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Yasunari Kawabata

ARCOBALENI

VERSIONE ELETTRONICA - PER I NON VEDENTI - CURATA DA AMEDEO MARCHINI

ARCOBALENI D'INVERNO.
1.
Asako vide un arcobaleno formarsi sulla sponda opposta
del lago Biwa.
Il treno aveva superato Hikone e stava avvicinandosi
a Maibara. Come sovente accade a fine d'anno, era semivuoto.
Quando si era formato l'arcobaleno? Intenta a con-
templare la superficie del lago dal finestrino, Asako aveva
l'impressione che fosse apparso all'improvviso.
Anche l'uomo seduto di fronte si accorse dell'arcobaleno.
"Chiiko, Chiiko, guarda l'arcobaleno! L'arcobaleno!"
esclamò sollevando verso il finestrino la bambina che
aveva in braccio.
Da Kyoto, Asako era seduta in uno scompartimento a
quattro posti davanti a quell'uomo. L'uomo viaggiava
con una neonata. Erano dunque in tre.
Asako era seduta vicino al finestrino. L'uomo accanto
al corridoio. Usciti dal tunnel di Higashiyama, egli aveva
adagiato la bambina sul sedile, in modo che appoggiasse
la testa sulle sue ginocchia come su un cuscino.
"Troppo alto", mormorò piegando il cappotto.
Asako si domandò se sarebbe riuscito a trasformarlo in
un materassino, ma l'uomo lo piegò con abilità e lo pose
sotto la bambina in modo che la testa riposasse più como-
damente sulle sue ginocchia. La lattante era avvolta in
una morbida copertina di lana a motivi floreali. Agitava
le braccia e guardava il padre.
Prima ancora di salire sul treno Asako aveva constatato
che l'uomo viaggiava solo con la bambina. Gli si era seduta
di fronte immaginando che avrebbe finito con l'aiutarlo.
L'uomo, continuando a tenere in braccio la bambina e
a mostrarle l'arcobaleno, si volse verso Asako:
"D'inverno gli arcobaleni sono rari".
"Ah sì?"
Le aveva rivolto la parola all'improvviso e Asako provava imbarazzo.
"No, non è vero. Non sono così rari", si corresse l'uomo.
"Siamo già a Maibara. Una volta, sulla linea per lo
Hokuriku, dopo Maibara - compivo il percorso contra-
rio: da Kanazawa a Maibara e quindi a Kyoto - vidi dal
finestrino numerosi arcobaleni. Sulla linea dello Hokuri-
ku non sono rari. E tutti piccoli e graziosi. All'uscita di
un tunnel apparve un piccolo arcobaleno su una collina,
poi si scorse il mare e un altro arcobaleno dalla collina al-
la spiaggia. Fu tre o quattro anni fa, non ricordo in che
mese ma era inverno, faceva freddo e a Kanazawa cadeva
una neve polverosa. "
Asako si domandò se anche allora l'uomo avesse viag-
giato con la bambina in braccio. Ma tre o quattro anni
prima lei non era ancora nata. Provò l'impulso di ridere.
"Quando si vede un arcobaleno si ha l'impressione di
essere tra la primavera e l'estate."
"Sì, tutti quei colori non sono invernali."
"Va a Kanazawa?"
"Oggi?"
"Si."
"No, torno a Tokyo."
La bambina premette le manine sui vetri del finestrino.
"Riuscirà a distinguere l'arcobaleno? Non sarà inutile
mostrarglielo?" domandò Asako. Era un dubbio che
l'assillava da qualche minuto.
"Mah, chissà", rifletté l'uomo, "è difficile che lo
distingua, anzi, impossibile. "
"Ma lo vede, no?"
"Si, lo vede. Ma ai neonati non interessa ciò che è lontano,
né se ne preoccupano. Non ne hanno bisogno. E poi non
sono ancora dotati del senso della distanza, né
temporale né spaziale. "
"Quanto tempo ha?"
"Nove mesi esatti", rispose con orgoglio l'uomo, e voltò
di nuovo la bambina verso di sé. "A Chiiko è inutile
mostrare l'arcobaleno. La signorina mi ha sgridato."
"Sgridato? No, non intendevo... Penso invece che la
bambina sia felice di viaggiare fin da piccola con un padre
che le mostra l'arcobaleno. "
"Ma non lo ricorderà."
"Glielo ricorderà lei."
"Sì. Glielo ricorderò io. Quando sarà più grande, la
bambina dovrà viaggiare spesso su questo percorso."
La bambina guardava Asako e sorrideva.
"Ma chissà se le capiterà ancora di vedere un arcobaleno
sul lago Biwa!" Quindi l'uomo soggiunse: "Lei prima
ha pronunciato la parola 'felice'. L'anno sta per finire e
per noi adulti l'arcobaleno è un auspicio di felicità. Forse
ci attende un anno fortunato".
Asako era della medesima opinione.
Da quando aveva veduto l'arcobaleno si sentiva l'animo
attratto verso la sponda opposta del lago. Sarebbe
stato meraviglioso visitare da riva il paese degli arcobaleni.
O, più realisticamente, viaggiare lungo la riva che ne
ospitava uno in quel momento. Asako compiva sovente
in treno quel percorso ma non aveva mai fantasticato sulla
sponda opposta del lago Biwa. Di tutti i viaggiatori che
percorrevano la linea Tokaido, soltanto un numero esi-
guo visitava la sponda opposta.
Ad Asako sembrava persino che il treno procedesse in
direzione della sponda su cui si delineava l'arcobaleno.
"Su queste rive si susseguono campi di colza e di astra-
gali. Un arcobaleno a primavera sui campi fioriti darà
una sensazione di felicità", disse l'uomo.
"Dev'essere veramente una cosa meravigliosa", convenne Asako.
"Invece in inverno l'arcobaleno è un po' sinistro. Come
un fiore tropicale spuntato in un paese freddo, o gli
amori di un re spodestato. Forse perché questo arcobale-
no e tronco e non delinea un arco completo..."
Come aveva notato l'uomo, l'arcobaleno appariva in-
terrotto. Se ne scorgeva un'estremità, mentre il culmine
era celato dalle nuvole.
Nel cielo, nuvole foriere di neve stagnavano a ombreg-
giare il lago. Gravavano anche sulla riva opposta e si
spezzavano in basso lasciando riquadri di luce, da cui fil-
travano, posandosi sull'acqua, deboli raggi di sole.
L'arcobaleno si delineava soltanto in quei riquadri di luce.
Si ergeva quasi perpendicolarmente Era soltanto
un'estremità. Se avesse tracciato un arco intero sarebbe
parso enorme. L'estremità opposta doveva essere molto
lontana. Naturalmente era invisibile. Troncato così, pa-
reva sospeso in cielo, senza limiti. Fissandolo attenta-
mente si aveva l'impressione che emergesse dall'acqua,
ora vicino alla sponda più prossima, ora presso quella più
lontana. Non si capiva se la sua sommità fosse celata dal-
le nuvole o se le sovrastasse. Ma l'essere troncato gli con-
feriva una maggior vividezza.
Ad Asako sembrava che l'arcobaleno si protendesse
verso il cielo chiamando malinconicamente le nuvole. Più
lo fissava e più quell'impressione s'intensificava.
Le nuvole che si distendevano cupe nel cielo, sulla riva
opposta, più in basso, gravavano oscure e immobili,
pronte a turbinare.
L'arcobaleno scomparve prima che giungessero a Maibara.
L'uomo tolse una valigia dalla rete.
Pareva contenere soltanto indumenti della bambina.
Pile di pannolini ordinatamente piegati e una vestina rosa.
Sembrava che l'uomo avesse intenzione di cambiare il
pannolino alla bambina.
"Vuole che... " Asako si chinò verso di lui. Stava ag-
giungendo "l'aiuti?", ma quell'espressione le parve strana
e non riuscì a pronunziarla.
"No, non sono cose da signorine..." rifiutò l'uomo senza neppure voltarsi.
Sistemò un giornale sul radiatore e vi depose il pannolino pulito.
"Oh!" esclamò con ammirazione Asako.
"Come vede sono abituato", disse l'uomo ridendo.
"L'ha mai fatto, lei?"
"No, ma me lo hanno insegnato a scuola."
"A scuola?... già, è possibile."
"Ne sarei capace. Dopo tutto sono una donna. Mi è
bastato osservare per capire come si fa."
"Immagino. E tra non molto sarà costretta a farlo fino
alla nausea!"
L'uomo sfiorò il pannolino adagiato sul radiatore.
Asako notò la targhetta incollata sulla valigia. V'era
scritto un cognome: Otani.
I gesti del signor Otani erano molto esperti. Deterse
delicatamente tre o quattro volte l'interno delle gambe
della bambina. La pelle era lievemente arrossata. Asako
distolse lo sguardo. Otani appallottolò il pannolino usato,
sollevò le natiche della neonata e sotto vi sistemò
quello nuovo. Allacciò quindi il bottone della mutandina.
"Che bravo!" commentò un viaggiatore dallo scompartimento accanto.
Aveva attratto la curiosità di tutti i passeggeri in grado
di scorgerlo dai loro posti.
Otani avvolse la bambina nella copertina, infilò i pan-
nolini in un sacchetto di gomma e tolse una sorta di volu-
minoso beauty-case da un angolo della valigia. Conteneva
una scatola di latta con thermos e un poppatoio graduato.
Nella valigia vi erano tre scomparti. Da un lato l'oc-
corrente per nutrire la bambina, in mezzo i pannolini pu-
liti e gli indumenti di ricambio, dall'altro lato alcuni sac-
chetti di gomma.
Ormai Asako provava più pietà che ammirazione.
Tuttavia sorrise osservando la bambina che beveva il latte.
"Mi dispiace di averle mostrato cose vergognose", disse Otani.
Asako si affrettò a scrollare la testa.
"Niente affatto. Sto pensando che lei è molto bravo."
"La mamma della bambina vive a Kyoto."
Erano dunque divisi? Asako non poteva sfiorare un
argomento così personale.
Era un uomo di circa trent'anni, con folte sopracciglia,
un mento che, seppur rasato, lasciava intuire la rudezza
della barba, e un viso in cui un tenue pallore si diffondeva
dalla fronte alle orecchie. Aveva un aspetto pulito e ordinato.
Lunghi peli spiccavano sulle dita che stringevano la bambina.
Dopo che la neonata ebbe finito il latte, Asako le offrì
un candito alla prugna.
"Può mangiarlo la bambina?"
"Sì, grazie."
Otani prese il candito e lo accostò alle labbra della bambina.
"è un 'ciottolo' di Kyoto, vero?"
"Sì. Un nome che ricorda i 'ciottoli' dell'inno nazionale.
(Il testo dell'inno nazionale giapponese, risalente al decimo secolo,
recita: "Che la vostra epoca durare possa mille, ottomila generazioni,
finché i ciottoli divengano rocce coperte di muschio". (N.d.T.)
Asako attendeva che la guancia della bambina si gonfiasse.
Ma non accadde. Aveva forse inghiottito il candito
tutto intero? Asako rabbrividì, ma subito si rassicurò.
"Le auguro buon anno", disse Otani ad Asako al momento
di scendere alla stazione di Tokyo.
Sebbene fosse un saluto normale a fine d'anno, le parve
una frase particolarmente simpatica.
"Grazie", rispose, "felice anno anche a lei e alla bambina. "
Nella mente di Asako era apparsa l'immagine dell'arcobaleno sul lago Biwa.
Naturalmente si separò senza alcuna difficoltà da quell'uomo
che le era estraneo.
Tornata a casa salutò la sorella maggiore e le domandò
subito:
"Papà?"
Momoko, la sorella, rispose:
"è fuori. Naturale che esca, no?"
Asako si sedette mollemente accanto al braciere e slacciandosi
i bottoni del cappotto fissò la sorella.
"Esci anche tu?"
"Sì."
"Davvero?... "
Asako si alzò di scatto e andò in corridoio.
"Papà non c'è. Inutile curiosare in camera sua. Ti dico
che non c'è!"
"Sì, però..." mormorò Asako.
Accese la luce in camera del padre e aprì gli shoji.
(I Pannelli di legno e carta di riso che separano tra loro gli ambienti
della casa giapponese. Sono scorrevoli, ed è dunque possibile, tra-
mite loro, modificare la disposizione dei locali. (N.d.T.)
"Candide camelie che a Iga si rannicchiano... " recitò
fra sé e sé contemplando i fiori del tokonoma.
(Sorta di nicchia nella parete in cui viene esposto un dipinto, un
vaso di fiori o un altro oggetto decorativo. (N.d.T.)
Si avvicinò e notò che vi era appeso il medesimo rotolo dipinto
di quando era partita per Kyoto. Soltanto i fiori erano cambiati.
Osservò per un attimo la scrivania del padre. Poi usci dalla camera.
La tristezza di quella camera vuota le era, tuttavia, di conforto.
Tornata in salotto vide che la cameriera stava già
sparecchiando la tavola.
La sorella aveva cenato da sola.
Momoko alzò lo sguardo su Asako e domandò:
"Hai perquisito la camera?"
"Perquisito?"
"Ti disturba l'idea di non trovare al ritorno da un viaggio
la famiglia al completo, vero?" commentò serenamente
Momoko. "Va' a cambiarti. La vasca è pronta."
"Sì..."
"Come sei incantata! Che hai? Sei stanca?"
"No, il treno era semivuoto. è stato un viaggio piacevole."
"Su, siediti", l'invitò Momoko ridendo e offrendole un tè.
"Non potevi informarci del tuo arrivo con un tele-
gramma? Forse papà sarebbe rimasto in casa ad attenderti!"
Asako si sedette in silenzio.
"è uscito alle quattro. In questo periodo rincasa tardi", aggiunse Momoko.
"Oh, sorella maggiore! Hai raccolto i capelli in alto! Fammi vedere!"
"No! No!" Momoko si nascose la nuca con le mani.
"Su, lasciami vedere."
"No."
"Perché? Da quando ti pettini così? Vòltati da quella
parte e lasciami vedere." Così dicendo Asako avanzò in
ginocchio verso la schiena della sorella. Quindi le pose
una mano sulla spalla.
"No, mi vergogno."
Momoko era arrossita fino al collo. Forse accorgendosi
di mostrare eccessivo pudore, rimase immobile, rassegnata.
"Sono buffa. Mi sta male perché ho il collo troppo corto."
"No, questa pettinatura ti dona. Sei graziosa."
"Macché graziosa!" Momoko irrigidì le spalle.
Il suo ragazzo era solito sollevarle i capelli e baciarla
sulla nuca. Quel giorno li aveva raccolti in alto per rendergli
quell'atto più facile. Egli, d'altronde, l'aveva appreso da lei,
che aveva l'abitudine di baciargli la nuca.
Era questo il motivo dell'inconscio pudore di Momoko.
Ma la sorella minore non poteva sapere.
Raramente Asako aveva veduto la nuca della sorella.
Era davvero stretta ma ciò le conferiva un aspetto più
fresco e il collo sembrava più esile e lungo di quanto
apparisse visto davanti. La fossetta nel mezzo della nuca,
particolarmente accentuata, la caratterizzava come un'ombra tenue.
Asako sfiorò con le dita la nuca della sorella per sistemarle
alcuni capelli scompigliati.
"Oh!" esclamò Momoko rabbrividendo. "Che freddo!
Non toccarmi!"
Quei brividi assomigliavano ai trasalimenti di quando
le labbra del ragazzo si posavano su quel punto.
La sorella minore, meravigliata, ritrasse la mano.
Momoko, temendo di svelare il segreto di quella petti-
natura, indugiava, imbarazzata, a recarsi all'appunta-
mento con il ragazzo.
S'innervosì, e la sorella le parve odiosa.
"Asako, sei tornata da Kyoto perché vuoi parlare con papà, vero?"
le domandò volgendosi verso di lei. "Lo so. Inutile nasconderlo.
La visita all'amica era un pretesto, vero?"
"No, non era un pretesto."
"D'accordo. Non hai mentito. Sei anche andata a trovare l'amica.
Ma lo scopo era un altro." Asako chinò lo sguardo.
"Vuoi che te lo dica? Posso parlarne?" ripeté Momoko
mitigando all'improvviso l'asprezza del tono. "Hai trovato
la sorella che sei andata a cercare a Kyoto?"
Asako fissò Momoko con stupore.
"L'hai trovata?"
Asako scosse lievemente la testa.
"Davvero?" Momoko evitò lo sguardo intenso della sorella e
aggiunse: "è stata una fortuna non trovarla, ne sono convinta".
Parlava con impeto.
"Sorella maggiore!" Asako aveva le lacrime agli occhi.
"Dimmi, Asako."
"Papà non sa che sono andata a Kyoto per quello scopo. "
"Chissà... "
"Ne sono convinta."
"Mah, papà è dotato di molta intuizione, e se ho capito anch'io.."
"Ti ha detto qualcosa?"
"E perché avrebbe dovuto? Quanto sei sciocca!" Così
dicendo Momoko rivolse nuovamente lo sguardo al viso
della sorella. "Non piangere, non hai motivo di dolerti."
"Sì, ma pensavo che fosse meglio non informarlo.
Avrei dovuto parlargliene? Scusa se ho taciuto anche con te."
"Non importa che tu abbia evitato di parlarne con papà.
La questione è se sia un bene o un male andare alla
ricerca di una nostra sorella, non ti pare?"
Asako continuava a fissare Momoko senza rispondere.
"Per amore di chi sei andata a Kyoto? Per papà? Per
noi? Per tua madre? Per quella sorella?"
"Per nessuno in particolare."
"Allora forse perché ti senti moralmente responsabile?"
Asako scosse la testa.
"Va bene. Diciamo che è colpa del tuo sentimentalismo.
Sei andata a cercarla perché provi dell'affetto per
lei. Poco importa se non l'hai trovata, se non sei riuscita
a comunicarle il tuo amore. L'essenziale è che tu nutra
un simile sentimento per lei; questo è positivo per entrambe.
Se un giorno l'incontrerai, questo amore sboccerà. Ne sono persuasa."
"Sorella... "
"Lasciami finire... Ognuno però nuota a modo suo,
nello stagno più adatto ai suoi gusti; non so come reagi-
rebbe la ragazza di Kyoto a ciò che potrebbe sembrarle
un'inopportuna intromissione. 'I fratelli sono già degli
estranei' dice il proverbio. Lasciala vivere come le pare.
Mi raccomando, rifletti."
"Ma papà che ne penserà?"
"La profondità dell'essere umano è proporzionale alle
esperienze vissute e alla lontananza del tempo in cui il
suo animo si immerge. Può darsi che qualcosa in papà ci
sia incomprensibile. "
"Sono espressioni sue!"
"Sì, per sottrarsi alle situazioni scomode", rispose Momoko
ridacchiando. "Conoscere la storia e pensare al futuro
dell'umanità non significa forse raggiungere con l'animo
tempi per noi remoti?"
Asako annuì. Mentre parlava Momoko, ne osservava
l'espressione.
"Prima di morire tua madre era molto preoccupata per
quella nostra sorella di Kyoto. è per questo che sei andata
a cercarla, vero?"
Asako si turbò. La sorella aveva indovinato.
"Ma non si sa se fosse un sentimento autentico", ripre-
se Momoko. "Tua madre era una persona sinceramente
gentile e giusta e lo è certo stata anche verso una figlia
non sua. Ma forse pensava che dopo la sua morte la ragazza
di Kyoto avrebbe potuto essere accolta in casa e
preferiva essere lei ad avere l'iniziativa concedendo il suo
assenso. Può darsi che fosse questa la sua vera intenzione.
Che sciocca che sei stata ad andare a Kyoto solo per
far risaltare la bontà di tua madre!"
Asako singhiozzò nascondendosi il volto fra le mani.
"Con ciò, il discorso è finito... Io esco."
Le spalle di Asako sussultavano.
"Non piangere", le disse Momoko con tono severo.
"Come posso uscire se piangi così?"
"Sorella..."
"Devo andare. Mi spiace per te ma... Intanto fa' un bagno. "
"Sì..." Asako uscì di corsa dal salotto singhiozzando.
Continuò a piangere aggrappata all'orlo della vasca. Udì
sbattere la porta. Momoko era uscita.
Ad Asako spuntarono nuove calde lacrime.
D'un tratto ricordò un passo dal diario di sua madre,
la matrigna di Momoko. Vi era citata una frase del padre
a proposito di Momoko: "Momoko ha rapporti con un ragazzino
dopo l'altro, forse perché avrà avuto un'esperienza
negativa con il primo uomo che ha amato. O forse
perché a scuola ha stretto relazioni omosessuali. Che
manchi di femminilità?"
La madre aveva annotato che né lei, né il padre capivano
quale fosse la verità. Nel diario era riportata anche
un'altra frase del padre, forse scherzosa: "Al giorno d'oggi
sedurre i bei fanciulli è diventato facile".
"Un ragazzino dopo l'altro" era un'esagerazione dei
genitori, ma Asako aveva veduto la sorella in compagnia
di tre diversi giovanissimi amanti.
La paura e la vergogna suscitate in lei dal ricordo di
quel passo del diario materno posero fine alle sue lacrime.

2. TRACCE DI SOGNI.
1.
Ad Atami sono particolarmente numerose le ville di prin-
cipi, nobili e appartenenti a clan finanziari trasformate in
alberghi nel dopoguerra. Anche la Casa delle Camelie era
stata dimora di un principe, divenuto grande ammiraglio.
Giunti in prossimità della Casa delle Camelie, il padre
sporse l'indice dal finestrino dell'auto dicendo:
"Guarda: vedi quelle due ville che sembrano private,
con un'insegna d'albergo lì di fronte? Questa apparteneva
a un principe e quella a un marchese. Un marchese
discendente da principi imperiali. Pare che sia stato ferito
alla gamba durante la guerra; di recente ha subito un
processo ed è stato condannato ai lavori forzati".
Scesero dall'auto davanti al portale della Casa delle
Camelie. Il padre sostò qualche istante guardandosi intorno.
"Un tempo passeggiavo spesso lungo questa strada e
sbirciavo nel giardino del principe da questo portale,
sempre sprangato. Era proibito l'accesso."
Era la strada che conduceva a Kinomiya, a Baien e a Jikkokutoge.
Il sole tramontava sulle colline a destra, e tra le oscure
pinete si levava il fumo bianco delle cucine. Era l'unico
vivido movimento percettibile nella penombra.
"Su questa collina sorge la dimora del finanziere Fujishima.
Da qui non si nota, vero? Fu costruita in modo
da essere completamente nascosta dalla collina e invisibile
da ogni lato", spiegò il padre. "Si arriva alla villa attra-
verso un tunnel in fondo al quale pare vi fosse una spessa
porta di ferro. Si era in tempo di guerra... il proprietario
temeva possibili tumulti."
Anche la strada che percorrevano sembrava attraversa-
re la collina, sulle cui pendici si ergeva la Casa delle Ca-
melie. Veduto dalla strada l'edificio principale pareva di
due piani, invece dal giardino se ne scorgevano tre.
"Vi abbiamo riservato la 'casa di campagna', perché è
più tranquilla", annunciò l'impiegato dell'albergo, gui-
dandoli nel giardino lungo un sentiero lastricato che con-
duceva alla "casa di campagna".
"Che fiori sono?" domandò Asako sostando.
"Ciliegi, credo", rispose l'impiegato.
"Ciliegi? 'Ciliegi del freddo'? ... Mi sembrano diversi."
"Quest'anno i 'ciliegi del freddo' sono fioriti alla fine
di gennaio; ormai tutti i fiori sono caduti."
"Papà, che ciliegi sono?"
Il padre stava riflettendovi dal momento in cui Asako
li aveva notati.
"Non ne ricordo il nome, ma saranno di certo una varietà
di 'ciliegi del freddo'."
"Questi alberi prima mettono le foglie e poi i fiori",
spiegò l'impiegato, "i fiori sbocciano con le corolle già
appassite, volte verso il basso."
"Davvero? Somigliano alle aronie. "
Come aveva notato Asako, quei fiori d'un colore rosa in-
tenso sfumato di rosso, con le tenere corolle che sbocciava-
no raggruppate, ricordavano le aronie, anche nelle foglie.
Il tenue verde delle foglie sparse tra i fiori nella foschia
serale di febbraio ispirava un sentimento di tenerezza.
"Oh, guarda, ci sono delle anatre nel laghetto!" esclamò
Asako incuriosita.
"Nel laghetto artificiale del marchese Iga, nella villa
accanto, nuotavano anatre messicane. Chissà che fine
hanno fatto", ricordò il padre.
Sulla sponda opposta fiorivano i ciliegi. Sospeso in
parte tra le acque come un'isoletta sorgeva un padiglione,
la casa per il tè. L'impiegato raccontò che era stata co-
struita dal finanziere Narita, un ex barone.
"Se in questo momento non ci sono ospiti vorrei visi-
tarla", disse il padre.
Da architetto qual era, Tsuneo Mizuhara aveva assistito
nel dopoguerra, ora con interesse ora con emozione,
alla trasformazione in alberghi e ristoranti di molte case
appartenute a uomini ricchi e nobili.
A Zushi persino la villa del fratello minore dell'impe-
ratore era divenuta un albergo e a Odawara la dimora di
Yamagata, persona importante sia nel mondo della vec-
chia feudalità sia in quello militare, era stata trasformata
in albergo. Esempi simili erano innumerevoli.
Tuttavia quelle abitazioni private mal si adattavano a
mutarsi in alberghi e ristoranti, e Mizuhara era sovente
incaricato di ristrutturarle.
Anche la Casa delle Camelie, che comprendeva l'edifi-
cio principale, la "casa di campagna", e il padiglione per
il tè, poteva ospitare soltanto otto gruppi di persone, pur
disponendo di un vastissimo giardino.
La "casa di campagna" parve ad Asako molto strana
come alloggio destinato agli ospiti di un albergo termale.
"Che tranquillità! Sembra di essere in una casa di con-
tadini. è serena, intima."
"Si, in questa sobrietà ci si sente a proprio agio."
La casa era stata smontata, trasportata in quel luogo e
ricostruita con cura, in modo da non rivelare il raffinato artificio.
"Che sensazione di quiete e di naturalezza!" esclamò
Asako guardandosi intorno. "Oh, non c'è neppure il pannello
traforato tra la porta e il soffitto!"
Le due camere di otto e di sei tatami
(Stuoie di paglia che ricoprono interamente i pavimenti delle
stanze. Hanno dimensioni fisse, centimetri 180 x 90, e sono utilizzate come
misura di superficie. (N.d. T.)
erano divise da una porta di legno in cui era inserito uno shoji di circa
sessanta centimetri. Nella parete a sud e per metà anche
in quella a ovest v'erano altri shoji che giungevano all'al-
tezza dei fianchi, senza vetri. I legni, sia dell'intelaiatura
delle finestre sia del soffitto, erano uniformemente scuri
e fuligginosi. Quella tinta faceva apparire ancora più fioca
la luce della lampada da cento candele. Differivano
soltanto i legni del tokonoma. Anche i tatami erano a trama
più grezza e larga dell'usuale.
Appena ebbe indossato un kimono imbottito Mizuhara uscì
in giardino e andò a visitare il padiglione per il tè.
Asako non ebbe il tempo di cambiarsi.
Nel padiglione v'era una saletta per il tè di quattro tatami e
mezzo, un angolo con l'acquaio che pareva una cucina e un bagno.
"Ci si potrebbe vivere", commentò Mizuhara uscendone
subito per sostare sul ponticello, da cui levò lo sguardo
verso l'edificio principale. Era in stile occidentale.
La casa e il giardino non valevano gli sforzi che un
tempo Mizuhara aveva dedicato ai tentativi di vederli.
In un prato in fondo al giardino era sistemata una cuccia
con uno splendido cane.
"Ah, che magnifico esemplare di Akita!" esclamò
Mizuhara avvicinandosi e accarezzandogli la testa.
Il grosso animale sollevò le zampe anteriori e circondò
i fianchi dell'uomo. Doveva essere un comportamento abituale.
Aveva una pelliccia color guscio d'uovo alquanto rada,
ma i peli delle orecchie e della coda attorcigliata erano
scuri e marroni.
Mizuhara gli afferrò le orecchie, ne abbracciò il robu-
sto collo ed ebbe l'impressione che quella vivida bellezza
gli fluisse nel petto.
La città di Atami con le sue sconsolanti, squallide,
provvisorie costruzioni avrebbe dovuto vergognarsi di
fronte alla bellezza di quel cane.
"Guarda una dafne!" esclamò Asako. "Che profumo di
primavera! è già fiorita." Pareva che annusasse il profumo
della felicità. "La nandina sotto questo prugno rosso
è carica di gemme. Le foglie sono rosse. I prugni rossi
fioriscono tardi?"
"Sì, dopo che la maggior parte dei fiori di prugno bianchi è appassita."
"è un rosa molto intenso, con sfumature di carminio.
Il tipico colore dei fiori di prugno rossi."
Le donne abituate a rimanere a casa diventano gaie e
gioiose nei brevi viaggi che le sottraggono alla prigionia
domestica. Soprattutto sembrano apprezzare i viaggi con
i familiari perché si sentono più sicure. Mizuhara l'aveva
intuito osservando la moglie, e lo constatava notando le
reazioni della figlia.
Asako scoprì un limone pendere dal ramo di un alberello.
"Che grazioso!" sussurrò e lo trattenne delicatamente nel pugno.
Era un unico frutto, piccolo e ancora verde.
"Quanto visitai il giardino del marchese Iga, nella villa
accanto (non ricordo più che mese fosse), le mimose erano
tutte fiorite. Appena entrato vidi avanzare su un prato
dei pavoni bianchi, e due o tre anatre messicane sul
bordo del laghetto artificiale. Avevano freddo, parevano
poco vitali: doveva essere inverno. Ho detto 'laghetto',
ma sembrava una piscina termale all'aperto. Il marchese
vi allevava dei pesci-angelo. I pesci tropicali erano di moda.
Venduti anche nei grandi magazzini. Il marchese ave-
va provato a tenerli nelle acque termali: un esperimento
meravigliosamente riuscito. Erano diventati molto grossi.
Adesso le mimose non sono rare, ma io le vidi per la
prima volta nel giardino del marchese. Aveva questo genere
di gusti. Nella sala termale volavano molti piccoli
uccelli tropicali."
"Oh!"
"Amava la natura dei tropici. Il fondo su cui colavano
le acque termali era ricoperto da sassi del fiume delle
Amazzoni, che aveva importato unicamente a quello scopo."
Il padre s'incamminò verso la villa del marchese.
Asako sembrava perplessa.
"Il fiume delle Amazzoni?"
"Sì, il rio delle Amazzoni, in Brasile. Erano sassi rossi.
Immersi nell'acqua, si aveva quasi il timore di essere lor-
dati dagli escrementi degli uccelli tropicali. Accanto a
una parete crescevano varie piante tropicali, verdissime.
Mi sembra che nella piscina vi fossero anche piante fiori-
te. Una vetrata semitrasparente, che occupava tutto lo
spazio di una parete, si apriva sul giardino. L'ambiente
era molto luminoso, fin troppo imbarazzante per noi ti-
midi, contorti giapponesi. Difficile rimanere a lungo in
quell'acqua. Si aveva l'impressione di trovarsi tra i colori
primitivi dei tropici. Era un'ampia sala dall'alto soffitto,
con persino alcune sedie. Gli ospiti del marchese se ne
stavano nudi, si muovevano, si sdraiavano liberamente
ed entravano in acqua a rilassarsi. Altro che immergersi
intimiditi e pudibondi nella vasca e starsene curvi in acqua
come siamo abituati a fare noi giapponesi."
A destra dell'edificio principale della Casa delle Camelie
spiccava tra gli ultimi chiarori del crepuscolo la candida
villa del marchese.
"Prima era ancora più bianca e vistosa. Continuavano
a infastidirlo ripetendogli che la sua casa sarebbe stata un
ottimo bersaglio per i bombardieri perché si vedeva da
lontano. A ogni modo è una costruzione che dimostra il
carattere arrogante del marchese. Un'architettura da piccolo
tiranno o da grande ribelle. Tornato dall'occidente
fece svellere tutti gli alberi e togliere tutte le rocce per
trasformare il giardino in un prato. Era un giardino alla
giapponese voluto dai suoi antenati, forse con un gusto
non particolarmente raffinato, ma non meritava di essere
trasformato dal marchese in un parco in stile occidentale.
Demolì senza rimpianti anche la villa. Desiderava iniziare
una 'vita tropicale' ad Atami! La temperatura degli
ambienti era mantenuta costantemente sui ventun gradi,
che pare sia la temperatura ideale. A tale scopo faceva
scorrere l'acqua delle terme sotto i pavimenti e fra le pa-
reti, il che finì col provocare crepe. Non erano stati accu-
ratamente studiati i materiali da costruzione. Quando visitai
la villa fui oppresso da un caldo umido soffocante,
da sentirsi male".
"Ventun gradi?"
"Suppongo. Anche in pieno inverno il marchese se ne
stava con indosso solo la camicia a dettare a una dattilo-
grafa nippo-americana. Dettava direttamente in inglese
saggi da pubblicare su bollettini scientifici stranieri."
"Oh! Era uno studioso?"
"Uno zoologo. Si recava nelle zone tropicali a caccia di
animali selvaggi. Aveva visitato anche l'Egitto in aero-
plano. Era un nobile molto diverso dalla maggior parte
dei giapponesi. Più famoso all'estero che in patria. Un
uomo che aveva difficoltà a vivere nel nostro angusto,
umido Paese. Così si isolò in questa casa di tipo tropicale
in contrasto con l'ambiente... " Mizuhara si interruppe.
"Naturalmente è decaduto."
Sollevò quindi lo sguardo a contemplare una sorta di
torretta sul tetto, simile a una guglia rotonda.
"Una volta v'erano dei colibrì. Due. Uno è morto..."
"Quei piccoli uccelli così veloci che quasi non si scorgono volare?"
"Sì."
Si accesero le luci della Casa delle Camelie e illumina-
rono dall'alto il giardino.
Mizuhara ne approfittò per tornare sui suoi passi.
"Mi mostrò anche la camera matrimoniale al piano superiore.
Vidi con meraviglia lo splendido letto, le creme
e i profumi. Ma ciò che più mi stupì furono le scarpe.
Aprì una tenda accanto al letto: allineate su mensole
scorsi quaranta, forse cinquanta paia di scarpe della moglie.
Anche lei una nippo-americana abituata alla vita
d'oltremare. Come la piscina anche la camera da letto era
inimmaginabile per un giapponese. C'era una grande ve-
trata a mezzaluna, un'unica lastra di vetro, veramente lu-
minosa e gaia..." S'interruppe; poi continuò il discorso
descrivendo la cucina e la lavanderia di stile americano.
Passarono di fronte alla casetta per il tè e attraversaro-
no il ponticello sul laghetto artificiale.
"Ah, ricordo! Sì, avevo ragione, erano proprio 'ciliegi
del freddo'", disse il padre sorridendo.
2.
"Vuoi che ti versi l'acqua sulla schiena? Quanto tempo è che non lo
faccio, papà?" domandò Asako mentre si insaponava il petto.
Il padre, immerso nella vasca, appoggiava la testa al bordo.
"Quando eri piccola ti lavavo persino tra le dita dei
piedi, ricordi?"
"Sì. Non ero poi così piccola."
Il padre chiuse gli occhi e disse:
"Sto meditando di costruirti una casa".
"Oh! Una casa per me? E con chi dovrei viverci?" domandò
con leggerezza Asako continuando a lavarsi, ma il padre
ebbe l'impressione che ella avesse distorto il suo pensiero.
Allora, con un tono lievemente scherzoso, le domandò:
"Non c'è ancora nessuno che voglia stare con te?"
"No!" All'improvviso la ragazza fissò il padre.
"Come credi. Se preferisci potrai viverci da sola. Mi
piace pensare a una casa tutta tua. Sono architetto e amerei
lasciare quasi come testamento una casa per ognuna
delle mie figlie."
"Una casa come testamento?" domandò con tono severo Asako. "è orribile!"
Quindi s'immerse nella vasca. "Mi è venuto freddo" disse.
"Non intendevo attribuire a questa parola alcun signi-
ficato particolare. Soltanto che, come ho l'abitudine di
ripetere, fra le tante cose che suscitano nell'uomo una
sensazione di impotenza, l'architettura è più di ogni altra
arte soggetta ai condizionamenti. Luogo, materiale, de-
stinazione, grandezza, costi, le bizzarre richieste del
cliente, e inoltre i carpentieri, gli imbianchini, i mobilie-
ri... Non mi è mai stato possibile costruire una casa se-
condo i miei gusti, come fece il marchese Iga. Una casa
come testamento significa una casa come piacerebbe a
me. Realizzata seguendo completamente un progetto...
Capita raramente", spiegò il padre, quasi volesse cancel-
lare il significato della parola "testamento", sebbene pro-
vasse una tristezza tale da giustificare l'uso di quel termine.
Era estasiato per la bellezza del corpo nudo della figlia.
All'improvviso ricordò il cane di Akita veduto in giardino.
Gli spiaceva associare l'immagine della figlia con
quella del cane, ma i corpi delle due creature erano en-
trambi splendidi. Naturalmente era impossibile parago-
nare la bellezza della figlia a quella di un cane.
Il cane di Akita era legato a una cuccia, ma gli animali
non edificano abitazioni. E anche quando si costruiscono
un nido o una tana rispettano la natura. Non la distrug-
gono né la deturpano come gli uomini. La città di Atami
era un esempio dello squallore a cui l'architettura riduce
l'ambiente naturale. Non v'era più scampo. Dubitava
che l'architettura moderna accrescesse la felicità umana,
poiché il progresso della scienza aveva creato nuove disgrazie
per gli uomini.
Simili perplessità non erano insolite in lui.
Inoltre nell'animo degli architetti di tutto il mondo è
latente il dubbio che l'architettura moderna non possa,
al contrario di quella antica, rimanere nei secoli venturi
quale testimonianza di bellezza.
Stupito dalla nudità della figlia, Mizuhara si chiese se
quella graziosa creatura vivesse in una casa adeguatamente
armoniosa, e si stupì della sua stessa domanda.
Come architetto, aveva l'impressione di essersi indegnamente
dimenticato delle cose belle e amate che aveva vicino.
La loro casa era una sistemazione provvisoria, dopo
che quella in cui aveva abitato era stata distrutta da un incendio.
Inutile dire quanto fosse, in fondo, impossibile costruire
una casa che si adattasse come una veste elegante
al corpo armonioso di una ragazza. Forse l'unica vita
ideale per la bellezza creata dagli Dei era quella trascorsa
nella natura, all'aria aperta, nudi come animali. Poteva
essere il principio cui si ispiravano costantemente le nuove
concezioni architettoniche. Comunque, il pensiero di
progettare una casa confortevole dove la figlia liberamente
si muovesse e riposasse era una manifestazione di emo-
zioni e di sentimenti paterni. Non si domandava con chi
la figlia avrebbe vissuto in quella casa.
Immerso nella stretta vasca con la figlia, Mizuhara si
sentiva a disagio, e cercava di starsene in un angolo.
Meditava sulla sua ormai svanita gioventù. Forse la parola
"testamento" era scaturita spontaneamente da simili pensieri.
Mizuhara uscì per primo dall'acqua, tornò in camera e
vide sul tavolino un rametto di dafne. L'aveva colto la figlia.
Poco prima aveva avuto l'impressione che fosse di
umore più gaio del solito. D'altronde si sentiva egli stesso
stranamente euforico.
Gli ospiti del piano superiore intonarono lentamente lo shinnai
(Racconto cantato. Lo shinnai citato, del 18esimo secolo, narra la
tragica storia d'amore del samurai Itahachi e della cortigiana Onoe.
(N.d. T.)
di Onoe e Itahachi. Li accompagnava il suono gradevole di uno shamisen
(Strumento musicale a forma di mandolino a tre corde che ac-
compagna spesso la danza e i canti delle geishe. (N.d.T.)
e la voce non più giovane di una geisha.
Asako uscì dall'acqua e si volse allo specchio. Il padre
contemplò con curiosità la figlia che si truccava.
"Papà", lo chiamò l'immagine di Asako dallo specchio,
"di che intendevi parlarmi?"
"Parlarti?"
"Intendevi dirmi qualcosa. è per questo che mi hai
condotto fin qui, vero? Sono preoccupata."
Il padre rimase in silenzio.
"Quante case vorresti costruirci come testamento? Due? Tre?"
"Perché?... "
"Se Momoko e io fossimo soìe ne basterebbero due,
ma esiste anche la nostra sorella di Kyoto, vero?"
Il volto del padre si incupì.
Fortunatamente in quell'attimo giunse una cameriera
con il vassoio della cena.
Asako tornò accanto al braciere e rimase a capo chino
a giocherellare con il rametto di dafne mentre la cameriera
disponeva sul tavolo piatti e tazzine.
La dafne aveva una corolla corta e tubolare, rosa screziata
di viola all'esterno e di tinta più sfumata all'interno.
Anche lo sguardo del padre indugiava sul fiore.
3.
Al mattino il tempo era bello e le acque della baia di
Broccato rilucevano.
"Hai sentito stanotte come abbaiava il cane di Akita?"
domandò il padre.
"No." Appena uscita dall'acqua della vasca la figlia si
era seduta di fronte allo specchio.
"Una voce bassa e potente..."
"Davvero?"
Il padre le parlò ancora del marchese Iga.
"Il marchese della villa accanto, discendente da signori
feudali, fu privato di tutti i suoi privilegi ancor prima
della guerra. Dilapidava il patrimonio ereditato e le sue
dissolutezze disonoravano la nobiltà. Ma ora avrà pochi
rimpianti perché alla fine della guerra gli avrebbero
ugualmente sottratto titolo e sostanze: ha fatto bene a godersele. "
Al tempo in cui aveva visitato la villa, Mizuhara si era
sentito più incline ad apprezzare il fascino dei padiglioni
per il tè e l'eleganza dell'antica architettura giapponese.
Tuttavia, trascorsi diversi anni e trovandosi di nuovo in
quei luoghi, nella villa accanto, appartenuta a un principe,
era incline a paragonare al proprio passato la vita del marchese Iga.
Forse perché, ormai, il destino di un architetto era
condizionato dall'esistenza delle bombe atomiche e dalle
distruzioni che esse causavano, sovente affiorava alla sua
mente la frase di Buddha, "abbandonare ora questa, ora
quella dimora".
Uscì con la figlia dalla Casa delle Camelie e passeggiò
per la città.
Salirono sull'autobus per turisti che portava a Motohakone.
Superarono il valico delle Dieci Province e giunti al
passo di Hakone scorsero lo Ashi-no-ko, il lago dei Giunchi,
e la neve sul monte dei Gemelli, sulla collina del Puledro
e sul monte degli Dei.
Mentre camminavano in un bosco di cryptomerie verso
il tempo shintoista di Hakone, Mizuhara domandò all'impiegato
dell'albergo di montagna:
"Sono fioriti i prugni?"
"Non ancora", rispose l'impiegato, "in confronto ad
Atami abbiamo una temperatura inferiore di dieci gradi."
L'albergo era una villa appartenuta al finanziere Fujishima.
Accanto all'entrata si notavano un padiglione in
cui un tempo attendevano i servitori dei signori che visi-
tavano la villa, un'autorimessa e un riparo per le barche.
Ma la camera che era stata loro destinata era incredibilmente modesta.
"è davvero una baita di montagna! Che sia stato un alloggio
per gli impiegati?" commentò Mizuhara allungando le
gambe nell'incavo del pavimento in cui era sistemato il kotatsu.
(Incavo del pavimento in cui d'inverno si dispone un braciere, o
un fornello elettrico, in modo da potersi sedere allungando le gambe
verso la fonte di calore. (N.d.T.)
Quella camera non disponeva che di shoji
di carta senza vetri e di una stretta veranda. L'ingresso
era diviso dalla camera da una porta di legno di cryptomeria,
che sostituiva senza dubbio i vecchi fusuma.
(Porta scorrevole che si chiude avvicinandone entrambi i lati.
(N.d. T.)
Entrarono nel salone per bere il tè. Era una costruzio-
ne nuova. Mizuhara domandò alla cameriera e seppe che
il salone originale era stato distrutto dal fuoco nel marzo
precedente. La risposta fugò le perplessità di Mizuhara.
Tra quelle fiamme erano svanite le tracce dei sogni del-
la famiglia Fujishima.
Uscirono a passeggiare nel giardino che si estendeva
per decine di migliaia di metri quadri.
Passarono accanto a distese di rododendri e scorsero
una casetta per il tè. Di fronte un prato di azalee.
Oltrepassarono boschetti di cryptomerie, s'inoltraro-
no su una distesa erbosa leggermente in pendio e sotto
un grande albero che allargava i rami come un ombrello
scorsero una panchina e una targa: "cryptomeria solitaria".
L'impiegato che li guidava additò la riva:
"Vedete quelle quattro cryptomerie? Il prato è stato
trasformato in un campo per il gioco del volano".
"Oh, ma è Momoko!" sussurrò Asako, quindi trattenne
il fiato e sollevò una mano, quasi volesse tapparsi la bocca.
"Non chiamarla. Smetti di guardarla", mormorò il padre
anch'egli con voce tremante.
In basso, su una panchina accanto ai quattro alberi,
Momoko abbracciava con abbandono le spalle di un
ragazzo fissando il lago.
In seguito, Mizuhara e la figlia furono guidati alla casa
di campagna. Ma ormai erano assorti in cupi pensieri.
Davanti alla casa spiccava un cartello con la scritta: "Hida Takayama.
Seicento anni". Nella traduzione inglese gli anni erano settecento.
"Un regalo di cento anni per gli stranieri!" osservò Mizuhara
ostentando un fittizio buon umore.
"Pare che in questa casa di campagna Fujishima usasse
offrire agli ospiti autentici cibi di campagna", spiegò l'impiegato.
La casa pareva aver mantenuto l'aspetto originario:
dovevano aver trasportato persino le assi della scuderia con
cautela, per non lasciar cadere gli escrementi dei cavalli.
Ma il tetto era parzialmente crollato e dagli squarci si
vedeva la neve sul monte degli Dei. Mizuhara aveva freddo,
e anche Asako era pallida.
Quella notte parlarono poco.
Il padre pensava a Momoko che evitando Yugawara e
Atami aveva preferito oltrepassare le terme di Hakone e
fermarsi in quell'albergo montano che d'inverno ospitava
rari clienti.
Momoko abbracciava la schiena del ragazzo.
"Perché piangi?" le domandò con tono languido il ragazzo.
"Non piango", rispose bruscamente Momoko.
"Mi è colata una lacrima sul collo."
"Piango perché sei carino."
Il ragazzo tentò di voltarsi.
"No, rimani così... " gli sussurrò Momoko.
Contemplava le tende color peonia.
La camera di Mizuhara e di Asako e quella di Momoko
e del ragazzo erano situate ai lati opposti dell'entrata e
del banco degli impiegati.
Camere giapponesi sbrigativamente trasformate in camere
occidentali con l'aggiunta di letti.
Momoko e Asako erano sorellastre. Non si somigliavano
che vagamente e nessuno in albergo avrebbe potuto
accorgersi della loro parentela.
Momoko non sospettava certamente della presenza del padre, che il
giorno precedente l'aveva invitata ad Atami.

3. COLORI DI FIAMMA
1.
Mentre attendevano in camera la colazione udirono il
motore di una barca. Asako spiò il volto del padre.
"Forse vanno anche questi a prendere la loro razione",
disse il padre.
La sera precedente avevano visto una barca tornare carica
di cibi razionati.
Al crepuscolo, sulla carta delle finestre scorrevoli ave-
vano tremolato colori di fiamma; Asako le aveva dischiu-
se: un giardiniere bruciava sterpaglie. Il fuoco si allargava
in cerchi ampi, evanescenti come vapori.
Il lago dei Giunchi era tranquillo. La linea della riva
lontana era ancora illuminata ma le montagne che la so-
vrastavano avevano assunto una tinta uguale, cupa. Non
rimanevano che rossi bagliori di sole.
Avevano veduto una barca scivolare tra gli alberi della riva.
"C'è qualcuno che va in barca con questo freddo!" aveva
esclamato Asako. Anche il giardiniere si era voltato a
guardare il lago.
"Saranno andati a prendere i cibi razionati."
"In barca?"
"Pesano di meno. Sarà una donna del villaggio più avanti. "
Si scorgeva una donna con un sobrio kimono spingere
con i remi la barca oltre gli alberi della riva immersa
nell'oscurità della sera.
"Mi piacerebbe vivere così: andare a fare la spesa in
barca", aveva detto Asako, dominando l'ansia.
"Chiudi. Fa freddo", aveva obiettato il padre.
Sul fondo delle finestre scorrevoli si proiettavano
ancora i tremolanti colori delle fiamme
Anche quel mattino Asako era inquieta e ascoltava con
trepidazione il ronzio del motore della barca.
"Andrà anche questa a prendere i viveri? Ieri era a remi,
oggi è a motore."
Non persuasa dalle parole del padre, Asako sbirciò socchiudendo
le finestre scorrevoli. Accertatasi che la sorella non era in
giardino le spalancò.
La barca a motore procedeva veloce verso l'estremità
del lago, in direzione delle acque su cui si rifletteva
l'immagine capovolta del monte Fuji, celata quel giorno dalle
nuvole.
La barca della sera precedente era scivolata lungo la riva,
quasi inoltrandosi a stento fra i tronchi protesi, la
barca a motore invece sfiorava veloce i rami diretta al
centro del lago.
"è lei! è proprio lei! Come immaginavo." Asako si aggrappò
alla finestra. "è sola con quel ragazzo, papà. Sul
lago al mattino, così freddo... Dev'essere impazzita!"
La barca era piccola ma lasciava una lunga scia sulla
calma superficie del lago.
Momoko era a poppa accanto al ragazzo.
Anche sulla montagna di fronte si scorgevano qua e là
sottili strisce di neve.
"Papà..." Asako si voltò.
Il padre evitò lo sguardo costernato della figlia.
"Chiudi. "
"Sì."
Ma la figlia continuò a fissare la barca.
"Asako, ti ho detto di chiudere."
"Va bene."
La figlia tornò pensierosa al kotatsu.
"Che farai, papà?"
Il padre taceva.
"Ti sembra giusto lasciarla agire così? Si sente ancora
il motore. Ho il batticuore. Anche stanotte non ho dormito."
"Lo so. Ma anche se fermassi Momoko qui..."
"E dove pensi di poterla fermare?"
"Forse non me lo consentirà mai. Ieri, no, l'altro ieri,
quando ho proposto di costruirti una casa tu mi hai detto
che dovevo costruirne altre per le tue sorelle."
"Sì. Ho delle sorelle minori a Kyoto, vero? Quante?
Due? Tre?"
Il padre mormorò qualcosa fra sé, poi disse: "Ma anche
se costruissi una casa per Momoko non credo che vi abiterebbe".
"Perché pensi che soltanto io, e non mia sorella, finirei
con il vivere nella tua 'casa-testamento'?"
"Difficile spiegarlo. Forse perché ho sposato tua madre."
Asako scrollò la testa.
"Non mi piace che tu dica così... non lo sopporto. è una
vigliaccheria, non ti sembra?"
"Credo proprio di sì", convenne il padre e aggiunse,
come se parlasse a se stesso, ma con voce nitida: "Ho
avuto due amori e mi sono sposato una volta. Ho accolto
la figlia nata dal primo amore ma non quella nata dal secondo.
Ormai è inutile parlarne, conosci anche tu questa
storia, vero Asako?"
Asako rimase ammutolita per qualche istante, poi domandò:
"Perché non hai accolto l'altra bambina? Per mia madre?"
"No. La prima l'avevo accolta perché la madre era
morta. Si era suicidata", disse a fatica il padre, quasi
vomitasse veleno.
Un'ombra offuscò le palpebre assonnate di Asako.
"Papà, tre donne ti hanno donato una figlia. Come potrei
essere l''unica'?"
"Mah... Ti sono grato per questo discorso, però..."
"Si direbbe che tu soffra, papà."
"Già, ma una figlia, che la si tenga accanto o lontana,
che la si abbandoni o la si affidi a qualcuno, rimane sempre
una figlia. è impossibile spezzare il legame che unisce
i figli ai genitori."
"Il che equivale a affermare che per quanto si prodighi
una matrigna è sempre una matrigna, vero? Che pena mi
fa mia madre!"
"I figli non dovrebbero impietosirsi per i genitori.
Commiserare eccessivamente gli altri è una prova della
propria infelicita . "
"è tutta colpa tua, papà."
"Credo che tu abbia ragione. Ma nella vita umana i conti non tornano."
"Secondo te, allora, anche la barca a motore su cui è
Momoko sarebbe 'fatale', ineluttabile?"
"Non dico questo. Ma è possibile che sia davvero innamorata
di quel ragazzino?"
"Non so."
"Mi sembra giunta al limite estremo. Ha sempre vissuto con
impeto e con estrema tensione, come sua madre,
di cui ha ereditato il temperamento. Ma con un ragazzino
così si sta gettando via... "
"Può darsi.., ma per lei è una cosa seria. Anche se ne
ha due... questo si chiama Takemiya. Due ragazzi! Non
la capisco", confidò a malincuore Asako ritraendo pudicamente
la testa tra le spalle.
Il padre ne fu lievemente stupito.
"Lei non è così. Dobbiamo scoprire la vera ferita del
suo animo, altrimenti non smetterà di giocare con il fuoco.
Quale potrebbe essere, Asako?"
"La ferita del suo animo?... sono cose che si confidano
soltanto a una madre."
"O forse è semplicemente la manifestazione della sua
intransigenza", disse il padre quasi volesse stornare il
discorso. Ma subito aggiunse: "Chi gioca con il pericolo,
come se si infilasse in bocca una lama, agisce così perché
ha una ferita che lo rode. O forse è un tentativo di suicidarsi".
"Suicidarsi? Momoko... " Intimorita da quella parola
Asako tremava. Rimase in ascolto. "Non si sente più il
motore. Papà, non avrà voluto morire nel lago? Non si
suiciderà con quel ragazzo?" Si avvicinò barcollando alla
finestra e l'aprì. "Papà, non si scorge più la barca!"
Anche il padre rabbrividì, ma disse: "Saranno lontani".
"Lontani? E dove?" Asako fissò la curva estrema del
lago. "Non si vedono! Non c'è una barca. Scendo sulla
riva a cercarli." S'infilò gli zoccoli da giardino e si allontanò
di corsa.
Alle sue spalle rimanevano tracce della cenere delle
sterpaglie bruciate il giorno precedente.
2.
Si udiva soltanto il tenue fioccare della neve. Un vago
fruscio sulla carta della finestra scorrevole.
L'assenza di vetri accentuava la vicinanza della neve,
la camera era divenuta fredda e silenziosa.
Si accorsero del fruscio poco prima di mezzogiorno e
aprirono la finestra: la neve cadeva fitta.
Le montagne della riva opposta erano scomparse, la
neve avvolgeva quasi tutta la superficie del lago e si posava
sugli alberi della sponda più vicina. Si era già accumulata sulle aiuole.
Mizuhara pensò che bisognava sbrigarsi a partire.
"Dopo che se ne saranno andati loro. Sarebbe spiacevole
anche per te incontrarli, vero papà? Momoko sarebbe imbarazzata."
Il padre sorrise amaramente: "Sembra che siamo noi
ad aver fatto qualcosa di male e a nasconderci".
"Ma è vero. Hai fatto torto a mia sorella venendo qui
soltanto con me."
Mentre si riscaldava al kotatsu che tuttavia gli lasciava
la schiena fredda, in attesa che Momoko partisse, Mizuhara
meditava: le sue tre figlie erano una diversa dall'altra,
somigliavano nel volto e nell'indole ognuna alla propria
madre, di cui parevano imitare persino il modo di vivere.
Ma oltre alle fattezze materne avevano tutte e tre ere-
ditato anche qualcosa di suo. Chi la forma delle orecchie,
chi l'andatura, chi le dita. Delicate sfumature che, pur
nella loro diversità, le accomunavano al padre.
Sarebbe già parso strano se avessero avuto la stessa
madre: quelle somiglianze con il padre risaltavano ancora
di più nella differenza dei volti in cui erano impresse le
caratteristiche materne.
Mizuhara avevano reso madri tre donne. Ossia tre
donne lo avevano reso padre. Ripensando al passato in
un'età forse non più fertile, ciò che provava non era
soltanto amaro rimorso.
Vi intuiva piuttosto, a volte, la vitalità delle donne e
la benevolenza del cielo. Ne era una prova indiscutibile
la traboccante bellezza delle ragazze.
Non erano figlie del peccato.
La madre di Momoko, la maggiore, e la madre di Asako,
la secondogenita, erano morte.
Che altro potevano aver lasciato al mondo quelle due
donne oltre alle figlie e ai ricordi dell'amore di Mizuhara?
Esse e Mizuhara avevano provato le tristezze e i tor-
menti dell'amore, ormai cancellati dal tempo per Mizuhara
e completamente svaniti con la morte per le due donne.
Le tre figlie continuavano a soffrire per le circostanze
della loro nascita e per il passato di Mizuhara. Ma egli era
sicuro del loro amore filiale.
Inoltre, con il trascorrere degli anni, Mizuhara dubitava
che nell'essere umano gioie e tristezze, piaceri e soffe-
renze fossero una realtà profondamente radicata. Gli
parevano null'altro che effimere, piccole onde nel fluire
della vita.
Tuttavia il rapporto con la donna di Kyoto sembrava
in antitesi con quelli precedenti.
Prima di dargli una figlia aveva già avuto una bambina
da un altro uomo. E forse anche in futuro avrebbe avuto
un figlio da un uomo diverso. Lei era ancora viva.
Mizuhara era stato invece l'unico uomo nella vita della
madre di Momoko e della madre di Asako.
Anche nei rapporti con la donna e la figlia di Kyoto
Mizuhara non intuiva rancore. Anzi probabilmente v'era
nei loro animi una sorta di affetto.
Aveva iniziato quel viaggio con Asako perché, saputo
che era andata a Kyoto a cercare la sorella, desiderava
parlarle; ma ad Atami le allusioni di Asako l'avevano
indotto a tacere, e a Hakone la presenza di Momoko gli
aveva fatto perdere il momento propizio.
Ma poteva accontentarsi di aver capito che Asako
intuiva il suo desiderio di parlare della figlia di Kyoto.
Mizuhara aveva vissuto soltanto con la madre di Asako.
Si chiamava Sumiko. Dopo la sua morte non gli rimaneva
che la donna di Kyoto.
Si domandava con lieve inquietudine che cosa Asako
ne pensasse, il che accresceva la sua riluttanza a parlare
della figlia di Kyoto.
Nel viaggio a Kyoto alla ricerca della sorella minore
Asako non aveva forse sperato di incontrarne anche la madre?
Mentre ascoltava fioccare la neve Mizuhara pensò che
la donna di Kyoto era viva e all'improvviso si sentì
pervadere dalla nostalgia.
"Asako, non ti addormentare così. Prenderai un raffreddore",
disse scrollando una spalla della figlia.
Asako alzò gli occhi arrossati. Aveva abbandonato la
testa sul tavolino sotto cui era installato il kotatsu.
"Non è ancora partita Momoko... Forse è tranquilla
perché non si è accorta di noi. Che bizzarra esperienza
anche per te, vero papà?"
"Con questa neve non potremo partire."
"Momoko sarà qui in albergo, vero? Ora che nevica così
non andrà a morire, vero?"
"Ancora!..."
"Prima credevo proprio che si sarebbero uccisi. Colpa
tua, papà, che hai parlato di suicidio."
Mizuhara incominciò a ricordare il suicidio della madre
di Momoko e scrollò lievemente il capo.
3.
Il giovane Takemiya prese due ceppi, uno per mano, li
gettò nel fuoco del caminetto e rimase immobile, con la
schiena rivolta a Momoko.
"Mi ricordano i ceppi di betulla bianca di Karuizawa",
disse come recitando.
Momoko continuava a contemplare la neve.
"Avevate una casa a Karuizawa?"
"Sì."
"Ti rattrista ricordarla?"
"No. Non c'è nulla che mi rattristi."
"Davvero?"
Il ragazzo si accovacciò e attizzò il fuoco.
"La legna di betulla bianca è una delle peggiori da ardere",
commentò Momoko.
"è bella. Basta che bruci, no?"
"Hai ragione. In fondo non serve per cucinare o bollire il tè..."
"Una ragazza russa, di razza bianca, mi ha baciato."
"Oh! Qualcuno ti ha baciato prima di me?!" esclamò
Momoko volgendo, lo sguardo alla schiena del ragazzo.
"è una novità che merita la massima considerazione. Dove
ti ha baciato, piccolo Miya?"
Il ragazzo tacque.
"E tu in che luogo l'hai baciata? In una villa di monta-
gna, davanti a un camino in cui ardevano ceppi di betulla
bianca?... Che ragazza era? La figlia di un panettiere? Di
un mercante di lane? Quanti anni aveva? Dimmi. Guai
se non mi racconti!"
"Te lo racconterò stanotte."
"Stanotte? Vuoi fermarti qui anche stanotte?"
"Continua a nevicare. Andiamo ad Atami."
"Impossibile. Ad Atami ci sono mio padre e mia sorella."
Il ragazzo si volse di scatto. Momoko guardò la finestra.
Anche il ragazzo contemplò il lago su cui fioccava la neve.
"Com'è abbondante! Scendere in autobus per queste
strade di montagna sarà pericoloso. Non m'importerebbe
perdere la vita precipitando in una valle se non fossi convinto
che tu ti salveresti."
"Perché pensi che saresti solo tu a morire?"
"Perché tu non mi ami, sorella maggiore."
"Ah!" Momoko fissò il ragazzo. "Vieni qui."
Il ragazzo le si sedette accanto sul divano. Momoko gli
circondò con le braccia le spalle traendole sulle ginocchia.
"Che profumo emanava la sua bocca, piccolo Miya,
quando la ragazza russa ti baciò?"
"Che?" Il ragazzo la guardò stupito.
"Si dice che quando una fanciulla ama persino il suo
alito diventi profumato", spiegò Momoko con un tenero
sorriso, "ma tu eri ancora bambino e la ragazza russa ti
baciò all'improvviso, vero?" Quindi avvicinò il volto alla
guancia del ragazzo.
"Hai il naso freddo", sussurrò il ragazzo.
"Perché non siamo davanti al fuoco, piccolo Miya."
Il ragazzo prese tra le palme il collo di Momoko e chiuse gli occhi.
"Sai di tabacco, piccolo Miya. Smetti di fumare. E fa'
che io senta nel tuo alito il profumo del primo amore..."
Momoko pose una mano sulla nuca del ragazzo e la trasse a sé.
Le punte dei capelli corti le pizzicarono le dita
suscitando in lei una fresca sensazione. La freschezza di un ragazzo
di cui anche ciglia e sopracciglia sono lucide e profumate.
Con le dita dell'altra mano Momoko tastò il lungo
ciuffo sulla fronte del ragazzo e dopo alcuni attimi disse:
"Sei bravo a mentire. Che carino!"
"Io non mento."
"Ah sì? La storia della ragazza russa è vera? Peccato.
Era meglio come finzione."
"Non sono abile a fingere come te, sorella maggiore."
Momoko circondò obliquamente la schiena del ragazzo
e lo strinse a sé.
"Come sei lungo! Troppo."
"Non dire assurdità", bisbigliò il ragazzo premendo
con forza i pollici sul collo di Momoko.
"Piccolo Miya, sai strangolare?"
"Certo. "
"Allora strangolami pure... "
Momoko chiuse gli occhi e inarcò lievemente il collo.
"Mi abbandonerai, vero sorella maggiore?"
"No, non ti abbandonerò."
"Non abbandonarmi! "
"Che scriteriato! Un uomo non deve parlare così."
"Tu mi stai prendendo in giro, eh?"
"Figuriamoci!" disse Momoko stringendo le mani del
ragazzo e allontanandole dal suo collo. "Non esiste donna
che abbia preso in giro un uomo. Io lo so. Lo so."
Momoko respirava affannosamente, le spuntavano lacrime
agli occhi e macchie rosse sui punti del collo premuti
dai pollici del ragazzo.
Il ragazzo pose il volto sulle tracce lasciate dalle sue dita.
"Ma Nishi l'hai preso in giro e abbandonato, no?"
"Ti ha detto così?"
"Certo. Nishi ti chiama 'demonio' e strega... "
"Che smidollato anche il piccolo Nishi! Altro che ab-
bandonarlo, è stato semplicemente lui a oltrepassarmi!"
"Vuoi fare in modo che ti 'oltrepassi' anch'io?"
"Sarai tu a volerlo. Il piccolo Nishi, poi, è fuggito con
una compagna di classe, no?"
"Perché tu, sorella maggiore, l'avevi abbandonato.
L'ha portata all'albergo di Ikaho dove era stato con te.
Poi li hanno trovati."
"Detesto chi va con un'altra ragazza in un luogo frequentato con me."
"Non ne conosceva altri."
"Già, ma adesso basta parlare di Nishi!" Momoko accostò le
labbra alla testa del ragazzo. "Che bei capelli!
profumano più del tuo alito. Che nostalgia!"
"Nostalgia di che?"
"Di quando ero una ragazzina."
"Sorella maggiore..." il giovane ritrasse il collo, "tu non
ami nessuno, vero?"
Momoko sollevò di scatto il capo, poi appoggiò una
guancia contro la testa del ragazzo.
"Amo una persona."
"Chi? davvero tu..."
Momoko contemplava la neve.
"Non ami nessuno, vero?"
"E invece amo. Papà".
"Papà? E chi sarebbe?"
"Mio padre."
"Che banalità! Sei una bugiarda."
"Non è una bugia. Lo amo davvero."
Momoko si alzò e attraversò la sala attratta dalla neve.
"Ma assomiglia a questa neve."
Sul lato meridionale del salotto, prospiciente il lago, si
apriva una ampia vetrata alta fino al soffitto.
Appoggiata alla porta di vetro Momoko distinse grossi
fiocchi di neve sempre più numerosi stagliarsi nella grigia
caligine per poi fluire nei suoi occhi.
Momoko e il ragazzo partirono quel pomeriggio con
l'autobus delle quattro e mezzo.
Mizuhara e Asako decisero di prendere l'autobus delle
sei, l'ultimo. Li accompagnarono due fattorini dell'alber-
go che portavano i bagagli e li riparavano con gli ombrelli.
Uno di essi, che calzava zoccoli dal tacco alto, barcollò
nella neve, cadde e si ruppe un laccio. Mizuhara lo rimandò
all'albergo. L'altro fattorino era a piedi nudi.
A causa della neve l'ombra della sera era calata presto
e le luci di Motohakone e di Hakone s'immergevano
presso le rive del lago.
Attesero fino alle sette a Motohakone ma l'autobus
non arrivò. Sarebbe dovuto partire da Odawara ma non
era ancora giunto alle pendici della montagna.
"Anche l'autobus precedente, quello delle quattro e
mezzo è ancora bloccato sulla montagna a causa di un incidente.
Due ore e mezzo fermo con tutta questa neve... "
disse un impiegato dell'autolinea.
"Momoko è salita sull'autobus delle quattro e mezzo!"
esclamò Asako osservando l'espressione del padre, poi
domandò all'impiegato:
"Di che incidente si tratta?"
"Pare che un camion salito da Odawara sia slittato a
causa della neve rovesciandosi."
"L'autobus si è forse scontrato con il camion?"
"Non si sa. Abbiamo mandato degli uomini a vedere.
Tentiamo di avere informazioni ma là sulla montagna
non ci sono telefoni."
Venti minuti dopo Mizuhara e la figlia appresero con
sollievo che l'autobus delle quattro e mezzo non era
potuto ripartire.
Nella sala d'attesa non v'era nessun altro.
Non potendo ripercorrere il sentiero montano di notte,
con una neve così abbondante, si fermarono in una locanda vicina.
Domandarono alla cameriera venuta a stendere i giacigli
quanto fosse alta la neve. Rispose che in giardino
se ne era accumulata dai trenta ai quarantacinque centimetri.
"Ecco ciò che si definisce 'un guanciale di neve'. Che
guaio!" commentò Mizuhara con un sorriso forzato.
"La finestra dà sul lago. La locanda è costruita sulla riva."
"Pare di sì."
Dal lago si levavano raffiche di vento che facevano tremare
persiane e porte a vetri. Sui vecchi tatami dell'angusta
camera erano stesi due duri materassini.
La neve fioccava nel corridoio.
"Papà, ti sarà difficile dormire con questo freddo.
Vuoi che mi sdrai accanto a te?"
"No, va bene così."
"Anche stanotte non riesco ad addormentarmi. Starà
bene Momoko? Sono preoccupata. Tre ore nella neve..."
Asako osservò il padre sollevando la testa dal cuscino.

4. PRIMAVERA A KYOTO.
1.
Mizuhara accompagnò le due figlie a Kyoto nella stagione dei fiori.
Un cliente trasferitosi a Kyoto in seguito a un incendio
che in tempo di guerra aveva devastato la sua casa a Tokyo
lo aveva incaricato di ristrutturargli la nuova dimora
e di progettargli un padiglione per il tè.
"Mi ha informato che, dopo un intervallo di sette anni,
riprenderanno le Danze della Capitale, e mi ha esortato
ad accompagnarvi a vederle. Desidera cogliere l'occa-
sione per mostrarmi la villa", spiegò Mizuhara invitando
le figlie a seguirlo a Kyoto.
Momoko scambiò un rapido sguardo con la sorella.
Rimaste sole, domandò ad Asako: "Non credi che papà
voglia cogliere l'occasione per attuare anche un altro progetto?"
Asako annuì e disse: "Chissà, forse ci farà il favore di
presentarci nostra sorella."
"Il favore? Non è il caso di essergli grate. Io non intendo incontrarla."
"Ma verrai, vero?"
"No, l'idea non mi garba."
Asako guardò tristemente la sorella.
"L'altra volta sono andata da sola con papà ad Atami.
Dovrei rimanere di nuovo sola con lui anche a Kyoto?
Come se tu fossi una figliastra? Povero papà!"
"Ma tu vuoi incontrare nostra sorella. è giusto che tu
vada. Io invece non ne ho il minimo desiderio. Perciò non mi muovo."
"Va' pure sola tu... Sono io che rinuncio", ribatté allora Asako.
"Allora sì che papà ci resterebbe male!"
"In mia assenza non cercherà di presentarti nostra sorella. "
"Ma che dici? è proprio a me che vorrebbe presentarla!
Perché non ho nessuna voglia di conoscerla. Tu l'hai
già accettata come sorella e sei persino andata a Kyoto a
cercarla. Papà ne sarà già soddisfatto."
"Che situazione complicata!" esclamò Asako scuotendo
la testa. "Ti piacciono i pensieri contorti."
"Sì, lo ammetto."
"Ma dimmi, sei così contorta per colpa di mia madre,
che per te era una matrigna?" domandò Asako con tono
lieve: ma il sorriso svanì dalle labbra di Momoko.
Asako proseguì con il medesimo tono:
"Eppure da quando la mamma è scomparsa mi sembra
che i tuoi rapporti con papà siano peggiorati, come se tu
fossi una figliastra. Non capisco perché. è un pensiero
che mi tormenta".
"Sei tu, Asako, a essere complicata." La voce di Momoko
assunse un tono pacato. "Se mi parli così perché sei
convinta che tua madre abbia agito con affetto anche
verso di me, non mi offendo. Avevi fiducia in lei, vero?"
"Sì."
"D'accordo. Allora verrò a Kyoto con voi..."
"Sì? Bene!"
"Mi dispiacerebbe sembrare caparbiamente risoluta a rattristare
un padre desolato per la morte di una moglie così brava."
"Anch'io mi sento desolata."
"E altrettanto io."
Asako annuì. Nel suo animo riaffiorò l'immagine della
sorella mentre in compagnia di un ragazzo solcava su una
veloce barca a motore il lago dei Giunchi in pieno inverno.
"Forse papà non ha intenzione di presentarci nostra
sorella. Può darsi che voglia semplicemente accompa-
gnarci ad ammirare i fiori... Proverebbe troppa tristezza
a vederli da solo", concluse Asako.
"Già", convenne Momoko.
Mizuhara e le figlie partirono da Tokyo con il Fiume
d'Argento delle venti e trenta.
Approfittarono della relativa disponibilità di posti in
seconda classe per occuparne quattro. Uno di loro avrebbe
dunque potuto sdraiarsi.
In principio si coricò Mizuhara ma, sicuro di non riuscire
a dormire, a Numazu lasciò il posto a Momoko.
Anche Momoko dichiarò che le era impossibile prender
sonno e dopo Shizuoka invitò Asako a sdraiarsi.
"Papà, se tu dormissi in vagone letto? Dev'esserci almeno
una cuccetta libera. Vuoi che chieda all'incaricato?" propose Momoko.
Il padre, tuttavia, attratto dall'idea di poter trascorrere
dieci ore con Momoko, evento insolito, preferì non allontanarsi.
Asako si addormentò realmente.
"Dalla facilità con cui dorme si direbbe che sia in effetti
la più innocente", commentò Momoko.
"Ma ad Atami non dormì", obiettò il padre.
Momoko rimase in silenzio per qualche istante, poi guardò la rete.
"Sembra che tutti i passeggeri siano viaggiatori abituali.
Hai notato la scarsità dei bagagli?"
"Sì, il mondo è tornato quasi quello di prima. Ormai
si può viaggiare leggeri. "
"Anche tu, papà, sei abituato a viaggiare. Come mai non riesci a dormire?"
"Se volessi ci riuscirei."
"Ti farebbe bene riposare."
"Dormi anche tu."
"Sì, se resterò sveglia solo io Asako mi dirà di nuovo
che sembro una figliastra."
"Usa questo termine?"
"Perciò le ho risposto che non mi offendevo purché fosse
convinta che sua madre mi avesse davvero trattata bene."
Il padre rimase a occhi chiusi, silenzioso.
"Abbiamo dato a Asako molti motivi di ansia, tu e io... "
così dicendo anche Momoko chiuse gli occhi. "Dopo la
morte della mamma Asako sembra essersi assunta la
responsabilità della famiglia. Cerca da sola di essere
utile a te e a me."
"Hai ragione. "
"Sarebbe meglio per lei che io me ne andassi da casa, vero?"
disse Momoko e si affrettò ad aggiungere: "Lo intuisco benissimo".
"Non dire assurdità. Asako può sentirti", obiettò il padre
aprendo gli occhi.
"Dorme profondamente", sentenziò Momoko continuando a
tenere gli occhi chiusi.
"Oppure Asako potrebbe decidersi a sposarsi presto...
Non vorrei che ripetesse i miei errori."
Momoko sentiva un doloroso tepore sotto le palpebre chiuse.
"Ma ti sarebbe difficile, papà, rassegnarti a lasciarla
andare fuori di casa. Saresti troppo triste... "
"Non è detto."
"Oh sì! Sono sicura che lo saresti", disse Momoko con un brivido.
S'era accorta con terrore che si stava disputando con la sorella
l'amore del padre.
Come le loro madri.
No, non era vero, si corresse Momoko. Le loro madri
non si erano contese l'amore del padre. La relazione con
la madre di Asako era iniziata soltanto dopo che il legame
con la madre di Momoko si era dissolto. Le due donne
non avevano amato contemporaneamente il medesimo
uomo: esisteva un divario di tempo.
Tali riflessioni non bastavano tuttavia a soffocare
l'ambiguo fuoco che ardeva nel suo animo. Momoko provava
la terribile sensazione di vedere mentalmente quelle fiamme.
Essere posseduta dalla passione che aveva tormentato
la madre suicida era dunque il suo destino?
Aveva forse provato una gelosia doppia, la sua e quella
della madre, per l'amore del padre verso la matrigna e la
sorellastra?
Momoko si scostò delicatamente dal padre e si appoggiò al finestrino.
Ebbe la netta impressione che avesse aperto gli occhi e che la fissasse.
Ma poco dopo egli si assopì.
Asako si destò a Maibara.
Si svegliò come sempre di ottimo umore. Sgranò gli occhi e sorrise.
"Oh! Mi dispiace che siate già svegli. Eravate addormentati
ed invece eccovi qui a fissarmi con l'aria di chi
non ha riposato affatto!"
Pareva confusa.
"Le ragazzine come te sono dormiglione", sorrise a sua
volta Momoko guardandosi intorno.
I passeggeri si erano quasi tutti impeccabilmente riordinati
e anche Momoko aveva finito di truccarsi.
Asako si limitò a pulirsi il volto con una crema, perché
dal rubinetto del bagno non sgorgava acqua. Si slacciò un
bottone della camicetta per detergersi il collo e Momoko
scrutò i passeggeri, timorosa che qualcuno lanciasse
sguardi furtivi alla sorella.
"Voltati un attimo", le disse, pettinandola.
"Ecco il lago Biwa immerso nella foschia mattutina",
annunciò Asako contemplando la distesa d'acqua.
"Quando al mattino il cielo è nuvoloso è segno che poi
tornerà il sereno", sentenziò Momoko.
"Con queste nuvole non si scorgerà alcun arcobaleno", sospirò Asako.
"Arcobaleno? Ah sì! Quello che hai visto a fine d'anno, di
ritorno da Kyoto, vero?"
"Sì. Quel signore disse che forse, pur ripercorrendo
questa linea innumerevoli volte, non avremmo più rivisto
un arcobaleno sul lago Biwa."
"Alludi all'uomo che suscitò la tua ammirazione per
come accudiva alla bambina piccolissima con cui viaggiava?"
"Appunto. Mi disse che un arcobaleno in primavera,
sui campi di fiori di colza e di astragali sarebbe parso un
augurio di felicità."
Anche Mizuhara guardò il panorama.
Apparve il castello di Ilikone. E più in basso un boschetto
di ciliegi fioriti.
Oltrepassata Yamashina i ciliegi divennero sempre più
numerosi. Pareva veramente di inoltrarsi nella capitale dei fiori.
In occasione delle Danze della Capitale rosse lanterne
pendevano allineate lungo le strade di Kyoto, e ai tram
che passavano veloci erano affissi enormi ideogrammi
che componevano la scritta: "elezione del prefetto".
Mizuhara e le figlie si recarono in un albergo di Sanjo,
e finita la colazione si fecero stendere i giacigli.
Quando Asako si ridestò il padre si era dileguato.
Trovò un biglietto accanto al cuscino: "Dormite così
bene che non desidero svegliarvi. Vado al Daitokuji. Tornerò
questa sera. Se volete, andate a vedere le Danze della Capitale."
Asako notò con sorpresa due biglietti di teatro deposti sul messaggio.
2.
Appena Mizuhara sostò sulla soglia del tempietto della
Luce Concentrata, il più grande dei Daitokuji, due cani
neri gli vennero incontro; cani di quella taglia non pote-
vano essere tenuti fra quattro pareti. Si allinearono pronti
a scattare e i loro musi così simili si protesero a osservarlo.
Non abbaiavano. Mizuhara sorrise.
"Oh, ma è lei signor Mizuhara! Quanto tempo è trascorso!" esclamò
una donna. "Che sorpresa!"
"Mi scuso per il lungo silenzio. Che cani interessanti!
Sono usciti ad accogliermi e ora sembrano stare sull'attenti,
l'uno accanto all'altro. Sono così bene educati: somigliano
ai novizi... A che razza appartengono?"
"Mah, chi lo sa!" rispose distrattamente la donna.
"Non valgono niente."
Mizuhara pensò che quella persona non aveva mutato carattere.
La donna l'accompagnò in una sala, s'inchinò e si allontanò.
Tornò poco dopo annunciando:
"Mi dispiace di non poterle offrire nulla da mangiare.
Almeno, eccole un fiore... "
Portava tre bianche camelie dalle grandi corolle, infilate
in un piccolo recipiente di bambù. Il loro candore evocò
in Mizuhara una sensazione di purezza.
"Ha notato? Non sono corolle doppie", disse la donna
deponendo il recipiente su un tavolino in un angolo.
"è fiorita anche la grande camelia di fronte alla dimora
dell'abate? Immagino che sia già trascorso il periodo
migliore della fioritura", disse Mizuhara ricordando che oltre
a quel maestoso albero appariva la sagoma del monte
Hiei, quasi in prospettica prosecuzione del giardino.
"è ancora carica di fiori. Le camelie fioriscono a lungo",
precisò la donna.
Mizuhara guardò un vaso con un unico fiore che aveva
notato appena giunto nella stanza.
"Che fiore è?"
"Quello? Mah, forse è un baimo?"
"Baimo? Come si scrive questo nome?"
"Con gli ideogrammi di doppio e di patata dolce, suppongo",
rispose sbrigativamente la donna.
Mizuhara rise pur non avendo compreso. Era un fiore
verde, pareva un incrocio tra il mughetto e la campanula.
Spuntava in effetti su un esile sarmento, simile a quello
che nasce da un tubero di patata dolce.
"Questa volta è solo, signor Mizuhara?" domandò la donna.
Egli si ricordò che la donna ignorava la morte di sua moglie.
"In realtà sono venuto a Kyoto per poter incontrare Kikue. "
"Chi?"
"Una donna con cui visitavo questo tempio... "
"Capisco", annuì la donna.
"Ricorda? Una volta venimmo con una bambina in braccio."
"Sì."
"Ormai ci siamo lasciati da tempo. Perciò preferisco
incontrarla qui. Non vorrei profanare questo luogo ma... "
"Verrà?"
"Probabilmente. "
"Ah, davvero?" la donna pareva turbata. "Vuole che
attenda l'arrivo della signora per offrire il tè? Ecco, adesso
vado a chiamare il Maestro. Avrà già capito che abbiamo un ospite.
Chissà come sarà contento quando saprà che è lei!"
L'anziano abate entrò trascinando una gamba, proba-
bilmente per i postumi di una lieve paralisi.
Mizuhara notò con stupore che era completamente incanutito.
Il volto tondo, incorniciato da una lunga barba, aveva
un colorito sano. Anche le lunghe sopracciglia gli conferivano
un aspetto più simile a un eremita taoista che a un
bonzo. La barba fluente era intrecciata come i capelli di
una fanciulla. Gli pendeva sul petto fino all'ombelico e
sembrava rilucere di dorati bagliori.
Mizuhara la contemplò incantato.
"Che bravo!" esclamò, facendo il gesto di pettinarsi la
barba con le dita.
"L'ho imparato dagli Ainu", spiegò il vecchio Maestro.
"Due anni fa, quando sono stato nello Hokkaidò, un Ainu
mi ha spiegato che intrecciandola così non mi avrebbe
dato fastidio. Aveva ragione. è comodo."
A ben riflettere anche i folti capelli raccolti in una
coda ricordavano la pettinatura dei vecchi Ainu.
"Sono diventato un perfetto aborigeno. Un aborigeno
nella città di Kyoto", rise il vecchio Maestro. "Mi sono
stancato di fare il bonzo! Ha notato anche i capelli?"
"Sta meglio così", commentò Mizuhara.
"Prima mi rasavo la testa da solo, ma da quando mi sono
ammalato non ho più la mano ferma. Il barbiere pretende
cinquanta yen anche per una rasatura da bonzo. In
un periodo come questo, con tanta penuria di danaro per
il tempio, sarebbe un'idiozia!" ribatté, e rise ancora una volta.
Le pupille nere, ombreggiate da lunghe e candide sopracciglia,
conservavano una giovanile lucentezza. Anche quel nero
intenso ricordava gli Ainu, ma a Mizuhara
ispirò un'impressione di purezza.
"Quanti anni ha compiuto, vecchio Maestro?"
"Settanta, credo", rispose la moglie dell'abate.
Mizuhara raccontò di alcuni loro conoscenti di Kyoto,
ma pareva che il vecchio bonzo stentasse a comprendere
ciò che gli veniva detto.
"Mi sembra che sia diventato lievemente sordo", disse Mizuhara.
Il vecchio Maestro udì e rispose: "Un giorno sono inciampato
su quel passaggio piombando in giardino. Da allora l'udito
mi si è affievolito. 'Gli usignoli cantano' mi dice la gente,
però io non li odo. Ma un mattino, mentre mi lavavo la faccia,
mi sono sentito pizzicare il naso e toh! ho riudito il canto
degli usignoli!"
"Cantano anche in questo momento", disse Mizuhara
e rimase in ascolto pensando che in quel silenzio avrebbe
presto udito i passi di Kikue. Quindi aggiunse: "Qui a
Kyoto si vede ovunque una profusione di fiori. Ma è bello
che in questo tempio non esistano ciliegi. Non ve ne
sono, vero?"
"No. I ciliegi sconvolgono i giardini", sentenziò il vecchio bonzo.
"I petali appassiscono, le foglie cadono e sporcano il
giardino", aggiunse la moglie.
Il vecchio bonzo continuò: "I fiori di ciliegio sono
troppo gai per un tempio. Sarebbe imbarazzante se i monaci
del Daitokuji s'inebriassero di fiori!"
Spiegò che i giardini del tempio avevano ospitato un
unico ciliegio, "il ciliegio di Konoe", piantato dall'omonimo duca.
Mentre l'ascoltava, Mizuhara cercava di immaginare
Kikue percorrere il sentiero lastricato sotto i rami di pino.
Come poteva essere mutato l'aspetto di una donna che
non vedeva da tanti anni?

5. CAMELIE NERE.
1.
Le donne di Kyoto posseggono piedi leggiadri e morbide
labbra. Il che significa una bella pelle, deduceva Mizuhara
pensando a Kikue.
Sebbene fosse seduto di fronte a un vecchio monaco,
ricordava le morbide labbra della donna.
Erano delle labbra che aderivano a quelle maschili,
labbra lisce, tenere: un tempo gli bastava sfiorarle per
avere la sensazione di accarezzare tutto il corpo della donna.
Ma ormai i denti anteriori di Mizuhara che allora avevano
morso quelle labbra erano stati sostituiti da false corone.
Chissà se anche le labbra della donna avevano perso la
loro morbidezza?
"Vecchio Maestro, e i denti?" domandò Mizuhara.
"I denti? La dentatura di un aborigeno è robusta"
dichiarò il bonzo mostrando due file intatte di denti
ombreggiati dai folti baffi. "Come vede sono proprio un
aborigeno! Invece la struttura architettonica del Daitokuji,
dopo la fine della guerra, ha incominciato a vacillare:
traballante come la dentatura di un vecchio. Forse tra
dieci anni non ne rimarrà neppure l'ombra."
La moglie accusò astiosamente i bambini moderni,
spiegando in che modo danneggiassero il tempio. Le lesioni
prodotte dal gioco del basebalì erano le più gravi.
"All'uccello del portale, dell'epoca Momoyama, monumento
nazionale, hanno troncato le ali a pallate. E adesso è volato
via anche il capo."
"Terribile", convenne Mizuhara.
"I bambini dell'après-guerre sono come rane impazzite,
imperversano e guastano secondo la bizzarria del mo-
mento. Non ascoltano nessuno. è una follia concedere
loro tutta questa libertà!"
Era strano che la moglie del vecchio Maestro, con un
grembiulino a tre teli di cotone blu a piccoli motivi come
le contadine di Ohara, usasse l'espressione "après-guerre".
La palla da baseball, spiegò la donna, cadeva sovente
nel giardino del tempio e ogni volta i bambini si arrampi-
cavano sul muretto rompendo qualche tegola.
Per evitare che giocassero nei recinti del tempio era
stato allestito per loro un piccolo campo sportivo a sud,
con il risultato che il muretto del vicino padiglione aveva
subito barbari attacchi: la sua riparazione avrebbe richiesto
costi insostenibili.
Una volta, raccontò il vecchio Maestro, il gruppo di
case di fronte al portale era abitato da persone che dipendevano
dal Daitokuji, ultimamente invece vi si erano tra-
sferite alcune famiglie di sfollati i cui bambini non cono-
scevano e non frequentavano il tempio.
"Anche le automobili entrano rumorose nel recinto.
Persino i bonzi trovano comodo arrivare in auto fin sulla
soglia. C'era una sbarra di legno alla porta principale per
impedire il passaggio delle auto. Ma l'hanno tolta."
Pur lamentandosi della decadenza cui era destinato il
tempio, il vecchio Maestro conservava l'aspetto sereno di
una montagna in primavera.
Mizuhara provò l'impulso di parlargli della propria antica
amante, di dirgli:
"Sa, vecchio Maestro, capita di ripensare con nostalgia
alla morbidezza delle labbra di una donna che non si frequenta
da lungo tempo".
Benché i capelli di Kikue avessero riflessi color mogano,
le sopracciglia parevano lievemente scolorite, come
se difettassero di pigmenti. Il che spiegava il candore della
sua carnagione.
Ma la tenue tinta delle sopracciglia, le belle gambe, le
morbide labbra invece di rafforzare il legame con la donna
gli avevano reso forse più facile abbandonarla.
Gli era infatti parsa una donna dal carattere leggero,
superficiale, che si sarebbe facilmente rassegnata.
In seguito gli era accaduto varie volte di incontrare a
Kyoto una donna dalla bocca simile a Kikue. Una bocca
caratteristica: quando parlava s'intravvedevano le gengive,
non grosse e prominenti, bensì lisce come le labbra.
Il colore tenue e luminoso delle sue labbra aveva indotto
Mizuhara a supporre che usasse un rossetto differente
da quello delle donne di Tokyo; invece era la tinta naturale
della bocca a essere diversa. Sia le gengive sia la lingua
erano di un nitido rosa.
Quando incontrava una donna con quel tipo di bocca
gli tornava in mente Kikue, e sebbene ciò rinnovasse i
suoi rimorsi, era assalito dall'impulso di parlarle.
Gli sarebbe piaciuto raccontare di lei al vecchio Maestro,
ma non ebbe occasione d'iniziare il discorso. Volse
lo sguardo all'ombra degli alberi sul muschio del giardino.
In quell'attimo la moglie del bonzo esclamò: "è arrivata!"
e si alzò per andare incontro all'ospite.
Mizuhara si sentì soffocare dall'emozione. Stranamente
non provava sensi di colpa verso Kikue, bensì verso
Sumiko, la moglie morta. Quasi che fosse ancora viva e
che egli incontrasse l'amante di nascosto.
Una strana, stupefacente sensazione.
Kikue salutò anzitutto il vecchio Maestro, quindi si
rivolse a Mizuhara limitandosi a dire:
"Scusa se ti ho fatto attendere. Benvenuto a Kyoto",
e abbassò lo sguardo.
"Ti ha stupita l'accoglienza dei cani?" domandò Mizuhara.
"Questa volta era un gatto", interloquì con noncuranza
la moglie del bonzo. "Già, ma siccome i gatti non sono
socievoli si è limitato a sgattaiolare sulle assi della veranda."
Kikue sorrise:
"C'erano anche i cani, mi osservavano da lontano."
"Davvero?"
"Ahimè, è diventata una dimora per cani e gatti... " celiò
il vecchio bonzo. "Comunque è più mondana di un
asilo per volpi e tassi!"
L'uomo anziano contemplava incantato Kikue, ma
non pareva ricordare chi fosse. La moglie si accorse
dell'imbarazzo della donna e disse:
"Non ho ancora servito il tè perché attendevo il suo arrivo".
Poi, guardando Mizuhara, aggiunse: "Che ne direste se ve lo
servissi nella saletta?"
"Va bene."
Mizuhara si alzò.
Entrò nella saletta da tè larga soltanto tre tatami ove,
si racconta, Rikyù si squarciò il ventre.
(Sen Rikyu, maestro della cerimonia del tè dello shogun Toyotomi
Hideyoshi, è considerato il principale codificatore di quell'importante
momento sociale e politico che è stato a lungo, ed è tuttora per
molti versi, la cerimonia del tè. Fu costretto al suicidio rituale dallo
shogun, irritato dalla sua crescente autorevolezza. (N.d.T.)
"Lo prepara lei?" domandò la signora a Kikue.
"Sarebbe complicato. Preferisco che mi porti tutto già
disposto su un vassoio."
"E il vecchio Maestro?" domandò Mizuhara.
"è meglio che non si muova. Poserò il tè là."
La moglie scomparve.
Mizuhara percepì nella semioscurità il lieve suono del cucchiaino
di legno con cui Kikue versava il tè in polvere nella tazza.
"Desideravo incontrarti", le sussurrò.
"Il tuo telegramma: 'Vieni al tempietto della Luce Concentrata' mi
ha stupita. Se mi avessi informata dell'ora dell'arrivo del treno
sarei venuta alla stazione ad accoglierti. Eri in compagnia di qualcuno?"
"Sì. Sono venuto con le mie figlie."
"Oh!" Kikue sollevò il volto. "Sei qui per ammirare i fiori con loro?"
"Siamo arrivati questa mattina. Le ho lasciate che dormivano."
"Queste cose non mi piacciono. Sono una pena per me."
Girò lievemente la tazza che teneva su una palma. Le tremava la mano.
Mizuhara prese tra le dita un candito ai semi di soia
del Daitokuji.
Kikue gli si avvicinò in ginocchio:
"Se non fossi nella saletta da tè di Rikyu piangerei".
Anche Mizuhara si guardò intorno.
"Mi fa paura essere sola con te in questo luogo. Vorrei
quasi morire", sospirò Kikue. "Ricordi quando mi accompagnasti
qui nell'anniversario della morte di Rikyu?"
"Sì. Quando fu?"
"Il 28 marzo di alcuni anni fa. hai dimenticato, vero? Non ci
si può fidare di te. è desolante."
2.
"è un sarusuberi?" domandò Kikue alla moglie del bonzo,
dopo aver levato lo sguardo a osservare la zona destra del giardino.
"è una shorea ", rispose a voce alta la donna. "Le foglie
non assomigliano a quelle del sarusuberi. E anche i rami
sono più imponenti."
"Oh, una shorea!"
"Sì, l'albero che si dice sia improvvisamente appassito
e sbiancato nell'istante in cui Sakyamuni, il Buddha, scomparve dalla
terra. Lo si vede dipinto nelle raffigurazioni del Nirvana."
"Che albero prezioso!"
"Ha fiori candidi; dalla grossa corolla. Basta guardare
come cadono per ricordare l'inizio dello Heike Monogatari:'Il suono della
campana del tempio del Gion...' Alla sera le corolle appena dischiuse
cadono. "
(Storia degli Heike, romanzo epico del 12esimo secolo che si innesta
nella tradizione del grande Genji Monogatari narrando la lotta tra
le famiglie degli Heike e dei Genji. L'incìpit è un classico della
cultura giapponese: "Il suono della campana del tempio del Gion è
l'eco della caducità del mondo delle apparenze, la tinta dei
fiori di shorea dimostra il principio della decadenza ineluttabile dei
potenti. Effimero sarà il loro orgoglio, come un sogno in una notte
di primavera". (N.d.T.)
"Sbocciano il mattino e appassiscono la sera?"
"Esatto."
La donna si sedette sulla veranda dell'alloggio dell'abate,
lontana sia da Mizuhara sia da Kikue.
Era venuta a vedere perché non uscissero dalla saletta da tè.
Li aveva trovati seduti sulla veranda e, avvicinatasi,
aveva aperto gli shoji in modo che potessero ammirare i
dipinti dei fusuma.
Mizuhara guardò distrattamente sia i dipinti sia le
pietre del giardino, che aveva già ammirato numerose volte.
Kikue sedeva dietro di lui.
"Vicino al fossato c'è un'altra shorea più piccola. è nata qui,
non proviene dall'India. Chissà come saranno i fiori."
"Non è ancora fiorita?" domandò Mizuhara osservando
l'alberello. I rami non erano contorti, bensì dritti come
quelli di un pioppo.
"Non ancora", rispose la donna sbirciando Kikue.
Quindi le rivolse la parola: "Non si angustii troppo. Nella
vita ora si piange ora si ride".
"Già", rispose stupita Kikue voltandosi.
"Comunque lo si consideri, questo mondo è difficile.
Non vale la pena di stare sempre in tensione. Si rilassi."
"Ha ragione. La ringrazio."
"In genere sono sciocchezze. Ci affliggiamo terribilmente
per cose di nessuna importanza."
"Com'è vero! Ma è così difficile per una come me
giungere all'illuminazione! Mi piacerebbe frequentare
questo tempio per ascoltare i discorsi del vecchio Maestro. "
"Ah, non servirebbe a nulla! L'abate ha l'aria di essere
un illuminato perché non ha null'altro da fare. Ma in fondo è
bello arrivare a un'età in cui non si ha altro traguardo
che l'illuminazione. In fondo, per 'aprire gli occhi',
basta vivere a lungo."
"Sarebbe un guaio se i vecchi avessero ancora passioni violente!"
"Già, perché non sarebbe soltanto la passione per il
danaro... Anche a questa età mi capita di domandarmi
perché mai sia nata donna. Succede anche a lei?"
"Sì."
"Immagino", concluse bruscamente la moglie del bonzo e si allontanò.
Kikue fissò l'angolo della veranda in cui fino a pochi
istanti prima era seduta la donna.
"Mi ha detto cose giuste, ma a me sono sembrate rimproveri,
ho provato imbarazzo. Che le hai raccontato?"
"Niente. Soltanto che ti aspettavo."
"Ah sì? Che abbia intuito qualcosa dalla mia espressione?
Era inevitabile, dato che sono smagrita per le preoccupazioni
e sono anche vestita così male. Chi le hai detto che sono?"
Mizuhara riluttava a confessare di averla definita "una donna
lasciata da tempo".
"Sembra quasi che mi abbia voluto dire: 'Non provare
a sedurlo!' Che stupidaggine!" Kikue si sforzò di sorridere
e guardò Mizuhara.
Egli non provava alcuna attrazione per lei. Indubbiamente non
era altro che una donna abbandonata da lungo tempo. La sua presenza
pareva aver cancellato l'immagine antica di Kikue.
In fondo era una delusione.
Eppure la donna che aveva di fronte non era molto diversa dalla
Kikue di un tempo. I chiari occhi castani che
rilucevano quando egli l'abbracciava avevano perso lumi-
nosità. La forma della bocca si era modificata, i contorni
apparivano ora rilassati. Forse anche i capezzoli, che erano
del medesimo incarnato delle labbra, erano lievemente avvizziti.
Ma la donna non dimostrava la sua età. Non era smagrita come affermava.
Allora Mizuhara ebbe l'impressione che a dividerli fossero
piuttosto i mesi e gli anni trascorsi dalla loro separazione.
Gli pareva che essi formassero un muro divisorio tra lui e la donna.
Era come se, più che lei, stesse incontrando quegli anni e quei mesi.
Il tempo aveva dunque risolto la loro relazione? L'aveva consumata?
Si erano lasciati, troncando in un colpo solo il loro legame;
Mizuhara avrebbe potuto sentirsi meglio, invece
aveva provato tristezza e un senso di colpa verso Kikue.
Cercò di rianimare la nostalgia, il senso di intimità che
aveva provato per la donna di un tempo.
Allora, sorprendentemente, risorse in lui l'immagine
della moglie, più viva che mai.
Aveva persino l'impressione che la perdita dell'intimità
ben più stretta che aveva con la moglie gli avesse precluso
l'intimità con l'amante.
Gli era difficile capire che cosa la donna stesse pensando
in quel momento. Erano sincere le parole pronunciate
poco prima?
Provò un impaziente desiderio di accostarsi ancor di più a lei.
"L'anno scorso è morta mia moglie", disse.
"Oh!" Kikue lo guardò stupita, con un'espressione
afflitta sulle sopracciglia e sulle palpebre. "Non sapevo perché,
ma avevo intuito la tua depressione." Il volto con-
fuso di Kikue pareva in procinto di piangere. "Ero preoccupata,
e mi domandavo come stavi. Che disgrazia!"
"Delle madri delle mie tre figlie sei rimasta solo tu."
"Davvero? è rimasta l'immondizia. Che orribile bizzarria. "
"Quando sarò morto sarai tu l'unica donna a ricordarmi. "
"Non spaventarmi! Perché questi discorsi? Sei così triste?"
"è la realtà."
Kikue lo guardò attentamente.
"Non lo dico per essere ricordato con più sentimento,
ma vorrei essermi preso più cura di te..."
"Che dici? Avresti dovuto rivolgere questa frase a tua
moglie. Tu mi hai trattata benissimo. Non ti ho dimenticato
neppure un giorno."
La donna aveva intuito che chiedendo scusa a lei, Mizuhara
aveva l'impressione di rivolgersi alla moglie morta.
"Ma perché hai voluto incontrarmi ora che tua moglie
è scomparsa? Dimmi qual è il motivo, altrimenti non sono
tranquilla. E poi cosa penserebbero le tue figlie rimaste
in albergo se venissero a saperlo?"
Mizuhara esitava a risponderle.
"Sei terribile!" commentò Kikue scuotendo la testa.
Dopo alcuni istanti di silenzio si alzarono.
"Andiamo a rendere omaggio alla tomba di Rikyu",
annunciò Mizuhara sulla soglia.
"Sì. Adesso apro", rispose la signora arrivando con le
chiavi e aprendo la porticina di legno del giardino.
Davanti alla tomba di Rikyu, Kikue domandò:
"Hai costruito la tomba per tua moglie?"
"No. Non ancora."
"Davvero? Immagino che anche lei abbia veduto questa tomba.
Renderò omaggio alla stele di fronte a cui ha
sostato tua moglie." Congiunse le mani e mormorò:
"Le chiedo perdono".
Quella donna era un enigma per Mizuhara. Non riusciva
a capire quale fosse il confine tra l'abitudine e il vero sentimento.
Anche se la considerava una sua donna, era ormai probabilmente
mantenuta da un altro uomo.
3.
Usciti dal portale del tempietto della Luce Concentrata
s'inoltrarono lungo un sentiero che terminava in direzio-
ne ovest con un lieve pendio e conduceva all'eremo della
Barca di Giunchi Solitaria, costruito da Kobori Enshu.
(Generale dell'epoca Momoyama, applicò il suo ingegno anche
alla progettazione di giardini e all'arte del tè. (N.d.T.)
Mizuhara conosceva il sentiero che dall'eremo della
Barca di Giunchi Solitaria proseguiva verso la vetta dei
Falchi e al tempio di Koetsu.
Si fermò a contemplare le quiete ombre dei pini e dei
bambù proiettate ormai obliquamente sul sentiero rettilineo.
I padiglioni in cui alloggiavano i monaci erano allineati
lungo il lato settentrionale.
"Che aspetto bizzarro ha l'abate del tempietto della
Luce Concentrata!" commentò Kikue.
Mizuhara, continuando a osservare il sentiero, rispose:
"Si considera un aborigeno. Si veste come si vestono gli Ainu..."
"Davvero? Mi ha stupita."
"è un'interessante 'immagine del supremo'."
"Cosa?"
"Si chiama così il ritratto di un bonzo Zen."
"Davvero? Lo rammenterò. Non avevo mai visto una
barba intrecciata."
"Sì, è un bonzo bizzarro."
"Lascia crescere peli e capelli in piena libertà. In fondo
non gli stanno male. Gli incorniciano il volto."
"Da giovane era un bell'uomo. Si pensava che sarebbe
divenuto l'abate supremo del Daitokuji, e invece è stato
travolto dalle onde del mondo fluttuante."
"è proprio vero che chi da giovane prova tante amarezze
si addolcisce con l'età e si illumina. 'Passione equivale
a illuminazione'."
Giunti al portale del tempietto della Vista Totale
Mizuhara si fermò e disse:
"Wabisuke dev'essere fiorita".
Quello era il nome della camelia prediletta da Toyotomi
Hideyoshi. Fioriva in fondo a un campo di grano. Durante
la guerra il giardino era stato trasformato in campo. Tra le
tenere spighe svettava la camelia. Aveva fiori bianchi scre-
ziati di giallo, con corolle più piccole del normale.
"Sono trascorsi quindici anni da quando venimmo qui
con Wakako in braccio", disse Kikue. "Quando osservai
che nel giardino non c'era nessuno Wakako esclamò che
c'erano i fiori. Te ne sei dimenticato?"
"No, ricordo", rispose Mizuhara ed ebbe l'impressione
che la grande camelia fiorisse in un altro mondo.
"Come sarebbe bello poter tornare a quel tempo! Che
meraviglia essere qui con te se fossi giovane come allora!"
"E io vecchio? Sarebbe imbarazzante".
"Non importa. Negli uomini l'età non conta. Ah, se
fossi giovane!"
"Non dire assurdità. è un discorso egoista."
"Siete voi uomini a essere egoisti. Prova a farti un esame
di coscienza. Certo, le donne invecchiando hanno
pensieri contorti ma... "
"E tu", Mizuhara assunse un tono più formale, "come
stai? come ti va la vita?"
"Grazie dell'interessamento. Mi sono arrangiata in
qualche modo", rispose evasivamente la donna. "L'essere
umano ha sempre qualche sofferenza da sopportare. Non
c'è mai un periodo completamente favorevole."
Mizuhara non aveva più il diritto di intromettersi nella
vita di Kikue, ma pensava che durante gli anni di guerra,
e anche dopo, la donna doveva aver affrontato indicibili
difficoltà nell'allevare da sola le due figlie e che per
mantenerle si era probabilmente venduta.
"Mia moglie si è sempre preoccupata per Wakako."
"Davvero? Le sono grata. Le ho fatto del male. Mi
dispiace molto. Pregherò con fervore negli anniversari
della sua morte."
Le parole di Kikue parvero a Mizuhara molto superficiali.
"Mi sono permessa di allevare con cura Wakako", proseguì,
come se avesse avuto in affidamento una bambina
non sua. "Però a causa sua ho dato motivo di sofferenza
alla maggiore. "
"Come sta la tua primogenita?"
"Yuko è fuori."
Evidentemente intendeva dire che esercitava il mestiere di geisha.
Mizuhara si allontanò dalla grossa camelia e uscì dal portale.
"Forse perché ha sofferto fin da piccola, Yuko è diventata
una ragazza un po' freddina... Non nutre molto affetto per la sorella",
confidò Kikue mentre camminava.
"Wakako ha un animo gentile però..."
"Avresti fatto bene a condurla qui."
"Avrei voluto, ma non sapevo se saresti stato d'accordo..."
"Non posso certamente incontrarla con fierezza annunciando:
'Sono tuo padre'."
"Ma che dici? Pensi che abbia dimenticato come la
vezzeggiavi da piccola? Quando le ho detto che ti avrei
incontrato mi ha accompagnata fin sulla soglia di casa
con le lacrime agli occhi."
"Davvero?"
"L'hanno scorso Yuko ha partorito una bambina. Il padre
è un tipo insolito. Nonostante sia ancora giovane
ha preso con sé la bambina e l'ha portata a Tokyo. è scapolo,
l'alleva da solo. Ogni tanto la riporta a Kyoto perché
veda la mamma. Viaggia in treno, con la bambina in
braccio. è un uomo raro al giorno d'oggi. Afferma di essere
pronto a sposare Yuko. Ma lei non vuole, anche se
le ripeto che sarebbe una fortuna insperata e che sarà punita
per la sua ostinazione. Le dico di stare tranquilla: se
lei se ne andrà, non farò lavorare Wakako al suo posto.
Avrò cura di Wakako perché voglio bene a suo padre.
Continuo a ripeterlo, ma Yuko è una ragazza terribile.
Anche quando le portano la figlia esita persino a prenderla
in braccio. è quasi sempre Wakako ad aver cura della
bambina. Povera piccola, fa pena. è impossibile sopportare
scene simili. Così mi sono fatta coraggio e gli ho detto:
'è figlia di una geisha, no? Non si sa se è davvero lei
il padre. Potrebbe benissimo abbandonarla. D'altronde
anch'io ho allevato due figlie senza l'aiuto del padre'. Ma
lui non mi ha mai ascoltata. Ho persino proposto a Wakako:
'Nasconditi in un altro luogo con la bambina, così
lui finirà per rassegnarsi'. "
Mizuhara si sentì ferito nei suoi sentimenti, anche se probabilmente Kikue
non aveva intenzione di paragonarlo a quel padre lodevole.
Pensò anche che fosse l'uomo incontrato in treno da Asako alla
fine dell'anno precedente.
Dai discorsi di Kikue comprese che dopo la loro separazione
la donna non aveva avuto altri figli e che Wakako era allevata con cura.
"L'altro ieri è arrivato di nuovo con la bambina. Ha detto che
oggi l'avrebbe portata a vedere le Danze della Capitale."
"Davvero? Ci saranno anche le mie figlie."
"Oh, che guaio!" Kikue pareva sgomenta. "S'incontreranno... Che
fare? Wakako sarà andata con lui per tenere la bambina,
vedrà le sorelle..."
"Già."
"Già? Eh sì, per te è facile sistemare tutto con un semplice 'già'!
Sappi che questa situazione non mi va. Sono
contraria. è vero, non si sono mai viste, e anche incon-
trandosi sarà difficile che capiscano di essere sorelle. Ma
se capitasse Wakako soffrirebbe. Mi fa pena, poverina.
Scusa, ma non ho nessuna voglia che incontri le altre tue
figlie. Sarebbe invece felice di incontrare solo te..."
"è proprio di questo che intendevo parlarti. Ho accompagnato
a Kyoto le altre mie figlie proprio con l'intenzione
di presentarle a Wakako."
"Ah sì?"
Kikue era stranamente calma.
"Perché tua moglie è morta?"
Mizuhara ebbe l'impressione di ricevere una pugnalata.
"Non esattamente", rispose. "L'anno scorso Asako è
venuta a Kyoto all'insaputa mia e della sorella proprio
per cercare Wakako."
"Davvero? Come avrei potuto immaginarlo?" Kikue
parve stupita, ma aggiunse subito gelidamente: "Come
dice il proverbio: 'Chi ignora è sereno come un Buddha'.
Avrebbe fatto meglio a non cercarla. Non vorrei che mia
figlia subisse umiliazioni, finisse con l'essere criticata."
"Asako non è affatto venuta per investigare su di voi.
Agisce così soltanto per bontà. D'altronde non me ne
aveva neppure parlato. E poi sul suo comportamento influisce
anche la tristezza di avere perso la madre."
Kikue annuì.
"Scusami, ormai ho una natura contorta. E poi è un discorso
così improvviso che non sono ancora pronta ad accettarlo. "
"Vorrei che ti preparassi a farlo."
"Sì, grazie. Anche Wakako è una creatura nata da un
padre e da una madre", disse Kikue con una sorprendente
espressione buddhista. "Ma non avrai per caso intenzione
di togliermela?"
"Fino a questo punto non..." rispose ambiguamente Mizuhara.
"Wakako ha la sua vita, il suo destino. L'unica cosa che
ti posso assicurare è che non ha dimenticato suo padre."
"Davvero? Sono fortunato: ho tre figlie di donne diverse
che mi vogliono bene..."
"Sì, sei fortunato. Devi esserne fiero. E poi le donne
si arrangiano sempre, in qualche modo".
Risero guardandosi in volto. Si accorsero di aver sostato a lungo.
Ombre di foglie di bambù erano proiettate sui loro piedi.
Superarono il portale del Tempio del Drago Volante.
Ai lati del sentiero lastricato con pietre a forma di sottili
rettangoli, simili a cartoncini di poesie, gli aceri protendevano
i rami dalle tenere foglie. Erano di un verde
così luminoso che pareva riverberare sulle pietre.
Mizuhara aveva conosciuto il vecchio Maestro di quel
tempio a Shanghai, durante la guerra. Molto più giovane
dell'abate del tempietto della Luce Concentrata, raccontò
con precisione ricordi del viaggio in Cina e come in
America fosse di moda studiare lo Zen.
Li invitò nella saletta per il tè a gustare una colazione
a base di germogli di bambù del vicino boschetto.
"Ah, una camelia nera!" notò Mizuhara avvicinandosi
al vasetto appeso alla parete.
"Purtroppo non ho trovato bei boccioli. Avevo visto
un ramo con dei fiori appena schiusi, sono andato per co-
glierli ma non sono più riuscito a vederli. Ho girato intorno
alla pianta ma il rametto era sparito. La camelia è in
un angolo del giardino. Mi pare strano che qualcuno si
sia intrufolato per rubare un fiore", disse il vecchio Maestro
alle spalle di Mizuhara.
Anche la camelia nel vasetto di bambù aveva dei boccioli.
Ma probabilmente quelli che il vecchio Maestro
avrebbe desiderato mostrare erano ancora più neri. La
tinta dei boccioli era più scura di quella del fiore. Il vecchio
Maestro spiegò che in primavera il colore dei fiori
si attenuava. Più le camelie erano nere più erano apprezzate.
La corolla era piccola, a forma di pigna, con petali
grossi, come di velluto. Era un fiore dall'aspetto molto elegante.
Usciti dal tempio del Drago Volante si diressero al padiglione
della Alta Paulonia, ed entrarono nella saletta per il
tè che si tramandava fosse stata l'abitazione di Rikyu.
"Kerria bianchi e 'Scorda-la-capitale', vero?" domandò
Mizuhara contemplando i fiori disposti nel tokonoma.
"Sì, 'Scorda-la-capitale'", rispose il vecchio Maestro.
Erano simili ai crisantemi selvatici.
"Immagino che a Tokyo non esistano più tassi", disse
il vecchio Maestro. "Sotto le assi di questa veranda c'è
una loro tana."
"Ce n'è uno solo?"
"Credo siano tre. Escono spesso a giocare in giardino."
Accanto alla porticina del giardino c'era un passaggio
che consentiva ai tassi di avventurarsi nel boschetto.
Mizuhara scese in giardino a vedere la tomba di Yusai Hosokawa.
"è bello avere una pagoda di pietra come tomba. Mi
piace anche la tomba di Rikyu. Li invidio", commentò
Mizuhara girando intorno al monumento funebre per osservare
un punto in cui la pietra si era sgretolata, mentre
Kikue gli sussurrava da dietro le spalle:
"Vorrei un petalo di quella camelia".
"La camelia nera?"
"Sì."
Mizuhara tornò con il fiore tolto dal vasetto di bambù
del tempio del Drago Volante.
"Vorrei mostrarlo a Wakako... "
Mizuhara le porse il rametto fiorito.
"Oh, ma basta un petalo!" esclamò Kikue strappandone
uno dalla corolla.
Mizuhara aveva chiesto il rametto al vecchio Maestro
dicendo che desiderava mostrarlo alla figlia.

6. FALò SOTTO I FIORI.


1.
Mentre la sorella dormiva Asako uscì cautamente dalla
camera. Nel corridoio incontrò una cameriera che le domandò:
"Vuole lavarsi l'onorevole volto?"
Quindi la seguì, accese la luce del bagno, aprì il rubi-
netto e tirò la tenda. I lavabi di quell'albergo alla giapponese
erano divisi da un pannello per consentire una certa intimità.
Lo specchio era a tre ante.
Lavandosi l'"onorevole volto" Asako ricordò "l'onorevole patata"
e gli "onorevoli fagioli" della colazione. Anche le patate
dolci a forma di scampi e i piselli erano teneri a Kyoto,
per non parlare della delicatezza dei germogli
di bambù e dei vermicelli di crema di soia, eppure non
era a essi tributato il titolo di "onorevole".
Approfittando del sonno della sorella, Asako telefonò a
bassa voce all'amica di Kyoto che l'aveva ospitata a fine
d'anno. Sentiva la necessità di essere prudente, poiché
non comprendeva il motivo che aveva indotto il padre ad
accompagnarle a Kyoto, né i sentimenti della sorella.
Tornò in camera e lesse il libretto informativo sulle
Danze della Capitale.
"E papà?" domandò la voce di Momoko.
Asako si voltò: "Ti alzi?"
"No, non ancora. Sono stata l'unica a non dormire ieri
notte. Papà ogni tanto si appisolava."
Asako le consegnò il biglietto lasciato dal padre.
"Ah, al Daitokuji!" commentò laconicamente Momoko.
"Che uomo terribile! Ci ha già seminate! Non importa,
meglio essere liberi di agire ognuno a modo suo."
Asako fissò la sorella.
"Va' pure a vedere le Danze della Capitale. Io dormirò
ancora un poco".
"Ma sono già le dodici e mezzo!"
Momoko contò con le dita sul risvolto del lenzuolo.
Affermò di avere dormito soltanto quattro ore, ma si
decise ad alzarsi.
Asako le mostrò il libretto con le fotografie delle danze,
sollecitandola ad accompagnarla. Momoko acconsentì
di malavoglia.
Le Danze della Capitale, introdotte nel 1872, e sospese
nel 1943 a causa della guerra, riprendevano dopo un
intervallo di sette anni.
"C'è scritto che le lanterne rosse appese alle grondaie
delle case con i disegni stilizzati di polpette di farina di
riso infilzate sono l'emblema delle Danze e annunciano
la fioritura dei ciliegi del Gion", spiegò Asako.
"Davvero? Ci siamo venute da studentesse in gita scolastica
e abbiamo chiesto autografi alle maiko, ricordi?
(Ragazza della sala da tè che intrattiene gli avventori danzando.
A Kyoto è considerato il gradino immediatamente precedente prima
di diventare geisha a tutti gli effetti. (N.d.T.)
"Era un periodo tranquillo", commentò Momoko.
La loro sorella era nata in quel quartiere di geishe. Asako
non ne conosceva il nome. Momoko pensò che la matrigna
era stata molto abile a nasconderlo. Lei stessa non aveva
che vaghe informazioni. Dubitava che il padre si sarebbe
diviso dalla donna di Kyoto se non fosse scoppiata la
guerra che aveva interrotto anche le Danze della Capitale.
Ma per quale impudenza, o con quale segreto intento
le costringeva a recarsi nel quartiere in cui era nata la
sorella minore?
Momoko si sentiva umiliata; non ne aveva alcuna voglia.
Per tutto il tempo che rimase seduta di fronte allo
specchio, Asako le stette accanto pettinandole i capelli
sulla nuca e leggendole il libretto sulle Danze della Capitale.
Nel 1869 era stata inaugurata a Ishidanshita, nel quartiere del Gion,
la prima scuola elementare del Giappone.
Geishe e maiko venivano chiamate "operaie" e l'ufficio
che ne gestiva l'attività aveva assunto il titolo di "ditta
a favore dell'attività operaia". Era il periodo di confusione
succeduto alla Riforma Meiji.
(Riforma costituzionale del 1868 che segna il passaggio del Giappone
a una struttura centralistica, superando l'antica organizzazione
feudale e da cui si usa far iniziare la storia del moderno stato
giapponese. (N.d.T.)
La prima esposizione internazionale in Giappone si tenne a Kyoto
dall'autunno del 1871 alla primavera del 1872. Le Danze della Capitale
furono ideate in quell'occasione.
"Durante la guerra le geishe ridivennero operaie", raccontò Momoko
sfoggiando le sue informazioni libresche.
"Poi, terminata la guerra, furono di nuovo costrette a indossare
l'obi fluente."
(Tipica fascia lunga e larga che, annodata in vita sul kimono, ne
rappresenta anche l'elemento più decorativo. Le maiko usano accon-
ciarne le estremità in una foggia particolare. (N.d.T.)
"è il simbolo delle maiko. Ma ho letto sul giornale del
mattino che tra quelle che offrono il tè agli spettatori delle
Danze della Capitale alcune non hanno ancora l'età
consentita. Un'infrazione alla legge sul lavoro minorile",
aggiunse Asako.
"L'obi fluente delle maiko equivale alla crocchia dei
lottatori di sumo. A ben riflettere sono strani. Sì, veramente
strani. Ma sarebbe ancor più strano se i lottatori
di sumo non tenessero i capelli lunghi raccolti in una
crocchia. In fondo sono bizzarre anche la testa rasata e
la tonaca dei bonzi. Anche nel nostro animo, nella nostra
vita, esistono cose che equivalgono alla crocchia dei lot-
tatori di sumo e all'obi fluente delle maiko. Molte..." as-
seri Momoko alzandosi e annodandosi con abilità l'obi.
"D'altronde non c'è grande differenza tra il tuo obi e
quello delle maiko, non ti pare?" osservò Asako.
"Sì, quando ci si abbiglia o si segue la moda imitando
gli altri, o si cerca di mantenere uno stile classico basandosi
su modelli preesistenti. Non c'è scampo. Si dice però
che l'imitazione cancelli la bellezza."
Asako raccolse i capelli caduti che la sorella aveva
attorcigliato e sospinto in un angolo della specchiera e li
gettò nel cestino della carta straccia.
"Nessuno ti ha chiesto di farlo! Sei odiosa! Ci avrei
pensato io." Momoko, irritata, corrugò la fronte abbassando
lo sguardo sulla sorella.
2.
Sia il quartiere Shinkyogoku sia la strada Kawaramachi
erano gremite di gente. Traversato il ponte di Sanjo le sorelle
proseguirono lungo la via Nawate verso Shijo. Il ponte
di Sanjo era stato ricostruito. Le balaustre erano di legno,
con un giboshu di bronzo.
(Pomolo ornamentale a forma di fiore di porro posto all'inizio di
una balaustra o di un corrimano. (N.d.T.)
Era sparita la statua bronzea di Hikokuro Takayama, collocata in
fondo al ponte. Momoko contemplò il corso superiore del fiume, con
il monte Kitayama velato dalla foschia, il verde dei salici
sulla riva opposta, le colline Higashiyama ricoperte di alberi
dalle tenere foglie e di fiori, e sentì la primavera di Kyoto.
Il Kaburenjo, il teatro in cui tradizionalmente si tenevano
le Danze della Capitale, era ancora gestito da una
società che organizzava spettacoli che l'aveva trasformato
in un cinema, perciò quell'anno le danze avevano luogo
nel Minamiza, il teatro del kabuki. Il tè veniva offerto
agli spettatori non nella raffinata atmosfera del Kaburenjo,
bensì in uno squallido salone all'occidentale in cui la
geisha compiva la cerimonia stando in piedi.
Momoko si accingeva a sedersi su uno sgabello tondo
quando Asako esclamò: "Oh!"
Anche la persona che aveva suscitato la sua meraviglia
si accorse di lei e chinò lievemente il capo dicendo:
"La ringrazio ancora per quel giorno..."
Lungo stretti banchi disposti in fila erano seduti gli
spettatori in attesa del tè.
Otani sedeva a tre posti di distanza da Asako. Alla sua
destra v'era una giovane donna che teneva in braccio la bambina.
Otani sorseggiò il tè verde, si alzò e si mise davanti a Asako.
"Mi ha riconosciuto subito per la bambina?" domandò.
"Sì." Asako distolse lo sguardo dall'uomo e lo rivolse alla figlia.
"Sta bene la piccolina?"
"Sì, è in buona salute."
Poi l'uomo chiamò: "Wakako! Wakako!"
La ragazza, dopo aver fatto un lieve inchino ad Asako,
si stava allontanando con la bambina in braccio.
"Questa è la signorina che in treno, quando tornavamo
a Tokyo a fine d'anno, è stata molto gentile con Chiiko."
La ragazza, lievemente imbarazzata, s'inchinò silenziosamente.
"Com'è cresciuta!" esclamò Asako. Allora la ragazza si
curvò a mostrarle la bambina.
Una tazza di tè verde fu posta davanti ad Asako.
"Scusi il disturbo, ci vedremo dopo", si affrettò a dire
l'uomo e uscì dal salone.
Quando le due sorelle si alzarono si sentirono ripetere:
"Prego, il piattino è in omaggio."
Asako avvolse in un fazzoletto i due piattini su cui erano
dipinte le polpette di farina di riso infilzate.
Mentre uscivano dal salone Momoko domandò ad Asako:
"Chi sarà la ragazza con la bambina?"
"Non so. In un primo momento ho pensato che fosse
la madre, e che lui avesse tenuto con sé la figlia perché
lei era troppo giovane per allevarla. Ma probabilmente
non è la madre."
"Figuriamoci! Basta uno sguardo per capire che è ancora
una ragazzina. Una figlia alla sua età sarebbe una disgrazia.
Ho l'impressione di averla già vista da qualche parte."
"Sì? E dove?"
"Al cinema. Somiglia vagamente alla maiko di La tredicesima
notte d'amore."
"La maiko interpretata da Keiko Orihara?" domandò
Asako. "Non mi pare che abbia un'aria così triste e fredda. "
"Perché è giovanissima, avrà diciassette o diciotto anni.
E poi è carina e grassoccia."
"Sì, forse, nell'insieme, una certa somiglianza esiste.
Hai ragione."
"Che tipo quell'Otani, non me lo aspettavo così! A
sentire le tue descrizioni pensavo fosse più effeminato.
Invece è molto virile. Strano che un uomo simile riesca
ad accudire una bambina così piccola."
Il pubblico era raggruppato in una sala d'attesa. C'era
molta gente.
Le Danze della Capitale erano uno spettacolo breve,
ripetuto quattro o cinque volte durante la giornata. Il
pubblico attendeva la fine della rappresentazione per
prendere posto nel teatro.
Alle pareti della sala d'attesa pendevano dipinti di fiori
e di uccelli e strisce di cartone colorato con waka e haiku,
di cui erano autrici le geishe. Tutti piuttosto convenzionali,
ma non privi di gusto.
Mentre Momoko e Asako erano intente a osservarli,
Otani si alzò dal divano di fronte e le raggiunse.
"Volete accomodarvi? Prego."
"No, grazie" rispose Asako.
Wakako si era alzata dal divano con la bambina in
braccio e offriva il suo posto.
Otani si avvicinò a loro e ripeté l'invito.
Asako si accostò al divano e disse: "Si segga lei, che ha la bambina".
Wakako lanciò uno sguardo imbarazzato a Otani.
L'uomo le premette lievemente le spalle sollecitandola a sedere.
"In che luogo insolito ci incontriamo! Sarete qui per le
Danze della Capitale, immagino."
L'espressione dubbiosa dell'uomo suscitò un sorriso di
Asako che domandò a sua volta:
"Che c'è di strano ad assistere a questo spettacolo?"
"Nulla. Ma non immaginavo di incontrarla qui."
"E lei, piuttosto, che è venuto a mostrare le danze a
una bambina così piccola?"
"No, più che alla bambina intendo mostrarle alla bambinaia",
rispose Otani ridendo e guardando Wakako.
La giovane arrossì, schiuse le labbra ma tacque con un
sorriso che rivelò due fossette.
"Però ha ragione. Non c'è nessuno che conduca una
bambina così piccola a vedere le Danze della Capitale",
continuò Otani. "Ah, ricordo! Quel giorno sul treno lei mi
rimproverò perché mostravo l'arcobaleno a un lattante."
"No, ho detto che da grande sarebbe stata felice di sapere
di avere visto l'arcobaleno in braccio al padre."
Asako si esprimeva con il tono nostalgico assunto dall'uomo.
Ma in fondo si erano incontrati soltanto una volta in treno.
Si accorse di non aver ancora presentato la sorella.
"Questa mattina", disse accennando alla sua presenza,
"quando il treno è passato accanto alla riva del lago Biwa,
ho raccontato dell'arcobaleno a mia sorella."
"Ah, immaginavo che foste sorelle." Otani guardò Momoko.
Momoko si avvicinò e chinò il capo.
"Ti presento il signor Otani", disse Asako.
"In treno sua sorella è stata molto gentile con la mia
bambina", affermò Otani.
"Lei è gentile con chiunque. è persino imbarazzante.
Sembra quasi che voglia imporre a tutti i costi la sua gentilezza."
Otani fissò a lungo Momoko con uno sguardo meravigliato.
Momoko sostenne quello sguardo con fastidio malcelato.
Otani chinò gli occhi.
Aveva la sensazione di vedere ancora gli occhi sfavillanti di Momoko.
Gli era rimasta impressa l'immagine della sua fronte bianca.
Asako si chinò sulla bambina.
"Ha già compiuto un anno, vero? Ricordo che allora
aveva nove mesi", e continuando a tenere lo sguardo
abbassato sulla bambina si sedette con naturalezza accanto
a Wakako. La ragazza spostò leggermente verso di lei la
bambina che teneva sulle ginocchia.
"No, la lasci com'è. Non vorrei che si destasse", disse
Asako e sfiorò con un mignolo un lobo d'orecchio della
bambina. Sentì il profumo tipico dei lattanti mischiato
alla fragranza dei capelli di Wakako. Provò un senso di tenerezza.
"Che orecchie graziose!"
"Somigliano a quelle della mamma."
Asako guardò in viso la ragazza. Le era così vicina che
ne percepiva il respiro caldo. Aveva un trucco leggero e
l'incarnato delle orecchie era ancor più chiaro della cipria.
Le terse pupille di un marrone tenue brillavano. Lo
sguardo era semplice e cordiale. Anche il cerchio esterno
dell'iride aveva una tinta più chiara del normale.
Udirono la voce di Otani sopra le loro teste:
"Questa bambinaia è la sorella minore della mamma di
Chiiko. è più affettuosa della vera mamma".
Momoko commentò con tono severo:
"Dunque tutte le sorelle maggiori sono poco gentili?"
"Può darsi", convenne Otani e Wakako all'improvviso
sollevò lo sguardo su Momoko, che parve non accorgersene.
"Come fa a sapere che mi chiamo Otani?" domandò
l'uomo ad Asako. "Le ho forse dato un biglietto da visita?"
"No." Asako arrossì lievemente. Ho letto la targhetta
sulla sua valigia."
"Che astuzia! Bene, colgo l'occasione per presentarmi
formalmente", concluse Otani porgendo un biglietto da
visita a Momoko. Dopo aver guardato la sorella, come
per chiedere consiglio, anche Momoko trasse un biglietto
da visita dalla borsetta e disse:
"è di nostro padre. Non ne abbiamo di personali".
Otani esaminò il biglietto, quindi alzò gli occhi a fissare le sorelle:
"Oh, le figlie dell'architetto Mizuhara! è un onore conoscervi".
Wakako trasalì per lo stupore e sollevò in braccio la
bambina. Si alzò di scatto, impallidita. Si allontanò senza
voltarsi. Aveva un senso di rigidità alle gambe e vacillava
vistosamente.
La bambina piangeva.
"Che succede?" domandò Momoko.
Otani, sbalordito, seguì la ragazza.
"Che le sarà capitato? La bambina si sarà sporcata?"
"Chissà. "
Otani guardò lungo il corridoio, ma Wakako era sparita.
La ragazza si era precipitata fuori dal teatro.
Si affrettava a raggiungere la madre per informarla di
avere incontrato le sorelle.
Giunta vicino a casa ricordò che la madre era andata al Daitokuji
a incontrare il padre.
Fino a quell'istante non si era neppure accorta del pianto
della bambina che aveva in braccio.
3.
I testi dei canti che accompagnavano le Danze della Capitale
di quella primavera erano stati composti da Isamu Yoshii. Iniziavano con:
Gioioso scrivo i versi di queste canzoni,
in ricordo dell'elegante Gion della mia gioventù.
Le danze celebravano i luoghi più rinomati di Kyoto
ed erano chiamate "Specchio dei luoghi famosi". Inizia-
vano con "Tenero verde a Kamo" in ricordo della poetessa
Rengetsu, e proseguivano con "Vento sul fiume a Shijò"
in onore di Yuzen e della sua arte tintoria; "Mese piovoso
a Makuzu" in memoria del pittore Taigado; "Brina
gelata a Shimabara" che evocava la cortigiana Yoshino,
esperta nell'arte del tè; "Tracce di neve sulla collina dei
Falchi", dedicata al calligrafo Koetsu. Lo spettacolo era
congegnato in modo che ogni scena rappresentasse un
cultore di un'arte diversa.
Momoko e Asako erano sedute vicino al palcoscenico.
Asako scorse Otani seduto in una fila in fondo alla platea.
Ma non vide Wakako.
"C'è soltanto l'uomo. Dove sarà finita la ragazza?"
"Che strano! è impallidita come se qualcosa l'avesse
spaventata. Villana ad andarsene così, non ti pare?"
"Sarà accaduto qualcosa alla bambina. Può darsi che
l'abbia affidata a qualcuno. Forse la ragazza è seduta
accanto a Otani." Asako sembrava preoccupata.
"Quel kimono dai motivi così graziosi le stava molto bene."
"Sì, te ne sei accorta anche tu? Seta tinta qui a Kyoto,
e anche l'obi era molto bello."
"Ha l'età di una liceale ma ho l'impressione che non
frequenti alcuna scuola."
La dolce era Shòwa
(Regno dell'imperatore Hirohito. (N.d.T.)
già accumula venticinque anni
e di nuovo in forma di danza...

Con questo canto iniziava il preludio, "Rami di bambù


a oriente del fiume Kamo".
"Le Danze della Capitale", intonò un coro. "Eccole qua", rispose un altro.
Ai lati opposti del palcoscenico, addobbato di fusuma
d'argento, apparvero le danzatrici in fila, con in mano un
flessuoso ramo di ciliegio come ventaglio. Era il tradizionale
inizio dello spettacolo.
Le suonatrici sedevano allineate lungo entrambe le
passerelle alle estremità del palco. Le trentadue danzatrici,
in due file di sedici, incedevano lentamente verso il
centro del palcoscenico.
I loro volti pesantemente truccati si avvicinavano e
lo sguardo di Momoko passava velocemente dall'uno all'altro.
L'attrattiva principale dello spettacolo era costituita
dalla terza e dalla quinta scena: "Vento sul fiume a Shijo"
e "Brina gelata a Shimabara", durante la quale a Shoeki
Haiya appariva l'immagine della defunta Yoshino, che
egli, impazzito, tentava di seguire. Solo quelle erano degne
di essere rappresentate in un teatro, ma ad Asako
parvero anch'esse dilettantesche e poco soddisfacenti.
Quelle danze di scuola kyomai, (Stile di danza tipico di Kyoto.(N.d.T.)
ideate da Inoue, erano molto diverse dalle danze di Edo, influenzate
dal kabuki e dalle movenze vivaci e impetuose: disegnavano figure
più sobrie ed eleganti, al cui languore, tuttavia, Asako non
riusciva ad abituarsi.
Il teatro del kabuki era troppo grande per quelle danze.
"Tutto qui questo spettacolo tanto decantato? Riconosco però
che è aggraziato", meditò continuando a guardare con più agio.
Anche Momoko aveva l'aria sperduta.
Le scene mutavano rapidamente, a sipario alzato, come in
una lanterna magica.
Nella scena finale dei "Ciliegi notturni a Maruyama"
tutte le danzatrici sfilavano di nuovo sulle passerelle tenendo
in una mano il ventaglio e nell'altra il ramo di ciliegio.
Asako guardò con sollievo Momoko e commentò:
"Che lentezza!"
"Colpa di noi spettatori che non conosciamo né il kyomai
né le geishe. In genere qui si viene ad ammirare le
ragazze conosciute".
Non videro Otani. Doveva essere già uscito da teatro.
Stavano per incamminarsi lungo la Shijo quando si
sentirono chiamare:
"Signorine Mizuhara!"
Momoko si fermò meravigliata.
"è tanto tempo che non ci vediamo. Sono Natsuji Aoki. "
"Oh!" Momoko impallidì.
Lo studente arrossì e aggiunse, quasi balbettando:
"Quanto tempo è trascorso! Mio padre mi ha mandato
a cercarvi in albergo. Ho saputo che eravate qui, a vedere
le Danze della Capitale. Non le trovo interessanti, così
ho preferito rimanere fuori ad aspettarvi. Sapevo che
non sarebbero durate più di un'ora.
"Ah, davvero?"
Momoko trangugiò la saliva e si preparò a resistere.
Provava una profonda, pungente sensazione di dolore.
Risorsero l'intensa vergogna e la collera provate in passato.
"Dunque è stato suo padre a chiedere al mio un progetto
per una casa da tè."
"Sì."
Momoko commentò con una gelida risatina e si volse ad Asako:
"Papà mi ha ingannata. Non avrei dovuto venire".
Asako, che non capiva, afferrò la manica della sorella.
"è il fratello minore del mio ragazzo di un tempo.
Quello morto in guerra, a Okinawa..."
"Oh!"
"Camminiamo", la sollecitò Momoko.
La Shijò era affollata di gente uscita dal teatro e di gitanti
che erano andati ad ammirare i ciliegi in fiore del parco Maruyama.
Asako si aggrappò al braccio di Momoko.
La sorella le disse con tono pacato:
"Tu eri ancora piccola. Non sapevi, vero? Non avevo
intenzione di nascondertelo... D'altronde persino papà l'ignorava.. ."
Natsuji interloquì:
"Mio padre ed io siamo dispiaciuti per lei, signorina Momoko.
Mio padre desidera scusarsi."
"Ah sì? Ma in realtà mi sono coltivata la mia sofferenza come
ho voluto. Suo fratello si è limitato a lasciar cadere un
piccolo seme e a volarsene via. Sono stata io a far germogliare
e crescere quel seme di tristezza." Quindi Momoko fissò il
giovane: "è un universitario, Natsuji?"
"Mi laureerò l'anno prossimo."
"Come trascorre veloce il tempo! In un'università di Kyoto?"
"No, di Tokyo. Sono qui in vacanza."
"Ma non vi siete stabiliti qui a Kyoto?"
"No, io sono rimasto a Tokyo."
In quell'istante Asako posò per la prima volta senza imbarazzo lo
sguardo sul giovane.
Ma non riuscì a fissarlo a lungo per l'emozione, forse
perché nei suoi tratti aveva cercato di ritrovare quelli del
volto del ragazzo di sua sorella.
Natsuji disse che il padre lo aveva incaricato di invitarle a cena.
Momoko annuì:
"D'accordo, incontrerò suo padre".
Avevano tempo: decisero di andare ad ammirare i fiori del parco Maruyama.
I colori della primavera di tutta la città
paiono riuniti in questa camera
mentre lamento la sorte
dei vetusti ciliegi di Maruyama...
Come ricordava quella canzone delle Danze della Capitale,
i vecchi ciliegi dai rami cadenti come i salici erano
stati sostituiti da giovani piante.
Passarono accanto al Saami e giunsero davanti al pen-
dio della Capanna di Kissui. Da lì lo sguardo spaziava
lungo tutta la Shijò in fondo alla quale appariva la sagoma
delle colline Nishiyama velate dalla foschia della sera.
Natsuji indicò alle sorelle i luoghi più famosi della città.
Momoko, ferma dietro di lui, gli osservava la nuca,
Era uguale a quella del fratello. Osservandola intuì che
il ragazzo era ancora vergine. Distolse penosamente lo
sguardo e chiuse gli occhi. Erano umidi di lacrime.
Avrebbe voluto giacere tra le sue braccia una volta sola
e respingerlo mentre ancora si aggrappava a lei sussultando
e dirgli: "Non vali niente, tu". Vendicarsi del fratello,
che l'aveva trattata in quel modo.
Momoko provò un triste fremito di piacere e riaprì gli
occhi. Qua e là, sotto i ciliegi fioriti del parco Maruyama,
cominciavano ad ardere i falò.

7. LA VILLA IMPERIALE DI KATSURA.


Un'autoambulanza con l'insegna della Croce Rossa attra-
versò rapidamente l'affollato parco Maruyama.
Le sorelle e il giovane si fermarono domandando che
cosa fosse accaduto.
"A furia di brindare sotto i fiori si sono ubriacati e
hanno litigato", rispose una voce nel dialetto di Kyoto.
Quanto alla gravità delle ferite aggiunse: "Erano insan-
guinati, non si capiva bene".
Momoko aveva riso con la sorella per la calma indolente
di quella voce; in seguito, ripensandovi, ebbe l'impressione
che in quel dialetto si celasse un timbro ambiguo, sadico.
Ma forse era soltanto un riflesso del suo animo.
Osservava Natsuji e Asako camminare davanti a lei:
Asako non le somigliava molto ma Natsuji era la copia
perfetta del fratello: le pareva di rivedere se stessa con
Keita, ed ebbe un lampo di gelosia.
Natsuji teneva il berretto della divisa in mano, appog-
giato all'anca. Momoko, chissà perché, si convinse che
quel berretto fosse appartenuto al fratello, anche se Natsuji
frequentava l'ultimo anno di Università, e ciò poteva
giustificare il fatto che fosse logoro.
Si sentì inturgidire il seno, come se qualcosa glielo stringesse.
Si domandò che fine avesse fatto la "tazza a forma di
seno". Era una tazza d'argento che Keita aveva creato su
un calco del seno di Momoko. Non pareva propriamente
una tazza, ma Keita aveva amato definirla in quel modo.
Anche quel giorno si stavano baciando.
Le dita di Keita, che circondava il collo di Momoko
con un braccio, erano scivolate dalle spalle al petto,
sfiorandole delicatamente un seno.
"No! No!" Momoko aveva ritratto il petto proteggendosi
il seno con le mani.
"Ah, mamma", gemeva Keita.
La sua palma assunse vigore. Momoko, nel tentativo
di contrastarla, finì invece per premersela sul seno.
"Mamma! Ah, mamma!" gemette di nuovo Keita e con
il braccio libero sospinse con maggior forza la schiena di Momoko.
"Mamma?... " Momoko sentiva riecheggiare dentro sé
la voce di Keita, come se la chiamasse da lontano.
Il cervello le si intorpidiva, aveva la sensazione di svenire.
"Mamma?..."
Momoko ebbe l'impressione d'invocare lei stessa la
madre. Perse vigore, il corpo le s'illanguidì. Allora Keita
le pose sul seno anche la mano con cui le aveva serrato
la schiena e lo racchiuse tra le palme.
"Che strano", sussurrò premendo la fronte sul petto di
Momoko, "ti ho chiamata mamma. In quel momento ho
pensato davvero che tu fossi mia madre, di averla incon-
trata, di poter andare a morire tranquillo."
Keita si era arruolato nell'aviazione. Avrebbe potuto
essere ucciso il giorno seguente. Ed era orfano di madre.
Momoko non riuscì più a contenere il suo amore. Il pudore
femminile era smorzato dalla piacevole consapevolezza
che il suo seno aveva evocato in Keita l'immagine della madre.
Si sentiva annegare in una tenerezza sacra.
Inoltre, l'invocazione di Keita aveva ridestato la sua
nostalgia per la madre morta quando era bambina.
"Perché ora riesco a essere così sereno?" si chiese Keita.
"In questo momento capisco che negli ultimi tempi il
mio animo è stato sconvolto dal terrore della morte."
Momoko capiva che le aveva denudato il petto.
Con un cupo mugolio Keita premette la sua fronte tra
i seni di lei.
Poi con le palme se li serrò sulle tempie.
Momoko rabbrividì, gemette, tentò di rialzarsi dal divano
ma le sue gambe rimasero immobili.
Impallidita fremette, quasi percorsa da un subitaneo
gelo, ma all'improvviso abbracciò la testa di Keita. E la
strana sensazione che provava si calmò.
Keita sollevò gli occhi umidi di lacrime e domandò:
"Momoko, mi permetti di prenderti il calco di un seno? "
"Che?"
Momoko non aveva capito. Keita le spiegò che gli sarebbe
servito per creare una tazza d'argento.
"Desidero bervi l'ultimo sorso di vita."
Momoko era spaventata.
"In antico si brindava con una tazza d'acqua prima
della battaglia. Anche ora si offre una tazza di sakè freddo
agli appartenenti ai corpi speciali d'assalto prima della
partenza. Permettimi di creare la mia ultima tazza. E con
questa che voglio dire addio alla vita."
Le parve un'idea sinistra ma non avrebbe ormai potuto negargli nulla.
Keita mescolò il gesso.
Momoko si sdraiò sul divano. Chiuse gli occhi per non piangere.
Fece due tentativi per impedirgli di denudarle il seno, poi si rassegnò.
"Splendido." Keita indugiò qualche attimo, in piedi
accanto a lei.
"Ho l'impressione di chiederti un sacrificio. Vuoi che rinunci?"
"Non importa. Inizia".
Ma non appena dalla spatola di bambù le colò del gesso
sul capezzolo esclamò:
"Che freddo!" ritrasse la testa fra le spalle, rannicchiò
le gambe e si sdraiò su un fianco.
Il gesso le colò sul petto.
"Che solletico! Basta!"
La posa scomposta di Momoko mutò l'espressione dello sguardo di Keita.
La ragazza se ne accorse, corrugò la fronte e lo fissò.
Rimase sdraiata e immobile quasi fosse stata inchiodata.
Sebbene si sentisse impallidire sopportò lo sgradevole
solletico del gesso. Chiuse fermamente gli occhi e percepì
il tremore delle mani di Keita.
Lo strato inferiore del gesso viscido si solidificava intorno
al suo seno. Le comprimeva dolorosamente la mammella quasi
avesse aumentato il suo peso. Momoko aveva
immaginato che la mammella si sarebbe contratta, e invece
sentiva che si protendeva, opponendosi con vigore alla
pressione del gesso. Quest'ultimo incominciava a riscaldarsi
e a diffondere il suo tepore in tutto il corpo.
Allora scaturì in Momoko un sorta di ardimento.
"Si prendono così anche le maschere mortuarie?"
"Le maschere mortuarie?... Sì", rispose Keita e si affrettò
ad aggiungere: "Per me sarà la tazza della morte,
con cui berrò l'ultimo sorso di vita".
Momoko taceva.
Keita appiattì la superficie del gesso con la spatola di
bambù. Dopo aver atteso che solidificasse, tolse il calco
dal seno e ne osservò l'interno.
"Si è formata una piccola cavità. Il capezzolo. è graziosa."
"Mi vergogno. Non mostrarla a nessuno."
Momoko sedette e ricoprì il seno. Il calco era più piccolo
di quanto avesse immaginato.
"Con la protuberanza del capezzolo in fondo, la tazza
sarà in equilibrio instabile. Si rovescerà. E se le aggiungessi
dei supporti?" Dopo un attimo di riflessione Keita
dichiarò: "Avranno la forma del tuo mignolo. Lascia che
ne prenda il calco. Non è forse una consuetudine antica
regalare il mignolo alla persona amata?" Quindi applicò
il gesso sulla punta del dito di Momoko.
"Mio padre ha incominciato a dilettarsi con la creta e
a creare tazze da tè cinque o sei anni fa. Non sono ovviamente
opere di pregio. Ma è stata questa sua abilità a
suggerirmi l'idea della tazza."
Momoko volse la schiena a Keita e si curvò per levare
dal seno ogni traccia di gesso.
Era sfinita. Provava un'indefinibile, intollerabile tristezza.
Come se prendendole il calco del seno le avessero rapito anche la vita.
"Avrà finito?" pensò. Era insoddisfatta. Traboccava
dall'intimo del suo corpo uno strano ardore.
Si aggrappò a Keita.
E non protestò quando egli la sollevò fra le braccia e
la depose sul letto della camera accanto.
Si limitò a nascondere il volto sul petto del giovane
sussurrando:
"Non devi più divertirti con le altre".
Keita aveva l'abitudine di trastullarsi con una prostituta
prima di incontrarla. E oltre tutto glielo confessava.
Momoko soffriva, incapace com'era d'intendere le reali
intenzioni del giovane.
Perché aveva bisogno di altre donne? Perché sentiva la
necessità di rivelarglielo? Perché non poteva incontrarla
senza prima essersi sollazzato con una prostituta?
Egli le diceva che anche le prostitute erano donne
giapponesi, pronte a offrirsi con abnegazione a chi appar-
teneva ai corpi d'assalto speciali. Anche tra le figlie dei
contadini che abitavano vicino all'aeroporto, non poche
erano quelle che si concedevano a Keita e ai suoi compagni.
Egli le raccontava anche simili avventure.
Gliene parlava con la massima serenità e leggerezza,
quasi fossero inezie, ma Momoko intuiva il suo dolore e
il suo tormento. E non trovava altra soluzione che perdonarlo.
Keita rispettava la sua purezza. Si proibiva di violarla,
perché sapeva di essere destinato alla morte. Momoko ne era convinta.
Il piacere che egli si prendeva con le prostitute era
dunque imposto dalla necessità di controllare i suoi
impulsi, di sfogare in anticipo le sue voglie.
Ma per Momoko era una tortura. Le pareva una colpa
non offrire a quel giovane, che l'indomani sarebbe
forse volato incontro alla morte, ciò che avrebbe potuto donargli.
Keita esigeva dalle prostitute ciò che avrebbe dovuto chiedere a lei.
"Perché non mi vuole?" si domandava Momoko, pronta ormai
a concedergli tutto senza rimpianti.
Keita si limitava forse a mondarsi in sua compagnia del
sozzume delle prostitute?
Momoko non era tuttavia priva di dubbi: se Keita, pur
rispettando apparentemente la sua purezza, fosse stato in
realtà indotto dalla disperazione a inebriarsi di momentanee
dissolutezze? Non stava forse ingannando se stesso
adducendo la purezza di Momoko quale pretesto per la
propria dissipazione? Un'inespressa, femminile, gelosia
contribuiva ad alimentare tali dubbi.
L'impeto con cui Keita la privò della sua purezza le
parve dunque un lampo in un cielo da lungo tempo nuvoloso,
persino un motivo di gioia, come un sole radioso.
Keita si separò subito da Momoko.
"Ah", mormorò, quasi con disgusto, scostandosi.
"Accidenti che cosa insipida!"
Momoko rabbrividì e sollevò il busto.
Keita scese dal letto, continuando a volgerle la schiena.
"Non vali niente tu..." borbottò.
Momoko si sentì gelare il sangue. Non capiva se per odio o per tristezza.
Keita si sedette sul divano e chiuse gli occhi.
"Rompi quel calco!" gli ingiunse con un grido la ragazza,
infiammata di vergogna e d'ira.
"No."
Keita morì senza più incontrarla. Doveva aver creato
la tazza d'argento, ma Momoko non l'aveva veduta.
Circa una settimana dopo egli era stato trasferito alla
base aerea di Kanoya, nel Kyushu meridionale ed era
morto in battaglia a Okinawa.
Erano trascorsi ormai cinque anni.
Che egli le avesse preso il calco di un seno per trasformarlo
in una tazza d'argento le pareva una stravaganza,
un'incredibile illusione, e tuttavia sapeva ormai che un
uomo e una donna soli sono capaci di qualsiasi bizzarria.
Una tazza d'argento a forma di seno era, forse, più che
altro una manifestazione di infantile sentimentalismo.
Momoko non riusciva a guardare serenamente le schiene
di Natsuji e di Asako.
Si avvicinò al giovane:
"Natsuji, questo berretto apparteneva a suo fratello?"
"Sì. In principio mi stava un po' stretto ma con il tempo
si è allargato", rispose Natsuji volgendosi.
2.
Passarono accanto alla grossa campana del tempio
Chion'in e salirono al tempietto della Venerabile Immagine.
Dopo avervi girato intorno oltrepassarono il "corridoio
delle assi dell'usignolo" e videro un ciliegio fiorito
dai rami flessuosi come quelli di un salice.
Nella foschia serale risaltava ancor più il fascino di
quei piccoli fiori di un rosa intenso.
Non v'era ombra d'uomo e il silenzio era rotto soltanto
dal lontano frastuono del parco Maruyama.
"Sono come i ciliegi che crescevano un tempo al Gion", disse Momoko.
Non varcarono il portale del tempio, preferirono tor-
nare al parco Maruyama, risalirono il sentiero percorso
ed entrarono al Saami.
Furono guidati verso un padiglione nel giardino ove li
attendevano Mizuhara e il padre di Keita.
"Oh, i nostri padri sono già qui ad attenderci!" esclamò Asako.
Natsuji si spostò per lasciar passare Momoko che entrò
senza indugio e salutò il padre di Keita.
Costui si levò dal cuscino e si inchinò.
"Benvenuta. è stata gentile a venire."
"Grazie." Così dicendo Momoko abbassò lo sguardo.
"Ma a dire il vero sono stata ingannata da mio padre."
"Già, ne parlavo poco fa con il signor Mizuhara."
Momoko sollevò il volto e guardò il padre di Keita.
Anche Asako e Natsuji si erano seduti.
"Non l'ho informata del nostro trasferimento a Kyoto,
vero signorina Momoko? Ma forse l'ha saputo da suo padre.
Sarebbe meglio non accennare a un argomento che
forse per lei riguarda ormai soltanto il passato, almeno
così mi auguro per il suo bene; ma mi duole di non averle
comunicato la morte in guerra di Keita. Non ho voluto."
"Dovrei essere io a scusarmi, che non sono neppure venuta
a esprimerle le mie condoglianze."
"Attendevo il momento per ringraziarla al posto di
Keita. O, più correttamente, per chiederle scusa. A ben
riflettere sarebbe stato giusto chiederle scusa per il genere
di morte scelto da mio figlio."
"Grazie. Anche Momoko ha senza dubbio compreso i
suoi sentimenti, signor Aoki", interloquì Mizuhara.
"Sì, desideravo poter almeno esprimere il mio ringraziamento
e le mie scuse alla signorina per riuscire finalmente a
dimenticare il passato..."
"Io non dimentico... ma è passato", disse lentamente Momoko.
Il padre di Keita rimase qualche istante in silenzio quindi confidò:
"Dopo la morte di Keita ho provato un intenso desiderio
d'incontrarla. Mi è costato molto desistere".
"Ho cercato anch'io la morte. Ho bevuto cianuro di potassio",
dichiarò senza imbarazzo Momoko.
"Davvero sorella?" Asako era sbigottita.
Mizuhara e il padre di Keita fissavano Momoko.
"Sì", rispose alla sorella. "In quel periodo donne e ragazzi
prestavano servizio obbligatorio nelle fabbriche, e
in previsione di gravi ferite durante i bombardamenti o
di uno sbarco del nemico ricevevamo del cianuro di potassio.
Ciascuna di noi ne possedeva una dose, ricordi?
Anch'io. E l'assaggiai."
"Qua... quando?"
"Ma era zucchero."
"Oh! Zucchero?"
"Prima di assaggiarlo ero convinta che fosse cianuro.
Ma qualcuno a mia insaputa aveva scambiato il contenuto
della bustina. Sentii subito che era dolce. E, sorpresa,
capii che era stata la mamma. Mi ha salvato la vita."
Asako fissava la sorella.
"Le sono stata grata. Ma la vita umana mi è parsa strana.
Sono sopravvissuta soltanto perché mi era stato
scambiato il cianuro con dello zucchero. Da allora non ho
più tentato di morire. Grazie alla segreta sollecitudine
della mamma sono stata segretamente salvata. Quando
provai il sapore dello zucchero sulla lingua ripensai a mia
madre, che si era suicidata, e mi spaventai."
Il discorso di Momoko aveva raggelato l'atmosfera.
Asako era sbigottita.
"è la prima volta che ne parli."
"Sì. Buffo, vero, essere risolute a morire leccando dello
zucchero! Forse neppure la mamma ha saputo cos'era
accaduto. Sono grata a tua madre, Asako."
Asako non capiva perché la sorella si fosse decisa solo
allora a parlare.
Non era neppure del tutto convinta della veridicità di quel discorso.
Perché aveva accennato al suicidio di sua madre, che
probabilmente né Natsuji né il signor Aoki conoscevano?
Fu servita la cena ma la conversazione non si animò.
Da quella saletta si godeva il panorama notturno di
Kyoto, non molto dissimile da quello ammirato dalla Ca-
panna di Kissui. Si scorgevano anche i falò del parco Maruyama.
Il padre di Keita, due o tre anni maggiore di Mizuhara,
sembrava più giovane.
Aveva una bella fronte, occhi vivaci e luminosi, mani
tonde e carnose in contrasto con i lineamenti del viso.
Mani che somigliavano a quelle di Keita.
Le guance avevano un colorito più vivace di quelle di Natsuji.
Forse era tipico della sua età, ma ricordava l'incarnato dei bambini.
La psiche di Momoko, intenta a combattere con il fantasma di Keita,
era in qualche modo indebolita dall'aspetto di quel padre.
3.
Sul permesso per visitare la villa imperiale di Katsura
erano segnati i nomi di Mizuhara, Momoko, Asako e
Natsuji, ma Momoko e il padre non parteciparono alla visita.
Il nome dell'architetto Mizuhara era servito più che altro
a ottenere il permesso, invece l'assenza di Momoko
non era prevista.
Quando Natsuji si recò all'albergo di Sanjo in cui
alloggiavano le sorelle non trovò Momoko. Era già uscita.
"è andata alla stazione a ricevere una persona che viene
da Tokyo", annunciò Asako arrossendo.
Takemiya, il ragazzo di Momoko, era venuto a raggiungerla.
"E suo padre?"
"Papà è andato a Nara. Ognuno fa quel che gli pare.
è imbarazzante", spiegò ricordando l'espressione usata dalla sorella.
Giunti a Shijò Omiya cambiarono tram e scesero a
Katsura. Per arrivare alla riva del fiume omonimo dovet-
tero camminare per un tratto già percorso in tram.
"Sarebbe stato meglio prendere l'autobus e fare una
passeggiata in riva al fiume, lungo il recinto di bambù
della villa di Katsura", disse Natsuji.
Ma per Asako camminare in mezzo ai campi di grano
era insolito e divertente. V'erano anche campi di fiori di
colza. Udì un isolato cinguettio di allodola e guardò il cielo
incuriosita.
Erano in una delle zone pianeggianti più ampie di
Kyoto: la vista spaziava dalla vicina Arashiyama al monte
di Atago oltre la collina di Ogura fino al lontano monte
Hiei e alla catena dei Kitayama.
Asako volgeva la testa intorno contemplando il panorama primaverile.
"Peccato che mia sorella non sia qui..."
"Ieri sera, rientrati a casa, mio padre e io abbiamo parlato
a lungo della signorina Momoko", disse Natsuji.
Asako si voltò: "Che vi siete detti?"
"Mi aveva colpito la storia dello zucchero al posto del
cianuro, e come un fatto involontario come quello avesse
influito sulla vita e sulla morte di un essere umano."
"Ma non sono sicura che mia sorella abbia veramente
voluto suicidarsi."
"Anche se fosse una fantasia sarebbe interessante. Ma io penso
che sia vero."
"A casa nessuno lo sapeva."
"è stata saggia sua madre."
"Mah! Qualsiasi genitore sottrarrebbe il cianuro a una figlia."
"Sarebbe stato inutile sottrarglielo apertamente. Se ne
sarebbe procurata un'altra dose", commentò Natsuji e
aggiunse: "Il cianuro di mio fratello è sempre rimasto nel
cassetto della sua scrivania. Finché la casa si è incendiata.
In un primo tempo, sentendo i discorsi della signorina
Momoko, ho temuto che fosse stato mio fratello a darle
la dose di veleno".
Asako appariva scossa.
"Ho pensato che la signorina Momoko raccontasse
quell'episodio per farci sentire a disagio."
"No, si sbaglia."
"A ogni modo, come dice sua sorella, la vita umana è
fatta così. Ieri sera la guardavo e pensavo che era viva
perché aveva leccato dello zucchero invece di veleno. Mi
è parsa ancora più bella."
Stavano attraversando un quartiere angusto come un
villaggio. Fiori di kerria sbocciavano sotto pareti dall'intonaco
sgretolato.
"Prima di morire mio fratello ha bruciato diari e lettere;
non ha lasciato nulla che ne tramandi il ricordo. Soltanto
una tazza d'argento che ci è stata rimandata dall'aeronautica.
La mostrerò alla signorina Momoko quando verrà a trovarci."
"Mia sorella dice che nostro padre conosceva solo vagamente
l'esistenza di Keita."
"Sì, ma ora sia suo padre sia il mio vorrebbero che sua
sorella fosse ospite per qualche tempo in casa nostra."
Asako ebbe l'impressione che suo padre intendesse affidare
Momoko alla famiglia di Keita, perché guarisse la
ferita che quel giovane le aveva inferto...
Sostarono davanti alla villa. Nel prato davanti al portale,
denti di leone e astragali fiorivano tra le ombre dei
pini. Una camelia a fiore doppio schiudeva le sue corolle
di fronte a una siepe di bambù.

8. IL PONTE DELLA VITA.


1.
La villa di Katsura era circondata da siepi di bambù che
parevano boschetti. Ai lati del portale si allungavano re-
cinti di grossi bambù intrecciati con sterpi.
I visitatori entravano nel giardino varcando il portale
a destra di quello riservato alle visite imperiali. Là v'era
un posto di guardia.
Asako mostrò il suo permesso.
"La signorina Mizuhara, vero?" disse un sorvegliante,
e constatando che Natsuji era uno studente gli domandò:
"Ha le scarpe chiodate?"
"No", rispose Natsuji sollevando una gamba per mostrargli la suola.
Superato il posto di controllo entrarono nella sala d'attesa
per i visitatori. Sedutosi su una vecchia sedia, Natsuji commentò:
"Pensa forse che gli studenti rovinino i giardini con le
loro scarpacce chiodate? Anche i tipi come noi hanno
abbastanza buonsenso da evitarlo".
"Sì, ma dicono che nei giardini le pietre dei sentieri e
le pietre ornamentali siano danneggiate dai visitatori",
obiettò Asako. "Pare che, calpestate ogni giorno, si deformino,
come se fossero limate."
"Già, in fondo è un trattamento giornaliero."
"Perciò mio padre mi ha detto che anche adesso il numero
dei visitatori viene limitato, sebbene non esistano più i
divieti di un tempo. Gli edifici sono ancora più
fragili. E questa è una dimora in semplice stile shoin,
(Stile architettonico dell'epoca Momoyama, ideato per i templi
zen e poi estesosi anche alle abitazioni. (N.d.T.)
costruita trecento anni fa e non destinata ad accogliere
visitatori. Vi lasciano entrare non più di quindici persone
alla volta, perché un peso eccessivo rovinerebbe le assi
dei corridoi."
I visitatori dovevano attendere in gruppo in quella saletta
finché un custode s'incaricava di accompagnarli.
Asako tuttavia, seguendo un consiglio del padre, tornò
al posto di controllo e chiese di poter visitare la villa e
il giardino liberamente e senza guida.
"Lei è la figlia dell'architetto Mizuhara, vero? Va bene. Vada."
Decisero di fare anzitutto un giro intorno alla sorgente
nel bosco, ma giunti davanti a un piccolo portale dal tetto
ricoperto di paglia, scorsero al di là di esso le pietre
del famoso sentiero lastricato della Verità, e incuriositi
ne varcarono la soglia.
Le pietre del sentiero tracciavano un passaggio obliquo
fino alla veranda a cui venivano un tempo accostati i pa-
lanchini. Ai lati del lastricato v'erano pietre ornamentali
coperte da verdi, gonfi e fitti muschi.
"Il muschio delle cryptomerie è fiorito!" esclamarono
all'unisono e si guardarono.
Non si distinguevano gli steli, di certo più sottili di fili
di seta. Erano fiorellini piccoli come stami, che spuntavano
bassi tra il verde del muschio. A prima vista parevano
immobili, invece, osservati con più attenzione, rivelavano
quasi impercettibili tremolii.
Avevano scorto entrambi l'umile presenza di quei piccoli fiori,
e rapiti da tanta bellezza avevano espresso il loro stupore
quasi nel medesimo istante. Un simile incanto non poteva
essere descritto con parole. Le loro si erano limitate a
proclamarne l'esistenza, dando voce a un'emozione.
I fiori del muschio conferivano un'atmosfera di genti-
lezza all'ingresso severo e lineare di una dimora che rap-
presentava la quintessenza di quello stile delle ville impe-
riali descritto da Bruno Taut: "La villa di Katsura è il
punto finale, eccelso, più luminoso dell'architettura giap-
ponese. (...) s'intuisce che un'arte così raffinata sgorga
inequivocabilmente dalla meditazione, dalla concentra-
zione secondo i principi della filosofia dello Zen giapponese".
Quei piccoli fiori evocavano l'immagine di una dolce primavera.
Camminarono sulle pietre che conducevano alla veranda
cui un tempo venivano accostati i palanchini. Salirono
i gradini e si fermarono davanti alla pietra su cui chi entrava
nella villa lasciava le calzature. Era chiamata "pietra
delle sei" perché vi si potevano allineare sei paia di scarpe.
Le pareti visibili erano color ocra rossa, come si usava
a Kyoto. Anche i muretti di divisione dei giardini erano
della medesima tinta.
Usciti da un varco in un muretto di cinta si trovarono
davanti al padiglione delle Onde di Luna, ma preferirono
tornare lungo il Sentiero Imperiale ed entrare nel giardino
prospiciente la collina delle Foglie Rosse.
"Guardi, delle cicadee!" esclamò meravigliato Natsuji.
"Un dono della famiglia Shimazu", spiegò Asako. "Qui
stonano, ma a quel tempo dovevano essere piante rare."
Natsuji entrò nel piccolo padiglione di fronte e si sedette.
Asako rimase in piedi.
Era una sorpresa scoprire decine di cicadee in un luogo
simile; ma in fondo, ombreggiate dai rigogliosi alberi
giapponesi, quelle piante tropicali parevano un consono
ornamento, una nota di esotismo conferita al sentiero
che conduceva a un padiglione per il tè.
Natsuji si tolse deferente il berretto e se lo depose sulle ginocchia.
"Che quiete! Si ode soltanto uno scroscio d'acqua."
"Sarà la cascata del Tamburo, il punto in cui l'acqua
del fiume Katsura precipita nel laghetto."
"Lei è molto informata, signorina Asako."
"Ho letto attentamente le spiegazioni dell'opuscolo."
"Al liceo mi capitò di leggere La villa imperiale di
Katsura di Bruno Taut, ma non ricordo cosa scrivesse."
"Sarebbe bello se papà fosse qui con noi."
"Sì, ma per l'architetto Mizuhara non sarebbe uno spettacolo insolito.
Avrebbe dovuto accompagnarci la signorina Momoko."
Asako si domandò che senso avessero quelle parole,
che la indussero a ricordare di essere sola in quel luogo con Natsuji.
"Sente? Ancora l'allodola!"
"Quella del sentiero?" domandò Natsuji tendendo a
sua volta l'orecchio. "Sì, è un'allodola, ma chissà se è la
stessa che poco fa cinguettava sui campi di grano. Saranno numerose."
"Sono sicura che è la stessa."
"La sua è una logica tipicamente femminile, come quella
di sua sorella. Appena ha veduto il mio berretto ha
pensato che fosse appartenuto a mio fratello. La sua
intuizione si è rivelata esatta. Ma i berretti usati dagli
studenti si somigliano tutti. Mi stupisco che l'abbia subito
attribuito a mio fratello."
"Però di allodole non ce ne sono altre."
"Sì che ce ne sono", rispose con fermezza Natsuji.
"Sua sorella mi ha scrutato pensando alla somiglianza con
mio fratello cercando negli occhi, nelle orecchie, nelle
spalle qualcosa che glielo ricordasse. Mi ha dato fastidio. "
"La capisco, ma per il bene di mia sorella vorrei che lei
somigliasse a suo fratello."
"Perché?"
"Ne sarebbe confortata."
"Mah. Forse la signorina Momoko, invece di osservare
me, avrebbe fatto meglio a contemplare panorami come
questo. Ammettiamo che mio fratello quando era il suo
ragazzo indossasse questo vecchio berretto. Che cosa è
rimasto in esso di tutto ciò?" Mentre parlava Natsuji afferrò
il berretto e si alzò.
"Anch'io guardando lei, Natsuji, cerco di evocare l'immagine
di suo fratello."
"Anche questo mi infastidisce. Comunque io non sono l'ombra vivente
di mio fratello. Ho un carattere molto diverso dal suo."
"Sì."
"E un destino differente. Quanto a me, la sua presenza,
signorina Asako, non mi induce a ricordare sua sorella. "
"Perché noi non ci somigliamo. E poi siamo entrambe vive."
Asako aveva risposto con leggerezza. Arrossì.
"è vero, mio fratello è morto senza lasciare tracce di sé.
Eppure tutto ce lo ricorda. Dopo la sua scomparsa
ho rimproverato spesso mio padre. Gli ho detto che voler
incontrare Momoko per ricordare il figlio era un'egoistica
manifestazione di sentimentalismo. La vista di Momoko causa
in lui un morboso abbandono alla sofferenza. Anche la
signorina sarà triste per la morte di mio fratello, ma
il suo dolore è molto diverso da quello di mio padre."
Asako annuì.
"Non so se tra mio fratello e sua sorella possa esistere
ancora un ponte..."
"Neppure io ne sono certa, ma suppongo che esista",
rispose Asako sebbene avesse l'impressione che quel ponte
fosse marcio, pericolante, arduo da attraversare. Momoko stessa
non ne era forse precipitata?
"Io penso che sia un ponte con una sola sponda. Un
ponte voluto dai vivi, senza appoggio sulla riva opposta,
con un lato proteso nel vuoto. Un ponte che, sebbene
continui all'infinito, non raggiunge mai l'altra sponda."
"Intende dire che quando la persona amata muore finisce anche l'amore?"
"Pensavo alla signorina Momoko. Cerco di capire la sua situazione."
"Io non credo nel paradiso, cristiano o buddhista che sia, perciò
desidero almeno credere nel ricordo dell'amore per chi non è più."
"Sì, se i ricordi si limitano a essere tali, a starsene quieti
come questa villa imperiale, senza provocare danni ai viventi."
"Già. Anche qui la sua presenza, Natsuji, ricorderebbe
a Momoko suo fratello."
"Comunque lui è morto e non può essere in questo giardino.
Mentre noi sì, perché siamo vivi. E se vorremo potremo tornarci domani.
E ora cambiamo discorso. "
"D'accordo."
"Si dice: 'La bellezza di un fiore basta a risvegliare il
desiderio di vivere'."
"Mi domando perché mia sorella abbia nascosto a mio
padre e a me la sua relazione con suo fratello."
"Forse perché capiva che era un amore irrealizzabile.
Avrà intuito che sarebbe finito in tragedia."
"Davvero?" domandò Asako guardandolo.
"Certo. L'amore è sorto in lei quando ha compreso che
mio fratello sarebbe morto in guerra."
"Davvero?" domandò di nuovo Asako.
"Ma anche noi siamo strani. Siamo soli in questo giardino e non
facciamo che parlare di mio fratello e di sua sorella!" Natsujì sorrise.
"Ha ragione." Anche Asako sorrise. "Chissà perché?"
2.
Usciti dal padiglione di spiegò di fronte ai loro occhi la
visione del laghetto.
Attraversarono un rivolo.
"Immagino sia la cascata del Tamburo di cui sentivamo
lo scroscio, vero?" chiese Natsuji.
"Sì. Un tempo l'acqua era più limpida e si gettava nel
laghetto con il suono tipico delle cascate. Il laghetto non
era stagnante come è adesso", commentò Asako.
Natsuji scese sulla riva.
Un lembo di terra con un sentiero lastricato, chiamato
"ponte del Cielo", si protendeva nel lago.
Al suo limitare era collocata una lanterna di pietra e
sulla sponda opposta sorgeva il padiglione dell'Arpa dei Pini.
Il paesaggio riproduceva l'incanto di una spiaggia marina.
Il sentiero del ponte del Cielo era lastricato di piccoli
sassi tra cui spuntavano erbe che una vecchia stava estirpando.
Natsuji si fermò accanto alla vecchia e chinò per qualche istante
lo sguardo a osservarla, quindi le rivolse la parola:
"Nonnina, viene qui tutti i giorni?"
"Sì, mi lasciano venire tutti i giorni."
"In quante siete?"
"A strappare l'erba? Due."
"Soltanto due?"
"Certo non bastiamo... dicono che ci siano tredicimila tsubo
(Unità di misura equivalente a due tatami (metri quadrati 3,24)(N.d.T.)
di giardino. Non riesco a strappare che un po' d'erba, quella
del sentiero dove camminate"
"Quanto guadagna?"
La vecchia non rispose. Natsuji ripeté la domanda.
"Un'inezia. Mi vergogno a dirlo."
"Circa duecento yen al giorno, immagino."
"Sarebbe bello..." disse, poi borbottò: "Metà".
"Cento yen?"
"Un po' di più... venti yen."
"Centoventi yen?"
La vecchia continuò a rimanere curva e a strappare l'erba.
"Meglio delle donne che trasportano i tronchi di cryptomerie
nella valle di Takao", disse Asako e raccontò
che, poco dopo il loro arrivo a Kyoto, essendo trascorso
il periodo migliore per ammirare i fiori, era andata con
il padre a Takao, a contemplare le giovani foglie degli acerì.
Scesi lungo il versante della collina su cui sorgeva il
tempio della Divina Protezione, avevano attraversato il
fiume che scorreva nella valle e, nel salire per un ripido
pendio, avevano incontrato alcune donne che portavano
dei tronchi sedute a riposare. Erano una ragazza di quindici
o sedici anni, due ventenni e quattro donne che dovevano
aver superato i cinquanta. La ragazza più giovane
stava forse apprendendo il mestiere perché portava un
tronco sottile. Erano le donne più anziane a trasportare
i tronchi più pesanti.
Mentre anche Asako e il padre sostavano a riprendere
fiato e a riposare le gambe, le avevano viste mettersi
nuovamente i tronchi sulla testa e rialzarsi. Quelle cryptomerie,
destinate a divenire pilastri, erano lunghe, oltre che
pesanti, e le donne stentavano a sistemarle sulla testa.
Avevano impiegato non poco tempo.
Una delle più anziane si era lamentata con Asako e con
il padre, rivelando con un amaro sorriso che guadagnavano
cento yen per trasportare quel carico tre volte al giorno,
su e giù per la valle, dalla montagna al villaggio, e che
potevano permettersi soltanto una minestra di riso razionato
che non dava forza.
Anche la vecchia che estirpava l'erba aveva ascoltato
il racconto di Asako.
"Non sarà facile come lavoro", commentò sollevando per la prima
volta la faccia a guardare la ragazza. "Però, anche se è una
fatica più pesante finisce prima della mia."
"Ah sì?"
"Avevano la schiena dritta, vero?"
"Sì, il bel portamento di chi è abituato a trasportare
oggetti sulla testa."
"Già. Niente da fare per chi ormai è curva come me."
Ripercorsero il sentiero del ponte del Cielo, che s'inoltrava
tra i fitti alberi.
Fiori di camelie cadevano sul muschio e in mezzo al fogliame
si intravedevano dei bambù.
"Al tempio della Protezione Divina c'era un concorso
di canti in lode di Buddha. Si erano radunati i campioni
di questo genere, venuti anche dalle più lontane campagne.
Affollavano il tempio principale e i bonzi fungevano
da arbitri. Era divertente. Suonavano una campanella come
nel concorso radiofonico L'ugola d'oro dei dilettanti."
"Divertente. "
"Saranno state 'ugole d'oro' ma... Eravamo andati per
ammirare la statua del Buddha della Medicina, ma il tempio
era affollato di gente che partecipava al concorso. Sono
canti che è meglio ascoltare da lontano. Di genere folcloristico.
I cantanti erano davvero bravi. Siamo rimasti
ad ascoltare fermi sotto un grosso acero. In quei momenti
abbiamo provato la sensazione di essere davvero a Kyoto."
Le giovani foglie dell'acero contro l'azzurro del cielo
disegnavano un motivo tipicamente giapponese. Asako
ricordò lo splendore di quel pomeriggio di tarda primavera.
"è vero. Sono canti dei pellegrini dei luoghi santi del
Kyushu", commentò Natsuji.
"Che nostalgia!" esclamò Asako.
"Però oltre alla Kyoto dei canti religiosi esiste anche
una città con sindaco e prefetto socialisti. Dopo il vostro
arrivo, a Kyoto si sono tenute le elezioni per la designa-
zione del prefetto. Ha vinto il candidato del partito
socialista. Ho letto sul giornale che è entrato in prefettura
accolto dalle bandiere rosse dei comunisti e dei sindacalisti.
Sindaco e prefetto saranno alla testa del corteo che
celebrerà il Primo maggio. Nella Kyoto della villa imperiale
di Katsura e dei canti in lode di Buddha esiste anche
questa realtà."
"La nostra è una Kyoto per turisti..."
"Anche se ho una casa in questa città appartengo anch'io alla
categoria dei turisti desiderosi di ascoltare i canti dei pellegrini."
"è naturale avere nostalgia di certe cose."
"A Takao era con voi anche la signorina Momoko?"
"Sì. E lei era quella che ascoltava con più partecipazione."
"Davvero?" commentò Natsuji. Quindi osservò: "Ma eccoci a parlare
di nuovo di sua sorella".
Non esistevano dunque altri argomenti? Era così difficile
conversare d'altro?
Il sentiero saliva su un pendio alla cui sommità sorgeva
il Padiglione della Croce Buddhista.
V'erano quattro panche disposte in modo che chi si sedeva
su una panca non vedeva il volto di chi era seduto
su un'altra. Un accorgimento che consentiva di parlare
senza guardarsi. O di rimanere in silenzio.
Asako e Natsuji tacquero per lungo tempo.
D'un tratto Asako ricordò una frase di William Blake:
"L'amore taciuto si realizza sempre".
Asako non credeva fosse vero. Non aveva ancora sofferto
per amore al punto di voler credere a un simile aforisma.
Erano tuttavia parole indimenticabili, scolpite
nella sua anima.
Nella quiete di quegli alberi palpitava qualcosa di vivo,
una sorta di premonizione
Asako non tollerò oltre quel silenzio.
"Non si ode più l'allodola", disse.
Anche Natsuji guardò innanzi a sé e rimase in ascolto.
"Gli alberi impediscono la vista del panorama. Chissà
se era così fin dal principio o se sono cresciuti tanto da
nascondere la vista del laghetto, della villa e delle colline
Nishiyama sullo sfondo? Gli alberi crescono e cadono. è difficile
dedurre dall'aspetto attuale quale fosse il paesaggio nei
secoli scorsi. Belli quei ciliegi già sfioriti intravisti
così, tra il fogliame di questi alberi! Tre o quattro piccoli
nel giardino accanto alla villa. Li vede?"
"Sì. Il giorno del nostro arrivo a Kyoto mio padre si
recò al Daitokuji a conversare con un bonzo. Parlarono
dell'assenza dei ciliegi in quel tempio. In seguito mio padre
ricordò la storia di Minchò, riportata nello Honcho Shoshi. "
(Scritti di storia nazionale, repertorio di episodi e tradizioni
antiche. Mincho fu bonzo pittore di stile cinese nel 14esimo secolo. (N.d.T.)
"L'ho letto ma non ricordo quell'episodio."
"Lo shogun Yoshimochi, che amava i dipinti di Mincho,
disse un giorno all'artista che avrebbe esaudito ogni
suo desiderio. Egli rispose che non desiderava né danaro
né onori ma che aveva un favore da chiedere: in quel periodo,
i bonzi del Tofukuji si dilettavano a piantare ciliegi
ed egli temeva che in futuro il recinto del tempio potesse
divenire un luogo di divertimento. Perciò desiderava che lo shogun
desse ordine di tagliare tutti quei ciliegi.
Lo shogun acconsentì e nel giardino del tempio non rimase più un ciliegio."
"Davvero? Già, tipico di un pittore che dipingeva con
quelle vigorose pennellate. Comunque nel dopoguerra alcuni di
questi templi si sono trasformati in ristoranti clandestini
frequentati anche da geishe e da maiko..."
Così dicendo Natsuji si alzò.
Asako avrebbe voluto estrarre dalla borsetta uno specchietto
per sistemarsi i capelli.

9. IL SENO D'ARGENTO.
Scesi dal pendio su cui sorgeva il padiglione della Croce
Buddhista attraversarono un ponticello di pietra che con-
duceva al padiglione dell'Arpa dei Pini.
Il ponticello era formato da un'unica pietra lunga più
di cinque metri, proveniente da Shirakawa e presumibil-
mente donata da Kato Samanosuke.
Natsuji e Asako sostarono sul ponte.
Egli avrebbe voluto contemplarla da una distanza
maggiore mentre indugiava solitaria sul ponticello, ma
non osò esprimere il suo desiderio.
"Circondati dalle rocce ci si sente l'animo pesante."
"Ah sì?"
"Ignoro tutto sui sistemi di disposizione delle rocce.
Chissà se questo era il gusto di Enshu?"
"Non saprei."
"Nei giardini le rocce sono radunate secondo severi
criteri. Non si sa se definirla una disposizione indice di
rigidità o di acutezza, certo che è una tecnica da nevrotici.
Questi gruppi di rocce così dure e spigolose sono un
supplizio per i miei nervi."
"Sono soltanto rocce", commentò distrattamente Asako.
"No, non si tratta di semplici rocce. Le hanno raggrup-
pate e usate per esprimere qualcosa. Forse perché non mi
sfiora neanche la mente la possibilità di creare bellezza
allineando rocce sulla terra e non so comprendere l'estetica
dei giardini, questi allineamenti di rocce, densi di significato,
mi danno un senso di soffocamento. è l'impressione che mi
suscitano tutti i giardini con rocce, non soltanto questo, che
però è forse un po' più complicato dell'usuale."
"Non sarà perché le osserva troppo da vicino?"
Natsuji si volse verso Asako:
"Appena sono salito su questo ponticello e ho visto i
gruppi di rocce qui intorno ho subito pensato che non sono
il tipo adatto a questo paesaggio. Chissà chi starebbe
bene su questo ponticello, accanto alle rocce".
"I principi di Katsura."
"Persone di quell'epoca? Io invece vorrei contemplare lei su
questo ponticello."
"Oh!" Asako arrossì e si pose alle spalle di Natsuji come
per nascondersi.
"Lo penso veramente", insistette il giovane.
"Perché? Mi vergogno."
"Poi mi è venuto in mente che questa non è una semplice pietra."
"Come?"
"Prima le ho parlato del ponte, ricorda? Il ponte che esisterebbe
tra mio fratello e sua sorella."
"Sì. "
"Quello è un ponte senza forma, un ponte spirituale, questo un
ponticello di pietra, immobile da tre secoli, un ponte di bellezza.
Se esistesse anche tra due anime..."
"Un ponte di pietra fra le anime? Meglio allora un arcobaleno. "
"Sì, è possibile che il ponte che unisce due anime sia
simile a un arcobaleno"
"Chissà. Forse è davvero un ponticello di pietra come questo."
"Certo, perché è stato costruito per creare bellezza, è
un'espressione artistica."
"Sì, e poi il signore di Katsura, il principe Tomohito,
era un appassionato lettore del Genji Monogatari
(Scritto da una dama di corte, Murasaki Shikibu, nell'11esimo secolo,
il Racconto di Genji è considerato il più alto esempio di romanzo epico
in prosa dell'antica cultura giapponese. A esso, tutta la letteratura
giapponese fino a oggi ha fatto riferimento, come a un testo
fondamentale. (N.d.T.)
e pare ne abbia tratto ispirazione per progettare questo giardino.
La zona intorno al padiglione dell'Arpa dei Pini
riprodurrebbe la baia di Akashi..."
"Ma non le somiglia. Con tutte quelle rocce bizzarre!"
"L'ho letto nella guida. Inoltre il ponte del Cielo sarebbe
stato creato sul modello dell'omonima località del
Tango, provincia natale della sposa del principe Tomohito."
Natsuji attraversò il ponticello di pietra guardando il
lembo di terra chiamato ponte del Cielo.
Salirono sulla vasta veranda del padiglione dell'Arpa dei Pini.
Si sedettero e contemplarono a lungo le rocce vicino al ponticello.
Poi si accomodarono nell'adiacente saletta per il tè.
Entrarono quindi nella "seconda camera" e poi nella "prima".
In questa tutto, dal tokonoma ai fusuma che la separa-
vano dalla "seconda camera" era ricoperto di carta di gelso
a scacchi verdi e bianchi: una famosa, ardita idea,
sgargiante ed eccentrica in un ambiente così sobrio. Poi
uscirono su una sorta di veranda coperta sporgente, ove
erano installate le mensole del mizuya
(Angolo del padiglione per il tè dove la bevanda viene preparata
e dove vengono riposti le tazze e le altre stoviglie. (N.d.T.)
e il focolare per il bollitore del tè, e si sedettero in silenzio.
Il laghetto estendendosi a destra e a sinistra del padi-
glione dell'Arpa dei Pini formava due anse che, contem-
plate dalla veranda, parevano diverse.
A destra risaltava soprattutto la disposizione delle rocce
accanto al ponticello: la loro severità attraeva l'atten-
zione più della distesa d'acqua; a sinistra invece l'ampiezza
del laghetto era accentuata dall'assenza di rocce
vistose e se ne scorgevano le profonde acque stagnanti
accanto alla valle delle Lucciole.
Natsuji si domandò perplesso se quei gruppi di rocce
disposte con estrema sensibilità avessero anche la funzione
di ridurre, con un'illusione ottica, l'estensione del paesaggio.
"Stare qui suscita un'impressione strana, non le pare?" disse.
Asako evitò il suo sguardo fissando la riva opposta.
A destra e a sinistra di un'alta cryptomeria sorgevano
il padiglione delle Onde di Luna e l'antico shoin.
I rami della cryptomeria erano secchi ma nella siepe di
fronte al padiglione delle Onde di Luna spuntavano tenere foglie.
2.
Tornata a Tokyo, Asako s'accorse che l'impressione suscitata
in lei dalla villa di Katsura si era ancor più rafforzata.
Anche perché ne aveva discusso con il padre che le
aveva spiegato quali elementi fossero maggiormente da ammirare.
Aveva tolto dalla libreria paterna i testi e le fotografie
della villa di Katsura e li aveva accumulati sulla sua scrivania.
Li esaminò coscienziosamente.
Era una sua caratteristica. Se avesse visitato il tempio
Horyuji avrebbe in seguito avidamente consultato tutti i
libri disponibili sull'argomento. Così era per la musica.
Tornata da un concerto dopo aver udito musica di Mozart
avrebbe voluto apprendere tutto ciò che v'era da conoscere
su quel compositore.
Momoko la canzonava: "Dovresti pensarci prima. è inutile
informarsi dopo. Probabilmente incaricheresti qualcuno di
investigare sul tuo ragazzo soltanto dopo averlo sposato".
Invece il padre apprezzava quella singolarità del carattere
della figlia, attribuendo a ciò anche la sorprendente
abilità con cui riusciva a cucinare piatti identici a quelli
gustati al ristorante.
Tale abitudine induceva Asako quel giorno a leggere libri
sulla villa di Katsura.
Momoko la osservava con perplessità.
Asako le mostrò una fotografia della "prima camera",
del "nuovo shoin" e le raccontò:
"Mi sono seduta per qualche attimo nella zona superiore".
"Ah sì? Anche Natsuji?"
Asako notò il tono ironico della voce.
"No, lui non è entrato. Io mi sono seduta qui, con le
ginocchia sotto l'asse della finestra, ad ammirare il panorama."
La "zona superiore" era la parte rialzata della camera
che occupava un terzo della sua superficie, sormontata da
un soffitto a cassettoni. Alla parete interna erano fissate
le famose mensole di Katsura.
"La zona superiore sembra un prolungamento del tokonoma", spiegò Asako.
Nel padiglione adiacente allo shoin, dove era seduta
Asako, un'asse fissata in basso adempiva forse alla funzione
di scrivania. Accanto, in basso, si apriva una finestrina
che d'estate veniva spalancata per rinfrescare le ginocchia.
Asako si era seduta davanti a quella sorta di tavolino,
aveva aperto gli shoji e Natsuji, da fuori, le aveva spalancato
quelli del corridoio.
La finestra si apriva su una profusione di tenero fogliame.
Tra gli alberi, piuttosto distanti dalla finestra, v'era
spazio e luce.
"Non fa un effetto strano guardare questa fotografia
e pensare che ero seduta accanto a questa finestra?" domandò
Asako alla sorella.
"Sì", rispose distrattamente Momoko. "Ma qui non compari. "
"Certo che no!" rise Asako. "Avresti dovuto esserci anche tu."
Momoko era insolitamente seduta alla macchina da cucire.
Asako si alzò e guardando la fotografia deposta sulla
macchina da cucire disse:
"Anche nella villa di Katsura non abbiamo parlato che di te".
"Di me?"
"Sì, e di suo fratello."
"Davvero?" disse freddamente Momoko. "Già, è probabile,
anche se non mi piace l'idea."
"Non abbiamo detto nulla di spiacevole. Non una malignità su di voi."
"è proprio quello che mi dà fastidio. Tu, da affettuosa
sorella, mi avrai di sicuro lodata."
"Sei terribile!"
"Anche Natsuji avrà parlato bene di suo fratello, immagino."
"Sì. "
"Siete liberi di dire quel che vi pare ma sbagliate se
credete che i vostri discorsi abbiano colto la verità."
"Non ho parlato di te come se sapessi tutto. Ho dei dubbi."
Momoko premette con violenza il pedale. Stava cucendo la
manica di un vestito di cotone e ne gettò i lembi
sulla fotografia.
"Se proprio volete parlare di me, fatelo almeno con indifferenza,
come se fossi un'estranea. Non mi garba che discorriate di me con
compassione, come se riusciste a comprendermi. "
Asako fissava in silenzio le mani della sorella che si
muovevano sul lavoro di cucito.
"Quello che pensate di aver capito è soltanto frutto della vostra
immaginazione." Momoko premette il tessuto con dita tremanti.
"Io posso soltanto supporre quello che vi sarete detti,
ma è ovvio che tu avrai usato il tono affettuoso con cui
mi parli di papà."
"Sorella! "
"Parlerò finché ti metterai a piangere... Non c'è nulla
di male a essere gentile, ma a volte le donne si adagiano
nella loro gentilezza. Una gentilezza rivolta fondamentalmente
a se stesse. Anche se tu tenti sempre di consolare
e di aiutare papà e me..."
"Aiutarvi?... Non ho mai pensato..."
"Ma papà è stato aiutato da te... Lui è docile, anche
se è strano usare questo termine per definire un padre."
"Sì."
"Io sono contorta. Papà invece ha un animo schietto,
perciò qualsiasi uomo ti volesse sposare gli sembrerebbe
uno squallido individuo."
Asako appariva turbata.
"Un simile padre non sa lasciar maturare i sentimenti
di una figlia. Ma mi domando se sia giusto che tu trascorra
la tua vita sola con papà, a cullarti in un mare di tenerezza.
Tra poco capirai anche tu che più una donna possiede un
animo gentile più soffre e si rattrista." Momoko interruppe
il lavoro. "Pensi che ti parli così perché sono gelosa?"
Asako scosse la testa.
Momoko azionò di nuovo la macchina per cucire.
"In realtà io sono terribilmente gelosa. Non so che abbiate
detto di me e di Keita nel giardino della villa di
Katsura, ma io sono ormai convinta che invece di lasciar
morire in guerra Keita avrei fatto meglio a ucciderlo io."
Asako credette che ciò che la sorella aveva appena detto fosse
un'espressione d'amore nei confronti di Keita, ma Momoko precisò:
"Non perché io lo ami ancora. Per odio".
Asako non osò obiettare.
"Anche mia madre avrebbe dovuto uccidere papà invece di suicidarsi.
Che senso ha porre fine alla propria vita perché ci viene
negato il matrimonio? Basta uccidere il proprio amante.
Imparalo anche tu, Asako."
"Che ti sta succedendo, sorella?"
"Se mia madre avesse ucciso papà tu non saresti al mondo.
Né saresti nata se si fossero sposati. Strano, vero?"
Asako era spaventata.
Era logico che se la madre di Momoko non si fosse uccisa e
il padre non avesse sposato la madre di Asako lei
non sarebbe nata, ma non capiva perché la sorella gliene
parlasse e ne era intimorita.
Aveva forse sputato la freccia avvelenata dall'odio e
dalle maledizioni covata in petto da lungo tempo.
Asako si sentì respinta, come gettata a terra e il suo
animo si raggelò.
Non riusciva minimamente a capire perché Momoko
s'irritasse in quel modo al pensiero che la sorella e Natsuji
avessero parlato di lei.
Si scostò da Momoko e si sedette sul letto.
Dividevano una camera al piano superiore, larga dieci
tatami, fornita di specchio e di macchina per cucire.
"Buon riposo, Asako. Ti do fastidio?" domandò Momoko.
"Cucio l'altra manica e ho finito."
Asako appoggiò lentamente una mano al letto.
"Hai intenzione di invitare qui Natsuji domenica prossima, vero?
Perché a Kyoto è stato gentile. Ma io non ci sarò.
L'idea non mi va. Mi vergogno. A casa del signor
Aoki ho saputo che papà gli ha confidato che abbiamo
una sorella a Kyoto... A noi invece papà non ha detto
nulla. Non ne ha parlato neppure con te vero?" domandò
Momoko, ma senza attendere la risposta della sorella
continuò a premere il pedale e aggiunse: "Quando l'ho
saputo mi sono pentita di essere andata a Kyoto. Ognuno
di noi tre agiva liberamente, divisi anche nell'animo. Papà
non ti ha detto, vero, che ti ha lodato di fronte a
un amico raccontando che ti occupi affettuosamente
non soltanto di lui e di me, ma anche della sorella che
vive a Kyoto? Non desidero incontrare Natsuji in questa casa.
Potrebbe sembrare un'espressione di sollecitudine verso papà,
e invece è soltanto gelosia. La gelosia è il sentimento
più immediato. Potrei dubitare dell'amore, ma mai della gelosia",
concluse bruscamente Momoko.
Sebbene provasse un'acuta fitta di dolore, ad Asako
parve di intravedere un barlume che le consentiva di
comprendere in parte i sentimenti della sorella. Indossò
la camicia da notte e si sdraiò.
Chiuse gli occhi e ricordò le malevole frasi di Momoko.
Ma non versò una lacrima.
"Buona notte", disse.
Momoko l'aveva rimproverata perché tentava di aiutare
padre e sorella. Asako dubitava che fosse una colpa.
Quando ebbe finito di cucire l'attaccatura della manica,
Momoko si avvicinò al letto di Asako e rimase immobile
per qualche secondo.
Asako indugiava ad aprire gli occhi in attesa che la
sorella parlasse, ma Momoko rimase in silenzio.
Scese al piano inferiore a prendere una bottiglia di liquore del padre.
Poi risalì, trasse dal suo armadio la tazza d'argento e
si versò un poco di liquore. Stava per bere ma, quasi se
ne fosse ricordata all'improvviso, volle prima spegnere la luce.
Nell'attimo in cui la camera si oscurò, Asako scoppiò
a piangere, singhiozzando.
"Sei sveglia, eh?" commentò Momoko, "quando ti comporti
così sei odiosa."
"Sorella, perché mi tormenti?"
"Perché sono gelosa, non c'è dubbio..."
Momoko bevve il liquore al buio, bisbigliando:
"Un goccetto, come sonnifero..."
3.
Il giorno in cui arrivò Natsuji, Momoko, come aveva detto
alla sorella, fuggì a Hakone con Takemiya, il ragazzino.
Salirono su un autobus turistico che collegava Tokyo a Hakone.
Momoko chiuse gli occhi e appena furono usciti da Yokosuka
ebbe l'impressione che dal finestrino entrasse il
profumo dei campi di grano.
"Sono i filari di pini del Tokaido, vero?" domandò il ragazzo.
Il sole di mezzogiorno penetrava nell'autobus e le ombre
dei pini ondeggiavano sulle guance del ragazzo.
Momoko riaprì gli occhi:
"Non parlare come una fanciulla".
"Ricordi, sorella maggiore, quando dicesti che avevo
una voce femminile e mi obbligasti a cantare con te?"
"Sì, sul lago dei Giunchi, in un giorno nevoso."
"Una neve abbondantissima."
"Prima che nevicasse abbiamo attraversato il lago in barca, come pazzi."
"A me è piaciuto. è stato bello anche quando l'autobus si è
bloccato proprio in cima alla montagna, tra la neve."
Il ragazzino prese la mano di Momoko, la appoggiò al
suo ginocchio e le sfiorò la palma con le dita.
"è fredda. Hai le mani calde d'inverno e fresche d'estate. Una meraviglia."
"Davvero?"
Momoko intuì che tenendole la mano il ragazzo immaginava le
sensazioni suscitate in lui da un'altra parte d'epidermide.
"Sono tutte così le donne?"
Il ragazzo era seduto vicino al finestrino. Grossi tronchi
di pino sfilavano oltre i vetri.
Non essendo un giorno festivo l'autobus era semivuoto.
Nell'attraversare il fiume al "Guado dei cavalli" videro
stormi di uccelli cinguettare intorno al ponte di ferro
su cui transitavano i treni.
Oltrepassata Yumoto e giunti alla montagna di Hakone,
Momoko tolse una collana d'oro dalla borsetta e la indossò.
Pendeva fino a sfiorarle il delicato rigonfiamento di una costola.
Momoko non conversava; si limitava a rispondere
distrattamente alle domande di Takemiya.
Scesero dall'autobus nella città di Hakone e si fermarono
nell'albergo di fronte.
Avevano pensato di trascorrervi la notte, ma invece di
chiedere una camera, Momoko entrò nel salone e si sedette
accanto alla finestra.
"Che facciamo? Attraversiamo il lago?"
"Come preferisci, sorella maggiore... l'autobus ti ha stancata, vero?"
"è proprio perché sono stanca che voglio proseguire.
è una bella seccatura che stiano facendo dei lavori proprio
nell'albergo in cui intendiamo fermarci."
Nel giardino prospiciente il lago erano iniziati i lavori
di ampliamento dell'edificio. Avevano scavato in profondità
per costruire le fondamenta. A Momoko pareva piacevole
l'idea di essere ridestata il mattino seguente dai
rumori dei muratori che preparavano il cemento armato.
Decisero tuttavia di salire sul battello delle due del
pomeriggio per raggiungere la sponda estrema del lago.
Avevano tempo, pranzarono in albergo.
I sedili sul ponte del battello erano occupati da un folto
gruppo di gitanti saliti a Motohakone.
Takemiya disse che sulla sponda destra si scorgeva l'albergo montano.
"Chissà che tenero verde anche intorno a quell'albergo!"
"Ne hai già veduto tanto a Kyoto. Ricordi le foglie e
i fiori delle pasanie sulle colline Higashiyama?"
"No. Guardavo soltanto te, sorella maggiore."
"Sei abile a mentire. Ricordo di averti insegnato a distinguere
il profumo delle pasanie da quello dei fiori di castagno."
"Anche adesso non sto affatto guardando il lago."
Sulla superficie delle acque brillavano piccole onde.
Ma osservando attentamente si notava che, forse perché
il battello procedeva nella direzione del sole pomeridiano,
le onde sulla scia rilucevano, mentre l'acqua solcata
dalla prora era di un blu intenso.
Le basse onde lucenti si allargavano fino alle lontane
rive meridionali simili a guizzi di luce. Soltanto la cima
del Fuji verso cui procedeva il battello era celata anche
quel giorno da candide nuvole.
L'autobus che collegava la riva del lago dei Giunchi
con il monte delle Nuvole Veloci fu subito gremito di
passeggeri scesi dal battello e Momoko, pur essendo riuscita
a sedersi, non poteva neppure alzare la testa senza
urtare chi le stava in piedi accanto.
Quando l'autobus giunse al cratere della valle della
Grande Eruzione compì un largo giro e Momoko riuscì
finalmente a voltare la testa e a guardare il lago. L'autobus
nella sua corsa pareva sfiorare i rami del fitto bosco.
Takemiya protese un braccio dal finestrino e strappò fiori
ed erbe dal lungo stelo.
Dal ponte delle Nuvole Veloci scesero in funivia a Gora.
Il ragazzo depose il mazzo di fiori ed erbe sul tavolino
della camera d'albergo.
"Sorella maggiore", mormorò afferrando la collana di
Momoko e tirandola energicamente.
"Mi fai male! "
"Ti sei dimenticata di me, vero?"
Momoko tentò di slacciare il fermaglio della collana.
"No, tienila. Non la tirerò più. Tienila. Ti sta bene."
"Davvero? Va bene, come vuoi, piccolo Miya", disse Momoko, delusa nel
constatare che il ragazzo era attratto dalla collana.
Continuò tuttavia a portarla, anche durante il bagno
nella piscina termale e a letto.
Appena si furono coricati il ragazzo afferrò con i denti
la collana, scuotendola.
"è un bel giochino per te, vero piccolo Miya?"
Allora il ragazzo, ancora con la collana tra i denti, premette
il volto sul collo di Momoko e pianse.
Momoko provò solo solletico.
"Basta con le recite! è squallido..."
"Tu mi abbandonerai!"
"Di nuovo con questa storia! Di' piuttosto che ci separeremo..."
"è lo stesso. Non sono vanitoso e non m'importa di
salvare la faccia."
"Comunque tu sei malato, povero Miya. Sarebbe un peccato separarci."
"Lo so. Sono malato e squallido. Ecco perché ti ucciderò!"
"Va bene. Uccidimi."
Le labbra del ragazzo sul petto le rievocarono l'immagine
della tazza d'argento.
Da quando il padre di Keita gliela aveva donata aveva provato
più volte a infilarvi il seno. Inutilmente.

10. DIETRO L'ORECCHIO.


1.
Quando Momoko si risvegliò, si accorse che Takemiya
era sparito.
Destatasi da un sogno si accingeva a riaddormentarsi.
"Ah, non c'è!" credette di mormorare. Ma si ingannava,
aveva formulato la frase solo mentalmente.
Si sentiva il cervello intorpidito. Un torpore piacevole,
che la stava inducendo nuovamente al sonno. Ma in
quell'istante ricordò di essersi ridestata anche a notte fonda.
"Chissà, forse il piccolo Miya pensa di avermi ucciso."
Ormai era completamente sveglia. Accostò una mano
al collo. La collana d'oro era sparita.
"L'ha presa il piccolo Miya."
Si sentiva tranquilla.
Quando si era svegliata a notte alta non aveva badato
alla presenza o all'assenza del ragazzo.
Ricordava tuttavia di aver udito dei cinguettii. Forse
non era notte alta come aveva supposto. Probabilmente
albeggiava. Era sonnolenta. Le pareva di essere resuscitata
da una catalessi per piombare in un'altra.
La sera precedente aveva finto di essere svenuta e si
era addormentata.
Prima che ciò accadesse il ragazzo, pur continuando a
volgerle la schiena, le aveva passato le braccia intorno al
collo, traendola a sé e chiamandola:
"Sorella maggiore! Sorella maggiore!"
"Mi fai male!"
"Perché non ti volti verso di me? Così non mi piace."
"Che t'importa?"
"Mi dà tristezza."
"Davvero?"
"La mia sì che è passione! Non resisto a sentirmi guardato da dietro."
"Mi piace contemplare la tua nuca."
"Che strani gusti!" aveva esclamato il ragazzo circondando
delicatamente con le braccia il collo di Momoko.
"Spiegami perché ti piace abbracciarmi da dietro."
Momoko aveva l'abitudine di indurlo a volgerle la schiena
e di abbracciarlo in quella posizione e pretendeva
che egli la imitasse.
Si era comportata in quel modo anche con Nishida, il
ragazzino precedente. E con gli altri.
Il giorno in cui s'era raccolta i capelli alla sommità del
capo e Asako l'aveva guardata, si era istintivamente vergognata
proprio perché meditava di offrire la nuca ai baci
del ragazzino.
Ora, l'osservazione di Takemiya l'aveva messa in imbarazzo.
"Si è più sereni a non guardarsi in viso", aveva inventato.
"Sereni? Non è vero, io sono sereno quando vedo la
mia immagine rimpicciolita riflessa nelle tue pupille. Hai
qualcosa da nascondermi?"
"Di certo ti sto facendo del male... "
"Inutile ingannarmi. Tu non mi ami."
"Di nuovo. Non si può pronunciare così facilmente
frasi simili. Tu dici subito 'non mi ami', 'sarò abbandonato':
finirai con il trascorrere una vita sentimentale da mendicante. "
"Tu cerchi di ingannarmi. Mi volti la schiena per pensare ad altro."
Momoko scosse la testa sul cuscino. La collana le premeva
ormai contro il mento. Quelle parole impudenti rischiavano
di raffreddarla irreparabilmente.
Dopo qualche minuto di silenzio disse:
"Piccolo Miya, osserva dietro il mio orecchio. La linea
che dall'attaccatura dei capelli scende alla nuca... rivela
senza equivoci l'età".
"La vedo", rispose Miya senza imbarazzo. "è pura e
bella come la tua anima. Tenera, candida e trasparente."
"Che bravo! Se fosse come dici, i tuoi complimenti mi penetrerebbero
nelle orecchie senza fermarsi alla superficie. "
Mentre Momoko parlava il ragazzo le premette le labbra dietro l'orecchio.
Momoko ritrasse di scatto la testa tra le spalle.
"Poco fa, nella vasca, ho notato la linea delle tue spalle:
dal collo all'inizio delle braccia formano armoniose,
lievi, indicibili curvature. Finiscono nelle attaccature del
seno: arcuate, tonde, gonfie. Una meraviglia", disse, e
con la mano strinse delicatamente la spalla di Momoko.
"Sei davvero abile", sussurrò lei. Il ragazzo premette
con forza, poi lasciò scivolare la mano sul seno.
"Quando mi volti la schiena ho l'impressione di continuare
a rincorrerti all'infinito... Provo un'ansia terribile."
Momoko fu nuovamente disgustata dalle sue espressioni da fanciulla.
In realtà l'aveva sedotto proprio perché incuriosita
da quei suoi accenti femminei. Era stata una facile conquista.
Ma dopo breve tempo aveva incominciato a provare
fastidio per quel suo modo di parlare. In principio aveva
pensato che si esprimesse così perché era un ragazzino
viziato, di buona famiglia. Forse per spirito di ribellione,
sperando di sembrare precoce.
Momoko aveva incominciato a nutrire nei confronti del ragazzo
un senso di maschile superiorità. Egli era il trastullo ideale
per una donna. Sarebbe stato divertente giocare con lui,
trattandolo con lieve sadismo.
Quando amava Takemiya, Momoko aveva l'impressione di abbracciare
una fanciulla. Ma presto si era accorta che i toni e i modi femminei
con cui egli si esprimeva erano un retaggio delle sue
esperienze omosessuali.
Anche Nishida, il precedente ragazzo di Momoko, aveva avuto
tendenze omosessuali.
Momoko non era riuscita ad amare normalmente neppure Takemiya.
Si comportava spesso da omosessuale.
"Il mio è un comportamento patologico, sordido", si criticava.
Ma a volte stigmatizzava alla stessa maniera il ragazzo.
Pensava che sarebbe stata lei a venire miseramente abbandonata.
Il ragazzo la seguiva ovunque come una fanciulla, ma
forse non vedeva in lei che un mezzo per conoscere una
donna e guarire dalle sue tendenze omosessuali.
Il corpo del ragazzo, anche se liscio come quello di una
fanciulla, ne differiva naturalmente nell'ossatura e nelle
forme. Vi si stava accentuando la mascolinità.
Anche Momoko stava trasformandosi. La tazza d'argento
era ormai stretta per il suo seno. Momoko se ne era
accorta con meraviglia.
Ma era diventata veramente donna? Perdurava in lei il terrore
e la ribellione verso il normale rapporto tra un
uomo e una donna.
Si era limitata a offrire a dei ragazzini un'immagine
gelida di se stessa. Takemiya, particolarmente sensibile,
aveva intuito la sua anormalità. Ne era irritato e rattristato.
Ma l'orgoglio non consentiva a Momoko di rivelare al ragazzo
i segreti della sua femminilità. Era dunque ineluttabile
abbandonare il ragazzo prima che divenisse uomo.
Aveva intenzione di dirgli addio a Hakone.
"Sorella maggiore, sei distratta. A che pensi?" le aveva
sussurrato all'orecchio Takemiya.
"Che bambino noioso!"
"Anche in autobus non mi hai quasi rivolto la parola."
"Non ho nulla da dire."
"Avresti potuto almeno guardarmi."
"Ti guardavo."
"Bugiarda."
"è una sofferenza guardarti."
"Perché mediti di abbandonarmi. "
Poteva essere vero, anche se il pensiero di Momoko
era rivolto a Natsuji che quel giorno sarebbe stato a casa sua.
Perché fuggire per il timore di incontrarlo? Perché non
resistere rimanendo in casa?
Non aveva trovato pace né in autobus né sul battello.
Natsuji e il padre somigliavano a Keita. Tuttavia Momoko
aveva l'impressione che non fosse tale somiglianza
a renderle penoso incontrare Natsuji. Non aveva un animo così tenero.
E neppure le pareva di essere così gentile da assentarsi
per non essere d'intralcio al possibile idillio della sorella.
Non capiva. Tuttavia era indubbio che il senso di vuoto
che provava nonostante fosse a Hakone con Takemiya
era dovuto al pensiero ossessivo della presenza di Natsuji
nella sua casa.
"Piccolo Miya, ti è mai capitato di vivere lottando con
la tua sofferenza?"
"Sofferenza?"
"Anche essere qui insieme a me non è forse una sofferenza?"
"Non è vero!" esclamò il ragazzo torcendosi in un'espressione
di dolore. "Sei tu a precipitarmi nella sofferenza.
Mi abbandonerai. Ne sono sicuro."
"Se ne sei convinto, separiamoci." Quindi, mentendo:
"Ho ricevuto una lettera da tua madre. Mi chiede di renderti
com'eri prima: uno studente serio".
"Che?" esclamò il ragazzo. "Hai l'impudenza di mentire
prendendo come pretesto la mia famiglia?"
"Ho l'impressione di aver finora dimenticato i tuoi genitori.
Mi sono comportata male."
"Questa non è una bugia degna di te. Non voglio essere abbandonato.
Se non mi ami dillo. Tu non hai mai amato nessuno."
"No, io so amare."
"Te stessa, forse."
"No, una persona che non è più in questo mondo..."
rispose Momoko pensando a Keita, ma aggiunse: "Mia madre".
"Tua madre? Quel giorno, quando nevicava al lago dei
Giunchi, dicevi di amare tuo padre."
"Davvero? è uguale. Mia madre si è uccisa perché amava mio padre."
Il ragazzo premette il volto sulla nuca di Momoko.
Le sue lacrime scivolavano dietro l'orecchio della giovane.
Gocce che parevano penetrarle nella testa.
"Mi piacerebbe poter dire che ti ho uccisa per amore."
La sua voce tremava.
"Fa' come dici", sussurrò Momoko.
"Se mi lascerai diventerò un balordo. Abbandonerò molte donne.
Ma più abilmente di te."
Sebbene stupita, Momoko disse freddamente:
"Già, tu sei terribile..."
"Non voglio che succeda! Non voglio! Aiutami, sorella
maggiore. Tu non mi conosci." Il ragazzo, all'improvviso,
la scrollò con violenza. "Non ti permetterò d'abban-
donarmi! Neppure diventando un demonio riuscirai ad
abbandonarmi. " Il ragazzo pose le braccia intorno al collo
di Momoko, la trasse a sé con violenza e di nuovo la
scrollò. "Pensi ancora di potermi abbandonare?" Momoko
provò un senso di vertigine. Le risuonavano nelle
orecchie le parole del ragazzo.
Era riversa bocconi e faticava a respirare. Sebbene soffrisse
e il suo corpo fosse scosso dagli spasmi, l'idea di
svanire nel nulla era per lei quasi un sollievo.
Ma il ragazzo allontanò le braccia sbigottito.
Momoko respirò profondamente. Si sentiva paralizzata.
Quando si accorse delle dita che la tastavano nel buio,
trattenne il respiro fingendo di essere morta. Aveva la
mente così vuota da non capire perché lo facesse.
Sprofondò nel sonno.
Al mattino, appena desta, cercò di alzarsi per prendere
un bagno, ma le gambe stentavano a sostenerla.
Mentre si lavava il collo si accorse con una certa soddisfazione
che il ragazzino le aveva preso la collana.
Non capiva perché, sebbene assolutamente certa che
egli non l'avrebbe uccisa, si fosse addormentata cedendo
al torpore, senza opporsi, senza la minima ansia.
2.
Tornata dal viaggio a Hakone con Takemiya, Momoko rimase
a lungo in casa, senza voglia di uscire. Sedeva per molte
ore alla macchina da cucire, intenta a sistemare gli
abiti estivi della sorella. Quelli più vecchi li rimodernava.
Asako, che condivideva la sua passione per il cucito, le diceva:
"Lascia stare, sorella, non c'è bisogno che tu mi faccia
anche questo".
"Mi diverto. Lasciami continuare. Se rimodernato così
non ti piacerà più, non indossarlo. Anche se so che tu,
sentendoti in obbligo, indosseresti anche un abito che
non ti piacesse."
"Non mi rimane nulla da fare. è sgradevole."
"Già..."
"Ho l'impressione che non mi resti che il bucato."
"Allora dedicati di buona lena al bucato!" Momoko si
voltò sorridendo: "Che tipo! Non c'è bisogno di far complimenti".
"Cosa?"
"Lo noto sai? Anche con papà sei sempre sollecita e
spesso anche apprensiva. Potrebbe sembrare un'impressione
dovuta ai miei complessi ma non è così. Il tuo comportamento
a volte nuoce a papà. Non te ne accorgi?"
"No."
"Già. Forse esagero, non dovrei parlartene, ma tu somigli
a tua madre... Non aveva anche lei lo stesso atteg-
giamento verso papà?" disse placidamente Momoko. Ma
Asako ne fu ferita. Era una affermazione gelida, da figlia adottiva.
"Non ti sembra di tendere intorno a papà una sottile
rete di sollecitudine? Come una bella tela di ragno, che
riluce argentea al sole primaverile, lievemente sospinta dal vento."
"Non me ne accorgo", rispose pensosa Asako. Ma si domandò se
stessero disputandosi l'amore del padre. Negli ultimi tempi
esitava a parlare con il padre e con la sorella.
Momoko ripensò alle due sorelle incontrate nell'albergo
di Gora, a Hakone.
Al momento di lasciare l'albergo Momoko avrebbe voluto
domandare alla cameriera se Takemiya era tornato
a Tokyo o se si trovava ancora da quelle parti, ma non osò.
Fece colazione fissando il giardino per non incontrare
lo sguardo della cameriera.
Anche quell'albergo era un tempo appartenuto al finanziere
Fujishima e disponeva di solo sette o otto camere e di
un giardino vasto cinque o seimila tsubo.
Sembrava un bosco e digradava verso la valle. Gli albe-
ri lussureggianti avevano un aspetto naturale, non svela-
vano le cure cui erano stati sottoposti dai giardinieri.
Di fronte alla camera di Momoko vi era un grosso castagno.
Sentì una voce femminile, guardò e vide una ragazza
che chiamava la sorella minore.
"Come si somigliano!" disse alla cameriera. "è sorprendente,
sembrano gemelle."
"è vero. Sono qui entrambe con i loro piccoli che sono
della stessa età."
"Ci sono anche i mariti?"
"Sì. E la mamma delle signore."
"Somigliano alla madre?"
Le sorelle stavano passando davanti alla camera di Momoko
per scendere lungo il sentiero del giardino.
Non vi era gentilezza nella forma delle loro palpebre,
ma avevano grandi occhi e guance di un incantevole candore,
tratti decisi e capelli neri fino alla radice.
La sorella maggiore doveva avere quattro anni meno di Momoko.
Entrambe portavano un lattante sulla schiena. I due
bambini non sembravano aver ancora compiuto un anno.
Le madri indossavano lo yukata (Comodo kimono di cotone leggero. (N.d.T.)
dell'albergo, i bambini un identico kimono rosso. Dono della nonna,
suppose Momoko.
Ai lati del sentiero crescevano azalee sempreverdi che
le nascondevano dal busto in giù la vista delle sorelle.
Erano attorniate da un copioso fogliame; da lontano
parevano gemelle.
All'improvviso l'immagine delle sorelle, con i bambini
sulla schiena, vestiti di rosso tra il verde delle fronde, le
parve un dipinto sacro. Ma quando le volsero la schiena
si accorse che avevano colli un po' tozzi e carnosi, da
cinghiale, veramente volgari. Difetto accentuato dalla
presenza dei bambini sulla schiena.
Momoko rise di sé.
Forse era lo smarrimento dovuto alla sparizione di Takemiya
a indurla a supporre una religiosa felicità nell'immagine
delle due sorelle somiglianti con i bambini sulla schiena.
In seguito meditò che la sua diversità da Asako era forse
un segno della provvidenza divina o, forse, del trionfo
della debolezza umana.
Takemiya le aveva telefonato spesso. Ma Momoko non
aveva mai risposto al telefono.
Andò a casa sua, ma lei non si mosse, nonostante le
rimostranze della cameriera.
"Vuoi che gli parli io?" aveva proposto Asako.
"Già. La tua solita ingerenza... Digli che sono morta.
Se ne farà una ragione."
Un'ora dopo Asako risalì al piano superiore. Aveva
un'espressione preoccupata.
"Pensavo fosse solo, invece era accompagnato da un altro
ragazzo, un certo Nishida."
"Sì? Com'è infantile!"
"E poi altri due. Erano in quattro."
"Ah!"
"Hanno detto di essere solidali con il piccolo Miya e che si
sarebbero suicidati tutti e quattro. Insistevano per vederti."
"Potevi ringraziarli dicendo che, così facendo, avrebbero attuato
il segreto desiderio di tua sorella."
"D'ora in poi dovrai fare attenzione a uscire. "
"Sono tutti ragazzini tranquilli", disse Momoko corrugando la
fronte. "Vedrai, tra dieci anni l'unica ferita rimarrà a me
che sono donna... "
Asako la guardava in silenzio.
"Si dice che il tempo risolve tutto. Ma sembra trascorrere
soltanto a vantaggio degli uomini. è scritto nelle
Lettere Portoghesi: 'Mi sono accorta della profondità
del mio amore soltanto quando ho tentato di tutto per lenire
la ferita che mi aveva inferto'. Sta' attenta anche tu,
Asako."
(Epistolario pubblicato anonimo per la prima volta a Parigi nel
1699 e attribuito alla monaca portoghese Mariana Alcoforado. Prota-
gonista di due secoli di straordinario successo editoriale, vi si narra
la romantica vicenda di una monaca sedotta e abbandonata da un ufficiale
francese. (N.d. T.)
Asako si accostò alla finestra e guardò in strada.
I ragazzi erano spariti.
"Come sei abbronzata!" notò Momoko.
"Ho giocato a tennis..."
"Sei davvero scurissima."
"D'estate preferisco così."
"Vai sempre al tennis con Natsuji?"
"No."
Momoko si sedette alla macchina da cucire prima che
Asako si allontanasse dalla finestra.
Dieci giorni dopo, Asako entrò in clinica per una pleurite acuta.
Natsuji venne a cercarla a casa. Momoko capì che la
sorella non l'aveva avvisato della sua malattia. Quel
comportamento le parve commovente.
"Devo andare al museo per conto di mio padre.
Mi sbrigo subito, non vuole accompagnarmi? Tanto
mia sorella è uscita", propose Momoko e Natsuji accettò.
"Sono venuto a salutarvi", spiegò Natsuji, "perché sto
per partire. Trascorrerò le vacanze a Kyoto. Mio padre
mi ha anche chiesto di accompagnarla a Kyoto, a casa nostra,
signorina Momoko."
"Davvero? Grazie. "
Uscita dal museo Momoko trovò Natsuji sdraiato sul
prato, all'ombra di un ciliegio.
Mentre passeggiavano attraverso il parco verso Hirokoji, Momoko domandò:
"Lei è nato in estate, vero Natsuji?"
"è vero, come si deduce dal nome. In agosto. Eppure, non
sopporto il caldo."
(In giapponese Natsuji significa "secondogenito dell'estate". (N.d. T.)
"Kyoto è molto calda."
"Comunque, adoro l'estate."
"è per questo che è così abbronzato?"
"Sì, sono diventato molto scuro."
Momoko ricordò che anche Keita si era molto abbronzato durante
la vita militare. Sentiva l'odore estivo del maschio. L'odore di Keita.
Momoko si discostò cautamente da Natsuji.
Rimasta in casa da molti giorni, si sentiva illanguidita
dai raggi del sole.

11. L'ARCOBALENO DIPINTO.


Era già autunno quando Asako poté finalmente uscire dalla clinica.
Aveva contemplato tutti i giorni un arcobaleno dipinto,
appeso alla parete della sua cameretta. Era la riproduzione
a colori della Primavera di Millet.
Appena era stata in grado di raggiungere il telefono
nel corridoio aveva chiamato il padre e gli aveva chiesto:
"Vorrei avere almeno qualche libro d'arte da sfogliare.
Per favore, la prossima volta che vieni a farmi visita, portami
il libro con la raccolta dei dipinti di Takeji Fujishima".
"Il volume grosso? Va bene, ma ti avverto che è pesante: non
potrai sfogliarlo stando sdraiata. Perché vuoi vederlo?"
"Mi interessa un arcobaleno dipinto in uno dei suoi quadri."
"Un arcobaleno dipinto? Ho capito bene?"
"Sì, un arcobaleno sul lago."
"Sì. Ma avevamo anche la riproduzione di un dipinto di Millet, non ricordi?"
"Un dipinto di Millet? No, non ricordo."
"Devo averla riposta da qualche parte. Vedrò di trovarla e
te la porterò insieme con il libro su Fujishima."
Quando Asako ebbe il libro lesse che il dipinto di Fujishima
con l'arcobaleno s'intitolava Quiete ed era stato
esposto nel 1916 a una mostra organizzata dal Ministro
dell'Educazione quando, naturalmente, Asako non era ancora nata.
La Primavera di Millet, invece, era stata esposta in una
galleria nel 1868, ottant'anni prima, quando neppure il
padre di Asako era ancora nato.
L'anno precedente, Millet aveva presentato all'Esposizione
Internazionale nove tele dipinte in passato ricevendo
il primo premio, una decorazione dal governo e ottenendo
gloria e successo a 55 anni, dopo lunghe e tormentate battaglie.
La Primavera di Millet era stata esposta ancora incompiuta.
L'artista avrebbe terminato il quadro sei anni dopo,
nel 1874, l'anno prima di morire. Perciò era ritenuta
il suo ultimo capolavoro.
"Asako, non ricordi questo dipinto di Millet?" le aveva
domandato il padre in clinica.
"No, non lo ricordo."
"Davvero?" domandò il padre perplesso. "Eri così piccola?
Da grande non ti è capitato di vederlo appeso in casa?"
"No."
"Può darsi. è una delle riproduzioni di dipinti famosi
che ho comprato durante il mio viaggio in occidente. Le altre le ho
regalate, ma questa l'ho tenuta perché piaceva alla mamma."
"Piaceva alla mamma?"
"Sì. Ecco perché l'ho incorniciata e l'ho appesa nella sua camera."
Asako si sedette nel letto. "Piace anche a me... " disse
fissando la riproduzione e pulendone il vetro con la manica.
"C'è un piccolo arcobaleno in un angolo del dipinto.
E questi sono fiori di melo?"
Nel quadro erano dipinti tre o quattro meli dai fiori
bianchi tra le tenere erbette di un campo primaverile.
Anche il bosco della collina opposta era di un verde giovane.
La terra era bagnata e rossa e un arcobaleno si marcava
tra nubi scure, portatrici di pioggia.
L'arcobaleno nasceva in alto a sinistra e terminava
idealmente fuori dal quadro. Pareva un augurio affinché
la rinascita primaverile della natura si prolungasse.
Quando Momoko andò in clinica a trovare la sorella,
la Primavera era appesa alla parete, ma lei non se ne accorse
perché le volgeva le spalle.
"Sorella, guarda cosa mi ha portato papà."
Momoko si voltò e rimase sbigottita. Quindi indietreggiò
per vedere meglio e appoggiò una mano sul capezzale del letto di Asako.
"Chi poteva immaginare che sarebbe finito qui!"
"Lo ricordi?"
"Certo."
"Io no. Anche se papà dice che dovrei ricordarmelo. Ma non ci riesco."
"è probabile."
"Pare che alla mamma piacesse."
"Lo credo, era in camera sua."
"Te ne ricordi, non è vero?"
"Non potrei dimenticarlo. Il giorno stesso in cui papà
mi ha accompagnata a casa dalla campagna ho notato
questo dipinto in camera della mamma."
Asako era stupita.
"Mi ha profondamente impressionata", spiegò Momoko.
"Papà ti ha portato questo quadro perché la tua malattia
gli ha rammentato la mamma. Perché ti protegga."
"In realtà io gli ho chiesto di portarmi il volume dell'opera
di Takeji Fujishima, e papà mi ha detto che avevamo
anche una riproduzione dell'arcobaleno di Millet." Così
dicendo Asako mostrò alla sorella il libro su Fujishima.
"Ho voluto vedere questo dipinto intitolato Quiete perché
mi ricorda l'arcobaleno sul lago Biwa", concluse Asako.
"Davvero?"
"La stampa è un regalo che papà ha portato dall'occidente."
"Proprio come me", interruppe Momoko, che continuò
con noncuranza: "Durante il viaggio, lontano in un
paese straniero, si ricordò anche di me e della mamma.
E l'avrà scritto alla mamma. Tua madre ha sposato papà
pur sapendo della mia esistenza. Ma mia madre non ha
potuto sposare papà. è morta. E io vivevo nella casa della
mamma in campagna... Ormai era una storia finita. Papà
avrebbe potuto abbandonarmi. Ma forse il lungo viaggio
in un paese straniero gli ha addolcito lo spirito. Forse
è accaduto lo stesso per tua madre, lontana com'era da papà".
Quando faceva quei discorsi, Momoko usava termini
ben precisi: "mia madre", "tua madre". E ciò, ad Asako,
dava molto fastidio.
Che suo padre, quand'era ancora così giovane da non
rimanerle impresso nella memoria, si fosse ricordato con
commozione, durante un viaggio all'estero, di una donna
che non era sua madre e di un'altra figlia, era una realtà
che le riusciva difficile accettare, anche se ormai non
l'angosciava più.
"Perciò", disse Momoko, "il fatto che tu abbia una sorella
maggiore è quasi un souvenir di quel viaggio." E aggiunse:
"Il giorno stesso in cui papà mi ha condotta a casa,
ho veduto questo dipinto di Millet".
Anche Asako guardò il dipinto appeso alla parete: "Io non lo ricordo".
"Tu eri seduta sulle ginocchia di tua madre il giorno in
cui io ti incontrai per la prima volta. Mi guardasti con
grande meraviglia. Tua madre ti disse: 'è la tua sorella
maggiore, Asako. Sei contenta che sia venuta, vero?' E
tu, intimidita, ti voltasti verso tua madre e, infilandole
le mani nella scollatura le afferrasti, forse, un seno. Io
ero triste. E gelosa. In campagna mi avevano detto che
avrei incontrato la mia nuova mamma, ma quando la vidi
mi accorsi sì che assomigliava molto a mia madre, ma anche
che aveva una graziosa bambina sulle ginocchia. Allora
pensai che non poteva essere la mia mamma."
"Io non ricordo bene", mormorò Asako.
"Certo che non ricordi. Quanti anni avevi quando ti
hanno detto che non eravamo figlie della stessa madre?"
"Sei o sette."
"Sì, avevi sette anni. Fino ad allora è stato davvero penoso
per me. La figlia legittima ignorava la verità che era
conosciuta da quella illegittima. Se fossi stata io la fig]ia legit-
tima, avrei potuto nasconderti amorevolmente la verità...
Ma non è stato così, e io ho sempre avuto il rimorso di averti
rubato qualcosa. Quando ti rivelai che eravamo nate da
madri diverse tu piangesti, io tremavo tutta. E tu, veden-
domi tremare così, ti sei stupita e hai smesso di piangere."
"Mi ricordo bene di quel momento."
"Dopo mi sono chiesta perché avessi tremato in quella
maniera. Ero una bambina terribilmente ostinata, un difetto
odioso anche a me stessa. Avevo persino supposto che tu
fossi già al corrente di ciò che ti avevo appena detto."
Asako scosse la testa.
"Tremando", concluse Momoko, "è come se ti avessi
ingiunto di non dirlo né a papà né alla mamma."
"è passato tanto tempo." Asako si sdraiò su un fianco
e si tirò la coperta fin sulla spalla.
"Sì, basta. è stato questo dipinto a farmi tornare tutto
in mente." Così dicendo Momoko voltò le spalle al dipinto
e si sedette di nuovo sulla sedia contro la parete.
"Anche Hiroshige ha dipinto un arcobaleno. Credo di
averne veduto la riproduzione in un libro. Un sottile
arcobaleno sul mare. Una veduta di Susaki."
"Sono davvero numerosi i dipinti di arcobaleni."
"Hai ragione. Quello di Hiroshige è intitolato Quiete
Tempestosa. è una delle otto vedute di Edo, non ha quindi
nessun legame con il lago Biwa.
Vuoi che ti porti quel libro con tutti i dipinti di Hiroshige?"
(In effetti il lago Biwa dista parecchie centinaia di chilometri da
Tokyo, di cui Edo è l'antico nome. Ando Hiroshige (1797-1858)
dipinse anche otto vedute del lago Biwa. (N.d.T.)
"Il dipinto con l'arcobaleno di Susaki ha colori tenui,
dà un senso di fragilità." Momoko aveva parlato del dipinto
di Hiroshige forse per cambiare argomento. Ma i
suoi discorsi sull'infanzia avevano indotto anche Asako
a ripensare al passato.
I ricordi delle due sorellastre non confluivano. Appartenevano
a correnti diverse.
Momoko fissava nuovamente il quadro alla parete:
"Nei quadri di Millet c'è una forza intensa e una profonda
gioia. Quando, arrivata dalla campagna, vidi questo dipinto
occidentale, ebbi l'impressione di iniziare una
vita elegante e vivace, diversa da quella che avevo condotto
fino ad allora. Il pensiero di andare a casa di papà
equivaleva per la mia mente infantile a un arcobaleno".
Cosa intendeva dire Momoko? Forse che quell'arcobaleno si era dileguato?
Era strano che Momoko si ricordasse della madre di
Asako meglio della sua stessa figlia. Ad Asako ciò pareva
irragionevole, persino misterioso. E a quei sentimenti
non era forse estraneo un senso di rivalità e di ostilità nei
confronti della sorellastra. I bambini piccoli sono estre-
mamente egoisti e sorprendentemente maliziosi. Come
poteva essersi comportata una bambina che, al sicuro sulle
ginocchia della mamma, guardava la sorella appena arrivata
dalla campagna? Non l'aveva forse salutata con un
ingenuo, aperto disprezzo, con quell'odio purissimo di
cui è capace una bambina di tre anni?
Asako non riusciva a ricordare l'episodio, e ciò la
inquietava ancora di più.
"Desideri vedere i dipinti con l'arcobaleno non solo
perché sei malata ma anche perché questo dipinto piaceva
a tua madre", disse Momoko.
Queste parole turbarono l'animo di Asako che tuttavia rispose:
"No. è solo perché mi è tornato in mente l'arcobaleno
invernale sul lago Biwa".
"Un arcobaleno invernale? Non ti si addice. è più
adatto a me. Per te va bene l'arcobaleno primaverile di Millet."
"Ma io non sono come mi immagini tu."
"Hai ragione. Mi sono intrufolata nella tua casa quando
eri ancora una bambina e ti ho cambiato il carattere.
Da quando ti ho confidato che avevamo madri diverse il
tuo atteggiamento è cambiato. Sei diventata gentile con
me. Forse è quello il motivo della tua eccessiva sollecitudine
verso gli altri, della tua troppa bontà. Ti svelai quel
segreto troppo presto."
"Ma confrontando la data del matrimonio della mamma con
quella della tua nascita, l'avrei scoperto anche da
sola, prima o poi."
"Certo", Momoko si afferrò il polso sinistro e chinò lievemente
il capo, "ma pur essendo solo una bambina compresi la tua
gentilezza e giurai che non ti avrei mai tradita.
Ma non ci sono riuscita. Dopo morta, quando non sarò più
che un mucchietto di ossa, ti chiederò scusa."
"Sorella!" Le palpebre un po' infossate di Asako tremarono.
Momoko aveva il dubbio che la pleurite di Asako fosse
la conseguenza del suo carattere troppo gentile.
Invitata da Natsuji a giocare a tennis si era improvvi-
samente dedicata a uno sport troppo violento per lei. Si
era indubbiamente divertita, aveva giocato con gioia, ma
il fervore con cui vi si era dedicata dimostrava che si era
abbandonata con abnegazione a ciò che Natsuji amava.
Anche il fatto che non l'avesse informato della sua malattia
era una forma distorta di gentilezza.
Momoko provava tenerezza per la sorella, ma con Natsuji
non aveva accennato alla sua malattia, e questo non
perché avesse intuito i sentimenti del ragazzo.
Nonostante sapesse che Natsuji era venuto a casa per
incontrare la sorella, Momoko, che pure, mentre passeggiavano
diretti al museo, ne avrebbe avuto l'opportunità,
non lo informò della malattia di lei.
Si era persino sottilmente divertita al fatto che Natsuji
non osava domandarle notizie di Asako. Vi era innegabil-
mente in lei una certa malignità.
Durante la sua visita ad Asako, non le parlò dell'incontro
avuto con Natsuji né dell'invito a Kyoto.
In casa, Momoko doveva supplire all'assenza della sorella
impegnandosi nell'accudire il padre e sorvegliando
il lavoro in cucina.
"Sei così malinconico papà quando non c'è Asako", osservò
Momoko scuotendo la testa. "Non riesco neppure
a preparare un brodino che abbia il sapore di quelli di
Asako. E poi mi irrita disperdermi in questi problemi!
Non riuscirei a vivere sola con te, papà. Diventerei senile"
diceva Momoko, ma il suo animo avvampava di un'ambigua passione.
Quando la matrigna era in vita, Momoko si era sempre
segretamente vietata ogni tentativo di stabilire con il padre
un legame più stretto e affettuoso. E quell'abitudine durava ancora.
D'un tratto la sfiorò il dubbio che il padre avesse portato
ad Asako il quadro prediletto della madre di nascosto da lei,
e provò pena di se stessa.
Provava il desiderio di digrignare i denti, ma la presenza
di Asako glielo impediva.
2.
Il tifone annunciato già da due o tre giorni si era allontanato
e imperversava ora sul mare, ma dall'alba soffiava un vento furioso.
Asako aveva confuso lo stormire dei rami di ginkgo
contro i vetri della finestra con il fruscio della pioggia.
Dovevano essere particolarmente fragili quelle foglie
già un poco ingiallite nonostante la stagione. L'albero era
un poco più alto della clinica, un edificio a un solo piano.
Durante la mattinata le foglie caddero con tale abbondanza
da lasciare intravedere i rami.
Quella stessa mattina, Asako ricevette la visita inattesa di Takemiya.
"Oh! Come mai qui?"
"Posso entrare?" Il ragazzo rimaneva fermo accanto alla finestra.
"Chiudi, c'è corrente."
Takemiya chiuse la porta, ma non si avvicinò. Il candore della
porta metteva in risalto il suo viso.
"Che ti è successo? Come hai fatto a sapere che ero qui?" Asako
era preoccupata.
"Me l'ha detto la cameriera."
"Ah davvero?"
"Mi sono appostato dietro il muretto del vostro giardino,
sicuro che la cameriera sarebbe uscita a fare la spesa.
Appena l'ho vista l'ho bloccata e l'ho interrogata minacciandola."
Asako era ormai in grado di camminare, ma era seduta
sul letto con un kimono di filaticcio di seta con piccoli
motivi a frecce. Mentre ascoltava se lo rassettò alla scollatura
e sulle ginocchia.
"Mi ha rivelato che sua sorella è a Kyoto e lei è qui..."
"Mia sorella a Kyoto?" stava per esclamare Asako, ma
si trattenne. La cameriera doveva averlo ingannato. Ma
il ragazzo spiegò che era stata invitata all'inaugurazione
di un padiglione per il tè progettato dal padre. Era dunque
vero, pensò Asako, Momoko era partita prima di lei,
sebbene il padre le avesse promesso di accompagnarla a
Kyoto appena fosse guarita.
Ma per quale motivo Takemiya era venuto a trovarla
nonostante la bufera? Era anche imbarazzata perché si
era accorta di essersi annodata troppo lentamente l'obi sottile.
"Parto anch'io per Kyoto", annunciò il ragazzo. Forse
perché esposto al vento, il suo volto era colorito: rosa fino
alle orecchie, quasi fosse inverno e, sin da quando era entrato in
camera, Asako aveva notato le sue labbra particolarmente rosse.
Il cuore di Asako riprese a battere con più calma:
"Andrai a Kyoto per incontrare mia sorella?"
"Già. "
"E poi che cosa farai?"
"Non lo so neppure io. Al massimo la ucciderò. O mi ucciderò.
Non darò fastidio a nessuno."
Asako ebbe l'impressione di aver sfiorato la pelle fredda di
una lucertola.
"Sei venuto per dirmi questo?"
"No. Sono venuto a farle visita e a esprimerle la mia gratitudine."
La voce del ragazzo aveva assunto un tono vago.
"Quando siamo stati a casa sua e abbiamo parlato
con lei ne abbiamo ricevuto una così buona impressione
che ne siamo usciti più tranquilli."
"Davvero? Eppure ero furiosa perché vi eravate presentati
in quattro: mi era sembrata una grossa vigliaccata."
"Capisco." Il ragazzo abbassò lo sguardo. "Comunque
sono venuto anche a restituire la collana. La ridia a sua
sorella." Così dicendo Takemiya trasse dalla tasca la collana
d'oro, si avvicinò al letto e l'appoggiò sulla coperta.
"L'ho rubata. Sarei un vile a tenermela. Ho bruciato tutto ciò
che ho ricevuto da sua sorella. Voglio emularla in ciò."
"Non è una gara. Perché non smetti di inseguire mia sorella?
Non puoi aspettarla dieci anni? Se fra dieci anni
vorrai ancora ucciderla sarai libero di farlo."
"Non vivrò così a lungo."
Asako provò una sensazione di freddo. "Basteranno cinque anni;
anche soltanto tre."
"Che pensa di sua sorella?" le chiese improvvisamente
Takemiya. Asako non seppe rispondere prontamente. "Sono tornato
per restituire la collana. Addio, stia bene. Desideravo anche
incontrarla. Mi sarebbe dispiaciuto trovarla
ammalata gravemente. Non ho altro da dire. Si curi..."
Uscì di scatto. Si era lasciato crescere i capelli, ma fu
soprattutto il pallore del suo volto quasi verdognolo a
rimanere impresso nella mente di Asako.
Si sdraiò su un fianco, chiuse gli occhi e li premette
con le palme fresche delle mani. Il fragore del vento cessò.
Poi Asako riaprì gli occhi e vide nubi turbinose, dense, scure.
Telefonò al padre. Questi le disse che, trascorsi quattro
o cinque giorni, sarebbe andato a Kyoto.
"Con Momoko?"
"Sì, andremo insieme. Potresti venire anche tu, Asako,
ma sarà meglio essere prudenti. Non sarà meglio che
tu rimanga ancora un po' in clinica, piuttosto che tornartene
a casa e stare da sola?"
"Momoko è lì con te?"
"Appena il vento si è calmato è uscita. Che bufera terribile!
E lì com'è stato?"
Asako non riuscì a rivelare al padre che era venuto a trovarla
Takemiya e che ora era diretto anch'egli a Kyoto.
Mizuhara e Momoko partirono con il rapido Colombo.
Le vetture erano nuove, anche in seconda classe i pog-
giapiedi potevano essere regolati a tre altezze diverse e
le poltrone reclinate fino a quarantacinque gradi. C'era
anche un altoparlante che trasmetteva gli annunci del
personale ai passeggeri.
Mizuhara inclinò subito la poltrona a quarantacinque
gradi. Momoko pensò di imitarlo, ma ricordatasi che forse
era incinta di Takemiya, non lo fece. Non era ancora
una gravidanza visibile, ma Momoko preferiva comunque
non distendere il ventre.
Il dubbio di essere gravida le era sorto poco prima della partenza.
Adesso contemplava il panorama.
In un campo di crisantemi accanto ad alcune case di
contadini si estendeva una distesa di fiori rossi e davanti
a essa, gabbie di rete dorata erano gremite di galline bianche.
Anche i cachi cominciavano a colorirsi. Gli splendidi
tetti di tegole delle case allineate lungo l'antica strada di
Mikawa erano ancora scuri e lucenti per la pioggia del
giorno precedente. Sulla spiaggia del lago Hamana, i primi
colori autunnali si distinguevano come una cresta d'onda.
Il treno si fermò.
"Attendiamo il segnale di via libera dal semaforo", annunciò
l'altoparlante.
Quando il treno riprese la sua corsa, Momoko si alzò.
I gabinetti per gli uomini erano nelle vetture di testa,
quelli per le donne in quelle di coda. Momoko aveva represso
fino a quel momento quella necessità che intuiva esserle
imposta dalla gravidanza.

12. FOGLIE AUTUNNALI.


Momoko aveva visitato, accompagnata dal padre, il tempio
d'Argento, il tempio di Honen, quindi erano tornati
entrambi a Sanjo, dov'erano alloggiati.
"Non so più chi mi ha detto che camminando per Kyoto
si ha l'impressione di essere su un altipiano: ebbene,
è proprio così." Così dicendo Mizuhara si fermò e guardò
il cielo. Era una giornata serena, d'autunno.
Usciti dal tempio d'Argento avevano percorso una
strada che, salendo su una collina, li aveva portati al nero
portale del tempio di Honen. Non avevano potuto ammirare
gli iris dello stagno perché la loro stagione era trascorsa,
e non era ancora iniziata quella delle famose camelie,
ma in compenso vi erano aceri dal fogliame rosso,
una bianca distesa di sabbia e il rumore dell'acqua. Nel
giardino abbondavano le camelie, cui l'abate aveva dedicato
numerosi haiku.
Nel vicino tempio di Anraku, sul pendio di Juren, sorgeva
la pagoda di pietra sotto cui erano sepolte Matsumushi e
Suzumushi, ("Grillo dei Pini" e "Grillo Campanella", concubine dell'impera-
tore Go Toba vissuto nel 13esimo secolo, decisero di farsi monache,
abbandonando così la corte. L'imperatore si vendicò condannando a
morte i bonzi rei di averle convertite. (N.d.T.)
le amate ancelle dell'imperatore Go Toba. Momoko conosceva la storia.
Per causa loro i bonzi Anraku e Juren erano stati decapitati e Honen, il
loro maestro, era stato mandato in esilio nell'isola di Sado. Ma
ormai il tempio era abbandonato e invaso dalle erbacce.
A sud sorgeva il tempio della Contemplazione Spiri-
tuale. Seguendo un canale padre e figlia scesero al tempio
del Giovane Sovrano e quindi al Nanzenji. Non distante
da quel punto sorgeva la casa del signor Aoki. In prima-
vera aveva detto: "Penso che i fiori di ciliegio lungo il ca-
nale presso il tempio del Giovane Sovrano abbiano le tinte
più belle tra tutti i ciliegi di Kyoto".
Momoko e Asako, un giorno, erano state colpite dalla
bellezza delle foglie di un grosso acero di quel tempio, e
l'avevano ammirato a lungo. Negli spazi tra le foglie tra-
luceva l'azzurro del cielo limpidissimo.
Momoko avrebbe voluto rimanere ad ammirare a lungo le
foglie scarlatte di quell'acero, ma le gravava sul cuore
il pensiero del bambino che aveva nel ventre e, dopo
essersi separata dal padre che si fermava a far visita al
signor Aoki, era tornata in albergo.
Là trovò una nuova cameriera che le raccontò di essere
figlia di un ex capitano di vascello della marina imperiale.
"Una carica importante. E qual era il suo compito?"
chiese Momoko.
"Comandava un sottomarino. Finita la guerra, i vecchi
marinai come lui non servono più a nulla. Dice però che
gli piacerebbe essere richiamato per poter morire presto in mare."
"Già. Può darsi che ci sia un'altra guerra se bloccheranno le
coste della Corea e della Cina... Ma in Giappone...
I nostri sottomarini non erano stati tutti affondati?"
"Non saprei. Non ho più tempo di ascoltare queste storie."
La cameriera proseguì, raccontando a Momoko che il
marito le era morto in guerra, anche lui su una nave. Ora
era rimasta sola con due bambini, di cui la maggiore frequentava
la seconda elementare. Momoko la guardò stupita:
"è stupefacente come chi è bella sembri perciò anche
più giovane. Credevo lei fosse minore di me!"
"Figuriamoci! Lei sì che è bella, signorina!"
Nonostante le palpebre leggermente gonfie, la cameriera
incarnava la tipica bellezza di Kyoto dal volto ovale.
Era figlia unica, orfana di madre. Il marito era stato
adottato e aveva assunto il cognome della moglie. Era sola
a occuparsi dei bambini, non poteva certo chiedere a
un ex capitano della marina imperiale di farlo. Per di più,
lavorava in quell'albergo come cameriera a ore.
"Quando non si è fissa, bisogna anche affrontare la
spesa dell'abbigliamento. I kimono costano cari e devo
comprarli anche se non vorrei. E poi si guadagna meno
delle cameriere fisse... Torno con l'ultimo tram e riesco
a vedere i miei bambini soltanto al mattino, quando sono
più affannata. Prima di uscire devo sbrigarmi a preparare
i cestini per la colazione del mezzogiorno dei bambini e
la cena per tutti. La maggiore mi dice: 'I nostri piatti sono
sempre più vuoti'. E io le ripeto di avere pazienza,
che la colpa è del nonno che ha perso la guerra."
"Non deve essere facile", le disse Momoko, "mantenere una
famiglia di quattro persone con lo stipendio di cameriera. "
"Spesso penso che se fossi sola con un figlio potrei cavarmela. Però
completamente sola non vorrei stare. Non varrebbe la pena di lottare."
"Davvero..." Ma Momoko si interruppe. E si domandò che ne sarebbe
stato di lei se avesse avuto un figlio da Keita, anche lui morto
in guerra. Comunque, forse l'anno seguente anche lei avrebbe
lavorato per mantenere un bambino suo, figlio non di Keita,
ma di Takemiya.
La cameriera raccontava di aver iniziato il lavoro in
giugno ma di averlo dovuto sospendere subito dopo e per
tutta l'estate perché durante la stagione delle piogge si
era ammalata di infiltrazioni polmonari. Aveva ripreso a
lavorare da poco, per comprare gli indumenti invernali ai figli.
"Quando esagero con il lavoro, sento una sensazione
di peso qui" e si accostò una mano alla schiena.
"Anche mia sorella che la primavera scorsa è stata
ospite con noi di questo stesso albergo soffre di disturbi
alla pleura. Adesso è in clinica... Nel suo caso però la colpa
è del tennis."
"Certo, la sua è una posizione sociale ben diversa..."
Anche Asako aveva un temperamento appassionato: si era
ammalata perché aveva dedicato troppo ardore allo
sport per compiacere Natsuji.
"'Posizione sociale ben diversa': che espressione antiquata!"
Momoko rise, ma aveva l'amara sensazione di ridere di se stessa.
Chissà quale sorte l'attendeva in un mondo così materiale,
in cui un comandante di vascello senza neppure una pensione
era obbligato a farsi mantenere dalla figlia insieme ai due nipoti.
"Oggi, in Giappone, nessuno gode di una posizione sociale sicura.
Forse, l'unica a essere sicura è proprio lei che riesce da sola
a sobbarcarsi il peso di tre persone" disse Momoko.
"Sarà... Di fatto né il mio lavoro, né la mia salute sono
sicuri. L'unica cosa sicura è che siamo quattro bocche da sfamare. "
La cameriera pensava di intraprendere una qualche attività
vendendo una casa che era però occupata da tre famiglie che
non volevano saperne di trasferirsi altrove.
Storie simili non erano affatto straordinarie, anzi, a quei
tempi erano diventate del tutto comuni.
Tuttavia Momoko stentava a identificare nella donna
che aveva di fronte, dalla bella bocca e dalle guance
attraenti, l'immagine banale di una vedova.
"Si sposi", le consigliò con leggerezza.
"Figuriamoci! Con tutte le ragazze giovani che non
trovano marito e si accontenterebbero di un uomo di
mezza età, chi vuole che sposi una come me che ha pure
tre gobbe! E poi, qui in albergo ho visto troppe cose che
gli uomini nascondono. Non mi fido più."
"Allora si trovi un innamorato. Ormai nessuno loda
chi si ammazza di lavoro."
"D'accordo. Me lo presenti lei, signorina!" Ormai anche
la figlia di un ex capitano della marina imperiale poteva
permettersi certe battute di spirito.
Momoko, tuttavia, si stupì di se stessa, del fatto che
avesse osato consigliare alla vedova di un ufficiale di diventare
una mantenuta. E ancora più stupefacente fu che,
mentre le parlava, immaginava già chi avrebbe potuto essere
l'uomo adatto: il padre di Keita. Viveva solo e una solu-
zione del genere non avrebbe danneggiato nessuno. Forse
così anche la cameriera avrebbe potuto curarsi i polmoni.
Che strana fantasticheria! Come mai, poi, la compassione
verso la cameriera le aveva ricordato l'esistenza del
signor Aoki? Entrambi non erano persone squallide: l'unica
persona squallida era lei che li immaginava insieme.
"Però è necessario che lei abbia cura di ciò che ritiene
più importante, per quanto difficile sia. Verrà un giorno
in cui lei potrà dirsi soddisfatta", disse gentilmente Momoko.
"Anche se ignoro cosa sia veramente importante per lei... "
"Mah, chi può dirlo... Nessuno mi ha mai parlato così,
come sta facendo lei, signorina. è stato subito un piacere
riordinare la sua camera. Pensavo fosse perché lei è così
bella, ma... " La cameriera piegò la sciarpa di Momoko,
ripose il suo soprabito e portò via l'o-shibori.
(Tovagliolo inumidito con cui è uso nettarsi le mani. (N.d.T.)
Momoko rimase assorta nei suoi pensieri con una tazza di tè caldo
fra le mani.
"Sorella maggiore! "
Takemiya era entrato senza chiedere permesso e ora
era immobile, davanti ai fusuma aperti. Aveva i capelli lunghi.
"Piccolo Miya... " Momoko lo salutò con calma. "Vieni qui e siediti."
Il ragazzo si inginocchiò contegnosamente di fronte al
tavolino. Le sue tempie erano pallide e smagrite. Disse
soltanto:
"Eccomi qui, sorella maggiore".
"Benvenuto." Momoko lo guardava con un lieve imbarazzo.
"Sei stato a trovare mia sorella in clinica, vero piccolo Miya?"
"Sì."
"Perché?"
"Per restituire la tua collana."
"L'ho ricevuta. Ma perché non restituirla a me? Mia sorella non c'entra."
"Già. Ma volevo anche dire addio alla signorina Asako."
"Addio? Cosa significa 'addio'?"
"Significa dire addio a questo mondo", rispose senza esitare il ragazzo.
"Ah, vuoi morire?"
"Sì."
"E siccome su di me questi discorsi non fanno nessun effetto,
sei andato a raccontarli a mia sorella."
"Non esattamente."
"Non è strano dire addio a lei prima che a me? Forse perché lei
ha sempre compassione di tutti?"
"Non so che farmene della sua compassione. Volevo soltanto ringraziarla."
"Ringraziarla di che?"
"Sono felice di pensare che lei vivrà dopo la mia morte. Perciò
sono andato a vedere se stava rimettendosi."
"Ah, davvero." Momoko era turbata. "E così, felice di
sapere che lei vivrà, sei venuto a uccidermi, vero piccolo Miya?"
"Sì", annuì il ragazzo e i suoi occhi limpidi sfavillarono.
"Non ho più voglia di riflettere. Sarà una cosa da nulla."
"Sì, forse sarà una cosa da nulla. Potrei anche permetterti di
uccidermi, ma so che non ne saresti capace. Perché io sono una
donna che ha già pensato tante volte di suicidarsi."
"Mi stai prendendo in giro?"
"Piccolo Miya, c'è una cosa che vorrei dirti. Tu hai avuto una
relazione omosessuale, vero? Lo intuisco benissimo. Perché vuoi uccidere
me, allora, invece di quel ragazzo?"
Takemiya non rispose.
"Vivi da uomo", continuò Momoko. "Queste sono le mie parole d'addio.
Con un ragazzo non potrai mai diventare padre."
Ma Takemiya sembrava non aver udito.
"Se morissi, piccolo Miya, la tua vita sarebbe rovinata. "
"Ma io non voglio che tu mi lasci."
"Davvero? E allora perché vuoi uccidermi? Vuoi strangolarmi,
immagino... Mi hai già stretto il collo molte volte."
"Non ci riuscirò? Lo so." Takemiya si alzò e, vacillando, si
portò dietro di lei, circondandole il collo con un
braccio. Momoko non si oppose.
"Sorella maggiore, dimmi quando ti farò male. Allenterò la presa."
Le sue mani tremavano.
"Che tipo strano sei. Lasciami guardare per un attimo il tuo viso."
Momoko si domandò se il bambino avrebbe preso dal padre.
Il ragazzo protese il volto oltre la spalla destra di Momoko.
Sul tavolino caddero copiose lacrime.
Momoko chiuse gli occhi, ma appena si accorse che il braccio di Takemiya
premeva sulla sua gola con troppa forza gridò con voce rauca:
"Basta, piccolo Miya! Basta! Nel mio ventre c'è tuo figlio! Tuo figlio!"
Com'era prevedibile, Takemiya allentò la presa. Momoko si sorprese
a vergognarsi delle sue parole e a provare un senso di tenerezza per
quel ragazzino.
"Un bambino?" Takemiya appoggiò il suo viso sulla
schiena di Momoko. "Bugiarda. Sei una bugiarda. Sono
ancora un bambino."
"No, piccolo Miya. Tu non sei più un bambino." Momoko sentiva
il calore del viso di Takemiya penetrarle nel corpo attraverso
la schiena. Il ritmo del suo cuore aumentò.
"Mia madre è morta dopo avermi dato alla luce. Tu vuoi uccidermi
prima ancora che abbia il bambino?"
Momoko si sentiva traboccare di tenerezza.
"Sorella maggiore, dimmi che è una bugia", ripeté Takemiya.
"Non è una bugia. Perché dovrei mentirti?"
"Ah!" Il ragazzo allontanò il volto e le mani dalla
schiena di Momoko. "Non è mio, vero? Sì, non è mio figlio!"
"Piccolo Miya!" Momoko aveva l'impressione di aver ricevuto
un getto d'acqua gelida addosso.
"Vero che non è mio figlio? Sono solo un bambino!"
Momoko si sentiva il cuore gelato. Tremò. "Hai ragione.
è figlio mio. Non è tuo."
"No." Takemiya si alzò, fece qualche passo e guardò
Momoko dall'alto. "Sei una bugiarda. Non mi lascio ingannare."
Poi si premette le mani sul volto e uscì dalla camera gemendo.
Momoko non si mosse. Ricordò quando Keita l'aveva
abbracciata per poi respingerla e lei era sprofondata in un
baratro indescrivibile di odio e di tristezza.
Takemiya era di nuovo fuggito. Per gelosia o per vigliaccheria?
Nelle orecchie di Momoko risuonava soltanto quella frase disperata:
"Sono solo un bambino!"
2.
Mizuhara e Momoko erano gli unici ospiti del nuovo padiglione
per il tè del signor Aoki. Mizuhara, che aveva
già visitato il padiglione dopo essersi recato con Momoko
al tempio d'Argento e al tempio di Honen, non parlò del
modo in cui era stato eseguito il suo progetto, ma volgendosi
verso Momoko disse:
"Tuttavia, come autore di questo progetto, non approvo che
si entri qui dentro abbigliati all'occidentale. Ma
immagino che anche Asako, quando verrà in questo luogo,
sarà abbigliata all'occidentale".
"Con un ospite come me, che vi offre una cerimonia
del tè così approssimativa... " rise Aoki. "Un antiquario
mi ha raccontato questa storia. C'era un uomo che stravedeva
per la cerimonia del tè e non vedeva l'ora di compierla
davanti agli ospiti. Si esercitava così leggendo un
libro di istruzioni. Il maestro gli suggeriva tutti i movimenti
restando nel mizuya. Ma egli era un uomo talmente robusto
e nerboruto che, afferrando con impeto il coperchio
del fornello, frantumò con il pugno un prezioso
appoggiacoperchio di Kiseto o di Oribe, questo non lo ricordo bene."
"Che forza prodigiosa! Davvero inusitata", commentò Mizuhara.
"Già. Era uno di Tokyo. La sua fama si è subito propagata
per tutta Kyoto."
"è stato bravo a frantumare un poggiacoperchio."
"Anche a sferrargli un colpo di proposito, noi non ci
riusciremmo." Aoki calò rumorosamente la mano due o
tre volte sul poggiacoperchio. "Quanto all'abito occidentale,
il Maestro dell'Ura Senke
(Una delle tre grandi scuole depositarie del corretto cerimoniale
dell'arte del tè che si richiamano direttamente agli insegnamenti di
Sen Rikyu. (N.d.T.)
mi ha confidato che gli uomini che partecipano alle sue cerimonie
del tè sono ormai quasi tutti in abiti occidentali. Certo, prima della
guerra era ritenuto disdicevole e poco consono all'etichetta varcare
la soglia del Maestro in abiti occidentali.
C'era di che sentirsi a disagio."
"Adesso pare che tra i giovani balordi della Ginza
(A est del palazzo reale, il quartiere Ginza è la più prestigiosa
zona commerciale di Tokyo. (N.d.T.)
sia di moda apprendere l'arte del tè. Da un antiquario della
Ginza ho visto uno di quei ragazzi osservare una tazza di
shino (Particolare tipo di ceramica, spessa e bianca. (N.d.T.)
e chiederne il prezzo di fabbrica!"
"Non siamo molto differenti. Ma adesso che ho perso
un figlio in guerra, mi si è bruciata la casa, mi sono rinta-
nato qui a Kyoto e ho voluto che mi costruissero questo
padiglione per il tè (di cui non mi sento all'altezza), ecco
che scoppia la guerra di Corea!"
"Ma anche Rikyu, che apparteneva all'epoca Momoyama,
è vissuto in tempi di guerra. Su quest'argomento c'è
anche una poesia di Isamu Yoshii."
"All'epoca di Rikyu non esistevano le bombe atomiche.
Forse prima del padiglione del tè, avrei dovuto pensare
a chiederle di progettarmi un rifugio antiaereo."
"Ho esaminato da architetto i danni subiti da Hiroshima
e Nagasaki. Camminando per le vie di Kyoto, vengono i
brividi al pensiero di cosa succederebbe con tutti
quei vicoli ciechi se vi fosse sganciata una bomba atomica. "
"Lo immagino. Non ci rimane dunque che starcene
tranquilli ad attendere che succeda l'irreparabile, gustando
formaggio di soia bollito con verdure" replicò Aoki
preparando il tè. "Qui vicino, al Nanzenji, c'è appunto
un ristorante la cui specialità è proprio il formaggio di
soia con le verdure. Ci vado spesso. Mi seggo sul far della
sera su una panca accanto al laghetto circondato di loti
appassiti e, mentre gusto il brodo, cadono le foglie d'acero.
Mi sembra impossibile abitare accanto a un luogo simile.
Mi è anche venuta la mania delle bevute solitarie.
Anche quando mi trovo in una 'casa da tè' mi capita di
versarmi il sake da solo, con mia grande vergogna."
Sul pavimento era abbandonato un rotolo del Sutra del
Karma passato e presente, che consisteva di diciotto righe.
Aoki l'aveva acquistato a Kyoto, e Mizuhara l'aveva
pregato di mostrarglielo.
"è stato suo padre a ordinarlo", disse Aoki rivolgendosi
a Momoko. "Questo sutra, dipinto all'epoca dell'era
Tenpyo, stona con l'arredamento della mia casa, ma è
stato suo padre a volerlo. Naturalmente una persona raffinata
come lui, abituata alla cerimonia del tè, avrà pensato che
sarebbe stato interessante e piacevole creare un contrasto. "
"è una rara felicità vedere un sutra dipinto nell'era
Tenpyo su un pavimento da me progettato."
"Sono stato incerto se esibirlo in una giornata come
questa. Lo considero un pensiero in suffragio di Keita,
dal momento che è qui presente anche lei, signorina Momoko."
Momoko provava un senso di oppressione mentre contemplava i
piccoli Buddha colorati, simili a ingenue, graziose bamboline.
Aoki agitava lo chasen
(Sorta di frustino o pennello di bambù con cui si mescola, diret-
tamente nella tazza, il tè verde finemente polverizzato. (N.d.T.)
per offrire il tè a Momoko.
"Dopo la sua morte ho letto il suo diario e ho capito
che non l'avevo compreso. Non ero conscio del valore di
mio figlio. Dev'essere morto con la tristezza e il rimpianto
di non essere stato compreso. Chissà se è normale che
sia così tra padri e figli."
"Può darsi", rispose Mizuhara e, senza guardare Momoko,
aggiunse: "Succede spesso anche a me con le mie figlie".
"Ma loro sono entrambe vive. Il discorso è del tutto diverso."
"Chissà..."
"Non so se parlarne di fronte alla signorina Momoko,
ma lei, Mizuhara, approvava l'amore di Keita per sua figlia?"
Aoki depose la tazza di fronte a Momoko, offrendogliela e
continuando a tenere il capo chino. "Prego", disse.
"Grazie", Momoko avanzò in ginocchio.
Mizuhara balbettò: "Non che l'ignorassi, ma desideravo che Momoko
fosse libera di fare le sue scelte... "
"Allora equivaleva, in un certo senso, a un'approvazione. La ringrazio."
"Prego."
"Io, da parte mia, non sapevo quasi nulla. Ecco un altro aspetto
di Keita che ignoravo... In fondo è come se avessi riconosciuto
l'esistenza del loro rapporto solo dopo la sua morte... Sono
stato molto egoista e mi sono comportato male anche nei
confronti della signorina Momoko. E come se, per onorare lo
spirito del defunto, per poter confessare le mie colpe di padre
io pretendessi che fosse lei a rimanere in contatto con il morto.
Quando, la primavera scorsa, incontrai la signorina al Saami, le dissi
che la ringraziavo e mi scusavo. Lei mi rispose che non aveva
dimenticato. Quelle sue parole mi sono rimaste impresse nell'animo."
"Allora riconoscerò anch'io che Momoko amava il suo Keita",
dichiarò Mizuhara.
"La ringrazio. Ma ormai Keita è morto... " Aoki pulì la
tazza, stringendola tra le sue mani tonde e carnose.
Cenarono nel salone della casa. Da lì si godeva una vista
migliore sugli aceri del giardino. La cena, preparata
dal famoso ristorante Tsujitome, era formata da piatti tipici
della cucina kaiseki. Ma Momoko, con l'animo turbato, non riuscì
a distinguerne i sapori.
Terminata la cena, Mizuhara infilò gli zoccoli da giardino e
tornò al padiglione per il tè. Si sentì una voce esclamare:
"Sono fiorite le camelie sassanqua delle siepi!"
Aoki chiese con noncuranza a Momoko: "Signorina, rimanga
ancora un po' a Kyoto".
"La ringrazio, sì."
"Ogni tanto Natsuji viene a trovarvi a casa. Vi ringrazio
della vostra gentilezza."
"Si figuri. Non vorrei ci fosse qualcos'altro da approvare..."
"Capisco." Lo sguardo di Aoki brillò con una vividezza insolita
alla sua età, quindi si offuscò nuovamente.
"Signorina Momoko", disse ancora, "ha qualcosa che la preoccupa?"
Momoko arrossì, sentendosi scoperta.
"Ho sufficiente esperienza delle vicende umane. Posso
aiutarla. Di qualsiasi cosa si tratti, si confidi con me.
Ormai non mi meraviglio più di nulla. Può sembrare un'affermazione
pretenziosa. In realtà è come se mi fossi già suicidato."
Momoko incrociò nel grembo le mani che fino allora
aveva tenuto appoggiate sulle ginocchia.

13. RIVA DI FIUME.


1.
"Inezie ci consolano perché inezie ci affliggono."
Momoko ripeteva continuamente questa frase. Cercava di
imprimersi nella mente che si trattava solo di inezie.
Non era forse un'inezia anche la morte di Takemiya?
E non era un'inezia non aver dato alla luce il suo bambino?
D'altronde anche il fatto che lei fosse ancora in vita,
non era semplicemente la conseguenza di uno scambio di
zucchero per cianuro? Non era anche quella un'inezia?
Quando ci si avvicina alla morte, al termine di una lunga
malattia, si ha come l'impressione di venire severa-
mente rimproverati; ci si accorge che ciò che pareva
importante fino ad allora, in realtà non lo era affatto, e
anzi, era privo di senso.
Momoko aveva anche sentito dire che le grandi malattie
non riguardano il solo corpo, ma anche l'anima. E l'anima
di Momoko si ammalava spesso, e gravemente. Era
malata anche in quel momento. Il male aveva avuto inizio
con la morte di sua madre e si era aggravato con la
morte di Keita, senza lasciarle mai tregua. L'avrebbe
accompagnata per sempre.
Si possono interpretare a proprio arbitrio non soltanto
le parole umane ma anche quelle divine. E in qualsiasi
frangente è possibile trovare infinite parole per scusarsi,
per giustificarsi. Ma è nelle vivide esperienze che le parole
assumono una vivida realtà.
Keita, dopo aver giaciuto con lei la prima volta, l'aveva respinta:
"Non vali niente, tu".
Takemiya aveva rifiutato la sua paternità ed era fuggito:
"Non è mio figlio. Sono solo un bambino".
Solo Momoko poteva comprendere l'atrocità di quelle parole.
Ma entrambi erano morti. Quasi fossero stati puniti
dalle loro parole stesse. Keita era morto in guerra, Takemiya
si era suicidato. Tre morti, se si aggiungeva quella
nel grembo di Momoko.
"Ma la morte in battaglia non è colpa mia, e neppure
sono responsabile del suicidio del piccolo Miya" mormorava Momoko.
"Quando Keita è morto, avevo deciso di suicidarmi... non ho
colpa se ho leccato solo dello zucchero. E avrei
permesso a Takemiya di uccidermi prima che si suicidasse.
Non è colpa mia se ha allentato la stretta del suo braccio."
Comunque, chiunque ne avesse la responsabilità, tre
vite si erano spente, mentre Momoko viveva ancora.
"Tu non devi morire... " recitò più volte rivolta a se
stessa, quasi cantando, attenta a percepire il ritmo dei
versi che Shungetsu Ikuta lasciò scritti all'amata prima
di gettarsi, disperato per amore, nelle acque del Setonaikai:
Tu non devi morire:
sei l'amata sposa della vita.
Dopo la morte di Takemiya, Momoko aveva l'impressione che egli
le avesse rivolto le stesse parole. "Sono felice che lei viva
dopo la mia morte." Queste parole, indirizzate ad Asako, le
erano tornate alla mente spesso dopo la morte del ragazzo.
E le rievocavano il suicidio della madre, avvenuto molti anni prima.
Nel gelido universo in cui era vissuta, caratterizzato
dal suicidio materno, Momoko non provava né colpa né
rimorsi per la morte di Keita e per il suicidio di Takemiya,
mentre divampava di risentimento verso il padre.
Eppure entrambi i giovani erano periti di morte violenta
e senza perdonare completamente il suo corpo di donna.
Momoko, divenuta adulta in un periodo diverso, si
domandava se Asako, pur avendo forse letto libri come
Il matrimonio perfetto e L'amante di Lady Chatterley, potesse capirla.
Aveva appreso la notizia del suicidio di Takemiya da
una lettera di Asako. Era un semplice messaggio, che tuttavia
doveva essere costato a chi l'aveva scritto un'estrema,
sollecita attenzione.
Takemiya era morto sulla montagna di Hakone. Aveva
scelto un luogo che gli ricordasse Momoko. All'inizio della
primavera erano stati insieme sul lago dei Giunchi, e
al principio dell'estate a Gora. La lettera di Asako non
specificava in quale delle due località si fosse ucciso.
Non aveva lasciato né lettere né diario. Può darsi che
avesse scritto e stracciato tutto. O forse non aveva scritto
nulla, come non aveva inviato neppure un biglietto
d'addio a Momoko. Quanto ai diari, Takemiya non era
certo tipo da tenerne. Momoko stessa non gli aveva mai
spedito una sola cartolina.
Forse la loro relazione era stata altrettanto strana. Come
era consono al carattere del ragazzo non lasciare testimo-
nianze di sé. Poteva sembrare triste e inutile, invece contri-
buiva a purificare l'atmosfera che si era creata dopo la sua
morte, conferendole un aspetto generoso, forte e saldo.
Momoko non ignorava che le parole scritte da chi si
appresta a morire sono spesso false, pretenziose, tendenti
a ricreare una realtà immaginaria, più consapevole. Tutti
gli animali e i vegetali terminano la loro esistenza senza
una parola. Come le rocce e l'acqua. Neppure Momoko aveva scritto
prima di tentare il suicidio. E aveva bruciato i vecchi diari.
"Piccolo Miya, non hai detto nulla!" si disse piangendo
Momoko e congiunse ìe mani in atto di riverenza per il
silenzio del ragazzo. "I tuoi ne saranno ancora più addo-
lorati, ma per me è meglio così. Grazie, piccolo Miya."
Nel messaggio di Asako le si raccomandava di non tornare
per qualche tempo a Tokyo.
"Che saggia signorina. Grazie per il consiglio. Tu non
ucciderai mai nessuno", sibilò Momoko.
Asako la informava anche di aver visitato la tomba di Takemiya.
"Per che cosa? Ah, al posto di sua sorella... per chiedere
scusa dei suoi peccati... "
Le scriveva che era sepolto in un'antica tomba di famiglia,
poco adatta a un fanciullo leggiadro come lui. Ma
egli era nel corpo di Momoko. Le sfiorava la pelle. Le sue
braccia le stringevano il collo. Non era nella tomba. Non
era in nessun luogo.
D'un tratto Momoko rabbrividì di paura. E se si fosse
suicidato nello stesso attimo in cui il feto le moriva nel
grembo? Asako non le aveva scritto né il giorno, né l'ora
in cui si era ucciso. Ma ormai quell'idea le era balenata.
"Dev'essere senza dubbio morto in quell'istante." Nell'istante
in cui Momoko aveva sanguinato. E una vita si era spenta.
Che misteriosa coincidenza aveva legato i destini di un
padre e di un figlio - o forse era una figlia - che, pur se
lontani, a Hakone l'uno e l'altro a Kyoto, erano stati
chiamati dalla morte nel medesimo istante.
Se esisteva veramente una strada dell'oltretomba, quel
giovanissimo padre, simile a una fanciulla, vi stava forse
vagando con in braccio un figlio ancora informe e insan-
guinato cui sussurrava: "Sono solo un bambino".
In effetti Momoko non aveva preso precauzioni, confi-
dando nell'aspetto quasi infantile di Takemiya. Non si
sognava neppure di volere un figlio da lui. Quel ragazzo
era quanto di più lontano si potesse immaginare dalla figura
di un padre.
Poi, le parve di essere percossa da una sacra frusta,
affinché comprendesse la forza vitale della natura, ovvero
la provvidenza divina che rendeva padre persino un ragazzino simile.
Avrebbe avuto intenzione di lasciare nascere il bambino
senza contare su un padre come Takemiya. Come un
figlio suo. Ed era stata pronta ad abbandonare la casa paterna.
Si era chiesta quanto fosse opportuno rivelare la
gravidanza a Takemiya, ma non avrebbe comunque potuto
continuare a nasconderla. Ironia della sorte, si era accorta
di essere incinta soltanto dopo aver deciso di dire addio al ragazzo.
Quando, con il collo dolente, stretto nella morsa del
braccio di Takemiya, aveva confessato, si era sentita
invasa da un senso di tenerezza per il ragazzo. Aveva
immaginato che si sarebbe stupito, che avrebbe avuto diffi-
coltà a convincerlo. Ma Takemiya non aveva minimamente
dubitato di sé:
"Non è mio figlio! Non mi inganni!"
Ovvio che non le credesse. E Momoko non aveva prove né
giustificazioni. Aveva frequentato altri ragazzini
prima di lui. Forse la giudicava come Nishida, una strega.
Ed era altrettanto naturale che dubitasse del ragazzo
precedente, che era maggiore di lui.
Momoko, che aveva sempre guardato il ragazzo dall'alto
in basso, una volta rimasta incinta, aveva visto capovolgersi
la sua posizione. Era ormai il ragazzo a guardarla dall'alto.
Era divenuta d'un tratto conscia della sua debolezza di
donna. E ciò le era intollerabile. Equivaleva all'impressione
ricevuta quando Keita l'aveva respinta, subito dopo
averla posseduta per la prima volta. Forse il suo destino era
quello di essere sempre atrocemente umiliata dagli uomini.
La fuga di Takemiya era il solito, tipico, odioso ed
egoistico comportamento del maschio. Ma allora, il non
mettere al mondo figli era forse il sistema di autodifesa
femminile, una vendetta contro l'uomo?
Momoko aveva ricevuto la lettera di Asako in ospedale.
Ma Takemiya non era fuggito senza lasciare tracce.
Era morto suicida. E le aveva lasciato un enigma.
Forse si era suicidato per sfuggire al tormento del dubbio
che il figlio non fosse suo, alla gelosia. Forse aveva
dichiarato che non era suo per un tipico, contorto pudore,
ma in realtà non dubitava di lei. Forse aveva cancellato
la sua vita perché sconvolto e impaurito dalla sua paternità.
Era tipo da eclissarsi da questo mondo esclamando:
"Il bambino è solo tuo! Io sono una visione, un fantasma!"
Momoko stessa non aveva l'impressione che la sua
creatura avesse avuto un padre. Le pareva di averla con-
cepita per miracolo, come la Vergine Maria.
Diventare madre per lei era un evento inatteso, un prodigio.
Proprio per questo sentimento di sacrale maternità che
germinava in lei fra lo stupore e l'imbarazzo dell'imprevista
gravidanza, le parole del ragazzo l'avevano colpita
con singolare violenza.
Inoltre era entrata in clinica grazie al signor Aoki, il
padre di Keita.
"Signorina Momoko, lei non sta bene. Sembra terribilmente stanca.
Mi sentirò responsabile se si ammalerà a Kyoto. Un mio vecchio
amico è un illustre medico: perché non ne approfitta per farsi visitare?"
Aoki aveva parlato con noncuranza, ma il padre gli aveva fatto
subito eco: "è una buona idea. Bisogna essere prudenti.
Persino Asako, che ha sempre goduto di ottima salute, si è
ammalata di pleurite..."
Aoki era andato a farle visita in albergo in compagnia
del medico e si era fatto promettere che il giorno seguente
sarebbe entrata in clinica. Momoko non era riuscita a
opporsi. Il medico, poi, le aveva raccomandato di rimanere
in clinica tre o quattro giorni, a curarsi un po' di
esaurimento nervoso e a sottoporre polmoni e reni ad
analisi accurate. Non accennò alla gravidanza, ma, con la
saggezza dell'esperienza, le fece intendere con discrezione
che la gravidanza è un pericolo per il corpo di una donna.
Momoko capiva che tutto era stato concertato da Aoki
e da suo padre, ma non si ribellò. Aveva subito intuito che
l'esame a reni e polmoni era soltanto un pretesto.
Né Aoki né il padre, comunque, allusero a un'operazione.
Erano uomini usi alle vicissitudini del mondo e finsero
di non sapere, con sollievo di Momoko.
Il giorno precedente e successivo non le telefonarono neppure.
La faccenda fu sistemata in gran segreto.
Momoko si era accorta di essere ancora una bambina,
di non poter competere con gli adulti. Di solito si ribellava
con violenza alle loro strategie, ma ormai era estenuata.
Dopo l'aborto si sentì ancora più vuota. L'unica diagnosi
esatta, in fondo, pareva essere quella dell'esaurimento nervoso.
Trapunta, materassino e kimono che usava in clinica
provenivano dalla casa di Aoki:
"è molto tempo che nessuno se ne serve. Appartenevano a mia moglie.
Ho chiesto di cercarle le cose più vivaci, ma sono sempre troppo
sobrie per lei. La prego di scusarmi: un tempo, d'altronde, si
usava così. Noto però che i motivi classici acquistano una particolare
bellezza su una ragazza moderna come lei". Aoki la ammirava.
Momoko non capiva perché Aoki si occupasse con tale
sollecitudine della ragazza del figlio morto in guerra, incinta
per di più di uno studente che era poco più che un bambino.
Capiva però che, nonostante avesse tentato di mantenere il segreto,
suo padre e Aoki sapevano e complottavano a sua insaputa.
Si vergognava di fronte ad Aoki.
La gravidanza le aveva donato un tenero pudore femminile, che
perdurava ancora, anche dopo l'aborto.
2.
Mizuhara aveva rimandato il suo rientro a Tokyo forse
più per il suicidio di Takemiya che per il soggiorno in clinica di Momoko.
La ragazza, dopo la morte di Takemiya, incominciava
a pentirsi di aver lasciato sopprimere il figlio. Era angustiata
da una tristezza indefinibile, irrimediabile, perseguitata
dal mistico terrore e dal dubbio bizzarro che la
morte della creatura nel suo grembo avesse provocato la
fine del giovanissimo padre.
Quel ragazzo che le ripeteva ossessivamente "Sorella
maggiore, non abbandonarmi" era ormai invulnerabile:
nessuno avrebbe potuto più abbandonarlo. Che Takemiya
si fosse ucciso perché l'amava, o perché l'odiava,
che Momoko fosse sembrata prendersi gioco di lui solo
per divertirsi, tutto questo non importava più: ormai
soltanto a chi era sopravvissuto toccava sostenere ogni
responsabilità. Takemiya era come Keita. O come la madre
di Momoko. I morti non avevano più ferite: le ferite
dell'anima erano un retaggio dei vivi.
Momoko avrebbe dovuto rimanere in ospedale tre o
quattro giorni, ma un suo rapido indebolimento aveva
sorpreso il medico. La prima diagnosi di esaurimento pareva
rivelarsi esatta. Pareva che la strenua tensione che
l'aveva sempre sostenuta si fosse dissolta.
Il padre le telefonò in clinica annunciandole che entro
due giorni sarebbe tornato a Tokyo e che desiderava farle visita.
"Non venire. Ti prego, non venire... " ripeté Momoko.
"Non posso partire senza vederti... Pronto! Mi senti?
Sono preoccupato. "
"Non hai motivo di preoccuparti. Io ora non desidero
incontrarti. Voglio essere lasciata tranquilla. Mi capisci,
vero? Scusami, papà."
"Sì, va bene. Tanto tornerò per riaccompagnarti a casa... Se
sarò impegnato con il lavoro ti manderò Asako."
"Asako? Pronto! No, non voglio Asako. Posso tornare
a casa da sola."
"Certo che puoi. Va bene, va bene. Non desidero tormentarti oltre."
"Se devo tormentarmi, mi tormenterò da sola..."
"Come? Pronto! Impossibile parlare al telefono... è meglio
che ti raggiunga."
"Non venire, bada. Sono figlia di mia madre..."
Il padre taceva. Doveva essere sbigottito.
"Pronto! Adesso non desidero incontrarti", continuò
Momoko, "perché finirei col dirti cose odiose, che non
penso, e mi detesterei sempre di più."
Il padre si persuase.
Il giorno dopo il ritorno a Tokyo di Mizuhara, venne
a farle visita Aoki. Le labbra di Momoko, che non aveva
avuto il tempo di mettersi il rossetto, erano pallide. Le
guance apparivano smagrite. Ma Aoki sorrideva, come se
non si accorgesse di nulla.
"Come sta? è arrivata una lettera della signorina Asako,
così ho colto l'occasione per venire a vederla", e le
tese una busta con le sue mani grassocce.
"Grazie. "
"Ieri suo padre è tornato a Tokyo. L'ho accompagnato
alla stazione e al momento di salutarci mi ha detto: 'Le
raccomando Momoko'. E io gli ho risposto: 'Oh, no! Sono io
che dovrei raccomandarmi alla signorina Momoko
e chiederle scusa!'"
"Ah, davvero?" commentò distrattamente la ragazza.
"Oggi il medico mi ha detto che lei potrà uscire da qui
quando vorrà."
"Sì?" Momoko fissò il volto di Aoki, poi riabbassò lo
sguardo. "Lo supponevo. "
"Benissimo", annuì Aoki, "Uscita da qui sarà ospite a
casa mia finché suo padre non verrà a riprenderla."
"Grazie." Ma Momoko non riusciva a capire se gli
adulti la stavano proteggendo o se cercavano soltanto di
salvare le apparenze. Fino ad allora era vissuta come aveva
voluto: ora, nel fondo del suo animo, si celava il furore
per essere stata plagiata dagli adulti.
"Fra un po' inizierà il famoso gelo di Kyoto. Ma questa
città è bella anche al termine dell'autunno e all'inizio
dell'inverno. C'è persino chi, a Kyoto, preferisce l'inverno",
disse Aoki e aggiunse con tono confidenziale: "Rimanga ad
ammirare la neve".
Momoko volse lo sguardo alla finestra.
"Uscita da qui mi piacerebbe visitare le colline Arashiyama.
Sono giorni che contemplo il tramonto sulle colline Arashiyama."
"Davvero? Adesso è proprio l'ora del tramonto", commentò Aoki.
"Vuole che da Arashiyama si prosegua verso Saga? Quando si pensa
ad Arashiyama viene subito in mente la confusione volgare della
gente nella stagione dei fiori di ciliegio e delle foglie rosse
degli aceri. Invece d'inverno è solitaria e bellissima. Quest'anno,
a maggio, sono salito al parco di Kameyama e ho percorso da solo
un sentiero che scendeva dalla cima dell'Ogura fino alla parte
settentrionale della pianura di Saga. Ma forse per lei è ancora presto."
Momoko si riassettò la scollatura del kimono imbottito.
Sia esso, sia lo haori (Corto soprabito che si indossa sul kimono)(N.d.T.)
erano appartenuti alla moglie di Aoki, al tempo in cui era giovane.
Così come la trapunta. Il pensiero che quella donna fosse stata anche la
madre di Keita le impediva di alzare lo sguardo.
"Adesso vado. Posso esserle utile in qualche cosa?"
Aoki si alzò dalla sedia. Ma Momoko, d'un tratto, lo chiamò:
"Signor Aoki, ha saputo da mio padre che a Kyoto vive una nostra sorella?"
"Sì." Aoki si voltò: "Ho incontrato la sorella maggiore di quella ragazza".
"è una geisha, vero?"
"Sì."
"Ho l'impressione che la lettera di Asako accenni a questa nostra
sorella di Kyoto", disse, incerta, Momoko:
"Potrebbe presentarmela?"
"Io? Va bene. Le parlerò e le chiederò d'incontrarvi entrambe. "
Dopo che Aoki se ne fu andato, Momoko lesse la lettera
della sorella. Non una parola sulla sorella di Kyoto.
Anzi, Asako pareva persino ignorare che Momoko fosse
in clinica. Il padre doveva essere ormai tornato a casa,
ma probabilmente non le avrebbe raccontato nulla di
quanto era accaduto a Momoko.
Momoko lasciò la clinica per trasferirsi in casa di Aoki
con la trapunta, il bacile per lavarsi il viso e gli altri oggetti
avuti in prestito. Due o tre giorni dopo si recò ad
Arashiyama in compagnia di Aoki. Scesero dall'auto di
fronte al ponte che-Attraversa-la-Luna.
"Ho prenotato al ristorante 'Cuculo' per stasera, ma è
ancora presto. Vuole che passeggiamo sull'altra riva?"
domandò Aoki guardandola. Momoko annuì:
"Ricordo di aver gustato da queste parti degli squisiti
germogli di bambù quand'ero piccola. Chissà se fu dal 'Cuculo'".
"è probabile", commentò Aoki attraversando il ponte.
"Mentre lei era in clinica ho visto un film intitolato Le
quattro libertà. Ne sono stato stranamente impressionato.
Era un documentario di guerra e illustrava la lotta vittoriosa
dell'America contro la Germania e l'Italia per ristabilire
le 'quattro libertà'. Alla fine Hitler e Mussolini, i
due tiranni, muoiono insieme alle loro amanti. Di Hitler
non si è visto il cadavere, perché si è suicidato in un
bunker sotto la Cancelleria. Mussolini, invece, catturato
mentre tentava di fuggire in Svizzera, era stato giustiziato,
e il film mostra il suo cadavere e quello della sua
amante. Quel Mussolini, con il suo mento robusto, pareva
già in decomposizione. Inoltre i due cadaveri erano
appesi a testa in giù. L'abito della sua amante le scopriva
il ventre e lo stomaco fino al petto."

14. LA STRADA DELL'ARCOBALENO.


1.
Il padre di Keita era meravigliato e colpito dal fatto che
quei due dittatori fossero morti insieme alle loro giovani amanti.
"Stavo per chiudere gli occhi. Si vedeva il ventre dell'amante
di Mussolini. L'avevano appesa a testa in giù e
la gonna era scivolata... con mio grande sollievo si è
fermata sotto il petto..."
Momoko si scostò da Aoki e indugiò accanto alla balaustra del ponte.
"Mi scusi", disse Aoki accorgendosene. "Era uno spettacolo
intollerabile. Ma intollerabile in due sensi; perché
era violento e atroce e perché nell'orrida morte di Mussolini
si intuiva, più ancora che attaccamento alla vita, una
sorta di radicale compimento della vita stessa, qualcosa
che per noi giapponesi è intollerabile. Qualcosa di grandioso."
Aoki pareva riluttante ad abbandonare il discorso:
"Chi come noi costruisce padiglioni per il tè o ammira
la collina Arashiyama in inverno, non potrà mai comprenderlo".
Non c'era nessuno sul ponte, oltre a Momoko e ad Aoki.
"Peccato", notò Aoki, "perché qui la natura è bella
anche dopo la stagione degli aceri, non è vero?"
"Sì, c'è quiete e malinconia", rispose Momoko guardando
il corso inferiore del fiume. "I pini rossi hanno
delle belle tinte. Il verde delle foglie è lucido e ha dei
riflessi blu." Filari di pini si allineavano sulla riva sinistra
e, sulla destra, si estendeva una rada pineta. Anche le
colline Arashiyama, oltre il ponte, e quelle di Kameyama
e Ogura oltre esse, erano coperte di pini.
Da un'isoletta nel corso inferiore del fiume, invasa da
un'erba ingiallita, si levavano i pennacchi di fumo di due
falò. In fondo, al di sopra di uno di essi, si delineavano
le sagome delle colline di Higashiyama.
"Là, il fiume Oi prende il nome di Katsura. Il corso superiore
si chiama Hozu. Il nome di Oi (In giapponese Oi significa
"grande sbarramento". (N.d. T.)
indica il punto prima di Arashiyama in cui l'acqua del fiume, ostacolata,
forma un bacino."
Aoki riprese a camminare, quasi sollecitando Momoko a imitarlo:
"Lei è andata a visitare il tempio a tredici anni?" domandò a Momoko.
"No."
"Qui nel Kansai è una tradizione. Siccome il giorno
della festa, il tredici aprile, i ciliegi sono fioriti, i recinti
del tempio della Ruota della Legge dove si venera Kokuzo,
è sempre affollato."
Oltre il ponte si distingueva la tinta sgargiante con cui
era dipinta la pagoda del tempio della Ruota della Legge.
Aoki parlò della "Festa delle Imbarcazioni". Veniva
organizzata nella stagione in cui il verde era più tenero,
a imitazione degli svaghi dei nobili che salivano sulle
imbarcazioni a dilettarsi di poesia, di canzoni e di musica.
All'epoca degli aceri rossi a queste imbarcazioni si
aggiungevano quella del tempio del Drago Celeste e quella
detta Suminokura dal nome di un ricco commerciante.
Ma era difficile, d'inverno, immaginarsi la gaiezza di
quella festa.
In quel punto del fiume l'acqua formava un bacino
profondo, silenzioso, dalle cupe tinte invernali. Attraversato
il ponte, Aoki propose: "Che ne direbbe di passeggiare un poco?"
e si incamminò lungo un sentiero che conduceva alla collina
Arashiyama. Era anch'esso deserto. L'acqua che avevano
contemplata dall'alto del ponte ora scorreva vicino a loro.
Momoko si fermò e disse: "Si scorgono le rocce del letto.
Com'è profonda l'acqua". Le rocce che risaltavano di-
stintamente in fondo all'acqua le parvero figure mistiche.
Vi nuotavano intorno nugoli di pesciolini.
"Non ha freddo? è appena uscita dalla clinica", si preoccupò Aoki.
"No. Da quando lei è venuto a visitarmi e mi ha detto
che avrei potuto lasciare la clinica quando volevo ho cominciato
a sentirmi meglio."
"Non l'ho detto io, ma il medico."
"Ho come l'impressione di essere stata viziata."
"Al contrario, direi che mi sembra che lei sia stata fin
troppo tormentata."
"No..." Momoko scosse la testa.
"E invece sì." Aoki sorrise. "A parte il suo caso, non
è che la gente si astenga dal tormentare chi già si tormenta.
Anzi, direi che spesso è implacabile. Si potrebbe
anche sostituire, grossolanamente, il termine 'gente' con
il termine 'destino'. Il tentativo di isolare dalla gente
il proprio destino personale conduce soltanto a un'enorme tristezza."
Momoko non sapeva come rispondere: "Ha fatto questo discorso
anche a mio padre?"
"In parte."
"Ma io non mi tormento. Un tempo ne ero convinta, ma ora ho capito
che non è vero."
"Ma lei non ama affidarsi agli altri."
Momoko avvampò di vergogna. "Non è vero... le ho causato un enorme
disturbo, me ne vergogno così tanto che non riesco neppure a ringraziarla."
"Non intendevo farle questo discorso, ma non vorrei
che lei si riportasse a Tokyo, come un bagaglio ingombrante,
la sua tendenza a tormentarsi. Non le sarà per caso dispiaciuto
ciò che suo padre e io abbiamo fatto? Non penserà forse che abbiamo
complottato contro la sua volontà?"
"Provo soltanto rabbia. Avrei dovuto cancellare da sola
la mia vergogna... " Momoko non riuscì a proseguire.
"Affidi tutto agli altri. Anche i suoi sentimenti."
Momoko non rispose. Ma era come se l'avesse fatto.
Più che rimorso, rimaneva in lei una profonda vergogna.
Non era forse stata più astuta lei a fingere di cedere ingenuamente
al complotto del padre e di Aoki? Provava un
disgusto terribile per l'astuzia con cui si era comportata
in quella difficile situazione. Tutti e tre, comunque, avevano
finto la massima indifferenza. Ed era grazie a essa
che ora poteva passeggiare tranquillamente accanto ad Aoki.
D'altronde, anche rifugiarsi in casa di Aoki dopo essere
stata in clinica, denotava la sua mancanza di pudore
femminile. Aveva perso il suo orgoglio, perché ormai si
era affidata al suo prossimo. Non solo, Momoko capiva
che Aoki l'aveva esortata ad affidarsi a lui completamente.
E lei era diventata docile alla volontà altrui, senza più
ribellione o astio. Aveva l'animo vuoto. In un certo senso
era persino grata ad Aoki, gli si appoggiava. E, d'altro
canto, le pareva anche opprimente come un cielo nuvoloso.
"Keita non avrebbe dovuto morire... " disse Aoki. "A chi
muore si perdona tutto. Perché non è possibile inseguire
chi è morto, afferrarlo e punirlo... O forse per saggezza,
perché anche chi vive prima o poi morrà. Ma anche ai morti
bisogna attribuire delle colpe. Questa è la mia opinione."
"Ma... " Momoko si interruppe. Chissà se il padre sapeva
che cosa Keita le aveva fatto.
"Anche mia madre si è suicidata. Mio padre glielo avrà
detto, immagino."
"Sì. E allora diamo la colpa a Keita e a sua madre."
"Quale colpa?"
"Tutte. Tutte le sofferenze dei vivi."
"Pretende che finiscano all'inferno?"
"Vorrebbe che Keita fosse all'inferno?"
"No", Momoko scosse la testa. "Si può cadere vivi nell'inferno
per non precipitarvi chi si ama. A volte penso
che nessuno dei nostri dolori e dei nostri peccati sia stato
creato o scoperto da noi. Sono un'eredità, un'imitazione
di chi ci ha preceduto. Una tradizione, un'abitudine lasciataci
dai morti, non le pare?"
"Meglio gli uccelli allora, che da innumerevoli anni
costruiscono gli identici nidi... ma non posseggono architetti
come Mizuhara!" Aoki rise. "Comunque, concludiamo che la
colpa è di chi è morto. Mi sono scusato con lei,
per Keita, ma sarà meglio non tentare di cancellare le colpe
dei morti, e pensare piuttosto a ringraziare tra di noi vivi. "
"è per questo che è così premuroso con me?"
"Le sembro premuroso?" Aoki abbassò la voce. "Appena ci incontriamo
io le parlo immancabilmente di Keita. Non fosse che per quello,
desidero fare tutto ciò che mi è possibile per lei... Ho chiesto
a suo padre di essere mio ospite l'ultimo giorno dell'anno,
ripartendo poi la mattina di Capodanno, per ascoltare qui
a Kyoto i rintocchi delle campane della mezzanotte."
"Cercherò di rinnovare anche il mio rapporto con mio padre", disse
Momoko con indifferenza. Era stupita di come il padre avesse potuto
andarsene affidandola ad Aoki. Era forse un atto di vigliaccheria?
O l'aveva forse lasciata a Kyoto per evitare che Asako apprendesse
la verità?
A Momoko pareva di non avere una casa in cui tornare.
"Anche se c'è Natsuji, lui non può sostituire Keita."
Aoki continuava a ricordare il figlio.
L'attenzione di Momoko fu attratta da certi piccoli alberi
che riflettevano la loro immagine sull'acqua. Chissà
che alberi erano. I rami sottili, intricati come maglie di
una rete, parevano dipinti nell'acqua a tinte vivaci. Le loro
intricate, delicate linee, difficili da distinguersi tra il
fogliame, risaltavano perfettamente sull'acqua. Non pa-
revano riflessi superficiali, ma alberi che crescevano sull'acqua.
Sebbene fossero alberi comuni, assumevano un
aspetto fatato. Momoko li contemplava incantata.
"A Tokyo non si riesce neppure a immaginare un'acqua così limpida."
Sollevò lo sguardo verso la collina di fronte, ugualmente
riflessa sull'acqua con i tronchi dei pini rossi di una tinta più
vivida che nella realtà. Sotto i pini si rifletteva il muretto del
tempio accanto al fiume.
"è un paesaggio invernale, ormai", disse Aoki guardando a sua volta
la collina riflessa sull'acqua.
"A Tokyo è grandinato. Me lo ha scritto mia sorella
nella sua lettera. Finito di grandinare è apparso l'arcobaleno.
Mia sorella camminava lungo un ampio viale asfaltato verso un
enorme arcobaleno."
Leggendo quella descrizione, Momoko aveva pensato
che la sorella avesse camminato verso l'arcobaleno in
compagnia di Natsuji. E ne era ancora convinta. Adesso,
più che pensare a se stessa che passeggiava lungo un sentiero
di Arashiyama con il padre di Natsuji, Momoko rifletteva su
ciò che era stata la sua identità prima di quella passeggiata.
S'incominciavano a scorgere le pareti rocciose e gli
scogli del corso superiore del fiume, chiuso tra la collina
Arashiyama e quella Kameyama. Momoko si fermò nel punto
in cui il sentiero iniziava a inerpicarsi.
"Torniamo?" domandò Aoki.
"Sì."
Sulla sponda opposta ardevano le fiamme di un falò di
erbe secche. Accanto, una bandiera di cotone.
"Quello è il 'Cuculo'. Ho invitato la sorella di Kyoto
che lei desiderava incontrare."
"Oggi? Perché non mi ha avvisata?" lo rimproverò
Momoko. "è un colpo a tradimento. Non me lo aspettavo da lei."
"Mi scusi. Avevo pensato di farle una sorpresa. Non
avrei dovuto rivelarglielo."
"Voi adulti siete davvero incorreggibili."
"Mi scusi", ripeté Aoki. "Comunque non era sicura di
poter venire oggi. Ho parlato a mezzogiorno con la sorella
maggiore, ma non mi ha dato una risposta precisa."
Momoko gli camminava avanti, silenziosa. Le nuvole
del crepuscolo indugiarono intorno al monte Hiei. Le
colline di Higashiyama erano velate dalla nebbia. Una
nebbia tenue si levava anche fra gli alberi.
2.
Entrata nella saletta del ristorante 'Cuculo', Momoko scoprì con
stupore che la ragazza incontrata al teatro era sua sorella.
Wakako la scrutò intensamente.
"Vi siete già viste?" domandò Aoki.
"Sì, senza sapere chi fossimo."
Prima che Momoko si sedesse, Wakako e la madre si spostarono
dai cuscini inchinandosi.
"Liete di conoscerla. Questa è Wakako", disse la madre,
"e io sono Kikue."
"Piacere, Momoko Mizuhara."
Kikue fece un altro inchino. "In quest'occasione...
non so che dirle..." Non riuscì a proseguire.
Intervenne Aoki:
"è la prima volta che ci incontriamo".
"Lei è stato veramente molto gentile. Grazie a lei... Mi
scusi, non so come esprimerle la nostra riconoscenza."
"Non ho alcun merito, e poi le signorine si erano già
incontrate, vero?"
"Signorina Wakako, quando ci siamo viste a teatro ha intuito
chi eravamo, vero?"
"Sì."
"Come?..."
"Quando Otani lesse il vostro biglietto da visita..."
"Ah, il padre della bambina! E lei appena si è accorta
che eravamo noi, è fuggita, vero?"
Kikue, imbarazzata, si rivolse alla figlia: "Non intendevi
fuggire. Ma eri troppo sbalordita, eh?"
"Che importanza ha? Al posto di Wakako avrei agito nello stesso modo."
"No, lei, signorina, non sarebbe fuggita. Al posto di
Wakako le si sarebbe spezzato il cuore... Anche oggi mia
figlia diceva che si vergognava. Non voleva saperne di
presentarsi. Io mi vergogno ancor più di lei, ma siccome
non aveva animo di venir qui da sola..."
Momoko domandò con franchezza: "Sapevate, vero, che neppure io
sono nata in quella casa?... "
Kikue intuì subito che alludeva alle sue condizioni di
figlia naturale, e abbassando lo sguardo commentò:
"Lei, signorina, è stata comunque allevata in quella casa..."
"Perché mia madre era morta."
"Non dica così. Allora avrei fatto bene a morire anch'io!"
"Chissà. Bisognerebbe domandarlo a Wakako", ribatté con
leggerezza Momoko. "Chissà se sarebbe stata più felice..."
"è vero, non credo si possa parlare di infelicità, ma
forse l'avrebbe preferita piuttosto che... "
"Davvero? Allora se la signorina Wakako venisse a vivere con noi... "
"Niente affatto! è assolutamente impensabile."
Kikue pareva sgomenta e allarmata. Mizuhara stesso
aveva alluso a quella possibilità durante il loro incontro
a primavera. Di nuovo quell'argomento... Decise tuttavia
di non rivelare che si erano visti al tempio Daitokuji.
"Non vale la pena di preoccuparsi per lei: la figlia di
una rana non può essere che una ranocchia."
"A preoccuparsi è soprattutto mia sorella Asako. Venne persino
a Kyoto da sola a cercarla, verso la fine dell'anno scorso."
"Oh..." Ma Kikue ne era già stata informata da Mizuhara e
l'aveva a sua volta riferito a Wakako.
"Io invece ero perplessa anche allora e le ho detto che
aveva avuto fortuna a non trovarla. Ogni essere umano
ha la sua vita." Così si confidò Momoko. Quindi, guardando
Wakako, le domandò: "è la prima volta che conversiamo.
Ha l'impressione di parlare con una sorella?"
Wakako, che manteneva il capo chinato, arrossì. Le
sue ciglia e le sopracciglia erano sottili e delicate. Le pupille
castano chiare. Momoko ebbe l'impressione di aver
detto qualcosa di sgradevole a quella ragazza così tenera
e graziosa. Ma era una domanda rivolta, più che ad altri,
a se stessa.
"Non è la prima volta che la vedi, vero Wakako?" interloquì Kikue.
"Penso che da quando, sei mesi fa, vi incontraste a teatro,
Wakako abbia conservato nell'animo l'immagine delle sorelle.
è un sogno per lei potersi considerare sua sorella."
"Si consideri pure tale, per lo meno nei confronti di Asako.
Chissà come sarebbe stata felice se avesse appresa
la sua identità. Era gentile anche con la bambina che lei
teneva in braccio, vero?"
"Sì. Otani l'ammirava molto", rispose Wakako.
"Ammirazione ricambiata da Asako" rise Momoko.
Riprese Kikue: "Otani la stima. Wakako, poi, tornata
da teatro, non faceva che decantare la gentilezza e la bellezza
della signorina. Quella sera stentò a lungo ad addormentarsi.
Io dissi che era stata una fortuna incontrarvi. Lo penso davvero.
Naturalmente Wakako non ha una posizione sociale pari alla
vostra e si arrangerà a modo suo a guadare il fiume della vita.
Ma quando le capiterà qualcosa di doloroso o di brutto, potrà
consolarsi pensando alle sue sorelle di Tokyo... Non conosco i sentimenti
di mia figlia, ma suppongo che siano simili ai miei. Il professor
Mizuhara mi ha lasciata tanto tempo fa, eppure la venerazione che ho
sempre nutrito per lui mi ha aiutata a guadare il mio fiume".
Kikue era commossa. "Wakako non ha bisogno di frequentare le sorelle
o di confidare in loro. Le basta pensare che sono belle e gentili."
Momoko non sapeva più cosa rispondere.
"Wakako ha incontrato papà di recente?"
"Non lo vede da quando era piccola."
"Davvero?"
"Andammo insieme ad ammirare la grande camelia del Daitokuji.
Wakako non aveva ancora imparato a camminare", raccontò Kikue
volgendosi verso la figlia.
"Non ricordo", fece quella.
"Vorrei che incontrasse papà", dichiarò Momoko, riferendosi a Wakako.
Kikue chinò la testa. "Grazie per averlo detto. Adesso
che abbiamo avuto il piacere di vederla, ce ne staremo
tranquille in attesa che il professore abbia voglia di
incontrarci... Wakako, mi raccomando, non farmi fare
brutte figure."
Momoko taceva.
Kikue ricordò di come la figlia era uscita in strada a
salutarla mentre lei andava a incontrarne il padre al Daitokuji
e si commosse.
Aoki chiamò la cameriera e cenarono.
"E adesso un brindisi tra sorelle", propose.
"Sì", acconsentì con riluttanza Momoko. "Anche se siamo
strane sorelle... ognuna con una madre diversa..."
Stava obiettando, tuttavia offrì la tazzina a Wakako.
Ma la sorella non l'accettò.
"Che ha? L'ho offesa?"
Wakako scosse la testa, ma non tese la mano verso la
tazzina che le veniva offerta. Kikue osservava la figlia,
senza però invitarla ad accettare. "Vivendo in un quartiere
di geishe, forse non ama i brindisi", azzardò.
"Ah, davvero? Allora smettiamo con questa commedia", concluse Momoko
e depose la tazzina.
Kikue aveva trovato un abile pretesto, ma Momoko
dubitava che quello fosse il reale sentimento di Wakako.
E comunque il rifiuto della sorella ad accettare la tazzina,
invece di contrariarla, le era parso profondamente puro e appassionato.
"Tanto non c'è papà a vederci, vero?" commentò Momoko e,
alzatasi di scatto, aprì gli shoji.
Si udì il mormorio del fiume tra gli alberi inariditi dall'inverno.
FINE.

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