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Il cosmo di uno storico del XXI secolo

ISIG Trento, 6 febbraio 2020

1. Cosmi e intersezioni: uno storico “friulano” e un mugnaio “globale”


La proposta di partire dal Formaggio e i vermi — dalla sua ripubblicazione1 e dai dibattiti che quel
libro ha intercettato o generato — per parlare del cosmo di Ginzburg, storico del XXI secolo, apre
un ventaglio molto ampio di piste. Proverò a seguirne qualcuna e a sollevare alcune questioni.
Il titolo che Ginzburg ha scelto per il suo libro suggerisce una pluralità di livelli di lettura della
parola “cosmo”.
Un riferimento cosmogonico, intanto, ha mediato il primo incontro con Menocchio. Come Ginzburg
riferisce nella nuova Postfazione, è l’elemento cosmogonico, sottolineato dal compilatore
dell’indice dei processi del S. Uffizio di Aquileia e Concordia (dove si trova l’indicazione di un
processo a «un contadino accusato di sostenere che il mondo era nato dalla putrefazione») che colpì
Ginzburg.2
Nel titolo del libro del 1976 il “cosmo” è anzitutto un riferimento a un aspetto rilevante dell’oggetto
della ricerca: il cosmo nel senso della teoria cosmogonica di Menocchio, il quale, con un «impasto
di lessico umile e sublime» (p. 75) spiegò agli inquisitori che lo interrogavano come il mondo, e
Dio stesso coi suoi angeli, fossero nati dall’addensamento e putrefazione di una caotica sostanza
primordiale, come dal latte si fa il formaggio, e da questo nascono i vermi (§§ 3; 25; 26).
La dimensione “cosmica” rimandava però anche alla complessità interna a una visione del mondo, a
un sistema coerente e organizzato di idee, di cui Ginzburg sottolineava la «fortissima componente
razionale (non necessariamente identificabile con la nostra razionalità)» (p. XXV). Un insieme
organizzato di idee in cui si configuravano una cosmologia, un’antropologia particolarmente
complessa, una visione dell’aldilà e una visione utopica. Il libro si occupa dunque di ricomporre
questo insieme scommettendo anzitutto sulla possibilità di identificarvi una coerenza. Dunque un
cosmo nel senso opposto a caos:3 non un insieme di elementi mischiati alla rinfusa ma un discorso
organico, sia dal punto di vista tematico che dal punto di vista formale.
Sto facendo riferimento all’uso di termini come “materialismo”, “letteralismo”, razionalismo”,
“radicalismo” contadino a cui Ginzburg fa ricorso per avanzare delle ipotesi sullo scarto tra fonte e
lettura di Menocchio, non solo quanto ai contenuti ma anche in termini ermeneutici. E, forse, sta qui
l’affinità indicata da Ginzburg con la scommessa dell’iconologia della tradizione del Warburg
Institute. Cultura orale, performaces rituali, mitologia e immagini condividono dei problemi simili
di decifrazione?4
Mi sembra che in questa chiave si possa spiegare come, rispetto all’isolamento che Ginzburg
avvertiva nello studio intrapreso sulla cultura popolare, provò un senso di familiarità al Warburg
Institute. Effettivamente, nel saggio del 1966 che, proprio mentre i Benandanti andava in stampa,
Ginzburg dedica alla tradizione del Warburg, incalzando Gombrich sul problema delle

1 C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, Milano, Adelphi 2019.

2 Cf. C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, p. 211.

3 Nel “cosmo” contrapposto al “caos” si può cogliere anche una risposta all’oscillazione di A. Gramsci
sull’impossibilità, per definizione, delle classi subalterne di produrre una visione organizzata dei propri contenuti
culturali.

4 Cf. Prefazione a P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano, Mondadori, 1980, pp. I-XV, in particolare
pp. IX-X; Introduzione a C. Ginzburg, Indagini su Piero. Il Battesimo, il ciclo di Arezzo, la Flagellazione di Urbino,
terza edizione con l’aggiunta di una nuova prefazione, Torino, Einaudi, 1982 (ed. or. 1981), pp. XIX-XXI. Cf. anche le
acutissime notazioni in proposito di G. Charuty, Actualités de Storia notturna, in «L’HOMME», 230 (2019), pp.
133-152, in particolare p. 148.
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testimonianza figurate, Ginzburg stava mettendo a fuoco dei problemi di metodo che riguardavano
la sua materia: la cultura popolare.5
Torniamo alla polisemia della parola “cosmo”. Nel titolo, questo cosmo è affiancato da
un’indicazione sociologica (“di un mugnaio”) e da una cronologica (“del Cinquecento”), a cui
possiamo aggiungere un’indicazione geografica (“friulano”). Qui la parola cosmo acquista un senso
più ampio e dinamico. Nella Prefazione si parla infatti di “microcosmo” (compare il prefisso
micro-) attraverso il quale è possibile scrutare un panorama più ampio. Nonostante la sua
eccezionalità, anzi in parte proprio grazie a essa, nelle confessioni di Menocchio, scrive Ginzburg
«è possibile rintracciare in forma particolarmente netta […] una serie di elementi convergenti che in
una documentazione analoga, contemporanea o di poco posteriore, appaiono dispersi o appena
accennati […] In conclusione, anche un caso limite (e Menocchio lo è certamente) può rivelarsi
rappresentativo» (p. XXII).
Dunque, il caso di Menocchio (le sue idee cosmogoniche, la sua visione del mondo, della religione
e dei rapporti con le autorità) come punto di osservazione dell’intersezione tra fattori molteplici, dal
punto di vista sia socio-culturale, sia cronologico, sia geografico, ovvero: la presenza di dislivelli di
cultura, la loro reciproca interazione e la circolazione culturale tra alto e basso; la dialettica tra le
tradizioni (di più o meno lunga durata) identificabili nelle fonti che Menocchio legge e quelle
identificabili nel suo filtro ricettivo; oltre ai contenuti, anche le tendenze ermeneutiche di tali
tradizioni, in cui si contrappongono ai due estremi un materialismo letteralista e un allegorismo
speculativo; le analogie che, a partire dalla scarto tra fonte e lettura di Menocchio, rimandano a un
panorama più vasto, ad esempio alle tradizioni carnevalesche o sul Paese di Cuccagna o, molto più
problematicamente, ai miti cosmogonici dell’Asia centrale; infine, un ulteriore scenario su cui il
caso di Menocchio getta luce è quello dell’impatto di circostanze storiche determinate come la
diffusione della stampa e la crisi dell’unità religiosa causata dalla Riforma.
Rispetto a quest’ultimo punto (stampa e Riforma), un elemento su cui Ginzburg insiste è
l’atteggiamento «libero e aggressivo» con cui Menocchio era «deciso a fare i conti con la cultura
delle classi dominanti» (p. 145).6 A chi gli obiettava che un mugnaio e un calzolaio senza dottrina
non potessero disputare di cose difficili, aveva risposto di conoscere Iddio meglio dei prelati (pp.
4-5). Al contempo, viene evidenziato l’isolamento con cui Menocchio si scontra nel dar voce alle
proprie idee in un orizzonte in cui, in forme diverse, l’accusa di “eresia” riusciva efficacemente a
squalificarne la legittimità in materie il cui monopolio da parte della cultura alta era stato «ferito ma
non ucciso dalla stampa».
Qui vorrei segnalare che nello stesso anno in cui esce il Formaggio e i vermi (1976) Ginzburg
scrive anche High and Low, un saggio dedicato al tema della conoscenza proibita tra Cinque e
Seicento: penso sia interessante sottolineare che ci sono dei rimandi concettuali tra questi due
lavori, in particolare rispetto al rapporto con l’autorità nell’ambito della conoscenza.
Restiamo sulla questione dell’accusa di eresia. Le idee di Menocchio ci giungono (per lo più)
filtrate da una griglia che cerca di dimostrare, attraverso di esse, un presupposto: che si tratti cioè di
“capricci” e di “eresie”: il vicario generale di Concordia gli aveva detto subito di smettere di parlare
di certi argomenti, perché «questi capricii che tu tieni son heresie» (p. 5).
Leggendo il libro, più volte ci troviamo di fronte a un bivio, che Ginzburg presenta in questi
termini: ripensare le scale e gli strumenti di osservazione, oppure replicare in sostanza il tentativo
dei giudici che emerge chiaramente dall’analisi della prima sentenza (§ 46), il tentativo cioè di
riportare l’ignoto al noto: scomporre le idee di Menocchio e riportarle a un insieme di riferimenti
noti agli inquisitori (manicheismo, origenismo, Riforma, fonti filosofiche pagane).

5 Lo ha notato in questi termini, a mio avviso molto convincenti, T. Molho, Carlo Ginzburg: Reflections on the
intellectual cosmos of a 20th-century historian, in «History of European Ideas», 30 (2004), pp. 121–148, pp. 126-127.

6 Cf. C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, p. 74.


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Notiamo che nell’analisi del rapporto tra Menocchio e le sue fonti, anche Ginzburg propone, per poi
scartarle, delle spiegazioni nella chiave di una dipendenza più meccanica da alcune correnti
ereticali.
Come è stato più volte notato, uno degli aspetti cruciali di questo lavoro è lo slittamento dal cosa
Menocchio leggesse, al come leggesse le sue fonti.7 In questo slittamento erano impliciti il
riconoscimento della lettura come attività e non come una passiva assimilazione che ha luogo in
uno «spazio vuoto» e la consapevolezza della mutabilità «storica e sociale della figura del lettore».
Con questo slittamento di prospettiva, Ginzburg individuava un saldo timone metodologico: non
minimizzare la dimensione dello scontro tra culture diverse in favore di un approccio interclassista.
Era con questa lente che veniva rifiutata la prospettiva della storia della mentalità. E questo era stato
l’elemento sottolineato nel post-scriptum ai Benandanti, del 1972, in cui veniva annunciata, in
questa prospettiva, la ricerca allora in corso su Menocchio.8
Se il compito degli inquisitori era quello di «ricondurre a forza il reo nell'ambito della Chiesa» (p.
115), il compito dello storico, invece, scrive Ginzburg, è quello di «[dare] il giusto peso al sostrato
religioso e culturale delle campagne, non solo italiane ma europee, del Cinquecento — quel sostrato
che traspare nelle confessioni di Menocchio».
Su questo punto Ginzburg ha ammesso la congetturalità talvolta troppo spinta delle proprie tesi, ad
esempio la connessione con i miti cosmogonici dell’Asia centrale. Ma non ha mai abbandonato il
presupposto dell’esistenza di un sostrato culturale “semi-cancellato” e della possibilità di
raggiungerlo, eventualmente ricorrendo ad “additivi” come la morfologia.
La cosmogonia così particolare di Menocchio, metteva dunque lo storico davanti al problema del
sostrato, quindi a due problemi: quello dell’oralità come principale medium della cultura popolare e
del suo rapporto circolare con la scrittura e con la stampa; e quello del “contesto di riferimento”:
problemi che Ginzburg conosceva bene poiché erano emersi, sempre in Friuli, lavorando sui
processi contro i benandanti.
In questo senso, è importante leggere Il formaggio e i vermi come uno snodo in una duplice
traiettoria. Da un lato c’è una linea che va dai corsi di Cantimori (come quello sulle Prospettive di
storia ereticale che Ginzburg seguì alla Normale a cavallo tra anni ’50 e ‘609), passa per il
seminario co-diretto da Ginzburg e Adriano Prosperi sul Beneficio di Cristo (poi pubblicato come
volume a quattro mani, Giochi di pazienza, 1975) e prosegue in direzione del saggio sull’Utopia di
Moro (Nessuna isola è un’isola, 1998-2000).10
In questa traiettoria si colloca anche il libro sul Nicodemismo (1970), in cui Ginzburg lavora sul
cortocircuito e sulle convergenze tra alto e basso (ad esempio per quanto riguarda la contesa tra i

7Cf., es., O. Niccoli, Malintesi. Fenomeni di incomprensione tra livelli di cultura, in Un mondo perduto? Religione e
cultura popolare, a cura di L. Felici, P. Scaramella, Roma, Aracne, 2019, pp. 33-58.

8 Cf. I benandanti, p. XVIII.

9 Penso in particolare alle Prospettive di storia ereticale, un ciclo di lezioni del 1959, pubblicate nel 1960 (Ginzburg è
stato studente alla Normale dal 1957 al 1961. Le Prospettive sono citate nel Formaggio e i vermi, p. XXXV). Cf. D.
Cantimori, Prospettive di storia ereticale, in Id., Eretici italiani del Cinquecento e Prospettive di storia ereticale
italiana del Cinquecento, a c. di A. Prosperi, Torino, Einaudi, 1992, p. 426: «Mi sembra che occorrerebbe soffermarsi
sui rapporti di questa società ereticale con il resto della vita religiosa europea. Si può dire che proprio il carattere
estremistico […] costituisce per lo studioso uno specchio che ingrandisce e riflette in maniera più evidente i fenomeni
della vita religiosa europea, permettendo così di usare (con metodo analogo alla Wissenssoziologie) i materiali e i
risultati della ricerca microscopica per l’indagine e la considerazione macroscopica, senza derogare ai canoni della
concretezza, della specificazione e della cautela che sono propri di ogni studioso di storia, e senza incorrere in
generalizzazioni arrischiate o fantastiche».

10 Segnalo qui una consonanza molto interessante con le note gramsciane del Quaderno 25 sulla vicenda di Davide
Lazzaretti, il profeta del Monte Amiata e con le riflessioni di Gramsci sulla convergenza tra interessi altri e bassi
riscontrabile nella letteratura utopica del Cinquecento (dove vien fatto l’esempio dell’Utopia di Anton Francesco Doni).
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contadini e Lutero sull’interpretazione di cosa fosse “la libertà del cristiano” e le conseguenze
“pessimistiche” che, dall’esito di quella contesa, trasse Brunfels).
Per la costruzione del Formaggio e i vermi, questo percorso ha sicuramente giocato a vari livelli. La
confidenza con gli studi sul panorama ereticale italiano ed europeo forniva una chiave comparativa
importante, attraverso la quale cogliere lo scarto delle posizioni di Menocchio rispetto a questo
complesso aspetto della «vita religiosa europea» (i movimenti ereticali), in cui lo stesso Cantimori
sottolineava la compresenza di livelli di cultura eterogenei.11
Una delle principali fonti per lo studio della storia ereticale era, naturalmente, la documentazione
inquisitoriale: da qui parte la seconda linea all’interno della quale si iscrive il Formaggio e i vermi.
Dai cosiddetti «archivi della repressione» emergevano infatti le tracce della doppia battaglia
combattuta dalla chiesa: verso l’alto e verso il basso. Se dunque Cantimori, per «studiare la storia
ereticale del Cinquecento e, attraverso quella, far luce sulla cultura religiosa in senso più ampio,
italiana ed europea»,12 indicava la necessità di servirsi dei processi inquisitoriali «integra[ndoli] con
ravvicinamenti e comparazione di ogni genere» (p. 426), Ginzburg, consapevole dell’esistenza di
convergenze di aspettative, interessi e contenuti culturali tra più livelli di cultura, era però
interessato a studiare cosa precisamente veniva combattuto verso il basso, le ragioni e i contenuti
culturali di questo “basso” (quindi la scelta di occuparsi dei processi per stregoneria).
Da questo punto di vista, il cosmo ginzburghiano è costellato da una successione di incontri: con
Chiara Signorini; con benandanti come Menichino di Latisana e Maria Panzona; con il lupo
mannaro Thiess; con le due vecchie della val di Fassa che avevano visto la dea Richella. E va notato
che Ginzburg è tornato a lavorare in modo progressivo sui materiali documentari relativi alle loro
vicende e alle loro esperienze, visioni, idee.
Voglio fare un solo esempio di come l’interrogazione su un materiale specifico (in questo caso
quello emerso dallo studio dei processi dei Benandanti, da molti ritenuta la più importante scoperta

11 Cf. D. Catimori, Prospettive di storia ereticale, p. 424: «Mi sembra giusto considerare d’altra parte il movimento
ereticale europeo e italiano del Cinquecento anche come uno specchio della vita religiosa del Cinquecento, e
particolarmente della vita religiosa italiana: uno specchio particolare, che coglie e rifrange in maniera, certo
luminosissima, solo alcuni aspetti di quella vita, così complessa e ricca e varia, e non soltanto per le lotte e guerre più
famose». Cantimori indicava poi i materiali dispersi (principalmente epistolari e atti di processi dell’Inquisizione) per
studiare la storia ereticale del Cinquecento e sottolineava l’eterogeneità sociale di questo variegato ambiente: «ne
risultano due gruppi apparentemente eterogenei ma che si muovono parallelamente: artigiani vaganti (armaioli, cuoiai,
pellicciai, pittori, tessitori, e così via) ed ex preti, ex frati, gentiluomini letterati, che però in certi punti e in certi
momenti s’incontrano, come quando vediamo morire Lelio Sozzini in casa di un tessitore anabattista di Zurigo,
Bernardino Ochino presso un anabattista veneto in Moravia, o si scontrano, come quando l’umanista Giovanni Michele
Bruto si scandalizza di trovare a Cracovia, fra ciabattini, muratori e spazzacamini, anabattisti e antitrinitari di origine
dotta, che ora, come Giovanni Battista Bovio di Bologna, predicano prossimo il millennio». In questa luce andranno
lette le pagine del § 60 del Formaggio e i vermi, intitolato Due mugnai, dove, per comprendere e contestualizzare il
caso di Menocchio, viene studiato il caso di Pellegrino Baroni, detto Pighino, e si ipotizza un contatto tra lui e un
rappresentante dell’alta cultura, l’eretico Camillo Renato (Paolo Ricci).

12 Cf. D. Catimori, Prospettive di storia ereticale, p. 426, dove viene sottolineato «che proprio il carattere estremistico
[…] costituisce per lo studioso uno specchio che ingrandisce e riflette in maniera più evidente i fenomeni della vita
religiosa europea, permettendo così di usare (con metodo analogo alla Wissenssoziologie) i materiali e i risultati della
ricerca microscopica per l’indagine e la considerazione macroscopica, senza derogare ai canoni della concretezza, della
specificazione e della cautela che sono propri di ogni studioso di storia, e senza incorrere in generalizzazioni arrischiate
o fantastiche».
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documentaria di Ginzburg)13 sia un filo che, attraverso più opere, ha sollecitato questioni teoriche e
di metodo.14
Notando l’analogia tra la cosmogonia di Menocchio e quella dei miti dell’Asia centrale, Ginzburg
scriveva: «È una coincidenza stupefacente — diciamo pure inquietante, per chi non abbia pronte
spiegazioni inaccettabili, come l'inconscio collettivo, o troppo facili, come il caso» (p. 72). L’ipotesi
che esistesse invece una connessione, mediata da un sostrato di cultura popolare, appariva a
Ginzburg «meno incredibile se si pensa alla diffusione, negli stessi anni e proprio in Friuli, di un
culto a sfondo sciamanico come quello dei benandanti. È su questo terreno ancora quasi inesplorato
di rapporti e migrazioni culturali che s'innesta la cosmogonia di Menocchio» (p. 73). Qui si coglie
chiaramente, oltre alla relazione tra l’analisi proposta nei Benandanti e quella del processo di
Menocchio, anche un abbozzo del problema che Storia notturna avrebbe poi affrontato: sappiamo
infatti che la costruzione delle Congetture euroasiatiche di Storia notturna nasceva dal risoluto
rifiuto di ricorrere alla categoria di archetipo transculturale o inconscio collettivo per spiegare
diffusione e persistenza cronologica di contenuti mitico-rituali.15
Attraverso la vicenda di Menocchio si imponeva quindi la necessità di studiare un ambito della
storia culturale (friulana, italiana, europea, euroasiatica) in una prospettiva più larga,
nell’impossibilità di far riferimento a delle geografie dei contenuti culturali che fossero coincidenti
con i confini della geografia politica del contesto storico in questione.16 Questo non rendeva
superfluo, naturalmente, lo studio dettagliato del contesto fiulano: pensiamo al paragrafo 7, in cui
vengono ripercorse le tensioni tra nobiltà locale, Repubblica di Venezia, rivendicazioni contadine,
ricorrendo a strumenti analitici di vario tipo: demografici, economici, politici. Però, lo studio della
cultura popolare imponeva un profondo ripensamento del problema del contesto al quale
determinati contenuti dovessero essere riferiti. Da qui, l’esigenza di combinare telescopio e
microscopio che avrebbe portato Ginzburg a lavorare in direzione di Storia notturna.17
Si trattava, insomma, di dare una strigliata ai due lumina della storia: geografia e cronologia
andavano ripensate e accordate all’oggetto storiografico18.
Possiamo dire che Il formaggio e i vermi è il libro grazie al quale Ginzburg è diventato friulano e
Menocchio è diventato “globale”. È una battuta, ma possiamo servircene per concludere stringendo
il fuoco su questa tensione tra friulano e globale, regionale e transregionale.

13Cf. E. Hobsbawm, Walking Witches, in « The Times Literary Supplement », 6 October 1966, p. 923: «[t]he story [of
the benandanti] is local, but its relevance to the general study of the “witch-cult” is obvious».

14 Recentemente, in un saggio dedicato al problema della comparazione, Ginzburg ha elaborato, in analogia con il
metodo filologico, un modello per lo studio della storia culturale in cui si intersecano una dimensione verticale e una
orizzontale (storia della tradizione e critica del testo), cf. C. Ginzburg, Conjunctive Anomalies: A Reflection on
Werewolves, in «Revista de Estudios Sociales», 60 (2017), pp. 110-118.

15Cf. C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989, pp. 221-223: «un archetipo: un
simbolo elementare che farebbe parte del patrimonio psicologico inconscio dell’umanità […] Un archetipo, insomma, è
un archetipo: ciò che viene identificato per via quasi intuitiva non può essere sottoposto a un’analisi più approfondita».

16 Cf. C. Ginzburg, Prefazione a P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, p. V: «La distribuzione geografica di
questo tipo di fenomeni è spesso vastissima, e comunque mai coincidente con i confini politici o amministrativi odierni
(e talvolta nemmeno con le regioni storiche del passato)».

17Cf. Ginzburg, Prefazione a Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, 1986, pp. IX-XVI, in particolare pp. XI-
XII, sull’esigenza di combinare microscopio e telescopio e sul collocamento dello studio dedicato a Menocchio
nell’ambito delle ricerche precedenti e successive.

18Cf. Prefazione a P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, p. V: «Iniziata come uno studio su scala regionale,
la ricerca di Burke si è trasformata in un libro sulla cultura popolare in Europa tra tardo Medioevo e rivoluzione
industriale».
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Ginzburg è diventato friulano: nel 1998, infatti, ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Montereale
Valcellina, il paese di Menocchio. In che senso Menocchio è un “antenato” o un “concittadino”
dello storico che ha tentato di “restaurare filologicamente”19 le sue idee? C’è qui, mi pare,
un’ambivalenza fortissima e feconda, su cui vorrei sollecitare Ginzburg a intervenire oggi.20
D’altro canto, come abbiamo accennato, nella traiettoria dei lavori di Ginzburg il Friuli è divenuto
una “porta” verso un orizzonte più ampio. È un’immagine molto bella, vertiginosa, che ha usato
Ginzburg stesso, pensando agli esiti della sua ricerca macroscopica, Storia notturna.21
C’è però anche un altro aspetto: Il formaggio e i vermi è il libro grazie al quale l’opera di Ginzburg
ha avuto una risonanza in dibattiti dislocati ai 4 canti del globo.22 Non si può fare, in questo caso, un
discorso generalista, di certo questa fortuna è l’effetto di un insieme complesso di cause.
L’esempio del Giappone mi attrae con il fascino del proibito: mi è impossibile seguire questa pista
per motivi anzitutto linguistici. Penso però che una domanda sulla fortuna dell’opera di Ginzburg in
Giappone sia legittima. Il formaggio e i vermi è la prima opera di Ginzburg che viene tradotta in
giapponese, da Mitsubonu Sugiyama, sociologo dell’Università di Tokyo, nel 1984.23 Già nel 1981,
però, Masao Yamaguchi, in un libro intitolato Invito al viaggio della conoscenza scriveva che nel
Formaggio e i vermi: «Ginzburg [ha] trovato il punto dove s’incrociano “lo strato superficiale -
hyōsō (il sistema dominante) e lo strato profondo - shinsō (la forza d’immaginazione popolare)». Si
trattava in questo caso di una ricezione in chiave strutturalista di Ginzburg, in cui era molto
apprezzata la cifra del conflitto tra cultura popolare e cultura dominante (intesa come strato
superficiale, il solo a cui, secondo Yamaguchi, si rivolgeva la storiografia positivista e razionalista,
anche marxista)24 . Sempre prima della traduzione del 1984 compariva, nel 1983, un Racconto di
Menocchio (Menocchio no hanasci), dello scrittore giapponese Hotta Yoshie, che contrapponeva la

19Cf. le note, anche autoriflessive, a proposito delle ricerche di Arsenio Frugoni su Arnaldo da Brescia e di Natalie
Zemon Davis sul caso di Martin Guerre in Prove e possibilità, postfazione a Natalie Zemon Davis, Il ritorno di Martin
Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1984 (Microstorie, 9), pp. 129-154.

20 Cf. C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, p. XXVIII: «Solo il senno di poi consente di isolare quei temi, già allora
convergenti con le tendenze di una parte dell'alta cultura del Cinquecento, che sono diventati patrimonio della cultura
«progressiva» dei secoli seguenti: l'aspirazione a un rinnovamento radicale della società, la corrosione dall'interno della
religione, la tolleranza. Grazie a tutto ciò Menocchio s'inserisce in una sottile, contorta, ma ben netta linea di sviluppo
che arriva fino a noi: è, possiamo dire, un nostro antenato. Ma Menocchio è anche il frammento sperduto, giuntoci
casualmente, di un mondo oscuro, opaco, che solo con un gesto arbitrario possiamo ricondurre alla nostra storia. Quella
cultura è stata distrutta. Rispettare in essa il residuo d'indecifrabilità che resiste a ogni analisi non significa cedere al
fascino idiota dell'esotico e dell'incomprensibile. Significa semplicemente prendere atto di una mutilazione storica di cui
in un certo senso noi stessi siamo vittime».

21Cf. C. Ginzburg, «Ma tu di dove sei?», in Uno storico, un mugnaio, un libro. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi,
1976-2002, a c. di A. Colonnello — A. Del Col, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2003 (ed. or. 2002), p. 155.

22 Il formaggio e i vermi è l’opera più tradotta di Ginzburg. A ora, sono compare traduzioni nelle seguenti lingue:
tedesco, inglese, francese, spagnolo, olandese, svedese, giapponese, portoghese, croato, polacco, ungherese, greco,
turco, rumeno, albanese, estone, ceco, russo, coreano, ebraico, catalano, danese, finlandese e sloveno.

23La traduzione fu condotta dal francese al giapponese. Subito dopo iniziano a essere tradotte altre opere: I benandanti
e vari saggi, cf. Mitsuko Fukagawa, L’accoglienza in Giappone dell’opera di Carlo Ginzburg, in «Il Giappone», 35
(1995), pp. 157–177.

24Cf. Najamura Yujiro — Yamaguchi Masao, Chi no tabi e no sasoi, Tokyo, Iwanami Shoten, 1981, pp. 185-186 e p.
191 (cit. in Mitsuko, Fukagawa, L’accoglienza in Giappone dell’opera di Carlo Ginzburg, pp. 158-159). Yamaguchi
aveva letto Gramsci, De Martino, Bloch e Febvre, e spigava così la convergenza tra la propria prospettiva e quella di
Ginzburg.
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vitalità del paganesimo della cultura contadina, fedele alla natura, alla rigidità dei riti e dei dogmi
imposti dalla Chiesa.25
Un altro esempio è la fortuna di alcuni lavori di Ginzburg in Centro e Sud America, dove una rivista
come Contrahistorias. Pensamiento Crítico y Contracultura ha contribuito molto alla discussione
sulla sua opera. Attorno a questa rivista, fondata nel 2003, si è creata una sinergia di interessi tra
storici messicani, guatemaltechi, argentini, cileni, colombiani, che hanno dato origine a un progetto
culturale molto interessante di analisi delle metodologie storiografiche in relazione alla storia centro
e sud americana.26
Sicuramente una chiave per comprendere questi aspetti della variegata fortuna mondiale del
Formaggio e i vermi è l’elemento su cui Ginzburg stesso ha insistito, cioè la generalizzabilità di un
aspetto del caso di Menocchio: quello del trovarsi stretto tra due culture.27
Formulerei dunque, in conclusione, due domande:
1. La fortuna globale di Menocchio, ci dice qualcosa di imprevisto su Menocchio? È in questo
senso che si può cogliere l’analogia tra il lavoro storiografico e il modello dell’esperimento “a
doppio cieco” a cui si fa cenno nella nuova Postfazione28 e che è il tema di un saggio con cui,
nella recente ripubblicazione di Occhiacci di legno, Ginzburg ha aggiunto una decima
“riflessione sulla distanza” alle nove che erano contenute in quella raccolta, alla fine degli anni
Novanta?29
2. Nella nuova Postfazione, la discussione sulla cultura popolare, dunque il “timone
metodologico” che imponeva di pensare la cultura al plurale, viene riproposto come necessità di
non perdere di vista la dicotomia élite/non élite. Perché questo elemento è irrinunciabile in una
prospettiva globale? È attraverso questa lente che possiamo cogliere le potenzialità della
microstoria in relazione agli effetti di quel lungo processo di “globalizzazione” e al configurarsi
di uno scenario policentrico, che impone un ripensamento al plurale di termini come “cultura” e
“religione”?

25 Hotta Yoshie, Menocchio no hanasci, in «Subaru», giugno 1983, pp. 8-29.

26 Anche la più ampia monografia a oggi disponibile sulla microstoria italiana è stata scritta da uno studioso brasiliano,
cf. H. Espada R. Lima Filho, A micro-história italiana: escalas, indícios e singularidades, Rio de Janeiro, Civilização
Brasileira, 2006.

27 C. Ginzburg, «Ma tu di dove sei?».

28 C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, p. 214.

29Cf. C. Ginzburg, Schemi, preconcetti, esperimenti a doppio cieco. Riflessioni di uno storico, in «Mefisto», 1/1 (2017),
pp. 57-78, ora in Id., Occhiacci di legno. Dieci riflessioni sulla distanza, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 253-277.
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2. Il cosmo di uno storico del XXI secolo

1. Voglio tornare al titolo proposto per questo incontro. Qui abbiamo due elementi su cui è
interessante ragionare: un riferimento temporale all’oggi (“storico del XXI secolo”) che rimanda
all’impossibilità di definire astrattamente e in termini disincarnati e sovratemporali il mestiere dello
storico, alla consapevolezza che il mestiere dello storico abbia una sua storia, cambi nel tempo, e si
inscriva in una rete di condizionamenti. Questo può sembrare scontato. Ma ciò che G. ha messo a
fuoco, insistendo sulla necessità di incorporare nella ricerca storica la storia della storiografia, non è
affatto scontato.
Vorrei dunque fare una domanda sul rapporto tra attore e osservatore o, meglio, sulla triangolazione
tra lo storico, l’oggetto storiografico e la strumentazione analitica che filtra il rapporto tra lo storico
e i suoi oggetti di ricerca. Come si configura questa relazione?

2. Il secondo dei due elementi del titolo che voglio sottolineare è l’elemento della singolarità (“uno
storico”). Anche qui possiamo cogliere la cifra di una resistenza ad astrarre arbitrariamente che, mi
pare, emerga dalla proposta storiografica di Ginzburg nel suo complesso e, in particolare, dalle
riflessioni di carattere metodologico che, nel corso del tempo, Ginzburg ha proposto sul suo lavoro
di storico. Una resistenza, dicevo, ad astrarre arbitrariamente. Da che cosa? Dalla ricerca empirica
che mette ogni storico davanti a specifici, concreti problemi di ricerca, di decifrazione di
determinate fonti, con loro caratteristiche di volta in volta specifiche, da cui però possono esser
tratte considerazioni generali. Dunque singolarità, sì, ma in una tensione con un orizzonte più
ampio, con la possibilità di ragionare in modo generale sulla pratica storiografica. Per capire questo
punto si può citare un intervento precocissimo di Ginzburg (un saggio del 1965, dedicato a una
raccolta di saggi storici di Bloch), in cui Ginzburg reagiva alla tendenza, alimentata dalla
pubblicazione postuma del Métier d’historien, a ipostatizzare un Bloch “metodologo” e un
“sistema” storiografico blochiano scollati dal Bloch analitico, dalle specifiche ricerche concrete di
Bloch e dall’approccio artigianale che ne caratterizza l’opera.30
Vorrei chiedergli se è in questa tensione tra i due livelli, empirico e metodologico, del singolo
storico e della riflessione epistemologica sullo statuto del sapere storiografico, nella loro
interdipendenza, che possiamo individuare il nòcciolo del suo dialogo con Bloch.

3. Un altro spunto di riflessione: questo titolo (“cosmo di uno storico”) è stato impiegato, in
riferimento al lavoro di Ginzburg e giocando con il sottotitolo del Formaggio e i vermi, in due sensi
direi opposti. In un saggio del 2004, intitolato Carlo Ginzburg: Reflections on the intellectual
cosmos of a 20th-century historian, A. Molho ha usato questa immagine, parlando di cosmo
intellettuale. Si tratta di uno stupendo saggio, che rappresenta uno dei più profondi tentativi di
lettura d’insieme dell’opera di Ginzburg.31 Per indicare una rotta attraverso la quale orientarsi in
questa opera vastissima e poliedrica, Molho ha proposto di seguire la traccia di tre elementi (che
forse sono tre facce di uno stesso problema, di uno stesso lavoro sulle tensioni interne del sapere
storico): lo spiccato e costante interesse epistemologico di Ginzburg; quella che Molho definisce la
moral fiber, la fibra, la tessitura morale della ricerca di Ginzburg; lo scarto rispetto a una
polarizzazione rigida tra razionalismo/irrazionalismo.
È sul terzo punto che vorrei concentrarmi. In questa dialettica tra razionalismo e irrazionalismo si
coglie l’eco di vari interlocutori e dibattiti: de Martino, che «invitava a superare nella ricerca
concreta l’antitesi ideologica tra razionalismo e irrazionalismo»;32 Freud; Carlo Levi, il

30Cf. C. Ginzburg, A proposito della raccolta dei saggi storici di Marc Bloch, in «Studi medievali», 3/VI (1965), pp.
335-353, p. 339.

31 Cf. T. Molho, Carlo Ginzburg: Reflections on the intellectual cosmos of a 20th-century historian.

32 Cf. C. Ginzburg, Miti emblemi spie, p. x. Cfr. ivi, p. 158.


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raffinatissimo intellettuale che il confino aveva portato dove nemmeno “Cristo” era arrivato; la
critica letteraria di matrice marxista (Lukács); e anche un elemento legato al contesto storico della
guerra fredda e a una certa rigidità (razionalista) del PCI rispetto a una serie di elementi facilmente
ascrivibili alla sfera dell’irrazionale e come tali squalificati dall’ambito dell’indagine razionale.33
Attraverso questi tre elementi, Molho prendeva in esame, lungo il progressivo dispiegarsi delle
ricerche di Ginzburg, gli snodi in cui lo storico interrogava, con i propri strumenti, due questioni
generalissime — quelle della verità e della realtà, e del loro reciproco riferimento epistemologico
— ridefinendo i propri strumenti in un dialogo con condizionamenti molteplici: sia legati agli
oggetti della ricerca, sia a partire dai contesti, come specifici dibattiti accademici o questioni poste,
in modo più o meno diretto, dalla contemporaneità.
La stessa idea di “cosmo di uno storico” è stata usata invece in senso opposto, muovendo a
Ginzburg la critica di aver proiettato sui propri oggetti di ricerca filtri di lettura legati al clima
culturale e politico degli anni Settanta (nel caso di Menocchio). Nel cosmo del mugnaio friulano,
cioè, Ginzburg avrebbe proiettato il proprio cosmo, una propria idea di cultura popolare orale e, a
partire da un primato a quella accordato, avrebbe decifrato in modo arbitrario documenti
interpretabili in altro senso, o scartato documenti più pertinenti per lo studio di quei contesti.34
Qui c’è forse un problema, insieme ideologico e terminologico, legato all’idea, ambivalente e
storicamente connotata in chiavi molto differenti, di populismo?35

4. C’è un’ulteriore questione su cui vorrei sollecitare Carlo Ginzburg, anche con un occhio all’oggi,
sapendo ad esempio che Ginzburg ha in programma tra pochi giorni a Roma una conferenza sul
tema delle fake news (sperando non sia una forzatura, né il frutto di una mia visione del tutto
superficiale).
Si tratta di una riflessione su tre termini: diffusione, trasmissione, viralità. L’uso della parola
“diffusione” in merito ai contenuti culturali è stata discussa a fondo da Ginzburg in diverse
occasioni. Ad esempio in Storia notturna, dove al modello di interpretazione diffusionista nella
trasmissione culturale è stato contrapposto un metodo più complesso, multi-causale e dinamico.
Ginzburg ha inoltre interrogato lo statuto del sapere storico anche nel suo condividere l’etimo della
parola historia con il sapere medico. Le tre parole che ho indicato (diffusione, trasmissione, viralità,
come anche la parola “sintomo”), sono parole che intersecano il campo medico, ad esempio quello
molto complesso dell’epidemiologia. E, nel campo della “comunicazione” è uso comune dire che
una notizia diventa “virale”, si “diffonde come un virus”, in modo esponenziale, attraverso le
connessioni rese possibili dai nuovi media. In che modo il sapere storico può fornire un punto di
osservazione su questo tema?

33T. Molho rintracciava questa dialettica in particolare a partire dalla Prefazione alla raccolta di saggi Miti, emblemi,
spie.

34 Cf. D. La Capra, The Cheese and the Worms: The Cosmos of a Twentieth-Century Historian, in Id., History and
Criticism, Cornell University Press, lthaca, New York 1985, pp. 45-70. La Capra criticava a Ginzburg di aver
retroproiettato categorie derivate dal proprio cosmo intellettuale sull’oggetto delle sue ricerche, compiendo
un’operazione anacronistica. Critiche simili, su altre basi, sono state mosse da P. Zambelli, «Uno, due, tre, mille
Menocchio?». Della generazione spontanea (o della cosmogonia ‘autonoma’ di un mugnaio cinquecentesco), in
«Archivio Storico Italiano», 137 (1979), pp. 51-90.

35 Cf. C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, p. 217.


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