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Yasunari Kawabata - Arcobaleni
Yasunari Kawabata - Arcobaleni
ARCOBALENI
ARCOBALENI D'INVERNO.
1.
Asako vide un arcobaleno formarsi sulla sponda opposta
del lago Biwa.
Il treno aveva superato Hikone e stava avvicinandosi
a Maibara. Come sovente accade a fine d'anno, era semivuoto.
Quando si era formato l'arcobaleno? Intenta a con-
templare la superficie del lago dal finestrino, Asako aveva
l'impressione che fosse apparso all'improvviso.
Anche l'uomo seduto di fronte si accorse dell'arcobaleno.
"Chiiko, Chiiko, guarda l'arcobaleno! L'arcobaleno!"
esclamò sollevando verso il finestrino la bambina che
aveva in braccio.
Da Kyoto, Asako era seduta in uno scompartimento a
quattro posti davanti a quell'uomo. L'uomo viaggiava
con una neonata. Erano dunque in tre.
Asako era seduta vicino al finestrino. L'uomo accanto
al corridoio. Usciti dal tunnel di Higashiyama, egli aveva
adagiato la bambina sul sedile, in modo che appoggiasse
la testa sulle sue ginocchia come su un cuscino.
"Troppo alto", mormorò piegando il cappotto.
Asako si domandò se sarebbe riuscito a trasformarlo in
un materassino, ma l'uomo lo piegò con abilità e lo pose
sotto la bambina in modo che la testa riposasse più como-
damente sulle sue ginocchia. La lattante era avvolta in
una morbida copertina di lana a motivi floreali. Agitava
le braccia e guardava il padre.
Prima ancora di salire sul treno Asako aveva constatato
che l'uomo viaggiava solo con la bambina. Gli si era seduta
di fronte immaginando che avrebbe finito con l'aiutarlo.
L'uomo, continuando a tenere in braccio la bambina e
a mostrarle l'arcobaleno, si volse verso Asako:
"D'inverno gli arcobaleni sono rari".
"Ah sì?"
Le aveva rivolto la parola all'improvviso e Asako provava imbarazzo.
"No, non è vero. Non sono così rari", si corresse l'uomo.
"Siamo già a Maibara. Una volta, sulla linea per lo
Hokuriku, dopo Maibara - compivo il percorso contra-
rio: da Kanazawa a Maibara e quindi a Kyoto - vidi dal
finestrino numerosi arcobaleni. Sulla linea dello Hokuri-
ku non sono rari. E tutti piccoli e graziosi. All'uscita di
un tunnel apparve un piccolo arcobaleno su una collina,
poi si scorse il mare e un altro arcobaleno dalla collina al-
la spiaggia. Fu tre o quattro anni fa, non ricordo in che
mese ma era inverno, faceva freddo e a Kanazawa cadeva
una neve polverosa. "
Asako si domandò se anche allora l'uomo avesse viag-
giato con la bambina in braccio. Ma tre o quattro anni
prima lei non era ancora nata. Provò l'impulso di ridere.
"Quando si vede un arcobaleno si ha l'impressione di
essere tra la primavera e l'estate."
"Sì, tutti quei colori non sono invernali."
"Va a Kanazawa?"
"Oggi?"
"Si."
"No, torno a Tokyo."
La bambina premette le manine sui vetri del finestrino.
"Riuscirà a distinguere l'arcobaleno? Non sarà inutile
mostrarglielo?" domandò Asako. Era un dubbio che
l'assillava da qualche minuto.
"Mah, chissà", rifletté l'uomo, "è difficile che lo
distingua, anzi, impossibile. "
"Ma lo vede, no?"
"Si, lo vede. Ma ai neonati non interessa ciò che è lontano,
né se ne preoccupano. Non ne hanno bisogno. E poi non
sono ancora dotati del senso della distanza, né
temporale né spaziale. "
"Quanto tempo ha?"
"Nove mesi esatti", rispose con orgoglio l'uomo, e voltò
di nuovo la bambina verso di sé. "A Chiiko è inutile
mostrare l'arcobaleno. La signorina mi ha sgridato."
"Sgridato? No, non intendevo... Penso invece che la
bambina sia felice di viaggiare fin da piccola con un padre
che le mostra l'arcobaleno. "
"Ma non lo ricorderà."
"Glielo ricorderà lei."
"Sì. Glielo ricorderò io. Quando sarà più grande, la
bambina dovrà viaggiare spesso su questo percorso."
La bambina guardava Asako e sorrideva.
"Ma chissà se le capiterà ancora di vedere un arcobaleno
sul lago Biwa!" Quindi l'uomo soggiunse: "Lei prima
ha pronunciato la parola 'felice'. L'anno sta per finire e
per noi adulti l'arcobaleno è un auspicio di felicità. Forse
ci attende un anno fortunato".
Asako era della medesima opinione.
Da quando aveva veduto l'arcobaleno si sentiva l'animo
attratto verso la sponda opposta del lago. Sarebbe
stato meraviglioso visitare da riva il paese degli arcobaleni.
O, più realisticamente, viaggiare lungo la riva che ne
ospitava uno in quel momento. Asako compiva sovente
in treno quel percorso ma non aveva mai fantasticato sulla
sponda opposta del lago Biwa. Di tutti i viaggiatori che
percorrevano la linea Tokaido, soltanto un numero esi-
guo visitava la sponda opposta.
Ad Asako sembrava persino che il treno procedesse in
direzione della sponda su cui si delineava l'arcobaleno.
"Su queste rive si susseguono campi di colza e di astra-
gali. Un arcobaleno a primavera sui campi fioriti darà
una sensazione di felicità", disse l'uomo.
"Dev'essere veramente una cosa meravigliosa", convenne Asako.
"Invece in inverno l'arcobaleno è un po' sinistro. Come
un fiore tropicale spuntato in un paese freddo, o gli
amori di un re spodestato. Forse perché questo arcobale-
no e tronco e non delinea un arco completo..."
Come aveva notato l'uomo, l'arcobaleno appariva in-
terrotto. Se ne scorgeva un'estremità, mentre il culmine
era celato dalle nuvole.
Nel cielo, nuvole foriere di neve stagnavano a ombreg-
giare il lago. Gravavano anche sulla riva opposta e si
spezzavano in basso lasciando riquadri di luce, da cui fil-
travano, posandosi sull'acqua, deboli raggi di sole.
L'arcobaleno si delineava soltanto in quei riquadri di luce.
Si ergeva quasi perpendicolarmente Era soltanto
un'estremità. Se avesse tracciato un arco intero sarebbe
parso enorme. L'estremità opposta doveva essere molto
lontana. Naturalmente era invisibile. Troncato così, pa-
reva sospeso in cielo, senza limiti. Fissandolo attenta-
mente si aveva l'impressione che emergesse dall'acqua,
ora vicino alla sponda più prossima, ora presso quella più
lontana. Non si capiva se la sua sommità fosse celata dal-
le nuvole o se le sovrastasse. Ma l'essere troncato gli con-
feriva una maggior vividezza.
Ad Asako sembrava che l'arcobaleno si protendesse
verso il cielo chiamando malinconicamente le nuvole. Più
lo fissava e più quell'impressione s'intensificava.
Le nuvole che si distendevano cupe nel cielo, sulla riva
opposta, più in basso, gravavano oscure e immobili,
pronte a turbinare.
L'arcobaleno scomparve prima che giungessero a Maibara.
L'uomo tolse una valigia dalla rete.
Pareva contenere soltanto indumenti della bambina.
Pile di pannolini ordinatamente piegati e una vestina rosa.
Sembrava che l'uomo avesse intenzione di cambiare il
pannolino alla bambina.
"Vuole che... " Asako si chinò verso di lui. Stava ag-
giungendo "l'aiuti?", ma quell'espressione le parve strana
e non riuscì a pronunziarla.
"No, non sono cose da signorine..." rifiutò l'uomo senza neppure voltarsi.
Sistemò un giornale sul radiatore e vi depose il pannolino pulito.
"Oh!" esclamò con ammirazione Asako.
"Come vede sono abituato", disse l'uomo ridendo.
"L'ha mai fatto, lei?"
"No, ma me lo hanno insegnato a scuola."
"A scuola?... già, è possibile."
"Ne sarei capace. Dopo tutto sono una donna. Mi è
bastato osservare per capire come si fa."
"Immagino. E tra non molto sarà costretta a farlo fino
alla nausea!"
L'uomo sfiorò il pannolino adagiato sul radiatore.
Asako notò la targhetta incollata sulla valigia. V'era
scritto un cognome: Otani.
I gesti del signor Otani erano molto esperti. Deterse
delicatamente tre o quattro volte l'interno delle gambe
della bambina. La pelle era lievemente arrossata. Asako
distolse lo sguardo. Otani appallottolò il pannolino usato,
sollevò le natiche della neonata e sotto vi sistemò
quello nuovo. Allacciò quindi il bottone della mutandina.
"Che bravo!" commentò un viaggiatore dallo scompartimento accanto.
Aveva attratto la curiosità di tutti i passeggeri in grado
di scorgerlo dai loro posti.
Otani avvolse la bambina nella copertina, infilò i pan-
nolini in un sacchetto di gomma e tolse una sorta di volu-
minoso beauty-case da un angolo della valigia. Conteneva
una scatola di latta con thermos e un poppatoio graduato.
Nella valigia vi erano tre scomparti. Da un lato l'oc-
corrente per nutrire la bambina, in mezzo i pannolini pu-
liti e gli indumenti di ricambio, dall'altro lato alcuni sac-
chetti di gomma.
Ormai Asako provava più pietà che ammirazione.
Tuttavia sorrise osservando la bambina che beveva il latte.
"Mi dispiace di averle mostrato cose vergognose", disse Otani.
Asako si affrettò a scrollare la testa.
"Niente affatto. Sto pensando che lei è molto bravo."
"La mamma della bambina vive a Kyoto."
Erano dunque divisi? Asako non poteva sfiorare un
argomento così personale.
Era un uomo di circa trent'anni, con folte sopracciglia,
un mento che, seppur rasato, lasciava intuire la rudezza
della barba, e un viso in cui un tenue pallore si diffondeva
dalla fronte alle orecchie. Aveva un aspetto pulito e ordinato.
Lunghi peli spiccavano sulle dita che stringevano la bambina.
Dopo che la neonata ebbe finito il latte, Asako le offrì
un candito alla prugna.
"Può mangiarlo la bambina?"
"Sì, grazie."
Otani prese il candito e lo accostò alle labbra della bambina.
"è un 'ciottolo' di Kyoto, vero?"
"Sì. Un nome che ricorda i 'ciottoli' dell'inno nazionale.
(Il testo dell'inno nazionale giapponese, risalente al decimo secolo,
recita: "Che la vostra epoca durare possa mille, ottomila generazioni,
finché i ciottoli divengano rocce coperte di muschio". (N.d.T.)
Asako attendeva che la guancia della bambina si gonfiasse.
Ma non accadde. Aveva forse inghiottito il candito
tutto intero? Asako rabbrividì, ma subito si rassicurò.
"Le auguro buon anno", disse Otani ad Asako al momento
di scendere alla stazione di Tokyo.
Sebbene fosse un saluto normale a fine d'anno, le parve
una frase particolarmente simpatica.
"Grazie", rispose, "felice anno anche a lei e alla bambina. "
Nella mente di Asako era apparsa l'immagine dell'arcobaleno sul lago Biwa.
Naturalmente si separò senza alcuna difficoltà da quell'uomo
che le era estraneo.
Tornata a casa salutò la sorella maggiore e le domandò
subito:
"Papà?"
Momoko, la sorella, rispose:
"è fuori. Naturale che esca, no?"
Asako si sedette mollemente accanto al braciere e slacciandosi
i bottoni del cappotto fissò la sorella.
"Esci anche tu?"
"Sì."
"Davvero?... "
Asako si alzò di scatto e andò in corridoio.
"Papà non c'è. Inutile curiosare in camera sua. Ti dico
che non c'è!"
"Sì, però..." mormorò Asako.
Accese la luce in camera del padre e aprì gli shoji.
(I Pannelli di legno e carta di riso che separano tra loro gli ambienti
della casa giapponese. Sono scorrevoli, ed è dunque possibile, tra-
mite loro, modificare la disposizione dei locali. (N.d.T.)
"Candide camelie che a Iga si rannicchiano... " recitò
fra sé e sé contemplando i fiori del tokonoma.
(Sorta di nicchia nella parete in cui viene esposto un dipinto, un
vaso di fiori o un altro oggetto decorativo. (N.d.T.)
Si avvicinò e notò che vi era appeso il medesimo rotolo dipinto
di quando era partita per Kyoto. Soltanto i fiori erano cambiati.
Osservò per un attimo la scrivania del padre. Poi usci dalla camera.
La tristezza di quella camera vuota le era, tuttavia, di conforto.
Tornata in salotto vide che la cameriera stava già
sparecchiando la tavola.
La sorella aveva cenato da sola.
Momoko alzò lo sguardo su Asako e domandò:
"Hai perquisito la camera?"
"Perquisito?"
"Ti disturba l'idea di non trovare al ritorno da un viaggio
la famiglia al completo, vero?" commentò serenamente
Momoko. "Va' a cambiarti. La vasca è pronta."
"Sì..."
"Come sei incantata! Che hai? Sei stanca?"
"No, il treno era semivuoto. è stato un viaggio piacevole."
"Su, siediti", l'invitò Momoko ridendo e offrendole un tè.
"Non potevi informarci del tuo arrivo con un tele-
gramma? Forse papà sarebbe rimasto in casa ad attenderti!"
Asako si sedette in silenzio.
"è uscito alle quattro. In questo periodo rincasa tardi", aggiunse Momoko.
"Oh, sorella maggiore! Hai raccolto i capelli in alto! Fammi vedere!"
"No! No!" Momoko si nascose la nuca con le mani.
"Su, lasciami vedere."
"No."
"Perché? Da quando ti pettini così? Vòltati da quella
parte e lasciami vedere." Così dicendo Asako avanzò in
ginocchio verso la schiena della sorella. Quindi le pose
una mano sulla spalla.
"No, mi vergogno."
Momoko era arrossita fino al collo. Forse accorgendosi
di mostrare eccessivo pudore, rimase immobile, rassegnata.
"Sono buffa. Mi sta male perché ho il collo troppo corto."
"No, questa pettinatura ti dona. Sei graziosa."
"Macché graziosa!" Momoko irrigidì le spalle.
Il suo ragazzo era solito sollevarle i capelli e baciarla
sulla nuca. Quel giorno li aveva raccolti in alto per rendergli
quell'atto più facile. Egli, d'altronde, l'aveva appreso da lei,
che aveva l'abitudine di baciargli la nuca.
Era questo il motivo dell'inconscio pudore di Momoko.
Ma la sorella minore non poteva sapere.
Raramente Asako aveva veduto la nuca della sorella.
Era davvero stretta ma ciò le conferiva un aspetto più
fresco e il collo sembrava più esile e lungo di quanto
apparisse visto davanti. La fossetta nel mezzo della nuca,
particolarmente accentuata, la caratterizzava come un'ombra tenue.
Asako sfiorò con le dita la nuca della sorella per sistemarle
alcuni capelli scompigliati.
"Oh!" esclamò Momoko rabbrividendo. "Che freddo!
Non toccarmi!"
Quei brividi assomigliavano ai trasalimenti di quando
le labbra del ragazzo si posavano su quel punto.
La sorella minore, meravigliata, ritrasse la mano.
Momoko, temendo di svelare il segreto di quella petti-
natura, indugiava, imbarazzata, a recarsi all'appunta-
mento con il ragazzo.
S'innervosì, e la sorella le parve odiosa.
"Asako, sei tornata da Kyoto perché vuoi parlare con papà, vero?"
le domandò volgendosi verso di lei. "Lo so. Inutile nasconderlo.
La visita all'amica era un pretesto, vero?"
"No, non era un pretesto."
"D'accordo. Non hai mentito. Sei anche andata a trovare l'amica.
Ma lo scopo era un altro." Asako chinò lo sguardo.
"Vuoi che te lo dica? Posso parlarne?" ripeté Momoko
mitigando all'improvviso l'asprezza del tono. "Hai trovato
la sorella che sei andata a cercare a Kyoto?"
Asako fissò Momoko con stupore.
"L'hai trovata?"
Asako scosse lievemente la testa.
"Davvero?" Momoko evitò lo sguardo intenso della sorella e
aggiunse: "è stata una fortuna non trovarla, ne sono convinta".
Parlava con impeto.
"Sorella maggiore!" Asako aveva le lacrime agli occhi.
"Dimmi, Asako."
"Papà non sa che sono andata a Kyoto per quello scopo. "
"Chissà... "
"Ne sono convinta."
"Mah, papà è dotato di molta intuizione, e se ho capito anch'io.."
"Ti ha detto qualcosa?"
"E perché avrebbe dovuto? Quanto sei sciocca!" Così
dicendo Momoko rivolse nuovamente lo sguardo al viso
della sorella. "Non piangere, non hai motivo di dolerti."
"Sì, ma pensavo che fosse meglio non informarlo.
Avrei dovuto parlargliene? Scusa se ho taciuto anche con te."
"Non importa che tu abbia evitato di parlarne con papà.
La questione è se sia un bene o un male andare alla
ricerca di una nostra sorella, non ti pare?"
Asako continuava a fissare Momoko senza rispondere.
"Per amore di chi sei andata a Kyoto? Per papà? Per
noi? Per tua madre? Per quella sorella?"
"Per nessuno in particolare."
"Allora forse perché ti senti moralmente responsabile?"
Asako scosse la testa.
"Va bene. Diciamo che è colpa del tuo sentimentalismo.
Sei andata a cercarla perché provi dell'affetto per
lei. Poco importa se non l'hai trovata, se non sei riuscita
a comunicarle il tuo amore. L'essenziale è che tu nutra
un simile sentimento per lei; questo è positivo per entrambe.
Se un giorno l'incontrerai, questo amore sboccerà. Ne sono persuasa."
"Sorella... "
"Lasciami finire... Ognuno però nuota a modo suo,
nello stagno più adatto ai suoi gusti; non so come reagi-
rebbe la ragazza di Kyoto a ciò che potrebbe sembrarle
un'inopportuna intromissione. 'I fratelli sono già degli
estranei' dice il proverbio. Lasciala vivere come le pare.
Mi raccomando, rifletti."
"Ma papà che ne penserà?"
"La profondità dell'essere umano è proporzionale alle
esperienze vissute e alla lontananza del tempo in cui il
suo animo si immerge. Può darsi che qualcosa in papà ci
sia incomprensibile. "
"Sono espressioni sue!"
"Sì, per sottrarsi alle situazioni scomode", rispose Momoko
ridacchiando. "Conoscere la storia e pensare al futuro
dell'umanità non significa forse raggiungere con l'animo
tempi per noi remoti?"
Asako annuì. Mentre parlava Momoko, ne osservava
l'espressione.
"Prima di morire tua madre era molto preoccupata per
quella nostra sorella di Kyoto. è per questo che sei andata
a cercarla, vero?"
Asako si turbò. La sorella aveva indovinato.
"Ma non si sa se fosse un sentimento autentico", ripre-
se Momoko. "Tua madre era una persona sinceramente
gentile e giusta e lo è certo stata anche verso una figlia
non sua. Ma forse pensava che dopo la sua morte la ragazza
di Kyoto avrebbe potuto essere accolta in casa e
preferiva essere lei ad avere l'iniziativa concedendo il suo
assenso. Può darsi che fosse questa la sua vera intenzione.
Che sciocca che sei stata ad andare a Kyoto solo per
far risaltare la bontà di tua madre!"
Asako singhiozzò nascondendosi il volto fra le mani.
"Con ciò, il discorso è finito... Io esco."
Le spalle di Asako sussultavano.
"Non piangere", le disse Momoko con tono severo.
"Come posso uscire se piangi così?"
"Sorella..."
"Devo andare. Mi spiace per te ma... Intanto fa' un bagno. "
"Sì..." Asako uscì di corsa dal salotto singhiozzando.
Continuò a piangere aggrappata all'orlo della vasca. Udì
sbattere la porta. Momoko era uscita.
Ad Asako spuntarono nuove calde lacrime.
D'un tratto ricordò un passo dal diario di sua madre,
la matrigna di Momoko. Vi era citata una frase del padre
a proposito di Momoko: "Momoko ha rapporti con un ragazzino
dopo l'altro, forse perché avrà avuto un'esperienza
negativa con il primo uomo che ha amato. O forse
perché a scuola ha stretto relazioni omosessuali. Che
manchi di femminilità?"
La madre aveva annotato che né lei, né il padre capivano
quale fosse la verità. Nel diario era riportata anche
un'altra frase del padre, forse scherzosa: "Al giorno d'oggi
sedurre i bei fanciulli è diventato facile".
"Un ragazzino dopo l'altro" era un'esagerazione dei
genitori, ma Asako aveva veduto la sorella in compagnia
di tre diversi giovanissimi amanti.
La paura e la vergogna suscitate in lei dal ricordo di
quel passo del diario materno posero fine alle sue lacrime.
2. TRACCE DI SOGNI.
1.
Ad Atami sono particolarmente numerose le ville di prin-
cipi, nobili e appartenenti a clan finanziari trasformate in
alberghi nel dopoguerra. Anche la Casa delle Camelie era
stata dimora di un principe, divenuto grande ammiraglio.
Giunti in prossimità della Casa delle Camelie, il padre
sporse l'indice dal finestrino dell'auto dicendo:
"Guarda: vedi quelle due ville che sembrano private,
con un'insegna d'albergo lì di fronte? Questa apparteneva
a un principe e quella a un marchese. Un marchese
discendente da principi imperiali. Pare che sia stato ferito
alla gamba durante la guerra; di recente ha subito un
processo ed è stato condannato ai lavori forzati".
Scesero dall'auto davanti al portale della Casa delle
Camelie. Il padre sostò qualche istante guardandosi intorno.
"Un tempo passeggiavo spesso lungo questa strada e
sbirciavo nel giardino del principe da questo portale,
sempre sprangato. Era proibito l'accesso."
Era la strada che conduceva a Kinomiya, a Baien e a Jikkokutoge.
Il sole tramontava sulle colline a destra, e tra le oscure
pinete si levava il fumo bianco delle cucine. Era l'unico
vivido movimento percettibile nella penombra.
"Su questa collina sorge la dimora del finanziere Fujishima.
Da qui non si nota, vero? Fu costruita in modo
da essere completamente nascosta dalla collina e invisibile
da ogni lato", spiegò il padre. "Si arriva alla villa attra-
verso un tunnel in fondo al quale pare vi fosse una spessa
porta di ferro. Si era in tempo di guerra... il proprietario
temeva possibili tumulti."
Anche la strada che percorrevano sembrava attraversa-
re la collina, sulle cui pendici si ergeva la Casa delle Ca-
melie. Veduto dalla strada l'edificio principale pareva di
due piani, invece dal giardino se ne scorgevano tre.
"Vi abbiamo riservato la 'casa di campagna', perché è
più tranquilla", annunciò l'impiegato dell'albergo, gui-
dandoli nel giardino lungo un sentiero lastricato che con-
duceva alla "casa di campagna".
"Che fiori sono?" domandò Asako sostando.
"Ciliegi, credo", rispose l'impiegato.
"Ciliegi? 'Ciliegi del freddo'? ... Mi sembrano diversi."
"Quest'anno i 'ciliegi del freddo' sono fioriti alla fine
di gennaio; ormai tutti i fiori sono caduti."
"Papà, che ciliegi sono?"
Il padre stava riflettendovi dal momento in cui Asako
li aveva notati.
"Non ne ricordo il nome, ma saranno di certo una varietà
di 'ciliegi del freddo'."
"Questi alberi prima mettono le foglie e poi i fiori",
spiegò l'impiegato, "i fiori sbocciano con le corolle già
appassite, volte verso il basso."
"Davvero? Somigliano alle aronie. "
Come aveva notato Asako, quei fiori d'un colore rosa in-
tenso sfumato di rosso, con le tenere corolle che sbocciava-
no raggruppate, ricordavano le aronie, anche nelle foglie.
Il tenue verde delle foglie sparse tra i fiori nella foschia
serale di febbraio ispirava un sentimento di tenerezza.
"Oh, guarda, ci sono delle anatre nel laghetto!" esclamò
Asako incuriosita.
"Nel laghetto artificiale del marchese Iga, nella villa
accanto, nuotavano anatre messicane. Chissà che fine
hanno fatto", ricordò il padre.
Sulla sponda opposta fiorivano i ciliegi. Sospeso in
parte tra le acque come un'isoletta sorgeva un padiglione,
la casa per il tè. L'impiegato raccontò che era stata co-
struita dal finanziere Narita, un ex barone.
"Se in questo momento non ci sono ospiti vorrei visi-
tarla", disse il padre.
Da architetto qual era, Tsuneo Mizuhara aveva assistito
nel dopoguerra, ora con interesse ora con emozione,
alla trasformazione in alberghi e ristoranti di molte case
appartenute a uomini ricchi e nobili.
A Zushi persino la villa del fratello minore dell'impe-
ratore era divenuta un albergo e a Odawara la dimora di
Yamagata, persona importante sia nel mondo della vec-
chia feudalità sia in quello militare, era stata trasformata
in albergo. Esempi simili erano innumerevoli.
Tuttavia quelle abitazioni private mal si adattavano a
mutarsi in alberghi e ristoranti, e Mizuhara era sovente
incaricato di ristrutturarle.
Anche la Casa delle Camelie, che comprendeva l'edifi-
cio principale, la "casa di campagna", e il padiglione per
il tè, poteva ospitare soltanto otto gruppi di persone, pur
disponendo di un vastissimo giardino.
La "casa di campagna" parve ad Asako molto strana
come alloggio destinato agli ospiti di un albergo termale.
"Che tranquillità! Sembra di essere in una casa di con-
tadini. è serena, intima."
"Si, in questa sobrietà ci si sente a proprio agio."
La casa era stata smontata, trasportata in quel luogo e
ricostruita con cura, in modo da non rivelare il raffinato artificio.
"Che sensazione di quiete e di naturalezza!" esclamò
Asako guardandosi intorno. "Oh, non c'è neppure il pannello
traforato tra la porta e il soffitto!"
Le due camere di otto e di sei tatami
(Stuoie di paglia che ricoprono interamente i pavimenti delle
stanze. Hanno dimensioni fisse, centimetri 180 x 90, e sono utilizzate come
misura di superficie. (N.d. T.)
erano divise da una porta di legno in cui era inserito uno shoji di circa
sessanta centimetri. Nella parete a sud e per metà anche
in quella a ovest v'erano altri shoji che giungevano all'al-
tezza dei fianchi, senza vetri. I legni, sia dell'intelaiatura
delle finestre sia del soffitto, erano uniformemente scuri
e fuligginosi. Quella tinta faceva apparire ancora più fioca
la luce della lampada da cento candele. Differivano
soltanto i legni del tokonoma. Anche i tatami erano a trama
più grezza e larga dell'usuale.
Appena ebbe indossato un kimono imbottito Mizuhara uscì
in giardino e andò a visitare il padiglione per il tè.
Asako non ebbe il tempo di cambiarsi.
Nel padiglione v'era una saletta per il tè di quattro tatami e
mezzo, un angolo con l'acquaio che pareva una cucina e un bagno.
"Ci si potrebbe vivere", commentò Mizuhara uscendone
subito per sostare sul ponticello, da cui levò lo sguardo
verso l'edificio principale. Era in stile occidentale.
La casa e il giardino non valevano gli sforzi che un
tempo Mizuhara aveva dedicato ai tentativi di vederli.
In un prato in fondo al giardino era sistemata una cuccia
con uno splendido cane.
"Ah, che magnifico esemplare di Akita!" esclamò
Mizuhara avvicinandosi e accarezzandogli la testa.
Il grosso animale sollevò le zampe anteriori e circondò
i fianchi dell'uomo. Doveva essere un comportamento abituale.
Aveva una pelliccia color guscio d'uovo alquanto rada,
ma i peli delle orecchie e della coda attorcigliata erano
scuri e marroni.
Mizuhara gli afferrò le orecchie, ne abbracciò il robu-
sto collo ed ebbe l'impressione che quella vivida bellezza
gli fluisse nel petto.
La città di Atami con le sue sconsolanti, squallide,
provvisorie costruzioni avrebbe dovuto vergognarsi di
fronte alla bellezza di quel cane.
"Guarda una dafne!" esclamò Asako. "Che profumo di
primavera! è già fiorita." Pareva che annusasse il profumo
della felicità. "La nandina sotto questo prugno rosso
è carica di gemme. Le foglie sono rosse. I prugni rossi
fioriscono tardi?"
"Sì, dopo che la maggior parte dei fiori di prugno bianchi è appassita."
"è un rosa molto intenso, con sfumature di carminio.
Il tipico colore dei fiori di prugno rossi."
Le donne abituate a rimanere a casa diventano gaie e
gioiose nei brevi viaggi che le sottraggono alla prigionia
domestica. Soprattutto sembrano apprezzare i viaggi con
i familiari perché si sentono più sicure. Mizuhara l'aveva
intuito osservando la moglie, e lo constatava notando le
reazioni della figlia.
Asako scoprì un limone pendere dal ramo di un alberello.
"Che grazioso!" sussurrò e lo trattenne delicatamente nel pugno.
Era un unico frutto, piccolo e ancora verde.
"Quanto visitai il giardino del marchese Iga, nella villa
accanto (non ricordo più che mese fosse), le mimose erano
tutte fiorite. Appena entrato vidi avanzare su un prato
dei pavoni bianchi, e due o tre anatre messicane sul
bordo del laghetto artificiale. Avevano freddo, parevano
poco vitali: doveva essere inverno. Ho detto 'laghetto',
ma sembrava una piscina termale all'aperto. Il marchese
vi allevava dei pesci-angelo. I pesci tropicali erano di moda.
Venduti anche nei grandi magazzini. Il marchese ave-
va provato a tenerli nelle acque termali: un esperimento
meravigliosamente riuscito. Erano diventati molto grossi.
Adesso le mimose non sono rare, ma io le vidi per la
prima volta nel giardino del marchese. Aveva questo genere
di gusti. Nella sala termale volavano molti piccoli
uccelli tropicali."
"Oh!"
"Amava la natura dei tropici. Il fondo su cui colavano
le acque termali era ricoperto da sassi del fiume delle
Amazzoni, che aveva importato unicamente a quello scopo."
Il padre s'incamminò verso la villa del marchese.
Asako sembrava perplessa.
"Il fiume delle Amazzoni?"
"Sì, il rio delle Amazzoni, in Brasile. Erano sassi rossi.
Immersi nell'acqua, si aveva quasi il timore di essere lor-
dati dagli escrementi degli uccelli tropicali. Accanto a
una parete crescevano varie piante tropicali, verdissime.
Mi sembra che nella piscina vi fossero anche piante fiori-
te. Una vetrata semitrasparente, che occupava tutto lo
spazio di una parete, si apriva sul giardino. L'ambiente
era molto luminoso, fin troppo imbarazzante per noi ti-
midi, contorti giapponesi. Difficile rimanere a lungo in
quell'acqua. Si aveva l'impressione di trovarsi tra i colori
primitivi dei tropici. Era un'ampia sala dall'alto soffitto,
con persino alcune sedie. Gli ospiti del marchese se ne
stavano nudi, si muovevano, si sdraiavano liberamente
ed entravano in acqua a rilassarsi. Altro che immergersi
intimiditi e pudibondi nella vasca e starsene curvi in acqua
come siamo abituati a fare noi giapponesi."
A destra dell'edificio principale della Casa delle Camelie
spiccava tra gli ultimi chiarori del crepuscolo la candida
villa del marchese.
"Prima era ancora più bianca e vistosa. Continuavano
a infastidirlo ripetendogli che la sua casa sarebbe stata un
ottimo bersaglio per i bombardieri perché si vedeva da
lontano. A ogni modo è una costruzione che dimostra il
carattere arrogante del marchese. Un'architettura da piccolo
tiranno o da grande ribelle. Tornato dall'occidente
fece svellere tutti gli alberi e togliere tutte le rocce per
trasformare il giardino in un prato. Era un giardino alla
giapponese voluto dai suoi antenati, forse con un gusto
non particolarmente raffinato, ma non meritava di essere
trasformato dal marchese in un parco in stile occidentale.
Demolì senza rimpianti anche la villa. Desiderava iniziare
una 'vita tropicale' ad Atami! La temperatura degli
ambienti era mantenuta costantemente sui ventun gradi,
che pare sia la temperatura ideale. A tale scopo faceva
scorrere l'acqua delle terme sotto i pavimenti e fra le pa-
reti, il che finì col provocare crepe. Non erano stati accu-
ratamente studiati i materiali da costruzione. Quando visitai
la villa fui oppresso da un caldo umido soffocante,
da sentirsi male".
"Ventun gradi?"
"Suppongo. Anche in pieno inverno il marchese se ne
stava con indosso solo la camicia a dettare a una dattilo-
grafa nippo-americana. Dettava direttamente in inglese
saggi da pubblicare su bollettini scientifici stranieri."
"Oh! Era uno studioso?"
"Uno zoologo. Si recava nelle zone tropicali a caccia di
animali selvaggi. Aveva visitato anche l'Egitto in aero-
plano. Era un nobile molto diverso dalla maggior parte
dei giapponesi. Più famoso all'estero che in patria. Un
uomo che aveva difficoltà a vivere nel nostro angusto,
umido Paese. Così si isolò in questa casa di tipo tropicale
in contrasto con l'ambiente... " Mizuhara si interruppe.
"Naturalmente è decaduto."
Sollevò quindi lo sguardo a contemplare una sorta di
torretta sul tetto, simile a una guglia rotonda.
"Una volta v'erano dei colibrì. Due. Uno è morto..."
"Quei piccoli uccelli così veloci che quasi non si scorgono volare?"
"Sì."
Si accesero le luci della Casa delle Camelie e illumina-
rono dall'alto il giardino.
Mizuhara ne approfittò per tornare sui suoi passi.
"Mi mostrò anche la camera matrimoniale al piano superiore.
Vidi con meraviglia lo splendido letto, le creme
e i profumi. Ma ciò che più mi stupì furono le scarpe.
Aprì una tenda accanto al letto: allineate su mensole
scorsi quaranta, forse cinquanta paia di scarpe della moglie.
Anche lei una nippo-americana abituata alla vita
d'oltremare. Come la piscina anche la camera da letto era
inimmaginabile per un giapponese. C'era una grande ve-
trata a mezzaluna, un'unica lastra di vetro, veramente lu-
minosa e gaia..." S'interruppe; poi continuò il discorso
descrivendo la cucina e la lavanderia di stile americano.
Passarono di fronte alla casetta per il tè e attraversaro-
no il ponticello sul laghetto artificiale.
"Ah, ricordo! Sì, avevo ragione, erano proprio 'ciliegi
del freddo'", disse il padre sorridendo.
2.
"Vuoi che ti versi l'acqua sulla schiena? Quanto tempo è che non lo
faccio, papà?" domandò Asako mentre si insaponava il petto.
Il padre, immerso nella vasca, appoggiava la testa al bordo.
"Quando eri piccola ti lavavo persino tra le dita dei
piedi, ricordi?"
"Sì. Non ero poi così piccola."
Il padre chiuse gli occhi e disse:
"Sto meditando di costruirti una casa".
"Oh! Una casa per me? E con chi dovrei viverci?" domandò
con leggerezza Asako continuando a lavarsi, ma il padre
ebbe l'impressione che ella avesse distorto il suo pensiero.
Allora, con un tono lievemente scherzoso, le domandò:
"Non c'è ancora nessuno che voglia stare con te?"
"No!" All'improvviso la ragazza fissò il padre.
"Come credi. Se preferisci potrai viverci da sola. Mi
piace pensare a una casa tutta tua. Sono architetto e amerei
lasciare quasi come testamento una casa per ognuna
delle mie figlie."
"Una casa come testamento?" domandò con tono severo Asako. "è orribile!"
Quindi s'immerse nella vasca. "Mi è venuto freddo" disse.
"Non intendevo attribuire a questa parola alcun signi-
ficato particolare. Soltanto che, come ho l'abitudine di
ripetere, fra le tante cose che suscitano nell'uomo una
sensazione di impotenza, l'architettura è più di ogni altra
arte soggetta ai condizionamenti. Luogo, materiale, de-
stinazione, grandezza, costi, le bizzarre richieste del
cliente, e inoltre i carpentieri, gli imbianchini, i mobilie-
ri... Non mi è mai stato possibile costruire una casa se-
condo i miei gusti, come fece il marchese Iga. Una casa
come testamento significa una casa come piacerebbe a
me. Realizzata seguendo completamente un progetto...
Capita raramente", spiegò il padre, quasi volesse cancel-
lare il significato della parola "testamento", sebbene pro-
vasse una tristezza tale da giustificare l'uso di quel termine.
Era estasiato per la bellezza del corpo nudo della figlia.
All'improvviso ricordò il cane di Akita veduto in giardino.
Gli spiaceva associare l'immagine della figlia con
quella del cane, ma i corpi delle due creature erano en-
trambi splendidi. Naturalmente era impossibile parago-
nare la bellezza della figlia a quella di un cane.
Il cane di Akita era legato a una cuccia, ma gli animali
non edificano abitazioni. E anche quando si costruiscono
un nido o una tana rispettano la natura. Non la distrug-
gono né la deturpano come gli uomini. La città di Atami
era un esempio dello squallore a cui l'architettura riduce
l'ambiente naturale. Non v'era più scampo. Dubitava
che l'architettura moderna accrescesse la felicità umana,
poiché il progresso della scienza aveva creato nuove disgrazie
per gli uomini.
Simili perplessità non erano insolite in lui.
Inoltre nell'animo degli architetti di tutto il mondo è
latente il dubbio che l'architettura moderna non possa,
al contrario di quella antica, rimanere nei secoli venturi
quale testimonianza di bellezza.
Stupito dalla nudità della figlia, Mizuhara si chiese se
quella graziosa creatura vivesse in una casa adeguatamente
armoniosa, e si stupì della sua stessa domanda.
Come architetto, aveva l'impressione di essersi indegnamente
dimenticato delle cose belle e amate che aveva vicino.
La loro casa era una sistemazione provvisoria, dopo
che quella in cui aveva abitato era stata distrutta da un incendio.
Inutile dire quanto fosse, in fondo, impossibile costruire
una casa che si adattasse come una veste elegante
al corpo armonioso di una ragazza. Forse l'unica vita
ideale per la bellezza creata dagli Dei era quella trascorsa
nella natura, all'aria aperta, nudi come animali. Poteva
essere il principio cui si ispiravano costantemente le nuove
concezioni architettoniche. Comunque, il pensiero di
progettare una casa confortevole dove la figlia liberamente
si muovesse e riposasse era una manifestazione di emo-
zioni e di sentimenti paterni. Non si domandava con chi
la figlia avrebbe vissuto in quella casa.
Immerso nella stretta vasca con la figlia, Mizuhara si
sentiva a disagio, e cercava di starsene in un angolo.
Meditava sulla sua ormai svanita gioventù. Forse la parola
"testamento" era scaturita spontaneamente da simili pensieri.
Mizuhara uscì per primo dall'acqua, tornò in camera e
vide sul tavolino un rametto di dafne. L'aveva colto la figlia.
Poco prima aveva avuto l'impressione che fosse di
umore più gaio del solito. D'altronde si sentiva egli stesso
stranamente euforico.
Gli ospiti del piano superiore intonarono lentamente lo shinnai
(Racconto cantato. Lo shinnai citato, del 18esimo secolo, narra la
tragica storia d'amore del samurai Itahachi e della cortigiana Onoe.
(N.d. T.)
di Onoe e Itahachi. Li accompagnava il suono gradevole di uno shamisen
(Strumento musicale a forma di mandolino a tre corde che ac-
compagna spesso la danza e i canti delle geishe. (N.d.T.)
e la voce non più giovane di una geisha.
Asako uscì dall'acqua e si volse allo specchio. Il padre
contemplò con curiosità la figlia che si truccava.
"Papà", lo chiamò l'immagine di Asako dallo specchio,
"di che intendevi parlarmi?"
"Parlarti?"
"Intendevi dirmi qualcosa. è per questo che mi hai
condotto fin qui, vero? Sono preoccupata."
Il padre rimase in silenzio.
"Quante case vorresti costruirci come testamento? Due? Tre?"
"Perché?... "
"Se Momoko e io fossimo soìe ne basterebbero due,
ma esiste anche la nostra sorella di Kyoto, vero?"
Il volto del padre si incupì.
Fortunatamente in quell'attimo giunse una cameriera
con il vassoio della cena.
Asako tornò accanto al braciere e rimase a capo chino
a giocherellare con il rametto di dafne mentre la cameriera
disponeva sul tavolo piatti e tazzine.
La dafne aveva una corolla corta e tubolare, rosa screziata
di viola all'esterno e di tinta più sfumata all'interno.
Anche lo sguardo del padre indugiava sul fiore.
3.
Al mattino il tempo era bello e le acque della baia di
Broccato rilucevano.
"Hai sentito stanotte come abbaiava il cane di Akita?"
domandò il padre.
"No." Appena uscita dall'acqua della vasca la figlia si
era seduta di fronte allo specchio.
"Una voce bassa e potente..."
"Davvero?"
Il padre le parlò ancora del marchese Iga.
"Il marchese della villa accanto, discendente da signori
feudali, fu privato di tutti i suoi privilegi ancor prima
della guerra. Dilapidava il patrimonio ereditato e le sue
dissolutezze disonoravano la nobiltà. Ma ora avrà pochi
rimpianti perché alla fine della guerra gli avrebbero
ugualmente sottratto titolo e sostanze: ha fatto bene a godersele. "
Al tempo in cui aveva visitato la villa, Mizuhara si era
sentito più incline ad apprezzare il fascino dei padiglioni
per il tè e l'eleganza dell'antica architettura giapponese.
Tuttavia, trascorsi diversi anni e trovandosi di nuovo in
quei luoghi, nella villa accanto, appartenuta a un principe,
era incline a paragonare al proprio passato la vita del marchese Iga.
Forse perché, ormai, il destino di un architetto era
condizionato dall'esistenza delle bombe atomiche e dalle
distruzioni che esse causavano, sovente affiorava alla sua
mente la frase di Buddha, "abbandonare ora questa, ora
quella dimora".
Uscì con la figlia dalla Casa delle Camelie e passeggiò
per la città.
Salirono sull'autobus per turisti che portava a Motohakone.
Superarono il valico delle Dieci Province e giunti al
passo di Hakone scorsero lo Ashi-no-ko, il lago dei Giunchi,
e la neve sul monte dei Gemelli, sulla collina del Puledro
e sul monte degli Dei.
Mentre camminavano in un bosco di cryptomerie verso
il tempo shintoista di Hakone, Mizuhara domandò all'impiegato
dell'albergo di montagna:
"Sono fioriti i prugni?"
"Non ancora", rispose l'impiegato, "in confronto ad
Atami abbiamo una temperatura inferiore di dieci gradi."
L'albergo era una villa appartenuta al finanziere Fujishima.
Accanto all'entrata si notavano un padiglione in
cui un tempo attendevano i servitori dei signori che visi-
tavano la villa, un'autorimessa e un riparo per le barche.
Ma la camera che era stata loro destinata era incredibilmente modesta.
"è davvero una baita di montagna! Che sia stato un alloggio
per gli impiegati?" commentò Mizuhara allungando le
gambe nell'incavo del pavimento in cui era sistemato il kotatsu.
(Incavo del pavimento in cui d'inverno si dispone un braciere, o
un fornello elettrico, in modo da potersi sedere allungando le gambe
verso la fonte di calore. (N.d.T.)
Quella camera non disponeva che di shoji
di carta senza vetri e di una stretta veranda. L'ingresso
era diviso dalla camera da una porta di legno di cryptomeria,
che sostituiva senza dubbio i vecchi fusuma.
(Porta scorrevole che si chiude avvicinandone entrambi i lati.
(N.d. T.)
Entrarono nel salone per bere il tè. Era una costruzio-
ne nuova. Mizuhara domandò alla cameriera e seppe che
il salone originale era stato distrutto dal fuoco nel marzo
precedente. La risposta fugò le perplessità di Mizuhara.
Tra quelle fiamme erano svanite le tracce dei sogni del-
la famiglia Fujishima.
Uscirono a passeggiare nel giardino che si estendeva
per decine di migliaia di metri quadri.
Passarono accanto a distese di rododendri e scorsero
una casetta per il tè. Di fronte un prato di azalee.
Oltrepassarono boschetti di cryptomerie, s'inoltraro-
no su una distesa erbosa leggermente in pendio e sotto
un grande albero che allargava i rami come un ombrello
scorsero una panchina e una targa: "cryptomeria solitaria".
L'impiegato che li guidava additò la riva:
"Vedete quelle quattro cryptomerie? Il prato è stato
trasformato in un campo per il gioco del volano".
"Oh, ma è Momoko!" sussurrò Asako, quindi trattenne
il fiato e sollevò una mano, quasi volesse tapparsi la bocca.
"Non chiamarla. Smetti di guardarla", mormorò il padre
anch'egli con voce tremante.
In basso, su una panchina accanto ai quattro alberi,
Momoko abbracciava con abbandono le spalle di un
ragazzo fissando il lago.
In seguito, Mizuhara e la figlia furono guidati alla casa
di campagna. Ma ormai erano assorti in cupi pensieri.
Davanti alla casa spiccava un cartello con la scritta: "Hida Takayama.
Seicento anni". Nella traduzione inglese gli anni erano settecento.
"Un regalo di cento anni per gli stranieri!" osservò Mizuhara
ostentando un fittizio buon umore.
"Pare che in questa casa di campagna Fujishima usasse
offrire agli ospiti autentici cibi di campagna", spiegò l'impiegato.
La casa pareva aver mantenuto l'aspetto originario:
dovevano aver trasportato persino le assi della scuderia con
cautela, per non lasciar cadere gli escrementi dei cavalli.
Ma il tetto era parzialmente crollato e dagli squarci si
vedeva la neve sul monte degli Dei. Mizuhara aveva freddo,
e anche Asako era pallida.
Quella notte parlarono poco.
Il padre pensava a Momoko che evitando Yugawara e
Atami aveva preferito oltrepassare le terme di Hakone e
fermarsi in quell'albergo montano che d'inverno ospitava
rari clienti.
Momoko abbracciava la schiena del ragazzo.
"Perché piangi?" le domandò con tono languido il ragazzo.
"Non piango", rispose bruscamente Momoko.
"Mi è colata una lacrima sul collo."
"Piango perché sei carino."
Il ragazzo tentò di voltarsi.
"No, rimani così... " gli sussurrò Momoko.
Contemplava le tende color peonia.
La camera di Mizuhara e di Asako e quella di Momoko
e del ragazzo erano situate ai lati opposti dell'entrata e
del banco degli impiegati.
Camere giapponesi sbrigativamente trasformate in camere
occidentali con l'aggiunta di letti.
Momoko e Asako erano sorellastre. Non si somigliavano
che vagamente e nessuno in albergo avrebbe potuto
accorgersi della loro parentela.
Momoko non sospettava certamente della presenza del padre, che il
giorno precedente l'aveva invitata ad Atami.
3. COLORI DI FIAMMA
1.
Mentre attendevano in camera la colazione udirono il
motore di una barca. Asako spiò il volto del padre.
"Forse vanno anche questi a prendere la loro razione",
disse il padre.
La sera precedente avevano visto una barca tornare carica
di cibi razionati.
Al crepuscolo, sulla carta delle finestre scorrevoli ave-
vano tremolato colori di fiamma; Asako le aveva dischiu-
se: un giardiniere bruciava sterpaglie. Il fuoco si allargava
in cerchi ampi, evanescenti come vapori.
Il lago dei Giunchi era tranquillo. La linea della riva
lontana era ancora illuminata ma le montagne che la so-
vrastavano avevano assunto una tinta uguale, cupa. Non
rimanevano che rossi bagliori di sole.
Avevano veduto una barca scivolare tra gli alberi della riva.
"C'è qualcuno che va in barca con questo freddo!" aveva
esclamato Asako. Anche il giardiniere si era voltato a
guardare il lago.
"Saranno andati a prendere i cibi razionati."
"In barca?"
"Pesano di meno. Sarà una donna del villaggio più avanti. "
Si scorgeva una donna con un sobrio kimono spingere
con i remi la barca oltre gli alberi della riva immersa
nell'oscurità della sera.
"Mi piacerebbe vivere così: andare a fare la spesa in
barca", aveva detto Asako, dominando l'ansia.
"Chiudi. Fa freddo", aveva obiettato il padre.
Sul fondo delle finestre scorrevoli si proiettavano
ancora i tremolanti colori delle fiamme
Anche quel mattino Asako era inquieta e ascoltava con
trepidazione il ronzio del motore della barca.
"Andrà anche questa a prendere i viveri? Ieri era a remi,
oggi è a motore."
Non persuasa dalle parole del padre, Asako sbirciò socchiudendo
le finestre scorrevoli. Accertatasi che la sorella non era in
giardino le spalancò.
La barca a motore procedeva veloce verso l'estremità
del lago, in direzione delle acque su cui si rifletteva
l'immagine capovolta del monte Fuji, celata quel giorno dalle
nuvole.
La barca della sera precedente era scivolata lungo la riva,
quasi inoltrandosi a stento fra i tronchi protesi, la
barca a motore invece sfiorava veloce i rami diretta al
centro del lago.
"è lei! è proprio lei! Come immaginavo." Asako si aggrappò
alla finestra. "è sola con quel ragazzo, papà. Sul
lago al mattino, così freddo... Dev'essere impazzita!"
La barca era piccola ma lasciava una lunga scia sulla
calma superficie del lago.
Momoko era a poppa accanto al ragazzo.
Anche sulla montagna di fronte si scorgevano qua e là
sottili strisce di neve.
"Papà..." Asako si voltò.
Il padre evitò lo sguardo costernato della figlia.
"Chiudi. "
"Sì."
Ma la figlia continuò a fissare la barca.
"Asako, ti ho detto di chiudere."
"Va bene."
La figlia tornò pensierosa al kotatsu.
"Che farai, papà?"
Il padre taceva.
"Ti sembra giusto lasciarla agire così? Si sente ancora
il motore. Ho il batticuore. Anche stanotte non ho dormito."
"Lo so. Ma anche se fermassi Momoko qui..."
"E dove pensi di poterla fermare?"
"Forse non me lo consentirà mai. Ieri, no, l'altro ieri,
quando ho proposto di costruirti una casa tu mi hai detto
che dovevo costruirne altre per le tue sorelle."
"Sì. Ho delle sorelle minori a Kyoto, vero? Quante?
Due? Tre?"
Il padre mormorò qualcosa fra sé, poi disse: "Ma anche
se costruissi una casa per Momoko non credo che vi abiterebbe".
"Perché pensi che soltanto io, e non mia sorella, finirei
con il vivere nella tua 'casa-testamento'?"
"Difficile spiegarlo. Forse perché ho sposato tua madre."
Asako scrollò la testa.
"Non mi piace che tu dica così... non lo sopporto. è una
vigliaccheria, non ti sembra?"
"Credo proprio di sì", convenne il padre e aggiunse,
come se parlasse a se stesso, ma con voce nitida: "Ho
avuto due amori e mi sono sposato una volta. Ho accolto
la figlia nata dal primo amore ma non quella nata dal secondo.
Ormai è inutile parlarne, conosci anche tu questa
storia, vero Asako?"
Asako rimase ammutolita per qualche istante, poi domandò:
"Perché non hai accolto l'altra bambina? Per mia madre?"
"No. La prima l'avevo accolta perché la madre era
morta. Si era suicidata", disse a fatica il padre, quasi
vomitasse veleno.
Un'ombra offuscò le palpebre assonnate di Asako.
"Papà, tre donne ti hanno donato una figlia. Come potrei
essere l''unica'?"
"Mah... Ti sono grato per questo discorso, però..."
"Si direbbe che tu soffra, papà."
"Già, ma una figlia, che la si tenga accanto o lontana,
che la si abbandoni o la si affidi a qualcuno, rimane sempre
una figlia. è impossibile spezzare il legame che unisce
i figli ai genitori."
"Il che equivale a affermare che per quanto si prodighi
una matrigna è sempre una matrigna, vero? Che pena mi
fa mia madre!"
"I figli non dovrebbero impietosirsi per i genitori.
Commiserare eccessivamente gli altri è una prova della
propria infelicita . "
"è tutta colpa tua, papà."
"Credo che tu abbia ragione. Ma nella vita umana i conti non tornano."
"Secondo te, allora, anche la barca a motore su cui è
Momoko sarebbe 'fatale', ineluttabile?"
"Non dico questo. Ma è possibile che sia davvero innamorata
di quel ragazzino?"
"Non so."
"Mi sembra giunta al limite estremo. Ha sempre vissuto con
impeto e con estrema tensione, come sua madre,
di cui ha ereditato il temperamento. Ma con un ragazzino
così si sta gettando via... "
"Può darsi.., ma per lei è una cosa seria. Anche se ne
ha due... questo si chiama Takemiya. Due ragazzi! Non
la capisco", confidò a malincuore Asako ritraendo pudicamente
la testa tra le spalle.
Il padre ne fu lievemente stupito.
"Lei non è così. Dobbiamo scoprire la vera ferita del
suo animo, altrimenti non smetterà di giocare con il fuoco.
Quale potrebbe essere, Asako?"
"La ferita del suo animo?... sono cose che si confidano
soltanto a una madre."
"O forse è semplicemente la manifestazione della sua
intransigenza", disse il padre quasi volesse stornare il
discorso. Ma subito aggiunse: "Chi gioca con il pericolo,
come se si infilasse in bocca una lama, agisce così perché
ha una ferita che lo rode. O forse è un tentativo di suicidarsi".
"Suicidarsi? Momoko... " Intimorita da quella parola
Asako tremava. Rimase in ascolto. "Non si sente più il
motore. Papà, non avrà voluto morire nel lago? Non si
suiciderà con quel ragazzo?" Si avvicinò barcollando alla
finestra e l'aprì. "Papà, non si scorge più la barca!"
Anche il padre rabbrividì, ma disse: "Saranno lontani".
"Lontani? E dove?" Asako fissò la curva estrema del
lago. "Non si vedono! Non c'è una barca. Scendo sulla
riva a cercarli." S'infilò gli zoccoli da giardino e si allontanò
di corsa.
Alle sue spalle rimanevano tracce della cenere delle
sterpaglie bruciate il giorno precedente.
2.
Si udiva soltanto il tenue fioccare della neve. Un vago
fruscio sulla carta della finestra scorrevole.
L'assenza di vetri accentuava la vicinanza della neve,
la camera era divenuta fredda e silenziosa.
Si accorsero del fruscio poco prima di mezzogiorno e
aprirono la finestra: la neve cadeva fitta.
Le montagne della riva opposta erano scomparse, la
neve avvolgeva quasi tutta la superficie del lago e si posava
sugli alberi della sponda più vicina. Si era già accumulata sulle aiuole.
Mizuhara pensò che bisognava sbrigarsi a partire.
"Dopo che se ne saranno andati loro. Sarebbe spiacevole
anche per te incontrarli, vero papà? Momoko sarebbe imbarazzata."
Il padre sorrise amaramente: "Sembra che siamo noi
ad aver fatto qualcosa di male e a nasconderci".
"Ma è vero. Hai fatto torto a mia sorella venendo qui
soltanto con me."
Mentre si riscaldava al kotatsu che tuttavia gli lasciava
la schiena fredda, in attesa che Momoko partisse, Mizuhara
meditava: le sue tre figlie erano una diversa dall'altra,
somigliavano nel volto e nell'indole ognuna alla propria
madre, di cui parevano imitare persino il modo di vivere.
Ma oltre alle fattezze materne avevano tutte e tre ere-
ditato anche qualcosa di suo. Chi la forma delle orecchie,
chi l'andatura, chi le dita. Delicate sfumature che, pur
nella loro diversità, le accomunavano al padre.
Sarebbe già parso strano se avessero avuto la stessa
madre: quelle somiglianze con il padre risaltavano ancora
di più nella differenza dei volti in cui erano impresse le
caratteristiche materne.
Mizuhara avevano reso madri tre donne. Ossia tre
donne lo avevano reso padre. Ripensando al passato in
un'età forse non più fertile, ciò che provava non era
soltanto amaro rimorso.
Vi intuiva piuttosto, a volte, la vitalità delle donne e
la benevolenza del cielo. Ne era una prova indiscutibile
la traboccante bellezza delle ragazze.
Non erano figlie del peccato.
La madre di Momoko, la maggiore, e la madre di Asako,
la secondogenita, erano morte.
Che altro potevano aver lasciato al mondo quelle due
donne oltre alle figlie e ai ricordi dell'amore di Mizuhara?
Esse e Mizuhara avevano provato le tristezze e i tor-
menti dell'amore, ormai cancellati dal tempo per Mizuhara
e completamente svaniti con la morte per le due donne.
Le tre figlie continuavano a soffrire per le circostanze
della loro nascita e per il passato di Mizuhara. Ma egli era
sicuro del loro amore filiale.
Inoltre, con il trascorrere degli anni, Mizuhara dubitava
che nell'essere umano gioie e tristezze, piaceri e soffe-
renze fossero una realtà profondamente radicata. Gli
parevano null'altro che effimere, piccole onde nel fluire
della vita.
Tuttavia il rapporto con la donna di Kyoto sembrava
in antitesi con quelli precedenti.
Prima di dargli una figlia aveva già avuto una bambina
da un altro uomo. E forse anche in futuro avrebbe avuto
un figlio da un uomo diverso. Lei era ancora viva.
Mizuhara era stato invece l'unico uomo nella vita della
madre di Momoko e della madre di Asako.
Anche nei rapporti con la donna e la figlia di Kyoto
Mizuhara non intuiva rancore. Anzi probabilmente v'era
nei loro animi una sorta di affetto.
Aveva iniziato quel viaggio con Asako perché, saputo
che era andata a Kyoto a cercare la sorella, desiderava
parlarle; ma ad Atami le allusioni di Asako l'avevano
indotto a tacere, e a Hakone la presenza di Momoko gli
aveva fatto perdere il momento propizio.
Ma poteva accontentarsi di aver capito che Asako
intuiva il suo desiderio di parlare della figlia di Kyoto.
Mizuhara aveva vissuto soltanto con la madre di Asako.
Si chiamava Sumiko. Dopo la sua morte non gli rimaneva
che la donna di Kyoto.
Si domandava con lieve inquietudine che cosa Asako
ne pensasse, il che accresceva la sua riluttanza a parlare
della figlia di Kyoto.
Nel viaggio a Kyoto alla ricerca della sorella minore
Asako non aveva forse sperato di incontrarne anche la madre?
Mentre ascoltava fioccare la neve Mizuhara pensò che
la donna di Kyoto era viva e all'improvviso si sentì
pervadere dalla nostalgia.
"Asako, non ti addormentare così. Prenderai un raffreddore",
disse scrollando una spalla della figlia.
Asako alzò gli occhi arrossati. Aveva abbandonato la
testa sul tavolino sotto cui era installato il kotatsu.
"Non è ancora partita Momoko... Forse è tranquilla
perché non si è accorta di noi. Che bizzarra esperienza
anche per te, vero papà?"
"Con questa neve non potremo partire."
"Momoko sarà qui in albergo, vero? Ora che nevica così
non andrà a morire, vero?"
"Ancora!..."
"Prima credevo proprio che si sarebbero uccisi. Colpa
tua, papà, che hai parlato di suicidio."
Mizuhara incominciò a ricordare il suicidio della madre
di Momoko e scrollò lievemente il capo.
3.
Il giovane Takemiya prese due ceppi, uno per mano, li
gettò nel fuoco del caminetto e rimase immobile, con la
schiena rivolta a Momoko.
"Mi ricordano i ceppi di betulla bianca di Karuizawa",
disse come recitando.
Momoko continuava a contemplare la neve.
"Avevate una casa a Karuizawa?"
"Sì."
"Ti rattrista ricordarla?"
"No. Non c'è nulla che mi rattristi."
"Davvero?"
Il ragazzo si accovacciò e attizzò il fuoco.
"La legna di betulla bianca è una delle peggiori da ardere",
commentò Momoko.
"è bella. Basta che bruci, no?"
"Hai ragione. In fondo non serve per cucinare o bollire il tè..."
"Una ragazza russa, di razza bianca, mi ha baciato."
"Oh! Qualcuno ti ha baciato prima di me?!" esclamò
Momoko volgendo, lo sguardo alla schiena del ragazzo.
"è una novità che merita la massima considerazione. Dove
ti ha baciato, piccolo Miya?"
Il ragazzo tacque.
"E tu in che luogo l'hai baciata? In una villa di monta-
gna, davanti a un camino in cui ardevano ceppi di betulla
bianca?... Che ragazza era? La figlia di un panettiere? Di
un mercante di lane? Quanti anni aveva? Dimmi. Guai
se non mi racconti!"
"Te lo racconterò stanotte."
"Stanotte? Vuoi fermarti qui anche stanotte?"
"Continua a nevicare. Andiamo ad Atami."
"Impossibile. Ad Atami ci sono mio padre e mia sorella."
Il ragazzo si volse di scatto. Momoko guardò la finestra.
Anche il ragazzo contemplò il lago su cui fioccava la neve.
"Com'è abbondante! Scendere in autobus per queste
strade di montagna sarà pericoloso. Non m'importerebbe
perdere la vita precipitando in una valle se non fossi convinto
che tu ti salveresti."
"Perché pensi che saresti solo tu a morire?"
"Perché tu non mi ami, sorella maggiore."
"Ah!" Momoko fissò il ragazzo. "Vieni qui."
Il ragazzo le si sedette accanto sul divano. Momoko gli
circondò con le braccia le spalle traendole sulle ginocchia.
"Che profumo emanava la sua bocca, piccolo Miya,
quando la ragazza russa ti baciò?"
"Che?" Il ragazzo la guardò stupito.
"Si dice che quando una fanciulla ama persino il suo
alito diventi profumato", spiegò Momoko con un tenero
sorriso, "ma tu eri ancora bambino e la ragazza russa ti
baciò all'improvviso, vero?" Quindi avvicinò il volto alla
guancia del ragazzo.
"Hai il naso freddo", sussurrò il ragazzo.
"Perché non siamo davanti al fuoco, piccolo Miya."
Il ragazzo prese tra le palme il collo di Momoko e chiuse gli occhi.
"Sai di tabacco, piccolo Miya. Smetti di fumare. E fa'
che io senta nel tuo alito il profumo del primo amore..."
Momoko pose una mano sulla nuca del ragazzo e la trasse a sé.
Le punte dei capelli corti le pizzicarono le dita
suscitando in lei una fresca sensazione. La freschezza di un ragazzo
di cui anche ciglia e sopracciglia sono lucide e profumate.
Con le dita dell'altra mano Momoko tastò il lungo
ciuffo sulla fronte del ragazzo e dopo alcuni attimi disse:
"Sei bravo a mentire. Che carino!"
"Io non mento."
"Ah sì? La storia della ragazza russa è vera? Peccato.
Era meglio come finzione."
"Non sono abile a fingere come te, sorella maggiore."
Momoko circondò obliquamente la schiena del ragazzo
e lo strinse a sé.
"Come sei lungo! Troppo."
"Non dire assurdità", bisbigliò il ragazzo premendo
con forza i pollici sul collo di Momoko.
"Piccolo Miya, sai strangolare?"
"Certo. "
"Allora strangolami pure... "
Momoko chiuse gli occhi e inarcò lievemente il collo.
"Mi abbandonerai, vero sorella maggiore?"
"No, non ti abbandonerò."
"Non abbandonarmi! "
"Che scriteriato! Un uomo non deve parlare così."
"Tu mi stai prendendo in giro, eh?"
"Figuriamoci!" disse Momoko stringendo le mani del
ragazzo e allontanandole dal suo collo. "Non esiste donna
che abbia preso in giro un uomo. Io lo so. Lo so."
Momoko respirava affannosamente, le spuntavano lacrime
agli occhi e macchie rosse sui punti del collo premuti
dai pollici del ragazzo.
Il ragazzo pose il volto sulle tracce lasciate dalle sue dita.
"Ma Nishi l'hai preso in giro e abbandonato, no?"
"Ti ha detto così?"
"Certo. Nishi ti chiama 'demonio' e strega... "
"Che smidollato anche il piccolo Nishi! Altro che ab-
bandonarlo, è stato semplicemente lui a oltrepassarmi!"
"Vuoi fare in modo che ti 'oltrepassi' anch'io?"
"Sarai tu a volerlo. Il piccolo Nishi, poi, è fuggito con
una compagna di classe, no?"
"Perché tu, sorella maggiore, l'avevi abbandonato.
L'ha portata all'albergo di Ikaho dove era stato con te.
Poi li hanno trovati."
"Detesto chi va con un'altra ragazza in un luogo frequentato con me."
"Non ne conosceva altri."
"Già, ma adesso basta parlare di Nishi!" Momoko accostò le
labbra alla testa del ragazzo. "Che bei capelli!
profumano più del tuo alito. Che nostalgia!"
"Nostalgia di che?"
"Di quando ero una ragazzina."
"Sorella maggiore..." il giovane ritrasse il collo, "tu non
ami nessuno, vero?"
Momoko sollevò di scatto il capo, poi appoggiò una
guancia contro la testa del ragazzo.
"Amo una persona."
"Chi? davvero tu..."
Momoko contemplava la neve.
"Non ami nessuno, vero?"
"E invece amo. Papà".
"Papà? E chi sarebbe?"
"Mio padre."
"Che banalità! Sei una bugiarda."
"Non è una bugia. Lo amo davvero."
Momoko si alzò e attraversò la sala attratta dalla neve.
"Ma assomiglia a questa neve."
Sul lato meridionale del salotto, prospiciente il lago, si
apriva una ampia vetrata alta fino al soffitto.
Appoggiata alla porta di vetro Momoko distinse grossi
fiocchi di neve sempre più numerosi stagliarsi nella grigia
caligine per poi fluire nei suoi occhi.
Momoko e il ragazzo partirono quel pomeriggio con
l'autobus delle quattro e mezzo.
Mizuhara e Asako decisero di prendere l'autobus delle
sei, l'ultimo. Li accompagnarono due fattorini dell'alber-
go che portavano i bagagli e li riparavano con gli ombrelli.
Uno di essi, che calzava zoccoli dal tacco alto, barcollò
nella neve, cadde e si ruppe un laccio. Mizuhara lo rimandò
all'albergo. L'altro fattorino era a piedi nudi.
A causa della neve l'ombra della sera era calata presto
e le luci di Motohakone e di Hakone s'immergevano
presso le rive del lago.
Attesero fino alle sette a Motohakone ma l'autobus
non arrivò. Sarebbe dovuto partire da Odawara ma non
era ancora giunto alle pendici della montagna.
"Anche l'autobus precedente, quello delle quattro e
mezzo è ancora bloccato sulla montagna a causa di un incidente.
Due ore e mezzo fermo con tutta questa neve... "
disse un impiegato dell'autolinea.
"Momoko è salita sull'autobus delle quattro e mezzo!"
esclamò Asako osservando l'espressione del padre, poi
domandò all'impiegato:
"Di che incidente si tratta?"
"Pare che un camion salito da Odawara sia slittato a
causa della neve rovesciandosi."
"L'autobus si è forse scontrato con il camion?"
"Non si sa. Abbiamo mandato degli uomini a vedere.
Tentiamo di avere informazioni ma là sulla montagna
non ci sono telefoni."
Venti minuti dopo Mizuhara e la figlia appresero con
sollievo che l'autobus delle quattro e mezzo non era
potuto ripartire.
Nella sala d'attesa non v'era nessun altro.
Non potendo ripercorrere il sentiero montano di notte,
con una neve così abbondante, si fermarono in una locanda vicina.
Domandarono alla cameriera venuta a stendere i giacigli
quanto fosse alta la neve. Rispose che in giardino
se ne era accumulata dai trenta ai quarantacinque centimetri.
"Ecco ciò che si definisce 'un guanciale di neve'. Che
guaio!" commentò Mizuhara con un sorriso forzato.
"La finestra dà sul lago. La locanda è costruita sulla riva."
"Pare di sì."
Dal lago si levavano raffiche di vento che facevano tremare
persiane e porte a vetri. Sui vecchi tatami dell'angusta
camera erano stesi due duri materassini.
La neve fioccava nel corridoio.
"Papà, ti sarà difficile dormire con questo freddo.
Vuoi che mi sdrai accanto a te?"
"No, va bene così."
"Anche stanotte non riesco ad addormentarmi. Starà
bene Momoko? Sono preoccupata. Tre ore nella neve..."
Asako osservò il padre sollevando la testa dal cuscino.
4. PRIMAVERA A KYOTO.
1.
Mizuhara accompagnò le due figlie a Kyoto nella stagione dei fiori.
Un cliente trasferitosi a Kyoto in seguito a un incendio
che in tempo di guerra aveva devastato la sua casa a Tokyo
lo aveva incaricato di ristrutturargli la nuova dimora
e di progettargli un padiglione per il tè.
"Mi ha informato che, dopo un intervallo di sette anni,
riprenderanno le Danze della Capitale, e mi ha esortato
ad accompagnarvi a vederle. Desidera cogliere l'occa-
sione per mostrarmi la villa", spiegò Mizuhara invitando
le figlie a seguirlo a Kyoto.
Momoko scambiò un rapido sguardo con la sorella.
Rimaste sole, domandò ad Asako: "Non credi che papà
voglia cogliere l'occasione per attuare anche un altro progetto?"
Asako annuì e disse: "Chissà, forse ci farà il favore di
presentarci nostra sorella."
"Il favore? Non è il caso di essergli grate. Io non intendo incontrarla."
"Ma verrai, vero?"
"No, l'idea non mi garba."
Asako guardò tristemente la sorella.
"L'altra volta sono andata da sola con papà ad Atami.
Dovrei rimanere di nuovo sola con lui anche a Kyoto?
Come se tu fossi una figliastra? Povero papà!"
"Ma tu vuoi incontrare nostra sorella. è giusto che tu
vada. Io invece non ne ho il minimo desiderio. Perciò non mi muovo."
"Va' pure sola tu... Sono io che rinuncio", ribatté allora Asako.
"Allora sì che papà ci resterebbe male!"
"In mia assenza non cercherà di presentarti nostra sorella. "
"Ma che dici? è proprio a me che vorrebbe presentarla!
Perché non ho nessuna voglia di conoscerla. Tu l'hai
già accettata come sorella e sei persino andata a Kyoto a
cercarla. Papà ne sarà già soddisfatto."
"Che situazione complicata!" esclamò Asako scuotendo
la testa. "Ti piacciono i pensieri contorti."
"Sì, lo ammetto."
"Ma dimmi, sei così contorta per colpa di mia madre,
che per te era una matrigna?" domandò Asako con tono
lieve: ma il sorriso svanì dalle labbra di Momoko.
Asako proseguì con il medesimo tono:
"Eppure da quando la mamma è scomparsa mi sembra
che i tuoi rapporti con papà siano peggiorati, come se tu
fossi una figliastra. Non capisco perché. è un pensiero
che mi tormenta".
"Sei tu, Asako, a essere complicata." La voce di Momoko
assunse un tono pacato. "Se mi parli così perché sei
convinta che tua madre abbia agito con affetto anche
verso di me, non mi offendo. Avevi fiducia in lei, vero?"
"Sì."
"D'accordo. Allora verrò a Kyoto con voi..."
"Sì? Bene!"
"Mi dispiacerebbe sembrare caparbiamente risoluta a rattristare
un padre desolato per la morte di una moglie così brava."
"Anch'io mi sento desolata."
"E altrettanto io."
Asako annuì. Nel suo animo riaffiorò l'immagine della
sorella mentre in compagnia di un ragazzo solcava su una
veloce barca a motore il lago dei Giunchi in pieno inverno.
"Forse papà non ha intenzione di presentarci nostra
sorella. Può darsi che voglia semplicemente accompa-
gnarci ad ammirare i fiori... Proverebbe troppa tristezza
a vederli da solo", concluse Asako.
"Già", convenne Momoko.
Mizuhara e le figlie partirono da Tokyo con il Fiume
d'Argento delle venti e trenta.
Approfittarono della relativa disponibilità di posti in
seconda classe per occuparne quattro. Uno di loro avrebbe
dunque potuto sdraiarsi.
In principio si coricò Mizuhara ma, sicuro di non riuscire
a dormire, a Numazu lasciò il posto a Momoko.
Anche Momoko dichiarò che le era impossibile prender
sonno e dopo Shizuoka invitò Asako a sdraiarsi.
"Papà, se tu dormissi in vagone letto? Dev'esserci almeno
una cuccetta libera. Vuoi che chieda all'incaricato?" propose Momoko.
Il padre, tuttavia, attratto dall'idea di poter trascorrere
dieci ore con Momoko, evento insolito, preferì non allontanarsi.
Asako si addormentò realmente.
"Dalla facilità con cui dorme si direbbe che sia in effetti
la più innocente", commentò Momoko.
"Ma ad Atami non dormì", obiettò il padre.
Momoko rimase in silenzio per qualche istante, poi guardò la rete.
"Sembra che tutti i passeggeri siano viaggiatori abituali.
Hai notato la scarsità dei bagagli?"
"Sì, il mondo è tornato quasi quello di prima. Ormai
si può viaggiare leggeri. "
"Anche tu, papà, sei abituato a viaggiare. Come mai non riesci a dormire?"
"Se volessi ci riuscirei."
"Ti farebbe bene riposare."
"Dormi anche tu."
"Sì, se resterò sveglia solo io Asako mi dirà di nuovo
che sembro una figliastra."
"Usa questo termine?"
"Perciò le ho risposto che non mi offendevo purché fosse
convinta che sua madre mi avesse davvero trattata bene."
Il padre rimase a occhi chiusi, silenzioso.
"Abbiamo dato a Asako molti motivi di ansia, tu e io... "
così dicendo anche Momoko chiuse gli occhi. "Dopo la
morte della mamma Asako sembra essersi assunta la
responsabilità della famiglia. Cerca da sola di essere
utile a te e a me."
"Hai ragione. "
"Sarebbe meglio per lei che io me ne andassi da casa, vero?"
disse Momoko e si affrettò ad aggiungere: "Lo intuisco benissimo".
"Non dire assurdità. Asako può sentirti", obiettò il padre
aprendo gli occhi.
"Dorme profondamente", sentenziò Momoko continuando a
tenere gli occhi chiusi.
"Oppure Asako potrebbe decidersi a sposarsi presto...
Non vorrei che ripetesse i miei errori."
Momoko sentiva un doloroso tepore sotto le palpebre chiuse.
"Ma ti sarebbe difficile, papà, rassegnarti a lasciarla
andare fuori di casa. Saresti troppo triste... "
"Non è detto."
"Oh sì! Sono sicura che lo saresti", disse Momoko con un brivido.
S'era accorta con terrore che si stava disputando con la sorella
l'amore del padre.
Come le loro madri.
No, non era vero, si corresse Momoko. Le loro madri
non si erano contese l'amore del padre. La relazione con
la madre di Asako era iniziata soltanto dopo che il legame
con la madre di Momoko si era dissolto. Le due donne
non avevano amato contemporaneamente il medesimo
uomo: esisteva un divario di tempo.
Tali riflessioni non bastavano tuttavia a soffocare
l'ambiguo fuoco che ardeva nel suo animo. Momoko provava
la terribile sensazione di vedere mentalmente quelle fiamme.
Essere posseduta dalla passione che aveva tormentato
la madre suicida era dunque il suo destino?
Aveva forse provato una gelosia doppia, la sua e quella
della madre, per l'amore del padre verso la matrigna e la
sorellastra?
Momoko si scostò delicatamente dal padre e si appoggiò al finestrino.
Ebbe la netta impressione che avesse aperto gli occhi e che la fissasse.
Ma poco dopo egli si assopì.
Asako si destò a Maibara.
Si svegliò come sempre di ottimo umore. Sgranò gli occhi e sorrise.
"Oh! Mi dispiace che siate già svegli. Eravate addormentati
ed invece eccovi qui a fissarmi con l'aria di chi
non ha riposato affatto!"
Pareva confusa.
"Le ragazzine come te sono dormiglione", sorrise a sua
volta Momoko guardandosi intorno.
I passeggeri si erano quasi tutti impeccabilmente riordinati
e anche Momoko aveva finito di truccarsi.
Asako si limitò a pulirsi il volto con una crema, perché
dal rubinetto del bagno non sgorgava acqua. Si slacciò un
bottone della camicetta per detergersi il collo e Momoko
scrutò i passeggeri, timorosa che qualcuno lanciasse
sguardi furtivi alla sorella.
"Voltati un attimo", le disse, pettinandola.
"Ecco il lago Biwa immerso nella foschia mattutina",
annunciò Asako contemplando la distesa d'acqua.
"Quando al mattino il cielo è nuvoloso è segno che poi
tornerà il sereno", sentenziò Momoko.
"Con queste nuvole non si scorgerà alcun arcobaleno", sospirò Asako.
"Arcobaleno? Ah sì! Quello che hai visto a fine d'anno, di
ritorno da Kyoto, vero?"
"Sì. Quel signore disse che forse, pur ripercorrendo
questa linea innumerevoli volte, non avremmo più rivisto
un arcobaleno sul lago Biwa."
"Alludi all'uomo che suscitò la tua ammirazione per
come accudiva alla bambina piccolissima con cui viaggiava?"
"Appunto. Mi disse che un arcobaleno in primavera,
sui campi di fiori di colza e di astragali sarebbe parso un
augurio di felicità."
Anche Mizuhara guardò il panorama.
Apparve il castello di Ilikone. E più in basso un boschetto
di ciliegi fioriti.
Oltrepassata Yamashina i ciliegi divennero sempre più
numerosi. Pareva veramente di inoltrarsi nella capitale dei fiori.
In occasione delle Danze della Capitale rosse lanterne
pendevano allineate lungo le strade di Kyoto, e ai tram
che passavano veloci erano affissi enormi ideogrammi
che componevano la scritta: "elezione del prefetto".
Mizuhara e le figlie si recarono in un albergo di Sanjo,
e finita la colazione si fecero stendere i giacigli.
Quando Asako si ridestò il padre si era dileguato.
Trovò un biglietto accanto al cuscino: "Dormite così
bene che non desidero svegliarvi. Vado al Daitokuji. Tornerò
questa sera. Se volete, andate a vedere le Danze della Capitale."
Asako notò con sorpresa due biglietti di teatro deposti sul messaggio.
2.
Appena Mizuhara sostò sulla soglia del tempietto della
Luce Concentrata, il più grande dei Daitokuji, due cani
neri gli vennero incontro; cani di quella taglia non pote-
vano essere tenuti fra quattro pareti. Si allinearono pronti
a scattare e i loro musi così simili si protesero a osservarlo.
Non abbaiavano. Mizuhara sorrise.
"Oh, ma è lei signor Mizuhara! Quanto tempo è trascorso!" esclamò
una donna. "Che sorpresa!"
"Mi scuso per il lungo silenzio. Che cani interessanti!
Sono usciti ad accogliermi e ora sembrano stare sull'attenti,
l'uno accanto all'altro. Sono così bene educati: somigliano
ai novizi... A che razza appartengono?"
"Mah, chi lo sa!" rispose distrattamente la donna.
"Non valgono niente."
Mizuhara pensò che quella persona non aveva mutato carattere.
La donna l'accompagnò in una sala, s'inchinò e si allontanò.
Tornò poco dopo annunciando:
"Mi dispiace di non poterle offrire nulla da mangiare.
Almeno, eccole un fiore... "
Portava tre bianche camelie dalle grandi corolle, infilate
in un piccolo recipiente di bambù. Il loro candore evocò
in Mizuhara una sensazione di purezza.
"Ha notato? Non sono corolle doppie", disse la donna
deponendo il recipiente su un tavolino in un angolo.
"è fiorita anche la grande camelia di fronte alla dimora
dell'abate? Immagino che sia già trascorso il periodo
migliore della fioritura", disse Mizuhara ricordando che oltre
a quel maestoso albero appariva la sagoma del monte
Hiei, quasi in prospettica prosecuzione del giardino.
"è ancora carica di fiori. Le camelie fioriscono a lungo",
precisò la donna.
Mizuhara guardò un vaso con un unico fiore che aveva
notato appena giunto nella stanza.
"Che fiore è?"
"Quello? Mah, forse è un baimo?"
"Baimo? Come si scrive questo nome?"
"Con gli ideogrammi di doppio e di patata dolce, suppongo",
rispose sbrigativamente la donna.
Mizuhara rise pur non avendo compreso. Era un fiore
verde, pareva un incrocio tra il mughetto e la campanula.
Spuntava in effetti su un esile sarmento, simile a quello
che nasce da un tubero di patata dolce.
"Questa volta è solo, signor Mizuhara?" domandò la donna.
Egli si ricordò che la donna ignorava la morte di sua moglie.
"In realtà sono venuto a Kyoto per poter incontrare Kikue. "
"Chi?"
"Una donna con cui visitavo questo tempio... "
"Capisco", annuì la donna.
"Ricorda? Una volta venimmo con una bambina in braccio."
"Sì."
"Ormai ci siamo lasciati da tempo. Perciò preferisco
incontrarla qui. Non vorrei profanare questo luogo ma... "
"Verrà?"
"Probabilmente. "
"Ah, davvero?" la donna pareva turbata. "Vuole che
attenda l'arrivo della signora per offrire il tè? Ecco, adesso
vado a chiamare il Maestro. Avrà già capito che abbiamo un ospite.
Chissà come sarà contento quando saprà che è lei!"
L'anziano abate entrò trascinando una gamba, proba-
bilmente per i postumi di una lieve paralisi.
Mizuhara notò con stupore che era completamente incanutito.
Il volto tondo, incorniciato da una lunga barba, aveva
un colorito sano. Anche le lunghe sopracciglia gli conferivano
un aspetto più simile a un eremita taoista che a un
bonzo. La barba fluente era intrecciata come i capelli di
una fanciulla. Gli pendeva sul petto fino all'ombelico e
sembrava rilucere di dorati bagliori.
Mizuhara la contemplò incantato.
"Che bravo!" esclamò, facendo il gesto di pettinarsi la
barba con le dita.
"L'ho imparato dagli Ainu", spiegò il vecchio Maestro.
"Due anni fa, quando sono stato nello Hokkaidò, un Ainu
mi ha spiegato che intrecciandola così non mi avrebbe
dato fastidio. Aveva ragione. è comodo."
A ben riflettere anche i folti capelli raccolti in una
coda ricordavano la pettinatura dei vecchi Ainu.
"Sono diventato un perfetto aborigeno. Un aborigeno
nella città di Kyoto", rise il vecchio Maestro. "Mi sono
stancato di fare il bonzo! Ha notato anche i capelli?"
"Sta meglio così", commentò Mizuhara.
"Prima mi rasavo la testa da solo, ma da quando mi sono
ammalato non ho più la mano ferma. Il barbiere pretende
cinquanta yen anche per una rasatura da bonzo. In
un periodo come questo, con tanta penuria di danaro per
il tempio, sarebbe un'idiozia!" ribatté, e rise ancora una volta.
Le pupille nere, ombreggiate da lunghe e candide sopracciglia,
conservavano una giovanile lucentezza. Anche quel nero
intenso ricordava gli Ainu, ma a Mizuhara
ispirò un'impressione di purezza.
"Quanti anni ha compiuto, vecchio Maestro?"
"Settanta, credo", rispose la moglie dell'abate.
Mizuhara raccontò di alcuni loro conoscenti di Kyoto,
ma pareva che il vecchio bonzo stentasse a comprendere
ciò che gli veniva detto.
"Mi sembra che sia diventato lievemente sordo", disse Mizuhara.
Il vecchio Maestro udì e rispose: "Un giorno sono inciampato
su quel passaggio piombando in giardino. Da allora l'udito
mi si è affievolito. 'Gli usignoli cantano' mi dice la gente,
però io non li odo. Ma un mattino, mentre mi lavavo la faccia,
mi sono sentito pizzicare il naso e toh! ho riudito il canto
degli usignoli!"
"Cantano anche in questo momento", disse Mizuhara
e rimase in ascolto pensando che in quel silenzio avrebbe
presto udito i passi di Kikue. Quindi aggiunse: "Qui a
Kyoto si vede ovunque una profusione di fiori. Ma è bello
che in questo tempio non esistano ciliegi. Non ve ne
sono, vero?"
"No. I ciliegi sconvolgono i giardini", sentenziò il vecchio bonzo.
"I petali appassiscono, le foglie cadono e sporcano il
giardino", aggiunse la moglie.
Il vecchio bonzo continuò: "I fiori di ciliegio sono
troppo gai per un tempio. Sarebbe imbarazzante se i monaci
del Daitokuji s'inebriassero di fiori!"
Spiegò che i giardini del tempio avevano ospitato un
unico ciliegio, "il ciliegio di Konoe", piantato dall'omonimo duca.
Mentre l'ascoltava, Mizuhara cercava di immaginare
Kikue percorrere il sentiero lastricato sotto i rami di pino.
Come poteva essere mutato l'aspetto di una donna che
non vedeva da tanti anni?
5. CAMELIE NERE.
1.
Le donne di Kyoto posseggono piedi leggiadri e morbide
labbra. Il che significa una bella pelle, deduceva Mizuhara
pensando a Kikue.
Sebbene fosse seduto di fronte a un vecchio monaco,
ricordava le morbide labbra della donna.
Erano delle labbra che aderivano a quelle maschili,
labbra lisce, tenere: un tempo gli bastava sfiorarle per
avere la sensazione di accarezzare tutto il corpo della donna.
Ma ormai i denti anteriori di Mizuhara che allora avevano
morso quelle labbra erano stati sostituiti da false corone.
Chissà se anche le labbra della donna avevano perso la
loro morbidezza?
"Vecchio Maestro, e i denti?" domandò Mizuhara.
"I denti? La dentatura di un aborigeno è robusta"
dichiarò il bonzo mostrando due file intatte di denti
ombreggiati dai folti baffi. "Come vede sono proprio un
aborigeno! Invece la struttura architettonica del Daitokuji,
dopo la fine della guerra, ha incominciato a vacillare:
traballante come la dentatura di un vecchio. Forse tra
dieci anni non ne rimarrà neppure l'ombra."
La moglie accusò astiosamente i bambini moderni,
spiegando in che modo danneggiassero il tempio. Le lesioni
prodotte dal gioco del basebalì erano le più gravi.
"All'uccello del portale, dell'epoca Momoyama, monumento
nazionale, hanno troncato le ali a pallate. E adesso è volato
via anche il capo."
"Terribile", convenne Mizuhara.
"I bambini dell'après-guerre sono come rane impazzite,
imperversano e guastano secondo la bizzarria del mo-
mento. Non ascoltano nessuno. è una follia concedere
loro tutta questa libertà!"
Era strano che la moglie del vecchio Maestro, con un
grembiulino a tre teli di cotone blu a piccoli motivi come
le contadine di Ohara, usasse l'espressione "après-guerre".
La palla da baseball, spiegò la donna, cadeva sovente
nel giardino del tempio e ogni volta i bambini si arrampi-
cavano sul muretto rompendo qualche tegola.
Per evitare che giocassero nei recinti del tempio era
stato allestito per loro un piccolo campo sportivo a sud,
con il risultato che il muretto del vicino padiglione aveva
subito barbari attacchi: la sua riparazione avrebbe richiesto
costi insostenibili.
Una volta, raccontò il vecchio Maestro, il gruppo di
case di fronte al portale era abitato da persone che dipendevano
dal Daitokuji, ultimamente invece vi si erano tra-
sferite alcune famiglie di sfollati i cui bambini non cono-
scevano e non frequentavano il tempio.
"Anche le automobili entrano rumorose nel recinto.
Persino i bonzi trovano comodo arrivare in auto fin sulla
soglia. C'era una sbarra di legno alla porta principale per
impedire il passaggio delle auto. Ma l'hanno tolta."
Pur lamentandosi della decadenza cui era destinato il
tempio, il vecchio Maestro conservava l'aspetto sereno di
una montagna in primavera.
Mizuhara provò l'impulso di parlargli della propria antica
amante, di dirgli:
"Sa, vecchio Maestro, capita di ripensare con nostalgia
alla morbidezza delle labbra di una donna che non si frequenta
da lungo tempo".
Benché i capelli di Kikue avessero riflessi color mogano,
le sopracciglia parevano lievemente scolorite, come
se difettassero di pigmenti. Il che spiegava il candore della
sua carnagione.
Ma la tenue tinta delle sopracciglia, le belle gambe, le
morbide labbra invece di rafforzare il legame con la donna
gli avevano reso forse più facile abbandonarla.
Gli era infatti parsa una donna dal carattere leggero,
superficiale, che si sarebbe facilmente rassegnata.
In seguito gli era accaduto varie volte di incontrare a
Kyoto una donna dalla bocca simile a Kikue. Una bocca
caratteristica: quando parlava s'intravvedevano le gengive,
non grosse e prominenti, bensì lisce come le labbra.
Il colore tenue e luminoso delle sue labbra aveva indotto
Mizuhara a supporre che usasse un rossetto differente
da quello delle donne di Tokyo; invece era la tinta naturale
della bocca a essere diversa. Sia le gengive sia la lingua
erano di un nitido rosa.
Quando incontrava una donna con quel tipo di bocca
gli tornava in mente Kikue, e sebbene ciò rinnovasse i
suoi rimorsi, era assalito dall'impulso di parlarle.
Gli sarebbe piaciuto raccontare di lei al vecchio Maestro,
ma non ebbe occasione d'iniziare il discorso. Volse
lo sguardo all'ombra degli alberi sul muschio del giardino.
In quell'attimo la moglie del bonzo esclamò: "è arrivata!"
e si alzò per andare incontro all'ospite.
Mizuhara si sentì soffocare dall'emozione. Stranamente
non provava sensi di colpa verso Kikue, bensì verso
Sumiko, la moglie morta. Quasi che fosse ancora viva e
che egli incontrasse l'amante di nascosto.
Una strana, stupefacente sensazione.
Kikue salutò anzitutto il vecchio Maestro, quindi si
rivolse a Mizuhara limitandosi a dire:
"Scusa se ti ho fatto attendere. Benvenuto a Kyoto",
e abbassò lo sguardo.
"Ti ha stupita l'accoglienza dei cani?" domandò Mizuhara.
"Questa volta era un gatto", interloquì con noncuranza
la moglie del bonzo. "Già, ma siccome i gatti non sono
socievoli si è limitato a sgattaiolare sulle assi della veranda."
Kikue sorrise:
"C'erano anche i cani, mi osservavano da lontano."
"Davvero?"
"Ahimè, è diventata una dimora per cani e gatti... " celiò
il vecchio bonzo. "Comunque è più mondana di un
asilo per volpi e tassi!"
L'uomo anziano contemplava incantato Kikue, ma
non pareva ricordare chi fosse. La moglie si accorse
dell'imbarazzo della donna e disse:
"Non ho ancora servito il tè perché attendevo il suo arrivo".
Poi, guardando Mizuhara, aggiunse: "Che ne direste se ve lo
servissi nella saletta?"
"Va bene."
Mizuhara si alzò.
Entrò nella saletta da tè larga soltanto tre tatami ove,
si racconta, Rikyù si squarciò il ventre.
(Sen Rikyu, maestro della cerimonia del tè dello shogun Toyotomi
Hideyoshi, è considerato il principale codificatore di quell'importante
momento sociale e politico che è stato a lungo, ed è tuttora per
molti versi, la cerimonia del tè. Fu costretto al suicidio rituale dallo
shogun, irritato dalla sua crescente autorevolezza. (N.d.T.)
"Lo prepara lei?" domandò la signora a Kikue.
"Sarebbe complicato. Preferisco che mi porti tutto già
disposto su un vassoio."
"E il vecchio Maestro?" domandò Mizuhara.
"è meglio che non si muova. Poserò il tè là."
La moglie scomparve.
Mizuhara percepì nella semioscurità il lieve suono del cucchiaino
di legno con cui Kikue versava il tè in polvere nella tazza.
"Desideravo incontrarti", le sussurrò.
"Il tuo telegramma: 'Vieni al tempietto della Luce Concentrata' mi
ha stupita. Se mi avessi informata dell'ora dell'arrivo del treno
sarei venuta alla stazione ad accoglierti. Eri in compagnia di qualcuno?"
"Sì. Sono venuto con le mie figlie."
"Oh!" Kikue sollevò il volto. "Sei qui per ammirare i fiori con loro?"
"Siamo arrivati questa mattina. Le ho lasciate che dormivano."
"Queste cose non mi piacciono. Sono una pena per me."
Girò lievemente la tazza che teneva su una palma. Le tremava la mano.
Mizuhara prese tra le dita un candito ai semi di soia
del Daitokuji.
Kikue gli si avvicinò in ginocchio:
"Se non fossi nella saletta da tè di Rikyu piangerei".
Anche Mizuhara si guardò intorno.
"Mi fa paura essere sola con te in questo luogo. Vorrei
quasi morire", sospirò Kikue. "Ricordi quando mi accompagnasti
qui nell'anniversario della morte di Rikyu?"
"Sì. Quando fu?"
"Il 28 marzo di alcuni anni fa. hai dimenticato, vero? Non ci
si può fidare di te. è desolante."
2.
"è un sarusuberi?" domandò Kikue alla moglie del bonzo,
dopo aver levato lo sguardo a osservare la zona destra del giardino.
"è una shorea ", rispose a voce alta la donna. "Le foglie
non assomigliano a quelle del sarusuberi. E anche i rami
sono più imponenti."
"Oh, una shorea!"
"Sì, l'albero che si dice sia improvvisamente appassito
e sbiancato nell'istante in cui Sakyamuni, il Buddha, scomparve dalla
terra. Lo si vede dipinto nelle raffigurazioni del Nirvana."
"Che albero prezioso!"
"Ha fiori candidi; dalla grossa corolla. Basta guardare
come cadono per ricordare l'inizio dello Heike Monogatari:'Il suono della
campana del tempio del Gion...' Alla sera le corolle appena dischiuse
cadono. "
(Storia degli Heike, romanzo epico del 12esimo secolo che si innesta
nella tradizione del grande Genji Monogatari narrando la lotta tra
le famiglie degli Heike e dei Genji. L'incìpit è un classico della
cultura giapponese: "Il suono della campana del tempio del Gion è
l'eco della caducità del mondo delle apparenze, la tinta dei
fiori di shorea dimostra il principio della decadenza ineluttabile dei
potenti. Effimero sarà il loro orgoglio, come un sogno in una notte
di primavera". (N.d.T.)
"Sbocciano il mattino e appassiscono la sera?"
"Esatto."
La donna si sedette sulla veranda dell'alloggio dell'abate,
lontana sia da Mizuhara sia da Kikue.
Era venuta a vedere perché non uscissero dalla saletta da tè.
Li aveva trovati seduti sulla veranda e, avvicinatasi,
aveva aperto gli shoji in modo che potessero ammirare i
dipinti dei fusuma.
Mizuhara guardò distrattamente sia i dipinti sia le
pietre del giardino, che aveva già ammirato numerose volte.
Kikue sedeva dietro di lui.
"Vicino al fossato c'è un'altra shorea più piccola. è nata qui,
non proviene dall'India. Chissà come saranno i fiori."
"Non è ancora fiorita?" domandò Mizuhara osservando
l'alberello. I rami non erano contorti, bensì dritti come
quelli di un pioppo.
"Non ancora", rispose la donna sbirciando Kikue.
Quindi le rivolse la parola: "Non si angustii troppo. Nella
vita ora si piange ora si ride".
"Già", rispose stupita Kikue voltandosi.
"Comunque lo si consideri, questo mondo è difficile.
Non vale la pena di stare sempre in tensione. Si rilassi."
"Ha ragione. La ringrazio."
"In genere sono sciocchezze. Ci affliggiamo terribilmente
per cose di nessuna importanza."
"Com'è vero! Ma è così difficile per una come me
giungere all'illuminazione! Mi piacerebbe frequentare
questo tempio per ascoltare i discorsi del vecchio Maestro. "
"Ah, non servirebbe a nulla! L'abate ha l'aria di essere
un illuminato perché non ha null'altro da fare. Ma in fondo è
bello arrivare a un'età in cui non si ha altro traguardo
che l'illuminazione. In fondo, per 'aprire gli occhi',
basta vivere a lungo."
"Sarebbe un guaio se i vecchi avessero ancora passioni violente!"
"Già, perché non sarebbe soltanto la passione per il
danaro... Anche a questa età mi capita di domandarmi
perché mai sia nata donna. Succede anche a lei?"
"Sì."
"Immagino", concluse bruscamente la moglie del bonzo e si allontanò.
Kikue fissò l'angolo della veranda in cui fino a pochi
istanti prima era seduta la donna.
"Mi ha detto cose giuste, ma a me sono sembrate rimproveri,
ho provato imbarazzo. Che le hai raccontato?"
"Niente. Soltanto che ti aspettavo."
"Ah sì? Che abbia intuito qualcosa dalla mia espressione?
Era inevitabile, dato che sono smagrita per le preoccupazioni
e sono anche vestita così male. Chi le hai detto che sono?"
Mizuhara riluttava a confessare di averla definita "una donna
lasciata da tempo".
"Sembra quasi che mi abbia voluto dire: 'Non provare
a sedurlo!' Che stupidaggine!" Kikue si sforzò di sorridere
e guardò Mizuhara.
Egli non provava alcuna attrazione per lei. Indubbiamente non
era altro che una donna abbandonata da lungo tempo. La sua presenza
pareva aver cancellato l'immagine antica di Kikue.
In fondo era una delusione.
Eppure la donna che aveva di fronte non era molto diversa dalla
Kikue di un tempo. I chiari occhi castani che
rilucevano quando egli l'abbracciava avevano perso lumi-
nosità. La forma della bocca si era modificata, i contorni
apparivano ora rilassati. Forse anche i capezzoli, che erano
del medesimo incarnato delle labbra, erano lievemente avvizziti.
Ma la donna non dimostrava la sua età. Non era smagrita come affermava.
Allora Mizuhara ebbe l'impressione che a dividerli fossero
piuttosto i mesi e gli anni trascorsi dalla loro separazione.
Gli pareva che essi formassero un muro divisorio tra lui e la donna.
Era come se, più che lei, stesse incontrando quegli anni e quei mesi.
Il tempo aveva dunque risolto la loro relazione? L'aveva consumata?
Si erano lasciati, troncando in un colpo solo il loro legame;
Mizuhara avrebbe potuto sentirsi meglio, invece
aveva provato tristezza e un senso di colpa verso Kikue.
Cercò di rianimare la nostalgia, il senso di intimità che
aveva provato per la donna di un tempo.
Allora, sorprendentemente, risorse in lui l'immagine
della moglie, più viva che mai.
Aveva persino l'impressione che la perdita dell'intimità
ben più stretta che aveva con la moglie gli avesse precluso
l'intimità con l'amante.
Gli era difficile capire che cosa la donna stesse pensando
in quel momento. Erano sincere le parole pronunciate
poco prima?
Provò un impaziente desiderio di accostarsi ancor di più a lei.
"L'anno scorso è morta mia moglie", disse.
"Oh!" Kikue lo guardò stupita, con un'espressione
afflitta sulle sopracciglia e sulle palpebre. "Non sapevo perché,
ma avevo intuito la tua depressione." Il volto con-
fuso di Kikue pareva in procinto di piangere. "Ero preoccupata,
e mi domandavo come stavi. Che disgrazia!"
"Delle madri delle mie tre figlie sei rimasta solo tu."
"Davvero? è rimasta l'immondizia. Che orribile bizzarria. "
"Quando sarò morto sarai tu l'unica donna a ricordarmi. "
"Non spaventarmi! Perché questi discorsi? Sei così triste?"
"è la realtà."
Kikue lo guardò attentamente.
"Non lo dico per essere ricordato con più sentimento,
ma vorrei essermi preso più cura di te..."
"Che dici? Avresti dovuto rivolgere questa frase a tua
moglie. Tu mi hai trattata benissimo. Non ti ho dimenticato
neppure un giorno."
La donna aveva intuito che chiedendo scusa a lei, Mizuhara
aveva l'impressione di rivolgersi alla moglie morta.
"Ma perché hai voluto incontrarmi ora che tua moglie
è scomparsa? Dimmi qual è il motivo, altrimenti non sono
tranquilla. E poi cosa penserebbero le tue figlie rimaste
in albergo se venissero a saperlo?"
Mizuhara esitava a risponderle.
"Sei terribile!" commentò Kikue scuotendo la testa.
Dopo alcuni istanti di silenzio si alzarono.
"Andiamo a rendere omaggio alla tomba di Rikyu",
annunciò Mizuhara sulla soglia.
"Sì. Adesso apro", rispose la signora arrivando con le
chiavi e aprendo la porticina di legno del giardino.
Davanti alla tomba di Rikyu, Kikue domandò:
"Hai costruito la tomba per tua moglie?"
"No. Non ancora."
"Davvero? Immagino che anche lei abbia veduto questa tomba.
Renderò omaggio alla stele di fronte a cui ha
sostato tua moglie." Congiunse le mani e mormorò:
"Le chiedo perdono".
Quella donna era un enigma per Mizuhara. Non riusciva
a capire quale fosse il confine tra l'abitudine e il vero sentimento.
Anche se la considerava una sua donna, era ormai probabilmente
mantenuta da un altro uomo.
3.
Usciti dal portale del tempietto della Luce Concentrata
s'inoltrarono lungo un sentiero che terminava in direzio-
ne ovest con un lieve pendio e conduceva all'eremo della
Barca di Giunchi Solitaria, costruito da Kobori Enshu.
(Generale dell'epoca Momoyama, applicò il suo ingegno anche
alla progettazione di giardini e all'arte del tè. (N.d.T.)
Mizuhara conosceva il sentiero che dall'eremo della
Barca di Giunchi Solitaria proseguiva verso la vetta dei
Falchi e al tempio di Koetsu.
Si fermò a contemplare le quiete ombre dei pini e dei
bambù proiettate ormai obliquamente sul sentiero rettilineo.
I padiglioni in cui alloggiavano i monaci erano allineati
lungo il lato settentrionale.
"Che aspetto bizzarro ha l'abate del tempietto della
Luce Concentrata!" commentò Kikue.
Mizuhara, continuando a osservare il sentiero, rispose:
"Si considera un aborigeno. Si veste come si vestono gli Ainu..."
"Davvero? Mi ha stupita."
"è un'interessante 'immagine del supremo'."
"Cosa?"
"Si chiama così il ritratto di un bonzo Zen."
"Davvero? Lo rammenterò. Non avevo mai visto una
barba intrecciata."
"Sì, è un bonzo bizzarro."
"Lascia crescere peli e capelli in piena libertà. In fondo
non gli stanno male. Gli incorniciano il volto."
"Da giovane era un bell'uomo. Si pensava che sarebbe
divenuto l'abate supremo del Daitokuji, e invece è stato
travolto dalle onde del mondo fluttuante."
"è proprio vero che chi da giovane prova tante amarezze
si addolcisce con l'età e si illumina. 'Passione equivale
a illuminazione'."
Giunti al portale del tempietto della Vista Totale
Mizuhara si fermò e disse:
"Wabisuke dev'essere fiorita".
Quello era il nome della camelia prediletta da Toyotomi
Hideyoshi. Fioriva in fondo a un campo di grano. Durante
la guerra il giardino era stato trasformato in campo. Tra le
tenere spighe svettava la camelia. Aveva fiori bianchi scre-
ziati di giallo, con corolle più piccole del normale.
"Sono trascorsi quindici anni da quando venimmo qui
con Wakako in braccio", disse Kikue. "Quando osservai
che nel giardino non c'era nessuno Wakako esclamò che
c'erano i fiori. Te ne sei dimenticato?"
"No, ricordo", rispose Mizuhara ed ebbe l'impressione
che la grande camelia fiorisse in un altro mondo.
"Come sarebbe bello poter tornare a quel tempo! Che
meraviglia essere qui con te se fossi giovane come allora!"
"E io vecchio? Sarebbe imbarazzante".
"Non importa. Negli uomini l'età non conta. Ah, se
fossi giovane!"
"Non dire assurdità. è un discorso egoista."
"Siete voi uomini a essere egoisti. Prova a farti un esame
di coscienza. Certo, le donne invecchiando hanno
pensieri contorti ma... "
"E tu", Mizuhara assunse un tono più formale, "come
stai? come ti va la vita?"
"Grazie dell'interessamento. Mi sono arrangiata in
qualche modo", rispose evasivamente la donna. "L'essere
umano ha sempre qualche sofferenza da sopportare. Non
c'è mai un periodo completamente favorevole."
Mizuhara non aveva più il diritto di intromettersi nella
vita di Kikue, ma pensava che durante gli anni di guerra,
e anche dopo, la donna doveva aver affrontato indicibili
difficoltà nell'allevare da sola le due figlie e che per
mantenerle si era probabilmente venduta.
"Mia moglie si è sempre preoccupata per Wakako."
"Davvero? Le sono grata. Le ho fatto del male. Mi
dispiace molto. Pregherò con fervore negli anniversari
della sua morte."
Le parole di Kikue parvero a Mizuhara molto superficiali.
"Mi sono permessa di allevare con cura Wakako", proseguì,
come se avesse avuto in affidamento una bambina
non sua. "Però a causa sua ho dato motivo di sofferenza
alla maggiore. "
"Come sta la tua primogenita?"
"Yuko è fuori."
Evidentemente intendeva dire che esercitava il mestiere di geisha.
Mizuhara si allontanò dalla grossa camelia e uscì dal portale.
"Forse perché ha sofferto fin da piccola, Yuko è diventata
una ragazza un po' freddina... Non nutre molto affetto per la sorella",
confidò Kikue mentre camminava.
"Wakako ha un animo gentile però..."
"Avresti fatto bene a condurla qui."
"Avrei voluto, ma non sapevo se saresti stato d'accordo..."
"Non posso certamente incontrarla con fierezza annunciando:
'Sono tuo padre'."
"Ma che dici? Pensi che abbia dimenticato come la
vezzeggiavi da piccola? Quando le ho detto che ti avrei
incontrato mi ha accompagnata fin sulla soglia di casa
con le lacrime agli occhi."
"Davvero?"
"L'hanno scorso Yuko ha partorito una bambina. Il padre
è un tipo insolito. Nonostante sia ancora giovane
ha preso con sé la bambina e l'ha portata a Tokyo. è scapolo,
l'alleva da solo. Ogni tanto la riporta a Kyoto perché
veda la mamma. Viaggia in treno, con la bambina in
braccio. è un uomo raro al giorno d'oggi. Afferma di essere
pronto a sposare Yuko. Ma lei non vuole, anche se
le ripeto che sarebbe una fortuna insperata e che sarà punita
per la sua ostinazione. Le dico di stare tranquilla: se
lei se ne andrà, non farò lavorare Wakako al suo posto.
Avrò cura di Wakako perché voglio bene a suo padre.
Continuo a ripeterlo, ma Yuko è una ragazza terribile.
Anche quando le portano la figlia esita persino a prenderla
in braccio. è quasi sempre Wakako ad aver cura della
bambina. Povera piccola, fa pena. è impossibile sopportare
scene simili. Così mi sono fatta coraggio e gli ho detto:
'è figlia di una geisha, no? Non si sa se è davvero lei
il padre. Potrebbe benissimo abbandonarla. D'altronde
anch'io ho allevato due figlie senza l'aiuto del padre'. Ma
lui non mi ha mai ascoltata. Ho persino proposto a Wakako:
'Nasconditi in un altro luogo con la bambina, così
lui finirà per rassegnarsi'. "
Mizuhara si sentì ferito nei suoi sentimenti, anche se probabilmente Kikue
non aveva intenzione di paragonarlo a quel padre lodevole.
Pensò anche che fosse l'uomo incontrato in treno da Asako alla
fine dell'anno precedente.
Dai discorsi di Kikue comprese che dopo la loro separazione
la donna non aveva avuto altri figli e che Wakako era allevata con cura.
"L'altro ieri è arrivato di nuovo con la bambina. Ha detto che
oggi l'avrebbe portata a vedere le Danze della Capitale."
"Davvero? Ci saranno anche le mie figlie."
"Oh, che guaio!" Kikue pareva sgomenta. "S'incontreranno... Che
fare? Wakako sarà andata con lui per tenere la bambina,
vedrà le sorelle..."
"Già."
"Già? Eh sì, per te è facile sistemare tutto con un semplice 'già'!
Sappi che questa situazione non mi va. Sono
contraria. è vero, non si sono mai viste, e anche incon-
trandosi sarà difficile che capiscano di essere sorelle. Ma
se capitasse Wakako soffrirebbe. Mi fa pena, poverina.
Scusa, ma non ho nessuna voglia che incontri le altre tue
figlie. Sarebbe invece felice di incontrare solo te..."
"è proprio di questo che intendevo parlarti. Ho accompagnato
a Kyoto le altre mie figlie proprio con l'intenzione
di presentarle a Wakako."
"Ah sì?"
Kikue era stranamente calma.
"Perché tua moglie è morta?"
Mizuhara ebbe l'impressione di ricevere una pugnalata.
"Non esattamente", rispose. "L'anno scorso Asako è
venuta a Kyoto all'insaputa mia e della sorella proprio
per cercare Wakako."
"Davvero? Come avrei potuto immaginarlo?" Kikue
parve stupita, ma aggiunse subito gelidamente: "Come
dice il proverbio: 'Chi ignora è sereno come un Buddha'.
Avrebbe fatto meglio a non cercarla. Non vorrei che mia
figlia subisse umiliazioni, finisse con l'essere criticata."
"Asako non è affatto venuta per investigare su di voi.
Agisce così soltanto per bontà. D'altronde non me ne
aveva neppure parlato. E poi sul suo comportamento influisce
anche la tristezza di avere perso la madre."
Kikue annuì.
"Scusami, ormai ho una natura contorta. E poi è un discorso
così improvviso che non sono ancora pronta ad accettarlo. "
"Vorrei che ti preparassi a farlo."
"Sì, grazie. Anche Wakako è una creatura nata da un
padre e da una madre", disse Kikue con una sorprendente
espressione buddhista. "Ma non avrai per caso intenzione
di togliermela?"
"Fino a questo punto non..." rispose ambiguamente Mizuhara.
"Wakako ha la sua vita, il suo destino. L'unica cosa che
ti posso assicurare è che non ha dimenticato suo padre."
"Davvero? Sono fortunato: ho tre figlie di donne diverse
che mi vogliono bene..."
"Sì, sei fortunato. Devi esserne fiero. E poi le donne
si arrangiano sempre, in qualche modo".
Risero guardandosi in volto. Si accorsero di aver sostato a lungo.
Ombre di foglie di bambù erano proiettate sui loro piedi.
Superarono il portale del Tempio del Drago Volante.
Ai lati del sentiero lastricato con pietre a forma di sottili
rettangoli, simili a cartoncini di poesie, gli aceri protendevano
i rami dalle tenere foglie. Erano di un verde
così luminoso che pareva riverberare sulle pietre.
Mizuhara aveva conosciuto il vecchio Maestro di quel
tempio a Shanghai, durante la guerra. Molto più giovane
dell'abate del tempietto della Luce Concentrata, raccontò
con precisione ricordi del viaggio in Cina e come in
America fosse di moda studiare lo Zen.
Li invitò nella saletta per il tè a gustare una colazione
a base di germogli di bambù del vicino boschetto.
"Ah, una camelia nera!" notò Mizuhara avvicinandosi
al vasetto appeso alla parete.
"Purtroppo non ho trovato bei boccioli. Avevo visto
un ramo con dei fiori appena schiusi, sono andato per co-
glierli ma non sono più riuscito a vederli. Ho girato intorno
alla pianta ma il rametto era sparito. La camelia è in
un angolo del giardino. Mi pare strano che qualcuno si
sia intrufolato per rubare un fiore", disse il vecchio Maestro
alle spalle di Mizuhara.
Anche la camelia nel vasetto di bambù aveva dei boccioli.
Ma probabilmente quelli che il vecchio Maestro
avrebbe desiderato mostrare erano ancora più neri. La
tinta dei boccioli era più scura di quella del fiore. Il vecchio
Maestro spiegò che in primavera il colore dei fiori
si attenuava. Più le camelie erano nere più erano apprezzate.
La corolla era piccola, a forma di pigna, con petali
grossi, come di velluto. Era un fiore dall'aspetto molto elegante.
Usciti dal tempio del Drago Volante si diressero al padiglione
della Alta Paulonia, ed entrarono nella saletta per il
tè che si tramandava fosse stata l'abitazione di Rikyu.
"Kerria bianchi e 'Scorda-la-capitale', vero?" domandò
Mizuhara contemplando i fiori disposti nel tokonoma.
"Sì, 'Scorda-la-capitale'", rispose il vecchio Maestro.
Erano simili ai crisantemi selvatici.
"Immagino che a Tokyo non esistano più tassi", disse
il vecchio Maestro. "Sotto le assi di questa veranda c'è
una loro tana."
"Ce n'è uno solo?"
"Credo siano tre. Escono spesso a giocare in giardino."
Accanto alla porticina del giardino c'era un passaggio
che consentiva ai tassi di avventurarsi nel boschetto.
Mizuhara scese in giardino a vedere la tomba di Yusai Hosokawa.
"è bello avere una pagoda di pietra come tomba. Mi
piace anche la tomba di Rikyu. Li invidio", commentò
Mizuhara girando intorno al monumento funebre per osservare
un punto in cui la pietra si era sgretolata, mentre
Kikue gli sussurrava da dietro le spalle:
"Vorrei un petalo di quella camelia".
"La camelia nera?"
"Sì."
Mizuhara tornò con il fiore tolto dal vasetto di bambù
del tempio del Drago Volante.
"Vorrei mostrarlo a Wakako... "
Mizuhara le porse il rametto fiorito.
"Oh, ma basta un petalo!" esclamò Kikue strappandone
uno dalla corolla.
Mizuhara aveva chiesto il rametto al vecchio Maestro
dicendo che desiderava mostrarlo alla figlia.
9. IL SENO D'ARGENTO.
Scesi dal pendio su cui sorgeva il padiglione della Croce
Buddhista attraversarono un ponticello di pietra che con-
duceva al padiglione dell'Arpa dei Pini.
Il ponticello era formato da un'unica pietra lunga più
di cinque metri, proveniente da Shirakawa e presumibil-
mente donata da Kato Samanosuke.
Natsuji e Asako sostarono sul ponte.
Egli avrebbe voluto contemplarla da una distanza
maggiore mentre indugiava solitaria sul ponticello, ma
non osò esprimere il suo desiderio.
"Circondati dalle rocce ci si sente l'animo pesante."
"Ah sì?"
"Ignoro tutto sui sistemi di disposizione delle rocce.
Chissà se questo era il gusto di Enshu?"
"Non saprei."
"Nei giardini le rocce sono radunate secondo severi
criteri. Non si sa se definirla una disposizione indice di
rigidità o di acutezza, certo che è una tecnica da nevrotici.
Questi gruppi di rocce così dure e spigolose sono un
supplizio per i miei nervi."
"Sono soltanto rocce", commentò distrattamente Asako.
"No, non si tratta di semplici rocce. Le hanno raggrup-
pate e usate per esprimere qualcosa. Forse perché non mi
sfiora neanche la mente la possibilità di creare bellezza
allineando rocce sulla terra e non so comprendere l'estetica
dei giardini, questi allineamenti di rocce, densi di significato,
mi danno un senso di soffocamento. è l'impressione che mi
suscitano tutti i giardini con rocce, non soltanto questo, che
però è forse un po' più complicato dell'usuale."
"Non sarà perché le osserva troppo da vicino?"
Natsuji si volse verso Asako:
"Appena sono salito su questo ponticello e ho visto i
gruppi di rocce qui intorno ho subito pensato che non sono
il tipo adatto a questo paesaggio. Chissà chi starebbe
bene su questo ponticello, accanto alle rocce".
"I principi di Katsura."
"Persone di quell'epoca? Io invece vorrei contemplare lei su
questo ponticello."
"Oh!" Asako arrossì e si pose alle spalle di Natsuji come
per nascondersi.
"Lo penso veramente", insistette il giovane.
"Perché? Mi vergogno."
"Poi mi è venuto in mente che questa non è una semplice pietra."
"Come?"
"Prima le ho parlato del ponte, ricorda? Il ponte che esisterebbe
tra mio fratello e sua sorella."
"Sì. "
"Quello è un ponte senza forma, un ponte spirituale, questo un
ponticello di pietra, immobile da tre secoli, un ponte di bellezza.
Se esistesse anche tra due anime..."
"Un ponte di pietra fra le anime? Meglio allora un arcobaleno. "
"Sì, è possibile che il ponte che unisce due anime sia
simile a un arcobaleno"
"Chissà. Forse è davvero un ponticello di pietra come questo."
"Certo, perché è stato costruito per creare bellezza, è
un'espressione artistica."
"Sì, e poi il signore di Katsura, il principe Tomohito,
era un appassionato lettore del Genji Monogatari
(Scritto da una dama di corte, Murasaki Shikibu, nell'11esimo secolo,
il Racconto di Genji è considerato il più alto esempio di romanzo epico
in prosa dell'antica cultura giapponese. A esso, tutta la letteratura
giapponese fino a oggi ha fatto riferimento, come a un testo
fondamentale. (N.d.T.)
e pare ne abbia tratto ispirazione per progettare questo giardino.
La zona intorno al padiglione dell'Arpa dei Pini
riprodurrebbe la baia di Akashi..."
"Ma non le somiglia. Con tutte quelle rocce bizzarre!"
"L'ho letto nella guida. Inoltre il ponte del Cielo sarebbe
stato creato sul modello dell'omonima località del
Tango, provincia natale della sposa del principe Tomohito."
Natsuji attraversò il ponticello di pietra guardando il
lembo di terra chiamato ponte del Cielo.
Salirono sulla vasta veranda del padiglione dell'Arpa dei Pini.
Si sedettero e contemplarono a lungo le rocce vicino al ponticello.
Poi si accomodarono nell'adiacente saletta per il tè.
Entrarono quindi nella "seconda camera" e poi nella "prima".
In questa tutto, dal tokonoma ai fusuma che la separa-
vano dalla "seconda camera" era ricoperto di carta di gelso
a scacchi verdi e bianchi: una famosa, ardita idea,
sgargiante ed eccentrica in un ambiente così sobrio. Poi
uscirono su una sorta di veranda coperta sporgente, ove
erano installate le mensole del mizuya
(Angolo del padiglione per il tè dove la bevanda viene preparata
e dove vengono riposti le tazze e le altre stoviglie. (N.d.T.)
e il focolare per il bollitore del tè, e si sedettero in silenzio.
Il laghetto estendendosi a destra e a sinistra del padi-
glione dell'Arpa dei Pini formava due anse che, contem-
plate dalla veranda, parevano diverse.
A destra risaltava soprattutto la disposizione delle rocce
accanto al ponticello: la loro severità attraeva l'atten-
zione più della distesa d'acqua; a sinistra invece l'ampiezza
del laghetto era accentuata dall'assenza di rocce
vistose e se ne scorgevano le profonde acque stagnanti
accanto alla valle delle Lucciole.
Natsuji si domandò perplesso se quei gruppi di rocce
disposte con estrema sensibilità avessero anche la funzione
di ridurre, con un'illusione ottica, l'estensione del paesaggio.
"Stare qui suscita un'impressione strana, non le pare?" disse.
Asako evitò il suo sguardo fissando la riva opposta.
A destra e a sinistra di un'alta cryptomeria sorgevano
il padiglione delle Onde di Luna e l'antico shoin.
I rami della cryptomeria erano secchi ma nella siepe di
fronte al padiglione delle Onde di Luna spuntavano tenere foglie.
2.
Tornata a Tokyo, Asako s'accorse che l'impressione suscitata
in lei dalla villa di Katsura si era ancor più rafforzata.
Anche perché ne aveva discusso con il padre che le
aveva spiegato quali elementi fossero maggiormente da ammirare.
Aveva tolto dalla libreria paterna i testi e le fotografie
della villa di Katsura e li aveva accumulati sulla sua scrivania.
Li esaminò coscienziosamente.
Era una sua caratteristica. Se avesse visitato il tempio
Horyuji avrebbe in seguito avidamente consultato tutti i
libri disponibili sull'argomento. Così era per la musica.
Tornata da un concerto dopo aver udito musica di Mozart
avrebbe voluto apprendere tutto ciò che v'era da conoscere
su quel compositore.
Momoko la canzonava: "Dovresti pensarci prima. è inutile
informarsi dopo. Probabilmente incaricheresti qualcuno di
investigare sul tuo ragazzo soltanto dopo averlo sposato".
Invece il padre apprezzava quella singolarità del carattere
della figlia, attribuendo a ciò anche la sorprendente
abilità con cui riusciva a cucinare piatti identici a quelli
gustati al ristorante.
Tale abitudine induceva Asako quel giorno a leggere libri
sulla villa di Katsura.
Momoko la osservava con perplessità.
Asako le mostrò una fotografia della "prima camera",
del "nuovo shoin" e le raccontò:
"Mi sono seduta per qualche attimo nella zona superiore".
"Ah sì? Anche Natsuji?"
Asako notò il tono ironico della voce.
"No, lui non è entrato. Io mi sono seduta qui, con le
ginocchia sotto l'asse della finestra, ad ammirare il panorama."
La "zona superiore" era la parte rialzata della camera
che occupava un terzo della sua superficie, sormontata da
un soffitto a cassettoni. Alla parete interna erano fissate
le famose mensole di Katsura.
"La zona superiore sembra un prolungamento del tokonoma", spiegò Asako.
Nel padiglione adiacente allo shoin, dove era seduta
Asako, un'asse fissata in basso adempiva forse alla funzione
di scrivania. Accanto, in basso, si apriva una finestrina
che d'estate veniva spalancata per rinfrescare le ginocchia.
Asako si era seduta davanti a quella sorta di tavolino,
aveva aperto gli shoji e Natsuji, da fuori, le aveva spalancato
quelli del corridoio.
La finestra si apriva su una profusione di tenero fogliame.
Tra gli alberi, piuttosto distanti dalla finestra, v'era
spazio e luce.
"Non fa un effetto strano guardare questa fotografia
e pensare che ero seduta accanto a questa finestra?" domandò
Asako alla sorella.
"Sì", rispose distrattamente Momoko. "Ma qui non compari. "
"Certo che no!" rise Asako. "Avresti dovuto esserci anche tu."
Momoko era insolitamente seduta alla macchina da cucire.
Asako si alzò e guardando la fotografia deposta sulla
macchina da cucire disse:
"Anche nella villa di Katsura non abbiamo parlato che di te".
"Di me?"
"Sì, e di suo fratello."
"Davvero?" disse freddamente Momoko. "Già, è probabile,
anche se non mi piace l'idea."
"Non abbiamo detto nulla di spiacevole. Non una malignità su di voi."
"è proprio quello che mi dà fastidio. Tu, da affettuosa
sorella, mi avrai di sicuro lodata."
"Sei terribile!"
"Anche Natsuji avrà parlato bene di suo fratello, immagino."
"Sì. "
"Siete liberi di dire quel che vi pare ma sbagliate se
credete che i vostri discorsi abbiano colto la verità."
"Non ho parlato di te come se sapessi tutto. Ho dei dubbi."
Momoko premette con violenza il pedale. Stava cucendo la
manica di un vestito di cotone e ne gettò i lembi
sulla fotografia.
"Se proprio volete parlare di me, fatelo almeno con indifferenza,
come se fossi un'estranea. Non mi garba che discorriate di me con
compassione, come se riusciste a comprendermi. "
Asako fissava in silenzio le mani della sorella che si
muovevano sul lavoro di cucito.
"Quello che pensate di aver capito è soltanto frutto della vostra
immaginazione." Momoko premette il tessuto con dita tremanti.
"Io posso soltanto supporre quello che vi sarete detti,
ma è ovvio che tu avrai usato il tono affettuoso con cui
mi parli di papà."
"Sorella! "
"Parlerò finché ti metterai a piangere... Non c'è nulla
di male a essere gentile, ma a volte le donne si adagiano
nella loro gentilezza. Una gentilezza rivolta fondamentalmente
a se stesse. Anche se tu tenti sempre di consolare
e di aiutare papà e me..."
"Aiutarvi?... Non ho mai pensato..."
"Ma papà è stato aiutato da te... Lui è docile, anche
se è strano usare questo termine per definire un padre."
"Sì."
"Io sono contorta. Papà invece ha un animo schietto,
perciò qualsiasi uomo ti volesse sposare gli sembrerebbe
uno squallido individuo."
Asako appariva turbata.
"Un simile padre non sa lasciar maturare i sentimenti
di una figlia. Ma mi domando se sia giusto che tu trascorra
la tua vita sola con papà, a cullarti in un mare di tenerezza.
Tra poco capirai anche tu che più una donna possiede un
animo gentile più soffre e si rattrista." Momoko interruppe
il lavoro. "Pensi che ti parli così perché sono gelosa?"
Asako scosse la testa.
Momoko azionò di nuovo la macchina per cucire.
"In realtà io sono terribilmente gelosa. Non so che abbiate
detto di me e di Keita nel giardino della villa di
Katsura, ma io sono ormai convinta che invece di lasciar
morire in guerra Keita avrei fatto meglio a ucciderlo io."
Asako credette che ciò che la sorella aveva appena detto fosse
un'espressione d'amore nei confronti di Keita, ma Momoko precisò:
"Non perché io lo ami ancora. Per odio".
Asako non osò obiettare.
"Anche mia madre avrebbe dovuto uccidere papà invece di suicidarsi.
Che senso ha porre fine alla propria vita perché ci viene
negato il matrimonio? Basta uccidere il proprio amante.
Imparalo anche tu, Asako."
"Che ti sta succedendo, sorella?"
"Se mia madre avesse ucciso papà tu non saresti al mondo.
Né saresti nata se si fossero sposati. Strano, vero?"
Asako era spaventata.
Era logico che se la madre di Momoko non si fosse uccisa e
il padre non avesse sposato la madre di Asako lei
non sarebbe nata, ma non capiva perché la sorella gliene
parlasse e ne era intimorita.
Aveva forse sputato la freccia avvelenata dall'odio e
dalle maledizioni covata in petto da lungo tempo.
Asako si sentì respinta, come gettata a terra e il suo
animo si raggelò.
Non riusciva minimamente a capire perché Momoko
s'irritasse in quel modo al pensiero che la sorella e Natsuji
avessero parlato di lei.
Si scostò da Momoko e si sedette sul letto.
Dividevano una camera al piano superiore, larga dieci
tatami, fornita di specchio e di macchina per cucire.
"Buon riposo, Asako. Ti do fastidio?" domandò Momoko.
"Cucio l'altra manica e ho finito."
Asako appoggiò lentamente una mano al letto.
"Hai intenzione di invitare qui Natsuji domenica prossima, vero?
Perché a Kyoto è stato gentile. Ma io non ci sarò.
L'idea non mi va. Mi vergogno. A casa del signor
Aoki ho saputo che papà gli ha confidato che abbiamo
una sorella a Kyoto... A noi invece papà non ha detto
nulla. Non ne ha parlato neppure con te vero?" domandò
Momoko, ma senza attendere la risposta della sorella
continuò a premere il pedale e aggiunse: "Quando l'ho
saputo mi sono pentita di essere andata a Kyoto. Ognuno
di noi tre agiva liberamente, divisi anche nell'animo. Papà
non ti ha detto, vero, che ti ha lodato di fronte a
un amico raccontando che ti occupi affettuosamente
non soltanto di lui e di me, ma anche della sorella che
vive a Kyoto? Non desidero incontrare Natsuji in questa casa.
Potrebbe sembrare un'espressione di sollecitudine verso papà,
e invece è soltanto gelosia. La gelosia è il sentimento
più immediato. Potrei dubitare dell'amore, ma mai della gelosia",
concluse bruscamente Momoko.
Sebbene provasse un'acuta fitta di dolore, ad Asako
parve di intravedere un barlume che le consentiva di
comprendere in parte i sentimenti della sorella. Indossò
la camicia da notte e si sdraiò.
Chiuse gli occhi e ricordò le malevole frasi di Momoko.
Ma non versò una lacrima.
"Buona notte", disse.
Momoko l'aveva rimproverata perché tentava di aiutare
padre e sorella. Asako dubitava che fosse una colpa.
Quando ebbe finito di cucire l'attaccatura della manica,
Momoko si avvicinò al letto di Asako e rimase immobile
per qualche secondo.
Asako indugiava ad aprire gli occhi in attesa che la
sorella parlasse, ma Momoko rimase in silenzio.
Scese al piano inferiore a prendere una bottiglia di liquore del padre.
Poi risalì, trasse dal suo armadio la tazza d'argento e
si versò un poco di liquore. Stava per bere ma, quasi se
ne fosse ricordata all'improvviso, volle prima spegnere la luce.
Nell'attimo in cui la camera si oscurò, Asako scoppiò
a piangere, singhiozzando.
"Sei sveglia, eh?" commentò Momoko, "quando ti comporti
così sei odiosa."
"Sorella, perché mi tormenti?"
"Perché sono gelosa, non c'è dubbio..."
Momoko bevve il liquore al buio, bisbigliando:
"Un goccetto, come sonnifero..."
3.
Il giorno in cui arrivò Natsuji, Momoko, come aveva detto
alla sorella, fuggì a Hakone con Takemiya, il ragazzino.
Salirono su un autobus turistico che collegava Tokyo a Hakone.
Momoko chiuse gli occhi e appena furono usciti da Yokosuka
ebbe l'impressione che dal finestrino entrasse il
profumo dei campi di grano.
"Sono i filari di pini del Tokaido, vero?" domandò il ragazzo.
Il sole di mezzogiorno penetrava nell'autobus e le ombre
dei pini ondeggiavano sulle guance del ragazzo.
Momoko riaprì gli occhi:
"Non parlare come una fanciulla".
"Ricordi, sorella maggiore, quando dicesti che avevo
una voce femminile e mi obbligasti a cantare con te?"
"Sì, sul lago dei Giunchi, in un giorno nevoso."
"Una neve abbondantissima."
"Prima che nevicasse abbiamo attraversato il lago in barca, come pazzi."
"A me è piaciuto. è stato bello anche quando l'autobus si è
bloccato proprio in cima alla montagna, tra la neve."
Il ragazzino prese la mano di Momoko, la appoggiò al
suo ginocchio e le sfiorò la palma con le dita.
"è fredda. Hai le mani calde d'inverno e fresche d'estate. Una meraviglia."
"Davvero?"
Momoko intuì che tenendole la mano il ragazzo immaginava le
sensazioni suscitate in lui da un'altra parte d'epidermide.
"Sono tutte così le donne?"
Il ragazzo era seduto vicino al finestrino. Grossi tronchi
di pino sfilavano oltre i vetri.
Non essendo un giorno festivo l'autobus era semivuoto.
Nell'attraversare il fiume al "Guado dei cavalli" videro
stormi di uccelli cinguettare intorno al ponte di ferro
su cui transitavano i treni.
Oltrepassata Yumoto e giunti alla montagna di Hakone,
Momoko tolse una collana d'oro dalla borsetta e la indossò.
Pendeva fino a sfiorarle il delicato rigonfiamento di una costola.
Momoko non conversava; si limitava a rispondere
distrattamente alle domande di Takemiya.
Scesero dall'autobus nella città di Hakone e si fermarono
nell'albergo di fronte.
Avevano pensato di trascorrervi la notte, ma invece di
chiedere una camera, Momoko entrò nel salone e si sedette
accanto alla finestra.
"Che facciamo? Attraversiamo il lago?"
"Come preferisci, sorella maggiore... l'autobus ti ha stancata, vero?"
"è proprio perché sono stanca che voglio proseguire.
è una bella seccatura che stiano facendo dei lavori proprio
nell'albergo in cui intendiamo fermarci."
Nel giardino prospiciente il lago erano iniziati i lavori
di ampliamento dell'edificio. Avevano scavato in profondità
per costruire le fondamenta. A Momoko pareva piacevole
l'idea di essere ridestata il mattino seguente dai
rumori dei muratori che preparavano il cemento armato.
Decisero tuttavia di salire sul battello delle due del
pomeriggio per raggiungere la sponda estrema del lago.
Avevano tempo, pranzarono in albergo.
I sedili sul ponte del battello erano occupati da un folto
gruppo di gitanti saliti a Motohakone.
Takemiya disse che sulla sponda destra si scorgeva l'albergo montano.
"Chissà che tenero verde anche intorno a quell'albergo!"
"Ne hai già veduto tanto a Kyoto. Ricordi le foglie e
i fiori delle pasanie sulle colline Higashiyama?"
"No. Guardavo soltanto te, sorella maggiore."
"Sei abile a mentire. Ricordo di averti insegnato a distinguere
il profumo delle pasanie da quello dei fiori di castagno."
"Anche adesso non sto affatto guardando il lago."
Sulla superficie delle acque brillavano piccole onde.
Ma osservando attentamente si notava che, forse perché
il battello procedeva nella direzione del sole pomeridiano,
le onde sulla scia rilucevano, mentre l'acqua solcata
dalla prora era di un blu intenso.
Le basse onde lucenti si allargavano fino alle lontane
rive meridionali simili a guizzi di luce. Soltanto la cima
del Fuji verso cui procedeva il battello era celata anche
quel giorno da candide nuvole.
L'autobus che collegava la riva del lago dei Giunchi
con il monte delle Nuvole Veloci fu subito gremito di
passeggeri scesi dal battello e Momoko, pur essendo riuscita
a sedersi, non poteva neppure alzare la testa senza
urtare chi le stava in piedi accanto.
Quando l'autobus giunse al cratere della valle della
Grande Eruzione compì un largo giro e Momoko riuscì
finalmente a voltare la testa e a guardare il lago. L'autobus
nella sua corsa pareva sfiorare i rami del fitto bosco.
Takemiya protese un braccio dal finestrino e strappò fiori
ed erbe dal lungo stelo.
Dal ponte delle Nuvole Veloci scesero in funivia a Gora.
Il ragazzo depose il mazzo di fiori ed erbe sul tavolino
della camera d'albergo.
"Sorella maggiore", mormorò afferrando la collana di
Momoko e tirandola energicamente.
"Mi fai male! "
"Ti sei dimenticata di me, vero?"
Momoko tentò di slacciare il fermaglio della collana.
"No, tienila. Non la tirerò più. Tienila. Ti sta bene."
"Davvero? Va bene, come vuoi, piccolo Miya", disse Momoko, delusa nel
constatare che il ragazzo era attratto dalla collana.
Continuò tuttavia a portarla, anche durante il bagno
nella piscina termale e a letto.
Appena si furono coricati il ragazzo afferrò con i denti
la collana, scuotendola.
"è un bel giochino per te, vero piccolo Miya?"
Allora il ragazzo, ancora con la collana tra i denti, premette
il volto sul collo di Momoko e pianse.
Momoko provò solo solletico.
"Basta con le recite! è squallido..."
"Tu mi abbandonerai!"
"Di nuovo con questa storia! Di' piuttosto che ci separeremo..."
"è lo stesso. Non sono vanitoso e non m'importa di
salvare la faccia."
"Comunque tu sei malato, povero Miya. Sarebbe un peccato separarci."
"Lo so. Sono malato e squallido. Ecco perché ti ucciderò!"
"Va bene. Uccidimi."
Le labbra del ragazzo sul petto le rievocarono l'immagine
della tazza d'argento.
Da quando il padre di Keita gliela aveva donata aveva provato
più volte a infilarvi il seno. Inutilmente.