano per
aver anche soltanto osato pensar male di qualche altro essere
umano. Come inquisitori, sul rogo della propria rettitudine
ardono ogni eretico che dovesse azzardarsi ad esclamare ad alta
voce i propri peccaminosi pensieri.
Quanto potrebbe nuocere alla reputazione degli immigrati
e delle minoranze, gli egualitaristi provvedono puntualmente
ad insabbiarlo, e parlarne diviene in alcune zone talmente ri­
schioso dal punto di vista legale che la civilizzata e volenterosa
Svezia si è conquistata il poco ambito titolo di capitale europea
dello stupro. Invece di affrontare il problema, gli svedesi prefe­
riscono sottacerlo e girarci intorno, e molti di essi semplicemente
considerano una simile situazione la loro "nuova normalità" da
accettare.
Gli istruttori di tiro e difesa personale spesso menzionano una
tipologia dinamica di processo decisionale chiamata OODA. Si
tratta di un approccio circolare mediante il quale è possibile far
fronte ad ogni tipo di decisione, ma che si rivela particolarmente
utile nell'analisi di strategie tattiche e scenari di combattimento.
OODA è un acronimo, e sta per Osserva, Orientati, Decidi,
Agisci.

(3) Riferimento a Imagine, noto brano del 1971 di John Lennon, e primo singolo
tracco dall'omonimo album. (N. d. T.)

28
Il successo, in un dato frangente, deriva dall'osservare quel che
accade con chiarezza e precisione, dal sapersi orientare di conse­
guenza, dal prendere una decisione adeguata basandosi sui dati in
proprio possesso, dall'eseguire il proprio piano e tornare quindi
al punto di partenza per una nuova valutazione degli sviluppi.
Per comprendere ciò di cui parliamo, pensiamo ad una bat­
taglia, ma anche a qualcosa di più ristretto, delle proporzioni e
della rapidità di una scazzottata. Se fornisci a qualcuno delle in­
formazioni false - paragonabili a una finta, seguita da un colpo
sferrato da una direzione diversa - hai ottime possibilità di andare
a segno, perché sei riuscito ad influenzare il suo circolo OODA
a tuo vantaggio. Abbassando la guardia ed esponendosi al tuo
pugno, il tuo avversario non avrà saputo fare una buona stima
delle tue intenzioni, e le sue azioni saranno viziate in partenza da
una decisione sbagliata.
Se un uomo, tenendo alto il pugno, ti dice che sta per colpirti,
e tu scegli semplicemente di non credergli, sappi che le tue con­
vinzioni da sole non modificheranno il corso delle cose. Se ·ha
deciso di colpirti, non sarà ciò che credi o non credi a salvarti dal
suo cazzotto dritto sulla tua faccia.
Chiunque dovesse assistere alla scena senz'altro penserebbe
che tu sia cieco o stupido per esserti mostrato tanto incapace di
comprendere gli eventi e valutare correttamente le informazioni
in tuo possesso.
In realtà, il vero problema risiede nel tuo orientamento -
nell'idea che hai del funzionamento del mondo e del tuo posto
in esso. Convinto com'eri che quell'uomo non ti avrebbe colpito,
hai deliberatamente scelto di non agire, ed hai preferito affidarti
alle tue errate supposizioni piuttosto che difenderti.
Se rifiuti di prestare la dovuta attenzione alle minacce altrui
o a qualunque �ltra informazione disponibile soltanto perché a
prescindere hai deciso di non volerci credere, sei un cretino.

29
Ma in Occidente ci si aspetta che gli uomini siano dei poveri
cretini.
Hanno abbandonato le proprie identità sociali, e adesso li
ritrovi a vagare in questo mondo privi di bussola, con il disorien­
tamento più totale come unico loro orientamento. La sola cosa
contro cui gli occidentali sono disposti ad ergersi è il concetto
stesso di identità. Tuttavia, l'identità è tutto, e perciò non rimane
loro che farsi perfetti paladini del niente.
Per i bravi, civilizzati maschi moderni niente merita di essere
difeso, e come si suol dire, qualunque cosa finirà per abbatterli
come birilli4•
Com'è stato facile manipolarli, del resto.
Il bravo e civilizzato maschio moderno, l'occidentale bianco
medio, è così intimidito dallo spauracchio del pregiudizio e del
privilegio che incessantemente si adopera a far pubblica mostra
di universalismo morale più degli altri maschietti civilizzati
suoi simili, tutti quanti inculandosi da soli in ogni maniera
immaginabile.
Si presume che l'uomo occidentale ignori per principio tutto
quel che riguarda questo o quel gruppo ritenuto "svantaggiato",
comportandosi - che ciò sia vero o meno - come se le cose an­
dassero sempre a meraviglia. Si presume anche che dinanzi
all'uomo occidentale chiunque possa sentirsi autorizzato a far ciò
che gli pare e piace, e questi debba limitarsi a sorridere, fingendo
che tutto sia apposto. Forestieri invaderanno il suo vicinato, e
se la delinquenza, i graffiti, i danneggiamenti aumenteranno, il
bravo, civilizzato maschio occidentale non mancherà di fornire
qualche ragione astratta, oltre che convenientemente impossibile
da provare, per quel che sta accadendo, non osando chiedere

(4) Libera resa dell'inglese "Those who standfar nothing, fallfar anythinj'. Si tratta di
un comunissimo detto, sovente attribuito - con dubbia correttezza - ad Alexander Ha­
milron ( 175 5-1804), primo Segretario del Tesoro degli Stati Unici d�erica. (N. d. T.)

30
conto ai veri responsabili delle loro malefatte. Chiunque - ma
perlopiù docenti ed intellettuali bianchi corrosi dall'odio di sé e
puttane dell'industria dell'intrattenimento - si sente oggi libero
di gettare impunemente fango sugli avi dell'uomo bianco, osando
riscrivere la Storia nella consapevolezza che questi concorderà
felice, inginocchiandosi ad implorare il perdono dei propri ca­
lunniatori. Persino lo stupro è ridotto ad uno scambio di natura
economica, in cui la povertà provvede ad assolvere lo stupratore
da ogni colpa.
Per essere certi che le donne - ormai maggioranza demografica
- si sentano abbastanza a proprio agio, stimate e sicure per il loro
ruolo di brave dipendenti, elettrici e consumatrici nell'Impero,
l'uomo occidentale si trova a dover subordinare ogni sua azione
al permesso della donna, facendo sì che questa non debba mai
sentirsi in qualche modo minacciata o sminuita.
Dovesse mai l'uomo occidentale rendersi conto di aver dalla
sua un qualche vantaggio, o dovesse venire accusato di godere
di un "privilegio", vero o immaginario che sia, eccolo immedia­
tamente annuire, farsi da parte, e menomarsi in stile Harrison
Bergeron5 in nome dell'"equità" e della "giustizia" dei rapporti
- come se la vita sia mai stata o possa esser mai stata giusta, come
se le relazioni tra persone siano mai state davvero eque e mai
possano esserlo.
Il bravo, civilizzato maschio moderno, l'occidentale bianco
medio, è stato abituato a percepirsi come il gentiluomo del
mondo, cavalier servente pronto a spalancare la propria porta a
chiunque passi a bussare, relegando i propri interessi sempre al
fondo della fila.

(S) Riferimento al racconto "Harrison Bergeron", pubblicato nel 1961 da Kurt Von­
negut (1922-2007), la cui trama distopica - ambientata in un lontano 2081- immagi­
na l'imposizione per legge ai cittadini americani di una mediocrità forzata, tanto fisica
quanto intellettuale. (N. d. T.)

31
Nessuno - certamente nessuna donna - rispetta un tale
omuncolo.
Nessun figlio potrebbe mai rispettare un padre del genere.
Nessuno può aver rispetto di un uomo costantemente im­
pegnato a chiedere scusa e ad arretrare.
Nessuno ha rispetto di un uomo che chiede permesso ad ogni
suo passo.
Nessuno rispetta un uomo restio a battersi per i suoi
interessi.
Nessuno farà mai il tifo per una squadra che si rifiuta di
giocare.
Per i più, un uomo che non è disposto a giocare per vincere
merita di perdere.
Concordo in pieno.
L'universalismo morale è la filosofia di chi si è arreso. Uomini
che hanno rinunciato alla propria terra, alla propria storia, alle
proprie donne, alla propria dignità e alla propria identità. Uomini
autoridottisi al rango di impotenti ominicchi, per tal ragione me­
ritando di essere vittime, di essere schiavi.
L'universalismo morale è una filosofia velenosa, destinata a
castrare lo spirito di qualunque maschio accetti di adottarla.
Se non sei un uomo bianco, se non sei occidentale, non sarai
comunque risparmiato dallo smarrire la tua cultura, la tua storia
e la tua identità qualora tu decidessi di aderire al credo univer­
salista, ed anche tu, non meno degli altri, ti sarai meritato i ceppi
di schiavo e il grado di vittima. La tua genia color cappuccino
sarà annientata, e scomparirà nell'inconcepibile sciamare di altri
9,5 miliardi di minion color cappuccino, fra loro assolutamente
indistinguibili.
La nostra identità sarà pure stata la prima a cadere, ma prima
o poi toccherà anche alla tua.

32
Non c'è spazio per un'identità, quale che sia, nel sistema di
interessi e meccanismi che muove l'Impero. L'identità è un in­
conveniente. L'identità è improduttiva. Un intralcio, soltanto un
intralcio.
Le schiere globaliste sono allineate in forze contro ciò che è
identità, contro ciò che ancora, nonostante tutto, mantiene un
suo chiaro significato.
Insieme, queste forze formano l'Impero del Nulla.

33
L'IMPERO DEL NULLA

L'Impero del Nulla non ha Imperatore.


Roma aveva le carte in regola per venire considerata un Impero
prima ancora di avere un Imperatore. Attraverso tutto il corso
della sua espansione, infatti, al centro dell'Impero era Roma
stessa a stagliarsi, da essa emanandosi la sua cultura. Roma aveva
il suo pantheon di dèi, i suoi culti e i suoi rituali, ed era assodato
che i territori conquistati sarebbero stati governati da famiglie
romane - patrizi dal lignaggio riconducibile alla fondazione
stessa della città.
L'Impero Romano seppe mantenere in essere una potente,
centralizzata identità culturale attraverso i suoi secoli più fiorenti,
facendo valere con successo tale sua, egemonia in tutte le varie
province. I popoli conquistati erano ben consapevoli di trovarsi
sottomessi all'aquila romana, ed erano generalmente tenuti ad os­
servare le festività romane e rendere omaggio agli dèi di Roma, i
quali - è facile immaginarlo - avranno senz'altro voluto conferire
un gran potere ai cives che li onoravano. Molte delle popolazioni
sotto il giogo di Roma - ad ogni modo - già praticavano culti
politeisti, e pertanto fu loro concesso di continuare a adorare
le proprie divinità a patto che ad esse associassero anche gli dèi
romani.
Molti sostengono sia stato il loro ostinato rifiuto di adorare
gli dèi di Roma a rendere i cristiani un problema per l'Impero.
Con il loro comportamento, era l' identità romana ciò che i cri­
stiani respingevano. I cristiani desideravano mantenere la propria
identità, un'identità che per loro era tutto; i romani, a loro volta,
sapevano benissimo quant� i cristiani tenessero alla propria
identità, e sapevano anche che l'ordine sociale si genera da un'i­
dentità condivisa, e che tollerare un simile rifiuto dell'ordine

35
identitario di Roma, centralizzato e omogeneizzante, sarebbe
stato come consegnarsi ad un tarlo che lentamente avrebbe finito
per rosicchiare via tutto ciò che Roma stessa aveva creato, e quel
che aveva di più caro. Per tali ragioni le autorità romane presero
a perseguitare i cristiani, anche se - a quanto pare - non furono
abbastanza brave a farlo.
Altri Imperi, dotati che fossero di un vero Imperatore, o
magari di un faraone, di un grande capo, di un re o una regina,
mantenevano sulle terre-sottomesse una paragonabile egemonia
culturale centralizzata. I sudditi dovevano avere sempre ben
chiaro chi li governava. li potere emanava da un centro, ed era
retaggio di un ben defipito gruppo, culturalmente omogeneo. Il
potere, insomma, aveva una precisa origine, e non di rado anche
un volto. I sudditi non dovevano avere dubbi circa quali divinità
sarebbe stato loro richiesto o ordinato di adorare, o quali usanze
avrebbero dovuto adottare onde evitare di ficcarsi in situazioni
spiacevoli.
L'Impero del Nulla non ha un Imperatore, ma neanche un
centro o un popolo.
Si potrebbe affermare che il centro culturale dell'Impero del
Nulla sia Los Angeles, e non sarebbe neppure lontano dal vero.
In effetti, l'industria hollywoodiana dell'intrattenimento offre
una rappresentazione abbastanza completa dei valori e dei mec­
canismi su cui si basa l'Impero. L'intera produzione culturale in
quel di Hollywood è prevalentemente mossa dal denaro. I film
e gli show televisivi sono testati su audience selezionate per assi­
curarsi i più lauti guadagni ed il maggior successo. I contenuti
possono piacere ad alcuni più che ad altri, ma non saranno mai
davvero esclusivi. Tutto deve essere per tutti e per nessuno.
Il miglior prodotto d'intrattenimento, quello più celebrato e
seguito, sarà caratterizzato da un "appeal universale". Si può
argomentare che anche questa - in fondo - sia una forma di

36
egemonia culturale, ma in realtà a parlare è soltanto il mercato. Se
i mormoni diventassero il gruppo economico più potente e po­
poloso nel Paese, e se li sapessimo avidi cinefili, saremmo pieni di
prodotti cinematografici ad ampio budget dedicati a loro. Con il
mutare dei rapporti demografici negli Stati Uniti, i grandi studios
si sono affrettati ad includere nei cast attori facenti capo ai vari
gruppi in espansione. Nessuna egemonia culturale di un parti­
colare popolo con una sua ben precisa identità, bensl un mero
processo produttivo fondato sul profitto, sistema che di volta
in volta si adegua ai cambiamenti nel mercato con lo scopo di
raggiungere il più vasto numero possibile di consumatori. L'an­
ticultura, intesa come universalismo culturale e morale volto a
far strame dei confini sociali a misura di consumatore, è l'unica
cultura che un simile meccanismo può veicolare.
Per quanto una fetta ingente della attuale produzione cul­
turale veda la luce in quel di Los Angeles, Hollywood non è
Roma. Il "Popolo di Los Angeles" non possiede alcuna cultura
da imporre al mondo. Se pure ne avesse una, sarebbe quella spede
di eticaccia sensazionalistica e da ruffiani di bassa lega ereditata da
tutti quei figuranti di varietà e maneggioni assortiti che si sono
fatti strada sino a diventare i primi grandi nomi dell'industria
cinematografica.
L'ancicultura dell'Impero del Nulla è passivamente imposta
attraverso i luccichii della ribalta hollywoodiana - un moderno
Circo Massimo - ma sono i governi a promuovere la sua attiva
implementazione, istituzioni facenti base non soltanto a Wa­
shington D.C., ma anche nelle varie capitali d'Europa, e partico­
larmente in Belgio e a New York. Le Nazioni Unite e l'Unione
Europea corrono in campo ogniqualvolta un'identità rischi di
divenire troppo potente, o minacci di destabilizzare gli equilibri
economici o rimettere in discussione limiti consolidati. Se è Hol­
lywood a mostrarci insiemi eterogenei di persone vivere e lavorare

• 37
in pace e armonia, sono i governi, le istituzioni e le organizzazioni
internazionali a punire chi non coopera.
Le grandi aziende, dal canto loro, si pregiano di sanzionare
le discriminazioni sul posto di lavoro, intendendo con "discri­
minazioni" tutti quei comportamenti riconducibili a questa o
quella identità selettiva o a un codice morale non universalistico.
In molti casi, i colossi dell'imprenditoria e gli ambiziosi legali
che ne servono gli interessi si sono dimostrati molto più avanti
degli stati in quanto a far valere i dogmi dell'integrazione razziale,
sessuale e culturale in tutto il mondo. Insieme alle università, è
nelle aziende che hanno preso piede a livello routinario corsi ap­
positi dedicati alla "diversità" e alla "sensibilità culturale".
Nell'immaginario collettivo, le grandi compagnie imprendi­
toriali sono coacervi di personaggi avidi e malvagi, attivamente
dediti a tramare alle spalle delle varie minoranze, laddove una
società quotata in borsa è invece nient'altro che un'entità legale
amorale e orientata al profitto, capace di veder le cose solamente
attraverso gli occhi del bilancio. Le persone, a loro volta, sono
dipendenti, consumatori e nulla più. Gli impiegati di un'azienda
non sono persone, ma insiemi deambulanti di abilità diverse,
dediti solo e soltanto all'adempimento dei propri compiti.
Quando si dimostrerà economicamente più conveniente rim­
piazzare gli esseri umani con i computer, lo si farà senza esitare.
Gli sportelli automatici negli uffici e le casse fai-da-te nei super­
mercati sono solo esempi tratti dalla quotidianità, ma infiniti altri
se ne potrebbero citare nei più differenti comparti industriali,
specie nel settore manifatturiero. In quanto entità meramente
legale, una società quotata non deve alcuna lealtà a un popolo
o a una nazione in particolare. Quando la voce del profitto lo ri­
chiederà, senza scrupoli di sorta la compagnia importerà mano­
dopera specializzata o delocalizzerà in paesi stranieri, dove il costo
del lavoro sarà ritenuto sufficientemente basso.

38
L'antagonismo identitario sul luogo di lavoro rischia di aver
effetti potenzialmente devastanti. Chi lavora fianco a fianco non
può appartenere a tribù belligeranti pronte a battersi. Sarà im­
possibile incrementare la produttività collettiva dicendo alla
collega che andrà all'inferno, che dovrebbe starsene in cucina, che
la sua religione è stupida o che il suo popolo è fatto di pederasti
inculacapre. L'approccio migliore per un'azienda è quello a suo
tempo tenuto da Roma: consentire agli impiegati di mantenere
le proprie identità culturali a un livello superficiale e innocuo, a
patto che accettino di piegarsi alla superiore cultura d'impresa e
ai suoi obbiettivi.
Cosi un bravo manager delle risorse umane, materno e pacato
come si conviene, spiegherebbe la questione ai suoi sottoposti...
"Sicuro, Susan, porta pure il tuo crocifisso al collo, e tu,
Mohammed, fermati a pregare tutte le volte che vuoi: l'im­
portante, mi raccomando, è che facciate il vostro lavoro. Steven,
vuoi vestirti da donna? Nessun problema, ma non dimenticare di
comportarti bene e di rendere grazie alla sacra mela di Appie."
Per alcuni, ciò che io chiamo Impero del Nulla può rimandare
alle parole dei soliti teorici del complotto, fissati con il Nuovo
Ordine Mondiale, la Massoneria, gli Illuminati, il Gruppo Bil­
derberg, la Cupola, lo spettacolo6 o, nelle cerchie più audaci e so­
litamente anonime, "il giudaismo internazionale". Se è palese che
alcuni gruppi o individui sono in grado più di altri di influenzare
il corso delle cose, faccio più fatica a prestar fede all'idea quasi
fumettistica di un oscuro consesso di cattivoni che governano il
mondo dalle loro segrete stanze.

(6) Verosimilmente, !'.Autore si riferisce alla teoria situazionista elaborata dal filoso­
fo francese Guy Debord (1931-1994), ed esposta nel libro "La Société du Spectade"
(1967). Nelle sue argomentazioni, cogliendo la pervasività dei maJS media ed i rischi
loro connessi in un'era televisiva ancora ai suoi albori, Debord descrive la moderna so­
cietà delle immagini come una mistificazione su vasta scala, finalizzata a giustificare i
vigenti rapporti sociali di produzione. (N. d. T.)

39
È possibile che i rettiliani siano dietro a tutto.
Ma in tal caso si dovrebbe parlare di Grande Impero Ret­
tiliano, e finalmente si tratterebbe di un Impero di Qualcosa.
Una volta che i dominatori verdi abbiano gettato la maschera,
nel giro di qualche scaramuccia ci troveremmo tutti a prostrarci
al cospetto della Grande Lucertola, dal nome quasi sicuramente
impronunciabile, e se i rettiliani avessero l'acuta intelligenza dei
romani, una volta che la Grande Lucertola sarà stata placata dai
suoi sudditi con il debito tributo di fedeltà, questi ci lascerebbero
senz'altro continuare ad adorare i nostri piccoli dèi terrestri,
fumare erba, sollazzarci con i videogiochi e segarci su porno di
nani che si scopano muli, mentre i nuovi padroni procedono
comodamente a razziar via una succosissima quota di risorse,
anime, o quant'altro ancora preferiscano.
Ciò è... possibile.
Tuttavia, la realtà del nostro tempo è con tutta probabilità
assai più banale.
L'Impero del Nulla è una rassegna internazionale di sistemi
autoriferiti, tesi ad autoalimentarsi e sovrapporsi. Questi sistemi
- banche, eserciti ed annessi venditori di armi, governi, sindacati,
gruppi d' interesse, produttori, distributori, immobiliaristi, pro­
fessionisti dell'intrattenimento, apparati mediatici, e così via -
lottano senza posa per sopravvivere darwinianamente. Dietro
ad ognuno di essi abbiamo manager, manager che cercano di
far fiorire le proprie carriere, puntellare i propri feudi o sempli­
cemente non far licenziare i propri dipendenti. Abbiamo business
grandi o piccoli che cercano di crescere. Abbiamo capireparto
indaffarati a render conto dei propri budget. Abbiamo persone
diverse, con interessi diversi da far valere. Niente di entusia­
smante, garantisco. Burocrazia, solita burocrazia.
Si tratta delle più basilari strategie di sopravvivenza, espedienti
che in un modo o nell'altro la Storia ha sempre conosciuto in

40
tutto il suo lungo corso. Gli uomini d'affari non sono diventati
avidi all'improvviso, né i governi si sono fatti di colpo ricettacoli
di malcostume, ma - oggi come ieri - governanti corrotti si av­
valgono dell'aiuto di abbienti affaristi per tirare a campare. Del
resto, mai nella Storia si è mai visto qualcosa come un giornalismo
"obbiettivo", e da migliaia di anni a questa parte, burocrati egoisti
continuano a fare imperterriti i propri interessi.
Tuttavia, fino ad anni relativamente recenti, anche le nazioni
rimanevano nazioni, e terra di nascita, lingua, razza e religione
mantenevano intatta la propria importanza. Chi nasceva in una
determinata nazione, sviluppava una propria cultura, ben de­
finita e differente dalle altre. Si credeva in cose diverse, e gruppi
religiosi fra loro antagonisti non avevano paura di saltarsi alla gola
e darsi battaglia. Anche i sessi avevano differenti ruoli, e radicati
nei cuori vivevano principi etici in ,nome dei quali le persone
sentivano valesse la pena battersi. Gli uomini di allora erano altri
uomini, uomini assai poco disposti a svendere tanto facilmente le
loro identità etniche e la stirpe dei propri antenati per scomparire
in un vago "progresso" ... in un qualche "futuro".
Come ha potuto l'Occidente, insieme di nazioni dalle dif­
ferenti lingue e storie, spazio vitale di regni e Imperi, trasformarsi
in un covo di comitati d'affari e consessi istituzionali uniti dal
comune odio per l' identità? Come h1 potuto l'egemonia cul­
turale che sempre ha segnato il ruolo dell'Occidente nel mondo
farsi vessillo di annullamento culturale?

41
LA MADRE DEGLI ESULI

L'universalismo morale affonda le sue radici nella filosofia


classica, perpetuandosi attraverso ogni religione che si ostina
a credersi l'unica vera per ogni uomo ed ogni donna. Tuttavia,
anche queste fedi buone per tutti hanno finito per frammentarsi,
spesso con violenza, in mille rivoli settari. Nel corso della Storia,
non sono mancati uomini di fede che non hanno esitato ad
ergersi in armi per la Patria o la propria stirpe, mettendo da parte
il loro amore per l'umanità intera.
Dottrine universali fondate sul convertiti-o-muori, come
l'Islam o il Cristianesimo, ben si sono adattate a culture espan­
sionistiche ed Imperi in espansione, ponendo gran parte delle
premesse morali e filosofiche per quell'universalismo massificante
e pigliatutto che - già epidemico in Occidente - va diffondendosi
con virulenza attraverso il globo.
Tuttavia, ad ogni fede corrisponde un certo numero di regole.
Ad ogni religione, i suoi ideali. Le dottrine religiose che affermano
di essere la via, la vera via, l'unica via per uomini e donne di ogni
latitudine non possono esimersi dal punire; evitare, escludere i
miscredenti. Ogni vera via, in fondo, è definita dal suo contrario.
L'uomo pio e probo da un lato, l'eretico e il peccatore dall'altro.
Oggi persino questo è divenuto sconveniente.
L'odierno universalismo, l'universalismo capace soltanto di
condannare chi condanna e scacciare chi distingue, è figlio del
commercio globale. Il dio unico dell'universalista è Mammona,
ed il suo prossimo è chiunque abbia un portafoglio pieno e non
spaventi gli altri clienti. Per questo veniamo istruiti ad accettare
l'inaccettabile, a puntare il dito contro quelle religioni che ancora
osano lanciare anatemi, a condividere le culture di tutti quasi non
fossero di nessuno, a negare ogni affinità razziale, ed a fingere che

43
uomini e donne siano in fondo intercambiabili. Veniamo istruiti
a non escludere, perché escludere nuoce agli affari.
Se sei il gestore dell' unico distributore di benzina dell' intero
villaggio, puoi permetterti di dir di no a chiunque, ma se dall'altra
parte della strada hai un altro distributore, un diretto concorrente
abituato ad accogliere tutti, questo finirà per far molti più soldi
di te, soprattutto se entrambi vi trovate in quartiere multietnico.
La tua capacità di espandere il tuo business sarà determinata dal
numero di clienti che sei disposto a servire. Veniamo istruiti a
non escludere, perché l'esclusione limita gli affari.
Il piccolo uomo d'affari è tutto sommato insignificante nell'era
delle grandi multinazionali quotate in borsa, amorali per costi­
tuzione. L'unico obbiettivo di una compagnia quotata in borsa
è generare un ritorno sugli investimenti dei propri azionisti, ed
è possibile acquistarne le quote dietro pagamento di una data
somma di denaro. Chiunque può investire i propri soldi in un'a­
zienda quotata in borsa, e perché questa possa continuare ad
espandere ed incrementare i profitti, garantendo un adeguato
ritorno su tali investimenti, deve assolutamente trovare un modo
per collocare i propri prodotti su qualunque mercato.
Che una compagnia venda software, pornografia o bibite anal­
coliche, gli imperativi categorici delle sue politiche non possono
che essere espansione ed inclusione. Se un determinato gruppo
non gradisce che un altro gruppo venga incluso nella medesima
sua cerchia, ecco tutti tacciarlo di intolleranza, bigottismo, arre­
tratezza, odio. Il commercio sovrasta ogni cosa. Lo spirito della
corporation globale trascende razza, sesso, nazioni e religioni, e
come una divinità essa ama tutti i figli di questo mondo, ascolta
le loro preghiere, e le esaudisce con i suoi prodotti, accettando in
cambio ogni tipo di moneta.
Una volta che si sarà capito come l'odierno universalismo sia
nient'altro che olio per gli ingranaggi del commercio globale, una

44
volta che si sarà realmente compreso l' universalismo contem­
poraneo come vero e proprio ethos commerciale, in grado di sop­
piantare ogni sistema morale - sia esso religioso, tribale, culturale
o razionale - sarà assai facile dar conto dell'estatico fanatismo che
caratterizza i moderni crociati della pubblica morale.
L'umanissima tendenza a dar la caccia alle streghe, a sver­
gognare il peccatore e silenziare l'eretico si è ritorta - fra chiac­
chiericci mirati e gogne pubbliche - contro qualunque ostacolo
che ingombri il cammino verso la completa intercambiabilità
umana, vero balsamo per i fogli di calcolo del banchiere. Nell'era
universalista, il peccato consiste in ogni atto o detto volto a se­
parare, discriminare, differenziare, valutare le persone. Il reprobo
meritevole di condanna è oggi soltanto colui che osa ancora con­
dannare, e solo su chi discrimina può abbattersi ormai l'onta della
pubblica discriminazione.
Nessun comportamento non-violento può essere criticato o
giudicato, tranne quello di chi si azzarda a muovere un rilievo
anche minimo ad una scelta di consumo, si trattasse pure dèlla
più banale ed insignificante - i vestiti che uno ha indosso, ad
esempio, o la macchina che guida. La gente, ci mancherebbe,
continua a ridacchiare e spettegolare, come fa da migliaia di anni,
sul disagio sociale e il chi-scopa-chi, ma gli appassionati anatemi
morali ed il pubblico ludibrio sono oggi unicamente riservati a
razzisti, sessisti, "estremisti" religiosi, ed a tutti i vari tipi di -fobi:
omofobi, xenofobi, transfobi, islamofobi, e chiunque altro sia
sfiorato dal balzano pensiero di limitare, escludere, definire se­
parando o distinguendo.
La stessa tattica di associare una presunta paura ad ogni morale
non universalista è - in fondo - uno scaltro sovvertimento del
concetto di onore proprio del maschio. Affibbiando a qualunque
posizione discriminatoria il marchio della codardia, tanti maschi
ridotti a consumatori solitari, privi di quel senso di identità ed

45
appartenenza tipico di un contesto di forte cameratismo virile,
verranno condotti dalla loro stessa natura ad evitare ogni rapporto
con quegli uomini che la società insegna loro esser codardi.
In quest'era universalista, ogni violenza è bandita tranne
quella di stato, e pure questa la si esercita rigorosamente sotto
il pretesto della lotta all'"estremismo", al "separatismo", ed a
qualunque altra minaccia alla quiete domestica e all'unità fra le
nazioni. Non esistono nemici, ma soltanto potenziali alleati -
cuori e menti da conquistare, "brave persone" private del proprio
naturale diritto al fast faod sotto casa, ad una bella moquette, ai
porno ad alta definizione. Non si erigono più statue di eroi nelle
nostre città, perché non abbiamo più nemici da contrapporvi. Se
Beowulf pare sparito, è perché anche dragoni e mostri non appar­
tengono più al nostro tempo, rimpiazzati da stranieri diseredati e
non capiti. Oggi, gli unici a cui ancora si dedicano monumenti
sono mitici martiri di pace, come Gesù Cristo, Martin Luther
King o Abraham Lincoln.
Quest'universalismo morale al servizio del commercio,
quest'idea che il valore di un uomo corrisponda al suo peso
in oro, deve senz'altro aver fatto capolino in ogni snodo com­
merciale lungo tutto il corso della Storia. È la conseguenza logica
della contrattazione con ampie gamme di individui fattasi norma
della vita, e dell'aver preferito rinnegare ogni lealtà, morale,
cura in nome del buslness, proprio come accade oggi. Le molli
e "mentalmente aperte" civiltà di mercanti cittadini non sono
mai andate d'accordo con il tribalismo virile e le culture fondate
sull'onore.
I classici contenitori pigliatutto, siano essi ideali o spirituali,
possono pure aver facilitato l'attecchire dell'universalismo mer­
cantile, ma ad impedirne il dilagare provvedevano il tribalismo
e gli assoluti morali delle religioni. Ad ogni modo, almeno due
altri fattori tipici del ventesimo secolo e della prima parte del ven-

46
tunesimo hanno permesso all'universalismo del commercio di
aver la meglio su ogni altro legame di fedeltà, su ogni ideologia, e
persino sulla più basilare comprensione della natura umana.
Innanzitutto, una vera e propria esplosione tecnologica ha
connesso gruppi di persone geograficamente distanti in modi in
precedenza impensabili. Viaggi internazionali alla portata di ogni
tasca, seguiti dall'avvento della televisione e degli altri mezzi di co­
municazione di massa, hanno reso prossimi gli uni ad altri che
mai prima avrebbero potuto incontrare. Le culture fioriscono
nell'isolamento, ed oggi questo non può che essere niente più di
una scelta deliberata. La norma, invece, è ben altra: un continuo
flusso di notizie e informazioni su completi sconosciuti, lontani
centinaia o migliaia di miglia, che contribuisce a creare pros­
simità del tutto apparenti e l'apparenza di un legame personale
con chiunque, ovunque esso si trovi..Gli occidentali sono ormai
abituati a far affari o socializzare con tutti, e preferire stati, nazioni,
continenti diversi al loro stesso vicino, travalicando ogni barriera
culturale ed uniformando ogni differenza. Individui destinati a
non incontrarsi mai utilizzano gli stessi software, comprano gli
stessi vestiti e gli stessi videogiochi, lavorano con gli stessi attrezzi,
ascoltano la stessa musica e identici spettacoli li intrattengono
nel tempo libero. Il commercio globale dà luogo ad esperienze
culturali universali condivisibili virtualmente da chiunque, espe­
rienze culturali che si attestano ben oltre il semplice essere umani
su questa Terra.
Dal canto loro, anche la scienza e la medicina hanno fatto la
loro parte, premurandosi di certificare quanto siano simili, in
fondo, gli esseri umani. La maggior parte di questi, infatti, con­
divide gli stessi bisogni essenziali e soffre dei medesimi malanni,
è afflitto dai medesimi problemi psicologici ed è manipolabile
in modi più o meno simili. Piccole divergenze attitudinali tra
gruppi eterogenei evolutisi in ambienti diversi sono negate, fatte

47
sembrare insignificanti, o geneticamente soppresse attraverso il
meticciato.
Storicamente, una delle strategie più consolidate utilizzate
per la riunificazione di singoli gruppi patrimoniali in tribù, regni
e nazioni è la scoperta o la creazione artificiale di mitiche radici
comuni. Oggi, la moderna genetica e gli studi sull'evoluzionismo
vengono ad essere sempre più strumenti al servizio della causa
dell'unità globale, al fine di dar prova che tutti gli umani di­
scendono dai medesimi antenati, anche se le varie stirpi originarie
risultano separate da milioni di anni e la rilevanza di tali, supposti
antenati comuni appare del tutto discutibile. La scienza ha sem­
plicemente rimpiazzato fede e mito nel provvedere la più conve­
niente narrazione unificatrice.
Molti credono di essersi "evoluti oltre" i propri istinti tribali,
o di aver esaminato con _occhio critico le varie differenze razziali,
sessuali, culturali e di aver poi deciso in piena coscienza, e
sulla base delle informazioni disponibili, di trattare gli altri "in
maniera obbiettiva" o sovracompensare per correggere i propri
pregiudizi, da considerarsi ovviamente erronei, ingiusti o mo­
ralmente sbagliati a prescindere. L'idea di milioni di individui
in tutto il mondo che - ognuno per suo conto - sconfiggono il
razzismo, il sessismo ed ogni altro pregiudiziq culturale con l'uso
della ragione è una fantasia disgustosamente presuntuosa. Essere
antirazzisti, essere antisessisti non è affatto frutto del pensiero
indipendente, bensl rappresenta lo spirito prevalente in questa
nostra era commerciale, facilitato dalle infrastrutture mediatiche
globali ed insegnato in quasi ogni aula dell' intero mondo civi­
lizzato. L'antirazzista, l'antisessista di oggi è il cattolico del Me­
dioevo o del Rinascimento. La tanto sbandierata tolleranza altro
non è che una norma sociale culturalmente imposta, e come per
i cattolici di allora, la presunta oggettività del "pensatore critico"
odierno si tradurrà in un supporto entusiasta a qualunque In-

48
quisizione voglia dar la caccia - come alle streghe di un tempo
- ai nemici della santa fede universalista. La follia delle masse in­
ferocite rimane la stessa, limitandosi soltanto a mutare forma.
Il secondo fattore degno di considerazione - fattore del tutto
insolito, del resto - è l'influenza politica e culturale femminile,
un'influenza senza precedenti che ha visto trasformarsi talenti
innati per la cura e la pacificazione in autentiche forme pato­
logiche di altruismo universale.
È sempre stato compito maschile sorvegliare e difendere i
limiti esterni della tribù, del regno, della nazione, separando il
(( noi·" dal (Cloro" . Alle donne toccava adoperarsi· per uni•fìcare 1 a
tribù dal suo interno, coltivare relazioni positive, e far sentire
benvoluto ogni membro, curandosi con particolare premura· dei
giovani e dei vecchi, dei malati e dei feriti.
Le donne, specialmente quelle di ·alto rango, hanno sempre
esercitato una propria influenza politica attraverso i loro uomini.
A titolo di esempio, nelle varie saghe islandesi e più in generale
nella letteratura tradizionale germanica ritorna ancora e ancora
l'idea che se oserai suscitare l'ira della regina, questa userà la sua
influenza sul re ed i suoi uomini per fartela pagare. Tuttavia, con
l'estensione alle donne del diritto di voto nelle società demo­
cratiche, le naturali propensioni femminili alla cura, alla conso­
lazione, all'inclusione hanno finito per corroderne rapidamente
- dall'interno come dall'esterno - le strutture culturali.
In termini di politiche interne e vita quotidiana, le naturali ge­
rarchie sono state progressivamente minate, o del tutto soppresse.
La competizione è passata di moda al grido di "l'importante è
partecipare", cosl che nessuno abbia più da star male sentendosi
un perdente. La ricchezza viene estorta a chi l'ha guadagnata e
ridistribuita a chiunque dica di averne bisogno, facendo venir
meno in un solo colpo sia la spinta al successo che lo scotto del
fallimento. Neppure gli standard fisici sono stati risparmiati,

49
persino in polizia, nell'esercito, nelle forze antincendio o in altri
impegnativi campi professionali, ed ogni criterio di selezione è
stato volutamente allentato per farvi rientrare chi fa mostra di
non possedere né doti né qualifiche. L'empatia rutta femminile
per i malati e i derelitti ha trasformato questi ultimi nei nuovi
eroi dell'oggi, rendendo la condizione di vittima a tal punto de­
siderabile che anche la donna bianca più viziata e coccolata non
manca mai, a sprezzo della propria dignità, di qualche lacrimevole
e patetico dramma personale - spesso inventato di sana pianta -
da sbandierare ai quattro venti. La dolcissima compassione di una
madre per il proprio figlioletto ferito nei suoi sentimenti è stata
indiscriminatamente estesa a tutto e a tutti, cosl che qualunque
dolore - vero o presunto che sia - finisce per essere automati­
camente legittimato e trattato con la medesima sollecitudine,
rimuovendo a prescindere qualunque responsabilità dal singolo
individuo, poiché la vittima "non si discute, si ama". Per quanto
utopistico possa essere, l'imperativo categorico è consolare e pro­
teggere ogni potenziale vittima, chiunque essa sia. Come la dea
Frigg chiese al fuoco e all'acqua, al ferro, alle bestie di terra e agli
uccelli del cielo di giurare che insieme avrebbero salvaguardato
suo figlio da ogni pericolo, così l'animo di donna, se non frenato
dalla sua controparte virile, vorrebbe blandire l'intero mondo in
un amorevole abbraccio materno, mettendoci al riparo da qua­
lunque cosa potrebbe nuocerci... o dard la glon"a.
Se l'empatia femminile è certamente utilissima per condurre
membri della stessa tribù o componenti della stessa famiglia a
prendere in esame tutte le differenti prospettive di una contesa
al fine di giungere più facilmente a una riconciliazione, qualora
questa si applicasse liberamente anche all'esterno, frutto inevi­
tabile ne sarebbe un'inclusività illimitata. Pure il punto di vista
dell'estraneo, o addiritcura del nemico, diverrebbe degno di con­
siderazione, e tanto l'estraneo quanto il nemico sarebbero d'un
tratto i benvenuti, nel più totale disinteresse per quanto e come

50
il loro ingresso potrebbe alterare o corrompere la tribù. I confini,
tanto sociali quanto nazionali, finirebbero per venire percepiti
come limiti meramente formali, e chi osasse avanzare perplessità
di carattere tecnico o pratico circa l'inclusione indiscriminata di
immigrati, rifugiati, o in generale individui portatori di valori
confliggenti con quelli caratteristici della tribù stessa non po­
trebbe non beccarsi i più aspri rimproveri. Chiunque, in una
simile prospettiva, deve sentirsi compreso, invitato, accolto.
Nessuno verrebbe più bandito, se non colui che osa bandire il
forestiero.
In quanto ad insegnare e far rispettare le norme di condotta
civile, le donne sono sempre state impareggiabili.Un ruolo, il loro,
senz'altro fondamentale, importantissimo nel promuovere unità
e armonia all'interno della tribù. Suppongo sia stata una donna
ad insegnarti per la prima volta le buone maniere - quando dire
"per favore" e quando "grazie", cosa dire o non dire in giro per
andare d'accordo con la gente.
Oggi, dalle cattedre delle scuole, dalle scrivanie d'ufficio,
dagli scranni governativi e dai vari podi mediatici, le donne si
distinguono come le più appassionate fautrici di ogni forma di
politicamente e socialmente corretto. Incontrando per strada
· . ,,
qual cuno mtento a ur1are "razzista · » o "sessista nel suo me-
gafono, ci sono buone probabilità che si tratti di una donna o
di un maschio effeminato. Le donne continuano a comportarsi
come è sempre stato loro naturale, ed anche il loro ruolo sociale
è rimasto più o meno lo stesso, ma invece che porre la loro indole
al servizio della tribù, hanno preferito diventare le utili idiote
della grande finanza, che ha saputo far uso della loro inedita in­
fluenza politica per indebolirci, schermandoci da ogni rischio
come mamme con i loro bambini, e dissolvendo ogni significativa
identità tribale in una generale riconciliazione, utile soltanto ad
un'espansione senza ostacoli del flusso del commercio globale.

.. 51
Il sonetto di Emma Lazarus7 "The New Colossus", composto
nel 1883 e inscritto sul basamento della Statua della Libertà, ci
regala un'anticipazione di come apparirebbe l'americanismo rein­
terpretato in ottica femminile:

Non come t'l glgante di' bronzo dr: greca fama,


che a cavaldonl da sponda a sponda stende r: suol artl conqut'-
staton·.
Qui� dove st' t'nfrangono le onde del nostro mare
St' ergerà una donna potente con la torda t'n mano,
la cut'fiamma è un fulmi'ne t'mpn'gùmato, e avrà come
nome Madre degli' Esuli'. Ilfaro
nella sua mano darà t'l benvenuto al mondo, t'
suoi' occhi' mt'tt' scruteranno quel mare che gr:ace fra due dttà.
Antt'che terre, - ella dr:rà con labbra mute
- a voi' la gran pompa! A me date
r: vostri stanchi� i·vostn·poven�
le vostre masse t'nfreddolite desiderose di' respt'rare Ubere,
t' nfiutt' miserabili' delle vostre spiagge affollate.
Mandatemi' loro, i senzatetto, gli' scossi dalle tempeste,
e lo solleverò la mt'afiaccola accanto alla porta dorata.

Il patologico altruismo del pensiero matriarcale, desideroso di


farsi carico e dare asilo a chiunque, ovunque siano le sue radici, si
è efficacemente armonizzato con l'idea commerciale che "buono
è il denaro di ogni tasca".
La Madre degli Esuli è convolata a nozze con Mammona.
Insieme, essi si ergono contro la Storia e le identità senza tempo,
aprendo ai negletti del mondo la via dell'immenso mercato
globale.
Fatevi avanti� o voi increduli: e spendete!

(7) Emma Lazarus (1849-1887), poetessa e traduttrice statunitense. Di famiglia ebrea


sefardita, studiò approfonditamente l'italiano, il francese, il tedesco, traducendo nume­
rose opere di - fra gli altri - Goethe, Heine e Carducci. (N. d. T.)

52
LIBERTÀ

La Madre degli Esuli ti darà il suo benvenuto nell'Impero del


Nulla di Mammona.
Da brava madre ti accetterà e ti stringerà nel suo abbraccio,
chiunque tu sia. Sarai immancabilmente speciale per lei, e non
mancherà di dirtelo. In ogni momento, avrai il suo supporto e
il suo conforto, e la sua conferma che le tue debolezze, in fondo,
sono punti di forza. Ascolterà volentieri la storia della tua esi­
stenza, non importa quanto triste o insignificante, ed il suo cuore
materno non avrà dubbi: il mondo ti ha reso una vittima e trattato
ingiustamente. Nulla per lei varrà più dell"'uguaglianza", e non
esiterà a menomare i migliori per rendere la vita più "giusta" ai
suoi figli più deboli e incapaci. Strettd al suo seno, non conoscerai
rischio né disagio, poiché contro quei malvagi che oseranno in­
sidiarti scatenerà la Guardia Imperiale di Mammona, e quest� li
intimidirà e li scaccerà via.
La Madre degli Esuli annuncia sé stessa come un faro di
Libertà.
Non le interessa affatto come ti vesti, o di quali gruppi musicali
hai il poster in camera. Potrai scoparti letteralmente chiunque, e
non avrà mai niente da obbiettare. Con amore ti preparerà gustosi
biscotti alla cannabis e ti riempirà la dispensa di ogni genere di
bevanda zuccherata, cosi che tu non abbia mai a rimanere senza
mentre giochi al computer con i tuoi amici. Lei sarà sempre 11,
sempre, a metterti in salvo da te stesso con barriere e linee guida
pensate appositamente per salvaguardarti da ogni pericolo fisico.
Non preoccuparti di niente: solo continua a respirare, e ad in­
serire sempre nuovi gettoni nella slot machlne.
La libertà che la Madre degli Esuli ti offre è il rassicurante
tepore del suo grembo.

53
Le Genti dell'Impero sono state persuase di essere libere.
Tutto possono fare, tranne che lasciare il grembo della Madre,
distinguendosi e separandosi dall'Impero - tranne che nascere,
in una parola.
Le Genti dell'Impero sono state convinte che libertà sia si­
nonimo di permesso. Credono di esser libere per aver ottenuto
il permesso di fumare marijuana in casa propria, di contrarre
un matrimonio omosessuale, o di cambiare direttamente sesso
qualora non piaccia più loro essere maschio o femmina. Credono
che la loro libertà risieda in una licenza a pagamento necessaria per
comprare una pistola o costruirsi casa. Le Genti dell'Impero sono
sicure di esser libere perché qualcuno consente loro di votare e re­
gistrare le proprie opinioni politiche8• È persino consentito loro
di protestare - pacificamente, s'intende.
Tuttavia, quando gli uomini combattono per la libertà, non è
per un permesso che lottano.
Quando gli uomini combattono per la libertà, la loro è una
lotta per la propria indipendenza e la capacità di auto-deter­
minarsi. Tranne che nel caso di schiavi in rivolta, essi combattono
per la facoltà di determinarsi come gruppo. Quando gli uomini
lottano fianco a fianco per la libertà, si battono per poter stabilire,
separandosi, una nuova identità collettiva. Lottano, insomma,
per distinguere un nuovo "noi" da un vecchio "noi" fattosi ormai
tirannico "loro". Combattendo, essi provvedono a tracciare un
nuovo perimetro, e a sancire un nuovo ordine.
Entro i confini dell'Impero, di norma non si permette alle
spinte secessioniste di averla vinta. In America, i membri della
Confederazione convennero - con un dibattito aperto ed un
processo pienamente democratico - di separarsi legalmente dagli

(8) L�utore si riferisce ad una particolarità del sistema eletcorale-particico scacunicen­


se, per la quale - prima di ogni elezione - a ciascun elettore è fatta richiesta di registrarsi
ufficialmente come affiliato ad un partito, o come indipendente. (N. d. T.)

54
Stati Uniti al fine di tutelare i propri interessi e la propria cultura.
Il governo statunitense rifiutò di acconsentire alla secessione, e
preferì la morte di 620000 suoi cittadini all'eventualità di vedersi
sottratto il controllo sulla ricchezza e le risorse del Sud. Legitti­
mamente, uno può chiedersi quanto "liberi" siano mai stati gli
americani da allora.
Se non ti è consentito andartene pacificamente, non puoi dirti
davvero "libero".
L'Impero del Nulla era allora ai suoi albori, e l'esistenza di
identità distinte - nazionali, etniche, religiose, razziali, sessuali
- era ancora considerata normale. Persino Lincoln, storico santo
protettore del fronte unitario, voleva mandare gli schiavi neri li­
berati a vivere per conto proprio in apposite colonie.
Moltissima acqua è tuttavia da quei tempi passata sotto i
ponti, e l'Impero si è espanso a tal punto da rendere ormai im­
proponibile qualunque forma di separazione collettiva. Lo scopo
ultimo dell'Impero del Nulla è l'atomizza.zione sociale - il fra­
zionarsi di ogni gruppo in gruppi più piccoli, quindi in famiglie
reciprocamente indipendenti, infine in monadi umane. Si è
riusciti a persuadere l'individuo che la sua individualità è un'i­
dentità totale e completa, e che chi sceglie di isolarsi sarà sen­
z'altro migliore e più forte di quanti ancora si ostinano a pensare
al plurale. Purtroppo per lui, un uomo solo è in realtà assai facile
da manovrare, ridurre all'obbedienza, distruggere. Raramente un
singolo individuo rappresenta una minaccia concreta allo spirito
profondo dell'Impero senza alcun tipo di rete collettiva a sup­
portarlo. Un uomo, una donna o una "persona senza genere" da
sé soli altro non sono che somme di capacità, talenti, desideri,
preferenze, unità assolute convenientemente gestibili e del tutto
dipendenti dall'Impero, fluttuanti fra i miliardi come numeretti
su milioni di fogli di calcolo.
Questo è il loro futuro.

55
Debolezza e solitudine. Consumare e consumare ancora,
tentando di colmare un vuoto incolmabile, in uno straziante
senso d'impotenza che si pensa di risolvere inseguendo l'illusione
di un libero agire. Unità totale e totale intercambiabilità.
Per l'uomo medio, ciò corrisponde ad una progressiva ca­
strazione, oltre ad una stigmatizzazione e soppressione di qua­
lunque tipo di cameratismo maschile. Una monocultura,
insomma, di tutto per tutti. Un abbandono di ogni sincera reli­
giosità, e quindi di qualunque identità razziale, etnica e sessuale.
Il cittadino modello dell'Impero del Nulla è prima di tutto un
cittadino dell'Impero, ovvero del Mondo. Qualunque altra
identità residua, qualunque altra subcultura o caratterizzazione
di consumo deve assolutamente rimanere subordinata all'identità
suprema del Consumatore e Cittadino del Mondo.
Ogni identità particolare che trascende quella di Cittadino del
Mondo è un soffio di rivolta contro l'Impero ed un moto verso la
libertà - verso la traumatica separazione dalla Madre degli Esuli,
verso l'autentica nascita al mondo.
Sarebbe folle pensare di poter dichiarare guerra ad un Impero
al culmine del suo potere - ancor più ad un Impero in grado
di osservare qualunque cosa tu faccia in real time. Non siamo
più ai tempi della Rivoluzione Americana. Non ci sono oceani
di mezzo, né soldati in uniforme rossa e moschetto. Questo
Impero dispone di droni, di "Predator'' e "Reaper"'>, e di tutto il
denaro del mondo. Pianificare una rivolta armata entro i confini
dell'Impero del Nulla sarebbe garanzia di repressione e di un
sicuro annientamento.

(9) Tipologie di aeromobili militari a pilotaggio remoto in dotazione alla US Army e


ad altri eserciti occidencali. (N. d. T.)

56
La vera debolezza dell'Impero del Nulla è che con tutta pro­
babilità alla sua testa non ci sono rettiliani. Come ogni altro
Impero della Storia, esso è in realtà guidato da esseri umani, e ri­
chiede obbedienza e collaborazione dai subalterni per funzionare
ed espandersi. Inoltre, come ogni altro Impero, fa affidamento
sulla permanenza in essere di una cultura sovraordinata capace
di assimilare i popoli conquistati ed assicurarsene la fedeltà. La
narrazione che l'Impero del Nulla adopera a tal fine è l' unità
cotale. In cambio della remissiva accettazione del verbo do­
minante, l'Impero regala una confortevole degenza multicul­
turale ad accompagnare il suddito mentre scivola comodamente
nell'oblio.
Le ideologie universaliste, che si tratti del Cristianesimo o
dell'Islam, del comunismo o del multiculturalismo commerciale,
hanno tutte come scopo ultimo l'unificazione e la sottomissione
globale. Serva quel che serva per raggiungere l'obbiettivo, il fine
rimarrà sempre il medesimo. Miliardi di esseri umani intercam­
biabili, pacifici e inginocchiati. Soggiogamento totale. Nulla as­
soluto. Un' identità ad ucciderne ogni altra. Una storia a porre
fine a tutte le storie.
Il verbo unificante dell'Impero potrebbe semplicemente con­
siderarsi l'ultima evoluzione del mortifero credo universalista.
L'unica via per riguadagnarsi la propria libertà oltre le grinfie
dell'Impero è minarne la narrazione dominante, opponendovi un
fiorire di contro-narrazioni. Solo con il rinascere delle tribù ci si
può validamente opporre all'immenso tritacarne della fratellanza
universale. Non mere subculture, ma vere e proprie tribù fiere
delle proprie identità esclusive, capaci di resistere all'assimilazione
e sopravvivere il più in autonomia possibile. Tribù di persone ve­
ramente connesse fra loro, per le quali la lealtà reciproca valga più
di quella che l'Impero esige. Tribù fatte da chi ancora è disposto

57
a edificare barriere sociali e a coltivare culture e valori distinti da
quelli propri dell'Impero.
La forza di un tale approccio è che il desiderio di appartenere
a un gruppo è insito nella natura umana. L'essere umano ha fame
di identità, poiché identità è significato, identità è ordine - in una
parola, identità, per un uomo, è tutto. L'Impero spaccia identità
superficiali caratterizzate dall'esser labili, sintetiche, vuote e in­
soddisfacenti. In un mondo di ragazzi soli e viziati, ormai ine­
sorabilmente lontani da qualunque genere di sodalizio, una
fratellanza lunga una vita è un'idea radicale. L'o nore collettivo
è un'idea radicale. Darsi da fare per esser d'aiuto a propri simili
invece che ad estranei, sì, anch'essa è - oggi più che mai - un'idea
radicale.
Non si tratta di essere contestatori tanto per il gusto di esserlo.
Le idee che abbiamo menzionato sono radicali in quanto cozzano
con l'agenda sociale dell'Impero, ma la loro attrattività risiede
nell'essere al contempo antiche, profonde e fondamentalmente
umane. Lo stesso aggettivo radt'cale deriva dalla parola latina per
radice. Il tribalismo è alle origini della cultura umana.
Se vuoi essere libero nel modo in cui i tuoi antenati inten­
devano l'essere libero - se non vuoi accontentarti di chiedere
permesso o di mendicare consolazione, e se sei stanco di dover
continuamente ribadire la tua fedeltà al sistema - allora pianta
una nuova radice, o ricongiungiti ad una già ben salda nel
terreno. Fonda una nuova tribù o unisciti a una. Abbi il coraggio
di sbagliare. Contribuisci alla crescita di un organismo sociale
forte abbastanza da resistere e prosperare nell'arido deserto della
modernità. Sbatti in faccia alla gente quel che va cercando, e che
invano ha provato ad acquistare.
Il punto non sei tu, o la tua sopravvivenza. Potresti benissimo
non vivere abbastanza da contemplare l'albero a cui hai dato vita
raggiungere la sua massima altezza o la sua forma più compiuta.

58
Anzi, se avrai saputo far bene ciò che dovevi, con tutta proba­
bilità i tuoi occhi non scorgeranno mai quel giorno.
Un antico proverbio greco dice: "una società vigoreggia
quando uomini anziani piantano alberi nella cui ombra sanno
che mai potranno ristorarsi".
Se davvero detesti quel che ti accade intorno, quel che accade
alla tua cultura, agli uomini e alle donne che ti circondano, se
riprovi ciò che le persone vanno diventando, alzati e comincia a
scavare. Deponi il primo seme di qualcosa di realmente nuovo, o
di migliore. Pianta il seme di ciò il cui desiderio arde nel tuo cuore
- non solamente qualcosa che pensi potresti magari prima o
dopo ottenere. Mostra agli altri che esiste un modo radicalmente
diverso di vivere.
Consacra le primavere che ti restano ad una radice, destinata a
germogliare e crescere possente albero di libertà.

"...Mosé sapeva di non poter creare una società di uomini


liberi da una generazione di schiavi. Pertanto, egli mantenne il
suo popolo errante sinché la generazione precedente non ebbe
ad esalare il suo ultimo respiro... "
Chuck Palahniuk,
Fight Club 2: Issue #3

59
BECOMING A BARBARIAN

Il resto di questo libro sta per cambiarti la mente.


Ti parlerà di come diventare quel tipo d'uomo adatto a entrare
a far parte di una tribù, e prosperare spiritualmente oltre l'Impero
del Nulla. Si tratta di uno schizzo approssimativo di alcune delle
camere stagne psicologiche che dovrai attraversare per smettere
di pensare come uno dei tanti schiavi intercambiabili dell'Impero
ed iniziare finalmente a ragionare come un uomo, dotato di un'i­
dentità completa ed un genuino senso di appartenenza ad un
popolo.
Oggigiorno, uomini di ogni genia bramano il collasso
dell'attuale civiltà, civiltà che - come inevitabile conseguenza del
modo in cui è costruita - è decisa a svilirli e castrarli. Gli scenari
apocalittici rappresentano in gran parte fantasie tipicamente ma­
schili, e sempre più uomini si dedicano a qualche forma di adde­
stramento operativo per darsi un senso di scopo in un mondo che
non vuole o non ha bisogno della loro forza, del loro coraggio,
della loro preparazione.
Tuttavia, molti sembrano determinaci a sopravvivere a mille
traversie solo per poi ricostruire la presente civiltà cale e quale
dalle sue ceneri, riproponendo gli stessi valori egualicaristi, uni­
versalisti, mercantili che inevitabilmente li sprofonderanno nel
medesimo declino. Risolleva la Madre degli Esuli, riaccendi la
fiaccola che illumina le masse sgomitanti e la miserabile scoria di
questo mondo senza guardare a razza, religione o tradizione, e
finirai dritto in quello stesso macello matriarcale, in quello stesso
casino di dollari e scimmie narcisiste che adesso ci ritrovi davanti
agli occhi. I valori dei Padri Fondatori d�erica - o la loro
mancanza di valori - sono alle fondamenta anche del problema.
Se non separi con chiarezza il "noi" dal "loro", comunque si voglia

61
intendere il confine fra essi, ad aspettarti non può che esserci un
Impero del Nulla. Il pluralismo può scaturire dalla necessità o dal
vile opportunismo, ma alla fine altro non è che pura isteria.
Adottare una forma mentale di tipo tribale significa liberarsi
del pluralismo una volta per tutte. Significa scegliere pochi nel
mare dei tanti. A menti avvezze alla propaganda dell'Impero,
l'uomo tribale potrà sembrare settario e crudele. Raramente l'ob­
biettività è qualcosa di più di un mero atteggiarsi, ma l'uomo
tribale potrebbe apparire particolarmente ed orgogliosamente
prevenuto, sprezzante, irragionevole, antiscientifico ad un
eventuale osservatore. Scegliere di riservare tutte le proprie at­
tenzioni a pochi e disinteressarsi completamente di tutti gli altri
sembrerà pure cinico, ma dedicare il proprio sincero affetto so­
lamente a pochi significa conoscere davvero le persone ed averne
vera cura, rifiutandosi di farsi manipolare in un'emotività teatrale
verso perfetti sconosciuti. L'uomo tribale parrà pure immorale,
ma nessun burocrate, nessun amicone, nessun socio d'affari sarà
con lui moralmente più esigente di un membro della sua stessa
tribù. L'uomo tribale sarà tacciato anche di essere un parassita,
poiché prende dall'Impero per la propria gente senza restituire al­
cunché in cambio. Gli interessi tribali si scontrano frontalmente
con lo spirito universalistico di quest'epoca commerciale, e
pertanto le tribù saranno viste come bande di criminali da chi
è incaricato di proteggere il fluire del business. L'uomo tribale
dovrà ripensare a cosa significhi per lui essere percepito come un
fuorilegge, un parassita, un mostro. In parole povere, non potrà
fare a meno di riconsiderare quali dita puntate abbiano per lui
davvero importanza.
Il resto di questo libro vi sfiderà ad esplorare questi cam­
biamenti mentali.
La crisi sarà pure imminente ed i profeti dell'apocalisse po­
tranno pure aver avuto ragione, ma attendere che un mondo

62
1111ovo abbia inizio non è lo stesso di esser noi a tracciarne il
primo solco. Ora, adesso, le persone possono iniziare a pensare in
innniera tribale, ad agire in maniera tribale, a costruire legami e reti
culturali d'impostazione tribale, tanto come atto di rivolta contro
l'Impero commerciale quanto come avveduta preparazione
Innanzi ad un possibile collasso del sistema. Reticolati tribali ri­
Ntrc:tti quali quelli propri delle varie comunità di immigrati o dei
gruppi religiosi integralisti offrono modelli adattabili di interdi­
pendenza comunitaria in grado di rendere i membri più capaci
di sopportare una situazione d'emergenza dell'"indipendente"
uomo medio d'oggi, abituato a delegare la propria sicurezza ad
enti pubblici o privati. Creando valide alternative all'Impero
commerciale, forse queste anime ribelli potranno davvero minare
In sua comunicazione ed accelerarne il declino.
Il termine barbaro ci viene dai Greci, soliti trattare i non
Greci - quelli che parlavano greco a malapena, farfugliando nei
loro idiomi stranieri - con civile disdegno. Non descrive in par­
ticolare un gruppo o un altro. Un barbaro era semplicemente
un forestiero, qualcuno dotato di una cultura diversa e separata,
c1ualcuno estraneo allo Stato o alla polis. La parola barbaro è un
chiarissimo indizio di come i Greci pensassero in modo tribale,
lungi dall'aver paura di distinguere il "noi" (ovvero: "noi Greci")
dal "loro" ( con ciò intendendo: "E allora? Quelli non sono
neanche Greci!").
Nel passato, i barbari erano estranei in senso sia fisico che cul­
wrale. Venivano da lontano. Vivevano oltre i confini dell'Impero,
e di frequente ne assalivano le frontiere. Oggi ciò non è più pos­
sibile, poiché l'Impero è ovunque.
I patriottardi spesso dicono: "Se non ti piace il mio Paese,
vattene!". Solo che non c'è nessun posto dove andare. Non c'è
letteralmente scampo. Niente più Nuovi Mondi, né terre fertili
cd inesplorate pronte per essere abitate, terre in attesa soltanto

63
di essere scoperte. La portata del verbo commerciale e della sua
monocultura universalista appare in continua ed incessante
espansione, persino in aree instabili e selvagge come !Africa o
l'Afghanistan, e continuerà ad espandersi finché non avremo un
McDonald's in ogni moschea, ed anche il più incendiario fra i
fervori religiosi non sarà stato temperato nell'ennesima ed in­
sensata identità di consumo. Potrai pure sperperare tutti i tuoi
averi e gettare i migliori anni della tua vita inseguendo il sogno
di toglierti dai coglioni e trovare rifugio in un'oasi impervia e sel­
vatica, ma sta pur sicuro che nel giro di qualche anno ti troverai
davanti bulldozer Globocorp a spianare il tuo piccolo paradiso
per costruirvi centri commerciali e appartamenti.
Chi è nato in quella immensa gabbia di plastica e truciolato
che è l'Impero del Nulla non diventererà mai, né potrà mai di­
ventare, un felice, beato e incolto mangiatore di insetti e banane.
Quasi ogni uomo ormai è un prodotto dell'Impero, nato in
ospedali di cemento e cresciuto ingozzandosi di merendine
zuccherose davanti a qualche cartone animato in televisione.
Tutto ciò che rimane all'uomo d'oggi è il miraggio di una vita
differente e la percezione che tutto quanto realmente importi
venga sistematicamente soffocato per far spazio ad una sempre
maggiore debolezza, ad una vuota avidità, ad una miserabile pi­
grizia semi-solitaria. Chi è nato nell'Impero del Nulla non può
rinascere barbaro, né può evadere verso qualche magico lido dove
miracolosamente tramutarsi in barbaro. L'unico modo per di­
venire barbari oggi è creare quei magici lidi con le nostre mani,
qui, dentro l'Impero, scavarvi minuscole sacche di resistenza,
ed in esse farsi forestieri, capaci di minare l'Impero entro i suoi
confini.

64
Un tale processo è simile a quel "passaggio al bosco10 " di cui
scriveva ErnstJiinger. Quando fuggire dalla modernità è impos­
sibile, bisogna adoperarsi ad una secessione spirituale, e coltivare
un mondo dentro un mondo.Jiinger era persuaso che ognuno di
noi serbi in sé un impercettibile seme di esistenza primordiale, un
vivido bagliore che gli consenta di scorgere una foresta di vita e
significato anche nel deserto meccanizzato del mondo moderno.
Egli immaginava i suoi ribelli del bosco come lupi solitari, ma
se la chiave della rivolta contro il mondo moderno risiede nel
tribalismo, è ai branchi di lupi che dobbiamo necessariamente
guardare. Da gruppi di uomini devono trarsi branchi di lupi
mannari - spiriti civilizzati capaci di trasformarsi in qualcosa di
brado e alieno all'Impero, portando in sé la foresta pur circondati
da vetro e metallo, costruendo legami indistruttibili fra milioni di
"amiconi" ed estranei dal cuor contrito.
Questa metamorfosi da uomo civilizzato in lupo, da animo
burocratico in barbaro, necessita una vera e propria rivoluzione
spirituale - un cambiamento profondo nel pensiero e nell'ap­
proccio, tanto rispetto ai grandi temi quanto alle piccole sfide
quotidiane. Persino la più apparentemente irrilevante delle
azioni, ovvero fare attenzione al modo in cui si usa la parola "noi",
detiene enormi implicazioni filosofiche.

( IO) Riferimento al saggio"Der Waldganf' (1951), edito in Italia da Adelphi con il


litelo "Il trattato del ribelle". (N. d. T.)

65
"NOI" CHI?

"Noi, il Popolo ... 11"


"Noi, come società ..."
" We are the world... 12"

Appare quasi un paradosso che gli occidentali, e partico­


larmente gli americani, individualisti accaniti come pochi altri,
siano divenuti avvezzi ad un vocabolario ricco di termini generici
e collettivisti. È ormai una convenzione del linguaggio moderno
- tanto nello scritto, quanto nel parlato - rivolgersi democrati­
camente a qualunque genere di interlocutori come se "noi tutti"
dovessimo raggiungere per forza un qualche tipo di accordo.
I nostri contemporanei non smettono di blaterare di cosa
"noi" dovremmo fare, sia che stiano parlando del "loro" Paese,
della "loro" razza, dell'umanità intera, o di qualche altro astratto
gruppo umano a cui non si vede perché dovrebbe fregare un ac­
cidente di ciò che pensano.
"Noi" chi, dunque? Per conto di chi vorresti parlare? A chi
dovrebbe importare?
Se non ne hai idea, stai soltanto dando aria alla bocca. Sei
soltanto un tizio che urla alla televisione durante la partita. Il tuo
"noi" non può sentirti, ed anche se potesse, non se ne curerebbe
in ogni caso.
Anche gli uomini teoricamente più avveduti, consapevoli in
mente e cuore che il loro voto non conta nulla e che il governo

( 11) Riferimento all'incipit della Cosrituzione degli Stati Uniti d½.merica (N. d. T.)
( 12) Verosimilmente, l'Autore si riferisce al celebre brano musicale del 1985 Wc are
tbc world, scritto da Michael Jackson e Lione! Richie, prodotto da Quincy Jones, ed
Inciso per benefìcienza da un supergruppo di 45 celebrità sotto la denominazione col­
lcrciva di USAfor Africa. Per tale ragione, abbiamo scelto di mantenere nel testo l'ori­
ginale inglese. (N. d. T.}

67
del territorio nel quale risiedono opera in tutto e per tutto senza il
loro consenso... alla prima emergenza o crisi nazionale ripartono
a chiacchierare a vanvera su cosa "noi" dovremmo fare o chi "noi"
dovremmo bombardare.
Questa abitudine di declinare tutto al plurale - nello scritto,
nel parlato, o anche soltanto nel pensiero - è divenuta un guin­
zaglio psicologico caratteristico dell'Impero del Nulla. Un uomo
avvezzo a parlare in nome di un "noi" tanto generico quanto
ambiguo non riuscirà mai ad emanciparsi dal giogo spirituale
dell'Impero.
In senso stretto, come americani il nostro "noi" costituisce
uno scampolo di istinto tribale, ma essendo ormai le politiche
dei governi occidentali orientate in senso assai più globalista che
nazionalista, quest'ultima vestigia di spirito patriottico finisce
per diventare un mero strumento al servizio della causa univer­
salista. Fintanto che le politiche universaliste perdureranno,
ogni utilizzo della parola "noi" in riferimento ad uno stato oc­
cidentale non servirà nessun popolo in particolare né alcuna
particolare cultura, ma solamente l'umanità intera nella sua
più ampia estensione, oltre alle élite economiche e alle classi di­
rigenti che più di chiunque traggono beneficio dalle dominanti
tendenze globaliste. Il patriottico "noi, il Popolo" di altro non
è ormai sintomo che un attaccamento meramente sentimentale
al territorio, un amore per la storia locale, un'idolatria per l'anti­
quariato ed una passione per una serie di belle idee da lungo tempo
accantonate da chi siede sui più alti scranni istituzionali adornato
dei suoi paramenti. Il "noi" dei patriottardi è nient'altro che una
squadra con giocatori perennemente intercambiabili che vanno e
vengono, si comprano e si vendono, e giocano un campionato di
amichevoli in una lega in continua espansione.Un bell'urrà per la
squadra della tua regione geografica, altro non ti viene chiesto, e
fintanto che indosserai i suoi colori e non smetterai di incitare chi

68
sta in campo come se davvero potesse sentirti - come se, in fondo,
davvero gliene importasse qualcosa - nessuno vorrà mai negarti il
tuo status di cittadino dell'Impero.
Rivalutare e riformulare l'utilizzo del pronome "noi" nel tuo
parlare, nel tuo pensare, nel tuo scrivere costituisce al contempo
il più semplice ed il più profondo cambiamento di passo nella
tua routine quotidiana, lungo la via che ti condurrà a distaccarti
psicologicamente dal collettivo globale e finalmente diventare un
barbaro.
Come esercizio, prova a fermarti un attimo ogni volta che stai
per pronunciare un "noi", e rifletti su ognuno di questi punti:

• Identifica con precisione di quale gruppo di persone stai


parlando.
• Quindi, identifica anche di chi, conseguentemente, non
stai parlando.
• Determina approssimativamente il numero di quanti ap­
partengono al gruppo in questione.
• Valuta l'influenza che hai all'interno del gruppo - quante
probabilità ci sono che ai membri del gruppo importi
davvero quel che dici, scrivi o pensi?
• I membri del gruppo sanno che anche tu ne fai parte?
• Se interrogati, ti riconoscerebbero come membro?
• Cosa farebbero se tu avessi bisogno d'aiuto?
• Cosa saresti disposto a fare se fossero loro ad aver bisogno
d'aiuto?
• La maggioranza dei membri del gruppo condivide i tuoi
valori? Ne sei sicuro?

69
Osservando e valutando con consapevolezza il tuo rapporto
con la parola "noi", ti renderai probabilmente sempre più conto
della frequenza e della superficialità con cui gli altri se ne ri­
empiono la bocca vantando legami con un ampio assortimento di
persone. Sentirai quel "noi" ripetuto più e più volte ogni giorno,
ed in un certo qual modo, ad ogni ripetizione chi ti circonda starà
affermando la propria percepita appartenenza ad un dato gruppo
come parte della sua identità.
È ovviamente talora questione di praticità esprimersi in
termini ampi e generici parlando di tendenze e modelli di com­
portamento comuni in grandi gruppi di persone con cui si con­
dividono esperienze o origini, ed altrettanto pratico è individuare
condotte ricorrenti in altri contesti collettivi.
Per quanto mi riguarda, vivo in un territorio amministrato dal
governo americano. Sono un maschio bianco. Sono occidentale.
Per quanto cerchi di evitarlo, sono sicuro di aver talvolta incluso
me stesso - forse persino nelle pagine di questo libro - in una di­
mensione plurale come americano, come maschio bianco o come
occidentale, semplicemente facendo uso del pronome "noi".
Diciamo pure che è una conveniente scorciatoia.
Comunque sia, sono stato ben attento al mio uso del di­
scorso collettivo, avendo io stesso lavorato per diversi anni ormai
all'incirca sugli stessi punti di riflessione che ho elencato poco
sopra. Quando intendo il governo americano, dico "il governo
americano", essendo giunto alla conclusione che rispetto a me il
governo americano costituisce un "loro", non un "noi". Come
un vecchio detto insegna: "dl ciò che intendi, ed intendi ciò che
..
dlCl. "
In tanti in America si lamentano del modo in cui "la gran parte
degli americani" si comporta, ma continuano comunque a con­
siderare "noi" quegli stessi americani che criticano. Perché? Che
c'entra quella gente con loro? Vivono sulla stessa terra? E allora?

70
Davvero uno dovrebbe sentirsi tenuto ad essere solidale con ogni
bambino che nasce ed ogni immigrato che passa il confine? C'è
un limite al numero di esseri umani nei cui confronti ci si do­
vrebbe in qualche modo sentire obbligati solo perché vivono
entro certi confini geografici? A chi permetti di decidere per te?
Credi sinceramente che coloro ai quali concedi potere decisionale
sulla tua vita vogliano per te prosperità e felicità? Cosa mai te lo
farebbe pensare?
Il "noi" nazionale è soltanto un esempio fra tanti. La gente
si esprime al plurale parlando di specie, razza, sesso, sessualità, o
persino di gruppi rock, di generi musicali, di show televisivi. La
religione, in particolar modo, sarebbe sl una grande "forza uni­
ficatrice", ma puntualmente più che unire le persone finisce
per dividerle. Il Cristianesimo, ad esempio, dovrebbe in teoria
essere per tutti, ma così come natura. umana vuole, anche i cri­
stiani hanno finito per individuare dei "noi" e dei "loro" nei loro
ranghi, fra gli uni e gli altri tracciando linee scolpite nel marmo.
L'annosa questione della violenza settaria che ha contrapposto
cristiani bianchi in tutta Europa ha molto probabilmente con­
tribuito al pluralismo e al deismo "pigliatutto" di molti fra i
Padri Fondatori d'America. Oggi, una conversazione sul Cristia­
nesimo con un cristiano inizierebbe quasi sicuramente con un
gran profluvio di belle frasi generiche e inclusive su quel che "noi
cristiani crediamo", per finire poi ad escludere "quei cristiani", o
quegli altri, che alla fine "cristiani neppure lo sono".
Tali distinzioni sono una conseguenza perfettamente na­
turale di un'attenta disamina di ciò che veramente credi, e di
chi senti davvero come tuo prossimo. Definendo il tuo gruppo
d'appartenenza con precisione crescente, vedrai che questo si farà
via via più piccolo. Comunque sia, abbandonando tutti i tuoi
comfortevoli luoghi comuni, e identificando con chiarezza le
tue autentiche connessioni e le "risorse umane" su cui puoi ve-

71
ramente contare, aumenterai anche l'accuratezza del tuo modo
di osservare le cose, e migliorerai il tuo senso di orientamento in
questo mondo. Il tuo "noi" è chi rimane al tuo fianco quando
il gioco si fa duro. Conoscere la differenza fra il tuo "noi" e il
tuo "loro" influenzerà inevitabilemente il modo in cui agisci e
prendi decisioni. Il tuo circolo OODA diverrà più realistico, e
pertanto più efficace. Identificare chi e cosa davvero importa nel
tuo mondo aiuta a radicarsi e a schiarirsi le idee, e ti permetterà
di guardare con più nitidezza alle direzioni che prenderai nella
vita.
Una valutazione equilibrata del valore delle tue relazioni
umane potrebbe pure risultare deprimente. Moltissimi uomini
d'oggi possono contare sulle dita di una mano il numero di altri
uomini su cui fare affidamento in caso d'emergenza, o persino a
cui chiedere cento dollari in prestito. Alcuni non hanno davvero
nessuno al mondo, e si ritrovano completamente dipendenti dal
buon cuore del governo, della grande industria e di tutta una va­
riegata gamma di altri estranei.
Questa è la via dell'Impero.
Essere un barbaro oggi significa tracciare il tuo proprio pe­
rimetro, e costruire una rete di relazioni sociali autentiche, libere
dall'imposizione o dal controllo dell'Impero. Significa tracciare i
confini del tuo "noi", cosl che non ti manchi mai di sapere con
esattezza chi è la tua gente, su chi puoi fare affidamento, chi si in­
teressa di te, chi merita la tua lealtà. È facile dire di "appartenere"
a tanto enormi quanto astratti collettivi di estranei, che mai ti
chiederanno di mostrare realmente di quale stoffa sei fatto. Di­
ventare un barbaro - il tipo d'uomo in grado di appartenere a
pieno titolo a una tribù - richiede infatti un livello di coinvol­
gimento che il "bravo, civilizzato maschio moderno" davvero
non potrebbe tollerare.

72
APPARTENERE È DIVENTARE

Lunga vita all'individualista duro e puro!


Sei tanto un uomo quanto un'isola, un faro solitario che
svetta fiero, illuminando con lo scettico bagliore della tua verità
oggettiva l'oscuro mare dell'incertezza e della confusione.
Non aderiresti mai ad un gruppo che ti vorrebbe nei suoi
ranghi - il tuo modo tronfio e sarcastico di dire che per te esser
membro di un gruppo è roba da pezzenti, e che sei troppo dritto
per perderti in quel pazzo casino di braccia tese, incantatori di
serpenti ed inni cantati a pieni polmoni.
L'uomo occidentale adora la fallacia hobbesiana per la quale
l'uomo, nel suo stato naturale e nella sua forma più autentica,
è un uomo solo, orgogliosamente ind,ipendente ed in guerra col
mondo. L'occidentale medio ama l'idea di essere un ronin armato
di sola ragione, un uomo senza padroni intento a combattere la
sua privatissima battaglia contro la menzogna, vero solo al suo
personale senso dell'onore, ed in un certo qual modo troppo
puro per lasciarsi corrompere immischiandosi con tutti quei tizi
che "non pensano con la propria testa".
L'ideale dettato da Hollywood è il coraggioso vigilante dal
passato tormentato, un rotolacampo di febbrile violenza ed Im­
macolata Verità Divina che ritroviamo film dopo film, sempre
Incapace o restio ad ogni legame potenzialmente nocivo al
franchise. La popolarità del giustiziere randagio resiste alla prova
del tempo perché cattura e romanticizza l'isolamento dell'uomo
che ha smarrito sé stesso nella taratura della moderna organiz­
zazione sociale. In tale fantasia narcisistica, l'uomo d'oggi può
ittribuire nobiltà morale a ciò che è, per tantissimi, una completa
Irrilevanza statistica ed una separazione benedetta dallo Stato da

73
ogni collettivo maschile che sia per una volta libero dalla super­
visione dell'elemento femminile o dell'apparato burocratico.
Il modello del cavaliere errante senza tavola rotonda si adatta
alla perfezione allo Zeitgeùt universalista. Ogni uomo è tenuto a
sentirsi in obbligo con tutti e nessuno al contempo, contrapposto
solamente alla sua personale concezione di "male" al servizio di
quanto ritiene sia un bene per uomini e donne d'ogni dove. Da
solo egli vaga nella folla, ben poco danno potendo così arrecare
agli interessi costituiti che lo sovrastano. Onnipotente, questo si
sente, un vero capitano di sé stesso, ma - tranne rarissimi casi -
altro non finirà ad essere che una figu retta irrilevante.
Veniamo di continuo rassicurati che "una sola persona può
davvero fare la differenza" proprio perché è vero precisamente
l'opposto. Forse una persona con un miliardo di dollari in banca,
ma non certo una persona qualsiasi. Il lupo solitario potrà pure
ringhiare ed azzannare le calcagna di governi e multinazionali,
ma inevitabilmente verrà liquidato dalle voci che contano come
uno squilibrato senza amici - un vero individualista! Le dottrine
tipicamente democratiche del potere individuale e della respon­
sabilità universale altro non sono che pacificanti ed incapacitanti
utopie per servi della gleba, avvezzi a lavorare fianco a fianco con
sconosciuti ed affrettarsi a tornare a casa, sedersi nell'alienante
luce blu del proprio schermo mangia-opinioni e vomitarvi im­
portantissime chiacchiere e fondamentali voti.
Gli uomini migliori non sono dei solitari, ma dei leader. Gli
uomini migliori, i più pregevoli esempi di virilità, non sono viziati
e decadenti eredi di corone ed allori, ma uomini capaci di gua­
dagnarsi il rispetto, la fiducia e l'ammirazione degli altri uomini
nel corso della propria vita. Non basterà andarsene per la propria
strada a rendere forte colui che non ha le qualità per essere un
leader. Un uomo può diventare la migliore, la più potente
versione di sé stesso solamente lavorando di concerto con altri

74
uomini, mettendo ciascuno sul tavolo comune tutto ciò che ha
ed usandolo per raggiungere risultati inarrivabili per il singolo.
L'individualista senza affiliazioni, il libero pensatore assetato
di verità e giustizia, colui che guarda con sospetto al pregiudizio,
allo stereotipo, al privilegio... non è affatto libero. Egli è capo di
sé stesso soltanto nella sua mente, ma nella realtà è dipendente
come non mai da persone a cui nulla importa di lui. Dipende da
istituzioni teoricamente imparziali, infrastrutture burocratiche,
colossi dell'imprenditoria per il soddisfacimento di tutti i suoi
bisogni primari, e le sue possibilità di influenzare in qualche modo
questi soggetti sono del tutto irrisorie. Egli non può rivolgersi a
loro come un uomo che si è guadagnato il rispetto dei suoi pari,
ma può solamente strisciare nei vari uffici reclami, inoltrare la­
gnanze ed intraprendere cause legali, e mentre queste istituzioni
andranno espandendosi sempre più fagocitando tutto ciò che in­
contrano, la sua influenza si ridurrà progressivamente sin quasi
a spegnersi. Nel mare dei miliardi, l'uomo solo è nient'altro che
plancton.
L'uomo solo è perso e alla deriva, ma continua comunque a
vagare solo poiché la sua paura più grande è smarrire sé stesso.
Talvolta, gli psicoanalisti utilizzano l'iceberg come modello·
per la nostra psiche. La parte conscia di noi stessi è la punta che
emerge dall'acqua, ed è fatta del nostro Io, di ciò che pensiamo
facendo uso della nostra mente razionale e della nostra volontà,
insieme ad una fetta più o meno estesa del nostro Super-Io, che
include la nostra formazione culturale, i nostri principi morali
cd i nostri pregiudizi. Sotto l'acqua giace la porzione subconscia
dell'Io, la maggior parte del Super-Io e la zavorra dell'Es, composta
dai nostri istinti primordiali. L'Es, in parole povere, è costituito
dalla natura umana.
L'individualista nutre una devozione quasi religiosa per il suo
Io, e si sforza di purificarlo e proteggerlo dagli influssi esterni che

75
formano il Super-Io. Il pistolero intellettuale e il faro solitario
costituiscono il suo auto-schema - l'idea romantica che ha di sé
stesso. Egli difenderà quest'idea di sé contro la realtà che vede
l'auto-adorazione dell'individuo e dei suoi "diritti naturali" essere
la narrazione culturale dominante in Occidente ormai da due­
trecento anni, potendosi tracciarla indietro nel tempo sino al
"penso, quindi sono" di Cartesio13• In realtà, è il suo Super-Io,
l'insieme delle norme culturali proprie della sua formazione,
a suggerirgli che l'Io è il suo più inestimabile tesoro. L'indivi­
dualista è terrorizzato dalla prospettiva che il suo ù:eberg possa
affondare, e che possa smarrire il suo Io - sé stesso - nel turbinare
della pazza folla, nelle orge dell'Es sanzionate dal Super-Io.
Il moderno individualista - diciamo pure il moderno
egoista - è solito parlare di ciò di cui parlano tutti mentre tutti
ne parlano, opera in una comfort zone fatta di norme sociali, e
vive per suo conto in un modo generalmente accettato da quello
che lui stesso definisce - non senza una punta di derisione - "il
gregge". All'apice del suo individualismo, egli è un troll, un di­
sturbatore, un parassita. Ad un troll non si può dare corda, va
scansato e disprezzato, anche se ciò finirà per alimentare il suo
auto-schema. Al suo minimo, invece, egli si limiterà a sentirsi
speciale, proprio come chiunque altro. Un esempio familiare
possono essere quei ragazzetti "in cerca di sé stessi" che per darsi
un tono si immischiano in una subcultura "ribelle" sapien­
temente venduta loro, e spendono tempo e denaro a sbandierare
ai quattro venti la propria appartenenza a qualche gruppo "indi­
vidualistico". L' individualista adulto, dall'alto dei suoi completi
beige da ufficio e della sua vita posata, avrà senz'altro di che ridere
dell'adolescente in cerca di conferme, ma come individuo varrà se

(13) René Descartes, noto come Cartesio (1S96-16S0), filosofo e matematico fran•
cese. A lui si deve la messa a punto di quel razionalismo continentale dominante in
Europa tra il XVII ed il XVIII secolo. (N. d. T.)

76
possibile ancor meno, con tutta probabilità essendo ancora più
solo e con un numero ancora minore di connessioni. Almeno,
la subcultura giovanile dell"'individualista" conformista riesce
a connettere persone con persone. In un certo senso, il ridere
dell'individualista più anziano e dall'esistenza stabile è un ridere
cinico, avendo egli quasi realizzato, mentre le acque dell'incon­
sapevolezza lambiscono il suo Io, che il suo individualismo è e
sempre è stato una romantica bugia.
L'individualista protegge sé stesso da ciò che percepisce come
l'incoscienza del pensiero collettivo, ma tutelandosi dal giudizio
dinamico del gruppo, egli finirà pure per schermare il suo Io
proprio da quella verità e da quell'oggettività che proclama di
andare cercando. Egli rinuncia a crescere come uomo, poiché
l'uomo non è né mai è stato un animale solitario. La via degli
uomini è sempre stata la via dellagang, ed è facile per lui ingannarsi
su chi e cosa egli sia stando da solo senz'altro non meno di quanto
lo sarebbe correndo in branco. Non è inoltre possibile che un
uomo riesca a conoscere assai meno di sé stesso proteggendosi dal
mondo come un animale in via d'estinzione, piuttosto che osser­
vandosi libero e brado, neIIa formazione sociale più naturale per
la sua specie? Il gorilla in gabbia potrà pure sembrare possente,
ma la solitudine della sua cattività gli impedisce di diventare ciò
che realmente potrebbe essere.
In un gruppo smarriamo noi stessi, o piuttosto in un gruppo
ci ritroviamo? In un gruppo abbiamo forse la possibilità di svi­
lupparci seguendo una particolare rotta, una delle numerose po­
tenziali strade a nostra disposizione per essere ciò che siamo, una
realtà fra le tante. In più, scegliendo consapevolmente un dato
gruppo, ed impegnandoci in esso - aspetto sicuramente non
tipico della natura umana quanto il patrimonialismo 14, ma co-

(14) Forma di governo in cui tutti i flussi di potere provengono direttamente dal le­
ader. (N. d. T.)

77
munque con qualche rilevante precedente storico, specialmente
fra le tribù germaniche - non stiamo forse governando consape­
volmente il nostro fato?
Quel che è sicuro è che aderendo a un gruppo non si diventa
certo zombie depensanti. Dentro a una tribù si potrà prender
parte ad azioni che mai avremmo intrapreso da soli, azioni che
potranno vederci concordi o meno, ma che comunque condivi­
deremo, poiché in quanto membri di una tribù o di qualunque
altro gruppo funzionante di esseri umani baratteremo un po' del
nostro libero arbitrio per i benefici materiali o immateriali offerti
dalla permanenza nel gruppo stesso. Del resto, ogni cosiddetto
individualista già si trova sottoposto a simili dinamiche, per scelta
o a ragione della forza coercitiva dell'autorità statale.
Non vi è un momento in cui un uomo non sia sottomesso a
qualcosa o qualcuno, che sia in una gang, sul posto di lavoro o
nel corso della sua vita in una nazione di milioni. È proprio della
via degli uomini non farsi percepire come ometti facili alla sot­
tomissione - vogliamo mostrare forza e coraggio gli uni agli altri
e, tatticamente, alle potenziali minacce. Tuttavia, di quando in
quando, ogni uomo cede alla sottomissione o al compromesso, e
morirebbe assai giovane se non lo facesse. La sottomissione è un
aspetto del tutto normale e necessario della psicologia maschile.
Prima di passare all'azione, ogni uomo deve considerare l' interesse
altrui ed il volgere della volontà collettiva. Anche il capitano di un
vascello pirata deve valutare la possibilità di un ammutinamento,
e ad un sovrano tocca determinare la forza delle altre nazioni e
guardarsi da ribellioni, guerre civili e regicidi.
Tuttavia, poiché la debolezza è disonorevole ed il coraggio del
risoluto è ammirato, è naturale che la maggior parte degli uomini
tenga a mostrare un spirito volitivo. Si sottometteranno sì, in un
modo o nell'altro, ma non perderanno occasione di ribadire al
mondo intero e a sé stessi che lo hanno fatto alle loro condizioni.

78
Per comparare l'onore maschile alla sua controparte femminile,
vorranno mostrare a tutti di non essere puttane a disposizione
del primo che passa. Non piegheranno il ginocchio senza prima
aver lottato, e cosl facendo avranno mantenuto intatta la loro
dignità. Si potrebbe dire che la differenza fra uno schiavo e un
uomo libero è che quest'ultimo si sceglie il proprio signore.
Per un uomo, la sottomissione è una questione delicata. Si
suppone che un uomo sia forte e coraggioso, e pertanto sembra
quasi un paradosso che possa esistere una forma di sottomissione
tipicamente maschile. Tuttavia, la relazione fra mascolinità e
sottomissione è in fondo paradossale più in parole che nei fatti.
Nella vita, tale paradosso finisce per risolversi abbastanza fa­
cilmente, poiché è sempre stato cosl, ed è la stessa natura maschile
a riconoscerlo.
Il barbaro ha subordinato la sua volontà a quella della sua
tribù. Ha rinunciato alla sua libertà di associazione. La tua
identità vuole che tu sia qualcuno, non semplicemente uno
qualunque. Appartenere ad un gruppo o a una società rimuove
dal tavolo ogni altra opzione. Il barbaro è vincolato al gruppo
a cui appartiene e alla sua visione del mondo, l'individualista si
muove nel mondo con sin troppa volatilità, scevro da ogni vero
attaccamento.
Tuttavia, l'uomo tribale è libero in modi che animi oppressi
dalla zavorra dell'universalismo morale a malapena riescono a
immaginare. Egli cammina per le strade del mondo rispondendo
solo a un determinato gruppo, ed agendo esclusivamente in nome
di esso. Non è interessato a stabilire cosa sia oggettivamente vero
o universalmente giusto, né pretende di padroneggiare l'incono­
scibile, ma l'unica preoccupazione che lo avvince è far ciò che
è meglio per la sua gente. Con questa sola misura in mente, il
pensiero del barbaro è relativamente agile, e gli è possibile vedere
le cose con una chiarezza pratica preclusa all'uomo reso titubante

79
dalla sua dedizione alla verità oggettiva ed al bene universale. Per
chi riesce a far compiutamente suo un pensiero di tipo tribale
e opera in scioltezza un adeguato cambio di marcia morale, un
fratello è un fratello e gli altri sono gli altri. Ai suoi occhi, "giusto"
sarà ciò che è fatto nell'interesse della tribù. La tribù diviene il suo
Super-Io, e l'Io sarà libero di mettere l'Es al lavoro per il bene della
fratellanza senta ulteriori conflitti o indugi.
L'Io del barbaro è scevro da una responsabilità morale di tipo
universale, ma non è immorale in senso lato. Non è irrespon­
sabile come l'individualista teme, ma lavora per la sua gente in
piena consapevolezza. Egli non ha smarrito la sua identità, ma
l'ha espansa, accettando di essere giudicato dai suoi per condotta,
azioni, e talento. Il suo valore sarà continuamente sottoposto
a verifica, invece che misurato sul proprio parere e su quello di
un pugno di bisbetiche e bottegai. Stando alle parole di Wolf
Larsen 15, il valore che la vita da a sé stessa è sovrastimato, venendo
ad essere "necessariamente esagerato in suo favore." Il barbaro de­
sidera diventare una leggenda nella sua tribù, non soltanto nella
sua testa.
Per quanti sono abituati a far uso del proprio cervello, la più
ardua sfida psicologica nell'adottare una forma mentt's tribale
sarà proprio il timore di smarrirsi nel gruppo. Agli uomini d'oggi
è stato insegnato che il pensiero collettivo è il male, ma perché
un gruppo funzioni, i suoi membri entro certi limiti devono
abituarsi a pensare al plurale. Tuttavia, anche se privo di affi­
liazioni consapevoli, ogni cittadino dell'Impero del Nulla vive
e muore seguendo uno spartito di regole dettate da altri, altri

(lS) Capitano della goletta "Ghost'' ed antitesi umana del protagonista Humphrey
Van Weyden nel romanzo "TheSea-Wolf' (1904) di]ack London (1876-1916). Dall'o­
pera, edita in Italia da Newton con il tit0lo "Il Lupo dei Mari", sono state tratte varie
versioni cinematografiche, fra le quali citiamo particolarmente il film omonimo ( 1941)
di Michael Curciz, premiato con l'Oscar agli effetti speciali, e nel quale il personaggio
di WolfLarsen è interpretato da Edward G. Robinson. (N. d. T.)

80
che quasi sempre gli sono estranei. Infinite cose l' individuo
sperso nell'Impero riceve già preconfezionate. Fissarsi sull'in­
dividualismo è spesso poco più di un romantico camuffare la
paura di perdere la propria rispettabilità borghese e gli agi con
cui si premiano i cittadini bravi a conformarsi. Chi si rifiuta di
appartenere a un gruppo, spesso lo fa perché non vuole essere
percepito come un tipo strano, un membro di una setta magari,
ed essere socialmente ostracizzato. Non vuole essere associato a
niente che potrebbe essergli d'ostacolo nel trovare un lavoro o
fare soldi. Non vuole attirare l'attenzione delle forze dell'ordine.
La legge dell'Impero si rende logicamente conto che ogni gruppo
organizzato di uomini fedeli gli uni agli altri piuttosto che al
primo esterno venuto rischia di minare il monopolio morale
dell'Impero. Molti uomini si astengono dall'avvicinarsi a una
realtà collettiva perché non osano alzare lo sguardo e guardare
avanti - nelle sterminate folle dell'Impero già si sono persi, ma
tutto sommato va loro bene cosl.
Per divenire parte di una tribù, dovrai essere disposto a ri­
nunciare a una versione di te stesso per scoprire un nuovo te
nell'ambito del gruppo. Dovrai accettare di "perderti per ri­
trovarti", addormentandoti in un mondo di norme sancite
dall'Impero per risvegliarti in una realtà diversa, regolata dalle
leggi tribali. Dovrai voler abbandonare l' irrilevanza del tuo in­
dividualismo da bravo cittadino del mondo per farti membro
di una tribù, nel cui contesto le tue risorse, le tue azioni, le tue
idee avranno possibilità esponenzialmente maggiori di contare
qualcosa.
Per lasciarsi davvero l'Impero alle spalle ed assumere una men­
talità tribale, dovrai scegliere di percepire tale trasformazione non
come una forzata negazione del tuo essere, ma piuttosto come
un processo di evoluzione personale. Appartenere a una tribù è
diventare realmente qualcosa.

81
La vera perdita di sé è consegnarsi allo sciame dei milioni, di­
sciogliendosi nella vastità dell'immenso per ridursi a nient'altro
che una fra infinite altre gocce d'acqua nell'oceano.

"Non sarebbe venuto se non avesse creduto di poterle salva­


re. L'evoluzione deve ancora trascendere quella semplice barrie­
ra. Noi possiamo provare un bene profondo, disinteressato, per
quelli che conosciamo, ma è raro che quell'empatia si estenda
oltre il nostro sguardo."
Dr. Mann,
Interstellar (2014)
NIENTE LACRIME PER GLI SCONOSCIUTI

Sl, l'umanità è fatta di persone geneticamente simili, che


soffrono delle medesime malattie e condividono bisogni e de­
sideri, tanto fisici quanto psicologici. Volendolo, avremmo di
che empatizzare con pressoché qualsiasi essere umano al mondo,
ovunque si trovi. Grazie ai progressi nel campo delle comuni­
cazioni globali ed all'indebolimento delle identità etniche e na­
zionali, umani da ogni dove partecipano delle medesime espe­
rienze culturali, e con un buon angolo di ripresa, una musica
adatta ed una storia capace di toccare le giuste corde, possiamo
immedesimarci proprio in chiunque.
Tuttavia, non dobbiamo - né possiamo - avere a cuore
l'intero pianeta. L'idea che sia affar nostro qualsiasi cosa succeda
in questo mondo è una pia illusione, creata dalle moderne tec­
nologie di comunicazione e dai medla. In verità, il cervello umano
non può fisicamente rappresentarsi miliardi o milioni di persone
come singoli individui, uomini e donne che sperano, sognano e
provano sentimenti. Se è letteralmente impossibile conoscere e ri­
manere al corrente di tutto ciò che accade in una nazione, in uno
stato o anche semplicemente in una piccola cittadina, ci si figuri
nell'intero globo, dalla cui superficie i telegiornali fanno incetta
di vicende per rovesciarcele poi addosso in un flusso di rigurgito
facilmente digeribile.
Mentre stai leggendo questa pagina, qualcuno sta molestando
un bambino. Scorri questa riga, ed un uomo viene picchiato,
magari stuprato o persino ucciso. Qualcuno è morto di overdose,
o di cancro, o forse d'infarto. Un'anziana signora è collassata, ed
assomigliava cosl tanto alla tua cara nonnina. Da qualche altra
parte, un incidente assurdo, perché no, o magari un infortunio
sul lavoro, destinato a cambiare la vita di qualcuno. Qualcuno,

83
ancora, è stato truffato da un piazzista, da una compagnia di assi­
curazioni, o magari dal suo datore di lavoro.
Qualcuno, da qualche parte, è morto o è stato male e non te
ne è importato nulla.
Non te ne è importato nulla, perché nessuno ti ha detto che
avrebbe dovuto fregartene qualcosa.
Se ti sei interessato o hai finto di interessarti a qualcosa ac­
caduto ad uno sconosciuto, è stato perché i media hanno sele­
zionato per te una storia dall'importanza simbolica. Ogni set­
timana, dirigenti, produttori, editor e blogger scelgono per te una
manciata di stupri, di omicidi, atrocità, disastri, morti famose,
malattie, incidenti, scandali e sentenze teoricamente "più ri­
levanti" nel mare della sofferenza umana che realmente ha avuto
luogo.
La gente presta la propria attenzione e la propria premura a
tale rassegna di accadimenti preselezionati e non ad altro poiché
non ha né tempo, né energia emozionale, né sufficiente materia
grigia per curarsi davvero di tutto. Una premura meramente ri­
tualistica, tuttavia, che porta le persone ad atteggiare una preoc­
cupazione posticcia che consenta loro di sentirsi in qualche modo
connesse con altri loro simili in tutto il mondo.
Si sentono connessi, già, ma non lo sono affatto. Una pre­
occupazione del tutto simbolica per dei perfetti sconosciuti
non equivale minimamente ad un genuino interesse per chi ci
è vicino e conosciamo bene, né contribuisce in qualche modo
a migliorare il livello delle nostre relazioni umane. Al contrario,
proprio coloro che più di altri osten·tano un cuore straziato per
lontanissimi estranei sono spesso i primi ad avere rapporti dete­
riorati o del tutto superficiali con i loro prossimi.
I più tendono a non considerare "amore", "cura", "amicizia"
come risorse limitate, ma sta' sicuro che lo sono eccome.
"Prendersi a cuore" qualcuno ed "amarlo" sono azioni, e come

84
tutte le azioni richiedono tempo, sforzo ed energia. Anche
qualora l'amore e la cura esistano solamente nel pensiero, pensare
in modo attivo ad una determinata persona implica al contempo
non pensare a qualcun altro o a qualcos'altro.
Quando scegli di dedicare la tua empatia ad uno sconosciuto
che hai visto in televisione, stai gettando tempo ed energia in
un rapporto che più che superficiale è direttamente inesistente.
Una completa, totale fantasia, non diversa dal prendersi a cuore
il destino di un personaggio di un libro o di un film. Potrai pure
convincere te stesso che quella persona è reale ed il protagonista
del tuo film no, ma a livello funzionale il tuo investimento in
tempo e sentimenti in quel remoto sconosciuto - in quel di­
stante simbolo di sofferenza - sarà il medesimo, un investimento
- tranne rarissime circostanze - oltretutto esclusivamente unila­
terale. Stai sprecando i tuoi sforzi, le tue energie, il tuo tempo in
un sogno ad occhi aperti, tempo che avresti potuto utilizzare per
costruire relazioni autentiche e reciproche. Ti stai ritirando in un
mondo immaginario, nel quale persino la persona più sensibile,
indefessamente impegnata a preoccuparsi per gli altri, può al
tempo stesso essere completamente priva di amici, circondata dal
disinteresse più totale... a meno che in qualche modo non riesca
a finire in televisione.
Da un punto di vista economico, un amore universale, un
sentimento che abbraccia indistintamente miliardi di individui,
offerto a chiunque in cambio di nulla, è del tutto senza valore.
L'amore di un uomo disposto a discriminare, a separare il "noi"
dal "loro", varrà infinitamente più del frignare a buon mercato
di quanti blaterano di amare l' umanità intera. L'amore rivolto a
tutto e tutti è debole, insignificante e sottile come la carta, laddove
quello di chi sceglie è invece preciso, potente, profondissimo,
dando all' uomo che sa viverlo direzione e scopo di vita.

85
Adottare una mentalità tribale significa farla finita con ogni
sorta di irragionevole ed unilaterale relazione di fantasia per de­
dicare ogni grammo del proprio amore, del proprio affetto, della
propria lealtà e cura a pochi cari fra le masse dei molti. Diventare
un barbaro significa niente più lacrime per gli sconosciuti,
per quanto struggenti o realistici i loro patimenti ci vengano
presentati.
Quel povero bambino affamato con le mosche sugli occhi è
uno straniero, e vive in qualche merdosissimo buco da qualche
parte all'estero in cui non ti capiterà mai di andare. Le sue di­
sgrazie non sono una tua responsabilità, e l'unico motivo per cui
tu sai della sua esistenza è perché una qualche congrega di persone
ben più disposte ad aiutare degli sconosciuti dal nome esotico
piuttosto che i propri vicini vuole che tu dia loro del denaro per
continuare con la loro elaborata ed autogratificante ostentazione
di candore morale.
Dei beduini con gli occhi da matto tagliano teste a destra e
a manca in Medio Oriente? Ho un'ideona per te, ragazzo mio:
non andare in Medio Oriente. Non sei il benvenuto laggiù. In
quell'angolo di mondo ancora si pensa in modo tribale, e tu non
fai parte della loro tribù. Loro non giocano al tuo stesso gioco.
Non sei della loro squadra. Sei soltanto un forestiero, ed a loro
non frega niente se vivi o muori. Pertanto, regolati di conse­
guenza, e fregatene di loro allo stesso modo.
Sapessi quante dolorosissime schifezze succedono in Cina,
roba probabilmente assai più subdola e sanguinosa di quanto mai
ti sia capitato di vedere, ma ehi, è la Cina signori, e non ne sentirai
mai niente, perché a nessuno importa un accidente. Persino agli
stessi cinesi non frega nulla, figurati un po'. Ancora, l'unico
motivo per cui sai delle "inaudite violazioni dei diritti umani" in
Medio Oriente, e non delle magagne accadute in qualche altro

86
luogo, è perché il Medio Oriente è più importante per qualcuno
con un sacco di soldi, parecchio potere, o entrambi.
È del tutto inverosimile che tu possa mai riuscire ad avere
qualche reale possibilità di influenzare in modo significativo il
corso delle cose in qualche sperduto anfratto del globo o persino
in fondo alla strada dove abiti, per cui ogni tuo coinvolgimento
emotivo nell'ottenere qualcosa dalla politica, o nel risolvere le pene
di sconosciuti che vivono oltreoceano sarà una totale perdita di
tempo, sforzo ed energia che potresti investire aiutando persone
che conosci e stimi vicino a te, costruendo con esse rapporti che
giovino ad entrambi. Ciò facendo, le probabilità di ricevere a tua
volta in cambio amore, affetto, lealtà e persino risorse concrete
saranno molto maggiori che preoccupandoti di gente che non·in­
contrerai mai, e che sta in posti fuori dalla tua portata.
Prova a chiederti: "se investissi tutto il mio tempo, tutte le mie
risorse ed energie, persino l'intera mia vita nel cercare di sistemare
questo singolo problema, avrei davvero delle prospettive concrete
di cambiare qualcosa in merito?" Se la ragionevole risposta ad una
tale domanda è "no", allora puoi star certo che le tue lacrimucce
volubili e idiote valgono meno di zero.
Lo stesso principio, del resto, vale pure vicino a casa. Anche
se decidessi di evitare la televisione, i sodai media, e pure i no­
tiziari alla radio, un banalissimo salto al supermercato ti metterà
di fronte a qualche psicodramma del momento, a qualche
rivolta, a qualche scandalo, a qualche tragedia lontana centinaia
o migliaia di miglia a cui tutti si suppone debbano interessarsi.
Sarai inondato di stimoli volti a provocare la tua empatia o
il tuo sdegno, esattamente come la colonna sonora di un film.
Abboccare all'amo significherà rimanere psicologicamente inca­
tenato all'Impero del Nulla, ed all'interminabile, disperata massa
di intercambiabili sconosciuti in gara per la tua attenzione.

87
Puoi scegliere se galleggiare come un invertebrato lungo la
corrente che i media ti impongono, preoccupandoti dell'ar­
gomento del giorno che l'Impero propone ai suoi schiavi, oppure
decidere di ancorare la tua mente e il tuo cuore ad un gruppo che
ti sei scelto, e come un telepata dei fumetti imparare a silenziare
i pianti della massa e focalizzare il meglio della tua vitalità solo e
soltanto sulla tua gente. Dare tutto ai tuoi, alla tua tribù, significa
non lasciare niente agli altri. Impara a indurire il tuo cuore, o
sarai sempre alla mercé delle moltitudini. Non si tratta di odio,
ma di amore selettivo, di indifferenza allenata. Il tuo cuore come i
tuoi occhi: tutto è offuscato finché non metti a fuoco.
Ogni giorno che viene è pieno di problemi, e di milioni di altri
neppure avrai mai notizia. Esserci davvero per la tua gente, per
quel gruppo a cui ti sei legato e che si è legato a te, assorbirà tutto
il tuo tempo e tutta la tua energia, e anche di più. Ognuno ha
i suoi problemi. Pertanto, scegli con cura quali devono davvero
interessarti, e ogni volta che l'Impero ti chiederà di darti pena
per degli estranei, da moderno barbaro quale sei rispondi con la
massima:

"Non è la mia gente, non è un mio problema."

88
IL CAMBIO DI MARCIA MORALE

Agli schiavi del credo universalista per cui ogni uomo è un


fratello, far finta di niente dinanzi alla sofferenza parrà senz'altro
cinico ed immorale. Riservare ad alcuni un trattamento parti­
colare non potrà non sembrare ingiusto. Sentirsi in obbligo di
aiutare chiunque dovunque e trattare tutti allo stesso modo è
infatti l'insostenibile ed incapacitante fardello che opprime l'u­
niversalista. Povero l'uomo che cerca di muoversi con il peso del
dolore dell'intero mondo sulle sue spalle. Se vorrà fare qualcosa,
dovrà necessariamente tradire sé stesso e mostrare preferenze, o
magari potrà scegliere di non far nulla, che in fondo è l'unica via
per lui di trattare davvero tutti allo stesso modo.
La morale universalista è l'ipocrita' dottrina dell'Impero, per
cui qualunque alternativa ad essa sarà ovviamente etichettata
come "barbarica" dal pensiero dominante. Potrà pure essere
"barbarico" dire che alcune persone sono per me più importanti
di altre, ma sarà senz'altro più onesto che fingere tutti pari siano
ai miei occhi. Non è cosl, e lo sappiamo entrambi. Curarsi di
tutti allo stesso modo sarebbe qualcosa di disumano, ai limiti del
sociopatico.
Chi adora ostentare il suo buon cuore per gli estranei soli­
tamente preferisce categorie malviste o minoranze esotiche per
dar prova di candore morale, accrescendo la propria reputazione
nei ranghi del sistema universalista. All'arrivista snob e cosmo­
polita, dedicare il proprio tempo e la propria energia a dei poveri
detenuti bianchi ingiustamente incarcerati che marciscono in
prigione ad un paio di miglia da casa apparirà fuori moda, in­
tellettualmente angusto, persino sospetto. Passare invece per
uno che neppure è sfiorato dall'idea di far preferenze, ma sparge
lacrime per gli haitiani, o - meglio ancora - per qualche altro

89
gruppuscolo di cui nessuno ha mai sentito parlare, aiuta come
poco altro ad accumulare punti nella propria cerchia di amici pri­
vilegiati. Oh, i sorrisi, quei sorrisi a denti stretti, quei sorrisi colmi
d'invidia delle altre signore ad un cocktail party a Seattle quando
una di loro confessa il proprio impegno per degli appena scoperti
rifugiati Khoikhoi 16 gravati dalla sorte della malattia di Lyme 17, e
magari pure della sindrome di Tourette 18•
La pretesca morale universale propagandata dal pensiero do­
minante tende ad appropriarsi di principi morali estremamente
pratici ed unificanti se applicati entro i confini di una tribù o di
una nazione, e a pervertirli, proiettandoli ben oltre gli orizzonti
dello sguardo umano, della percezione umana, e del comune
interesse.
Si prenda, ad esempio, l'idea di ''fair play", concetto che sen­
z'altro attraversa culture e religioni. Il senso del ''fat'r play" è dato
dal fatto che le regole di qualunque gioco sono state sviluppate in
modo tale da mitigare possibili rischi mortali, incoraggiando una
competizione salutare che non trascenda in aperto scontro. Ci si
aspetta che le persone vincano con sportività e non se la prendano
troppo quando perdono, dato che ogni gioco è nient'altro che
un allenamento in vista di ipotetici conflitti reali, e tutti i gio­
catori alla fine della partita tornano a casa, calandosi nuovamente
nella loro vita di membri produttivi della medesima società.
Nelle arti marziali, non proveresti mai ad ammazzare o storpiare
il compagno d'allenamento con cui condividi una sessione di
sparring, perché ti stai allenando per fare a pezzi autentici nemici,

(16) Gruppo emico dell�frica sudoccidentale. (N. d. T.)


( 17) Infezione trasmessa dalle zecche e causata dalla spirocheta Borrelia spp. (N. d. T.)
(18) Malattia neuropsichiatrica caratterizzata dall'emissione - spesso combinata - di
rumori e suoni involontari e incontrollati e da movimenti del volto e/o degli arei deno­
minati tic. (N. d. T.)

90
non l'amico che si esercita nella tua stessa palestra. Pertanto, da
ciò ne consegue l'osservanza condivisa delle regole.
Durante i reali conflitti, durante le guerre e gli scontri da cui
possono dipendere vita e morte, il "fairplay" diventa qualcosa
di veramente idiota. In battaglia non ci sono regole, soltanto
vincitori e sconfitti. Le "guerre" del moderno Occidente sono
poco più che azioni di polizia in cui le maggiori potenze mondiali
mettono in riga chi si comporta male. Disporrebbero del po­
tenziale militare per spazzare via completamente quei popoli ca­
naglia dalla faccia della terra, ma i grandi del mondo preferiscono
stare alle regole e limitarsi a riportare i riottosi all'ordine, facendo
la parte dei "buoni". Chi vuol parlare di guerra sul serio, si prepari
a bruciare villaggi pieni di donne e bambini ed impalarne le teste,
o magari a sterminare duecentomila persone a colpi di bombe
nucleari nel giro di un paio di giorni.' Se qualcuno ti attacca per
strada cercando di farti fuori, da molte parti in America ti è rico­
nosciuto il diritto di difendere la tua persona facendo uso di forza
letale. Non ci sono regole, quando hai ragione di temere per la
tua vita. Uccidi, o verrai ucciso. Niente strette di mano o pacche
sulle spalle prima di far rientro negli spogliatoi.
"Correttezza" è un termine condizionale. Differenti situazioni
richiedono regole diverse. Per amici e nemici, per prossimi o
stranieri le regole non possono rimanere invariate.
La cosiddetta Regola d'Oro che recita "Fa agli altri ciò che
vorresti fosse fatto a te" è un altro esempio di codice morale
pratico e unificante all' interno di una tribù, ma foriero di di­
sastri se applicato a individui non vincolati da reciproci legami,
a nemici, a soggetti le cui leggi morali sono del tutto ignote.
Ad esempio, la vita di un uomo che ha tutti i suoi affari in
una piccola comunità dipende dalla sua reputazione, purché
un po' di concorrenza comunque ci sia. In tal caso, ha per lui
senso essere aperto, onesto, retto ed amabile, e talvolta anche

91
"sganciare" un po' più del dovuto, costruendosi un buon giro di
clienti e mantenendosi rapporti proficui con tutti. Una qualità
del lavoro scadente, un atteggiamento irrispettoso e maleducato,
magari pure una malsana abitudine a fregare il prossimo precipi­
terebbero infatti la sua parola ad un valore inferiore allo zero, e
la gente non ci metterebbe molto a smettere di dargli lavoro o a
commerciare con lui. Anche per gli altri membri della comunità,
del resto, vale lo stesso, e pertanto, in tal caso, trattare gli altri
come si vorrebbe essere trattati risulta del tutto ragionevole.
Al contrario, in una metropoli i cui abitanti variano sull'ordine
delle centinaia di migliaia o dei milioni, puoi truffare benissimo
a destra e a manca, puoi cambiare a piacimento indirizzi ed in­
testazioni delle tue aziende, e ci sarà sempre qualche poveraccio
all'oscuro delle tue malefatte a cui nessuno ha mai detto di starti
lontano. Il brav'uomo di provincia a cui tocca fare affari con
qualche imbroglione di città sarebbe uno stolto se realmente
si aspettasse da uno sconosciuto, estraneo al rapido ciclo di fe­
edback da realtà di paese a cui è abituato, la medesima buona fede
che gli è consona. La Regola d'Oro funziona in sistemi piccoli e
chiusi che condividono la medesima cultura, mentre motti come
Caveat Emptor19, Qui' Bona2°, "Fa Agli Altri Ciò Che Loro Fanno
A Te" assai più si confanno ad ampi e pluralistici gruppi di in­
dividui fra loro estranei.
Circondati da sconosciuti, è solitamente buona cosa mostrarsi
affabili, educati e cordiali al fine di evitare inutili conflittualità ed
incoraggiare gli altri a comportarsi allo stesso modo. T uttavia,
una pedissequa aderenza alla Regola d'Oro al cospetto di estranei,
anche e soprattutto in questioni rilevanti, mette facilmente in
condizione di venire sfruttati. In un contesto tribale, la Regola

(19) "Chi compra, scia in guardia." (N. d. T.}


(20) "A chi giova?" (N. d. T.)

92
d'Oro è senz'altro eccellente, ma avendo a che fare con il resto
del mondo sarebbe davvero stupido continuare ad attenervisi.
Le norme che proibiscono o irreggimentano la violenza co­
stituiscono il più drammatico esempio di quanto detto. Ha evi­
dentemente senso, se non altro da un punto di vista strategico,
punire chi uccide o fa del male ad altri membri della tribù. Una
violenza che trascende i limiti accettati e controllati del castigo o
del gioco diffonde un senso d'insicurezza nel collettivo, priva figli
ancor giovani dei propri genitori, e togliendo di mezzo elementi
di talento e braccia valide potrebbe pure finire per rendere la
tribù nel complesso più debole e meno produttiva. La sanzione
per ogni violenza non autorizzata all' interno della tribù non può
che essere un'altra violenza, questa volta autorizzata, poiché in
assenza di una credibile minaccia di risposta violenta, gli individui
più forti e violenti potrebbero semplicemente prendersi ciò che
vogliono ed uccidere chi non è d'accordo, senza tenere mini­
mamente conto della sopravvivenza e della prosperità del gruppo
nel suo insieme. Inevitabilmente, la tribù sprofonderebbe nel
caos. L'ordine si fonda sulla violenza - violenza effettiva, o quan­
tomeno minacciata.
Comunque sia, quanto detto riguardo al "fair play" vale
anche per la cosiddetta "non-violenza": come individuo o come
gruppo potrai pure impegnarti a vivere in modo "non-violento",
ma nulla al mondo ti garantirà mai - ed a ragione - che altri non
si approfitteranno del tuo pacifismo, facendo uso della violenza
per distruggerti o ridurti in schiavitù in nome dei propri interessi.
Scegli pure la via della non-violenza, ma non aspettarti che altri
là fuori non siano più che pronti ad ucciderti e fregarti tutto. Lo
sono, eccome: siine cosciente, e regolati di conseguenza.
Tanto gli esseri umani quanto gli scimpanzé sono quel che in
La Via degli Uomini ho definito party-gang spedes, intendendo
con ciò l'abitudine di entrambi a modificare le dimensioni dei

93
gruppi a cui appartengono a seconda delle circostanze. In tempi
di carestia, il perimetro del gruppo si ritrae sino ad attestarsi su
un rapporto di fiducia personale fra singoli membri - perlopiù,
gang a struttura patriarcale o tribù. È cosa nota che, parlando in
generale, la fedeltà a un gruppo tende a farsi tanto più astratta
e labile quanto maggiori sono le sue dimensioni; via via che
queste· si accrescono, tale fedeltà finirà sempre più con l'essere
nient'altro che una prestazione sociale, mantenuta nel tempo
soltanto attraverso la coercizione, sostanziali incentivi materiali,
un'identità culturale eccezionalmente solida, o un'incombente
minaccia da parte di un nemico comune. Dinanzi a un pericolo o
a un obbiettivo troppo importante per essere mancato, gli umani
si dividono naturalmente in gruppi più piccoli, più utili ai loro
interessi immediati e più adeguati ad affrontare le più urgenti
contingenze. Quel che avviene, insomma, altro non è che un vero
e proprio cambio di marcia morale, un mutamento di scenario
che vede vecchi alleati diventare nemici, e combattere gli uni con
gli altri per la propria sopravvivenza.
Quelli che nel corso della Scoria sono stati a vario titolo de­
finiti "barbari" non erano affatto individui privi di morale, in­
capaci di distinguere il bene dal male. Erano semplicemente
uomini, uomini riuniti in gruppi fra loro distinti, uomini attenti
prima d'ogni altra cosa all'interesse del proprio gruppo, e come
ogni altro collettivo umano - comprese le realtà "civilizzate" che
nel tempo hanno affibbiato loro l'etichetta di barbari - sapevano
modificare il proprio approccio morale a seconda che dinanzi a
loro vi fosse un amico o un estraneo.
Mi si accuserà di suggerire ai miei lettori un'immoralità pratica,
ma niente potrebbe essere più lontano dal vero. Diventare un
barbaro significa piuttosto abbandonare la morale universalista
utile all'Impero per abbracciarne un'altra, una morale specifica a

94
beneficio di un particolare insieme di persone i cui bisogni non
esita ad elevare al di sopra di qualsiasi esigenza forestiera.
Non si tratta, si badi bene, di scambiare semplicemente la
morale del servo con quella del signore, in senso eminentemente
nietzscheano. È senz'altro vero che il sistema morale promosso
entro i confini dell'Impero è figlio di una morale servile, ed è
l'Impero stesso a promuovere forme di ressentt'menf1 fra gli "op­
pressi" e teatrali autoflagellazioni fra i vincenti con il palese scopo
di creare una classe dirigente di mandarini tanto astuti quanto
odiosi, sovraordinata a un gregge di impotenti automi peren­
nemente intenti a produrre, consumare e ancora produrre. Lo
spirito del barbaro, al contrario, come si evince dalle parole stesse
di Nietzsche arde nell'animo delle genti nobili e di stampo aristo­
cratico-cavalleresco, use basare i propri giudizi di valore su "...una
prestanza fisica, una salute florida, riéca, debordante, e insieme
tutto ciò che ne condiziona il mantenimento, guerra, avventura,
caccia, danza, tornei, insomma tutto quello che comporta una
vita attiva forte, libera e serena.22" Il barbaro solca il mondo con
passo vivo e vitale, e non manca mai di dire il suo "sl!" alla vita.
Il barbaro vive come vivono le bestie, libere dall'odio di sé e dal
bisogno di chiedere perdono per il proprio vivere la vita a spese
di altre vite, come in una maniera o nell'altra tutte le creature
fanno.
Ad ogni modo, una tribù richiede comunque una coope­
razione collettiva, e solidarietà fra quanti si trovano dentro il
perimetro che separa il "noi" dal "loro". Ogni gruppo di esseri
umani che funzioni non può che apprezzare il valore della carità,

(21) Riallocazione della sofferenza compiuta da chi trasferisce il proprio senso di


inferiorità o frustrazione su un capro espiatorio esterno. Anche se numerosi pensatori,
da Scheler a Weber a Sartre sino a Miche! Onfray, provvedettero nel tempo a rielaborare
in vario modo il concetto, la sua prima e principale introduzione in ambito filosofico/
psicologico si deve essenzialmente a Friedrich Nieczsche. {N. d. T.)
(22) F. W. Nietzsche, Genealogia della Morale, saggio I, punto 7. (N. d. T.)

95
dell'umiltà, della compassione e della gentilezza se dirette verso
l'interno, ad esclusivo beneficio del proprio "noi". Il thumos
virile, quell'animo innato che spinge il paladino a proteggere la
propria gente e combattere l'ingiustizia e il disordine, è qualcosa
di praticamente impossibile senza che ad alimentarlo vi sia un
certo grado di solidarietà e compassione verso i membri meno
dotati della tribù. Quando però, nel comune sentire di un
popolo, le virtù strategiche finiscono per contar meno di quelle
"civilizzate", ecco che una debolezza incapacitante lo avvince,
soggiogandone ogni energia e rendendolo facile da sottomettere,
invischiandone la volontà in un nugolo di stupide regolette ed ar­
rendevoli ossessioni incoraggiate in nome della comodità e delle
buone maniere. Plateali ostentazioni di cortesia, pietà, deferenza
prendono il posto di audaci dimostrazioni di forza e coraggio,
ed il coraggio stesso e la stessa forza divengono infine oggetto di
diffidenza morale, da ciò generandosi l'impellenza di ridefinirne
graziosamente i concetti per non rischiare di urtare i sentimenti
di qualcuno. Un simile innalzamento di virtù naturalmente su­
bordinate e la conseguente carenza di virilità possono spiegare
almeno in parte l'illusione di massa a cui oggi assistiamo, vera
e propria allucinazione collettiva per cui si accusa di codardia
veterani di guerra mentre transessuali e donne obese nude su
qualche copertina ricevono applausi degni di eroi trionfanti.
Un eccessivo attaccamento a virtù "gentili" e sentimentali in­
catena molti uomini di per sé virili a una cultura di debolezza,
una cultura che persino sono spinti a difendere, percependo una
sua dismissione come una rinuncia a quanto ancora vi sia di ge­
nuinamente buono ed amabile a questo mondo. Questi uomini,
uomini di valore che tengono a viver bene la propria mascolinità,
sono esattamente quel tipo d'uomo che vorresti nella tua tribù;
tuttavia, il loro cuore d'oro viene indegnamente sfruttato, tradito
ed ingannato da una cultura che disprezza la loro forza e il loro

96
coraggio. Mentre l'Impero crea fragilità sempre nuove la cui pro­
tezione assegna ad elementi tanto validi, nessuno si mostra loro
riconoscente, e spesso il destino che li attende è un vano martirio
sul campo di un onore ormai quasi del tutto dimenticato. Le
loro doti non sono poste a presidiare il candore di una delicata
bellezza, ma le si sfrutta a tutela di un crasso clima di risentimento
vittimistico, di avidità materiale, di fiacchezza e ripugnante dege­
nerazione ad ogni latitudine. Progressivamente, venendo meno
ogni minaccia concreta, questi bravi uomini saranno messi gli uni
contro gli altri, e la nobiltà del loro animo verrà dilapidata dan­
nandosi a difendere il modernissimo "diritto" della feccia dell'u­
manità di farsi più grottesca possibile. Questa gentaccia degna di
Bartertown23, abituata a crogiolarsi senza vergogna nella propria
immondizia pretendendo persino di essere elogiata, rappresenta
il modello del perfetto consumatore di massa, utile soltanto ad
alimentare le fornaci a metano dell'economia globale.
Le migliori qualità degli uomini più valorosi, quelli dal più
alto potenziale eroico, cadono sprecate per mano di vili manipo­
latori, capaci di convincere animi tanto nobili che mai saranno
tali se non dopo essersi spesi fino alla morte per tutti gli esseri
umani indistintamente, ovunque e comunque. Essendo ciò nei
fatti impossibile, ecco le élite accampare ragioni per cui è giusto
sl che gli uomini combattano, però non per il proprio "noi", ma
solo e soltanto per salvare il mondo dal male, qualunque cosa
ciò possa significare. Grazie al trionfo di quello che chiamano il

(23) Immaginario insediamento urbano, sporco e corrotto, scaturito dalla penna degli
sceneggiatori Terry Hayes e George Miller, padri della saga cinemacografìca distopica
di Mad Max, ed apparso per la prima volta sullo schermo nel suo terzo capitolo, Mad
Max 3 - Oltre la Sfora del Tuono (1985), per la regia dello stesso Miller insieme a
George Ogilvie. Caratteristica peculiare della baraccopoli di Bartertown è il soddisfare
il proprio fabbisogno energetico attraverso lo sfruttamento di gas metano derivato dalle
feci di maiale. Ciò spiega l'utilizzo nell'originale inglese dell'espressione "pig people",
che abbiamo ritenuto di rendere in traduzione con il generico "gentaccia", come pure
il riferimento alle fornaci a metano al termine del medesimo periodo. (N. d. T.)

97
bene universale, ecco nuovi mercati aprirsi, ecco nuove risorse na­
turali divenire accessibili, ecco conflitti risolversi, conflitti che an­
davano a ostacolare il libero flusso del mercato globale. L' impatto
a breve termine di questi eroici sacrifici in nome del bene comune
si tradurrà senz'altro in un miglioramento delle condizioni dei
popoli interessati, tanto in termini economici quanto di qualità
della vita; tuttavia, le inevitabili conseguenze a lungo termine non
potranno che essere una perdita di identità, uno smarrimento di
qualsiasi significativa autodeterminazione, ed il consolidamento
della ricchezza globale nelle mani di pochi eletti, convertendosi
uomini virili, veri guerrieri, in un esercito di marionette automa­
tizzate in vita solamente per produrre e consumare.
Per scampare a un simile sfruttamento, tocca agli uomini ri­
conoscere la menzogna del bene universale per ciò che è: una sto­
riella per schiavi.
Non è possibile salvare il mondo, ed anche se lo fosse, non
sarebbe comunque una tua responsabilità. Non sei un dio,
perbacco! Che razza di fantasia presuntuosa pensare che il destino
dell' umanità dipenda tutto da te e dalle tue decisioni!
Quando qualcuno ti dirà che un dato problema "è responsa­
bilità di tutti", consideralo un tentativo di portarti a fare qualcosa
che in fondo in fondo gli conviene per ragioni tutt'altro che fi­
lantropiche, o un modo come un altro per spingerti a lottare
con i mulini a vento, assecondando il suo frivolo ed insensato
complesso di Don Chisciotte. Qualunque cosa sceglierai di fare,
sappi che - in ogni caso - con tutta probabilità sarà del tutto
irrilevante. Sulla scala dei miliardi, sarà alquanto inverosimile che
le tue azioni possano modificare, seppure in infinitesima parte, il
corso degli eventi. Il tuo voto, il tuo servizio, la tua beneficenza,
il tuo deciderti a riciclare la spazzatura, le tue preziose opinioni,
persino la tua vita e la tua morte, avranno la medesima eco di uno
spillo che cade.

98
Tuttavia, se ricalibrerai la portata delle tue responsabilità da
una dimensione infinita ad una limitata, le tue azioni avranno
molte più possibilità di contare qualcosa. Se coloro a cui ritieni di
dover rispondere saranno racchiusi in un gruppo più ridotto, le
tue scelte diverranno matematicamente assai più significative.
Non vi è alcuna necessità di rinunciare alla gentilezza, alla gene­
rosità, alla disinteressata simpatia, all'onestà, all'umiltà o persino
alla Regola d'Oro. Non vi è alcun bisogno di venir meno a qua­
lunque tipo di responsabilità morale dovuta al prossimo. Potrai
sempre pregiarti di essere un brav'uomo, solo sceglierai di non
esserlo con tutti allo stesso modo. Se non ti deciderai a fare una
volta per tutte una sacrosanta selezione, gli altri continueranno
a decidere per te, basandosi su motivazioni che non ti riguar­
deranno, e che potranno pure rivelarsi più o meno arbitrarie.
Chi si mostra disposto ad accettate che porre dei limiti alle
proprie responsabilità non è affatto immorale, ma sempli­
cemente dà prova di un senso morale a doppia marcia. Per il
proprio "noi", tutto il meglio, per tutti "gli altri", lo stretto suffi­
ciente, ponendosi una netta distinzione tra moralità intratribale
ed intertribale.
La moralità intratribale riguarda l'estensione delle proprie
responsabilità all'interno della tribù di appartenenza, per il suo
maggior bene.
La moralità intertribale riguarda i rapporti fra tribù diverse,
e le responsabilità di ciascuno verso membri di altre tribù o in­
dividui di ignota affiliazione.
Gli esseri umani si sono destreggiati abilmente in questo
cambio di marcia morale lungo tutto il corso della loro storia.
Non è affatto disumano - anzi, è prettamente umano. Esso
consente agli uomini di passare con dinamicità dal prendersi cura
con lealtà e dedizione di quanti sono loro prossimi, all'uccidere
senza rimorso un estraneo qualora necessario. Impegnandoti a

99
trattare chiunque allo stesso modo come se tutti facessero parte
della tua tribù o della tua famiglia, dando per scontato che anche
gli altri si sentano vincolati da un impegno simile, significherà per
te importi da solo il giogo che ti renderà schiavo, trasformandoti
nel tipico ingenuotto di campagna destinato a farsi abbindolare
non appena mette piede in città. L'approccio universalista
confonde la percezione, perché nessun essere umano, in fondo,
pensa o opera in questo modo. Indipendentemente da quel che
predicano, gli estranei si faranno gli affari propri e quelli della
propria gente. Osservare con chiarezza le loro azioni ti permetterà
di capire come va davvero il mondo, e prendere le decisioni mi­
gliori per te e la tua tribù.
Fidati solo dei tuoi. Prenditi cura dei tuoi. Il resto è come terra
e tempo: considerali, e regola il tuo agt're.

"Sforzati di non buttare il tuo tempo in compagnia di trac­


cheggioni e chiacchieroni, provando inutilmente a cambiare
quel poco che hanno in testa.
Invece, usa tutto il tuo tempo e la tua energia per marciare
sempre più lontano. Più progredirai, più quelli cuoceranno nel
loro brodo. Più imparerai, più quelli rimarranno al palo ..."
GregWalsh,
WolfBrigade.com

100
NIENTE SCUSE, NIENTE CHIACCHIERE,
NIENTE SPIEGAZIONI

Perché cercare di spiegarti con gli sconosciuti, o peggio, con i


tuoi nemici? Per quale ragione provare a convincerli di qualcosa?
Perché perdere tempo a discutere con degli estranei? Since­
ramente, cosa penserai mai di ricavarne?
Tentare di offrire una spiegazione valida delle tue parole, dei
tuoi pensieri, delle tue azioni ai tuoi nemici, o anche soltanto a
degli estranei, è un atteggiamento difensivo, o - nel migliore dei
casi - strategicamente passivo-aggressivo.
Con i tuoi fratelli o con i membri della tua tribù, e solo con
essi, dar ragione del tuo pensare, del tuo parlare, del tuo agire è
prova di lealtà e rispetto. Se sei stato accusato di comportarti male
o in maniera contraria ai valori della tua tribù, sarà naturale per
te spiegarti e difenderti pubblicamente, volendo mantenere o ri­
guadagnarti il rispetto dei tuoi pari e continuare ad esser parte
integrante della tribù.
Si tratta di quel che in latino si definisce apologia, nel senso ori­
ginario della parola. L'apologetica, in particolare, è quella branca
della teologia cristiana che si occupa di difendere i dogmi di fede
e spiegarli ai non cristiani, per quanto anche molte altre dottrine
filosofiche e confessioni religiose abbiano adottato strategie
analoghe nel relazionarsi con i profani.
Apologetica deriva da apologeticus, che a sua volta discende
dal greco apologeti:kos. Nel sistema legale dell½.ntica Grecia, l'im­
putato usava rispondere ai suoi accusatori in tribunale con una
"apologia", ovvero una "difesa" pubblica e formale.
Se poi nessuno ti accusa, ma è comunque tua intenzione sot­
toporre una certa questione ai membri della tua tribù, difendere
il tuo pensiero in un dibattito pubblico rimane qualcosa di assai

101
produttivo. Allo stesso modo, sollevando un'obiezione, mostrerai
il tuo rispetto al tuo interlocutore intrattenendoti ad ascoltarlo e
provando a convincerlo che sta sbagliando.
Se un uomo si attarda in una conversazione apologetica o in un
sincero dibattito intratribale, è perché ha cura di chi ha intorno.
Ha a cuore la prosperità della sua gente e il corso che prenderà la
vita della sua tribù. Se si infervora, è perché tiene moltissimo al ri­
spetto dei suoi. Egli discute, anche animatamente se necessario, e
discutendo tutela, difende o accresce il proprio onore all'interno
del gruppo.
Tipico degli uomini è sviluppare e stabilire una prammatica,
norme formali che regolino la discussione e la risoluzione dei
contrasti qualora ne sorgano, affinché questi non mettano a re­
pentaglio l' unità e l'armonia della tribù. Qualsiasi gruppo, grande
o piccolo che sia, avrà al suo interno fazioni diverse, con idee o
agende diverse da proporre e propugnare. La competizione dia­
lettica fra le differenti fazioni può generarsi dal comune interesse
per la sopravvivenza, la prosperità, la cultura del gruppo nel suo
insieme; altrimenti, e specialmente nei grandi sistemi politici ciò
accade assai di frequente, sotto una formale apparenza di ami­
chevole dibattito può covare un rancoroso desiderio di sabotarsi
a vicenda.
Nei discorsi dei vari partiti in competizione fra loro, se c'è
qualcosa che non manca mai è senz'altro la premessa che il proprio
programma è quanto di meglio il Paese potrebbe sperare. Potrà
pure detestare i suoi avversari più dei nemici stranieri, o curarsi
solamente del proprio orticello e nulla più con buona pace di
qualsiasi ideologia, ma per un partito politico abbandonare la gran
commedia del supremo bene della Nazione sarebbe qualcosa di
completamente tabù, poiché un simile atteggiamento andrebbe
a minare la sovrastante identità comune o rischierebbe di sma-

102
scherare la pletora di corrotti ciarlatani per quel che realmente
è.
Gli uomini discutono, dibattono, argomentano le proprie
posizioni a livello intratribale mantenendosi entro una cornice
concettuale che presuppone unità di gruppo, rispetto reciproco,
identità condivisa, ed il bene della tribù come obbiettivo
comune.
Tale modo di procedere, o quantomeno il riconoscimento di
esso come ideale dialettico, è abituale in Occidente. Una lunga
tradizione alle spalle, esso affonda le radici nella classicità, ed è lo
stile di argomentazione in base al quale più o meno tutti noi siamo
stati istruiti, e che i nostri interlocutori tendono solitamente ad
aspettarsi. Esso funziona, e le convenzioni dialettiche occidentali
sono solitamente produttive, a patto però che si dispieghino
all'interno di una tribù o un gruppo culturalmente coeso.
Come la gran parte delle usanze occidentali sopravvissute nel
tempo per la loro funzionalità in piccoli gruppi di uomini, il di­
battito civilizzato porta all'impotenza, alla corruzione, all'inde­
cisione se applicato universalmente. Esso rimane particolarmente
utile nelle cosiddette scienze dure, fatte di prove esaminabili con
oggettività da chiunque sia sufficientemente intelligente da com­
prendere ed elaborare quanto gli viene sottoposto. Quando però
l'assunto alla base di rutta la dialettica occidentale - che tutti i
partecipanti alla discussione condividano cultura e identità e vo­
gliano il meglio per il gruppo a cui appartengono - non è più
verificato, da costruttiva che sarebbe essa può farsi superflua,
o addirittura pericolosa. La politica, in particolare, rischia di
divenire un magnete per bugiardi e sociopatici esaltati più di
quanto già non lo sia per natura, con uomini privi di autorità o
significativo potere politico a perdere il proprio tempo e sprecare
energia tentando di persuadere completi sconosciuti a cambiare
il proprio modo di pensare, anche quando questi sconosciuti

103
hanno identità differenti, appartengono ad altre fedi religiose,
e sono portatori di idee radicalmente diverse, incompatibili
o persino opposte sul bene, sul male, e su ciò che davvero "sia
meglio" nella vita.
L'uomo universalista, da bravo cittadino egualitario e membro
della Tribù Unica dell'Umanità Intera, ha assunto di buon grado
su di sé la responsabilità di convincere un infinito numero di
persone che le sue a.zioni sono nell'interesse di tutti e che quanto
lui desidera altro non è che il meglio per tutti, da qualunque
angolo del mondo essi provengano, pure se questi tutti gli sono
apertamente ostili e mai si considererebbero parte della sua Tribù
Unica. Un simile fardello non si può neppure definire una fatica
di Sisifo, perché non ne possiede la linearità.
L'uomo universalista non ha da spingere un singolo masso
su per un singolo monte, bensì il compito che lui stesso si è as­
segnato prevede che i massi da spingere siano un numero fun­
zionalmente infinito, su verso un altrettanto infinito numero di
cime. Egli sente di dover rispondere delle proprie azioni ad ogni
singolo essere umano vivente, attribuendosi in alcuni casi persino
la responsabilità del benessere e della felicità dell'intero Pianeta
Terra, e degli animali e delle piante che lo popolano. Gli oneri che
l'uomo universalista tende ad assumersi potrebbero essere assolti
solamente da una divinità onnisciente, intrappolandolo in un ri­
pugnante delirio inevitabilmente destinato al fallimento.
L'idea di una tale responsabilità implicita, per la quale spet­
terebbe a un uomo considerare le opinioni di tutti e convincere
chiunque delle proprie idee, viene pompata dovunque su In­
ternet e socia! media vari, milioni di volte ogni giorno. Seduti
davanti al proprio schermo, si finisce per impantanarsi in tanto
inutili quanto interminabili discussioni con perfetti sconosciuti
- profili dal sicuro anonimato e dalla discutibile sincerità - come
se si trattasse di fratelli, amici o vicini della porta accanto. La-

104
sciandosi coinvolgere in sterili dibattiti con estranei, ci si espone
ad un infinito numero di stimoli da parte di uomini e donne
di ogni provenienza, uomini e donne a cui si sente di dover ri­
spondere come si risponderebbe ad un fratello, un amico o un
pari nella stessa propria tribù.
Molti giovani uomini cresciuti nelle virtuali praterie di In­
ternet prendono tutto questo come una catartica gara al rialzo,
crollando discussioni online per la pura soddisfazione di pro­
vocare sconosciuti interlocutori, ricevendone risposte confuse
o scoppi emotivi. Come degli hacker, spesso fingono di volersi
rendere in qualche modo utili, ma si tratta di una mera raziona­
lizzazione, poiché in realtà è la noia a muoverli, non certo una
disinteressata bontà d'animo. Sprecando il proprio tempo in rete,
non ci si apre solamente ad un nugolo di sconosciuti realmente
interessati - pur con interessi e valori diversi dai nostri - a quel
che abbiamo da dire, ma anche agli attacchi gratuiti e alle prese in
giro di annoiati disturbatori.
Si accusa spesso i videogiochi - come pure gli intrattenimenti
sportivi, la pornografia ed altre ossessioni assortite - di distogliere
l'attenzione e le energie degli uomini da passatempi meno futili e
più concreti, attività vere da viversi nel "mondo reale". Tuttavia,
dibattere onUne con schiere di estranei non è che una maniera
altrettanto inconcludente per individui di valore di gettare al
vento, ora dopo ora, le proprie doti fisiche e mentali. Discutere
per il gusto di discutere altro non è che una forma intellettua­
lizzata di competizione in un mondo sempre più disperatamente
bisognoso di una mascolinità diretta e viscerale.
L'uomo universalista dibatte con tutti ed è perennemente af­
fannato a portare chiunque dalla sua parte perché in fondo, ai
suoi occhi, tutti son parte della sua stessa tribù. Fregarsene delle
opinioni di qualcuno, ovunque costui si trovi, è per lui qualcosa
di semplicemente barbarico.

105
Il barbaro, al contrario, rifiuta di accettare nella propria tribù
il primo sconosciuto che passa e va. Non essendo accecato dal
sacro verbo dell'inclusività senza fine, egli riconosce che gli altri
possono avere interessi e valori inconciliabili con i suoi. Egli sa di
rivolgere la sua fedeltà soltanto al suo "noi" di pochissimi scelti,
agli altri non dovendo né spiegazioni né giustificazioni. Ci si
immagini l'assurdità di un vichingo che spiega ad un gruppo di
monaci perché egli "faccia bene" ad attaccare il loro monastero,
o di un Attila, il grande condottiero, che dà ragione delle proprie
azioni ad altri che non siano i suoi Unni. La forza parla da sé, e
non necessita di chiacchiere.
Spiegare le proprie scelte agli estranei, o - peggio ancora -
arrivare a scusarsene è roba per culture flaccide, fallimentari,
uterine.
Esistono, ovviamente, delle eccezioni.
Vi sono alcune ragioni tattiche per volersi produrre in spie­
gazioni, scuse e discorsi vari. Ad esempio, se il gruppo a cui ap­
partieni è in minoranza, potresti voler mettere avanti delle scuse
di carattere meramente strategico.
Numerose religioni, fra cui lo stesso Cristianesimo, hanno svi­
luppato forme di apologetica per far sembrare la propria presenza
più tollerabile in aree in cui la loro influenza era minoritaria. Gli
ebrei parlano regolarmente come se fossero "parte" di una co­
munità più ampia, anche quando percepiscono sé stessi come un
gruppo separato e distinto da quella comunità. I musulmani ma­
nipolano gli occidentali moderati invocando pubblicamente tol­
leranza e comprensione, nonostante gli intollerantissimi sermoni
che predicano nelle loro moschee. Un simile approccio sfrutta la
fragilità della cultura dominante di una data regione per spianare
la strada all'espansione e all'accrescimento del potere di questa
o quella minoranza culturale. Scuse e spiegazioni tattiche sono
generalmente caratterizzate da proposizioni ambigue e mezze

106
verità, dal momento che la verità, quella autentica e completa,
certo non è quella che si vuole lasciar vedere. In parole povere, si
tratta di nient'altro che strumenti finalizzati a raggiungere uno
scopo.
Vi è tuttavia un rischio da considerare in una simile tattica,
ovvero che la doppiezza e le capziosità date in pasto al mondo
esterno per carpirne la tolleranza possono finire ad infettare la
cultura del gruppo e confondere la percezione che questo ha di
sé. A forza di cercare di convincere gli altri di quanto si è innocui,
e per questo non meritevoli di fastidi o persecuzioni, innocui si
può anche diventarlo davvero, disciogliendosi nella cultura do­
minante e divenendovi indistinguibili in quanto a quotidiani
modi di pensare. Ciò è vero, ad esempio, per la gran parte delle
forme religiose "alternative" oggigiorno diffuse.
Un'altra valida ragione per darsi all'apologetica è facilitare il
proselitismo. L'universalista evangelico è in teoria colui che ama
"annunciare la buona novella" a tutti, e proprio in questo dif­
ferisce dall'uomo tribale, i cui intenti si limitano alla conversione
e al reclutamento di individui desiderabili, la cui aggiunta al
gruppo può in qualche modo essere di beneficio al gruppo
stesso. L'uomo tribale dovrebbe essere in grado di rispondere alle
domande di quanti potrebbero essere interessati a aderire alla sua
tribù, e di definire con precisione in cosa i "suoi" credano e come
"essi" vivano, distinguendolo da ciò in cui "gli altri" credono e da
come "gli altri" vivono.
Analogamente, un vero uomo di tribù deve saper creare ar­
gomenti capaci di agire come fari in grado di attrarre "le persone
giuste" alla propria cultura tribale. Scrivere un libro, ad esempio,
potrebbe rivelarsi un'ottima idea.
Oltre a questo, ben poche altre ragioni vi sono per intrat­
tenersi in discussioni con estranei o avversari ideologici, provando
magari pure a convincerli in qualche modo di qualcosa.

107
Se a spingerti è la speranza che le cose possano andare meglio
se tutti si mettessero d'accordo per cambiare nella medesima
direzione la linea dei propri pensieri o modificare la traiettoria
delle proprie azioni, mi spiace dirti che stai già sbagliando di
grosso, e continuerai a sbagliare anche in futuro. Le persone
avranno sempre interessi e programmi differenti, sempre, ed at­
teggiarsi come se davvero si potesse ragionevolmente riunire ogni
anima in un immaginario unisono altro non è che un patetico
onanismo.
Con nemici o stranieri, è solo fiato buttato. Discutere è
qualcosa di sensato solo con persone che si conoscono e si ri­
spettano, persone le cui opinioni contano, poiché quel che in
fondo si vuole realmente è soltanto il meglio per entrambi. Parla,
dibatti, discuti con la tua gente.
Fanculo tutti gli altri.

"... il cacciare e il combattere pertengono al medesimo carat­


tere genetico. Entrambi sono di natura predatoria; il guerriero e
il cacciatore raccolgono dove non hanno seminato. La loro ag­
gressiva affermazione di forza e accortezza differisce naturalmen­
te dal diligente e ordinario operare su oggetti materiali, proprio
delle donne; essa non può considerarsi un lavoro produttivo,
bensl un ottenimento di beni altrui tramite la rapina. Essendo
questo il compito del maschio barbaro, colto nel suo massimo
sviluppo e nella sua più accentuata divergenza dall'opera fem­
minile, qualunque sforzo che non implichi un'affermazione di
coraggio non è che da ritenersi indegno per un uomo."
"Quando lo stile di vita predatorio si è consolidato nel grup­
po per lunga consuetudine, quanto spetta all'uomo abile nel
computo dell'economia sociale diviene uccidere, eliminare nella
lotta per l'esistenza quei competitori che cercano di resistergli o
sfuggirgli, sopraffare e soggiogare quelle forze estranee che gli si
stagliano innanzi con ostilità nell'ambiente circostante."
Thorstein Veblen, La Teoria della Classe Ag1:ata

108
ARRAFFA, SACCHEGGIA, DEPREDA

Per diventare un barbaro dei nostri tempi, dovrai senz'altro


lasciarti spiritualmente alle spalle l'Impero; tuttavia, per quanto
ti sforzerai, non riuscirai mai a sfuggire materialmente alle sue
grinfie. Potrai pure intanarti in qualche buco di capanna in
Siberia, ma sta' sicuro che le sue telecamere ad infrarossi finiranno
per rintracciarti. L'Impero è dappertutto. Ogni parola, ogni idea
presente in questo libro è stata filtrata attraverso i suoi canali.
Ad ogni modo, immaginiamo un attimo che tu riesca davvero
nell'impresa di sfuggire al leviatano e a tutti i suoi guizzanti
tentacoli. Che potrai mai fartene? Garantirti un po' di astratta
purezza per la tua anima preziosa e immacolata? Perché accon­
tentarti di una bella pulita alle unghie dal sozzume del dannato
Impero, rinunciando in compenso al suo bottino? Sciacquarti
di dosso la loro influenza ti farebbe davvero sentire migliore di
tutti quegli automi da supermercato, di quegli zombie assetati di
grana e celebrità da adorare? Non sarebbe soltanto un ritardare
l'inevitabile per te e i tuoi amici, opponendo ancora e ancora un
ostinato "no" a qualunque cosa puzzi di moderno?
L'ossessione per la purezza è il tarlo dei preti e l'ipocrisia dei
parassiti. Ritirarsi in ascesi significa rassegnarsi, non ribellarsi.
Si diventa un barbaro dei nostri tempi solamente accettando
di sollevare con fierezza uno stendardo, e prendendo coraggio­
samente posizione contro un insaziabile organismo commerciale
che senza posa divora ogni identità, rivomitando dai suoi orifizi
una poltiglia informe di mediocrità monoculturale.
li barbaro dice "sl" alla vita. Egli prende dall'Impero ciò che
vuole, e lascia il resto a marcire. li barbaro vive senza scuse e senza
domandare scusa, fiero e sfacciato combattendo e razziando ciò
che vuole, per sé e per la sua gente. Dal momento che chi non ap-

109
partiene alla sua tribù è per lui un emerito nessuno, quando arriva
e fa manbassa è proprio a nessuno che sta prendendo. Il barbaro
sarà ben felice di indossare collane fatte coi tuoi denti, non per
crogiolarsi nella propria crudeltà, ma per celebrare il proprio
trionfo sulla morte, la debolezza, il fallimento. Egli sa che vivere
signific;a prendere e non restituire. Liberatosi dalle illusioni che lo
circondano, egli apprezza chi è, e a cosa la vita lo ha chiamato.
L'uomo civilizzato è tormentato dai suoi sensi di colpa, o
finge di esserlo per ostentare una qualche superiorità morale,
mantenendo così integro o elevando il proprio status sociale. Le
sue spalle hanno ereditato il fardello della dottrina del peccato
originale, il suo spirito lo ha interiorizzato e la sua mente lo ha
secolarizzato al punto di reputare la vita stessa il primo dei suoi
peccati. Cancellando e cancellando ancora le sue impronte, egli
non cessa di scusarsi per ogni vantaggio o talento che rischi di
favorirlo. Preoccupato com'è di essere corretto - per quanto la
vita mai lo sia stata - l'uomo civilizzato non esita a dar via potere
e privilegio, cedendoli entrambi a chiunque lo accusi di averli e si
senta in qualche maniera svantaggiato. Responsabile per la sorte
di chiunque come crede di essere, non mancherà mai qualcuno
ridotto peggio di lui al cui cospetto prodursi in mille inchini e
richieste di perdono.
L'uomo civilizzato non ha timore solamente di agire, ma anche
di parlare, e persino di far sogni troppo vividi. Non oserebbe mai
consentire a pensieri sconvenienti di sfiorare la sua mente, e la
vergogna di vivere lo rende facilissimo da controllare. Egli è un
debole, perché è la sua stessa forza a fargli paura; egli è debole,
ed è debole perché confonde la sua debolezza con una malintesa
nobiltà, immaginandosi candido cavaliere a cavallo di un bianco
destriero laddove per chi gli sta intorno altro non è che un agevole
bersaglio. Così tanto teme prendere agli altri, che gli altri sono
ben contenti di prendere a lui.

llO
Preoccuparsi per i sentimenti altrui è una perversione inter­
tribale di una sensibilità morale eminentemente intratribale.
Prendere solo ciò che ti serve e spartire con gli altri è un atteg­
giamento pratico e di mutuo beneficio entro i confini di una tribù
di persone connesse e interdipendenti. Liberamente condividere
stimola il buon cuore ed incoraggia la restituzione di favori. Una
rilassata cortesia in questioni di minima importanza - tenere
aperta una porta, ad esempio - dà prova di una disinvolta vitalità
in grado di rafforzare i legami sociali. Quel piccolo gesto, quella
porta aperta, sarà come dire all'altro che "io e te siamo sulla stessa
barca". Tuttavia, in un mondo di stranieri, non ci sono legami
sociali da rafforzare. L'uomo d'oggi si diletta a costruire mecca­
nicamente dimensioni comunitarie in cui nessuna reale con­
nessione culturale esiste, al di là di un fragilissimo "siamo tutti
esseri umani che abitano la medesima area geografica". Si tratta
di sforzi vuoti, una girandola di vane apparenze, e poco altro.
Aggredire senza esser stati provocati potrà pure essere di­
vertente, ma assai spesso si rivela anche tatticamente sciocco.
Un'immotivata ostilità attira l'attenzione di chi subisce e di chi
assiste, e chiama prevedibili ritorsioni. Il coglione caccia-grane
finisce sempre nei guai proprio perché è un coglione caccia-grane.
Non c'è ragione di offendere tanto per offendere, e aderire a certe
norme sociali di buona creanza - tenere la porta aperta, appunto
- è di solito cosa intelligente. Villano, credimi, non significa
forte.
Ad ogni modo, un barbaro deve saper strappare senza remore
agli altri quel che hanno, se ciò gli è necessario o vantaggioso. Il
barbaro è per definizione pronto al saccheggio, per sé e per la
propria gente. L'ingiustizia e i sentimenti altrui non devono im­
portargli più delle lacrime di un maiale al macello. Pancetta e pro­
sciutto: questo conta, e nulla più.

lll
Per diventare un barbaro, l'uomo civilizzato deve venire a patti
con l' idea che rifiutarsi di toccare la roba d'altri e trattare tutti con
equità adamantina non gli garantisce affatto che gli oggetti della
sua cortesia ne ricambieranno di buon grado la gentilezza. Anzi,
è assai probabile che sarà proprio il suo altruismo ad attrargli
addossç> gente desiderosa di farne strame.
Prendi: o prenderanno a te.
Prendere, tuttavia, non è privo di conseguenze. Le leggi
vigenti vanno assolutamente considerate, se non come linee guida
morali, quantomeno come concreti fattori di rischio. Inoltre, non
bisogna neppure dimenticarsi di valutare anche la prospettiva di
una possibile rappresaglia, immediata o procrastinata che sia.
In ogni caso, la maggior parte dei sistemi si fonda su una
morale collettiva che incoraggia e premia quanti si astengono dal
condividerne le regole. Milioni di persone stanno già, in qualche
maniera, fregando il sistema in cui vivono, che si tratti di ope­
ratori di borsa, negozianti al dettaglio, o casalinghe che fanno ac­
quisti solo dove accettano resi "senza far domande". Se c'è qualche
cavillo da usare per i propri comodi, se esiste qualche "clausola
di buona fede" di cui prendersi gioco, state certi che qualcuno
prima o dopo se ne approfitterà.
Perché q uel q ualcuno non sei tu?
Una compagnia quotata in borsa non ti vorrà mai bene, né
mai si interesserà di come ti vanno le cose. Si tratta di entità
legali dedite all'autoconservazione, il cui unico scopo è generare
profitto. Esser "corretti" con loro, e dar loro credito come lo daresti
al tuo idraulico, con cui magari sei pure andato a scuola insieme,
è veramente da imbecilli. Se abbassano le difese, dacci dentro.
Nel caso di una società quotata in borsa, non ci sono sentimenti
da urtare, perché società del genere non hanno sentimenti. Ap­
profitta di ogni loro falla, finché non avranno rimediato alla loro
svista, o finché non avrai succhiato tutto il succhiabile.

112
Trattare con maggior riguardo i singoli esercizi commerciali
gestiti da privati ha già più senso, specialmente se si tratta di
negozi di quartiere o se producono qualcosa a cui tieni. Mostrare
rispetto può aiutare a costruirsi una rete di supporto, e per anni
ho ripetuto "odia" il mondo ed "ama" la tua terra. Mettere fuo­
rilegge le gang criminali o i gruppi estremisti spesso contribuisce
a guadagnarsi la fiducia della gente, coltivando relazioni positive
e facilitando la vita delle persone. È difficile che qualcuno possa
odiarti se entri nel suo negozio sorridendo, servendoti educa­
tamente e lasciando ottime mance. Se però al di là del bancone c'è
un pezzo di merda, un tuo nemico, o un ostacolo ai tuoi interessi,
beh, che si fotta. Quel che è "giusto" è irrilevante. Non gli devi
proprio niente.
Non è la mia gente, non è un mlo problema.
Lo Stato - l'Impero del Nulla - è a sua volta una rassegna
di organizzazioni burocratiche dedite ad autoalimentarsi. Per
lo Stato sei solamente un numero, un indice demografico, uno
scaglione d'imposta, un potenziale contravventore di qualche
legge, una pratica da sistemare - stanne certo - con ben poca
"imparzialità". Per i politici che muovono i fili della pubblica
amministrazione sei invece un voto, un sondaggio, un donatore,
magari - chissà - pure un nemico o una minaccia. In teoria, il
governo degli Stati Uniti d½.merica esiste per proteggere i corpi,
i diritti, gli interessi dei cittadini americani. Tutti e 300 milioni,
o quanti sono. In realtà, i politici legiferano con nessun altro in
mente che i propri grandi donatori, i vari spedal lnterest groups
che hanno manovrato la loro elezione, e chiunque altro a cui
debbano qualche favore. Lo Stato stesso dovrebbe esistere solo
per tutelare gli interessi nazionali, ovvero della popolazione nel
suo insieme, ma l'adozione di una morale universalista ha prov­
veduto a sfumare ogni differenza fra un cittadino dello Stato ed
un "cittadino del mondo". Gli Stati Uniti, come pure i governi

113
in Europa altrettanto afflitti dal cancro universalista, hanno nel
tempo plaudito tanto alla fuga di cervelli e di lavoratori qualificati
quanto all'importazione di immigrati senza dote e rifugiati ostili,
e si sono lanciati a spese dei popoli che amministrano in costose
campagne militari all'estero, di scarsissimo o nullo beneficio per
il cittadino medio.
Lo Stato non bada ai tuoi interessi, ma soltanto ai suoi. Come
una gigantesca corporation tutelata dalla più grande gang che si
possa immaginare24, lo Stato non esita ad estorcerti quanto più
denaro e lavoro i suoi statuti gli permettano, limiti posti dallo
Stato stesso per garantirsi un livello minimo di supporto ed
un massimo grado di obbedienza. Lo Stato non ti vuole bene,
e neppure potrebbe. Non è un tuo amico, non è tua madre, né
tuo padre. Non si preoccupa per te, non ti rispetta, né si cura del
valore del tuo contributo. Quando lo Stato ti "dà" qualcosa, che
si tratti di un riconoscimento o di un assegno d' invalidità, altro
non è che un patetico teatrino di pubbliche relazioni.
Ad esempio, mentre scrivo queste pagine mi trovo a far
parte di una giuria popolare. Durante tutta la fase di selezione
dei giurati, tanto i giudici quanto i nostri coordinatori non
smettevano di rammentarci quanto importante fosse la nostra
presenza, né quanto sia costoro che lo Stato dell'Oregon ap­
prezzassero il nostro servizio. Il Primo Giudice della Suprema
Corte dell'Oregon e svariati altri giudici coinvolti o meno nel
nostro processo si sono persino scomodati a far per noi un video
di ringraziamenti. La parte esilarante di tutto ciò è che, in caso
di convocazione e selezione, prestare servizio come giurato è ob­
bligatorio, e se mi fossi rifiutato, i messi del tribunale avrebbero
potuto minacciarmi d'arresto per oltraggio alla corte, avendo io
mancato di ottemperare ai miei doveri. Direi che la mia personale

(24) Si suppone che l'Autore si riferisca alle forze di polizia. (N. d. T.)

114
esperienza rappresenta bene quanto e come lo Stato "apprezzi" i
suoi cittadini.
"Vi: ringraziamo infinitamente per la vostra partecipazùme
obbligaton'a. "
Non è molto diverso dal ringraziare i carcerati per la loro per­
manenza in cella.
Commuoviti quanto ti pare per ogni volta che parte l'inno,
entusiasmati pure per tutte quelle fierissime bandiere spiegate
al vento che hai visto in televisione, ma nessun inno, nessuna
bandiera potrà mai cambiare la realtà dello Stato moderno come
macchina guidata da milioni di individui impegnati in scelte di
carriera volte solamente al loro personalissimo interesse.
Lo Stato è un sistema la cui operatività si basa sull'azione di
dirigenti che ben difficilmente decideranno in via spontanea di
chiudere il proprio dipartimento e licenziare i propri sottoposti,
per quanto kafkiano, ridondante e parassitario il dipartimento
che guidano sia diventato. Per tenersi il posto e non rinunciare
ai bramati scatti, troveranno senza dubbio mille modi per razio­
nalizzare e giustificare il proprio lavoro dinanzi a sé stessi e ai su­
periori. Ogni tanto magari qualcuno si ricorderà di dar loro una
controllata in risposta a qualche problema di bilancio o alla voce
irritata del grande pubblico, ma - ancora - ciò sarà soltanto per
garantire alla macchina statale un massimo livello di supporto ed
un minimo grado di disobbedienza.
Alcuni miei carissimi amici abitano al di là della strada da un
ufficio di previdenza - o dipartimento di servizi sociali, o come
accidenti chiamano oggi quei posti. Preparandosi ogni mattina
per andare al lavoro, quei ragazzi non mancano mai di storcere il
naso dinanzi alla moltitudine di buoni a nulla in fila per ricevere
il loro assegno. I miei amici sono visceralmente disgustati da una
simile processione di accattoni, uomini e donne che potrebbero
benissimo lavorare come loro, ma scelgono deliberatamente

115
di non farlo. Non potete immaginarvi quanto s'infuriano al
pensiero. Perché mai soltanto a loro spetta lavorare e pagare le
tasse, mentre a tutti quegli altri basta stare in coda un'ora per trot­
terellarsene poi a casa e ricominciare ad oziare? A nessuno piace
passare la notte a condurre un muletto nel cantiere di qualcun
altro. Nessun uomo vorrebbe spendere le proprie giornate
lavando piatti o pulendo la nave di qualcun altro, infradiciandosi
in un freddo che ghiaccia le ossa. I miei amici vanno al lavoro
perché sono persone orgogliose e degne, ben consapevoli che ad
ogni uomo tocca caricarsi sulle spalle il proprio fardello.
Il loro istinto è sano, ed è questo che li rende quel tipo d'uomo
che vorrei nella mia tribù.
In ogni tribù ben funzionante, ad un uomo spetta quan­
tomeno il suo fardello. Un uomo di successo, che ha saputo me­
ritarsi il rispetto di chi gli è intorno, aiuta anche altri a portare
il loro. Non si limita a sopravvivere, ma genera un surplus, una
prosperità da condividersi entro il perimetro del gruppo. Egli
lavora non soltanto per mantenere sé stesso, ma anche le donne,
i bambini, i disabili e gli infermi. Ogni vero leader che ho avuto
modo di conoscere avverte un forte senso di responsabilità per
quanti dipendono dal suo surplus, e tale senso di responsabilità
lo motiva a lavorare più duramente e a produrre di più, finendo
col migliorare la qualità della vita dei suoi amici, della sua gente,
della sua famiglia. In qualunque tribù, l'uomo probo è colui che
spartisce il bottino che con la sua sola forza ha conquistato.
Il desiderio di lavorare per sostenere il proprio fardello ed
aiutare il proprio prossimo rappresenta il marchio di una retta
moralità intratribale.
Tuttavia, anche ciò che è funzionale può diventare disfun­
zionale, ed è quanto di frequente accade quando la morale interna
a una tribù viene estesa al di fuori di essa. Quei "bravi uomini" -

116
infatti - sono i primi a venire sfruttati, tanto dai pigroni quanto
da chi ha aperto gli occhi e si è accorto che il gioco è cambiato.
Nei loro bofonchiamenti, i miei amici - in qualche modo
- ancora si ostinano a dare un giudizio morale di quel branco
di scrocconi, valutandoli come valuterebbero dei membri della
loro stessa tribù. Tutti quegli sconosciuti in coda all'ufficio di
previdenza, loro li giudicano come fossero parte del medesimo
"noi". Per loro sono dei parassiti, bravi soltanto ad arraffare;
tuttavia, in maniera senz'altro astratta, cosl facendo i miei amici
continuano a identificare sé stessi, il loro "noi", con l'Impero.
Dopo tutto, pagano - non volontariamente, certo - le tasse,
e rode loro il fatto che una frazione del surplus prodotto dal
duro lavoro venga distribuita a gente indisposta a rimboccarsi le
maniche. Le risorse dello Stato, ovvero dell'Impero del Nulla, ai
loro occhi sono le loro risorse. Per questi "bravi uomini" sarebbe
una vergogna, un disonore persino, mendicare qualcosa allo
Stato, accaparrarsi qualcosa che non sia frutto del sudore della
propria fronte, vedere altri pari loro caricarsi sulle spalle fardelli
che non gli appartengono. Pertanto, eccoli lavorare e lavorare
ancora, finendo per nutrire quello stesso sistema che tanto pro­
fondamente disprezzano.
Che dire di me? Mi guadagno da vivere e pago le tasse, come
ho sempre fatto nell'intera mia vita adulta. Non ho mai ricevuto
niente dalla previdenza sociale, neppure un assegno di disoccu­
pazione. Con tutta probabilità, nel corso degli anni ho dato allo
Stato ben più di quanto lo Stato abbia dato a me. Ripensandoci,
lo Stato non mi ha mai elargito niente che fosse a me perso­
nalmente diretto se non una manciata di volte, e grazie ad esso
non ho mai goduto di benefici particolari se non quelli collettivi
derivanti dall'ordine generale mantenuto in essere dall'azione
delle forze di polizia e dall'utilizzo delle pubbliche infrastrutture,
come le strade.

117
Domandare allo Stato qualche tipo di assistenza non rientra al
momento nei miei piani, ma non avverto in me più alcun risen­
timento verso chi lo fa. Ho smesso di considerare mie le risorse
dello Stato. Volendo essere più precisi, i fondi statali altro non
sono che qq_el denaro che mi è stato estorto in misura sempre
maggiore nel corso di due decenni, e pertanto sarei ben lieto di
rientrare in possesso in ogni modo possibile del surplus prodotto
dal mio lavoro.
Tuttavia, se anche non avessi mai pagato un centesimo di tasse
in vita mia, non avrei ugualmente remore ad arraffare al governo
quanto più denaro possibile.
L'Impero non è la mia tribù. Il governo non è la mia gente.
Sarei disgustato se qualcuno nella mia tribù attingesse di
continuo alle risorse del gruppo senza rendere mai niente, ma
se ad essere succhiate sono le risorse dell'Impero a maggior van­
taggio di tutti noi, chi riesce a approfittarsene ha tutto il mio
rispetto.
Gli uomini d'oggi soffrono cosl tanto del diffondersi della
morale universalista che molti di essi si sentono in obbligo non
solo di trattare gli sconosciuti come loro stessi vorrebbero essere
trattati, ma persino di estendere tale riguardo ai governi e alle
multinazionali.
Stai pur tranquillo che nessuna entità statale, nessuna società
quotata in borsa si legherà mai le mani allo stesso modo. I governi
e le compagnie commerciali vogliono che ti identifichi con loro e
compi in te ai loro riguardi una vera e propria opera di antropo­
morfizzazione morale, così che non mancherai mai di acquistare
i loro prodotti, osservare le loro regole e contribuire alla loro so­
pravvivenza come istituzioni. Una fedeltà umanizzata, coltivata
nella carne, è assai più conveniente e di solito anche più affidabile
di un ordine imposto con la brutale forza dell'acciaio. O magari
del piombo.

118
Rifiutandoti di godere dell'abbondanza che lo Stato e le grandi
compagnie ti mettono davanti, non cambierai certo il mondo.
Non cambierai neppure le loro politiche, e nemmeno porterai
qualche estraneo a mutare stile di vita.
Alcuni potrebbero rispondermi che "se tutti facessero questo,
allora succederebbe quello". Questo, però, è un modo di pensare
prettamente universalista. Tu non sei responsabile per le azioni
di "tutti", e le tue azioni non influenzeranno mai neanche di un
minimo quel che "tutti" dicono o fanno.
Le tue azioni sono solo tue, e se anche non cambieranno mai
il mondo, potranno comunque avere un impatto sostanziale
sulla tua tribù e sulla tua gente. Non fermerai il globalismo rifiu­
tandoti di acquistare dalle grandi corporation, né cambierai i pro­
grammi di assistenza sociale scegliendo di non accettare quanto
ti offrono, ma non rinchiudendoti in un ottuso boicottaggio
potresti magari mettere da parte del denaro da investire nel be­
nessere della tua tribù.
Non c'è fuga dall'Impero, quindi altro non ti rimane che sce­
gliere se farti obnubilare dall'orgoglio, permettendo all'Impero
stesso di sfruttarti senza reagire, oppure essere tu a sfruttare
l'Impero, prosperando con la tua gente alle sue spalle.
Agli occhi di molti sarai soltanto un ipocrita che sputa nel
piatto dove mangia, giovandoti di quella stessa agiatezza, di
quegli stessi network, di quella stessa tecnologia, e di tutti gli altri
beni che per alcuni dovresti respingere, contaminati come sono
da quelle medesime istituzioni che canto deprechi. Tuttavia,
anche vivendo ostinatamente "ojfthe-gnd", pure vivendo i tuoi
giorni da eremita nella foresta, in un modo o nell'altro finiresti
ugualmente per beneficiare dell'esistenza dell'Impero. Negare a te
stesso e alla tua gente gli strumenti e le risorse che chiunque altro
ha a propria disposizione avrebbe come unico risultato la garanzia
di uno svantaggio permanente per te e i tuoi, rendendovi in-

119
capaci di competere validamente con altri gruppi. Pensa soltanto
a quanto sarebbe facile massacrare un'orda di barbari che si rifiuta
di maneggiare armi ritenendole in qualche maniera "impure".
Quanto sarebbe facile fregare un tontolone che non vuole in
alcun modo imparare a far di conto, o mettere fuori mercato un
uomo d'affari deciso a non accendere un computer?
Un'assoluta purezza porta soltanto povertà, vulnerabilità o ir­
rilevanza. Il massimo a cui potresti ambire sarebbe un ruolo da
attrazione folkloristica per turisti - un Amish, o roba del genere
- ma neanche di una simile nicchietta potresti davvero sentirti
sicuro.
Invece di abbandonarti alla fatica sisifea e incapacitante di pu­
rificare ogni tua cellula dal veleno dell'Impero, opera quel cambio
di marcia morale di cui tanto ti ho parlato in questo libro. Decidi
pure quali valori sono importanti per te e la tua tribù e man­
tieniti entro il perimetro sociale del gruppo, ma non commettere
la sciocchezza di astenerti dall'utilizzare qualunque mezzo ne­
cessario ad assicurare la sopravvivenza della tribù e la sua pro­
sperità nel concreto mondo d'oggi - non in una sua desiderata
versione futura, o in una sua immagine passata che serbi nel tuo
cuore.
Accogli ogni vantaggio. Sfrutta ogni opportunità. Usa ogni
risorsa. Prendi dal mondo moderno tutto quel che ha da offrire,
ed usalo come benzina per la tua rivolta, incrementando le chance
della tua gente.
Libera la tua mente dai crassi schemi dell'Impero. Immaginati
oltre le mura di Roma, con tutta quell'abbondanza ad aspettare
solo un barbaro che ci si tuffi sopra.
Avendone l'opportunità, cosa vorresti saccheggiare?
Avendone l'opportunità, perché non dovrestifarlo?

120
"Colui che infrange la legge è sceso in guerra contro la comu­
nità, e la comunità scenderà in guerra contro di lui. È diritto e
dovere di ogni uomo inseguirlo, devastare la sua terra, bruciare
la sua casa, cacciarlo ed abbatterlo come si caccia e abbatte una
fiera; non più ccreietto", egli infatti ormai si è fatto lupo. Anche
nel Tredicesimo Secolo, quando la condizione di fuorilegge non
era più garanzia di distruzione, ma diveniva uno stimolo per il
contumace a rispettare il giudizio delle corti, il vecchio stato di
cose era lungi dall'esser dimenticato - caput gerat lupinum, e
con queste parole il bandito diveniva fuorilegge."
Sir Frederick Pollock & Frederic William Maitland,
The History ofEnglish Law Bifore the Tlme ofEdward I

121
CAPUT GERAT LUPINUM

Un bravo e civilizzato maschio moderno non riesce proprio


a vedersi nei panni di un "criminale". Anzi, i più sono convin­
tissimi di essere dei veri "bravi ragazzi".
Gli uomini violenti, bravi a menar le mani ma non per questo
disposti a rinunciare alla propria rispettabilità sociale, spesso
amano definirsi "cani da pastore", una metafora resa celebre dal
tenente colonnello Dave Grossman25 nel suo libro On Combaiu,.
Stando a Grossman, un cane da pastore è mosso da un amore
profondo, e se combatte, è per proteggere le pecore che gli sono
affidate - i "cittadini perbene che producono", scevri da qualsi­
voglia "disposizione alla violenza" - dai lupi, parimenti inclini
alla violenza ma privi di "empatia per i [loro] concittadini". La
diagnosi di Grossman è, per i lupi, niente meno che "sociopatia
aggressiva".
Definizioni del genere sono troppo semplicistiche... troppo
bianche e nere.
L'idea del cane da pastore evoca il tradizionale ruolo del
maschio, da cui sempre ci si è aspettati il combattere contro
qualunque minaccia esterna - la furia della Natura o gruppi di
avversari umani - in difesa di cose e persone all'interno del pe­
rimetro della propria tribù.
Tuttavia, quando il pericolo bussa alla porta, ogni uomo ha
il dovere di proteggere il perimetro, ed i bambini, le donne e la
comunità intera al suo interno - non solamente un paio di "cani

(25) Dave Grossman (1956), addestratore, autore e saggista, già tenente colonnello
nell'Esercito degli Stati Uniti. Nel corso della sua carriera, ha tenuto numerosi
seminari a militari, civili e agenti di polizia, perlopiù inerenti alla violenza nella società
contemporanea e agli effetti fisiologici e psicologici dell'uso della forza letale. (N. d. T.)
(26) D. Grossman, "On Combat: The P1ychology and Physiology ofDeadly Conflict in
War and in Peace", Millstadc, Human Faccor Research Group, 2004. (N. d. T.)

123
da pastore" ufficialmente nominati. Nonostante quel che scrive
Grossman, sostenere che la maggioranza degli uomini sia "in­
capace alla violenza" è tanto offensivo quanto inesatto.
I cani da pastore di Grossman - perlopiù poliziotti, soldati
e vario personale di pronto intervento - hanno semplicemente
chiesto allo Stato il permesso di esercitare violenza in suo nome.
Il numero disponibile di questi lavori potenzialmente violenti,
o di questi "permessi" rilasciati dall'autorità, è estremamente
limitato, e per molte più ragioni di una qualche sorta di "inca­
pacità dei più alla violenza". Se anche tutti coloro potenzialmente
in grado di essere dei buoni cani da pastore avessero intenzione di
diventarlo, solo a pochi di essi sarebbe effettivamente consentito.
Del resto, solo una piccola percentuale di chi si arruola sotto le
armi sperando di combattere vedrà mai il fronte, e moltissimi
poliziotti passeranno anni e anni a far nient'altro che multe, ar­
rivando talvolta alla pensione senza aver mai estratto la pistola
dalla fondina.
Ai cani da pastore dello Stato - con tutta probabilità - non
capiterà mai di avere a che fare con dei veri lupi, essendo loro
compito primario intimidire le pecore quel che basta perché non
venga mai loro il ghiribizzo di provare a farsi lupi. A differenziare
un "criminale" da una "pecora" non è soltanto un'indole socio­
patica ed una propensione alla violenza, ma anche un diverso
modo di controllare i propri impulsi, ed il timore razionale della
seconda dinanzi all'autorità statale. La maggior parte degli uomini
riconosce che prodursi in "atti di violenza non autorizzata" li ren­
derebbe dei fuorilegge agli occhi dello Stato, pronti per finire i
propri giorni uccisi o incarcerati dalla mano ferma della violenza
legale. Il moderno sistema giudiziario non è stato plasmato per
proteggere piccoli, innocenti Hobbit dalla furia psicotica di
mostri assassini, quanto piuttosto per impedire agli uomini di
uccidersi a vicenda per questo o quell'affronto, lasciandosi coin-

124
volgere in cicli senza fine di vendette di sangue. Ai cani da pastore
è permesso far uso della violenza per mantenere intatto il mo­
nopolio statale sulla stessa.
Coloro che lo Stato investe del potere di esercitare violenza
tendono a considerarsi al servizio del cittadino27, e tutto sommato
lo sono, ma - in modo non diverso dalle organizzazioni mafiose -
se esiterà a chinare la testa e non si adeguerà alle loro regole, prima
o dopo quello stesso cittadino finirà per diventare vittima di
coloro che si reputano suoi difensori. In fondo, "se l'è cercata".
Platone chiamava "cuccioli di razza28" i suoi cani da pastore.
Un modo di esprimersi - questo - che io stesso numerose volte
ho preso in prestito, un modo di esprimersi - cani da pastore?
cuccioli? - forse sin troppo tenero, tanto da sembrarmi quasi
offensivo. Siamo sinceri: gli antichi guerrieri avrebbero davvero
gradito essere chiamati "cuccioli" o "cani da pastore"?
Cos'altro sarebbe un cane da pastore se non un lupo addome­
sticato, addestrato e condizionato a far solo e soltanto quanto gli
è comandato?
Un cane da pastore è un animale domestico. Un cane da
pastore ha un padrone, e questo padrone non è affatto la pecora.
Piuttosto, il suo padrone lo usa per tenere a bada le sue pecore,
proprietà di cui sa di poter disporre a proprio piacimento.
L'agente Clarice Sterling, un noto esempio di cane da pastore,
sa bene quel che accade agli agnelli in primavera29•

(27) "Protect and Serve" è l'iconico motto di numerose forze di polizia statunitensi,
adonato per la prima volta nel 1963 - nella variante "To protect and to serve" - dal
dipartimento di polizia della cinà di Los Angeles. (N. d. T.)
(28) Platone, Repubblica, libro Il,§§ 15-16. (N. d. T.)
(29) L'agente speciale dell'FBI Clarice Sterling - interpretata da Jodie Foster in Il
sz1enzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme e daJulianne Moore in Hannibal
(2001) di Ridley Scott - è una delle nemesi principali dello psichiatra cannibale
Hannibal Lecter nella serie di romanzi di Thomas Harris a lui dedicaci, e nei film da essi
tratti. Il riferimento dell'.Autore è a un dialogo occorso fra Lecter e l'agente Sterling ne
Il silenzio degli innocenti (il cui titolo originale è - appunto - The Silence ofthe Lambs),

125
Ci si domanda se mai un giorno questi cosiddetti "cani da
pastore" si sveglieranno urlando, consci di aver contribuito alla
macellazione dei loro protetti, o se continueranno a far finta di
niente, abbaiando...
'� .. l lupt'... i· lupi'... arrivano l lupt'... "
Dopo cucco, forse non è poi cosl nobile essere un "cane da
pastore".
Neanche essere la pecora di un uomo che si crede cane da
pastore è il massimo, del resto. La metafora della "pecora" non ha
in genere molti significaci oltre a "imbelle babbeo".
Perché, dunque, insultare uomini leali alla propria tribù e
disposti a uccidere per proteggerti, dando loro il nome di bestie
servili e addomesticate? Perché - piuttosto - non chiamarli i tuoi'
lupi? Non sono i lupi a battersi per il proprio branco?
Lottando in difesa di quanti ti spno a cuore, della tua gente,
perché accontentarti di essere un cane da pastore quando potresti
sfoderare la potenza del lupo?
Falla finita con le favolette morali, ed unisciti a noi nel mondo
degli adulti, dove per essere dei nostri nessuno ti chiederà mai di
fingere di combattere il male universale in nome del bene uni­
versale - purché tu combatta per noi, e solo per nol.
Questa è la vita vera, non quel che leggi nei fumetti. Non ci
sono alieni da sconfiggere in battaglie intergalattiche, ma solo
uomini che combattono fra loro per la propria gente, i propri
interessi o quelli dei propri dominatori. Se poi, da qualche parte,
dovessero pure comparire alieni, rettiliani o giganti da scacciare,

nel quale la donna rammenta con orrore il grido straziante degli agnelli in procinto di
essere macellati negli anni della sua infanzia in campagna, e descrive come tale grido
continui a tormentarla nel sogno. Il dialogo è assai importante ai fini della vicenda,
poiché proprio in quel ricordo lontano Lecter individua correttamente l'origine del
malessere interiore della Sterling, e della sua caparbia determinazione nel voler trarre
la giovane Catherine dalle grinfie del Jen·at killer Buffalo Bill, conscia che salvare
quell'innocente, quell'ultimo "agnello n, avrebbe silenziato finalmente l'urlo di morte
che da allora mai aveva cessato di risuonare nei meandri della sua psiche. (N. d. T.)

126
si tratterebbe davvero di una questione di bene contro male, o di
giusto un altro conflitto fra "noi" ed un nuovo "loro"?
Se mai ti deciderai a lasciar perdere il Thor di Hollywood per
studiare quel che davvero resta degli antichi miti, capirai ben
presto che Loki e i giganti non sono malvagi, bensl forze del caos
e del mutamento. Essi presentano sfide che attendono di essere
superate.
Fra gli antichi norreni, quanto giaceva entro il perimetro di
protezione era chiamato innangaror, "interno al recinto". Il
termine lnnangaror descrive lo spazio della violenza ordinata de­
finito dai confini identitari. lnnangaror è il "noi" dinanzi a un
"loro", e gli islandesi medievali descrivevano l'intera loro società
come "vdr lo'g'', "la nostra legge". Quanto non era lambito dalla
legge e pertanto era considerato disordinato e caotico, quanto
ricadeva al di fuori del perimetro protetto e oltre il recinto, era
invece noto come utangaror.
Uno dei nomi che indicavano il regno dei giganti era Utgaròr,
la cui radice tradiva il medesimo significato di utangaro, ovvero
"esterno al perimetro di protezione". Asgaròr era invece il regno
degli dèi, o .JEsi·r, i quali simbolizzavano quanto normalmente si
riferisce a un mondo solare, apollineo, uranico, o ordinato, ar­
monico e misurato. Dèi come Thor, Tyr o Odino combattevano
per tenere i giganti, oj�tnar, lontani da Asgaròr, e per proteggere
gli umani, abitanti di Miògaròr (il "recinto di mezzo") dalle loro
aggressioni. Fra glij�tnar si annoveravano i giganti del ghiaccio e
del fuoco, oltre a Loki e ai suoi figli: Fenrir il lupo,Jçrmungandr
il serpente che avvolge il mondo ed Hel, la signora del regno dei
morti.
Tuttavia, accadeva di frequente che un dio fosse in parte
jotunn30• Tanto spesso quanto li combattevano, gli dèi facevano

(30) Singolare dij�tnar. (N. d. T.)

127
affari e giocavano insieme agliJptnar, e talvolta finivano persino
per innamorarsene ed accoppiarcisi. Quei giganti non erano
malvagi, bensì soltanto creature differenti, con una propria natura
ed interessi particolari. Quando i loro interessi confliggevano
con quelli degli dèi o degli uomini, essi semplicemente agivano
di conseguenza, rappresentando una vera "spina nel fianco"
per entrambi. Non a caso, un altro nome perJt;tnar era pursar,
che significava tanto "potenti e pericolosi" quanto "a forma di
spina". Altri hanno rinvenuto in tale termine la medesima radice
dell'inglese "thirst'', riferendosi ovviamente ad una sete di sangue,
mentre la radice diJptnar è "divoratore"31•
I pursar e gli Jptnar erano creature divoratrici e assetate di
sangue provenienti da utangarlJr, oltre il recinto dell'ordine.
Spine nel fianco di uomini e dèi, minacciavano di condurre al
fallimento e distruggere tutto quanto di buono essi avevano
costruito. Erano essi incontrollabili forze della Natura, come le
tempeste, gli incendi, gli orsi, i terremoti... forse pure i lupi. Non
erano né buoni né cattivi, ma erano minacce, minacce per in­
nangarlJr, per quanto era al sicuro entro il cerchio protettivo.
Vi sono due modi per affrontare le minacce che giungono
dall'esterno. Puoi infatti fare come T hor, ed accettarle per quel
che sono, ovvero sfide da superare ed opportunità di grandezza e
gloria, o scordarti del testosterone che hai in corpo e vederle come
cattiverie gratuite nei confronti tuoi e dei tuoi amici. Un mondo
senza lotta è un mondo senza gloria. La vita è conflitto, e la pace
è morte. Tocca alle forze del caos tenere in moto il ciclico corso
della Storia.
Non serve che tu creda letteralmente in dèi e giganti per ri­
conoscere l'umana verità senza tempo di un simile modello me-

(31) Questo segmento è ispirato alla trattazione di antiche concezioni germaniche


offerta da Dan McCoy su nor.se-mythology.org, precisamente a.Ila pagina http://norse•
mythology.org/conceptslinnangard-and-utangard/ (N. d. A. )

128
taforico. È un'altra maniera di dar senso al ruolo del maschio
nella società, alla legge e ai fuorilegge che la infrangono, al caos e
all'ordine, agli amici e ai forestieri - in una parola, al "noi" contro
"loro".
Una delle ragioni per cui a molti "bravi ragazzi" non piace
essere paragonati ai lupi è che i nostri antenati vedevano i lupi
come selvagge ed esogene forze del caos. I lupi vivevano oltre la re­
cinzione esterna del villaggio, e cacciavano prede indifese e smarrite
- prede animali, e talvolta persino umane. Cappuccetto Rosso
è finita in bocca al lupo per l' inganno di un estraneo - il lupo,
appunto - che l'ha incoraggiata ad attardarsi nella selva, e deviare
dal suo cammino verso la nonna per addentrarsi nell'ignoto della
foresta. I lupi erano divoratori, insaziabili divoratori. Skoll e
Hati, mitici lupi, inseguivano per divorarli sole e luna attraverso
il firmamento. Pure Odino in persona aveva inscritto nel suo
destino di essere ucciso da Fenrir, gigante dalle fattezze di lupo.
I lupi erano fiere divoratrici, ma anche razzolatrici come aquile,
e come le aquile dopo ogni battaglia non mancavano mai di fare
banchetto con i corpi dei caduti. Trionfare in battaglia significava
dare il proprio nemico in pasto ai lupi, e la sconfitta portava con
sé come inevitabile prospettiva il divenire cibo per lupi, aquile,
corvi.
Nelle comunità più piccole e più spiccatamente tribali non
c'erano boia professionisti, figure presenti soltanto nelle città
più grandi. Chi veniva ritenuto una minaccia all'ordine pubblico
interno alla comunità, si trattasse di un assassino o del respon­
sabile di qualche altro atto ugualmente imperdonabile, costui era
ufficialmente bollato come fuorilegge. Essere un fuorilegge signi­
ficava venire privato della protezione legale della comunità, di vdr
lb'g. Un fuorilegge era letteralmente fuori dalla legge, bandito da
lnnangarore scacciato verso utangaror, spedito oltre i confini del
mondo conosciuto e ordinato per precipitare nel disordine di un

129
ignoto in cui tutto sarebbe potuto accadere. Le sue proprietà ve­
nivano confiscate e spartite, e nessuno avrebbe considerato ciò un
furto. Chiunque avrebbe potuto ucciderlo, e non sarebbe stato
un omicidio. Nessuno avrebbe vendicato la sua morte. Il fuo­
rilegge veniva privato di ogni diritto di cui avrebbe goduto come
membro della comunità. Nessuna famiglia, nessuna amicizia gli
sarebbe rimasta, tramutandosi fondamentalmente in una non­
persona. La sua deumanizzazione era completa.
Per indicare un fuorilegge, un malfattore che chiunque
avrebbe potuto impunemente uccidere, i Romani utilizzavano
il termine homo sacer, sottolineandone l'avvenuta separazione
dalla collettività. Dal latino sacer deriviamo la parola "sacro", ma
in quest'uso più che sacro s'intendeva maledetto. Fra gli antichi
norreni, il fuorilegge era skòggangr, colui che "è andato nella
foresta". Quest'immagine rimase nel tempo, e durante tutto il
Medioevo si usò dire di chi veniva bandito che "porta la testa di
un lupo", caput gerat lupinum. Egli cessava di essere uomo e di­
ventava un lupo, passibile di essere cacciato ed ucciso da chiunque
come una bestia selvaggia.
Al giorno d'oggi, quantomeno nel moderno e civilizzato
Occidente, solo chi ottiene il permesso dallo Stato di esercitare
una violenza autorizzata - i cani da pastore, o come altro vuoi
chiamarli - può confiscare le proprietà di un uomo, dargli la
caccia e ucciderlo. Pertanto, non esistono più fuorilegge, nell'ac­
cezione originaria del termine. Anche i condannati a morte
godono di una serie di diritti legali Nessuno è più davvero fuori
dal sistema.
Tuttavia, non manca comunque un certo grado di tra­
sformazione. Un uomo condannato per aver infranto la legge
diventa un "criminale". A chiunque, prima o dopo, è capitato
di infrangere qualche legge, e la maggior parte delle persone ne
infrange continuamente un gran numero, ma ciò che realmente

130
trasforma un cittadino in un criminale è l'esser stato beccato.
Quanti coltivavano, spacciavano, fumavano marijuana dove la
marijuana adesso è legale prima della sua legalizzazione, e quanti
la coltivano, la spacciano, la fumano dove seguita ad essere vietata,
sono stati o sono tuttora coinvolti in attività criminali. Costoro
sono o sono stati dei criminali da un punto di vista tecnico, ma a
nessuno verrebbe mai in mente di chiamarli così finché l' ufficio
del procuratore non gli imputa qualche crimine. C'è chi guida
da ubriaco, chi sniffa cocaina, chi diffonde roba piratata, chi
picchia la moglie, gioca d'azzardo, va a prostitute, vende pistole,
usa documenti falsi, firma assegni scoperti, evade le tasse, picchia
qualcuno o addirittura magari fa fuori qualche fottuto stronzo...
e non verrà mai chiamato criminale da nessuno finché non avrà
le manette ai polsi. Come dice Whitey Bulger32 nel film Black
Mass33 :

''Non conta cosa fai� ma quando e come Lofai. E a chi lofat� o


con chi lofai... se nessuno tr: vede, non è successo. "

Se e quando qualcuno però ti vede e vieni beccato - se vieni


accusato, condannato, o ancor più se finisci in prigione - allora
diventi un diverso tipo di persona. Un uomo che infrange la legge
è soltanto un uomo, ma un uomo che viene arrestato e va in galera
è un criminale. Anche dopo che "si sarà fatto i suoi anni dentro",
per molto, molto tempo ancora la gente si rifiuterà di assumerlo
o affittargli casa. La maggior parte dei pregiudicati non ha diritto

(32) James "Whitey" Bulger (1929-2018), criminale statunitense. Figura di


spicco della mala irlandese negli Stati Uniti, fu capo indiscusso della temutissima
organizzazione nota come Wintcr Hill Gang, operante su Boston cd in tutto il New
England nordorientale. Catturato nel 2011 a Santa Monica dopo 17 anni di latitanza,
è stato brutalmente ucciso nella prigione federale di Hazelton (VA), dove si trovava
recluso sconcando due ergastoli. (N. d. T.)
(33) Film biografico del 2015 di Scott Cooper, ispirato alla vita e alla carriera criminale
diJames "Whitey" Bulgcr (per l'occasione interpretato daJohnny Depp). (N. d. T.)

131
di voto, e più o meno ogni libertario, ogni attivista pro-Secondo
Emendamento34 alla "hands ojf my guns", ogni conduttore di
talk show non si farà scrupoli a voler impedire loro di possedere
legalmente un'arma da fuoco. Infatti, una volta che un uomo
diventa un criminale, diventa anche un diverso tipo di persona.
Diventa una cattiva persona. Non fa più parte dei buoni, che ub­
bidiscono alla "nostra legge" entro i confini del proprio spazio
ordinato. Potrà pure non venire bandito e scacciato nelle selve,
e potrà anche non essere più permesso al primo che passa di uc­
ciderlo e prendersi la sua roba, ma comunque vada, egli ha ormai
perso la fiducia del collettivo. Agli occhi di tutti, è una forza en­
tropica - selvaggia, pericolosa, imprevedibile.
Tutti, anche i cani da pastore, possono commettere dei
crimini. Vi sono infinite ragioni per cui un uomo commetterebbe
un crimine. Alcuni sono certamente più inclini ad infrangere la
legge di altri, e vi è pure chi per natura è più aggressivo. Tuttavia,
un uomo non diventa davvero un criminale finché il governo
non lo identifica come tale, affibbiandogli il marchio di pregiu­
dicato, che altro non è se non la versione lt'ght e contemporanea
dell'antico bandito con la testa di lupo.
La parola "criminale" è una classificazione creata dallo Stato,
e non rimanda necessariamente a una reale categoria di persone.
Il punto della questione è che venendo beccato o infrangendo
apertamente la legge, il criminale mina l'ordine interno. Senza
la violenza, la legge sarebbe soltanto un mucchio di parole, e
pertanto ogni criminale diviene di per sé anche un nemico dello
Stato.

"Colui che z'nfrange la legge è sceso i·n guerra contro la comuni­


tà, e la comunità scenderà z'n guerra contro di' lui. "

(34) Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d'.Amcrica - risalente al 1791
- concernente la tutela e la garanzia del diritto di possedere armi. (N. d. T.)

132
Un criminale va considerato una cattiva persona, o comunque
una persona diversa che entro certi limiti va deumanizzata perché
la gente continui a permettere allo Stato di prendere decisioni
morali in sua vece - come se i moderni governi rappresentassero
davvero l'opinione collettiva di un popolo, di una tribù, di un
villaggio. L'uomo d'oggi, il brav'uomo civilizzato non vorrebbe
mai attirarsi addosso la nomea di criminale, e se tratta i criminali
come persone diverse - come scarti umani dal sangue marcio - è
perché nel suo sistema morale è infissa l'idea che il criminale ha
osato infrangere "la nostra legge".
Tale convinzione ci riporta alle domande fondamentali alla
base di questo libro.

"Noi" chi?
A chi dobbiamo la "nostra legge"?
A chi dobbiamo la legge del Paese? '
A "not"' o a "loro"?

Se accetti di riconoscere la legge del Paese come la "nostra


legge" qualunque essa sia, da chiunque sia stata promulgata,
per quanto ridotta sia stata la tua influenza su di essa e sul suo
processo di redazione e approvazione, in qualunque modo
essa venga applicata, e qualsiasi siano gli interessi e i valori che
supporta e protegge, allora stai pur tranquillo che avrai sempre,
come in quella vecchia canzone country," a satis.fied mind35 ".
Se però la tua mente è ben lontana dall'"essere soddisfatta", se
non credi affatto che la legge del Paese in cui vivi corrisponda alla
"nostra legge", se sei giunto alla conclusione che la legge che ti
chiedono di rispettare sia in realtà la loro legge...
... allora il loro utangaror ti attende nel tuo esilio.

(3S) Verosimilmente, l'Autore si riferisce alla canzone "A Satisfied Mind", scritta nel
19SS daJoe "Red" Hayes e Jack Rhodes. (N. d. T.)

133
Oltre il recinto conosciuto, ti sei avventurato nell'ignoto, là
dove nessuno oserebbe. Se la violenza è il suo sistema aureo, la
legittimazione morale della loro legge - specialmente quella delle
moderne "democrazie" - poggia sull'illusione che tale legge cor­
risponda, in tutto e per tutto, a vdr lbg. Incrinare quest'illusione
è un'eresia. Uno psicoreato.
Commettere tale psicoreato ti renderà un criminale morale.
Rifiutandoti di riconoscere la legittimità morale della legge, ti sei
fatto forza entropica in grado di minare l'ordine costituito. Potrai
pure non dire a nessuno quel che pensi, potrai pure restartene
fermo e zitto, ma spiritualmente sei già passato al bosco, ed il
fuoco che in te brucia già ti avrà reso elemento d'insurrezione.
Nel tuo cuore, già hai dichiarato guerra alla comunità.
"Colui che infrange la legge è sceso in guerra contro la comunità,
e la comunità scenderà in guerra contro di lui·. "
Se hai scelto di dichiarare guerra alla comunità, aspettati che la
comunità faccia lo stesso.
Se rifiuterai l'Impero del Nulla, le sue leggi e i suoi valori, ma­
ledicendo l'Impero, i suoi sgherri e tutto ciò che lo rappresenta,
l' Impero e i suoi cittadini malediranno te.
A ragione, sarai reputato inaffidabile. Perché qualcuno do­
vrebbe mai prestar fede a chi ha rinnegato i suoi valori e rescisso
i legami con la comune appartenenza? Dopo tutto, tua è stata la
scelta di tradire ... loro. Ciò non ti rende affatto una persona sleale,
e con tutta probabilità sarai assai più leale di quanti usano l'idea
di "lealtà" come una maschera dietro cui pararsi per timore di
conseguenze tanto legali quanto sociali. Tuttavia, deumanizzare
i potenziali nemici è caratteristico della natura umana. I cittadini
dell'Impero, pur con tutto il loro minuziosamente coltivato uni­
versalismo morale, non si faranno scrupoli a trattarti come un
cane se violerai la loro legge o dubiterai della morale universale
in cui credono, e per te non verseranno una sola lacrima. A

134
quanti di costoro realmente importa quel che accade a un uomo
bollato come criminale, terrorista, razzista, sessista, membro di
una gang o di una setta, separatista di qualcosa o genericamente
"estremista"? Della sua sorte, il cittadino medio se ne laverà le
mani, ed i cani da pastore dell'Impero - o meglio, i suoi lupi - lo
inseguiranno senza tregua, lo scoveranno, e massacrandolo come
si massacra una bestia selvatica si sentiranno eroi.
Impegnando la tua vita nella fedeltà a una tribù, chi era il tuo
prossimo diverrà per te un estraneo, ed a tua volta non sarai più
da lui riconosciuto come amico. Diventare un barbaro è risolversi
a vivere oltre i confini della legge e della morale dell'Impero. Ti
chiameranno fuorilegge, criminale, "poco di buono". Per loro,
sarai un lupo. Accettalo, e siine orgoglioso e fiero. Sei un lupo
per loro, un lupo in caccia per la tua gente, il tuo branco, la tua
tribù.
Quando ti chiameranno animale, mostro, fuorilegge, parassita,
criminale, "delinquente", ricorda che le loro parole escono da
bocche di estraneo. Per te, tutti costoro altro non sono ormai che
forestieri. Non devi loro lacrime, scuse, pretesti o spiegazioni.
Non è la mia gente, non è un mio problema.

135
GINNUNGAGAP

Nelle antiche tradizioni norrene, prima che dèi e uomini


fossero, vi erano due mondi, uno di fuoco e uno di ghiaccio. Fra
Muspelheim, la terra del fuoco, e Niflheim, il regno dei ghiacci,
dilagava un vuoto mistico, lo spalancarsi di un nulla noto come
Ginnungagap. Miriadi di scintille volteggianti dal perenne con­
flagrare cozzavano con i cristalli di brina che bianchi e glaciali
tutto inondavano, insieme generando una reazione vaporosa
dalla quale emergeva il gigante primordiale Ymir. Ymir usava nu­
trirsi con il latte della vacca Auòhumla, e dalla sua enormità deri­
varono i progenitori di tutti i giganti. Mentre Ymir sorbiva dalle
sue mammelle, Auòhumla prese a leccare uno scoglio di ghiaccio
salato, e dal consumarsi di quello scoglio comparve la sagoma di
Buri, comune antenato di tutti gli dèi.
Buri generò un figlio di nome Borr, il quale fu a sua volta
padre di tre figli, chiamati Odino, Vili e Vé.
Odino e i suoi fratelli assassinarono Ymir, e dal suo cadavere
trassero il mondo. Dalla morte del colosso essi seppero creare la
vita organica, ed imposero l'ordine nell'immensità del caotico
nulla.
Mentre l'Impero Romano, fiaccato dal suo eccessivo estendersi,
andava sempre più mostrando segni di debolezza e consunzione,
tribù di non romani - i barbari - presero a smembrare il suo cor­
paccione marcio, arraffando, saccheggiando, depredando i grandi
centri urbani di tutto quanto desiderassero o potesse tornare loro
utile. Raspando fra i rimasugli della gloria di Roma, essi soprav­
vissero, prosperarono, si evolvettero, e finirono per riunirsi in
nuove nazioni. Queste nazioni crebbero in potere, e coacervi bar­
barici come Inghilterra, Francia, Germania e Spagna divennero
fari di cultura, in grado di inviare possenti armate imperiali a

137
conquistare, convertire, assimilare popolazioni in territori sparsi
ai quattro angoli del globo.
Oggi, anche questi Imperi soffrono del medesimo logo­
ramento. Ai loro popoli è stato insegnato a vergognarsi della
propria storia, e stirpi un tempo fiere hanno finito per rinnegare
completamente i propri avi. I vecchi Imperi vivacchiano ormai
senza forma né radici, e senza rotta si rotolano per terra e per
mare, confondendosi e adulterandosi vicendevolmente in un
mondo senza fratelli e votato alla prostituzione. La dissoluzione
di ogni differenza e di ogni identità è divenuta l'unica, vera re­
ligione di questo nuovo Impero del Nulla - l'unica speranza per
il futuro, l'unica fine, l'unico paradiso, il califfato cattolico del
grande consumo.
Quanto a noi, possiamo abbracciare questo sogno morente,
aderendo all'Impero e seguendone il corso nel baratro del suo
vuoto, o diventare i nuovi barbari, padri di futuri Imperi che
battagliano e fioriscono intorno al mastodonte agonizzante, co­
struendo dai suoi resti mondi sempre nuovi.
In tutto il secolo scorso, trovandosi a fare i conti con il declino
dell'Occidente, in tanti si sono fatti avvincere dal fatalismo e dalla
disperazione. La parola "occidentale" deriva da una radice latina
che indica l'atto del "cadere", e come il sole cade ad Occidente,
cosl questo suo tramonto era inscritto nel destino. Se un senso di
smarrimento e perdita è senz'altro comprensibile, la malinconia
dell'uomo occidentale a cui assistiamo è rivelatoria solamente di
una tragica mancanza di volontà ed immaginazione.
Fu in un mondo tribale che i nostri antenati nacquero. Essi
ereditarono i loro alleati, le loro culture, le loro tradizioni, le loro
patrie. Il globalismo potrà pure aver reciso ogni legame con sangue
e suolo, ma al tempo stesso offre un'opportunità senza precedenti
ad ogni nuovo barbaro di trovare connessioni con uomini e donne
di idee affini in tutto il mondo. Uomini di visione possono farsi

138
strada a vicenda nella desolazione dell'Impero, e percorrere la
vastità delle sue reti per incontrarsi, insieme fare brandelli di quel
che rimane del vecchio mondo e divenire forze di creazione.
L'Impero del Nulla ha creato un vuoto dove tutto può suc­
cedere, dove magia e creazione possono aver luogo - un nuovo
Ginnungagap.
Trovandoti nel vuoto con i tuotfratelli dinanzi alla mostruosa
carcassa di un dio morto, che tipo dt" mondo vorresti creare dal suo
cadavere?

139
RINGRAZIAMENTI

L'idea alla base di questo libro prende in parte spunto da


alcune conversazioni da me avute un paio di anni fa con amici
miei nell'esercito - in particolare con Max e Mike, fra gli altri. Da
allora, Mike Mathers è divenuto una parte importante della mia
cerchia, e non vedo l'ora di "piantare alberi di libertà" insieme a
lui qui in Cascadia con i Lupi per molti anni a venire.
Vorrei ringraziare i Lupi di Vinland, la mt'a gente, il mio
"noi", per avermi accolto fra le loro fila. Praticare come aspirante
membro e poi prestare giuramento nei Lupi è stata un'esperienza
potentissima in grado di stravolgermi davvero la vita, e molti dei
"cambiamenti di mentalità" che ho discusso in questo libro sono
cambiamenti da cui io stesso ho dovuto passare nel corso di tutto
il processo che mi ha portato da novizio a Lupo. Dalla mia appar­
tenenza fra i Lupi imparo ogni giorno di più cosa veramente sia
far parte di una tribù. Voglio qui ringraziare in modo particolare
i miei fratelli Paul e Matthias Waggener per il loro voler tentare la
sorte con me.
A seguito del successo de La vt'a degli' uomini', ho messo
insieme (o sono stato messo insieme da) un gruppo di "amici"
- come si dice, "avoglia, c'ho un amico per questo." C'è il mio
amico delle pistole, Greg Hamilton, che si è offerto di addestrarmi
e non smette mai di darmi un sacco di idee. C'è il mio amico dei
muscoli, Chris Duffin, con cui "condivido una visione" ogni
santo giorno, e che costantemente mi ispira a far meglio e lavorare
più sodo in tutto, dall'allenamento agli affari. Ci sono ancora i
miei amici delle informazioni nascoste, Trevor Blake e Michael
Lopushok, che hanno entrambi letto il manoscritto di questo
libro e dato il loro parere. Ho poi il mio amico delle "strategie di
rinascita", che - come Odino - ha molti nomi, ma è meglio noto

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per il suo blog sulla mountat'n guerrzlla, i suoi corsi di tiro ed il
suo libro The Reluctant Partz'san. Insieme a J ustin Garda - il mio
amico delle MMA - del The Pressure Project, noi tre scriviamo
più o meno delle stesse idee, solo viste da prospettive diverse.
Puoi avere tutti i talenti e tutte le capacità del mondo, ma alla
fine tutto si riconduce a tribù e identità. Tutti questi "amici", e
probabilmente anche molti altri, hanno ognuno a proprio modo
contribuito allo sviluppo di questo libro.
Vorrei inoltre ringraziare Richard Spencer, che mi ha invitato
a parlare a due convegni del National Policy Institute, dove ho
avuto modo di illustrare alcuni abbozzi del contenuto di questo
libro negli interventi intitolati "Becomt'ng the New Barbarz·ans"
e "The Trz'bal Mind", entrambi tuttora visionabili su RADIX/
NPI, il canale YouTube di Spencer. Richard non mi ha mai fatto
mancare il suo appoggio, ed ha sempre creduto che avessi qualcosa
di importante da dire, accettando di prendersi per questo un
sacco di merda in faccia dagli schizzati autistici e dagli sfigatissimi
nerd diffusi un po' ovunque nella variopinta galassia di destra.
Infine, vorrei ringraziare i miei lettori. Questo libro potrà
pure essere duro da leggere, e scrivendolo potrei essermi alienato
le simpatie di alcuni, ma parlando in generale ho l'onore di godere
della stima e della fiducia di lettori fra i più forti, competenti e
coraggiosi che ci siano al mondo. È stato per me estremamente
gratificante vedere artisti marziali di successo, atleti e militari pro­
fessionisti leggere i miei lavori e confermarmi che le mie teorie
funzionano anche nella pratica, e niente mi incoraggia più del
fatto che altri uomini, ragazzi normalissimi, riescono grazie a me
a rendersi conto che c'è qualcosa di profondamente sbagliato nel
mondo moderno, e a decidersi a fare quel che serve per diventare
quel tipo d' uomo che desiderano essere, invece di accontentarsi
di quel minimo che l'Impero del Nulla vorrebbe passar loro.

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INDICE

7 PREFAZIONE
11 IL DESTINO DELL'UOMO
17 L'IDENTITÀ È TUTTO
21 IMPOTENZA UNIVERSALE
35 L'IMPERO DEL NULLA
43 LA MADRE DEGLI ESULI
53 LIBERTÀ
61 BECOMING A BARBARIAN
67 "NOI"CHl?
73 APPARTENERE È DIVENTARE
83 NIENTE LACRIME PER GLI SCONOSCIUTI
89 IL CAMBIO DI MARCIA MORALE
101 NIENTE SCUSE, NIENTE CHIACCHIERE,
NIENTE SPIEGAZIONI
109 ARRAFFA, SACCHEGGIA, DEPREDA
123 CAPUT GERAT LUPINUM
137 GINNUNGAGAP
143 RINGRAZIAMENTI

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