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Pier Luigi Nicolò

L’amore allegorico

Il Cantico dei cantici


Ibn ‘Arabī
Rumi
Dante
Hafez
Giovanni della Croce

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Introduzione
Amor sacro e amor profano
Nel grande libro dei poeti compagni di strada dei cuori incontenibili leggiamo versi
che parlano di caldi amori terreni volendo in realtà significare altre cose, cose più
elevate. Questo ci dicono i commentatori. In realtà quando l'allegoria mostra la corda
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ed è facile comprenderla il volo perseguito, l’emozione, rimane terra terra. A volte si è
sulla terra, a volte con Hafez anche nella melma, ma proprio allora è forse il caso di
pensare che il discorso sia tutto librato. Ma tutto è partito da quella melma.
Irretito da questo confuso e contraddittorio fenomeno - letterario ma anche
psicologico - ho inseguito il senso letterale e quello nascosto di alcuni scritti famosi
contraddistinti dal loro comune, riconosciuto, stigma: ci parlano d'amore, di
sentimenti umani, di terrene passioni, ma alluderebbero a realtà trascendenti e
indicibili.
Ho scelto le opere poetiche rispondendo ad annose suggestioni. Qui ampiamente
rappresentate, sono cronologicamente ordinate ma non scelte ab initio in quanto
espressioni letterarie di particolari aree culturali o geografiche. Pur con l’attenzione di
necessità particolarmente rivolta agli autori e alle loro personali vicende, ne esamino,
credo non superficialmente, anche aspetti filologici e temi religiosi.
Ho iniziato dallo scritto antichissimo e sommamente prestigioso - un libro biblico -
che va sotto il nome di Cantico dei cantici. E’ il poema dell’amore fra due giovani
pastori, diventato sorprendentemente rappresentazione dei rapporti di un popolo con
la sua divinità . Anche se il Cantico presenta un carattere diverso rispetto agli altri -
l’anonimato lo consegna totalmente silente al mondo della pura creazione letteraria -
posso ben considerarlo il prototipo illustre di tutte le allegorie di questo tipo.
Su un altro versante la querelle sorta fra il finale della Vita nuova di Dante e il
successivo Convivio è tuttora di grande irrisolta complessità . Fu l’Alighieri stesso a
dichiarare, molti anni dopo averle scritte, che il vero oggetto di tre sue importanti
liriche, che tanto ci prendono, non era quello apparente - l’amore per una donna
“gentile”- ma altro attinente la sua decisione di applicarsi allo studio approfondito
della filosofia. Questo significato, comunemente accettato e sempre richiamato - a volte
con qualche imbarazzo - nelle note dei commentatori, continua ad essere
meccanicamente ripetuto a ogni livello.
Per timori e scrupoli o per le critiche ricevute dagli ambienti ufficiali, alcuni degli
autori proposti pensarono di giustificarsi formalizzando a posteriori dettagliate e
cavillose spiegazioni che palesavano i significati nascosti nei loro versi. Dante con il
Convivio - solo tre le canzoni reinterpretate sulle quattordici preannunciate - e
Giovanni della Croce con il commento alla sua Notte Oscura - solo le due strofe iniziali
sulle otto complessive - non riuscirono però a proseguire nell’impegno e gettarono la
spugna molto anzitempo. Solo Ibn ‘Arabī, il “maestro massimo”, credo con grande e
ingrata fatica, riuscì a completare il lavoro.
Sicuramente non sono opere fideistiche e neppure consolatorie, anche quando
apparentemente tese ad ammaestrare o scritte ad uso dei discepoli. Li credo scritti
sinceri che derivano pregi letterari e meriti spirituali in stretta aderenza alla
condizione umana dei loro autori. A volte, va pur detto, il loro innalzamento a livelli di
allegorica spiritualità che impongono riverenza è maturato nel tempo, avallato dai
tanti che non potevano sopportarne l’eccessiva franchezza sui temi dell'eros.
Esemplare in questo senso la storia del Cantico.
Se i testi poetici qui proposti fossero tutti anonimi forse avremmo meno difficoltà e
problemi ad accettarli come espressioni allegoriche e, alla stregua del Cantico,
potrebbe essere più facile ritenerli, come pure da molti si vorrebbe, opere religiose o

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filosofiche parlanti un linguaggio umanissimo che scalda il cuore, alla cui luce si sono
illuminati tanti spiriti puri.
Ma - questo è il problema - anche accettando che i loro versi incorporino intenzionali
allegorici riferimenti di tipo trascendente (o comunque “altri”, come nel caso di
Dante), perché svalutarne programmaticamente il senso apparente mettendolo in
secondo piano, e sorvolare perplessi - come siamo indotti oggettivamente a fare - su
quanto viene esplicitamente affermato? E’ giusto e ragionevole, pur conoscendo molto
di “vita morte e miracoli” dei loro autori - la loro dimensione umana - svilire la
sostanza del sentimento d'amore che calorosamente esibiscono, e che comunque
sorreggerebbe l'altro, dando dignità ed evidenza solo alle ragioni di supposti afflati
mistici o spirituali?
Gli autori, lo vedremo, sono spiriti religiosi che hanno amato, non nascostamente, o
hanno reagito alla disperante condizione di esserne impediti. Questi scritti,
mostrando passioni che gridano e reclamano dignità , ci dicono che erano quei
sentimenti - da cui traggono motivazioni, argomenti e linguaggio - a legittimare la
loro poetica ricerca di vie celesti. L’amore terreno sarebbe stato comunque un viatico
per l'altro più elevato. Quale vago amor sacro usciva allora da sotto le vesti di una
profana allegoria?
E’ su questo evanescente terreno che nascono le difficoltà , il merito, diciamo
l’interesse letterario e umano. Si cammina su una lama di rasoio. Si può bellamente
acconsentire al gran numero dei commentatori e traduttori, magari convertendo
semanticamente quanto ci viene offerto - a volte, come ho detto, non mancano gli aiuti
degli autori stessi alla decrittazione - e il gioco sarebbe fatto. Ma che gioco sarebbe?
Perché Giovanni della Croce, per raccontarci dell'incontro dell'anima col suo Signore,
avrebbe dovuto costruire, seppur sulla falsariga del Cantico, una situazione tanto
conturbante come quella della sua Notte Oscura? Voglio dire che avrebbe potuto
essere tutt’altra cosa, ma allora sarebbe forse stata l'operina bonaria di un sacrestano,
e non ci colpirebbe il cuore e la mente. Se vogliamo capire perché Giovanni l'ha voluta
così dobbiamo capire chi era Giovanni. Credo che nell'avvicinare questi testi occorra
rivedere l'approccio e aprirsi alla consapevolezza che i due sentimenti restano
comunque intimamente legati, ciascuno riflesso nell'altro. Perché dobbiamo dare
enfasi al solo significato allegorico? Se in gioco fosse solo quello, sarebbe forse poca
cosa, e andrebbe tutto a detrimento dell'uomo, della poesia, e forse anche della fede.
In verità chi parla sinceramente al suo Dio ed esprime il suo trasporto - e Lui è
sempre l'Amato - non ha il problema di essere ascoltato dal mondo. Nessuno lo ascolta
nella solitudine della sua cella, nella sua stanza, nemmeno nell'assemblea dei
confratelli quando silenziosamente parla col cuore. La preghiera, quando è vera, non si
scrive e non vuole ascoltatori. Rifugge dalle allegorie e credo che non voglia nemmeno
comunicare.
Gli scritti qui proposti non sono preghiere. Quello che viene scritto è altra cosa dalla
preghiera, e altra è la natura dei sentimenti coinvolti. Chi scrive si prefigura sempre un
ipotetico destinatario, lo cerca. Se usa delle immagini forti e realistiche, seppur
nell’orizzonte fumoso di una lettura metaforica, sarà perché sono quelle le immagini
che vuole fare arrivare alla sua intelligenza. Forse il primo messaggio è proprio quello.
I sentimenti che per essere confessati hanno bisogno di nascondersi, offrendosi come
vesti di lodevoli allegorie, non sono in fondo più veri, sinceri e urgenti di quelli che si
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pretendono ostentatamente manifesti - seppur celati -, che saranno anche verissimi ma
forse abituali e meno autenticamente e drammaticamente vissuti?
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Magica parola che trova applicazione in ogni ambito della vita: si parla di amore per i
genitori, per i figli, per i fratelli, per il prossimo, fino all'amore per gli animali, per “il
bello” e “il buono”. E' sempre parola che esprime compassione, apprezzamento,
desiderio di contatto. All'insegna dell'amore si dispiega gran parte del variegato
mondo dei sentimenti e delle sensazioni. Il nostro “volgerci verso il mondo”. Anche per
Dante, fedele d'amore, l’amore è “applicazione de l’animo innamorato della cosa a
quella cosa… non è altro che unimento spirituale dell'anima e de la cosa amata".
L’amore è propensione verso qualcosa, è spinta ad avvicinare, conoscere, possedere.
Tutti i modi di questa apertura hanno natura comune. L'uomo che guarda alla vita con
interesse dice a qualcosa o qualcuno: “Io amo, io voglio venire verso di te”. L'amore è la
forza che attira, che lega. L'amore sorregge il mondo.
Più ricca di implicazioni è l’attrazione fra le persone. Per legge di natura - ragione
della complessità e particolarità del sentimento – in essa si riflette la componente
biologica, comune a tutti i viventi, finalizzata al soddisfacimento di fondamentali
esigenze riproduttive. L’unione fisica che ne discende, sostanzialmente rimane un
aspetto della fisiologia umana. Come respirare, dormire, mangiare. Forse ne è l’aspetto
più importante, visto che ha consentito, lei sola (almeno fin'ora), la continuità della
specie. E' legata al piacere, come e più delle altre insopprimibili funzioni del corpo.
Consideriamo che oggi uomini e donne conoscono i meccanismi inerenti la loro vita
biologica, ma un tempo, animali fra gli animali, non avrebbero potuto riprodursi se non
avessero sentito il richiamo del grande piacere della copula.
La propensione all’unione sorge quando l'energia generativa abbonda e preme. Una
disponibilità manifestata può bastare ad avviare l'interesse. Il sentimento d’amore può
accompagnarsi all'impulso fisico e può anche esserne determinato. Spesso acceso e
alimentato dalla bellezza, da sempre ritenuta un valore in sè, l’amore può essere più
coinvolgente quando alla bellezza dell’essere amato si accompagnano dei caratteri che
appagano non solo esigenze di tipo estetico, ma anche morali ed etiche. Può fiorire in
ogni tipo di rapporto interpersonale. Sotto i più diversi punti di vista l’amore ha un
rilievo fondamentale nella vita degli esseri umani. Ognuno ha il suo.
L’atto fisico può non essere sempre idilliaco. Può esprimere bisogno di
autogratificazione, desiderio di comando, può avvenire nella indifferenza, anche
nell'odio, nella abiezione e nella violenza, e raggiungere ugualmente i suoi fini
biologici. Abitualmente si dice “fare l'amore”, ma il fatto che si possano usare altri
termini, prosaici quando non spregiativi, è conferma che, anche nella coscienza
comune, l’atto fisico può discostarsi dai sentimenti più elevati.
Quando la sensualità - vissuta in libertà - affianca il sentimento che viene dal cuore,
l'amore diventa una forza potente. I protagonisti di questo libro hanno creduto che il
sentimento d’amore potesse elevarsi fino a Dio, visto come fonte e modello di ogni
bellezza. Hanno creduto, e l’hanno anche scritto, che la tensione verso l’eterno e il
mistero avesse la stessa natura dell’amore umano, che ne fosse la massima
espressione, e che ad esso naturalmente si accompagnasse.
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Le esperienze spirituali e mistiche - di ogni tipo e sotto ogni latitudine - non sono
pienamente descrivibili perché non esiste un lessico adeguato e manca chiarezza
concettuale. Sfuggente per definizione l'oggetto, non si può comunicare niente di
preciso e razionale che possa riflettere, su un piano di comprensione condivisa, stati
d'animo per loro natura ineffabili. Da qui la scelta, da parte di poeti religiosi e mistici,
di ricorrere al linguaggio amoroso, ritenuto quello più adatto a cogliere gli aspetti di
esperienze poggianti comunque su un trasporto di tipo amoroso per la divinità .
Mistiche uscite da sé, assimilate ad emozioni e abbandoni come si ritrovano nei
rapporti amorosi, vengono raccontate, e magari anche vissute, come quelle esperienze.
Va detto che delle tante allegorie letterarie, medievali per lo più , a noi pervenute, ove
con linguaggio amoroso si apre al trascendente, la grandissima parte non presenta
problemi di interpretazione, e anche il loro interesse si è affievolito negli anni, per
tante ragioni: declino della spiritualità , linguaggio e argomentazioni percepiti come
standardizzati, la banalità di tanti testi. Queste considerazioni credo siano applicabili
anche alle opere poetiche di Giovanni della Croce diverse dalla Notte Oscura. Non tutti
i mistici sono grandi poeti, o, meglio, non lo sono sempre. Solo tesi ad alludere
all'aldilà , anche se sanno trovare delle belle immagini a volte usano le parole
dell’amore con strumentale superficialità , e ne attraversano il terreno non come un
campo minato, ma solo come un bel prato da cui raccogliere i fiori fasulli che corrono a
depositare sull'altare di qualche divino pensiero. Ma esistono poeti che hanno saputo
cogliere l’essenza del loro misticismo a partire dalla loro vita, e l’hanno sinceramente
espressa, con toni profondi e convincenti, facendola vivere in sintonia con gli aneliti
del loro cuore tormentato. Sono loro i protagonisti di questo libro,
Il dramma di questi testi può essere colto, riconosciuto. Pur trattandosi di opere
letterariamente pregevoli, se la sostanza allegorica vi apparisse chiara e univoca non ci
sarebbe stato motivo, dopo le premesse fatte, di discuterne qui. Ma un problema
interpretativo, relativo ai testi proposti, è sempre esistito, e sappiamo di autori
costretti in vita a replicare alle accuse, rivolte loro dalle varie ortodossie, di pascersi di
segrete brame erotiche contrabbandate come veste di elevati sentimenti di natura
religiosa o filosofica. Essi brillano proprio per questa loro intima e del tutto particolare
natura. Chi li ha scritti doveva essere consapevole di attingere a fonti segrete o
proibite, stanze recondite - mi si passi l’allegoria - che non si potevano illuminare
direttamente, ma che andavano comunque visitate e arieggiate pena il decadimento,
l’inaridimento, dello spirito - il loro io profondo - che le abitava.
Ma le nebbie delle allegorie offuscano quelle parole, ne sviano il senso e ne tarpano
anche la forza espressiva. La bellezza di quei versi non rifulge come potrebbe, se non è
illuminata di verità . Si è già discusso, in ambiti specialistici, di queste problematiche -
in modo particolare a proposito di Dante - ma senza, per la verità , arrivare a soluzione.
Molti commentatori vi accennano, ma poi sorvolano e non approfondiscono
dichiarando che, non essendo possibile arrivare a delle certezze, si preferisce restare
rispettosi di volontà autoriali che non si ritiene di forzare. Non è, si dice, problema
della critica letteraria. Come se dentro alle opere, una volta consegnate, non ci fosse
più un uomo vero. Come se questa assenza fosse normale. Come se fossero dei testi
sacri, extraumani. Gli amori di cui mi occuperò , che sono tra i più belli della storia
letteraria, dovrebbero restare amori allegorici, cioè finti? Pura maniera, parole dette
pensando ad altro?
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Parleremo solo del significato allegorico, di quello che per esprimersi non ha trovato
parole sue, e che ognuno poi vede a suo modo, e trascureremo quello apparente?
Anche se fosse solo immaginato, è costruito con gli elementi della vita del poeta. E’
comunque reale, certo non meno reale dell'idealità a cui dovrebbe alludere. Avrebbero
ben potuto parlare, e spesso l'hanno anche fatto, della loro filosofia, del Dio
trascendente, del Dio incarnato, con immagini forse un po' retoriche ma funzionali e
dirette allo scopo.
Dobbiamo pensare che Dante abbia avuto un solo grande amore infelice e sia poi
vissuto concentrato nello studio e nell’elaborazione poetica di ricordi sempre più
lontani? Dobbiamo pensare che il visionario maestro musulmano che descrive figure
d'amorosi giovani portatori di segreti messaggi ultraterreni non desse anche corpo
alle sue più intime fantasie? Questo ci vogliono far credere, sia Dante che il maestro
musulmano. I poeti, come tutti, possono mentire, fingere, nascondersi. Tutti - il gruppo
dei Sufi, Dante, anche il giovane monaco spagnolo febbricitante - erano timorosi; le
parole che usavano bruciavano le labbra e si potevano dire solo se alludevano ad altro.
Ma l'effetto dell'allusione è duplice, l'allegoria nasconde ma anche rivela e sottolinea. I
loro amori negati e sepolti risultano per questo più vivi. Circonfuse di azzurrine
trasparenze sopravvivono le misteriose presenze, le passioni gridate e cocenti, gli
sguardi, gli abbandoni e le lacrime...

Il Cantico dei cantici

Bruna sono, ma bella,


o figlie di Gerusalemme,
come le tende di Kedar,
come i padiglioni di Salma.
Non state a guardare che sono bruna,
poiché mi ha abbronzata il sole.
I figli di mia madre si sono sdegnati con me:
mi hanno messo a guardia delle vigne;
la mia vigna, la mia, non l’ho custodita.
Dimmi, o amore dell’anima mia,
dove vai a pascolare il gregge,
dove lo fai riposare al meriggio,
perché io non sia come vagabonda
dietro i greggi dei tuoi compagni
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,

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che risalgono dal bagno
I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli.

Un poema che galleggia sul nulla. Ambientato in Palestina, mette in scena re, regine,
cortigiani, pastore e pastorella ma non sembra volersi confrontare con il suo mondo.
Ceronetti ha detto che il Cantico dei cantici è “vuoto”, ma forse voleva dire la stessa
cosa. Un uomo e una donna, con parole fresche e libere, senza ipocrisie e falsi pudori,
esprimono ammirazione reciproca, desiderio, ansie e paure. Un canto di esaltazione
dell’amore e della bellezza che termina (ma sarà poi la fine?) proclamando un
manifesto sui diritti dell’amore inconcepibile per quei tempi (ma quali tempi?) e
rivoluzionario ancora oggi.
Ma si è detto che tutto questo è solo un velo. In verità lo Spirito si sarebbe espresso
per bocca di un ignoto poeta ebreo e avrebbe racchiuso in quelle vicende così terrene il
senso dei rapporti fra il Dio d’Israele e il suo popolo. Il pastore che appare e scompare,
che supera le colline a balzi, il più bello fra gli uomini, che si confonde con la figura di
un re, che viene cercato, perduto e ritrovato, e amato fisicamente da una fanciulla bella
e coraggiosa, ostacolata dalla famiglia e dal potere, quel pastore rappresenterebbe Dio
(poi diventerà figura di Cristo) e quella ragazza Israele stesso (poi figura dell’anima e
della Chiesa).
Siamo in presenza dunque di amore allegorico della più bell’acqua e l’antichità del
testo lo destina all’apertura. Che amore allora nel Cantico dei cantici, quali allegorie? Il
lavoro duro è stato già fatto, con competenza e grande impegno, da Gianfranco Ravasi i,
che ci ha anche informato sui tantissimi che prima di lui se ne sono occupati. Leggo il
Cantico dei cantici non per stabilirne le notarili definizioni, che sarebbe presunzione,
ma per distillarne piacere estetico e qualche verità esegetica e contenutistica
nell’ottica particolare di chi non crede che il Cantico sia figlio di nessuno, e non possa
perciò essere docile appoggio metafisico a ogni sorta di elucubrazioni sentimental-
trascendenti. Nato come espressione letteraria compiuta, il Cantico vive ancora a buon
diritto di questa sua natura, e la reclama.
Non è biasimevole, contrariamente a quanto Ravasi dice a ogni piè sospinto, voler
cercare di approfondire questo aspetto. Riconoscerne la pregiudiziale natura di
dramma, egloga o idillio pastorale, apprezzarne il linguaggio umano, anche
riconoscerne certi limiti - derivanti da una ispirazione non sempre omogenea e tesa e
da una certa “maniera” a volte artificiosa, ripetitiva e fredda - può servire ad ancorarlo
alla terra. Questo non reca pregiudizio a nulla, non alla poesia, non al messaggio,
nemmeno ai significati simbolici tanto cari a Ravasi. Sicuramente non finiremo col
dire, con Voltaire: “Il Cantico è certamente una rapsodia inetta e di poco conto, ma
contiene molta voluttà ”.
Un Cantico dei cantici divinamente ispirato - come si è voluto che fosse - deve essere
ieratico, indefinibile, sfuggente, impregnato di agganci biblici. E il Cantico può apparire
sicuramente così. Ma se sopravvive il senso di un racconto, se il Cantico segue uno
svolgimento e dà letteraria rappresentazione a sentimenti e sensibilità molto terrene -
sicuramente in anticipo sui tempi, o magari in ritardo su altri più “aurei” - , allora sarà
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meno giustificato e facile erigervi sopra tante irreali costruzioni, e anche inzupparlo di
tanti sospirosi apprezzamenti.
Dell’autore non sappiamo nulla, ma certamente qualcuno ha composto il Cantico dei
cantici, mettendosi a un tavolo con papiro e pennello, o anche solo memorizzandolo e
cantandolo. Ci rimane purtroppo un testo confusamente articolato in frasi e immagini
dal tono aulico e rarefatto. Pensieri molto semplici, l’esaltazione dei profumi della
natura e della pelle. Si sentono forse sapori di religioni delle alture, di culti della
fertilità , di sacre ierogamie. Sono queste le cose che alcuni rabbini bastiancontrari
credevano di vedere, che toglievano sacralità al libro e li spingevano a dire che il
Cantico dei cantici non rendeva impure le mani? Ma le loro menti erano pure? E le
nostre?

La datazione non è sicura, il Cantico presenta arcaismi verbali riconducibili al


periodo monarchico (X-VI secolo a.C.), ma anche aramaismi post-esilici e vocaboli
persiani. Si può oscillare fra X e III secolo a.C. Il testo attualmente conosciuto potrebbe
essere il risultato di una redazione post-esilica. L’ambientazione è palestinese. Qualche
riferimento letterario lo si può trovare nelle culture limitrofe (egizia, semitica,
mesopotamica). La convinzione antica, condivisa anche da molti moderni, fu che
risalisse all’epoca salomonica (970-930 a.C.). Qualcuno lo ritiene una “raccolta” di canti
nuziali risalenti al VIII-VI secolo, al V-IV secolo la redazione conosciuta attualmente. In
effetti la maggioranza degli studiosi opta per il post-esilio babilonese (seconda metà
del V sec.). Alcuni canti però sembrerebbero pre-esilici. Il decalogo innico del Targum,
commento giudaico redatto fra V e VIII secolo d.C., pone la datazione del Cantico al
periodo pre-esilico.
La cosidetta “tesi cultica” vi vede una collazione di poemi di origine cananea
celebranti l’amore fra il dio solare Tammuz e la dea lunare Istar (detta anche Salmit).
L’esistenza di un Dod, dio cananeo, induce a considerare possibili legami, almeno di
tipo fonetico, con il “dȏdȋ” (mio diletto) e con la Sulammita del Cantico. Molti hanno
visto nel Cantico le tracce di un dramma liturgico, ormai demitizzato, di origine
“primaverile”: il dio che rinasce e muore pianto dalla dea della fertilità . Chiare
somiglianze anche con le antiche poesie amorose egiziane, risalenti addirittura al
1300-1500 a.C. A parte riferimenti puramente nominali a Davide e Salomone non
esistono nel Cantico concrete allusioni storiche e i riferimenti geo-topografici, per altro
molto diffusi, sono solo genericamente evocativi. La specificità del Cantico è la sua
carica “erotica”, così scoperta e naturale. Effettivamente solo nella lirica egizia e
semitica, non collegata alla Bibbia, si possono ritrovare echi dei toni usati dal Cantico.
Certamente i vaghi spunti geografici e storici ne confermano l’ambientazione
palestinese e l’attribuzione alla cultura del popolo di Israele.
Nel Cantico si fa un grande uso del “parallelismo”, procedimento letterario tipico
della poesia ebraica che tende a definire una determinata realtà nelle sue varie
sfaccettature, dimensioni e angolazioni; alcuni significativi snodi stilistici
continuamente ripresi si oppongono alla grande rarefazione del tessuto narrativo. Può
trattarsi di una silloge poetica eterogenea? Qualcuno ha individuato fino a 52 canti
possibili. Se così fosse, il senso del titolo potrebbe non essere “Cantico sublime”, ma
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più semplicemente “Cantico somma di canti”. Si può ragionevolmente sostenere una
diversa traduzione del titolo del Cantico? “Cantico” non è un aggettivo, è un sostantivo,
come tale non è necessariamente assimilabile all’esempio che Ravasi, assieme a tutti i
commentatori, porta a sostegno della ipotesi unitaria: Santo dei Santi = Santissimo.
Anche gli altri esempi biblici portati a conferma appaiono poco risolutivi: schiavo degli
schiavi, capo dei capi (la C.E.I. ha “capo dei Leviti”), Dio degli Dei, cielo dei cieli,
bellezza delle bellezze, ornamento degli ornamenti. Anche vanità delle vanità , e
soprattutto esercito degli eserciti, che sarebbe un’immensa armata, sono poco
significativi. L’ultima spiegazione dice appunto che si tratta di una somma di corpi
armati, così come il Cantico sarebbe una somma di canti. “Cantico per eccellenza”,
“Cantico supremo e bellissimo”, a rigor di logica, potrebbe essere una forzatura.
Ravasi giudica possibile l’esistenza di un Ur-text arcaico, o anche di una serie di strati
preesistenti, con redazione finale al VI-V secolo a.C. Dice anche che il Cantico è più
inserito nella dimensione sapienziale piuttosto che in quella profetica. Vi ritrova i
caratteri di un canto erotico popolare dal linguaggio raffinato, prodotto di una
cosciente operazione stilistica. Ravasi è contrario a chi vede una silloge di canti diversi
e ne sostiene a spada tratta l’unità strutturale. Gli interventi redazionali sarebbero
però di entità tale da coincidere con un ruolo autoriale vero e proprio. Il codice
Sinaitico (400 d.C.) mostra il Cantico ordinato in forma dialogica.
Le più antiche testimonianze giudaiche sul Cantico si ritrovano nel Talmud e
risalgono al III sec d.C.:

Ezechia e i suoi compagni scrissero Isaia, i Proverbi, il Cantico dei cantici e


l’Ecclesiaste (Baba Bathra, 14 b e sg.).

C’è qui traccia di un intervento di tipo redazionale, in epoca pre-esilica, che potrebbe
avere dato al Cantico la forma attuale? Ezechia (716-687), re di Giuda, negli anni
antecedenti la distruzione del tempio e la deportazione a Babilonia, sviluppò una
intensa e decisa azione per ripristinare la purezza del culto tradizionale.

Abba Saul diceva: All’inizio affermavano che i Proverbi, il Cantico e l’Ecclesiaste non
erano canonici; poi dissero che erano soltanto scritti sapienziali e che non
appartenevano alle Scritture. Li hanno innalzati e abbassati finchè non vennero gli
uomini della Grande Sinagoga e li interpretarono (Pirqè Aboth di Rabbi Nathan).

Le sinagoghe sorsero durante la cattività babilonese (586-538 a.C.). La tradizione


talmudica mostra dunque incertezza circa tempi e modi della fissazione del Canone
delle Scritture e, secondo alcune teorie, il Canone sarebbe stato definitivamente fissato
al più tardi nel terzo secolo dell’era volgare.
Lo stato di incertezza che esisteva alla fine del primo secolo dell’era volgare (al
sinodo giudaico di Jamne) appare confermato dai passi seguenti:

Tutti gli Scritti Sacri rendono impure le mani. Rabbi Jeudah diceva: Il Cantico dei
cantici rende impure le mani, ma per l’Ecclesiaste c’è discussione. Rabbi Josè diceva:
L’Ecclesiaste non rende impure le mani, ma per il Cantico dei cantici c’è discussione.
Rabbi Shimon diceva: L’Ecclesiaste è una delle decisioni indulgenti della Scuola di

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Shammai ed una delle decisioni rigorose della Scuola di Hillel. Rabbi Simeon b. Azzai
diceva: Posseggo come tradizione [esposta] da settantadue Anziani nel giorno in cui
posero Eleazar b. Azariah a capo dell’Accademia che il Cantico dei cantici e l’Ecclesiaste
rendono impure le mani. Rabbi Aqiba diceva: Dio liberi! Nessun uomo in Israele
sostenne mai che il Cantico dei cantici non rende impure le mani, poiché il mondo
intero non era degno del giorno in cui esso venne dato a Israele. Tutte le Scritture sono
sante, ma il Cantico dei cantici è santissimo. Se qualche controversia ci fu, fu per
l’Ecclesiaste (Jadayim, III, 5). Rabbi Aqiba malediceva chi adibiva il Cantico ad un uso
profano [era cantato durante i banchetti o, come un epitalamio, fuori dalla camera
nuziale durante i matrimoni, Ndr.]. Rabbi Meir dichiarava: L’Ecclesiaste non rende
impure le mani e c’è discussione per il Cantico dei cantici. Rabbi Josè diceva: Il Cantico
dei cantici non rende impure le mani e c’è discussione per l’Ecclesiaste (Meghillah, 7 a).

L’affermazione di Rabbi Aqiba che il posto del Cantico dei cantici nel Canone non fu
mai discusso non è confermata dall’esame del Talmud. Si trattava di stabilire se i libri
in questione erano di ispirazione divina o profani. Per il Cantico dei cantici si trattava
di stabilire se era solo un idillio amoroso oppure una allegoria dei rapporti fra Dio e
Israele. Prevalse quest’ultima veduta:

Il Cantico dei Cantici rende impure le mani perché fu detto dallo Spirito Santo.
L’Ecclesiaste non rende impure le mani perché è la saggezza [personale] di Salomone
(Tosifta Jad., II, 14).

La decisione finale fu:

Lo Spirito santo splendette su Salomone ed egli compose tre libri: i Proverbi, il Cantico
dei cantici e l’Ecclesiaste (Cant. Rabbah., I,1).

Fu dunque il sinodo giudaico di Jamne del 90 d.C. che inserì il libro nel corpus degli
Scritti avallandone la canonicità e l’ispirazione, dopo una lunga discussione sul senso
ultimo del testo, sfociata nell’interpretazione completamente allegorica del suo
contenuto. Interpretazioni allegoriche del Cantico dovevano essere già da tempo in
circolazione e c’era il contemporaneo uso del Cantico all’interno dei matrimoni e nella
liturgia pasquale. Gli ebrei scartavano dal Canone i testi che non erano attribuiti a
personaggi famosi. C’è chi considera Jamne un intervento pastorale della Sinagoga in
funzione anti-cristiana, al fine di impedire che fossero accolti dalle comunità giudaiche
degli Scritti provenienti e avallati da ambienti cristiani. C’è infine chi pensa che un
Canone ebraico fosse già definito in epoca Maccabaica (173 a.C. - 141 d.C.).
Il Cantico riceve nel giudaismo una ufficiale rilettura teologico-allegorica e diventa la
celebrazione dell’alleanza nuziale fra Jahweh e il popolo d’Israele. I temi del Cantico (il
matrimonio, la donna, la bellezza femminile) sono stati trattati anche dai Profeti (Osea,
Isaia, Ezechiele, Geremia) con la funzione di discorsi allegorici introduttivi alla
celebrazione di un mistico amore nuziale tra Dio (lo sposo) e il popolo di Israele (la
sposa). Anche se il discorso allegorico, del tutto scoperto nei libri profetici, è nel
11
Cantico sicuramente più problematico, il poemetto, così letterariamente sorprendente,
ha finito col diventare la bandiera di questo tipo di operazione. Le descrizioni degli
incontri nella natura rigogliosa richiamano il “Gan Eden”, il paradiso ebraico, e questo
può avere influenzato il parere dei rabbini. ll Cantico fu inserito nei Ketubin (gli Scritti,
testi agiografi), ed è uno dei cinque “Rotoli” che contengono i testi proclamati nelle
grandi feste ebraiche: Cantico/Pasqua, Rut/Pentecoste, Qohelet
(Ecclesiaste)/Capanne, Lamentazioni/Caduta di Gerusalemme, Ester/Purim.
Il profeta Osea (1-2), in una temperie religiosa non propriamente ortodossa, con la
storia di Gomer tratta un argomento che ci può ricordare il Cantico. In Ezechiele il
popolo e lo stato di Israele vengono raffigurati come una donna infedele che si offre ai
pagani nemici di Dio. In Isaia si ritrova sparso il frasario del Cantico. Anche se l’intento
allegorico, che nei Profeti è scoperto, si presenterebbe nel Cantico molto problematico,
sicuramente motivi e suggestioni che possono giustificare questa lettura esistono, e ci
si può effettivamente domandare che senso avrebbero, se il Cantico fosse
semplicemente un canto d’amore, un idillio pastorale alieno da preoccupazioni
religiose, tante notazioni che sembrano collegarsi a passi di altri scritti biblici. Pur non
essendo chiaro - su questo mi ripeterò - chi avrebbe copiato chi, vista l’incertezza sulla
data di composizione del Cantico, certamente questi riferimenti hanno contribuito a
determinare le convinzioni di chi ha voluto l’inserimento nel Canone.
A conclusione del punto di vista giudaico sul Cantico riporto il pensiero dello Sefer
ha-Zohar (Libro dello Splendore), testo rappresentativo della Cabbalà fatto risalire
alla prima metà del II sec. d.C. Se ne ricava un enfatico giudizio allegorico-storico e
anche teosofico:

Questo Cantico comprende tutta la Torah; comprende tutta l’opera della creazione;
comprende il mistero dei padri; comprende l’esilio in Egitto e il canto del mare;
comprende l’essenza del decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele
nel deserto, fino all’ingresso nella terra e alla costruzione del tempio; comprende
l’incoronazione del Santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio di
Israele fra le nazioni e la sua redenzione, comprende la resurrezione dei morti fino al
giorno che è Sabato del Signore.

Stesso approdo, forse con meno drammi, per i Padri della Chiesa. L’allegoria nuziale
fu fatta propria anche dal cristianesimo che nei due innamorati vide Cristo e la chiesa
(“senso spirituale”) e nelle vicende del Cantico lesse l’unione mistica dell’anima con
Dio (“senso mistico”). L’immagine dolce del Cristo si contrappose a quella di una
divinità gelosa e vendicativa. Molto citato nella liturgia della chiesa primitiva, il Cantico
era la rappresentazione dell’iniziato al cristianesimo e il battesimo era visto come
esperienza nuziale. Anche la Chiesa accredita a Salomone tre libri: Proverbi,
Ecclesiaste, Cantico. Per Ricciotti “la luce allegorica che avvolgeva il Cantico ab
immemorabili senza che si vedesse il faro che la proiettava fu attribuita al faro più
celebre e popolare, Salomone”. Il Cantico non figura fra i testi dell’A.T. citati all’interno
del N.T. Forse rimandi allusivi in Paolo (Efes. 5,21-33). Eusebio, nella Historia
Ecclesiastica (III° secolo), dice che il Cantico è già nel canone dell’A.T.
12
Ippolito (II sec.), che a Roma si contrappone a Callisto papa, è l’autore del primo
commento cristiano al Cantico. La base interpretativa è quella giudaica. Importante
per Ippolito il tema degli unguenti e dei profumi, collegati alla resurrezione di Lazzaro
e a quella di Cristo. “Aroma” è la presenza di Dio nella storia. Cerca corrispondenze
nelle scritture. Per Ippolito la figura femminile del Cantico è l’anima credente.
Origene ha composto il suo commento al Cantico, considerato il suo capolavoro, a
partire dal 240 d.C. Opera della maturità in 10 libri, solo 4 pervenuti. Origene dice che
il Cantico è concepito come un drama in forma dialogica. E’ un canto nuziale con
quattro personaggi. Due individuali, altri due con una dimensione collettiva. Si sforza
anche di individuare chi parla. Il Cantico per lui è una storia allegorica perché non ci
sono fatti storici narrati. Sviluppa la scienza contemplativa, instilla nell’animo l’amore
della realtà celeste, e insegna che per la via dell’amore umano si deve arrivare
all’Amore con Dio. Il Mistero non è qualcosa che trascende il sensibile, ma qualcosa
presente nella storia dell’uomo. Qualcosa che deve essere visto. Chi nella chiesa lo
critica lo considera caposcuola di una esegesi allegorica che imprigionerà la Bibbia, con
letture spiritualizzanti, barocche e incomplete, in una linea platonizzante che farebbe
smarrire il realismo dell’incarnazione del figlio di Dio.
Fuori dal coro, Teodoro di Mopsuestia, maestro di Nestorio, sostenne che il Cantico
fosse un epitalamio nuziale scritto da Salomone con intento apologetico per difendere
la sua decisione di sposare la figlia del Faraone, una negroide. Teodoro fu condannato
dal concilio di Costantinopoli (553 d.C.), per avere interpretato il Cantico “con
un’incredibile ed eccessiva audacia, libidinosamente secondo il meretricio della sua
mente e della sua lingua”.
Agostino stabilisce una regola importante:

Tutto ciò che nella parola di Dio non può riferirsi in senso proprio, né alla onestà dei
costumi, né alla verità della fede, è detto - sia ben chiaro - in senso figurato.

Va da sé che questo discorso diventa accettabile solo a partire dal riconoscimento di


una parola divina che ci sarebbe stata elargita, e che ovviamente non sarà mai
insignificante.
Il Cantico è stato poi sostanzialmente rimosso dalla liturgia cristiana. Scarsissima
presenza nel rito del matrimonio. E’ presente, ma in modo significativo, solo in ambito
monastico (Lezionario, Rito della consacrazione delle Vergini).

Una breve rassegna di alcune opzioni significative mostra la grande varietà di


posizioni fra gli studiosi. I commenti giudaici hanno tenuto in grande considerazione il
testo letterale e considerano il Cantico una rappresentazione drammatica con rimando
a un avvenimento biblico: il rifiuto della corte fattale da Salomone da parte di Abisag,
la Sulammita (1 Re 1,1-2; 2,13-15), per restare fedele al suo ragazzo campagnolo. Per
Rashi (1040-1105), commentatore giudeo medievale, il Cantico non ha un solo senso.
Incerti ruoli e personaggi. E’ la storia in senso salvifico di Israele. Sua valenza profetica.
La donna è la “vedova di un marito vivente”. I due si cercano.

13
Abrabanel (1437-1508), ebreo espulso dalla Spagna, sosteneva che il Cantico è la
storia del rapporto fra Dio e la Sapienza. Non il popolo eletto, ma la Sapienza divina,
figura femminile presente in tutte le culture religiose antiche. A questo proposito il
mio pensiero va alla storia del Sabato e della Sekinah, la parte femminile della divinità
in ambito cabbalistico: il venerdì sera avviene l’incontro fra la Sposa divina, la Sekinah,
e lo Sposo. Nello Shabbat Cielo e terra si incontrano, la Regina viene ad incontrare il Re
del Cielo, fino al crepuscolo del giorno successivo. Nel Cantico, lo si vedrà , si insiste
molto, con varie repliche, sulla necessità della permanenza dell’uomo presso la sua
amata fino allo spirare del giorno, e allo sparire delle ombre. Mi sembra un riferimento
al Cantico di un tratto ebraico-rituale di suggestiva rilevanza, e non lo vedo
menzionato.
Jacobi (XVIII sec.) interpretava la vicenda del Cantico come la storia della pastorella
desiderata da Salomone, che riesce a convincerlo a lasciarla andare dal suo fidanzato-
pastore. Anche Bloch accantona l’ipotesi allegorica e sostiene che il contesto generale
del Cantico - i riferimenti costanti ai dati biblici, la drammatizzazione e la
reintegrazione di eventi e aspirazioni dell’epoca successiva a Neemia - lo colloca
nell’alveo di alcuni generi tipici della Bibbia: la profezia e la sapienza. Potrebbe allora
trattarsi di un midrash, una libera rielaborazione di taglio narrativo di un testo, di un
motivo, di un’idea tratta dalla Sacra Scrittura. Anche per Lys il Cantico è un commento
di carattere sapienziale, un midrash da Genesi 2-3. Forse addirittura un ribaltamento
del racconto della cacciata. Radicalmente diversa l’immagine della donna, punita e
sottomessa nel Pentateuco e paritaria e trionfante nel Cantico. Il Paradiso è stato
riconquistato? Winandy rifiuta il riferimento nuziale. Per lui il Cantico è un inno che
esalta l’amore umano come valore positivo di origine divina. La grande ricchezza di
forme poetiche riscontrate da Krinetzki lo porta a pensare che si sia voluto perseguire
un “racconto”. Della natura di dramma dialogato si è dichiarato convinto anche Ernest
Renan.
Garbini vi vede uno scritto ispirato dalla lirica amorosa greca (in particolare Teocrito
con i suoi Idilli), in dichiarata polemica con la letteratura biblica di intonazione
sapienziale. Per Garbini il Cantico è più recente e risale al I secolo a.C. Il tono erotico
sarebbe stato poi attenuato agendo sulle parole e sugli accenti. Avrebbe origine da una
serie di epigrammi. L’autore sarebbe un ebreo ellenizzato. Garbini crede che le
protagoniste del Cantico siano tre: la Sposa, la Giovane disinibita, la Prostituta. In molti
comunque hanno parlato di un amore fra umili sudditi del re, che lottano per
allontanare le pretese del re sulla donna (Renan, Cicognani, ecc.). Bonora (religioso
francescano) giudica il Cantico, sulla scia di Krinetzki, “una risposta polemica della
fede ebraica alle tendenze platonico-ellenistiche che andavano diffondendosi in
Palestina, specie nella forma della filosofia popolare ellenistica, per cui il III sec. a.C.
potrebbe costituire il periodo della redazione finale del libro”ii.

Esistono versioni diverse del Cantico che hanno tenuto banco nel corso dei secoli e
molte traduzioni ad hoc. Ravasi, per il suo libro sul Cantico, ha tradotto il testo
masoretico, testo giudaico ufficiale. Altrettanto ha fatto, credo, Ceronetti iii. Il testo qui
proposto è quello ufficiale della C.E.I.iv Viste le difformità di interpretazione, comunque
14
riscontrabili qualunque scelta si ritenesse di fare (anche, ovviamente, ove si scegliesse
la Vulgata latina), preferisco restare sulla traduzione oggi più conosciuta e diffusa e
che può forse consentire un più largo riscontro emotivo. Se c’era qualcosa da
commentare al testo C.E.I. credo di averlo fatto ogni volta che l’abbia ritenuto utile o
necessario.
Ho accompagnato alle mie considerazioni la menzione di passi estratti dalle Scritture
(in particolare dai Profeti) che sembrano riecheggiati nel Cantico. Ma va pur detto che,
considerando la possibilità di una datazione ben più alta del Cantico rispetto ai Profeti
(VII-VI sec.) si potrebbe ragionevolmente ipotizzare che possano essere stati i libri
profetici a prendere degli spunti dal Cantico stesso. Il che allora ci dovrebbe far
pensare che il Cantico fosse già ben addentro alla cultura e alla sensibilità ebraica del
tempo fra pre e post-esilio.

_______________

Dopo il titolo un inizio strano, con dieci stichi che ci mostrano la donna del Cantico in
preda a una grande agitazione. La scena non è quella agreste che diventerà consueta e
c’è un re, gran baciatore superprofumato, che attira le giovani. I baci al verso 2 non
tirano in ballo un’altra persona, come potrebbe sembrare: il salto dalla terza (“… sua
bocca”) alla seconda persona (“… le tue tenerezze”) è un vezzo stilistico ben
documentato nella poesia semitica e frequente anche nella Bibbia e ha solo il
significato di un auspicio: “che egli mi baci!”. Lei parla con con entusiasmo a nome
delle giovani e aspira ad essere introdotta dal re nelle “segrete stanze” a gioire. C’è un
sapore di “festa elegante”. Non direi che si ritrovino qui i segni dell’amore. Un
quadretto sui generis, uno sguardo, un lampo anticipatore, gettato a quella realtà
parallela che accompagnerà la vicenda dei due pastori dall’inizio alla fine e che non si
saprà giustificare né comprendere. Il testo C.E.I. lo definisce “Preludio”.

1 1Cantico dei cantici,


che è di Salomone.
2
Mi baci con i baci della sua bocca!
Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino.
3
Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi,
profumo olezzante è il tuo nome,
per questo le giovinette ti amano.
4
Attirami dietro a te, corriamo!
M’introduca il re nelle sue stanze:
gioiremo e ci rallegreremo con te,
ricorderemo le tue tenerezze più del vino.
A ragione ti amano! (1,1-4)

15
La luce si accende al verso 5, quando la donna del Cantico si presenta e si confessa
alle donne del coro testimoni degli avvenimenti. Queste figlie di Gerusalemme, che
sembrano avere caratteri socialmente elevati, la consigliano con benevolenza. E’ la luce
accecante del sole di mezzogiorno a illuminare quello che è forse lo squarcio più bello
di tutto il poema. Fiera e indipendente, lei è una giovanissima pastorella innamorata
che vuole incontrare il suo uomo. E’ lontana da casa, sudata e confusa, con le sue
caprette smarrite. Teme di essere vista e malgiudicata, ma non può fare diversamente.
E’ in difficoltà . Con le ragazze del coro ha un rapporto di complicità (potrebbero essere
le stesse con le quali folleggiava a palazzo?). Parla liberamente di un suo amore che le
crea tanti problemi. Se c’è un re, è qualcosa a parte, un potere che sovrasta, a cui non ci
si può sottrarre. Rivendica la sua bellezza al momento un po’ malridotta, accenna a una
situazione familiare pesante. Sotto un sole che brucia, le cicale che assordano, il calore
che vela le immagini lontane. La scena è bella, potente, ricca di suggestione. Lei è
stupenda nella sua ostinazione. Il paragone con le tende dei beduini richiama un
mondo lontanissimo da quello che era stato presentato all’inizio: stanze regali,
profumi, vino.
Geremia: “Fino a quando andrai vagando, figlia ribelle? / Poiché il Signore crea una
cosa nuova sulla terra: / la donna cingerà l’uomo! 31,22”; “Io ti avevo piantato come
vigna scelta, / tutta di vitigni genuini; / ora come mai ti sei mutata / in tralci degeneri
di vigna bastarda (2,21)”; “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza /
dell’amore al tempo del tuo fidanzamento / quando mi seguivi nel deserto, in una terra
non seminata (2,2)”; “Tutti i tuoi pastori (22,22)”.
5
Bruna sono, ma bella,
o figlie di Gerusalemme,
come le tende di Kedar,
come i padiglioni di Salma.
6
Non state a guardare che sono bruna,
perché mi ha abbronzato il sole.
I figli di mia madre si sono sdegnati con me:
mi hanno messa a guardia delle vigne;
la mia vigna, la mia, non l’ho custodita.
7
Dimmi, o amore dell’anima mia,
dove vai a pascolare il gregge,
dove lo fai riposare al meriggio,
perché io non sia come vagabonda
dietro i greggi dei tuoi compagni.
8
Se non lo sai, o bellissima tra le donne,
segui le orme del gregge
e mena a pascolare le tue caprette
presso le dimore dei pastori. (1,5-8)

I due amanti del Cantico sono ora assieme. Dopo degli apprezzamenti da parte
dell’uomo non propriamente regali (la paragona alla cavalla del cocchio del faraone)
lei accenna al re: “Mentre il re è nel suo recinto”, poi si dedica a chi gli sta accanto.
16
Sottili giochi dei traduttori possono indurre in confusione. Il testo C.E.I. dice appunto
“recinto”, Ravasi traduce “suo divano”, la Vulgata latina “in accubitu suo”. Dove si trova
il re? Ma sarà poi un vero re, o è solo un modo per dare importanza al bel pastore tanto
amato? Ravasi dice che il re può essere il giovane pastore, re per la sua donna.
Salomone non esiste, è solo “cifra” dell’innamorato. Un simbolo. Da come si svolge la
scena sembrerebbe però che il re (e allora sarebbe un vero re, un vero Salomone) sia
fuori dalla vista: che si trovi in un suo “recinto” a parte (così la C.E.I.), o su un suo
divano. La Vulgata lo dice sdraiato a un banchetto. La donna del Cantico dice
chiaramente che il suo diletto riposa sul suo petto, come il suo sacchetto di mirra
odorosa. Mentre qualcuno (il re) è nel suo recinto o a pranzo, o sul suo divano, il
pastore è abbracciato strettamente a lei. E il loro letto è un giaciglio nella natura, in un
bosco di cedri e cipressi. Questo è, stando a quanto ci è dato di vedere. Si
materializzano, il che è diverso da una semplice suggestione, due personaggi maschili.
Tanti li hanno voluti vedere, altrettanti (tra cui Ravasi) li hanno negati con decisione.
Se le parole hanno un senso: “mentre il re è nel suo recinto.. il mio diletto.. riposa sul
mio petto (C.E.I.)”, “Mentre il re è sul suo divano.. il mio amato è per me un sacchetto di
mirra che pernotta tra i miei seni (Ravasi)”, “Dum esset rex in accubitu suo.. delectus
meus mihi, inter ubera mea commorabitur” (Vulgata), dimostrerebbero che nel Cantico
c’è un re, e c’è un pastore, e non se ne parla in canti diversi, che potrebbero poi essere
stati assemblati posteriormente, ma all’interno dello stesso ”brano”. Fanno parte
entrambi della “storia” del Cantico, una storia che ha sempre faticato ad emergere, a
farsi raccontare, e che pure ci occhieggia da quella lontananza. “Faremo per te
pendenti d’oro, con grani d’argento”, lui parla a nome di un gruppo? Si tratta, dice
Ravasi, di un “plurale corale, solenne, maestatico”, confermato subito dopo da “il re è
nel suo recinto”. Secondo Ravasi il re non c’è, è solo un modo per dire l’importanza
dell’uomo per la sua donna, alludere al fascino con cui l’ha stregata.
Ezechiele: “Sotto ogni albero verde e ogni quercia frondosa, dovunque hanno bruciato
profumi soavi ai loro idoli (6,13).
9
Alla cavalla del cocchio del faraone
io ti assomiglio, amica mia.
10
Belle sono le tue guance fra i pendenti,
il tuo collo fra i vezzi di perle.
11
Faremo per te pendenti d’oro,
con grani d’argento.
12
Mentre il re è nel suo recinto,
il mio nardo spande il suo profumo.
13
Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra,
riposa sul mio petto.
14
Il mio diletto è per me un grappolo di cipro
delle vigne di Engaddi.
15
Come sei bella, amica mia, come sei bella!
I tuoi occhi sono colombe.
16
Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!
Anche il nostro letto è verdeggiante.

17
Le travi della nostra casa sono i cedri,
17

nostro soffitto sono i cipresi. (1,9-17)

Complimenti reciproci molto intensi. Lui la porta in qualche luogo dove si beve e
dove forse si può stare nascosti e tranquilli. Lei è impegnata a ben figurare. Teme di
non essere all’altezza, di non reggere alla sua esuberanza. Chiede infine che sia lasciato
riposare, forse perché ne ha bisogno lei. Oppure al contrario è l’uomo a parlare. Su
questo punto non c’è unità di vedute. Mancano chiari riferimenti pronominali.
Personalmente ritengo, con Ravasi, che la richiesta provenga dalla donna, che già
aveva mostrato un rapporto di dialogante confidenza con le misteriose ragazze del
coro.
Osea: “Il Signore ama gli Israeliti ed essi si rivolgono ad altri dei e amano le schiacciate
d’uva (3,1)”.

2 1Io sono un narciso di Saron,


un giglio delle valli.
2
Come un giglio tra i cardi,
così la mia amata tra le fanciulle.
3
Come un melo tra gli alberi del bosco,
il mio diletto fra i giovani.
Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo
e dolce è il suo frutto al mio palato.
4
Mi ha introdotto nella cella del vino
e il suo vessillo su di me è amore.
5
Sostenetemi con focacce d’uva passa,
rinfrancatemi con pomi,
perché io sono malata d’amore
6
la sua sinistra è sotto il mio capo
e la sua destra mi abbraccia.
7
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
per le gazzelle o per le cerve dei campi:
non destate, non scuotete dal sonno l’amata,
finchè essa non lo voglia. (2,1-7)

Il rapporto si è consolidato. Il giovane ora si fa avanti, si avvicina alla casa della


ragazza. E’ primavera, la natura rigogliosa invita ad uscire. E’ tutto così chiaro nei versi
del Cantico che non ci sarebbe bisogno di spiegare nulla. Se ci si accontenta di quanto
si vede. Certo è sempre possibile vedere oltre. L’uomo non ha nome, si presenta
misteriosamente, immagine di potenza, di vigore quasi animalesco. Sangue ribollente.
Si leva una voce (da qualche stanza della casa) che chiede di unire il dilettevole
all’utile: “Già che ci siete, vedete di fare qualcosa contro quelle maledette volpi che ci
distruggono il vigneto!”. Si è discusso su quel “nostro muro”: è il muro dell’harem del
re? è la casa di famiglia della ragazza? è la casa della coppia? I versi conclusivi di
questo episodio sono tra i più discussi del Cantico. C’è chi trova in “prima del sorgere
del giorno torna da dove sei venuto”, il senso di una raccomandazione premurosa (c’è
18
allora un rischio incombente?). C’è chi (esponente di una corrente ermeneutica detta
“voluttuosa”) pensa che i monti di Beter, monti dei profumi, abbiano una qualche
relazione stretta con la donna e le sue bellezze più segrete. Sarebbe allora un invito a
restare anche per la notte. Anche Ravasi mostra di potere aderire a questa ipotesi.
Personalmente opterei per un invito a tornare sui suoi passi, dopo una bella giornata
passata in campagna. Forse la notte della ragazza appartiene a qualcun’altro…
La tradizione cristiana ha prestato grande attenzione al v. 8, in chiave cristologica.
Per Ippolito, primo commentatore cristiano del Cantico, la corsa dell’amato per monti
e colline è la rappresentazione dell’incarnazione: “Il Verbo è balzato dal cielo fino nel
corpo della Vergine”. Interpretazione ripresa da Origene e allargata: la “corsa”
dell’amato del Cantico diventa metafora della propagazione del messaggio cristiano
che supera i picchi della Legge e dei profeti.
Isaia: “e gli farà un fischio all’estremità della terra; / ed ecco verrà veloce e leggero
(5,26) “; “Chi è costui che viene da Edom, / da Bozra con le vesti tinte di rosso? / Costui
splendido nella sua veste / che avanza nella pienezza della sua forza (63,1)” ;
“Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme (51,17)”; “Svegliati, svegliati, rivestiti della tua
magnificenza, Sion / indossa le vesti più belle, Gerusalemme, città Santa (52,1)”;
“Alzati, rivestiti di luce / perché viene la tua luce (60,1)”
Geremia: “Salite sui suoi filari e distruggeteli, compite uno sterminio / strappatene i
tralci (5,10)”; ”Tu che abiti nelle caverne delle rocce (49,16)”

8
Una voce! Il mio diletto!
Eccolo, viene
Saltando per i monti,
balzando per le colline.
9
Somiglia il mio diletto a un capriolo
o ad un cerbiatto.
Eccolo, egli sta
dietro il nostro muro;
guarda dalla finestra,
spia attraverso le inferriate.
10
Ora parla il mio diletto e mi dice:
“Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!
11
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
12
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
13
Il fico ha messo i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia,
mia bella, e vieni!
14
O mia colomba, che stai nella fenditura della roccia,
nei nascondigli dei dirupi,

19
mostrami il tuo viso,
fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è soave,
il tuo viso è leggiadro”.
15
Prendeteci le volpi,
le volpi piccoline
che guastano le vigne,
perché le nostre vigne sono in fiore.
16
Il mio diletto è per me e io per lui.
Egli pascola il gregge fra i gigli
17
Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
ritorna, o mio diletto,
somigliante alla gazzella o al cerbiatto,
sopra i monti degli aromi. (2,8-17)

La notte è venuta, la donna nel suo letto ha pensato al giorno trascorso. Si è trovata
sola e ha desiderato tanto di essergli ancora vicino. Sogna? Sogna di uscire a cercarlo
nella città buia? Realizza il suo desiderio e lo completa con la speranza di poterlo avere
tutto per sé, per sempre.
Isaia: “Per amore di Gerusalemme, non mi darò pace (62,1)”; “Nessuno ti chiamerà più
Abbandonata […] / ma tu sarai chiamata Mio compiacimento / e la tua Terra,
Sposata, / perché il Signore si compiacerà di te / e la tua terra avrà uno sposo. / Sì,
come una giovane sposa una vergine / così ti sposerà il tuo creatore; / come gioisce lo
sposo per la sposa, / così il tuo Dio gioisce per te. / Sulle tue mura Gerusalemme, ha
posto sentinelle; / per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai (62,4)”.

3 1Sul mio giaciglio, lungo la notte, ho cercato


l’amato del mio cuore;
l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
2
“Mi alzerò e farò il giro della città ;
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l’amato del mio cuore”.
L’ho cercato ma non l’ho trovato.
3
Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda:
“Avete visto l’amato del mio cuore?”
4
Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l’amato del mio cuore.
Lo strinsi fortemente e non lo lascerò
finché non l’avrò condotto in casa di mia madre,
nella stanza della mia genitrice.
5
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
per le gazzelle e per le cerve dei campi:
non destate, non scuotete dal sonno l’amata
finché essa non lo voglia. (3,1-5)
20
E’ un amore ancora agli inizi. Lui è “l’amato del mio cuore”, lo chiama così quattro
volte. Si ripropone di farlo suo definitivamente. Mentre gli amanti giacciono assieme lo
sguardo si sposta all’aperto e viene offerta la scena del passaggio del corteo (nuziale?)
di Salomone. Come si lega alla scena precedente? Il seguito (del sogno?) è l’apertura di
una pagina smagliante nata dalla voglia di nozze? La madre della ragazza richiama la
madre di Salomone? Il brano della lettiga di Salomone viene considerato un pezzo di
bravura, dai chiari riferimenti biblici (vedi Davide nel libro di Samuele), forse anche un
inserimento redazionale posteriore. Qualcosa che sostanzialmente non c’entra, che si
sarebbe appiccicato al Cantico. Rinunciataria anche la spiegazione di Ravasi, che lascia
molto spazio alla teoria di un inserimento “esterno”. Ma un Salomone è presente in
modo organico nel poema, nel nome di Salomone il Cantico si chiude. La sua figura
viene usata dall’autore per dare risalto e concretezza alla sua tesi, che vuole esaltare
l’amore umano puro, disinteressato e assoluto. Per l’oscuro autore del Cantico
Salomone ha rappresentato il potere, la lusinga, il dilemma, il banco di prova. E’ un
elemento imprescindibile della vicenda. Allora c’è un racconto?
Geremia: “Ecco, egli sale come nubi / e come turbine sono i suoi carri (4,13)”
1 Samuele: “Davide da quel luogo salì ad abitare nel deserto di Engaddi (24,1)”; “Allora
Davide disse ai suoi uomini: “Cingete tutti la spada! (25,13); “Sono stati per noi come
un muro di difesa di notte e di giorno (25,16)”
6
Che cos’è che sale dal deserto
come una colonna di fumo,
esalando profumo di mirra e d’incenso
e d’ogni polvere aromatica?
7
Ecco, la lettiga di Salomone:
sessanta prodi le stanno intorno,
tra i più valorosi d’Israele.
8
Tutti sanno maneggiare la spada,
sono esperti nella guerra;
ognuno porta la spada al fianco
contro i pericoli della notte.
9
Un baldacchino s’è fatto il re Salomone,
con legno del Libano.
10
Le sue colonne le ha fatte d’argento,
d’oro la sua spalliera;
il suo seggio di porpora,
il centro è un ricamo d’amore
delle fanciulle di Gerusalemme.
11
Uscite, figlie di Sion,
guardate il re Salomone
con la corona che gli pose sua madre,
nel giorno delle sue nozze,
nel giorno della gioia del suo cuore. (3,6-11)

21
Il Cantico prosegue con il lungo elogio della bellezza della donna da parte del
giovane. Solo apprezzamenti per la bellezza del corpo e la grazia del portamento.
Nessuna parola a rimarcare qualità morali, doti caratteriali. Pura ammirazione. Pura
bellezza. La descrizione dei seni guizzanti liberamente sotto il vestito e paragonati a
due cuccioli di gazzella per me è sempre stata tutto il Cantico. L’elogio è lungo e può
essere diviso in due parti. Dapprima lui le si rivolge con l’appellativo “amica mia” (apre
e chiude con queste parole) e la rassicura che partirà per i suoi monti odorosi prima
che venga la notte (la notte di lei non gli appartiene).

4 1Come sei bella, amica mia, come sei bella!


Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono come un gregge di capre,
che scendono dalle pendici del Galaad.
2
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,
che risalgono dal bagno;
tutte procedono appaiate,
e nessuna è senza compagna.
3
Come un nastro di porpora le tue labbra
e la tua bocca è soffusa di grazia;
come spicchio di melagrana la tua gota
attraverso il tuo velo.
4
Come la torre di Davide il tuo collo,
costruita a guisa di fortezza.
Mille scudi vi sono appesi,
tutte armature di prodi.
5
I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli.
6
Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
me ne andrò al monte della mirra
e alla collina dell’incenso.
7
Tutta bella tu sei, amica mia,
in te nessuna macchia. (4,1-7)

Il canto prosegue con toni molto più diretti, personali e intimi: si parla di afrori e
salive, frutti segreti, giardini da esplorare. La donna viene vista incombere dalle
montagne del Libano, con un accompagnamento di belve caratteristico di certe divinità
femminili mediorientali, Astarti fenicie, Signore degli animali. E soprattutto lei ora è
Kallah, la “sposa” (4,8 e 4,11), la “sorella mia, sposa” (4,9; 4,10; 4,12 e 5,1). Chiamata
così sei volte, ma solo in questo passaggio. La Bibbia ci dice che le donne straniere
furono la passione di Salomone e che la tolleranza da lui dimostrata verso i culti pagani
del suo harem ne contaminò la religiosità . Rimarcata la presenza dei soliti riferimenti
ambientali e geografici, spesso dai caratteri esotici, a puri fini evocativi e di musicalità
22
fonetica, va detto che il legame fra le due “serenate” contigue è incongruo, sfugge alla
comprensione logica e anche a quella artistica. Manca qualcosa? Lei vi fa
un’apparizione rapida (4,16), con un aperto invito a godere di quanto può offrire.
Colpisce quanto tutto sia fisico, naturale, sanamente e santamente animale. Che strano
uomo l’autore del Cantico! Usa gli strumenti letterari, sicuramente preziosi e rari al
momento in cui scriveva (X secolo o V che fosse), per disegnare campioni di umanità
fuori dal tempo, da ogni consesso riconoscibile, da ogni ragione. Puri corpi. C’è davvero
nostalgia dell’Eden, una riconquista del paradiso, la voglia di rivedere riuniti, nella
bellezza della natura pacificata, i due protagonisti degli inizi, quelli che un Dio severo,
qui mai nominato, aveva voluto punire con una cacciata dolorosa e irrimediabile?
Sarebbe un’altra allegoria, da aggiungere al mucchio o solo un sottile risvolto, qualcosa
di cui l’autore potrebbe non essersi reso conto? E in tutti quelli che sognano la libertà
del cuore, e braccia sempre aperte, c’è questo dispiacere, questa nostalgia infantile, la
voce di un sangue antico che è stato, ma dall’uomo, deviato, costretto, prosciugato? Lei
è una sposa vergine, un “giardino chiuso”. Potrebbe essere la pastorella? Ma lei aveva
già ceduto a lui. Sicuramente il Libano, da cui la donna sembra provenire, vi ha una
grande presenza. La consequenzialità di questo brano è sfuggente, le suggestioni
infinite.
Isaia: “Si scolora il Libano e intristisce; / la pianura di Saron è simile a una steppa /
brulli sono il Basan e il Carmelo (33,9)”.
Geremia: “Come Galaad eri per me, / come le vette del Libano (22,6)”; “Sali sul Libano e
grida / e sul Basan alza la voce (22,20)”; “Tu che dimori sul Libano (22,23)”.
Un bell’esempio di riferimento al Cantico dal commento rabbinico al libro dei Numeri
tratto dalla Misnah Rabbàh: “Nell’Al di là il Santo che benedetto sia, preparerà un
banchetto per i giusti nel Gan Eden e non vi sarà bisogno di provvedere aromi e
profumi, perché un vento di settentrione e un vento di mezzogiorno soffieranno e
circoleranno fra tutte le piante aromatiche del Gan Eden, caricandosi della loro
fragranza. E diranno gli israeliti dinanzi al Santo che benedetto sia: ‘Può un ospite
preparare un banchetto per dei viandanti senza sedersi a mensa con loro? Se tu vuoi,
“Venga il mio Amato nel Suo giardino, e ne mangi i Suoi frutti preziosi” (Cant. 4,16)’. Il
Santo che benedetto sia, risponderà loro: ‘Farò come desiderate’. Entrerà quindi nel
Suo giardino; come è scritto: “Sono entrato nel Mio giardino, sorella Mia, Mia sposa’
(ibid. 5,1)” (Num. R. XIII,2).
8
Vieni con me dal Libano, o sposa,
con me dal Libano, vieni!
Osserva dalla cima dell’Amana,
dalla cima del Senir e dell’ Ermon,
dalle tane dei leoni,
dai monti dei leopardi.
9
Tu mi hai rapito il cuore,
sorella mia, sposa,
tu mi hai rapito il cuore,
con un solo tuo sguardo,
con una perla della tua collana!
10
Quanto soavi sono le tue carezze,
23
sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino le tue carezze.
L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.
11
Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,
c’è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti
è come il profumo del Libano.
12
Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata.
13
I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo,
14
nardo e zafferano, cannella e cinnamomo
con ogni specie d’alberi da incenso,
mirra ed aloe
con tutti i migliori aromi.
15
Fontana che irrora i giardini,
pozzo d’acque vive
e ruscelli sgorganti dal Libano.
16
Levati, aquilone, e tu, austro, vieni,
soffia nel mio giardino,
si effondano i suoi aromi.
Venga il mio diletto nel suo giardino
E ne mangi i frutti squisiti.

5 1Sono venuto nel mio giardino,


sorella mia, sposa,
e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo;
mangio il mio favo e il mio miele,
bevo il mio vino e il mio latte.
Mangiate, amici, bevete;
inebriatevi, o cari. (4,8-16; 5,1)

Segue ora la scena ben nota dell’incertezza e del malinteso. L’uomo, uscito dal nulla
(da quali monti è disceso?), bussa di notte alla porta della donna.
Isaia: “Svegliati, svegliati, rivestiti di forza / o braccio del Signore (51,9)”; “Guardavi la
mano (57,8)

Io dormo,
2

ma il mio cuore veglia.


Un rumore!
E’ il mio diletto che bussa:
“Aprimi, sorella mia,
mia amica, mia colomba, perfetta mia;
24
perché il mio capo è bagnato di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne”. (5,2)

Lui è venuto per restare, perchè tra loro ormai l’intimità si è consolidata. Ma
problemi possono sempre esserci. A volte c’è pigrizia. In fondo sono due persone,
divise, diverse. Se fosse un Dio a chiamare e lei, popolo confuso, anima derelitta, chiesa
sbandata non fosse pronta a seguirlo non si troverebbe in questa scena adeguata
allegorica rappresentazione? Va detto che questa spiegazione risolverebbe al meglio
quel tanto di perplessità che la vicenda può provocare nel lettore. Esigenze di
drammatizzazione, probabilmente, possono essere alla base della complessa
architettura del brano. Non affronto la questione del punto di vista della scuola
“voluttuosa”, che tanto vi è stata impegnata, trovandovi buon pane per i suoi denti
acuminati. Trovo che l’uscita della donna nella notte alla ricerca dell’amato costituisca
la base oggettiva all’immmaginario della “Notte oscura” di S. Giovanni della Croce.
Geremia: “Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato. /Le pareti del mio cuore! / Il
cuore mi batte forte; non riesco a tacere, / perché ho udito uno squillo di tromba
(4,19)”.
3
“Mi sono tolta la veste;
come indossarla ancora?
Mi sono lavata i piedi;
come ancora sporcarli?”.
4
Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio
e un fremito mi ha sconvolta.
5
Mi sono alzata per aprire al mio diletto
e le mie mani stillavano mirra,
fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello.
6
Ho aperto allora al mio diletto,
ma il mio diletto già se n’era andato,
era scomparso.
Io venni meno, per la sua scomparsa.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato,
l’ho chiamato, ma non m’ha risposto. (5,3-6)

La cosa finirà male:


7
Mi han trovato le guardie che perlustrano la città ;
mi han percosso, mi hanno ferito,
mi han tolto il mantello
le guardie delle mura. (5,7)

A un breve scambio con le ragazze del coro:


8
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se trovate il mio diletto,
25
che cosa gli racconterete?
Che sono malata d’amore!
9
Che ha il tuo diletto di diverso da un altro,
o tu, la più bella fra le donne?
Che ha il tuo diletto di diverso da un altro,
perché così ci scongiuri?( 5,8-9)

segue il prorompere del cuore: la lista delle bellezze del suo uomo da capo a piedi,
tutto il fuori e il dentro del suo corpo, della sua figura. Ancora nulla sulle qualità
morali. E’ buono? È generoso? È intelligente? È gentile? È un lavoratore? Ma dove vive
la ragazza? E’ una donna di corte che vive in un ambiente protetto, e dà importanza
solo alla bellezza, all’aspetto, al fascino? Ma non era una pastorella sudata e
tremebonda alla ricerca di un pastore fra i pastori? Si vuole forse sottolineare che
l’amore assoluto è indifferente a condizionamenti sociali, economici, direi umani di
qualsiasi genere. Non tiene conto di nulla. Vive solo di se stesso. È solo amore, e vive di
bellezza, solo di bellezza.
Lamentazioni: “I suoi giovani erano più splendenti della neve, / più candidi del latte; /
avevano il corpo più roseo dei coralli, / era zaffiro la loro figura (4,7)”.
10
Il mio diletto è bianco e vermiglio,
riconoscibile fra mille e mille.
11
Il suo capo è oro, oro puro,
i suoi ricci grappoli di palma, neri come il corvo.
12
I suoi occhi, come colombe
su ruscelli di acqua;
i suoi denti bagnati nel latte,
posti in un castone.
13
Le sue guance,
come aiuole di balsamo,
aiuole di erbe profumate;
le sue labbra sono gigli,
che stillano fluida mirra.
14
Le sue mani sono anelli d’oro,
incastonati di gemme di Tarsis.
Il suo petto è tutto d’avorio,
tempestato di zaffiri.
15
Le sue gambe, colonne di alabastro,
posate su basi d’oro puro.
Il suo aspetto è quello del Libano,
magnifico come i cedri.
16
Dolcezza è il suo palato;
egli è tutto delizie!
Questo è il mio diletto,
o figlie di Gerusalemme. (5,10-16)

6 1Dov’è andato il tuo diletto,


26
o bella fra le donne?
Dove si è recato il tuo diletto,
perché noi lo possiamo cercare con te?
2
Il mio diletto era sceso nel suo giardino
fra le aiuole del balsamo
a pascolare il gregge nei giardini
e a cogliere gigli.
3
Io sono per il mio diletto
e il mio diletto è per me;
egli pascola il gregge tra i gigli. (6,1-3)

Ora parla un re. Quello che segue non è linguaggio da pastore. Il pastore non ha mai
parlato così (considerare 4,8-16; 5,1). Lei è tornata “amica mia”, l’uomo la paragona a
Tirza, l’antica capitale del regno di Israele prima di Samaria (per Renan la menzione di
Tirza, decaduta in epoca post-esilica, è prova dell’antichità del testo originario). La
paragona a Gerusalemme, all’aria corrusca di un esercito schierato. Abbondano i
riferimenti biblici, ma sempre generici, puro sfondo. A volte letteralmente
incomprensibili. Le chiede di non guardarlo perché il suo sguardo lo turba. I suoi
capelli gli ricordano l’irruenza dei greggi di capre, i suoi denti sono bianchissimi e
perfetti, le sue guance hanno il colore delle melagrane. Lei è una forza della natura che
lo imbarazza. Le sue sessanta mogli, le ottanta concubine e le tante ragazze della sua
corte si scolorano davanti a lei. Tutto il suo mondo la loda, la vuole. Lui ne è preso,
sconvolto dal desiderio. Poco credibile la spiegazione di Ravasi che nega significato al
menzionato harem di Salomone. L’autore del Cantico vi torna sopra due volte nello
stesso brano. Questo non obbliga a ritenere il riferimento come un dato realistico?
Come non vedere lo svolgersi di una storia? C’è qualche incongruenza, il filo logico non
si dipana sempre con chiarezza, ma i legami fra le varie parti esistono, certi rimandi
sono inesorabili. Il testo sembra corroso dal fluire del tempo, l’acqua dei secoli ne ha
allargate le fenditure, ma ancora sussistono le zolle originarie. Divenute le tessere,
spesso intercambiabili, di un puzzle irreale raffazzonato alla meglio da ignoti
“redattori” a ricostruire un testo che ormai poteva acquisire senso, utilità e
autorevolezza solo scavandone improbabili e nascosti significati trascendenti.
Isaia: “In quel giorno si dirà : / la vigna deliziosa: cantate di lei! / Io, il Signore, ne sono
il guardiano, e ogni istante la irrigo: / per timore che venga danneggiata, / ne ho cura
notte e giorno (27,2)”.
4
Tu sei bella, amica mia, come Tirza,
leggiadra come Gerusalemme,
terribile come schiere a vessilli spiegati.
5
Distogli da me i tuoi occhi:
il loro sguardo mi turba.
Le tue chiome sono come un gregge di capre
che scendono dal Galaad.
6
I tuoi denti come un gregge di pecore
che risalgono dal bagno.
27
Tutte procedono appaiate
e nessuna è senza compagna.
7
Come spicchio di melagrana la tua gota,
attraverso il tuo velo.
8
Sessanta sono le regine,
ottanta le altre spose,
le fanciulle senza numero.
9
Ma unica è la mia colomba,
la mia perfetta,
ella è l’unica di sua madre,
la preferita della sua genitrice.
L’hanno vista le giovani
e l’hanno detta beata,
le regine e le altre spose
ne hanno intessute le lodi.
10
“Chi è costei che sorge come l’aurora,
bella come la luna,
fulgida come il sole,
terribile come schiere e vessilli spiegati?”
11
Nel giardino dei noci io sono sceso,
per vedere il verdeggiare della valle,
per vedere se la vite metteva germogli,
se fiorivano i melograni.
12
Non lo so,
ma il mio desiderio mi ha posto
sui carri di Ammi-nadib. (6,4-12)

Ancora un inserimento di carattere “palaziale”, messo in bocca a un ipotetico coro.


Manca un esplicito riferimento a Salomone, ma viene nominata la “Sulammita”, che
richiama la Abisag della quale si parla a più riprese nella Bibbia. Era una giovane
donna molto bella, originaria della città di Sunem/Sulam, che visse nella casa del re
Davide (il padre di Salomone), assistendolo, senza unirsi a lui, negli ultimi anni di vita
(1 Re 1,1-4). Salomone la rifiutò al fratello Adonia che la chiedeva in moglie, e poi,
toccato, ne prese pretesto per ucciderlo (1 Re 2,17-22). Nella sfrenata danzatrice è
ravvisabile la giovane pastorella dalla vita complicata? C’è anche un riferimento ad un
re che si sarebbe perdutamente innamorato di lei. Se il Cantico dei cantici non è
un’antologia di brani diversi unificati per il loro carattere amoroso e nuziale riesce
difficile non vedere gli elementi di un dramma o idillio pastorale che si voglia. Ancora
un elenco di bellezze, alcune molto intime, questa volta messe in bocca al coro dei
cortigiani.
Geremia: “Allora si allieterà la vergine alla danza; / i giovani e i vecchi gioiranno
(31,12)

7 1Volgiti, volgiti, Sulammita,


volgiti, volgiti:
28
vogliamo ammirarti.
Che ammirate nella Sulammita
durante la danza a due schiere?
2
Come son belli i tuoi piedi
nei sandali, figlia di principe!
Le curve dei tuoi fianchi sono come monili,
opera di mani d’artista.
3
Il tuo ombelico è una coppa rotonda
che non manca mai di vino drogato.
Il tuo ventre è un mucchio di grano,
circondato da gigli.
4
I tuoi seni come due cerbiatti,
gemelli di gazzella.
5
Il tuo collo come una torre d’avorio;
i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbon,
presso la porta di Bat-Rabbim;
il tuo naso come la torre del Libano
che fa la guardia verso Damasco.
6
Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo
E la chioma del tuo capo è come la porpora;
un re è stato preso dalle tue trecce. (7,1-6)

Gli elogi alla donna continuano senza interruzione nel testo C.E.I., passando dalla
voce fuori campo del solito coro, a quella di un lui in carne e ossa. L’identificazione con
il pastore ha qui certamente più senso. I suoi complimenti sono più fisici e sanguigni e i
raffronti sono con la rappresentanza più nobile del mondo vegetale: palme, vigne, meli.
7
Quanto sei bella e quanto sei graziosa,
o amore, figlia di delizie!
8
La tua statura rassomiglia a una palma
e i tuoli seni a grappoli.
9
Ho detto: “Salirò sulla palma,
coglierò i grappoli di datteri;
mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva
e il profumo del tuo respiro come di pomi”. (7,7-9)

Al pastore risponde la donna, ora nelle vesti di pastorella innamorata. Lo invita ad


uscire per una specie di viaggio alla scoperta dei dintorni. Sono previste delle soste
notturne nei villaggi. Ma ancora le cose non sono chiarite, e lei non può disporre a
piacimento del suo uomo. Il matrimonio è sfumato? E’ impossibile? Lei rimpiange di
non avere dei diritti fraterni sul suo uomo per poterlo accostare liberamente. Chiede di
essere ammaestrata nelle arti dell’amore, cosa che sembrava già avvenuta nelle
precedenti narrazioni. Ora il matrimonio appare ancora lontano, mettendo in crisi
quanto sembrava accertato in 6,4 e quanti cercano nel Cantico un testo con una trama
29
precisa e articolata. Ora sembrano avere ragione quelli che vedono nel Cantico
un’antologia di frammenti diversi, raccordati fra loro in forma molto blanda. Ravasi
mantiene la sua opzione di un testo “impressionistico” che punta all’insieme. “Quadri
in dialettica fra loro”. Ravasi nega ogni frammentarietà del Cantico e ogni schematicità .
Il Cantico ha una sua originale unità che non può essere compresa nei canoni rigidi di
una “storia”, me neppure affidata alla dispersione di una “antologia”.
Anche Ravasi nota che l’unione totale fra i due non è stata ancora raggiunta, e vede il
Cantico “affine a una partitura musicale i cui fraseggi sono sapientemente ma
liberamente distribuiti in una trama di corsi e di ricorsi, di riprese, di variazioni, di
contrappunti, di citazioni”. La continuità è però confermata dal solito ritornello, che
alcuni mettono in bocca all’uomo, mentre a me sembra più giusto vedervi, come al
solito, la conclusione del discorso della donna del Cantico (come ha fatto Ravasi).
Sorprendenti le parole di Ravasi a commento di questa sezione: “La sposa del Cantico
offre se stessa, la meraviglia inebriante dei suoi baci, la dolcezza del suo viso,
l’intensità delle sue carezze, la realtà calda e fremente del suo corpo […] è necessario
riconsiderare il senso del corpo come parabola dell’esistenza, come grande simbolo di
comunicazione anche e soprattutto nella sua dimensione sessuale […] la fisicità
dell’amore è espressione di felicità , di vigore e dolcezza al tempo stesso, di energia
vitale che stordisce e soggioga, di ebbrezza che esalta, di intimità suprema”. Difficile
dirlo meglio.
Isaia: “Canterò per il mio diletto / il mio cantico d’amore per la sua vigna. / Il mio
diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle (5,1)”.
10
Il tuo palato è come vino squisito,
che scorre dritto verso il mio diletto
e fluisce sulle labbra e sui denti!
11
Io sono per il mio diletto
e la sua brama è verso di me.
12
Vieni, mio diletto,
andiamo nei campi,
passiamo la notte nei villaggi.
13
Di buon mattino andremo alle vigne;
vedremo se mette gemme la vite,
se sbocciano i fiori,
se fioriscono i melograni:
là ti darò le mie carezze!
14
Le mandragore mandano profumo;
alle nostre porte c’è ogni specie di frutti squisiti,
freschi e secchi;
mio diletto, li ho serbati per te.

8 1Oh se tu fossi un mio fratello,


allattato al seno di mia madre!
Trovandoti fuori ti potrei baciare
e nessuno potrebbe disprezzarmi.
2
Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;
30
m’insegneresti l’arte dell’amore.
Ti farei bere vino aromatico,
del succo del mio melograno.
3
La sua sinistra è sotto il mio capo
E la sua destra mi abbraccia.
4
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
non destate, non scuotete dal sonno l’amata,
finchè non lo voglia. (7,10-14; 8,1-4)

Siamo al finale, dove molti fili vengono tirati, e giudizi importanti sono emessi dalla
donna del Cantico: l’amore non si compera. C’è una specie di rendiconto che esprime
anche delle considerazioni morali, cosa che non era mai stata neppure sfiorata fin’ora.
Critica del matrimonio, dell’organizzazione sociale, della mancanza di libertà
individuale? Femminismo ante-litteram? “Io sono mia!”. Il Cantico si interroga
bruscamente, con un invito della donna al suo uomo, così come aveva già fatto in
precedenza, a raggiungere i monti da cui abitualmente discende, ma questa volta lo
invita a fuggirvi. E non si dice all’amore di fuggire, se non si ha in mente di sacrificarsi
per lui, oppure di raggiungerlo appena possibile. Forse è un lieto fine. Oppure si è
perso qualcosa, ma non è detto che un vero finale non avrebbe seguito queste linee.
Questa parte conclusiva del Cantico vede l’iniziativa della donna. Lei decide di
svegliare l’amato (così anche Ravasi), mentre la C.E.I. vede il risveglio della donna, e
Ravasi giustifica l’attribuzione con il motivo, tutto religioso, di consentire ragion
d’essere alle consuete allegorie: non potrebbe essere la donna, e cioè il popolo
d’Israele o la Chiesa o l’anima, a risvegliare un Dio addormentato e immemore. E’ un
fatto che vengono assieme dal deserto, luogo dei chiarimenti. Dobbiamo pensare al
mattino di un giorno decisivo.
Interessante, sulla base di 7,11, il confronto che anche Ravasi fa con Genesi 3,16:
“Verso tuo marito sartà il tuo desiderio, ma egli ti dominerà ”. Il Cantico invece esalta la
passione amorosa e la pulsione sessuale come pure e belle in sé. Quando c’è l’amore
non c’è dominio e il piacere è gioioso e giusto. Si può vedere qui forse il tema del
Cantico, ed è un tema che rivedrebbe in modo critico il testo biblico. Lei gli parla, gli si
consegna: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte
come la morte è l’amore …”. Non dice, come si finisce sempre per intendere, che
l’amore è più forte della morte, aprendo la strada alle tante banalità sulla
contrapposizione Eros-Thanatos, sull’amore che vince la morte, ecc. La donna dice
molto semplicemente e pragmaticamente che la vera misura dell’amore è la morte, che
la forza delle due realtà è la stessa, e che non c’è nulla, nel mondo dei vivi, forte come
l’amore. Anche Ravasi parla di vittoria dell’amore sulla morte. Non si vuole parlare di
morte in questo inno alla vita e alla gioia che è il Cantico. L’amore è invincibile e suscita
opposizioni e gelosie fortissime, delle quali occorre tenere conto; ma l’amore è
sentimento che, quando c’è, domina incontrastato i cuori. Inutile combatterlo,
ignorarlo, limitarlo. Il denaro non può comprare l’amore e nulla può vincere la sua
forza. Del resto che cosa significa dire che l’amore è più forte della morte? Nulla. La
morte purtroppo annulla tutto, anche l’amore più grande.

31
Lei ha finalmente deciso. E’ il pastore il suo uomo. Ora lo sveglierà , oppure lui
sveglierà lei. In fondo non è importante, c’è sempre qualcuno che si sveglia prima, ma
poi le decisioni possono essere comuni. Tutto molto semplice, in fondo, nel Cantico;
così semplice e ripetitivo che si è voluto vedervi dei significati nascosti. E anche troppo
bello e coinvolgente per non vedervi allusioni a cose ultraterrene. L’amore è una
fiamma divina, si dice nel Cantico, ma quale fiamma, se usata come metafora, non è
divina, bruciante? Quale fulmine del passato non lo era? L’autore del Cantico ha
cantato l’amore, con parole bellissime e immagini meravigliosamente suggestive.
Voleva dire quello che ha detto, solo quello che ha detto; esaltare l’amore, anche fisico,
senza ipocrisia e senza vergogna. Vi ha creato attorno un quadro smagliante di
suggestioni storiche e ambientali, per farvi vivere i suoi personaggi. Una storia scarna,
di grande resa espressiva, potente in alcuni snodi, sempre alla ricerca di immagini che
magnificano la passione, il sentimento umano dell’amore, la bellezza dei corpi.
Geremia: “Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, / come un muro di bronzo
contro tutto il paese (1,18)”
5
Chi è colei che sale dal deserto,
appoggiata al suo diletto?
Sotto il melo ti ho svegliata;
là , dove la tua genitrice ti partorì.
6
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la gelosia:
le sue vampe sono vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
7
Le grandi acque
non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze
della sua casa
in cambio dell’amore,
non ne avrebbe che dispregio.
8
Una sorella piccola abbiamo,
e ancora non ha seni.
Che faremo per la nostra sorella,
nel giorno in cui se ne parlerà ?
9
Se fosse un muro,
le costruiremmo sopra un recinto d’argento;
se fosse una porta,
la rafforzeremmo con tavole di cedro.
10
Io sono un muro
e i miei seni sono come torri!
Così sono ai suoi occhi
come colei che ha trovato pace!
11
Una vigna aveva Salomone in Baal-Amon;
32
egli affidò la vigna ai custodi;
ciascuno gli doveva portare come suo frutto
mille sicli d’argento.
12
La vigna mia, proprio mia,
mi sta davanti:
a te, Salomone, i mille sicli
e duecento per i custodi del suo frutto!
13
Tu che abiti nei giardini
- i compagni stanno in ascolto -
fammi sentire la tua voce.
14
“Fuggi, mio diletto,
simile a gazzella
o ad un cerbiatto,
sopra i monti degli aromi”. (8,5-14)

Tutto questo è stato ritenuto troppo poco. Troppo ovvio e scontato. Lasciato a se
stesso al massimo poteva essere cosa da canti e riunioni conviviali. Doveva, quel vuoto
di fatti, di nomi, quell’astrattezza di sconvolgente modernità , nascondere per forza la
storia del popolo di Israele, i drammi delle varie rotture nel patto con Dio, la mistica
ricerca della divinità da parte dell’anima? Se l’autore del Cantico non fosse stato un
ebreo, il poema ci sarebbe stato tramandato per quello che era? E se fosse emerso
oggi? I tanto citati Osea, Isaia, Ezechiele e Geremia possono avere dato (o preso)
qualche parola al Cantico, ma si consentirà che lo spessore allegorico dei loro
riferimenti “nuziali” era palese. Sia pure dopo molte incertezze, nel 90 d.C. lo si è
inserito nel Canone degli scritti biblici. E’ stato attribuito a Salomone, in fondo l’unico
motivo offerto dal Cantico per dire che era un libro ispirato.
Se l’autore del Cantico avesse avuto l’intenzione di parlare dell’amore dei giovani
anche solo alludendo a temi religiosi di così vasto spessore come quelli che gli vengono
attribuiti, pur prescindendo da ogni divina ispirazione, non avrebbe concesso segnali
più evidenti? O proprio l’assenza di ogni apertura allegorica visibile ha provocato tanto
fermento interpretativo? Gli ebrei avrebbero anche potuto soprassedere - la loro
cultura sessuale, di tipo semitico, è più “naturale” di quella cristiana - ma il Cantico era
anche per loro troppo spinto, troppo erotico, perché potesse circolare, come circolava,
nella sua veste sboccata e contestataria? Non poteva essere cancellato perché troppo
bello e conosciuto, allora fu reinterpretato? La lettera poteva riguardare l’amore
umano, che è anche parte apprezzabilissima della creazione e ovviamente lo si
riconosce, ma il senso vero diventò patrimonio riservato a sacerdoti, rabbini, religiosi
autonominatisi esperti della parola di Dio, e la sua illustrazione fu così per secoli
campo d’azione di fanatici e chiacchieroni. Pazzi furiosi rabbini e preti convinti che il
Cantico, del quale non si conosce l’autore e neppure si ha ragionata certezza sulla data
della composizione, sia stato scritto sotto ispirazione divina.

__________________

33
Eros e misticismo

Con Ambrogio (333/339-397) il Cantico viene destinato al monachesimo e alla


verginità consacrata. Il Cantico diventa uno sfondo e Ambrogio vi vede riflessi i valori e
i sentimenti da assumere misticamente nella verginità e nel sacerdozio. I versi del
Cantico diventarono parole belle regalate a frati e monache per compensarli delle loro
perdite sentimentali. Le nozze con Cristo come privilegio riservato a chi ha scelto di
vivere senza amore terreno. Un bel diploma, una medaglia che gratificava animi
esacerbati. E’avvenuto proprio questo. Se non avessero avuto il Cantico cosa avrebbero
usato? Come avrebbero sublimato l’umana terrena natura? La sposa del Cantico
illustra bene l’atteggiamento che deve essere proprio delle vergini innamorate del
Cristo e solo a lui dedicate. Ne discendono le spose di Cristo dei monasteri di clausura.
La via è quella di una estatica sublimazione degli istinti. Quanto eros nella totale
rinuncia!: “Vergine è colei che ha diritto di sentire queste parole del Cantico: sei tutta
bella…Trovi colui che ha amato, lo trattenga, finchè non riceva le ferite d’amore...
sempre pronta vegli con tutta la forza del suo Spirito, perché mai il Verbo la trovi
addormentata… e lo segua mentre corre via, la tua fede esca e la tua anima esca dal
corpo e si unisca a Dio. Poni la tua parola come sigillo al suo cuore, che nelle tue opere
risplenda Cristo. Esci Gesù e accogli colei che ti si dona (De virginitate/Exortatio
virginitatis)… Dunque egli viene; e sia che tu mangi, sia che beva, se invochi Cristo, egli
viene dicendo: Venite, mangiate il mio pane e bevete il mio vino. Viene - ripeto -
frequentemente e introduce la sua mano attraverso la finestra, ma non sempre né
verso tutti, ma verso quell’anima che può dire: Di notte mi sono tolta la tunica. Infatti
in questa notte del mondo per prima cosa ti devi togliere la veste della vita corporea
(De virginitate)”.
Molti, una lunga scia, e tutti interessanti i testi sull’amore mistico scritti dalle
religiose nei secoli. Matilde di Magdeburgo (1212-1277), beghina renana (le beghine
erano donne devote, non claustrali, votate alla povertà , alla preghiera e alle opere
buone), ha lasciato traccia delle sue esperienze, raccolte poi da un sacerdote sotto il
titolo La luce fluente della divinità. In un racconto in prosa poetica descrive un mistico
“viaggio a corte dell’anima amante”, nel quale le si mostra Dio:

Questo è il viaggio a corte dell’anima amante, che senza Dio non può esistere […] “Sii la
benvenuta, cara colomba […] Hai il sapore di un grappolo d’uva, il profumo di un
balsamo […] O Dio, tu che riposi sul mio seno […] tu sei […] la delizia dei miei occhi, la
perdita di me stessa, la bufera del mio cuore, il disgregarsi e il venir meno della mia
essenza, il mio supremo rifugio. All’anima saggia amare senza conoscere pare una
tenebra. Conoscere senza godere, una pena infernale. Godere senza morire, un dolore
insopportabile […] Quanto più intimo è l’abbraccio, tanto più dolce è il gusto del bacio
sulla bocca….

Gesù le parla:

Non devi riporre il piacere del tuo cuore in nessun altro luogo che non sia il mio cuore
divino e il mio petto umano. Solo qui verrai consolata e baciata dal mio spirito […]
Quando avrai superato il travaglio del pentimento e la pena della confessione e la
34
sofferenza dell’espiazione e il piacere del mondo e la tentazione del diavolo e
l’intemperanza della carne […] allora sarai così stanca che dirai: “Bel giovane, ho
desiderio di te, dove posso trovarti?” […] Allora ella indossa la tunica della soave
umiltà ed è una tunica così modesta che sotto di sé non tollera nulla […] Così si avvia
nel bosco […] qui gli usignoli più dolci cantano, giorno e notte, l’armoniosa unione con
Dio […] Arriva il Giovane e le dice: “Fanciulla, dovete danzare con devozione…” […] “Se
vuoi ch’io saltelli, tu stesso dovrai cantare…” […] “Fanciulla, questa danza in mio onore
vi è riuscita bene. Esaudite il vostro desiderio con il figlio della Vergine […] venite a
mezzogiorno alla fonte ombrosa, nel giaciglio dell’amore. Là vi rinfrescherete con lui”.
La fanciulla risponde: “O Signore, è troppo che goda del tuo amore colei che in sé non
ha amore se non quello che tu risvegli […] Sono una sposa ormai, sono cresciuta.
Voglio andare dal mio amato” […] Così la dilettissima si reca dal bellissimo nella stanza
segreta dell’immacolata divinità ; là trova il giaciglio d’amore e la stanza d’amore, e Dio
pronto, il Dio che è anche uomo […] “Che cosa ordini, o Signore?”.- “Che voi vi
spogliate”.- “Signore, come posso fare?”.- “Signora Anima, voi siete così connaturata in
me che nulla può esserci fra voi e me […] Deponete perciò paura e vergogna di voi
stessa e tutte le virtù esteriori…” […] L’Anima: “Signore, ora sono un’anima nuda e tu,
in te stesso, un magnifico Dio” […] Lui si dona a lei, e lei si dona a lui… v

In Matilde c’è molto controllo, e anche un sottile gioco letterario; il ricorso ad


immagini tratte dal Cantico è continuo, ma l’approccio è personale e creativo, ed
esprime un trasporto emotivo che bene rappresenta, e certamente anche supera, la
visione ambrosiana della verginità consacrata.
Parole che bruciano anche queste di Margherita Porete (m. 1310), beghina belga:
“L’anima è così ardente nella fornace di fuoco d’Amore divino che essa stessa diviene
fuoco, sebbene non senta il fuoco perché è fuoco in se stessa per la forza dell’Amore
divino che l’ha trasformata in fuoco d’amore. Questo fuoco ormai esce da essa stessa e
brucia di sua forza in ogni luogo e in ogni momento senza consumare nessuna materia
né poterne consumare altra che ne provenga da se stesso” vi. Il passo è tratto dal suo
Specchio delle anime semplici e annichilate che le fruttò la morte sul rogo a Parigi.
Sfrenatamente appassionata fu Maria Maddalena De’ Pazzi (1566-1607), nobile
religiosa fiorentina: “La sua faccia era divenuta bella, e leggiadra a meraviglia: le sue
carni cotanto vermiglie, ed infiammate […] Una volta essendo pure in ratto, tolto un
Crocifisso in mano, si diede per lo convento a correre, e sfogando col Verbo divino
amorosi avvisi, e intensi affetti, esclamava. O Amore, o Amore, o Amore […] O Amore,
tu solo penetri e trapassi, spezzi, e leghi, reggi, e governi tutte le cose. Tu sei cielo,
terra, fuoco, ed aria, sangue, ed acqua. Tu sei Dio e huomo […] presa nelle sue braccia
quella divota immagine di Giesù , e spogliandola d’alcuni ornamenti disse: Ti voglio
nudo, o Giesù mio, poi che non ti potrei sostenere con le tue infinite virtù , e perfezioni.
Voglio la tua umanità nuda, nuda”vii. Nel 1504 il Cantico dei cantici era considerato
moralmente rischioso, come si può ricavare dal prologo ad una Expositione sopra la
cantica di Salomone, opera in volgare di Esaia da Este, canonico regolare lateranense, a
lui richiesta dalle canonichesse del Monastero di S. Tomaso di Vicenza: “… tutta la
sacratissima Bibia a questa basseza era reducta, e da le donnezuole fra le roche e fusi, fra
li mulinelli da filar la lana, ne le compagne de le vicine sì se cantava. Ne la quale etiamdio
la cantica se contene de la quale ne la superficie e nudo texto è molto periculosa, perché
35
a le mente che non hanno li sensi nel spirito exercitati, a legerla secondo sona, la
simplicitate loro più presto po’ representare imaginatione carnale che spirituale E per
questo modo la purità e munditia de la divina scriptura po’ essere convertita a libidinosi
incitamenti”viii.
Teresa d’Avila (1515-1582) scrive Pensieri sull’amore di Dio (o Pensieri sul Cantico
dei cantici), distrutto perchè ritenuto sconveniente. Sette capitoli (quattro capitoli sul
solo 1,2. “Mi baci coi baci della sua bocca”). Emerge la realtà di un vero passionale
amore per Gesù . Amore tormentato, che ha vergogna di sè perché riprovato. Amore
folle, perché senza concretezza. In Teresa passa la strada per capire la realtà
dell’amore divino. Lei non si preoccupa di fare bei versi, come Giovanni della Croce, lei
“dimostra” che cosa è l’amore folle per Gesù . Non si preoccupa di mascherare,
nemmeno di abbellire. Esprime con sincerità la passione di tutta se stessa, sicura di
poterlo fare, di essere abilitata a farlo, anche se capisce di essere criticata. Rivela
l’ipocrisia degli altri, quando dicono di amare Dio con parole che risultano vuote non
avendo la sua sostanza.
Troppo bello e appropriato per ignorarlo un lungo brano di Pietro Citati
sull’argomento, riportato da Ravasiix:

Senza dubbio, le donne prendono più alla lettera l’immagine dello sposo e della sposa,
discesa dal Cantico dei cantici; c’è in loro, forse, un’onda più soave e melodiosa di
dolcezza passiva; la cultura dei conventi femminili è meno ricca di quella dei conventi
maschili. Per le monache italiane, la mistica è un’esperienza fisica: una voce che sale
dal corpo. Cristo abbraccia tenerissimamente l’anima, come nessuna madre, figlio o
marito; e la divora con lo stesso furore. Cristo è una fonte di acque perenni che
percorrono l’universo: un oceano insondabile, una distillazione di liquidi, gocce di
latte, di sangue, di lacrime, che fluiscono, evaporano e tornano a fluire: ma è anche un
fuoco soave ed ardente, che a sua volta diventa acqua; e per imitarlo, la monaca si
infiamma come il fuoco e si liquefà come cera. Anche il rapporto tra l’anima e Cristo è
fisico: l’anima bacia il suo petto e la sua guancia, si distende sopra di lui, lo mangia, lo
beve, si sazia di lui, ne ispira l’alito, si unisce con lui, si lascia fecondare, attende di
generare, succhia il suo latte. Nulla è più erotico delle pagine di Osanna Andreasi dove
l’esperienza sensuale ha un gusto, un sapore e un profumo così intensi come di solito
l’esperienza sensuale non ha – e, al tempo stesso, essa viene innalzata di grado,
trasformata ln Eros celeste. Ma il vero senso mistico è l’odorato: il profumo, che è la
più profonda e concentrata delle rivelazioni sensibili, supera il mondo dei corpi,
perdendosi nell’aria come una essenza celeste. Cristo e le sue sofferenze sono il più
soave degli unguenti, il più squisito dei sacchetti di mirra, e l’anima innamorata
profuma come il suo signore.

L’orgia delle allegorie

Il commento al Cantico di Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), slegato da ogni


collegamento alla realtà oggettiva del testo, è solo l’utilizzo di mozziconi di frasi – puri
spezzoni - per ricamarci sopra, in totale libertà , opportunistiche considerazioni di
ordine

36
religioso, che si giustificano unicamente alla luce della preliminare identificazione di
Cristo e
dell’anima nei protagonisti del poemetto. Parole prese a prestito con stupefacente
superficialità . Sicuramente l’approccio tradizionale degli ecclesiastici al Cantico ha
poco di
esegetico e razionale. Partendo da consolidate visioni dogmatiche vi ha ricercato solo
strumentali conferme, che si amplificano oltremodo sul terreno della personale
facondia. Certamente sono avvenute incredibili forzature. Anche il cardinale Federico
Borromeo (1564-1631) volle lasciare un appunto sulla importanza del senso letterale
contro la nascita dei “misteri stiracchiati” x.
L’elencazione, necessariamente succinta e frazionata, da parte di Ravasi dei punti di
vista di “tutti” i commentatori non sempre rende loro giustizia e può essere poco
funzionale alla loro piena comprensione. Carenza certamente infinitamente più
evidente nei miei rapidissimi accenni. D’altra parte il suo è un lavorone. Tanto di
cappello. E Ravasi non nasconde mai il “suo” punto di vista.
Tagliente la sua critica all’orgia delle interpretazioni cosiddette “spirituali”: “Il testo
veniva considerato come un arcano geroglifico, le frasi altrettante sciarade da
decrittare; ogni parola perdeva consistenza in sé per diventare segno, per essere solo
funzione che rimanda ad altro […,] segnale interlocutorio per un discorso che si
snodava a livello superiore, su registri trascendenti e allegorici […] “dire altro” del
testo rispetto al senso primario […] l’altro prescinde dalla base di partenza, spesso
l’annienta nel suo valore semantico proprio xi […] Nel testo del Cantico non ci sono
appigli reali per far fiorire qualsiasi tipo di allegoria” xii.
Arriva a dire che l’interpretazione allegorica del Targum, che “corre sempre sopra il
testo” e non vuole farvi coincidere i singoli elementi di significato, è più delicata e
totalmente creativa rispetto a quella cristiana dei francesi Feuillet, Tournay e Robert
che hanno la pretesa di trovare sempre riflessi dal testo i loro segmenti di significato
allegoricoxiii. Ravasi ha usato parole dure, anche l’irrisione, per stigmatizzare certe
facilonerie.
Sulle posizioni ragionevoli di Ravasi anche Bonora: “Una lettura religiosa del Cantico
non ha bisogno di operare trasposizioni allegoriche, magari sottilmente artificiose e
sofisticate, oltreché discutibili. Il lettore credente sa che l’amore umano è una realtà
creata da Dio che è Amore. Il Cantico non parla mai di Dio, eccetto forse in 8,6 dove
šalhebetjah (“fiamma di Jah”) potrebbe essere inteso come un riferimento a
Jah(weh)”xiv.
Sul tema dell’assenza di Dio così Ravasi: “Rimane in tutta la sua sorprendente
stranezza la quasi totale assenza del divino nel Cantico”. Anche Ravasi, come Bonora,
vede la presenza di Dio nell’amore umano: “L’amore umano sessuale, disegnato nel
Cantico, è un aspetto cruciale e strategico della Creazione nel quale l’umanità è
coinvolta responsabilmente […] Il Cantico descrive il tentativo umano di portare a
termine, attraverso l’amore sessuale, una parte del mondo naturale e sociale creato da
Dio. E’ quindi nel contesto della Creazione, opera divina, che fiorisce l’amore, realtà
umana, seminata da Dio nell’atto creativo”xv.
Sicuramente appigli di varia natura che possono giustificare letture di tipo allegorico
del Cantico esistono. Che senso avrebbero, se il Cantico fosse semplicemente un canto
d’amore, un carme pastorale, riferimenti che sembrano collegarsi a passi di altri scritti
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biblici? Anche se i riferimenti a testi profetici degli anni a cavallo della crisi del regno
di Giuda, pur numerosi, non superano mai il carattere di semplici citazioni. E anche se
sembrerebbe più logico pensare che sia l’autore del Cantico (o l’oscuro e seriore
redattore) a riecheggiare testi profetici di maggiore autorità , vero è che l’incertezza
sulla cronologia del Cantico non consente di sviluppare a fondo questo discorso.

Il simbolo di Ravasi

L’opzione interpretativa di Ravasi, largamente dibattuta dall’autore - al di là


dell’interessamento, comprensibilmente obbligato, per l’universo allegorico, che viene
ampiamente illustrato - pone in primo piano, in alternativa all’allegoria, il “simbolo”: “Il
simbolo è di sua natura allusivo e non esplicativo e ha bisogno della realtà concreta di
partenza”. Simbolo non inteso nell’accezione popolare di vaga immagine, di metafora,
di traslato, ma nel suo significato specifico di “realtà concreta che in sé contiene anche
potenzialità semantiche ulteriori”. Il primato spetta comunque al senso letterale,
contro “le incontrollabili superfetazioni dell’allegoria”. L’interpretazione simbolica,
secondo Ravasi, armonizza il significato letterale del testo con quello spirituale: “Le
potenzialità teologiche del Cantico sono implicate ma non esplicate, diversamente da
quanto ritengono gli interpreti allegorizzanti, per i quali ogni dato della vicenda - anzi
ogni segmento - ha metaforicamente un altro valore, squisitamente teologico. Il
passaggio invece è solo globale e implicito: dall’amore all’Amore e viceversa” xvi.
Ravasi si accosta all’impostazione sapienziale, più incline a registrare il reale
lasciandovi balenare i significati ulteriori e trascendenti, ma conservando intatto il
dato, cioè il simbolo, “senza farlo ramificare esplicitamente verso direzioni diverse e
progressive”xvii.

Il significato di base del Cantico, che è simbolico e non allegorico, permette di lasciare
in armonia scrittura e lettura, testo in sé e tradizione, letteratura e teologia, senza
prevaricazioni di sorta […] Si tratta di un equilibrio delicato […] sua sorgente la
corretta interpretazione del testo “in sé”.xviii
Contro chi considera il testo come una gelida pietra preziosa da scrigno (l’esegesi
meramente filologica) e contro chi lo considera un caleidoscopio mutevole a piacere o
una Medusa dai mille, instabili volti, come vorrebbe la pura allegoria, ribadiremo il
nostro approccio “simbolico” che nell’ “altro” offerto dal testo non dimentica la base e
la radice da cui quell’ “altro” si espande.xix
Nell’unico, perfetto amore umano balena l’amore unico e infinito xx […] Diversamente
dal testo di Osea [la storia di Gomer, ndr.] non ne esplicita l’applicazione teologica,
lasciandola nascosta all’interno del valore simbolico dell’amore umano […] Il Cantico è
certamente celebrazione dell’amore nuziale nella sua pienezza ma è anche
affermazione di tutti i suoi valori referenziali […] Giunge di sua natura a dire il mistero
dell’amore che tende all’infinito ed esprime la realtà trascendente e divina […] suo
essere segno di infinito, di pienezza, di totalità . Piantato sulla terra, l’amore di sua
natura è sacro e si ramifica nei cieli. Non si tratta di una polisemia indotta
artificiosamente, come vorrebbe l’allegoria, o convenzionalmente, come vorrebbe la
tipologia, ma intrinseca e compatta con la realtà stessa. E’ per questo che il Cantico
“sboccia” e “fiorisce” teologicamente tra le mani di chi lo legge senza schemi o
38
riduzioni di visuale. Il simbolo “Amore” in sé parla di amore e di Amore, di corpo e di
anima, di limite e di pienezza […] sono significati trascendenti che non elidono la base
umana ma da essa fioriscono necessariamente. Là dove uomo e donna si amano in
modo puro e pieno si ha anche una teofania […] Certo l’ingresso del Cantico nel Canone
è avvenuto per influsso della teologia profetica che aveva esplicitato il simbolo nuziale
in metafora ben articolata dell’alleanza tra JHWH e Israele. Ma di per sé la santità del
Cantico era già intrinseca al suo essere perfetta celebrazione dell’Amore pieno e
supremo della coppia […] L’amore umano in sé (e non come esangue metafora) parla
di Dio; nella vita terrena chi ama conosce Dio e lo irradia. xxi
Una corretta concezione del simbolo permette di non spezzare questo equilibrio,
impoverendo il Cantico in una semplice lirica erotica, o trasfigurandolo in una larva
teologica. Il Cantico è carnale e teologico contemporaneamente, è nella storia dei due
innamorati che si possono inscrivere significati ulteriori. xxii
Il Cantico è esaltante per il suo ricco gioco verbale, nel quale sogno, desiderio e realtà
si intrecciano, per la forza dolce del suo eros e l’incantesimo della passione, per
l’esaltazione dell’amore e per l’allusività dei temi, risonanti di echi teologici.xxiii
Al centro del Cantico c’è innanzi tutto l’amore di due persone che esprimono con
naturalezza, semplicità e purezza il calore della loro intimità e della loro passione […]
L’amore è forse il simbolo supremo che riesce a raccogliere in sé significati molteplici
umani e trascendenti. Attorno a questo simbolo primordiale si concentrano altre
immagini […] rendendo così la superficie del Cantico un manto letterario tutto
cosparso di simboli.xxiv

Considerazioni sul simbolo

Ravasi, nell’intento di fare la maggiore chiarezza possibile, allarga la sua attenzione


anche all’edulcorato mondo della critica letteraria e filosofica più sofisticata, quella che
vuole superare i limiti di chi vedrebbe un testo antico alla stregua di un reperto
archeologico solo da ripulire e comprendere per quello che significava al suo tempo.
L’interpretazione allegorica del Cantico portata avanti in ambito religioso sarebbe
giustificata criticamente da questo tipo di ampliamento nella filosofia della “recezione”
del testo.
Dice Ravasi:

Il “metodo canonico” reagisce, perciò , all’esclusivismo testuale per cui ciò che interessa
è solo il testo preso nel suo stadio originario e nel suo senso autonomo e concluso […]
La nostra attenzione si deve spostare dalla sincronia dell’origine e della ricerca
dell’effetto primo verso la diacronia della trasmissione. L’interazione tra scrittura e
lettura è, infatti, stata ribadita con forza da H.G. Gadamer, da J. Habermas, ecc. Esigenza
non solo teologica ma globale, “l’estetica della recezione” consiste nel cogliere il senso
e la forma dell’opera letteraria così come sono compresi in modo evolutivo attraverso
la storia […] Il rischio è quello di privilegiare talmente il senso “costruito” ed elaborato
nel processo canonico e nella tradizione ecclesiale da spegnere il valore semantico
primitivo, giungendo così all’antipodo del metodo storico puro, che ignorava la
tradizione di lettura successiva per fermarsi solo sul testo e sulla sua formazione
antecedente. Si può trovare nel testo tutto e solo il senso postulato dal contesto
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canonico ed ecclesiale. Il significato “simbolico”, e non allegorico, permette di lasciare
in armonia scrittura e lettura, testo in sé e tradizione, letteraratura e teologia, senza
prevaricazione di sorta. Equilibrio delicato che richiede la corretta interpretazione del
testo in sé.xxv

La sua visione del testo come “realtà concreta che in sé contiene anche potenzialità
semantiche ulteriori” è dunque una posizione mediana, che tende a fare risaltare
l’opzione di tipo simbolico come l’unica in grado di esprimere obiettivamente le
potenzialità del Cantico. Riferito al Cantico, per definizione opera ermetica,
sembrerebbe un ragionamento convincente, ma dovrebbe essere sempre possibile per
qualsiasi testo. Io credo prosaicamente che il primo problema quando si esamina un
testo letterario, soprattutto nel caso dell’arcimisterioso Cantico dei cantici, sia capire
cosa volesse dire l’autore. Quale messaggio volesse trasmettere. Se il Cantico era un
poema sincero sull’amore, l’autore non si preoccupava di altri significati. Significati ed
effetti sull’animo del lettore potevano essere, e di fatto saranno stati, i più diversi ma
non richiedevano di essere identificati a priori dall’autore. Dipenderanno, come
avviene sempre, dalle varie sensibilità . Allora il simbolo caro a Ravasi, che lui cerca nel
testo, che si troverebbe nel testo, pronto a fiorire nelle mani del lettore, “la potenzialità
semantica ulteriore” come lui dice , non è pur sempre qualcosa che si aggiunge? Non è
“aggiunto”, non è “interpretato” anche il simbolo? Ammettendo per assurdo che il
simbolo sia qualcosa di oggettivamente presente in un testo, qualcosa che deve essere
scoperto, e non espressione soggettiva del lettore, non deve comunque essere sciolto,
interpretato, compreso? Nella linea voluttuosa o in quella teologica e spirituale poco
importa. Ogni lettore non troverà i simboli e le suggestioni che preferisce?
E’ qui, a mio parere, la debolezza dell’analisi di Ravasi, che, pur riconoscendo
l’assenza di Dio nel Cantico, fa di tutto per introdurvelo con la sua teoria della natura
“simbolica” del poema. Alla fine Ravasi tiene aperte tutte le porte di accesso
all’ermeneutica tradizionale. Mette giustamente al primo posto l’esaltazione del
sentimento d’amore, che mostra di apprezzare sopra ogni cosa, con parole caldissime,
ma non può non allargarsi alle tradizionali interpretazioni “allegoriche”. Stupisce solo
la netta chiusura verso i “naturali” tentativi di vedere una logica “letteraria” nel testo. Il
suo rifiuto pregiudiziale della spiegazione più economica rende il Cantico qualcosa di
astratto, e rende possibili, anche per Ravasi, tutta una serie di “voli” interpretativi
spesso stucchevoli e forzati. Il Cantico è pur sempre qualcosa di terreno, di reale, e a
questa sua ineliminabile natura occorre ritornare e restarvi attaccati. Certo sono
presenti i collegamenti biblici; e come non potrebbero? Non era forse un ebreo l’autore
del Cantico? Ma tutto il poema ruota attorno ad un disegno di carattere letterario
finalizzato a sorreggere una tesi intrisa di poesia e di umanità . Da definire - questi i
veri problemi del Cantico - solo natura e peso dei riferimenti salomonici, la datazione e
che tipo di ebreo fosse l’autore,
Ravasi si spinge più in dettaglio:

L’amore è la grande analogia per parlare di Dio xxvi […] L’amore umano nel Cantico si
apre ad essere il simbolo più eloquente e degno per parlare di Dio, senza per questo
stingere in un angelismo disincarnato. Non cessa di essere pienamente umano ma
assume una valenza mistica, tale da renderlo la migliore tavolozza per affrescare
40
l’amore di Dio. Il punto di partenza del Cantico è terrestre e umano ma è aperto
all’epifania del teologico e del mistico. Nell’amore umano autentico Dio è insediato ed
allora esso diviene il simbolo reale anche se talora appannato (cc. 3 e 5, [quelli
“notturni”]) dell’amore totale e infinito di Dio.xxvii

E’ qui ancora la debolezza del ragionamento di Ravasi. Quello che dice può avere
poco a che fare col Cantico, e Ravasi non lo direbbe se non fosse prete. Ovviamente può
essere detto, ma è, rimane, un ampliamento volontaristico e personale. E si evade da
quello che dovrebbe rimanere il primo punto da chiarire: l’autore del Cantico cosa
voleva dire? Su questa semplice ma fondamentale domanda occorre essere più chiari
di quanto sia disposto ad essere il Cardinale. Ma lui sembra ignorare questo scoglio. E’
vero che il Cantico si presta bene ad essere un testo con ampliamenti di significato, non
avendone sbandierati di suoi (finale a parte), ma questi ampliamenti non sono
comunque “tutti” arbitrari, volontaristici, soggettivi (quasi come le criticate allegorie)?
Alla fine Ravasi sembra ritenere, pur non condividendola, che anche
l’interpretazione metaforico-allegorica e spirituale del Cantico possa avere una sua
legittimità . Alla fine anche in lui l’interesse teologico e apologetico, pur dopo una
informata e onesta analisi complessiva, prevale. Ravasi è dichiaratamente avverso alle
interpretazioni allegoriche del Cantico ma non riesce a distaccarsene completamente, e
la sua opzione simbolica gli consente sempre di recuperare dalla finestra quanto ha
lasciato fuori dalla porta. A proposito dell’alcova sotto i cedri e i cipressi non può fare a
meno di richiamare, accreditando una volontà esplicita da parte del poeta in tal senso, i
cedri del Libano usati da Salomone per il tempio. Anche lui finisce sempre col trovare,
sembra con sua sorpresa, riferimenti biblici e teologici, vecchi e anche nuovi. E come si
potrebbero non trovare, in qualsiasi testo di qualsivoglia natura, riferimenti di tal tipo,
avendo a fronte un mare magnum di possibili agganci quale quello costituito dall’intera
Bibbia? L’autore è un ebreo, come avrebbe potuto non riecheggiare qualche aspetto
delle Scritture? E, dei cosiddetti riferimenti biblici, non può esserne ignorata nemmeno
la pochezza e la sostanziale insignificanza. Ma che cosa si direbbe se questo testo fosse
emerso al giorno d’oggi, e non fosse gravato da tutta quella storia?
Ravasi considera il taglio del Cantico di tipo “impressionistico”, e nega significato ai
riferimenti realistici di varia natura. Nel canto finale trova la “decifrazione” degli
pseudonimi di due personaggi del Cantico: Sulammita e Salomone. Sarebbero (v. 8,10)
due persone che hanno trovato “con l’altro” una vera “pace” (šalȏm). E il pastore e la
pastorella che cosa ne avrebbero ricavato?
Qui la “vaghezza” di Ravasi si manifesta in inconsistente verbosità :

La poesia di sua natura intuisce e accosta o contrasta scene, facendone risaltare


contiguità e dissonanze in modo allusivo o intenzionale, implicito o esplosivo. Lo
stesso concetto di “trama” o “intreccio” nella narrazione non è così pedestremente
consequenziale come si immaginano certi esegeti alla ricerca di un ordine logico nel
Cantico. In un certo senso si può dire che nel Cantico non si riesce mai a vedere quando
le nozze sono celebrate. Possesso e conquista sono continuamente in dialettica. L’anti-
climax dei vv. 8-14, dopo il vertice spirituale dei vv. 6-7, non fa che confermare questa
fluidità , che non è dispersione o casualità ma sapiente distribuzione delle sensazioni e
della molteplicità dei significati dell’evento “amore”xxviii […] Ora è l’invito a una fuga nel
41
mistero, nell’infinito dell’amore ed è in questo senso che si configura come una
paradossale conclusione “inconcludente”[…] con un invito alla fuga il Cantico finisce
come testo e si apre come “a capo” di un’esperienza e di una storia “in-finita”[…] E’ un
invito supremo a cercare, a lasciare quasi alle spalle il passato per incontrare, con la
festosa e tenera agilità del cervo, quell’amore che non è mai stato del tutto posseduto
definitivamente […] Esso, infatti, è sempre da inseguire, non è una cosa inerte, un
oggetto da tenere stretto tra le mani; è, invece, vita, libertà , spirito, felicità xxix […]
L’ultima realtà è l’intimità , la comunione non posseduta definitivamente ma da
conquistare all’infinito e sempre perché infinita ed eterna.xxx

Non condivido la sua spiegazione di “Fuggi!”. E’ inutilmente complicata e manca di


razionalità . Quel “Fuggi!” è sibilato dalla donna a suggello di uno dei momenti topici
ricorrenti (i refrains) che avevamo visto già due volte concludersi con parole sempre
diverse. Sono evidentemente diverse anche le situazioni: c’è un “Volgiti!” (2,17) rivolto
dalla donna all’uomo come spinta a ritornare sui monti vicini (che viene letto da Ravasi
anche come un possibile invito a stringersi a lei), c’è la volontà espressa dall’uomo “Me
ne andrò ”(4,6) di andare sui monti vicini (come di qualcuno che là si sente al sicuro),
c’è infine un drammatico “Fuggi!” (etimologicamente sicuro) come: “mettiti in salvo,
saltiamo dal ponte, Salomone non lo voglio!”. E’ un finale a sorpresa, ammesso che sia
questo il vero finale. C’è comunque una presa di decisione, anche pratica, c’è una
svolta. Allora c’è un racconto che si svolge! Tanti del resto quelli che hanno visto nel
Cantico una contrastata storia d’amore con lo sfondo di Salomone (Hazan, Giraudoux,
Guitton, Renan). Sicuramente il finale del Cantico, con il suo messaggio così forte,
significativo e dirompente, potrebbe racchiudere in sé il senso dell’opera.
La mia interpretazione non contraddice in nulla la visione di Ravasi ma, a volte, di
partito preso si può morire. Anche di nobile e lirico simbolismo. Non è la negazione
della visione ravasiana, ne è forse la conferma. L’amore trionfa. Non sarà vera fuga, ma
neppure perdita o rinvio, è solo l’inizio con l’accettazione dei rischi e delle difficoltà .
Poco motivata anche l’acribia di Ravasi nel volere negare ogni sostanza e funzionalità
al Salomone del Cantico, mentre il generico “re” che vi appare sarebbe solo un doppio
del pastore, che è re solo agli occhi della sua amata. Salomone e la Sulammita per
Ravasi solo a riecheggiare la parola “pace”. Sarebbe comunque così, vista la levità dei
riferimenti. E nulla cambia agli effetti della comprensione dei significati racchiusi nel
testo (significati veri, non simboli), se non si grida ai quattro venti che non si tratta del
vero Salomone, e neppure della famosa Sulammita della Bibbia. Vicende e personaggi
ne acquisiscono uno spessore maggiore, un potere di suggestione più grande, e credo
che questo fosse lo scopo dell’autore. Ravasi dice che fatti e personaggi del Cantico
sono altamente simbolici, e solo questo tipo di interpretazione è per lui importante e
giustificato. Non si capisce perché non voglia annettere importanza, e nemmeno
dignità , ad una visione più realistica di un “dramma” che si svolge con dei protagonisti
letterariamente costruiti. Ravasi pensa che solo una metafisica astrattezza possa
conciliarsi con la presenza dei tanto apprezzati risvolti simbolico-religiosi, ma
dimentica che il poema è di fatto opera umana. Mentre si lascia volentieri andare a
scoprirne tutti i significati religiosi possibili (sia pure sotto l’egida simbolica) restano
inevase le domande più importanti: cosa voleva dire chi ha scritto il Cantico? da cosa

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era mosso? cosa lo interessava veramente? Ravasi non vuole capire il Cantico per
quello che è.

Un ebreo sui generis incantato dalla vita

Stimolante giudizio di Ahmad Al-Alawi, fondatore della confraternita sufi Alawwiya,


morto nel 1934, citato in esergo al libro di Ceronetti: “Chi non considera che il
significato esteriore isolandolo dall’insieme è un materialista, chi non considera che il
significato interiore isolandolo dal resto è un falso mistico: ma chi unisce i due
significati è perfetto”. Bel discorso, se solo si potessero effettivamente condividere le
ragioni dei significati interiori. Quelli esteriori possiamo perlomeno discuterli. Per
Ceronetti il Cantico vale perché è vuoto, privo di messaggio coerente, la mancanza di
senso ne fa un testo sacro e lo mette sul piano divino, anch’esso in-esistente: “La
visione del niente, grande momento gnostico, è la nudità rivelata, in ciò consiste tutta
la rivelazione del Cantico […] l’allusione positiva alla nudità umana è l’allusione
negativa all’infinità divina”xxxi. La sua sacralità consisterebbe nella descrizione senza
pudori degli aspetti sensuali dell’amore. Dice che le forze generative sono alla base
dell’esistere, nasconderle è ipocrisia. E’ un fatto che Ceronetti va alla ricerca accanita
dell’erotismo nel Cantico. Nel contempo ne avvalora aspetti trascendenti, tagliati su
misura della sua ispirazione gnostico-iniziatica. C’è in lui la cultura della devianza,
dell’eros come fondamento del vivere, momento alto, divino.
Il triangolo di rapporti personali all’interno del Cantico si sviluppa realisticamente,
con difficoltà - ma non eccessive - nel collegamento delle varie parti. Abbiamo
respirato a lungo un clima paganeggiante di amore per la vita e stupore per la bellezza
della natura, fra passioni e sofferenze a stento contenute. Poi lei torna dal deserto
abbracciata al suo pastore. Ha scelto. La decisione è anche operativa e lei invita il suo
uomo a fuggire. E’ un dramma concluso, moderno nello spirito, dai toni lirici elevati, e
c’è una morale finale, molto chiara, che viene proclamata ai quattro venti. Non si
avverte alcuna preoccupazione ultraterrena, nessuna presenza divina. Cosa ne ha fatto
un libro sacro? E’ un’opera hippie. E’ “Il laureato”. Forse non ne conosciamo il vero
finale, ma anche così è un gran finale.
Solo riconoscerne la natura di testo drammatico, natura sempre chiaramante
avvertita anche da parte giudaica, può dare un senso all’opera e dare ragione della
presenza di dialoghi, di un coro, di una tesi così radicale sulla bellezza e giustezza
dell’amore libero, in opposizione ai vincoli e ai condizionamenti famigliari e sociali. E’
vero che riesce difficile estrapolare un racconto pienamente logico e a volte i canti
sembrano indipendenti fra loro. Le feste, la pastorella, Salomone, la Sulammita, le
nozze, la vita dei villaggi, perdersi e ritrovarsi. Perché saltare così di palo in frasca?
Forse mancano dei collegamenti. E i riferimenti religiosi, se esistono, perché così
vaghi? Dio non viene mai nominato, vorrà pur dire qualcosa. Veri collegamenti di tipo
testuale, cioè stilistici e contenutistici, sono possibili solo con la lirica egizia molto
datata. Il fatto che nel Cantico si ritrovino, con stilemi espressivi molto simili, gli stessi
sentimenti degli antichi canti d’amore egizi, assieme al nessun peso dell’aspetto
religioso mosaico, porta a pensare che l’origine del Cantico, o almeno il suo modello di
riferimento, risalga molto indietro nel tempo.

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Discutibili, almeno nel caso del Cantico, le tesi della cosiddetta “estetica della
recezione”, che oppongono la posizione di chi equipara il testo al suo senso e il senso ai
limiti della testualità (che è l’approccio della esegesi classica) a quella di chi, cogliendo
il testo nella realtà empirica della sua lettura, implica dei soggetti terzi nella
costruzione del senso e prende in carico “cio che si è aggiunto” al Cantico
posteriormente, facendone elemento costitutivo del giudizio e della nostra
comprensione. Così si finisce per dare totale avallo e copertura al “bailamme” delle
interpretazioni allegoriche. La “fortuna” del testo può e deve interessare, ma è un altro
discorso. Un conto è vedere nel testo altre cose, essere spinti verso altri, superiori
livelli (e questo sarebbe comunque un merito del testo, un portato della bellezza
intrinseca del tema e di come viene sviluppato), altra cosa è pensare legittime e
giustificate tutte le letture. Nei fatti poi le allegorie sono le più varie e fantasiose, e su
di esse non c’è mai vero confronto, vera disputazione. Nella massima libertà c’è
sostanziale malafede. C’è semplicemente da capire se si ritiene una data allegoria come
pensata, progettata e voluta dall’autore (come sarebbe giusto e doveroso aspettarsi)
oppure se la si ritiene qualcosa di applicabile “prescindendo”. Le interpretazioni
allegoriche, ma anche quelle simboliche, sarebbero in questo caso allargamenti,
elaborazioni, operazioni intellettuali, un portato del livello culturale, ma potrebbero
mancare di qualsiasi giustificazione e necessità .
Il Cantico è attribuito a Salomone, che viene citato almeno due volte in chiaro nel
testo. Esistono però anche altre “figure” con caratteri regali. Va pur detto che per
Ravasi i riferimenti “regali” sono solo “ammiccamenti” all’interno di una simbologia a
carattere regale saltuariamente e strumentalmente adottata. Possibile, come si è detto,
un’altra lettura del titolo: un canto fatto di diversi canti, tra loro assimilati. Ma
l’unitarietà del poema, anche se rintracciabile a fatica, può essere e certo appare più
logica dell’assemblaggio di liriche disparate, solo accomunate dall’argomento amoroso.
Allora meglio “Il Cantico per eccellenza”. Inoltre certe ripetizioni - i ritornelli -
avrebbero poco senso se si trattasse di una antologia non dotata di una sua unitarietà ,
mentre ne avrebbero molto, come sostiene anche Ravasi, se le varie parti facessero
parte di uno svolgimento coerente e unitario. La divisione in capitoli è tarda. Come
potrebbe essersi così frantumato se la sua origine non fosse molto antica? Centrale,
sicuramente un riflesso culturale, il ruolo della madre, che viene sempre evocata dalla
donna come complemento naturale alla sua vicenda. E’ la casa della madre la sede
dell’unione perfetta e totale.
L’unica menzione del nome di Dio nel Cantico sarebbe abbreviata e, da alcuni, anche
contestata (si tratterebbe solo di un pronome in III persona). La maggioranza degli
esegeti si orienta a considerare la locuzione “šalhebetjah” come una costruzione
superlativa, espressa con l’aggiunta del nome divino abbreviato “jah”: “fiamme
veementissime”. Forse si allude al fulmine, che è per antonomasia il fuoco o la fiamma
di Dio. E’ però vero che si parla di amore, di gelosia e di fiamme divine, in un contesto
certamente ritrovabile in altri testi biblici, il che avrà costituito motivo per
l’inserimento del Cantico nel Canone. Ma cosa accomuna il Cantico agli scritti
sapienziali o profetici, ai quali viene sempre avvicinato? E’ tutto un altro clima, tutto un
altro spirito. Nel Cantico sembra che la Storia non esista. Solo vaghissimi riferimenti,
senza spessore né rapporto con la vicenda. C’è veramente da pensare solo alla lirica
egizia, ai temi mitologici di stampo cananaico, alla lirica “idillica” dell’ellenismo.
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La presenza di arcaismi verbali può far pensare che il Cantico risalga molto addietro
nel tempo. La mancanza assoluta di riferimenti religiosi e il clima di acceso erotismo,
possono far pensare a un’epoca - l’età monarchica - di sincretistica apertura da parte
del popolo di Israele alle religioni dei popoli vicini. Molti gli accenni ai monti e alla
campagna, in un clima di slancio verso i ritmi naturali, il mondo animale, la fecondità .
Una sessualità serena e coinvolgente, che trova qualche contrasto solo sul piano
sociale (la famiglia con le sue regole, il potere con la sua forza attrattiva e la sua
prepotenza). Dunque testo di base arcaico, con riferimenti alla lirica egizia e
mediorientale? Però testo ebraico che subisce successivamente degli interventi di tipo
redazionale (titolo, capitoli). Possibili degli inserimenti posteriori di riferimenti ai testi
profetici? O, come sembrerebbe più logico supponendo una maggiore antichità del
Cantico, sono i testi profetici a riecheggiarlo, riconoscendone così il peso e il prestigio
maturato nella società ebraica?
Un testo laico che rifiuta, ed evita, atteggiamenti polemici verso la religione? Meno
comprensibile l’atteggiamento agnostico se il poema fosse di epoca tarda. Un testo di
alto livello poetico da lungo tempo entrato nella cultura popolare e infine adottato,
previa aggiustamenti e interessate interpretazioni, dalla casta rabbinica? Il Cantico era
cantato nelle osterie ancora nel II secolo dell’era volgare, al tempo di Rabbi Aqiba.
Conosciuto ed amato dal popolo, e da molti già ritenuto un testo sacro caratterizzato
dalla natura allegorica. Tanto mistero e la confusione dei punti di vista, lungo un arco
di secoli, possono essere spiegati solo con una datazione alta del testo originario. Può
non essere Salomone, ma l’autore non dovrebbe essere di molto posteriore. Si respira
in effetti uno spirito religioso di fondo aperto a Canaan. E lo stile si rifà all’immaginario
lirico amoroso egizio. L’interpretazione allegorica è certamente più tarda e si consolida
con l’intervento rabbinico post-esilico.
Un mondo di pastori, con inserimenti a carattere “palaziale” che si legano in modo
scarsamente comprensibile. Lo stile è accurato, anche se a volte si ha l’impressione di
qualcosa di freddo e costruito. Le situazioni e le immagini sono originali, molto vive, e i
protagonisti colpiscono per la poetica naivetè degli atteggiamenti. Alcune scene si
impongono per la straordinaria forza espressiva; squarci potenti che colpiscono,
“quadri” che, vivendo della loro forza, suppliscono anche alla mancanza di un
esauriente inserimento testuale. In fondo è questa la forma del Cantico: dei bellissimi
quadri “visivi” che possono vivere della loro luce, della bellezza dei versi e di quel tanto
di incanto che ne discende pur in presenza di un testo estremamente sfilacciato. A ben
vedere solo la presenza di refrains (ritornelli) suggerisce continuità e impone di
pensare ad una trama in via di svolgimento.
Ci sono frasi, parole (più che immagini e situazioni) che richiamano testi biblici e
profetici, ma manca totalmente nel Cantico lo spirito biblico. Non appare lungo il testo
nessun intento pedagogico, e non ci sono suggestioni che mostrino di aprire a
intenzionali interpretazioni di carattere allegorico. C’è solo la difesa a oltranza dei
diritti dell’amore, la narrazione dei dolori e delle speranze degli amanti. C’è nel finale
una accorata apologia dell’amore liberato da condizionamenti, da egoismi, da
imposizioni e da convenienze materiali. Sì, l’autore è certo un ebreo, ma sembra che
viva un paese “suo”, diverso, e che abbia scritto il suo poema senza la preoccupazione
di modelli presi “all’interno”, ma caso mai guardando all’esterno, alla lirica egizia, alla
spiritualità più genericamente cananea e mediorientale.
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Difficile capire come il Cantico abbia potuto imporsi nella società ebraica fino ad
essere accolto nel Canone e diventare uno dei Ketubin. Era cantato nelle osterie, come
un inno gioioso all’amore e alla rinascita della natura a primavera, ma un significato
religioso, un sapore “sacro” doveva esserglisi appiccicato, anche prima che fossero
definiti i complessi legami di natura allegorica con la storia religiosa del popolo
ebraico. Ma dubbi e problemi lo hanno accompagnato, almeno fino al II secolo d.C.
Scrupoli presenti sotto pelle anche in ambienti cristiani.
Un ebreo sui generis, l’autore, che non ha voluto scrivere un libro religioso; non era
“ispirato” e si accontentava di parlare dell’amore umano, con toni entusiastici e
partecipativi, e ha sviluppato sul finale una sua morale molto anticonformista sui
sentimenti e sul matrimonio. Non ha mai nominato Dio, nè padri, nè figli, a contraddire
quindi il riferimento allegorico di fondo che è quello teologico-nuziale. Se non fosse
stato adottato dagli ambienti religiosi forse non sarebbe nemmeno arrivato a noi. In
fondo a livello ebraico è un unicum. Nella Bibbia l’amore, le nozze e le passioni sono
sempre rappresentate in un quadro palesemente didascalico e pedagogico, dove
l’allegoria, quando c’è, è scoperta. Nel Cantico la vigna, le volpi, lo svegliarsi, Salomone,
sembrano solo citazioni finalizzate a dare nobiltà a un testo dall’intima diversa natura.
Alla fine resta da capire perché il Cantico sia stato accettato come libro ispirato, e la
risposta sta sicuramente nei vaghi collegamenti ai testi della tradizione, nell’irrealtà
dei personaggi, nel clima “sospeso” e negli insistiti agganci con due personaggi biblici –
Salomone e la Sulammita – che erano comunque, a ben vedere, i più adatti, in
quell’ambiente, a dare spessore e supportare letterariamente il tipo di vicenda
amorosa che stava a cuore all’autore.
Solo poesia nel Cantico, solo idillio, pastorellerie. Solo elogio della bellezza, solo
fascino, giovinezza, perfezione. In un quadro di natura rigogliosa. Molti lo legano ai
culti della fertilità , ma chi ha scritto quel testo, collocabile probabilmente in un’epoca
misteriosa di condannati sincretismi religiosi, non pensava certo ai vari Baal, Tammuz
e Astarti. E nemmeno a JHWH. Era solo incantato dalla vita.

Ibn ʻArabī

Le adornan gli occhi seduzione


ed un mortale incanto;
circondano i suoi fianchi lo stupore
e una bellezza senza paragoni.
È snella ma non ama ciò che amo,
e con sincerità
i patti non rispetta.
Lei tira indietro la sua treccia, come
fosse un serpente nero,
per spaventar con esso chi la segua.
Io non temo, perdio,
la morte, e tuttavia
la mia sola paura è di morire
46
senza poterla riveder domani.

Abū Bakr Muhammad ibn al-‘Arabī nasce a Murcia, “bella città di parchi e giardini
costruita dagli Arabi in Spagna”xxxii, il 28 luglio 1165 (560 H.). Fu conosciuto come “Al-
Shaykh al-Akbar” (Doctor Maximus); “Muhyī ʼd-Dīn” (Vivificatore della religione); “Ibn
Aflatū n” (figlio di Platone). Nel vicino Oriente si adottò per il suo nome la forma
abbreviata Ibn ‘Arabī per distinguerlo da un certo Abū Bakr ibn al-‘Arabī, giudice
(qāḍi) a Sivigliaxxxiii. Nato in una famiglia agiata e molto religiosa (di scuola malikita),
compì i suoi studi a Siviglia, acquisendo una istruzione di prim’ordine.

Da studente superava tutti gli altri. Oltre alle qualità della mente, era molto devoto,
sincero e onesto […] Ancora studente divenne famoso e la gente veniva da ogni parte
per incontrarlo. Passava il suo tempo libero con i sufi. La sua padronanza della lingua
era perfetta, il suo vocabolario immenso. Era un fine scrittore ed eloquente poeta […]
Quando cantava cadeva in una specie di rapimento, e appariva come se fosse ubriaco.
Crescendo cominciò a manifestare i segni della capacità profetica, mostrando di potere
accedere a fonti di conoscenza non raggiungibili dagli studenti ordinari. xxxiv

Le sue attitudini visionarie cominciarono a manifestarsi già prima dei vent’anni.


Caduto gravemente ammalato - febbre e una profonda letargia - lo si credette
moribondo. Si vedeva minacciato da esseri dall’aspetto infernale che una figura di
straordinaria bellezza, da cui emanava un profumo soave, respingeva. Ibn ʽArabī ne
parlerà come di una delle sue prime penetrazioni nel mondo sovrasensibile. Fu
inizialmente devoto discepolo di due donne sufi, una delle quali, di età veneranda, agli
occhi del giovane conservava ancora la leggiadria di una fanciulla e lo turbava
profondamente. Contrasse in età giovanile un primo matrimonio con una giovane
donna alla quale resterà legato da una ossequiosa devozione.
All’età di venti anni un fatto curioso ed emblematico. Averroè (Ibn Rushd), il grande
filosofo aristotelico, amico di suo padre, aveva saputo delle particolari qualità del
giovane e desiderava conoscerlo. Con un pretesto suo padre mandò il figlio a Cordova,
a casa di Averroè. Ibn ‘Arabī racconta l’incontro così:

Un bel giorno mi recai a Cordova, in casa di Abū ʼl-Wā lid Ibn Rushd. Egli aveva
manifestato il desiderio di incontrarmi personalmente, poichè aveva sentito parlare
delle rivelazioni che Dio mi aveva concesso nel corso dei miei ritiri spirituali, e non
aveva nascosto il suo stupore di fronte a quanto gli era stato narrato. Per questo mio
padre, amico fra i suoi più intimi, mi mandò da lui con un pretesto qualsiasi, per
permettere ad Averroè di intrattenersi con me. In quel tempo ero ancora un giovane
imberbe. Quando entrai, il filosofo si mosse verso di me mostrandomi segni di amicizia
e di stima, e mi abbracciò . Poi mi disse: “Sì”. Io a mia volta dissi: “Sì”. Gioì, constatando
che avevo compreso. Ma subito dopo, capendo che cosa avesse suscitato la sua gioia,
aggiunsi: “No”. Averroè ebbe un sussulto, i suoi lineamenti si contrassero, e sembrò
dubitare di ciò che pensava. Mi domandò : “Come risolvi il dilemma dell’illuminazione e
dell’ispirazione divina? Sono queste identiche a ciò che ci giunge dalla riflessione
speculativa?”. Io risposi: “Sì e no. Tra il sì e il no, gli spiriti prendono il volo fuori dalla
loro materia, la nuca si distacca dal proprio corpo”. Averroè impallidì; lo vidi tremare.
47
Mormorò la frase rituale: non vi è altra forza e potenza che in Dio - poiché aveva
compreso ciò a cui alludevo.
In seguito, dopo il nostro incontro, egli interrogò mio padre, per appurare se l’opinione
che si era fatta di me coincidesse o differisse da quella che aveva di me mio padre:
Averroè era veramente un grande maestro nella riflessione e nella meditazione
filosofica. Rese grazie a Dio, così mi si riferì, per averlo fatto vivere in un tempo in cui
gli era stato concesso di vedere qualcuno che, entrato da ignorante in ritiro spirituale,
ne era uscito come ne ero uscito io. Affermò che si trattava di un caso che egli riteneva
possibile, ma non aveva mai incontrato nessuno che l’avesse sperimentato. Gloria a
Dio, esclamò , che mi ha permesso di vivere in un’epoca in cui esiste un maestro di
questa esperienza, uno fra coloro che aprono le serratrure delle sue porte. Gloria a Dio
che mi ha concesso di vedere uno di costoro con i miei occhi.
Avrei voluto incontrare di nuovo Averroè. La misericordia divina lo fece apparire nel
corso di un’estasi, in una forma tale che fra la sua persona e la mia vi era un finissimo
velo. Attraverso quel velo io lo vedevo, ma lui non vedeva me, né sapeva che io fossi
presente. Egli era infatti troppo assorbito dalla sua meditazione per accorgersi di me.
Allora mi dissi: il suo proposito non lo condurrà là dove io sono.xxxv

Ha un periodo di raffreddamento ed è preso da impegni mondani, anche di tipo


militare, al servizio del Sultano. Durante una visita alla moschea di Cordoba (Giugno
1184) vede il re inchinarsi e realizza che la vita umana non vale nulla. Decide di
dedicarsi a una vita di povertà . Vuole restituire tutto al padre e diventare come un
morto per la sua famiglia. Il padre gli lascia tutto. Inizia a viaggiare, in Andalusia, poi
nel nord Africa. Cerca nuovi maestri, incontra sante persone, insegna. Lavora alla sua
convinzione che esista un mondo soprasensibile, ālam al-mithāl, intermedio fra il
corporeo e la divinità , il cui organo di percezione - una qualità rara, un dono divino che
a pochi è dato - lui crede di possedere. Idea che era moneta corrente nel mondo
confuso del sufismo, ormai suo approdo esclusivo, e che lui si apprestava a definire con
chirurgica precisione. Forte della verifica personale che si sentiva in grado di
testimoniare e anche di mettere nero su bianco, e di una intelligenza speculativa che
non aveva riscontro fra i dottori del tempo.
A Fez, nel 1190, conosce degli ebrei che lo introduccono alla Qabbalah e
all’esoterismo delle lettere, dei nomi e anche dei visixxxvi. A Tunisi (1194), durante un
solitario ritiro in un oratorio della Grande Moschea, compone una poesia, che non
recita a nessuno ma tiene a memoria. Qualche mese più tardi a Siviglia, un giovane gli
si avvicina e gli recita quegli stessi versi. Sconcertato Ibn ‘Arabī gli chiede chi ne sia
l’autore: Muhammad Ibn ‘Arabī. Il giovane non lo conosce. Racconta che mesi prima
(Ibn ‘Arabī dice il giorno stesso, alla stessa ora, in cui aveva avuto a Tunisi
l’ispirazione) un giovane sconosciuto pellegrino, a Siviglia, si era avvicinato a lui e
aveva recitato quei versi al gruppo di giovani coi quali si era unito. Dopo di che lo
straniero era scomparso senza lasciare traccia. Fatti come questo sono certamente
comuni anche ad altre religioni e familiari al mondo del sufismo. Spegabili
razionalmente solo con la malafede, che nel caso di Ibn ‘Arabī mi sentirei di escludere,
o con un improbabile concorso di circostanze. Se si escludono queste possibilità resta
solo la porta stretta della trascendenza, della quale potrebbe serenamente parlare solo
chi ritiene di averla intravista e magari anche attraversata.
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Della “verità ” del racconto si dichiara convinto l’iranista Henry Corbin: “Ancora una
volta la cosmologia del sufismo dispone della dimensione che, sola, può rendere conto
di simili fenomeni e che manca al nostro modello di mondo. Essa garantisce la realtà
oggettiva del mondo soprasensibile nel quale si manifestano gli effetti di una energia
spirituale, la cui sede è il cuore e il cui organo è l’Immaginazione attiva”xxxvii.
A Marrakesh, nel 1198, l’ultimo incontro con Averroè. Ibn ‘Arabī è presente alle
esequie per la sua morte e assiste alla malinconica partenza delle sue spoglie per
Cordova. La salma di Averroè, caricata sul fianco di un asino, era bilanciata dall’altro
lato dalle sue opere, i libri che aveva scritto. Curioso rapporto quello con il razionalista
Averroè, verso il quale si pose sempre in atteggiamento di consapevole e rimarcata
superiorità . Ne riconobbe oggettivamente il valore e la serietà dello sforzo, ma ne
condannò la vanità del proposito e la limitatezza dell’orizzonte.
Ibn ‘Arabī seguirà altre strade. Nonostante i ripetuti scontri con l’ortodossia
musulmana, che lo considerava alla stregua di un eretico, scolari ragguardevoli e sufi
di grande reputazione chiedevano udienza e venivano da lontano per avere la sua
benedizione, imparare da lui le verità sul mondo superiore e conoscere la realtà del
mondo creato. Divenne famoso come sufi di alto lignaggio, compositore di eleganti
versi mistici e autore di immensi volumi sulle questioni più difficili e astruse. Re e
principi desideravano la sua benedizione e la sua compagnia. Concluse la sua vita a
Damasco, circondato dal rispetto generale, insegnando e scrivendo. I suoi nemici erano
impotenti contro di lui. Il capo della città lo proteggeva e gli offrì sua figlia in sposa.
Visse a Damasco diciassette anni (morì il 16/11/1240 - 638 H.) e fu sepolto assieme a
due suoi figli nel vecchio quartiere di Sā lihiyya, alle falde del Qasiyun, il monte che
sovrasta la città . Nel XVI secolo Selim II, Sultano di Costantinopoli, fece edificare sulla
sua tomba un mausoleo e una madrasa. Luogo di pace.

Nel 1201, all’età di trentasei anni, Ibn ‘Arabī è alla Mecca per il pellegrinaggio. Vi
resterà per circa tre anni, accolto nella famiglia di un alto funzionario di origine
persiana, che aveva una figlia di straordinaria bellezza, Nezā m…

Quando nell’anno 598 risiedevo alla Mecca, frequentavo la compagnia di alcune


persone, uomini e donne, tutte eccellenti, fra le più colte e virtuose; ma, fra di loro, non
vidi alcuno […] che assomigliasse al sapiente dottore e maestro Zā ir Ibn Rustam, nativo
di Isfahan e abitante della Mecca, e a una sua sorella, la venerabile anziana, sapiente e
dotta dello Ḥ iǧ ā z, chiamata Gloria delle Donne, Bint Rustam […] Quel maestro aveva
una figlia vergine, snella fanciulla, che avvinceva coi lacci dell’amore chiunque la
contemplasse, e la cui sola presenza era ornamento dei conviti e meraviglia per gli
occhi. Il suo nome era Nezā m (Armonia) e il suo appellativo ‘Occhio del Sole’. Virtuosa,
saggia, religiosa e modesta impersonava la venerabile vecchiezza di tutta la Terra
Santa unita all’ingenua gioventù della grande città fedele al Profeta. L’affascinante
magia dei suoi occhi esercitava un tale sortilegio, e un tale incanto la grazia della sua
conversazione (elegante come quella dei nativi dello ’Irā q), che se si diffondeva
scorreva; se invece era concisa, risultava un’opera d’arte meravigliosa, e se ornata dei
fiori della retorica, era chiara e trasparente […] Se non ci fossero spiriti vili, pronti allo
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scandalo e disposti a pensar male, io mi intratterrei considerando le doti che Dio le
donò , sia nel corpo che nell’anima, che era un giardino di generosità […] Durante il
periodo in cui la frequentavo, osservai attentamente le doti gentili che adornavano la
sua anima, e l’assunsi come modello di ispirazione per le canzoni contenute in questo
libro, che sono poesie d’amore, composte di frasi gradevoli e galanti, di dolci concetti
per quanto in esse non sia riuscito ad esprimere neppure una parte delle emoziono che
la mia anima provava, e che l’atteggiamento familiare della giovane suscitava nel mio
cuore, e del generoso amore che sentivo per lei, del ricordo che la sua costante
amicizia lasciò nella mia memoria, del suo spirito affabile, del casto e pudico sembiante
di quella fanciulla vergine e pura, oggetto dei miei affanni e dei miei palpiti spirituali.
Tuttavia, riuscii a mettere in versi qualcuna di tali emozioni di appassionato amore che
il mio cuore custodiva, e ad esprimere i desideri del mio petto innamorato con parole
che suggerivano il mio affetto, la profonda cura che in quel tempo ormai trascorso mi
aveva tormentato, e la nostalgia che per i suoi gentili tratti ancora sento. Perciò , ogni
nome che in questo libretto menziono è riferito a lei, e ogni dimora di cui canto l’elegia
rappresenta la sua casa. Ma, in tali versi, accenno di continuo anche alle illuminazioni
divine, alle rivelazioni spirituali, alle relazioni con le intelligenze delle sfere, come è in
uso nel nostro stile allegorico, poiché le cose della vita futura sono per noi preferibili a
quelle della vita presente, e poiché, inoltre, ella sapeva assai bene il senso riposto dei
miei versi […] Dio guardi il lettore di questo canzoniere dalla tentazione di pensare ciò
che è inadatto alle anime che disdegnano [tali bassezze], poiché i loro propositi sono
più alti, poiché solo agognano le cose celesti, e solo nella nobiltà di Colui che è l’unico
Signore pongono la loro fiducia […]
Queste pagine contengono le canzoni d’amore che composi alla Mecca, durante il mio
soggiorno nella Città Santa, nei mesi di Raǧ ab, Š a’bā n e Ramadā n dell’anno 611 H. In
esse alludo a intuizioni trascendenti, a illuminazioni divine, a misteri spirituali, a
conoscenze filosofiche e ad insegnamenti morali. E, se per esprimere tutto ciò mi servii
del linguaggio delle poesie galanti e amorose, fu perché i cuori degli uomini, essendo
tanto attaccati a quei sentimenti, avrebbero dovuto in tal modo essere maggiormente
indotti a dare ascolto alle mie canzoni, scritte nel medesimo idioma dei poeti graziosi,
spirituali e delicati.xxxviii

La composizione del suo Diwān (canzoniere) intitolato “Tarǧumān al-ašwāq” -


tradotto “L’interprete delle passioni” da Roberto Rossi Testa, alla cui traduzione
dall’inglese della versione del Nicholson mi sono rifatto, e “L’Interprete degli ardenti
desideri” da Henry Corbin -, da ora qui “L’Interprete”, terminò nel gennaio del 1215,
dopo un terzo soggiorno alla Mecca.
Pochi mesi dopo la prima diffusione del manoscritto, giunto ad Aleppo, Ibn ‘Arabī fu
indotto a redigere anche un commentario. Lavoro che si concluse nell’agosto dello
stesso anno, e fu motivato con queste parole:

La causa che mi spinse a redigere questo commentario allegorico delle mie canzoni fu
che i miei figli spirituali, Badr l’Abissino e Ismā ’īl ibn Sū dakīn, mi interrogarono
intorno a esse. E ciò perché entrambi avevano udito alcuni dottori nelle scienze della
morale, nella città di Aleppo, che negavano che nelle mie canzoni fossero celati dei
misteri teologici, aggiungendo che l’autore pretendeva con tale affermazione di
50
nascondere il suo amore sensuale, per salvaguardare la fama di santità e devozione che
lo accompagnava. […] Allora incominciai a commentare questi miei versi (lavoro che
terminai con difficoltà ed in modo imperfetto, dal momento che avevo urgenza di
continuare il mio viaggio, nel periodo predetto), e una parte di tale commentario fu
letta presso il qāḍi Ibn al-’Adīm, alla presenza di alcuni moralisti. E quando lo ebbe
sentito leggere, uno di quelli che avevano rifiutato di darmi credito si pentì davanti a
Dio, e corresse il malevolo giudizio che si era fatto dei poeti mistici, delle loro frasi
galanti e delle loro canzoni erotiche, con le quali cercano di esprimere i misteri
teologici.xxxix

Vicenda forse modesta, quella richiamata da L’Interprete, all’interno della vita di Ibn
‘Arabī, ma che aderisce perfettamente al tema che sto trattando. Parlarne mi
obbligherà ad affrontare - sia pure necessariamente in modo fuggevole - anche il
complesso imponente della sua teosofia. Ne risulterà così un ritratto del grande
mistico. Pur dominando il suo tempo per la forza del pensiero e la suggestione della
personalità , non ha lasciato nessuna confraternita organizzata. E’ stato autore di circa
400 opere riconosciute, molte delle quali oggi perdute, solo in parte edite e tradotte. E’
stato l’uomo delle visioni, un vero sciamano-filosofo, un sufi che ha indagato la natura
segreta dell’essere a partire dalle sue esperienze interiori, arrivando a formulare una
delle più complete e suggestive teorie cosmogoniche del mondo antico.
La spianata della Kaʽba alla Mecca è lo scenario per due avvenimenti molto
coinvolgenti: l’incontro notturno con Nezā m, legato alla vicenda del canzoniere, e
l’incontro, parimenti notturno, con il “Giovincello”, evento misteriosissimo che offre
l’occasione per le più svariate considerazioni e che chiuderà questo lavoro. Entrambi
narrati direttamente, con dovizia di particolari, da Ibn ‘Arabī: nel prologo de
L’Interprete il primo; nell’avvio del suo trentennale diario spirituale, opera
monumentale in dodici volumi, le “Conquiste spirituali meccane” (futūhāt al-
makkiyya), il secondo. Le vicende sono qui riproposte sulla base degli scritti di due
insigni studiosi del misticismo islamico, Reynold A. Nicholson ed Henry Corbin, che
hanno tradotto e commentato i testi originali.

Una mano più dolce della seta

Ecco, dalle parole di Ibn ‘Arabī, il racconto dell’incontro con Nezā m.

Una notte mi apprestavo a compiere le circumambulazioni rituali intorno al Tempio


della Kaʽba. Il mio spirito provava una pace profonda; una dolce emozione di cui avevo
perfettamente coscienza si era impadronita di me. Uscii dalla zona lastricata, perché la
folla premeva in maniera eccessiva, e continuai il mio giro sulla sabbia. All’improvviso
mi vennero il mente alcuni versi; li recitai a voce alta, tanto da essere udito non solo da
me stesso, ma anche da quelli che mi seguivano, posto che vi fosse qualcuno.

“Oh, sapere se conoscono di quale cuore esse han preso possesso!


Come vorrebbe sapere il mio cuore quali sentieri montuosi esse hanno intrapreso!
Credi che siano salve, o pensi invece che siano morte?
I fedeli d’amore restano perplessi nell’amore, esposti ad ogni sorta di pericoli”.
51
Appena finii di recitare questi versi, avvertii sulle spalle il contatto di una mano più
dolce della seta. Mi voltai, e mi ritrovai in presenza di una fanciulla, simile ad una delle
principesse dei Greci. Mai avevo visto una donna dal volto più bello, dalla parola più
soave, dal cuore più tenero, dalle idee più spirituali, dalle allusioni simboliche più
sottili […] Ella sorpassava tutti i geni del suo tempo in finezza di spirito e in cultura, in
beltà e in sapere.
“Come puoi tu dire, mio signore”, domanda la fanciulla, “ ‘Oh, sapere se conoscono di
quale cuore esse han preso possesso’? – Tu, il grande mistico del tuo tempo, mi
stupisce che tu possa dire una cosa del genere […] Ogni cosa di cui si ha possesso non è
forse anche cosa di cui si ha conoscenza? […] Tu hai detto poi: ‘Come vorrebbe sapere
il mio cuore quali sentieri montuosi esse hanno intrapreso!’ – mio signore, i sentieri
che si nascondono fra il cuore e la tenue membrana che avvolge il cuore sono qualcosa
la cui conoscenza è interdetta al cuore. Come può uno come te desiderare qualcosa che
non può raggiungere? Come può dire una cosa simile? E che hai domandato poi: ‘Credi
che siano sane e salve, o pensi invece che siano morte?’ – Ma esse sono sane e salve.
Piuttosto, è a proposito di te che dovresti domandare: sei, tu, sano e salvo, o sei invece
morto, mio signore?”.
“Che cosa hai detto ancora? ‘I fedeli d’amore restano perplessi nell’amore, esposti a
ogni sorta di pericoli’?” – e qui ella lanciò un’esclamazione, e poi disse: “Come può
restare al fedele d’amore un sovrappiù di perplessità , quando l’adorazione d’amore ha
come condizione proprio di investire in totalità ? Essa assopisce i sensi, rapisce le
intelligenze, abolisce il pensiero, e getta il suo fedele nel flusso di coloro che
spariscono. Allora, dov’è la perplessità nella quale restare? Chi, dunque, sussiste
ancora qui, che possa restare perplesso?... Che uno come te si permetta di dire cose
simili, ebbene, questo è indegno di te”.xl

Figura concreta, reale, o piuttosto una allegoria? Per Ibn ‘Arabī, lo si vedrà , nessuna
figura divina può essere contemplata al di fuori di una forma concreta - sensibile o
immaginale - che la renda visibile esteriormente o mentalmente. Già qui deve essere
colta la fondamentale differenza fra immaginale e immaginario. La percezione
immaginale o mentale è ugualmente reale, ma attinge ad un piano più elevato: la
fanciulla sarebbe stata percepita dalla immaginazione attiva del mistico sul piano
visionario, dove essa si manifesta come una Figura d’apparizione della Sophia Aeterna.
Corbin dice che “noi siamo testimoni della trasfigurazione di un essere che
l’Immaginazione percepisce direttamente alla stessa altitudine di un simbolo,
ponendolo sotto una luce teofanica, cioè una luce che ne rivela la dimensione nell’aldilà
[…] Nella Presenza amata, improvvisamente dischiusa alla sua visione in quella notte
memorabile, il poeta percepisce simultaneamente la Figura trascendente, visibile a lui
soltanto, una figura annunciata dalla sua bellezza sensibile” xli. Il poeta-visionario la
investe qui di una funzione angelica, dotata dell’autorità di colei che va ad istruire il
suo fedele.
Chi sono esse? Sappiamo dal commento di Ibn ‘Arabī (questi versi sono compresi fra
le liriche de L’Interprete) che egli allude alle “Contemplate supreme”, qualcosa di
diverso dalle “idee divine”, che appartengono ad un piano filosofico-concettuale. Esse
rappresentano il “segreto della sovranità divina”, l’azione che viene attuata dalla
52
divinità per instaurare nel fedele quel Dio che egli nutrirà della sostanza del suo
essere, a cui darà sussistenza e che diventerà il suo proprio Signore. Tutto questo il
mistico lo sa, ma viene il momento del dubbio, in cui prevalgono le distinzioni
raziocinanti, e lì, quella notte, Ibn ‘Arabī si trova in questo stato. E sta anche vivendo
un momento di malinconica attesa. Attende una conferma. Sente di non avere la forza
di nutrire del suo essere il suo Signore, perde coscienza del segreto: “Se le Contemplate
supreme procedono dalla sua stessa essenza, possono queste sapere quale cuore
vanno ad investire? Cioè: il Signore divino che io nutro del mio essere ha coscienza di
me? […] nell’ipotesi peggiore, non potrebbero essere morte, senza più poter tornare al
non-essere?”xlii.
Egli ha ceduto per un momento ai dubbi del filosofo. La loro esistenza, gli spiega
Nezā m, non dipende dalla fedeltà alle leggi della logica, ma dalla fedeltà alla servitù
d’amore. Ibn ‘Arabī investe la forma concreta dell’essere amato di una “funzione
angelica”, e, nell’intimo delle sue meditazioni, percepisce questa forma sul piano di una
visione teofanica. “La simpatia dell’invisibile e del visibile, dello spirituale e del
sensibile […] rende possibile la visione spirituale del sensibile, la visione sensibile
dello spirituale, che è poi visione dell’invisibile in una forma concreta, così come la
percepisce non già una delle facoltà sensibili, bensì l’Immaginazione attiva, organo
della percezione teofanica”xliii.
Questi accenni alla mistica dell’amore di Ibn ‘Arabī si sono resi necessari al fine della
comprensione, almeno parziale, di questa parte del prologo de L’Interprete e dello
spirito del canzoniere. Più avanti, con l’approccio più generale alla sua teosofia, anche
questo argomento verrà ripreso e approfondito.

Avrebbe poco senso, rivolgendosi a una platea allargata, parlare di un libro di poesie
senza portare una parte significativa dei testi. Essendo le poesie de L’Interprete in
numero di sessantuno, di varia lunghezza (a volte anche considerevole), e
considerando la grande omogeneità di contenuti e moduli espressivi, ho pensato di
sfrondare presentando una selezione che privilegia quelli che ritengo i due temi
caratterizzanti il canzoniere: i viaggi nel deserto all’inseguimento disperato delle
“belle” e – in evidenza - i passi più esplicitamente riferiti al ricordo dell’amore ormai
lontano. Va detto che i riferimenti a Nezā m sono estensibili e si legano senza
divaricazioni alla visione più generale del viaggio e alla rincorsa di una particolare
sfuggente figura. Anche la scena notturna della partenza della donna (IV), con tutto il
seguito di accompagnatori, potrebbe essere legata alla vicenda reale. I versi sono
accompagnati dal relativo commento, ripreso dalla traduzione che ne ha fatto il
Nicholson, con lo scioglimento delle allegorie - così le chiama lo stesso Ibn ‘Arabī - che
accennano alle “illuminazioni divine, alle rivelazioni spirituali, alle relazioni con le
intelligenze delle sfere”. Sono le “spiegazioni” date per rispondere a chi lo aveva
accusato di avere esternato criticabili appetiti sensuali, mascherati da una veste
religiosa allo scopo di salvaguardare una reputazione di austerità e devozione.
Documentano soprattutto, a mio avviso, la loro oggettiva estraneità al testo poetico.
Nel contempo spessore e natura dei riferimenti testimoniano una vita da sufi non
fittizia. Amore allegorico.
53
______________

3. Partirono di notte, che le tenebre


avevano abbassato le cortine;
e le dissi così:
“Pietà per un amante appassionato,
uno straniero, un folle per amore,
4. uno che i desideri hanno avvinghiato
smaniosamente, e al quale eran diretti,
ovunque si volgesse, dardi e nugoli”.
5. I suoi denti davanti ella scoprì,
e un lampo balenò ,
e non seppi dei due
quale avesse le tenebre diviso.
6. Ed ella mi rispose:
“Non gli basta che alberghi nel suo cuore,
e che in ognuna delle ore sue
egli possa vedermi? Non gli basta?”. (IV, 3-6)

IV
3. “Partirono di notte”: L’isrā (il viaggio notturno), così come il mi’rāğ (l’ascensione
profetica), avviene solo di notte, perché la notte è il luogo dei segreti, del mistero,
dell’occultamento.
“le tenebre”: il velo del mistero ha abbassato le cortine dell’esistenza corporea, che è la
notte dell’esistenza animale, sulle nobili scienze dello spirito e su quanto di sottile esso
contiene. Tutto ciò , comunque, non può essere raggiunto se non viaggiando di notte,
attraverso atti materiali e pensieri sensuali. Mentre l’uomo si trova in tali occupazioni
la Saggezza divina parte dal suo cuore, cosicchè, quando l’uomo torna in sé, si rende
conto che essa lo ha lasciato; allora egli la insegue con le proprie aspirazioni.
5. “I suoi denti davanti ella scoprì”: l’amante ha trovato il proprio essere
completamente illuminato, secondo quanto disse l’Altissimo Iddio (Corano, 24,35):
“Dio è la luce dei cieli e della terra” e la preghiera del profeta: “O Dio, fa che nel mio
udito e nella mia vista ci sia luce”, estendendo poi tale invocazione per tutte le parti del
corpo, fino a concludere: “fammi tutto luce”, e ciò al fine di diventare una
manifestazione dell’Essenza divina. tale manifestazione viene paragonata a un lampo a
causa della sua discontinuità .
“e non seppi”: l’autore sostiene di ignorare se il suo essere era illuminato dalla
manifestazione della Saggezza divina, che riversava il suo sorriso su di lui, o da una
simultanea manifestazione della Essenza divina.
6. Il verso significa: “Egli non mi cerchi all’esterno, gli basti che io sia discesa nel suo
cuore, come disse l’Altissimo Iddio (Corano, 26,193-194): ‘scese con esso lo spirito
fedele e lo posò sopra il suo cuore’: così egli mi possa vedere in ogni momento con la
propria essenza nella propria essenza”.

54
13. Si è fatto, ormai il mio cuore
capace di ogni forma:
per le gazzelle è un pascolo,
ed è convento ai monaci cristiani;
14. Si fa tempio per gli idoli,
e Ka‘ba ai pellegrini;
tavola di Torà ,
e libro del Corano.
15. Seguo la religione dell’amore:
in qualunque regione mi conducano
i cammelli d’amore, là si trovano
la mia credenza e la mia religione. (XI, 13-15)

XI
13. “Si è fatto, ormai, il mio cuore capace di ogni forma”: qualcuno ha detto: “Il cuore
(qalb) è così chiamato per i suoi cambiamenti (taqallaba), poiché esso muta secondo i
vari influssi che riceve in relazione alla varietà delle manifestazioni divine che
appaiono nel suo divino fondo (sirr).
“per le gazzelle”: per gli oggetti del suo amore.
“convento ai monaci cristiani”: nel momento in cui gli amati siano monaci, il suo cuore
si fa convento per essi.
14. “Si fa tempio per gli idoli”: per le realtà divine che gli uomini ricercano, e per mezzo
delle quali adorano Dio.
“Kaʽba ai pellegrini”: perché il suo cuore è circondato da spiriti esaltati.
“tavola di Torà”: il suo cuore è una tavola su cui sono scritte le conoscenze mosaiche
che gli sono state concesse.
“libro del Corano”: il suo cuore ha ricevuto in eredità il perfetto sapere
muḥ ammadiano.
“Seguo la religione dell’amore”: secondo il versetto: “Se amate Dio seguitemi e Dio v i
amerà ” (Corano, 3,29)
“in qualunque regione mi conducano i cammelli d’amore”: significa: “Accetto volentieri e
con gioia qualsiasi peso di cui mi carichi. Nessuna religione è più sublime di quella
basata sull’amore e sul desiderio di Colui che amo e nel quale ho fede”. Questa è una
caratteristica particolare dei musulmani, perché la stazione del Perfetto Amore è
attinente a Muḥ ammad più che a qualunque altro profeta, poiché Dio l’ha scelto come
suo amato.

5. In me c’è un desiderio
d’amore ardente per le sabbie di ‘Ā liǧ ,
dove son le sue tende,
dove son donne con degli occhi grandi
6. ed occhiate assassine e seducenti:
le ciglia sue e le palpebre
son foderi alle spade degli sguardi.
55
7. Io non cessavo d’inghiottire il pianto
originato dalla mia passione,
di celare e difendere il mio amore
da coloro che me ne biasimavano.
8. Finchè, quando gracchiò
per la partenza loro la cornacchia,
rese evidente la separazione
d’un amante dolente il desiderio.
9. A viaggiar nella notte continuarono,
e ruppero l’anello
al naso dei cammelli,
così che quelli, sotto i palanchini,
si dolsero, ed urlarono.
10. Vidi gli spasmi della morte quando
allentaron le briglie dei cammelli
e legaron le redini.
11. Miei assassini son separazione
ed amorosa pena;
ma la più amara pena
d’amore, con l’incontro, si fa lieve.
12. Nessuno mi rimproveri
del fatto che amo lei: infatti lei
in ogni luogo sia è amata e bella. (XIII, 5-12)

XIII
5. “le sabbie di ‘Āliğ”: la sottigliezza delle scienze acquisite o analitiche. ‘Ā liğ si riferisce
allo sforzo (mu’āliğ) per le buone opere.
“le sue tende”: sono i veli che nascondono tali scienze.
“donne con degli occhi grandi”: sono le scienze che scendono sull’anacoreta.
6. “occhiate assassine”: poiché causano il venir meno dall’individuale personalità .
“seducenti”: poiché si volgono verso il solitario. Il termine “sguardi” indica che si tratta
di scienze della contemplazione e della rivelazione, non della fede e del mistero, e che
procedono dalla manifestazione delle forme.
7. Si riferisce a uno stato di occultamento che è caratteristico ai Malā matī [setta o
scuola Ṣ ū fī che poneva in risalto la necessità di incorrere nel biasimo (malāmat) per
amore di Dio, e di nascondere il merito spirituale al fine di evitare il compiacimento di
sé].
9. “A viaggiar nella notte continuarono”: essendo infinito l’oggetto della ricerca, il
ritorno da esso è anche un viaggio verso di esso. Non c’è migrazione se non da un
Nome divino all’altro.
“e ruppero l’anello al naso dei cammelli”: con riferimento alla furia con la quale
viaggiavano.
11. “incontro”: è una specie di compresenza senza annullamento (fanā).
12. Il senso del verso è il seguente: le aspirazioni e i desideri di coloro che cercano
sono rivolti a lei; anche se lei nell’essenza è ignota a tutti, tutti l’amano, e nessuno
biasima alcuno per questo amore. Allo stesso modo, ogni anima individuale (e ogni
56
fedele di qualsivoglia religione) cerca la salvezza, ma, dal momento che non la conosce,
neppure sa quale strada porti ad essa, pur sperando di trovarsi sulla retta via. Tutti i
conflitti tra popoli di religioni diverse riguardano il cammino che conduce alla
salvezza, non la salvezza medesima: se qualcuno sapesse di trovarsi sulla strada
sbagliata non persisterebbe nell’errore. Di conseguenza lei manifesta se stessa
dappertutto, come il sole, e tutti quelli che la vedono sperano che lei sia con loro in
essenza, così che invidia e gelosia sono allontanate dai loro cuori.

1. I palanchini misero
sui veloci cammelli
e in essi collocarono
simulacri di marmo e lune piene;
2. e al mio cuore promisero
di fare poi ritorno.
Ma posson mai, le belle,
prometter cosa che non sia ingannevole?
3. Con le dita dipinte
per la partenza lei lanciò un saluto,
lasciò cadere lacrime
che attizzarono il fuoco. (XVI, 1-3)

XVI
1. I cammelli rappresentano le facoltà umane, i palanchini le azioni che tali facoltà
sono incaricate di compiere, le donzelle sistemate nei palanchini (simboleggiate dai
simulacri di marmo e dalle lune piene) le scienze mistiche e le conoiscenze perfette.
3. Il verso significa che la Sottigliezza divina, essendo acquisita e non data
direttamente, è soggetta a cambiamenti prodotti dal contatto con i fenomeni. Tale
cambiamento è indicato dal riferimento alle unghie dipinte, che alludono a una
alterazione dell’unità per una sorta di associazione. Nondimeno la sua permanenza nel
cuore è preferibile alla sua partenza, poiché essa finchè rimane protegge colui che sa.
“lasciò cadere lacrime”: lasciò entrare nel cuore le scienze della contemplazione, le
quali produssero un intenso struggimento.

1. Conduttor dei cammelli fulvo-chiari,


non aver fretta insieme ad essi, e férmati!
Poiché sono uno zoppo
andando dietro a loro.
2. Ferma i cammelli, stringine le redini:
te ne prego per Dio,
per la passione mia,
e per la mia angoscia, o cammelliere! (XVII, 1-2)

XVII

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1. Lo Spirito divino che parla nell’uomo dice al cammelliere (cioè a colui che parla in
nome di Dio e che guida le aspirazioni al sublime, simboleggiate dai cammelli, nel loro
viaggio verso il cielo): “Non ti affrettare con loro, al fine di poter vedere con quale
realtà dell’Essenza divina sono in relazione; poiché io sono confinato in questo corpo al
quale sono legato fino alla morte”.

1. Férmati alle dimore,


piangi sulle rovine,
e alle abbattute abitazioni chiedi:
2. “Gli amati, dove sono?
I lor cammelli, dove sono andati?”
“Guardali, nel deserto
traversano i vapori […]”
5. Ed io gli andavo dietro,
di lor chiedendo al vento dell’oriente:
“Han piantato le tende,
o stanno all’ombra delle piante ḍ al?”. (XVIII, 1-2, 5)

XVIII
1. L’autore dice alla voce di Dio che chiama dal suo cuore: “Fermati alle dimore” (che
sono le stazioni alle quali coloro che sanno salgono nel loro viaggio verso l’infinita
conoscenza dell’oggetto del loro culto), e: “Piangi sulle rovine” (cioè le tracce lasciate
da quei conoscenti).
“abbattute abitazioni”: non c’è gioia nelle dimore che sono state disertate; la loro vera
esistenza dipende dai loro abitatori.
2. “I lor cammelli”: sono le aspirazioni.
“il deserto”: è la stazione dell’Astrazione.
“i vapori”: sono le tracce di ciò che essi cercano; le sue tracce sono legate al suo essere
che si trova dentro loro stessi.
5. “Han piantato le tende”: si riferisce alla conoscenza acquisita da essi.
“all’ombra delle piante ḍal”: si riferisce alla conoscenza infusa da Dio, nella quale le loro
azioni non hanno parte. “Ḍ al” etimologicamente implica una nozione di perplessità ,
smarrimento.

3. Loro sono partiti senza che


io me ne rendessi conto,
e senza che potessero sapere
che la mia mente li serbava in sé:
4. li seguiva dovunque se ne andassero
e innalzassero i loro padiglioni,
e a volte ne guidava gli animali.
5. Finché, quando arrivarono
in una terra sterile e desertica,
e vi presero campo,
58
e stesero i tappeti,
6. tornò per loro un prato verde e florido
ciò che era stato un arido deserto.
7. Essi non si fermavano in un luogo
se non vi si trovava
un prato con degli esseri leggiadri
come fosser pavoni,
8. e non si allontanavano da un luogo
se non vi si trovavano
le sepolture degli amanti loro. (XIX, 3-8)

XIX
5. “una terra sterile”: è l’arrivo nella stazione dell’Unificazione astratta e assoluta.
“e stesero i tappeti”: in riferimento ai favori divini che essi ricevettero raggiungendo il
mondo della Verità .
6. Il verso significa che nessuna realtà , tranne la sostanza divina, può sussistere con
l’Unificazione astratta. Perciò , quando essi raggiunsero quest’ultima stazione, e se ne
resero conto, e compresero il senso della parola di Dio (Corano, 42,9): “non c’è nulla
che assomigli a Lui”, Egli li riportò indietro all’unificazione delle loro essenze nella loro
unità , che è incomparabile con la sostanza divina contenuta nella sua Essenza.
“un prato verde”: si riferisce ai misteri divini che la Verità emanò verso di loro per le
realtà dei Nomi.
7. “come fosser pavoni”: si riferisce agli stati, agli atti, alle disposizioni spirituali.
8. “le sepolture degli amanti loro”: le realtà , che desiderano che le loro tracce possano
essere manifestate nelle conoscenze. Tali oggetti di conoscenza esistono solamente
attraverso coloro che li conoscono; e proprio a causa di ciò li amano, perché se i
conoscenti vengono a mancare le conoscenze svaniscono.

3. Possa mio padre essere il riscatto


di una tenera e amabile fanciulla,
una di quelle giovani
che sopra i palanchini si conducono,
e ondeggiando procedon fra le spose!
5. O dimore di Rā ma diroccate!
Quante ragazze dai fiorenti petti
e belle, in voi trovarono riparo!
6. Io insieme a mio padre
possa essere riscatto
d’una gazzella che Dio stesso nutre,
d’una gazzella che fra le mie costole
si pasce stando stabile e sicura!
10. State con me fra le rovine, un poco,
e si tenti di piangere;
che mi sia dato piangere
per ciò che mi è accaduto.
59
11. La brama mi colpisce senza frecce,
la passione mi uccide senza lancia.
12.Parlatemi e piangete insieme a me
quand’io presso di lei lacrimo e piango.
Aiutatemi a spandere il mio pianto!
13. Riditemi la storia
di Hind e di Lubnā ,
di Sulaimā , di Zà ynab e di ‘Imā n!
14. E narratemi pure di Zaìd,
di Ḥ ā ǧ ir e Zarū d,
delle gazzelle ditemi, e dei pascoli!
15. E condoletevi per me coi versi
di Qayṣ e di Layla,
e con Mayya, e con Ġ aylā n l’afflitto!
16. Mi sono consumato lungamente
per un’amabile fanciulla, adorna
di prosa e di poesia,
dotta nell’arte di parlar dal pulpito,
dotata di favella ricca e chiara.
17. Ella è una principessa
della terra di Persia,
e dalla più gloriosa
delle città proviene, da Isfahā n;
18. E’ figlia dello ʽIrā q,
è figlia del mio Imā m […]
20. Se invero voi ci aveste scorti a Rā ma
offrirci l’uno all’altro
coppe di brama senza usare dita,
21. intanto che la brama
faceva sì che dolci e lievi motti
fra noi fossero detti senza lingua. (XX, 3, 5-6, 10-18, 20-21)

XX
3. “una tenera e amabile fanciulla”: è una forma della Sapienza divina, essenziale e
santa, che colma i cuori di gioia.ššš“una di quelle giovani che sopra i palanchini si
conducono”: ella è vergine, poiché nessuno l’ha mai conosciuta prima; e durante tutto il
suo viaggio dalla Presenza divina fino al cuore dello gnostico è rimasta pudicamente e
gelosamente velata.
“le spose”: le forme della Sapienza divina già realizzate dallo gnostico, e che lo
precedevano.
5. “O dimore di Rāma diroccate”: sono le facoltà fisiche. Rā ma deriva dal verbo rāma,
cercare; si allude al fatto che la ricerca fu vana.
“Quante ragazze”: forme divine sottili, da cui le facoltà fisioche furono annichilite.
11. “senza frecce”: cioè da distante. Si riferisce allo stato chiamato šaūq, passione.
“senza lancia”: cioè da vicino, corpo a corpo. Si riferisce allo stato detto ištiyāq, analogo
al precedente.
60
16. “amabile fanciulla”: una conoscenza essenziale.
“adorna di prosa e poesia”: cioè assoluta rispetto all’essenza ma limitata rispetto al
possesso.
“pulpito”: è la scala ai Nomi più belli, la cui salita comporta essere investiti delle qualità
dei Nomi divini.
“dotata di favella ricca e chiara”: si riferisce alla stazione dell’Apostolato. Si allude
enigmaticamente ai vari tipi di conoscenza mistica che vanno sotto il velo di an-Nezā m,
la figlia del nostro šaykh.
17. “Ella è una principessa”: a motivo del suo ascetismo, poiché gli asceti sono i sovrani
della terra.
“della terra di Persia”: cioè, lei è araba d’eloquio e straniera d’origine.
18. “’Irāq”. Lo ‘Irā q indica la scaturigine di tutte le cose, perciò si vuole indicare che
questa conoscenza è di provenienza nobile.
“un figlio dello Yemen”: in riferimento alla fede, alla sapienza, alla mitezza del cuore e al
respiro del Misericordioso. Queste qualità sono l’opposto di quelle attribuite allo ‘Irā q,
la rudezza, la ferocia e l’infedeltà .

1. O brolo della valle,


rispondi alla signora della casa,
a lei che ha gli incisivi risplendenti,
o brolo della valle.
2. E permetti che un po’ delle tue ombre
le faccian ombra un’ora,
fin quando non s’installi
nel luogo dell’incontro,
3. ed i suoi padiglioni
sian posti nel tuo mezzo.
Allora avrai quanta rugiada vuoi
per nutricare i teneri bocciò li,
4. e quanto vuoi di pioggia e di rugiada,
e di nubi sui suoi alberi bā n,
che vengono e che vanno;
5. e quanto vuoi di folta ombra e frutta,
deliziosa a colui che la raccoglie,
e pendula sul ramo;
6. e di quelli che cercano
Zarū ḍ e le sue sabbie,
e di quelli che cantano
conducendo i cammelli dal didietro
o cantano menandoli da innanzi. (XXI)

XXI
1. “brolo della valle”: si riferisce al cespuglio in cui la luce divina apparve a Mosè.

61
“signora della casa”: è la verità di Mosè, che significa un grado spirituale che il
conoscente ereditò da Mosè. “casa” denota la stazione della Gloria, irragiungibile a
causa della sua stessa essenza.
“incisivi risplendenti”: poiché si trova nella stazione del Colloquio e della Favella.
2. “fin quando non s’installi”: finchè il luogo non sia pronto per riceverla, così che lei
parli dall’essenza di lui all’essenza di lui senza riguardo per gli estranei.
3. “rugiada”: le conoscenze che sono nutrimento al corpo umano.
6. “Zarūd e le sue sabbie”: sono forme di conoscenza sfuggenti, che non si possono
apprendere se non nei momenti dell’estasi.
“quelli che cantano”: coloro che conducono il cammello da dietro indicano chi va nella
paura e tra le riprovazioni e le minacce (ed è schiavo dell’ira dell’Altissimo), mentre
coloro che stanno innanzi al cammello indicano chi va nella speranza, nella gioia e
nella gentilezza (ed è servo del Misericordioso).

1. Volgi i cammelli verso il territorio


pietroso di Ṭ̣ ahmā d,
entro il quale si trovan rami teneri
e degli umidi prati,
2. dove i lampi ti mostrano i bagliori
e dove vanno e vengono le nubi;
3. e innalza la tua voce,
all’alba ad invocare
le dame con i volti bianchi e splendidi
e le leggiadre vergini flessuose
4. che uccidono coi loro neri occhi
e protendono il loro lungo collo.
5. Ella assale ogni cuore appassionato
che ama la bellezza
con sguardi come frecce e spade indiane.
6. Ella prende con mano
soffice e lieve, come seta pura,
profumata con nadd e muschio in briciole.
7. Quando guarda, con gli occhi fondi scruta
di una gazzella giovane,
ed al suo sguardo è proprio
dell’antimonio il nero.
8. Le adornan gli occhi seduzione
ed un mortale incanto;
circondano i suoi fianchi lo stupore
e una bellezza senza paragoni.
9. È snella ma non ama ciò che amo,
e con sincerità
i patti non rispetta.
10.Lei tira indietro la sua treccia, come
fosse un serpente nero,
62
per spaventar con esso chi la segua.
11.Io non temo, perdio,
la morte, e tuttavia
la mia sola paura è di morire
senza poterla riveder domani. (XXII)

XXII
3. “dame con i volti bianchi e splendidi”: intelligenze derivate dal profeta Idris e discese
dal quarto cielo, dove risiedono le scienze di verità che Dio ha posto nel sole.
“vergini flessuose”: perché si protendono verso il mondo fenomenico e lo ricolmano. Si
riferisce a tutte le Realtà connesse col mondo fenomenico, come i Nomi divini.
4. “Che uccidono coi loro neri occhi”: si riferisce alle scienze della contemplazione.
6. “seta pura”: non tinta, e quindi esente da ogni contaminazione
“profumata con nadd”: cioè con una miscela di profumi. L’espressione significa che lei è
rivestita delle qualità divine e dei bei Nomi divini, secondo Corano, 7,179: “A Dio sono i
più bei nomi; invocatelo dunque con essi”.
9. “non ama ciò che amo”: lei non è limitata dal volere di nessuno, e se accade che la
sua volontà sia in accordo con la mia ciò è dovuto all’effetto prodotto da lei su di me, e
non viceversa.
“i patti non rispetta”: è un’antifrasi, secondo l’uso letterario arabo: vuol dire che è
particolarmente benevola e pietosa.
10. “la sua treccia”: è una catena di evidenze e di prove.
“un serpente nero”: si riferisce alla scienza della Maestà e del Prestigio divino.
11. “la mia sola paura”: è la paura di perdere la possibilità di contemplare l’Amato. E’ a
causa di tale paura che ha esitato nel seguire lei, desiderando acquisire quelle facoltà
divine che gli avrebbero permesso di sostenere quella manifestazione.

9. O voi che vi appressate a questa fonte,


o voi abitatori
della valle di ‘Aqīq,
10. e tu che per vederla,
vai cercando Medina,
e voi che percorrete questa strada,
11. guardateci di nuovo con pietà !
Perché noi siamo stati derubati,
un poco dopo l’alba,
un po’ prima che il sole fosse alto,
12. di una dama dal volto risplendente,
flessuosa e profumata,
che emana una fragranza
come di muschio in briciole:
13. ondeggiante di ebbrezza come i rami,
come una seta pura,
scossa dal vento, fresca,
14. ha cosce formidabili,
63
simili a enormi dune,
tremule come gobbe di un cammello.
15. Nessun censore mai
rimproveri mi ha mosso perché l’amo,
nessun amico mai
rimproveri mi ha mosso perché l’amo:
16. se mai qualche censore
mi avesse biasimato perché l’amo
gli avrebbero risposto i miei singhiozzi.
17. Mia brama è la mia schiera di cammelli,
e i miei dolori sono le mie vesti;
il desiderio a colazione bevo,
amaro pianto bevo quando ceno. (XXIII, 9-17)

XXIII
12. “una dama dal volto risplendente, flessuosa”: è l’attributo dell’essenza che è il suo
oggetto di desiderio. E’ chiamata “flessuosa” perché pur essendo maestosa si inclina
verso di noi, e niente ne deriva che non possa essere misurato dalla conoscenza, dalla
comprensione e dall’immaginazione.
“profumata”: cioè che lascia tracce divine nei cuori di coloro che la venerano.
15. “Nessun censore mai rimproveri mi ha mosso”: perché lei è come il sole, che è per
tutti, e non suscita gelosia.
17. “Mia brama è la mia schiera di cammelli”: poiché mi porta all’Amato.

14. O voi, albero sarḥ della vallata


e albero bā n del bosco,
oh fateci arrivare il vostro aroma
per mezzo della brezza,
15. un profumo di muschio
che esali fino a noi la sua fragranza
dai fiori di pianura o di collina.
16. O albero bā n della vallata, mostraci
la fronda o il ramoscello
che alla sua tenerezza siano pari.
17. I soffi dello zefiro
raccontano dei tempi giovanili
a Minā spesi, a Ḥ ā ǧ ir o a Qubā ,
18. o sulle dune, là , nel punto in cui
la valle si fa curva,
là proprio accanto al sorvegliato pascolo,
o magari a Laʽlaʽ, dove s’appressano
le gazzelle a brucare.
19. Tu non meravigliarti,
oh non meravigliarti,
oh non meravigliarti
64
di un Arabo ch’è appassionatamente
innamorato di bellezze timide
20. e che, quando si sente
la tortora che geme,
toccato dal ricordo
dell’Amato procede, e passa oltre. (XXV, 14-20)

XXV
15. “Dai fiori di pianura e di collina”: i primi rappresentano la stazione della
Rivelazione divina che discende sulla Sunna del Profeta e sulle scritture rivelate, gli
altri simboleggiano il velo più inaccessibile della Gloria divina.
16. L’uomo cerca Dio in miseria e desiderando ricevere, Dio cerca l’uomo in ricchezza
e desiderando dare.
17. “I soffi dello zefiro”: sono le scienze diffuse nel cuore della rivelazione e
manifestazione di Dio nelle diverse stazioni.
18. “O sulle dune”: è la montagna della visione.
“nel punto in cui la valle si fa curva”: è la stazione della Misericordia, che consente alla
natura umana di sussistere presso al “sorvegliato pascolo”, cioè alla manifestazione
dell’Essenza divina.
“Laʽla”: è la frenesia d’amore.
20. “la tortora”: è l’anima dello gnostico, i cui sublimi accenti eccitano in lui il
desiderio ardente di Dio.

1. Là nella curvatura della valle,


tra due balze rocciose,
è il nostro appuntamento.
Facciamo inginocchiare, orsù , i cammelli,
poiché questa è la meta.
5. Dolci i suoi luoghi, e dolce la sua brezza […] (XXVI, 1, 5)

XXVI
1. “nella curvatura della valle”: è il luogo in cui i favori divini si riversano
sull’anima, dove l’essenza si manifesta.
“il nostro appuntamento”: si riferisce alla stazione della Fede, luogo del patto fra
l’anima e Dio.
“questa è la meta”: il segreto della vita.
2. “non cercar altro”: se raggiungi questa meta non cercar altro, poiché il Profeta
disse: “Non c’è segno oltre Dio e non c’è fine oltre Lui, e oltre la Verità non c’è che
l’erranza”.
3. “Gioca”: si riferisce ai vari stati in cui si è trasportati da un Nome divino ad un
altro.
“fanciulle con il petto ricolmo”, “timide gazzelle”: sono le scienze innate della pura
unificazione.
4. “un prato”: è la Presenza divina, insieme ai nomi santi contenuti in essa.
“mosche”: sono gli spiriti sottili.
65
“un canoro uccello”: è l’anima umana, rispetto alle forme manifestate in ogni stato e
stazione.
5. “lampeggiavano e tuonavano”: in riferimento ai due stati della Contemplazione e
dell’Interlocuzione, secondo Corano, 2,206, e il Detto: “Dio era una densa nube, e
non c’era aria né sopra né sotto di Lui”.

4. Ed i cammelli, invero,
pure soffrendo per le zampe stanche,
cionondimeno viaggiano di notte,
e nel loro viaggiare van spediti.
5. Queste bestie da soma ci trasportano
verso di te con desiderio forte,
sebbene di raggiungerti non sperino.
6. traversato han per te luoghi selvaggi
e sabbie desolate e senza piogge,
dalla passione spinte;
e di quella fatica non si lagnano […] (XXVII, 4-6)

XXVII
4. “i cammelli”: sono le aspirazioni. L’autore vuol dire che esse non desistono dal
cercare, per quanto esauste per la difficoltà della loro cerca, dal momento che le prove
fornite dalla comprensione sono inadatte a condurle alla Realtò divina.
6. Il significato è il seguente: io, che pretendo di amare Dio, mi lamento dei disagi e
delle fatiche, mentre queste bestie da soma (cioè i miei atti e pensieri, che pure
controllo e governo) non si lagnano.

9. E tu va’ un po’ più piano, o cammelliere,


ché ho fuoco tra le costole.
10. Si è prosciugato per il troppo scorrere
il pianto mio, per téma del distacco:
11. sicchè, venuto il tempo di partire,
non troverai più occhi con cui piangere.
21. Perch’io son morto d’ansia, e disperato
pur restando al mio posto.
22. Non disse il vero il vento dell’oriente
quando portò ingannevoli fantasmi:
23. a volte il vento ti confonde, se
ti fa sentire ciò che non sentisti. (XXVIII, 9-11, 21-23)

XXVIII
9. “cammelliere”: è la voce di Dio che chiama a sé le aspirazioni.
“fuoco tra le costole”: è quello dell’amore.
21. “Perch’io son morto”: io dispero di attingere alla realtà di ciò che cerco, e mi
lamento per il tempo speso nella vana ricerca di esso.
66
“pur restando al mio posto”: io non posso sottrarmi al mio stato presente, che è senza
luogo, quantità e qualità , essendo puramente trascendentale.
22. “ingannevoli fantasmi”: sono le immagini e le allegorie con cui Dio, che non ha
simili, è presentato a noi dal mondo degli Spiriti.

13. O voi, miei due compagni,


possa il mio cuore essere il riscatto
di una snella fanciulla
che splendori e favori mi ha elargito!
14. L’armonia dell’unione ha stabilito,
poiché è il nostro principio d’armonia;
ella è ad un tempo Araba e straniera,
e sa rendere oblioso il conoscente.
15. Quando ti guarda è come se levasse
su te spade taglienti,
e dai denti davanti le traspare
un lampo abbacinante.
22. Era una luna quella che appariva
nel corso della circoambulazione;
e mentre lei girava intorno a me,
a nient’altro che a lei giravo intorno. (XXIX, 13-15, 22)

XXIX
14. “L’armonia dell’unione ha stabilito”: l’autore dice: ”Questa conoscenza mi ha fatto
concentrare su me stesso e mi ha unito al mio Signore”.
“Araba”: perché mi ha fatto conoscere me stesso a partire da me stesso.
“straniera”: poiché mi ha fatto conoscere me stesso a partire da Dio, dal momento che
la conoscenza divina è sintetica e non ammette anaqlisi se non per mezzo di
comparazioni. L’autore dice: “Da ciò segue che la sintesi è impossibile, ed io faccio uso
di tale termine solo per suggerrire all’intelligenza del lettore un significato che non si
può affermare se non attraverso l’intuizione immediata”.
“oblioso”: della sua conoscenza e di se stesso.
15. “un lampo abbacinante”: è la manifestazione dell’Essenza nello stato della Bellezza
e della Gioia.

21. Ella è rosa che sboccia dalle lacrime,


è narciso che spande
uno scroscio mirabile.
22. E quando tu vorresti conquistarla
lei allora discioglie,
per occultarsi, a lato di ogni tempia,
una treccia ch’è in guisa di scorpione.
23. Il sole sorge quando lei sorride:
o mio Signore, quanto son lucenti
67
le bolle sui suoi denti!
24. La notte giunge quando lei discioglie
la sua lussureggiante,
nera e intricata chioma,
25. a gara le api accorrono
quando la sua saliva spruzza intorno:
o Dio, la sua freschezza quanto è dolce!
27. Quanto sopra le dune a conversare
starai a Ḥ ā ğ ir, amorosamente,
o figliolo dell’Arabo,
con ritrose bellezze?
28. Ed io, non sono un Arabo? E pertanto
amo le belle giovani,
e le bellezze timide. (XXX, 21-25,27-28)

XXX
21. “narciso”: la visione che comunica conoscenze incomprensibili per la ragione.
25. Quando il conoscente sente in sé una Realizzazione divina, sì da raggiungere la
stazione indicata nel Detto: “Io sonon il suo orecchioe il Suo occhio”, la sua favella
diventa pura Verità e asoluta Rivelazione, e i cuori dei suoi discepoli ricevono da lui la
conoscenza nella stessa maniera in cui le api ricevono il miele da Dio (Corano, 16,70-
71).
27. “sopra le dune… a Ḥāğir”: sono le bianche colline, ben note ai ṣū fī, su cui è proibito
a chiunque metter piede. L’autore intende dire: “Perché non ti occupi di prepararti ai
doni elargiti da questa sublime stazione, in modo da non darti pensiero delle belle
giovani?”, cioè: “La contemplazione e il pensiero sono veramente cosa per te?”.
28. L’autore risponde alla domanda del verso precedente: “Le bellezze che cerco sono
la fonte del fiat originario. Io sono un arabo (‘arabī), perciò amo le belle giovani
(‘urub), vale a dire: “Non c’è alcun male nel fatto che mi comporti secondo la mia
natura, secondo quanto in me è originario e reale”.

3. Si dissero l’un l’altro: “Fate mettere


i cammelli in ginocchio”,
però non ascoltavano,
ed io nella passione
gridai: “O cammelliere,
4. deh tu fermati qui, sosta e riposa,
poiché è una donna
che sta con voi che amo.
5. E’ una fanciulla snella
e graziosa, di tenera bellezza,
per cui agogna il cuore
del desolato amante. (XXXI, 3-5)

XXXI
68
2. “Ḏāt al-Aḍā”: località di Tihā ma, in Arabia Saudita, rappresenta la Stazione dello
Stupore relativo all’Esaltazione, poiché Dio esalta coloro che si umiliano dinanzi a Lui.
“baleno”: è la luce della suddetta esaltazione.
4. “qui”: presso uno che ti cerca e ti ama.
“una donna che sta con voi”: si rivolge alle scienze apprese da tale manifestazione. Dal
momento che esse sono perseguite non per il loro valore intrinseco ma per quello di
ciò da cui dipendono, egli dice che desidera accostarsi a quest’ultimo per mezzo loro.
5. “una fanciulla”: un attributo divino che si è manifestato nel mondo delle
somiglianze.

2. Dissi a me stesso: “Dopo cinquant’anni


son diventato come un uccellino
a forza di pensare”.
3. E la prossimità
mi torna in mente d’Ḥ ā ǧ ir e di Salʼ,
mi riporta allo stato giovanile
e alla sua primavera,
4. al condurre cammelli sulle alture
e negli avvallamenti,
al mio accendere il fuoco innanzi a loro
con del legno di ’afā r e di markh. (XXXII, 2-4)

XXXII
2. “Dopo cinquant’anni”: il riferimento è all’età in cui l’autore compose questa lirica.
4. “al mio accendere il fuoco”: si riferisce a un momento in cui la visione distorceva le
cose.

1. Tre lune piene prive d’ornamenti


spuntarono a Tanʽīm velate in volto.
2. Svelaron volti come soli splendidi,
e forte pronunciaron la labbayka
dei luoghi santi in visita.
3. Si avvicinavan, camminando piano
come uccelli qaṭ̣ā ,
portando vesti yemenite a strisce. (XXXV, 1-3)

XXXV
1. “Tre lune piene”: tre Nomi Divini uscirono dalla Divina Presenza verso Tanʽīm per
lasciare traccia di sé, consistendo la loro beatitudine in tale manifestazione.
“velate in volto”: a causa della loro luce. Chi non ha lo sguardo resistente ne può morire.
2. “Svelaron volti”: innanzi ai cuori preparati a riceverli, e che essi hanno visitato
“luoghi santi”: si riferisce al cuore nobile.
3. “portando vesti yemenite a strisce”: ornati da Nomi satelliti, che sono per loro come
sacrestani che li assistono.
69
1. Fra le terre di Dio la più cara,
per me, dopo Ṭ aybā [Medina],
e Mecca, ed al-Aqṣā ,
è la città di Baġ dā n [Bagdad].
3. Questa è la casa d’una
delle figlie di Persia,
dai gesti dolci e dalle ciglia languide.
4. Ella saluta e riconduce a vita
quelli cui diede morte con gli sguardi:
e ciò di cui fa dono è la migliore
virtù dopo bellezza e retto agire. (XXXVIII, 1, 3-4)

XXXVIII
1. “Taybā ”: è la stazione di Yaṯrib [primo nome di Medina] da cui essi ritornano con un
totale fallimento del tentativo di raggiungere la vera conoscenza di Dio gloriosissimo,
come disse Abu̱ Bakr: “La percezione è l’incapacità di avere percezioni”, cosa che
implica vedere Dio in ogni cosa.
“Mecca”: è il cuore perfetto che contiene la Verità .
“al-Aqṣā”: letteralmente “la moschea lontana”, quindi Gerusalemme, e indica la
stazione della Santità e della Purezza.
“Baġdān” [eteronimo di Baġ̇ dā d]: è la sede dell’Imā m e del Califfo di tutte le genti che è
il Polo (Quṭb), in cui si trova la perfetta manifestazione della forma della Presenza
divina.
3. “una delle figlie di Persia”: intende la sapienza non araba, connessa a Mosè, Gesù ,
Abramo e ad altri profeti non-arabi della stessa levatura.
4. “il retto agire”: Gabriele disse: “Il retto agire consiste nell’adorare Dio come se lo
vedessi”, e aggiunse: “perché, se anche tu non lo vedi, Egli vede te”.

1. Possa far da riscatto la mia anima


alle fanciulle timide
e dalla bianca pelle
che giocavan con me
mentre stavo baciando Pietra ed Angolo!
2. Quando tu ti perda dietro ad esse
non troverai più guida
se non nel loro aroma,
la traccia più soave.
3. Mai mi trovai avvolto dalle tenebre,
in una notte illune,
che, ricordando loro,
non procedessi al lume della luna.
4. E quando mi ritrovo
la sera nella loro carovana
70
mi par la notte un sole mattutino.
5. Mi spingeva il mio amore a corteggiare
una fra mezzo a quelle,
una bellezza che non ha sorelle
in tutto l’uman genere. (XXXIX, 1-5)

XXXIX
1. “fanciulle”: le scienze divine che prendono corpo nel mondo delle somiglianze.
“mentre stavo baciando”: mentre mi trovavo nella stazione del Patto divino.

1. Dio protegga l’uccello sopra il bā n,


che la vera novella mi ha svelato
2. che gli amanti i bagagli han caricato
sui lor cammelli, e son partiti all’alba.
3. Io viaggiai: e per loro, dentro il cuore,
a causa del distacco
l’inferno divampò .
4. Nel buio della notte li rincorsi,
io li chiamavo, e ne seguivo l’orme;
5. e non avevo per seguirli guida
se non, del loro amore,
un profumato alito.
6. Le donne sollevaron le cortine:
e la notte si accese,
e alla luce lunare
la carovana andò .
7. Io allora lasciai che le mie lacrime
innanzi gli scorressero,
e loro domandarono:
“Quando mai questo fiume prese a scorrere?”
8. Ed erano incapaci di guadarlo.
Ed io risposi loro:
“E’ il pianto mio che scorre in grande copia”. (XLI, 1-8)

XLI
1. “l’uccello”: è lo spirito del Profeta nel suo corpo.
“la vera novella”: è il Detto concernente la discesa di Dio nel Paradiso terrestre.
2. Dio discese nella notte delle forme fenomeniche, secondo il detto: “E portò Lui via
all’alba”, cioè manifestò se stesso nel mondo intermedio (barzakh), il quale, come
l’alba, è luce mescolata alle tenebre; di modo che tale manifestazione è impura, se
comparata con la purezza e la santità della Maestà divina in sé.
“l’orme”: si riferisce all’investitura delle qualità divine.
5. “un profumato alito”: si riferisce all’uso delle guide di riconoscere la via, dove
manchino le indicazioni, dall’odore dell’aria.
6. Questo verso si riferisce a Corano, 34,22.
71
7. “loro”: sono gli angeli menzionati in Corano, 2,206.
8. “incapaci di guadarlo”: perché quelle lacrime erano sparse a causa del dolore del
distacco, e le moltitudinio celesti mancano di tale emozione dal momento che non sono
velate da Dio: perciò non possono transitare per questa stazione.

4. Invero lei è una fanciulla araba,


che appartiene per nascita
alle figlie di Persia, veramente
5. la Bellezza le ha dato
una fila di denti come perle,
di candore e purezza cristallini.
6. Mi ha sbigottito il suo disvelamento,
per quanto lei è splendida e amabile. ( XLII, 4-6)

XLII
4. “fanciulla araba”: una delle specie di conoscenza muḥ ammadiana.
“appartiene per nascita alle figlie di Persia”: la lingua di quel popolo straniero è più
antica di quella araba.
6. “Mi ha sbigottito il suo disvelamento”: quando una donna, senza un particolare
motivo, si toglieva il velo davanti a un arabo, questi lo considerava come un segno che
costei intendesse portargli male, quindi era costume guardarsene.

2. Una fanciulla tenera


è lei: le belle donne
ella confonderebbe,
la luna il suo splendore abbaglierebbe.
10. Lei è una gioia a quanti
per lei brucian d’amore,
e li trasporta e innalza
oltre il livello dell’umanità [… ](XLIV, 2,10)

XLIV
2. “le belle donne”: sono i Nomi divini che l’assistono.
10. “li trasporta”: nel mondo ulteriore, dove gli spiriti fuori del corpo assumono forme
diverse.

2. Le sue labbra son scure, è bruna lei,


ma la bocca ha di miele:
quello che delle api
si mostra è il chiaro miele che producono.
3. Caviglie forti, un’ombra sulla luna,
sulle sue guance un vivido rossore:
ella è un ramo che cresce sopra i colli.
72
4. E’ bella e tutta adorna; è senza sposo,
e ha i denti quali chicchi
di grandine, per lustro e per freschezza.
5. Tiene a distanza con il tratto serio
benchè per scherzo faccia l’amorosa;
e c’è la morte a mezzo
fra quella serietà e quello scherzo. (XLVI, 2-5)

XLVI
2. “Le sue labbra sono scure, è bruna lei”: si riferisce a una delle Idee divine, che
descrive con le labbra scure in riferimento ai misteri che contiene.
“quello che delle api si mostra”: menziona le api poiché hanno esperienza immediata
dell’ispirazione che i cuori dei conoscenti desiderano.
3. “Caviglie forti”: potente e temibile, con riferimento a Corano, 68,42 e 75,29.
“un’ombra sulla luna”: cioè è nascosta, eccetto che agli occhi della contemplazione.
“un ramo che cresce sopra i colli”: si riferisce alla qualità dell’autosussistenza che si
rivela nelle manifestazioni divine.
4. “tutta adorna”: dei Nomi divini.
“è senza sposo”: nessun essere umano l’ha mai conosciuta.
“denti quali chicchi di grandine”: si riferisce alla purezza della sua manifestazione.
5. “Tiene a distanza”: è realmente inaccessibile:
“morte”: l’angoscia di quelli che l’amano.

3. A Rā ma, a mezzo fra an-Naqā e Ḥ ā ǧ ir,


c’è una fanciulla dentro un palanchino.
4. Quale beltà , che tenera fanciulla!
La sua bellezza è come fosse un lume
per chi di notte viaggia.
5. Lei è una perla ascosa fra le valve
di una chioma che ha il nero del carbone.
12. Chi aiuterà chi annega nel suo pianto,
ebbro del vino della sua passione
per le arcate di denti ben divisi?
13. Chi aiuterà chi brucia tra i singhiozzi,
schiavo della beltà
dei bene separati sopraccigli?
14. Le mani dell’amore
col suo cuore han giocato,
e nella sua ricerca lui non pecca. (XLVIII, 3-5, 12-14)

XLVIII
3. “Rāma”: rappresenta una delle stazioni dell’Astrazione e dell’Isolamento.
“fra an-Naqā e Ḥāğir”: tra la bianca duna e il velo più inaccessibile, al quale i cuori di
coloroche sanno non possono mai giungere.

73
“una fanciulla dentro un palanchino”: è la Conoscenza essenziale contenuta nei cuori di
alcuni fra coloro che sanno. I loro cuori sono come palanchini e i cammelli (ossia le
aspirazioni) sono i loro veicoli.
12. “nel suo pianto”: nella conoscenza che viene dalla contemplazione.
“vino”: ogni scienza che ispiri gioia e rapimento nell’animo umano, per esempio le
scienze della perfezione divina.
“denti ben divisi”: sono i gradi della conoscenza di Dio.
13. “bene separati sopraccigli”: rappresentano la stazione fra i due ministri e imā m,
cioè quella del Polo (Quṭb).

1. Traditrice! Che ha morso con le trecce


serpigne chi voleva avvicinarla
2. da sano, e col suo sguardo
lei sciogliere l’ha fatto,
e infermo sul giaciglio l’ha lasciato.
3. Lei scagliava le frecce dello sguardo
dal sopracciglio arcuato,
e da qualunque parte provenissi
ucciso ne restavo. ( L, 1-3)

L
1. “Traditrice”: si tratta di un Attributo ingannatore, che fa innamorare delle
misteriose scienze derivate dalla divina Maestà e Bellezza.
2. “sul giaciglio”: cioè nel corpo.
3. “lei scagliava”: così è descritto il “trapasso” prodotto dalla contemplazione delle Idee
divine.

3. Poiché, vedi, il mio cuore è intento a loro,


così che ogni qualvolta il cammelliere
leva un canto a incitarli
esso ascolta in silenzio.
4. Se si chiaman fra loro alla partenza,
e a passare il deserto,
sentirai le mie grida
provenire da dietro i lor cammelli. (LII, 3-4)

LII
4. “il deserto”: è la stazione dell’Astrazione.
“i lor cammelli”: le aspirazioni che partono dal corpo.

1. O respiro del vento, reca tu


alle damme del Naǧ d questo messaggio:
“Io tengo fede al patto che sapete”.
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2. E dì alla fanciulla
della tribù : “Il luogo
del nostro incontro è al pascolo,
il sabato mattina,
presso i colli del Naǧ d:
3. sui rossi colli, dove stanno i cippi,
e sulla riva destra dei torrenti,
e accanto al solitario segnavia”.
4. E se la sua parola fosse vera,
se lei sentisse mai
lo stesso tormentoso desiderio
per me, che io ho avvertito
5. per lei, allora noi ci incontreremmo
nel caldo del meriggio,
dentro il suo padiglione, di nascosto,
nell’incontro più intimo;
6. e lei e io allora ci diremmo
quello che noi soffriamo per amore,
d’amare pene e dolorosi triboli. (LVII, 1-6)

LVII
1. “respiro del vento”: è il senso spirituale sottile, che coloro che sanno usano come
mezzo di comunicazione.
“damme del Nağd”: gli spiriti elevati.
2. “fanciulla della tribù”: spirito particolarmente innamorato del poeta stesso.
3. “sui rossi colli”: rappresentano la stazione della Bellezza, dal momento che il rosso è
il colore più bello.
“al solitario segnavia”: è la Singolarità divina (inferioree all’Unicità ).
4. “nel caldo del meriggio”: rappresenta la stazione dell’Equilibrio.

1. Esisterà una via


verso le luminose e belle giovani?
Qualcuno forse mi farà da guida
sopra le tracce loro?
2. Posso fermarmi a notte
presso le tende delle curve sabbie,
mi posso riposare a mezzogiorno
all’ombra degli arā k? (LVIII, 1-2)

LVIII
1. “luninose e belle giovani”: sono le conoscenze derivate dalle manifestazioni del Suo
Nome di Bellezza.
2. “le tende delle curve sabbie”: sono le stazioni del Favore divino.
“ombra degli arāk”: è la contemplazione della pura e santa Presenza.

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1. O tu bā n della valle
sulla riva del fiume di Bà ġ dā d!
2. Per te m’empie di pena una colomba
che lacrimosa canta
su di un ramo oscillante:
4. […] e quando accorda le tre corde sue
tu ti devi scordare
del fratello di al-Hā dī;
6. […] Per Ḏ u-l-Khadimā t
e per Sindā d io giuro
7. d’essermi innamorato d’amor folle
per quella che risiede là ad Aǧyā d.
8. Anzi mi son sbagliato: ella dimora
nell’atra massa che circonda il fegato.
9. Viene confusa la beltà da lei
e spirano profumi
di muschio e zafferano. (LXI, 1-2, 4, 6-9)

LXI
1. “bān”: è l’albero della luce nella stazione del Polo (qui Baġ dā d).
2. “una colomba”: uno spirito superiore.
“un ramo oscillante”: il corpo umano nella stazione dell’Autosussistenza.
4. “le tre corde sue”: cioè il corpo, nelle sue tre dimensioni: altezza, larghezza,
profondità . “tre corde” può anche riferirsi ai tre gradi dei tre Nomi, che sono la dimora
dei due Imā m e del Quṭb (Polo).
“al-Hādī”: califfo abbaside, suo fratello fu un buon musicista.
7. “Ağyād”: luogo della Mecca (letteralmente è plurale di “collo”). Qui si riferisce alla
gola, attraverso la quale passa il respiro.

_______________

Che amore quello di cui si parla con toni appassionati nel canzoniere di Ibn ‘Arabī,
opera sicuramente dalle forti motivazioni religiose, ma traboccante di chiari e ripetuti
riferimenti al vissuto sentimentale del suo autore? Molte questioni filosofiche e
religiose, intrinseche alle attività mistiche di Ibn ‘Arabī, sono sicuramente riecheggiate
nelle poesie e possono essere, per un lettore occidentale scarsamente avvezzo a queste
tematiche, di difficile comprensione, mentre ci sono ampi e ricorrenti squarci lirici
(l’andare delle carovane, cammelli e cammellieri, il deserto, le rovine, donne
misteriosissime) di grande suggestione e originalità , belli in sé, indipendentemente dai
loro pretesi significati reconditi. Un climax drammatico - rappresentato dalla disperata
rincorsa del protagonista - avvolge tutto. Interessante a questo proposito mi sembra
richiamare alcuni versi di Imru’ l-Qaysxliv, uno dei poeti preislamici, risalenti alla metà
del VI secolo. Figlio dell’ultimo re di Kinda, fu autore di una famosa muʽallaqa (una
delle poesie “appese” alla porta della Kaʽba, alla Mecca, e sottoposte così al giudizio
76
della gente). Scacciato dal padre per la sua condotta riprovevole, si ritirò nel deserto,
vivendo di razzie, disperato e solitario.

Compagni, sostate!
S’arrestino le cammelle veloci,
mehari, abituate alle marce
notturne, rapide,
usate al cammino.
Sostarono tutti,
mentre la pena li invadeva.
Le cammelle che li trasportavano
non sapevano distrarli
sicché fecero sosta le spedite camminatrici…

Mi chiedo per chi scrivesse Ibn ‘Arabī, ispirandosi a Imru’ l-Qays, visto che le sue
poesie, stando al commento da lui elaborato, sarebbero principalmente delle lezioni
teosofiche, delle illustrazioni allegoriche di problematiche religiose e di sue esperienze
mistiche. Significati tanto ermetici potevano trovare dei recettori? Degli ammiratori?
Se Ibn Arabi pensava di ammaestrare con queste poesie, non si capisce perché abbia
poi scritto per trent’anni i dodici volumi in prosa del suo diario spirituale, le Futuhat, e
i restanti circa quattrocento libri che gli sono attribuiti.
Il fatto è che i testi poetici del canzoniere, come lui dice esplicitamente
nell’introduzione, erano nati per tessere il ricordo e l’elogio di Nezā m. I riferimenti alla
giovane nelle poesie sono chiarissimi, addirittura di tipo biografico. Queste poesie
piacevano a Ibn ‘Arabī - e anche, credo, ai suoi estimatori e discepoli - per le immagini,
per le atmosfere, per i riscontri che si potevano trovare in famose liriche del passato,
per l’effluvio di emozioni, personali ma certamente condivisibili. E se questo valeva per
l’ambiente islamico, a maggior ragione il lettore occidentale è affascinato da tanto
lirismo esotico e antico, che colpisce la sensibilità e stimola la fantasia. Le poesie sono
innegabilmente lo specchio di una sensibilità religiosa di tipo mistico, e certamente
alludono a problematiche trascendenti profonde. Direi anche, stando al commento,
problematiche molto “tecniche”, e per loro natura difficilmente esprimibili
direttamente con argomentazioni discorsive. Perciò Ibn ‘Arabī ne farebbe
continuamente spunto per allegorie. Allegorie sottili, quando non vi rimane appeso
senza ottenere - per i lettori occidentali ma anche, credo, per i suoi - frutti estetici e
poetici di particolare significato.
Credo che Ibn ‘Arabī avrebbe volentieri evitato tutto questo, e che avesse scelto la
via della poesia perchè voleva, prima di tutto o per una volta, essere soprattutto poeta;
voleva pensare alla sua Nezā m e dare sfogo al suo sentimento, certamente casto e
puro. Del resto è questo che dice nell’introduzione alla prima edizione del canzoniere.
L’accompagnamento di tutto un armamentario retorico e ideologico con funzione di
sostegno e giustificazione, del quale è anche difficile dare conto, essendo che pressoché
ogni frase, e anche singole parole, vengono “spiegate” nel commento nel loro vero
significato mistico totalmente “altro”- in base ad un codice che solo certi super-adepti
potevano forse comprendere - è cosa decisa e realizzata a freddo, a posteriori. Senza i
riferimenti a Nezā m e il totale abbandono alle splendide “figure” che li incarnano, quei
77
versi e quei concetti non avrebbero avuto vita, sarebbero apparsi criptici e poveri di
emozioni. Non c’è sofiologia che possa animarsi senza una Sophia che agisca.
Non dico che il commento sia ipocritamente solo un modo per coprire a posteriori
l’avvenuta esternazione di un sentimento d’amore che urgeva. Ma sicuramente, se non
avesse avuto paura di reazioni ostili da parte dell’ortodossia legalista, non si sarebbe
preoccupato e non l’avrebbe scritto. Ibn ‘Arabī era un mistico autentico, le sue
esperienze interiori erano sempre per lui la cosa più reale e importante. Ed era
sicuramente difficile parlare poeticamente, direi parlare tout court, di quelle emozioni,
specialmente a gente non informata nè partecipe. Se voleva dare loro colore e sapore
doveva trasfigurare e allegorizzare i percorsi mistici. E nel prologo l’ha anche detto
chiaramente. Il tramite di figure femminili che rappresentassero l’oggetto di spasimi,
brividi, attese e speranze era il medium migliore. Come poi era sempre stato. Come
pensare che gli aspetti religiosi fossero solo scuse, la copertura che doveva mascherare
l’esplicitazione di sentimenti torbidi, magari anche di rapporti lussuriosi? Se tali
fossero stati non c’era ragione di parlarne. Non ci sarebbe stata nessuna oggettiva
necessità di idealizzazione. Solo un cuore nobilmente preso d’amore, adepto di una via
celeste, poteva pensare di parlare di Nezā m in quel modo così scoperto, pur sapendo
che poteva essere frainteso.
Poeta-amante, dunque, e “viaggiatore” sulle vie spirituali più profonde. Se non
avesse parlato di Nezā m non avrebbe forse avuto motivo di scrivere il suo canzoniere.
Non avrebbe di fatto potuto trasmettere nulla ai suoi seguaci e infine non sarebbe stato
nemmeno poeta. Ibn ‘Arabī ha scritto moltissimo in prosa, quando vuole cimentarsi
con la lirica lasciamolo fare. Del resto che sapore avrebbe potuto dare alle sue
esperienze mistiche, come avrebbe potuto parlare direttamente delle “stazioni”?
Questo prescindendo dal fatto che sempre d’amore si parlerebbe, di sentimenti
ineffabili, di limiti che in quanto tali finiscono oggettivamente per sovrapporsi e
confondersi. L’amore di questo tipo, che viene dal cuore, è aperto a “tutto”, non ha
etichette, non sopporta infingimenti e categorie. E’ di natura diversa, appartiene a
persone diverse. Non si deve restare “bassi” quando lo si avvicina. Poche volte, in tema
di religione e di trascendenza, si è stati sommersi da tanto lirismo.
Non posso nascondere il fastidio provato alla lettura del commento aggiunto da Ibn
‘Arabī in fretta e furia per prevenire le critiche malevole dei benpensanti. Critiche che
doveva temere perché nella riproposizione del Diwān contenente il commentario
omise anche dalla prefazione precedenti passaggi relativi alla bellezza di Nezā m. Al
Cairo, nel 1204, aveva creato un suo cenacolo: stile di vita mistico, fenomeni di fotismo,
telepatia. Fu arrestato e dovette lasciare precipitosamente l’Egitto per evitare l’accusa
di eresia e rischi per la sua vita. Ortodossi e legalisti, capeggiati dal duro Ibn Taymiyya,
lo controllavano. Le poesie sono belle, ricche di suggestioni e di contenuti il cui fondo
religioso e spirituale si avverte senza bisogno di “pezze” giustificative appiccicate. I
temi amorosi, sia quelli “allegorici” che quelli chiaramente riconducibili alla persona di
Nezā m, sono perfettamente autosufficienti, giustificati e integrati nel contesto, e non
abbisognano di alcunché. Perché il commento? Commento che pure si presenta
dettagliato e puntuale, forse fin troppo, e in fondo “facile” perché, almeno per noi
moderni ignari di tante cose, appare così vago e campato per aria da risultare del tutto
sovrapposto al testo, a cui nulla aggiunge, e, fortunatamente, nulla toglie. Ribadisco la
palese assurdità di un tale commento “a posteriori”, a fronte della sua stringatezza,
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mancanza di respiro, mancanza di legittimità e verità intrinseca. Il commento riportato
dal Nicholson è poi riassunto e impoverito, tranne che nei passi più interessanti. Non
ha quasi senso farvi riferimento. Potrà interessare solo gli specialisti di sufismo. L’ho
riportato a riprova della sua artificiosità : si vedano al v. 4 di LXI due interpretazioni
possibili offerte per lo scioglimento della stessa allegoria. Se non lo sapeva lui…

Qualsiasi tipo di adesione al pensiero religioso di Ibn ‘Arabī - pensiero approfondito


dettagliatamente, e direi anche caldamente partecipato, da Henry Corbin - sarebbe per
me problematica. Ma, pur arrivando a chiedermi se sia possibile un qualche dialogo fra
chi crede di vedere qualcosa, e lo racconta, e chi non vede nulla e cercare di capire,
senza alcun facile riscontro emozionale, solo contando sulla ragione, non posso negare
di essere stato soggiogato da tanta apparenza. Si dirà che sono una moltitudine quelli
che hanno raccontato di avere sperimentato le cose più incredibili. Appartengono a
tutte le religioni e a tutte le epoche (sicuramente a scemare con il diffondersi della
mentalità scientifica e dell’istruzione). La mente razionale è portata a giudicarli, tutti in
blocco, visionari, quando non impostori. Come se si sapesse per certo che non esiste
alcuna realtà disponibile oltre il raggio dell’occhio e della mente umana.
Eppure la ragione non riesce a spiegarsi quasi nulla di quanto ci circonda, intendo le
vere nascoste ragioni dell’esistente, o supposto tale. Le nostre facoltà , quelle normali e
comuni, non operano sganciate da una adesione stretta al mondo sensibile. I nostri
giudizi sulla realtà sono condizionati dagli organi sensitivi (l’occhio e la mente) e gli
organi dalla loro struttura, che è specchio e figlia di quella stessa realtà , apparente e
muta, che pretenderebbero di indagare e comprendere. E’ un circolo chiuso e
insuperabile, anche sul piano logico. Sicuramente le vere spiegazioni, le realtà
superiori, si trovano fuori dal circolo. Trascendenti, appunto.
Possiamo noi escludere che la gabbia così delineata possa presentare delle aperture,
piccole, nascoste, delle pieghe che consentano di andare un poco oltre? Possiamo
escludere che alcune persone, dotate di caratteristiche e in modi che risultano poi
straordinariamente simili, anche a fronte di orientamenti culturali molto diversi,
possano, come loro affermano, spaziarvi un poco? O magari anche molto? O si illudono
solo di poterlo fare? Come per la storia della luce alla fine del tunnel che i moribondi
credono da sempre di vedere, e raccontano quando restano fra noi, e che in fondo può
essere benissimo solo un effetto delle particolari condizioni mentali nello stato di pre-
morte.
In questo campo si è visto e sentito di tutto, e tutto è stato certamente abbellito e
ingigantito dalla credulità . Ma il problema della realtà vera che ci rimane nascosta
esiste innegabilmente. Ed è da sempre un problema tremendo, ovviamente persino
indefinibile nei suoi termini. Come possiamo pensare di venirne fuori? Lasceremo
almeno parlare coloro che pensano di avere qualcosa da dire, anche a partire da certe
loro esperienze confuse? Da sempre si ascoltano i loro racconti meravigliosi, mentre la
nostra conoscenza sostanzialmente non è avanzata di un passo. Anzi, mentre il
principio di ragionevolezza si è affermato, noi siamo tutti sconfitti su questo piano, e
siamo tutti ad aspettare l’ultimo modello di universo/multiverso elaborato dagli
scienziati, che ormai si sentono autorizzati a battere strade che poco hanno da
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invidiare alle più fantasiose scorrerie. Ma il sospetto che tutto non possa non rimanere
all’interno del circolo è forte.
Mi conforta che Ibn ‘Arabī unisca alla sua autoproclamata capacità visionaria una
intelligenza non comune, che non si sia preoccupato di erigersi a capofila di un
gratificante e ben strutturato movimento religioso teso a sopravvivergli, e che abbia
avuto il coraggio di esternare passioni e sentimenti personali accesi e anticonformisti,
cercando sempre di capire, di spiegare, e spiegarsi, le ragioni di quello che andava
scoprendo a partire dal cuore. Se non si crede che la chiave che ci si trova ad avere in
mano possa aprire qualche porta, da qualche parte, ci si condanna a restare rinchiusi
ad esaminare quest’unica stanza. D’altra parte quello che si potrà vedere fuori
potrebbe non esistere, o presentarsi con aspetto diverso a misura di chi lo contempla.
Comunque alla fine tutte le spiegazioni si equivalgono perchè tutte avanzano sulla
terra inconsistente del sogno. Al mattino, per fortuna, ci si risveglia sempre nello
stesso posto dove ci si è addormentati. Almeno così è per le persone sane e normali.
Ma forse nemmeno questo è per tutti così scontato, e non è detto che non possano
avere anche su questo le loro buone ragioni.

La teosofia di Ibn ‘Arabī

Conosciuta come “unità trascendente dell’essere” (wahdat al-wuğūd), afferma che


nell’esistere c’è solo Dio. L’affermazione sull’unicità di Dio (il tawhid) contenuta nella
šahāda, la professione di fede islamica, riguarda un tawhid essoterico (non c’è altro Dio
che “questo” Dio); attesta l’unicità divina con una espressione quasi tautologica ed è
quello a cui hanno fatto appello i profeti, in netta contrapposizione all’idea politeista.
Ma esiste anche un tawhid ontologico esoterico (soltanto Dio “è”) che attesta l’Unità
dell’Essere; è quello a cui fanno appello Ibn ‘Arabī e gli “Amici di Dio”.
Il Dio nascosto

La divinità è unica e nascosta. Abisso insondabile, inconoscibile, ineffabile. Pura


Essenza. Al di là dell’essere “Che è”, vi è “Ciò che origina”. E’ il “Dio che non è” di
Basilide, cioè il Theos agnostos, inconoscibile e impredicabile. Vi è poi il Dio rivelato, il
suo nous che pensa ed opera, che sostiene gli attributi divini ed è capace di relazione.
Ma non si può affermare l’unità dell’Ente. Per Ibn ‘Arabī sarebbe mostruoso
affermare che non c’è che un Ente. Sarebbe nichilismo metafisico. Tutto l’ordine
dell’essere nella gerarchia degli enti scomparirebbe. Questo è chiamato ”Monismo
esistenziale”. L’esistente per lui è essenzialmente multiplo. E’ l’Unico che fa di ogni
ente, di ciascuno di noi, un unico, di cui egli è a sua volta l’Unico, che può essere
conosciuto solo attraverso le sue “teofanie”. Noi possiamo sapere solo ciò che esso
rivela di sé in noi stessi.
Reciprocità di questo rapporto, come due specchi che si fronteggiano e riflettono
l’uno nell’altro la stessa immagine. Dio è lo specchio dell’uomo, nel quale l’uomo
contempla se stesso, e l’uomo è lo specchio di Dio, cioè lo specchio nel quale Dio
contempla i suoi Nomi divini. Gli Dei degli antichi erano i Nomi divini, figure divine
teofaniche. Non è possibile che il Dio incondizionato si epifanizzi in quanto
incondizionato: una simile epifania volatilizzerebbe l’essere a cui si mostrasse, non

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lasciando sussistere alcuna esistenza determinata, né alcuna attitudine o
predisposizione condizionata della sua ecceità .

La tristezza divina
Esiste un Essere divino isolato nella sua essenza incondizionata, di cui possiamo
immaginarci solo una cosa: la tristezza di quella solitudine primordiale, che lo fa
aspirare a rivelarsi negli esseri che lo manifestano a se stesso mentre egli si manifesta
a loro. La divinità unica aspira a rivelarsi e non può rivelarsi che nelle sue teofanie
multiple. Ciascuna manifestazione è autonoma, differente dalle altre, quasi una
ipostasi, ma nello stesso tempo c’è tutta la divinità in ogni forma teofanica. L’Angelo è
la forma che prende per noi il nostro Dio.
Dio vuole essere conosciuto e dà vita alle creature al fine di divenire in esse oggetto
della propria conoscenza. Le creature danno esistenza concreta e manifesta ai Nomi
divini, che esistevano in Dio dall’eternità . I Nomi divini sono essenzialmente relativi
agli esseri che li nominano, sono quali questi esseri li scoprono e li provano nel loro
proprio modo di essere e attraverso di esso. “Tale eum vidi quale capere potui”, è la
formula gnostica per eccellenza. Pertanto si dice che i Nomi divini formano i livelli o i
piani dell’essere. I Nomi divini non hanno dunque senso e realtà piena che attraverso e
per gli esseri che ne sono le forme epifaniche. Ciascun esistente è allora nel suo essere
più recondito un soffio della Compassione divina esistenziatrice.
Se esiste un dato sperimentale che permetta di parlare di un pathos divino, di una
passione divina per l’uomo (una “antropopatia” divina), che motivi la sua
“conversione” verso l’uomo (il suo “antropotropismo”), il solo dato dell’esperienza non
può essere altro che uno stato corrispondente nell’uomo, uno stato che ad esso è
complementare (sim-patetico) e nel quale il pathos divino si rivela. In altri termini
quest’ultimo non è accessibile, e non ha realtà esistenziale al di fuori di uno stato
vissuto dall’essere umano come teopatia e teotropismo. Il che significa che l’uomo non
raggiunge direttamente una questione postagli dall’esterno (che sarebbe pura
speculazione) ma la raggiunge nella risposta, e questa risposta è il suo stesso essere,
col suo modo d’essere assolutamente proprio, così come egli lo vuole e lo assume. Tale
risposta, dunque, dipende dalla misura in cui l’uomo si rende “capace di Dio”, poiché è
questa capacità che definisce e misura la simpatia in quanto mediazione necessaria di
ogni esperienza religiosa.
Ecco l’hadith di oscura origine infaticabilmente meditato da tutti i mistici dell’Islà m,
dove la divinità rivela il segreto della sua passione: “Ero un tesoro nascosto, e
desideravo essere conosciuto. Allora ho creato le creature allo scopo di essere
conosciuto da loro”. Henry Corbin, per renderlo più fedele al pensiero di Ibn ‘Arabī, lo
traduce così: “... allo scopo di divenire in loro l’oggetto della mia conoscenza”.
C’è la tristezza dei Nomi divini angosciati nell’incoscienza, poiché nessuno li nomina.
Da questa tristezza si distende il Respiro divino che nel mondo del Mistero è
compassione dell’Essere divino con e per se stesso, cioè per i propri Nomi. Dalle
profondità imperscrutabili della Deità , questa tristezza lancia un “Sospiro di
Compassione”, con l’angoscia e la tristezza dei suoi Nomi rimasti ignoti, e il Soffio ne
esala, suscitando all’essere una moltitudine di esistenze individuali. Una Nuvola
primordiale accoglie le forme e allo stesso tempo dà a ciascun essere la sua forma.

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Ciascun esistente è così, nel proprio essere nascosto, un Soffio del Compatimento
divino esistenziatore.

La Nuvola

Il Soffio del Compatimento divino emancipa i Nomi divini relegati nell’occultamento


della loro esistenza latente; questo Compatimento si fa esso stesso sostanza delle
forme di cui esso mette l’essere all’imperativo. Il Soffio dà origine all’intera massa
“sottile”, esistenziazione primordiale designata col nome di Nube.
Questa Nube, esalata dall’Essere Divino, e nella quale l’Essere Divino
primordialmente è, riceve tutte le forme e al contempo dà agli esseri la loro forma;
essa è attiva e passiva, ricettrice ed esistenziatrice, grazie ad essa si opera la
differenziazione all’interno della realtà primordiale dell’essere che è l’Essere Divino in
sé. In quanto tale, essa è Immaginazione assoluta, incondizionata. L’operazione
teofanica iniziale, con la quale l’Essere Divino “si mostra” a se stesso, differenziandosi
nel suo essere nascosto, cioè manifestando a se stesso le virtualità dei suoi Nomi coi
loro correlati - le ecceità eterne degli esseri, i loro prototipi latenti nella sua essenza - è
concepita da Ibn ‘Arabī come Immaginazione attiva creatrice.
La Nube è energia creatrice e “materia spirituale” di tutto l’universo degli esseri,
spirituali o corporei. Il Dio con cui e di cui sono fatti gli esseri. Essendo “materia
universale” essa è il patiens che riceve tutte le forme assunte dalla passione divina che
aspira ad essere conosciuta e rivelata. Noi siamo i suoi verbi, che non si estinguono
mai; nella Nube diventammo Forme, e ad essa demmo così l’essere in atto. In questa
Nube sono dunque manifestate tutte le forme dell’essere, dall’ordine degli Arcangeli
fino alle persone e alla natura inorganica. Tutto ciò si differenzia dalla pura essenza
dell’Essere Divino in sé. Generi, specie, individui, tutto è creato in questa Nube. La
Creazione è epifania, passaggio dallo stato di occultamento, di potenza, allo stato
luminoso manifestato e rivelato; come tale, essa è atto dell’Immaginazione divina
primordiale. Se non vi fosse in noi quella stessa potenza - potenza dell’Immaginazione
attiva - nulla si mostrerebbe di quanto noi percerpiamo (mostriamo a noi stessi).
Dio descrive se stesso a noi stessi mediante noi stessi. I Nomi divini hanno senso e
realtà piena soltanto mediante e per quegli esseri che ne sono le forme epifaniche, cioè
le forme in cui essi vengono manifestati. Dall’eternità , queste Forme, sostegno dei
Nomi Divini, sono esistite nell’Essenza divina; sono le nostre esistenze latenti, le nostre
individualità , allo stato di condizioni eterne ed archetipiche. Un concetto a prima vista
molto platonico. I corpi fisici sono manifestati nel cosmo materiale quando il Soffio
penetra nella sostanza materiale “preesistente”, ricettacolo delle forme corporee. Allo
stesso modo, gli Spiriti di luce, che sono forme separate, sono manifestati dalla
propagazione del Soffio in tutte le sostanze spirituali. Viene meno il concetto di
creazione ex nihilo, e subentra quello di emancipazione. Questa nozione è centrale e
rappresenta l’aspetto femminile e materno della divinità , la sua energia creatrice.
“A questo scopo egli mi esistenzia: affinchè conoscendolo, io gli dia l’essere” xlv.
Differenza capitale con Hallā ğ , che sarebbe un hulūlī, un incarnazionista: Dio manifesta
le sue perfezioni divine incarnandosi nell’uomo; mentre Ibn ‘Arabī è un ittihādī, nel
senso di una unificazione quale consegue precisamente dalla nozione di teofania
ipostatica. Dio si epifanizza nell’uomo, non già che Dio è nell’uomo. E’ in questo senso
82
che Cristo “è Dio”, cioè è una teofania, non come se Dio potesse dire: “Io sono il Cristo,
figlio di Maryam”. Per questa ragione Ibn ‘Arabī accusa i cristiani di empietà xlvi.

Il mondo come teofania


Un Dio patetico, il cui segreto è tristezza, nostalgia, anelito a conoscere se stesso negli
esseri che manifestano il suo essere, gli esseri del suo essere. Siamo i suoi organi, il suo
udito, la sua vista, la sua lingua; in breve siamo le individuazioni virtuali dei suoi Nomi.
La creazione non è separazione, proiezione di un essere extra divino, e nemmeno
emanazione nel senso propriamente neoplatonico, ma Teofania, differenziazione per
crescente incandescenza all’interno dell’essere. “Non è che un bel mattino tu diventi
Dio; è che tu sei in realtà Dio, cioè una delle forme di Dio, una delle sue teofanie”xlvii.
Quello che noi comprendiamo in verità non è altro che quello che noi proviamo e
subiamo, quello che noi patiamo nel nostro essere stesso. C’è da chiedersi come
potrebbe essere diversamente. L’ermeneutica, per Ibn ‘Arabī, non consiste nel
deliberare sui concetti, ma è essenzialmente lo “svelarsi” di ciò che accade in noi, di ciò
che ci farà poi pronunciare tale concezione, tale visione, tale proiezione, allorchè la
nostra passione diventerà una azione, un patire attivo. I modi di comprendere sono
essenzialmente in funzione dei modi di essere. L’equivalente dei concetti di Heidegger,
dice Corbin, si trova nell’arabo classico dei grandi teosofi visionari dell’Islà m. Il ta’wīl
(ricondurre una cosa alla sua origine, al suo archetipo) autentico non ha niente a che
fare con l’innocua allegoria.
Ibn ‘Arabī ricusa qualsiasi possibilità di percezione dell’unità trascendente
dell’essere, pertanto ricusa ogni monismo “esistenziale”. Per lui è quasi un’insolenza
dire che il servitore, nello stato di annichilimento estatico (fanāʼ), è diventato Dio
(Haqq), perché “divenire” postula una dualità che esclude l’unità . Non è una
esperienza, o una realizzazione mistica, ma è un postulato filosofico, un dato a priori
dell’intelletto, a fondare la dottrina della wahdat al-wuğūd. Se Ibn ‘Arabī professa che
l’essere è uno, non è perchè questo gli sia stato svelato in uno stato mistico. Tale unità
è una premessa filosoficaxlviii. Le cose, dice Ibn ‘Arabī, non possono essere
diversamente.
Ciascun essere è una forma epifanica (mazhar) dell’essere divino, che in essa si
manifesta rivestito di uno o più dei suoi Nomi. L’universo è la totalità dei Nomi con cui
Egli si nomina, quando noi lo nominiamo attraverso di essi. Non si tratta di una
frammentazione dell’Essere divino, ma della sua presenza totale ogni volta
individualizzata in ciascuna teofania dei suoi Nomi.
La locuzione teofanica del discepolo di Ibn ‘Arabī non sarà “Io sono dio” (quella di
Hallā ğ ), ma piuttosto sarà Ana sirr al-haqq, “Io sono il segreto di Dio”, cioè il segreto
d’amore che mette la sua divinità al suo servizio, perché il tesoro nascosto “desidera
essere conosciuto”, ed è stato necessario che gli esseri esistessero affinchè fosse
conosciuto e conoscesse se stesso. Il segreto, dunque, non è altro che il Sospiro emesso
dalla sua tristezza che ha dato così esistenza agli esseri.
La coppia Creatore-creatura si ripete a tutti i livelli delle teofanie. Ma la Deità rimane
nascosta, resta pura Essenza. Sarà il Rabb, il Signore, ad essere personificato e particolarizzato
in uno dei suoi Nomi e Attributi. Ibn ‘Arabī lo chiama il “Dio creato nelle fedi”. Ibn ‘Arabī
distingue tra Allāh come Dio in generale, e il Rabb come signore personale, personalizzato in
una relazione individuata e indivisa col proprio vassallo d’amore. La sola conoscenza che il
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fedele d’amore ha del suo Signore è precisamente la conoscenza che questo signore personale
ha di lui. Chi conosce se stesso conosce il suo Signore. Il “Dio creato dalle credenze”, il Dio in
funzione del quale il fedele vive è quello per il quale lui testimonia, e la sua testimonianza è
anche il giudizio che pronunci su se stesso. Ciò che agisce è comunque sempre l’Invisibile,
l’Immateriale.
Il ribelle, l’anticonformista, può essere gradito al suo proprio Signore e non ad un altro,
perché nell’insieme dei Nomi ciascun essere prende o riceve ciò che corrisponde alla sua
natura e alla sua capacità . I Nomi divini appaiono negli esseri solo in proporzione a quanto le
loro virtualità eterne esigono. Sostanzialmente si dice che ogni vita è giustificata dal suo
esistere. Ciascun essere è la forma epifanica del suo proprio Signore, all’uomo è confidata la
divinità del suo Signore, e sta a lui “rendersi capace del suo Dio” rispondendo per Lui. Il fedele
“dà l’essere” al suo Signore divino. Conoscendolo gli dà l’essere. Lo conosce in proporzione ai
Nomi e agli attributi divini che a lui e attraverso di lui si epifanizzano nella forma di ciò che
ama; la forma del suo amore è la forma stessa della fede che professa. Dio stesso canta le
proprie lodi in tutti i suoi esseri che sono le sue teofanie, benchè non tutti lo percepiscano xlix. I
mistici trovano il loro Dio non certo costruendo le prove della sua esistenza astratta, ma in ciò
che essi provano e subiscono (o “patiscono”) in Dio, cioè nella loro teopatia. Dio fa ciò che
vuole in piena libertà , è un sovrano assoluto.
Il teologo e il filosofo non sanno fare altro che meditare la creatura come contingente,
opponendola all’Essere Necessario con una scienza di Dio assolutamente inferiore – dice
Henry Corbin - poiché l’anima non vi si conosce che come creatura e null’altro, una
conoscenza puramente negativa che non comporta la pace del cuore. L’autentica saggezza
mistica è, per l’anima, conoscere se stessa come una teofania, una forma propria nella quale si
epifanizzano gli attributi divini che le sarebbero inconoscibili, se non fosse in se stessa che li
scopre e li percepisce.
Il nostro essere non è solo quella parte che consideriamo la nostra persona; la totalità
include ugualmente un’altra persona, una controparte trascendente che resta a noi invisibile,
ciò che Ibn ‘Arabī designa come la nostra “individualità eterna”, il nostro “Nome divino”.
Tutto ciò che viene detto altro da Dio, quello che si chiama “universo”, si rapporta all’Essere
Divino come l’ombra alla persona. Il mondo è dunque pura rappresentazione, non vi è
esistenza sostanziale.
Non c’è posto, in Ibn ‘Arabī, per un inizio assoluto, per una creazione ex nihilo, preceduta dal
nulla. Per lui sono assurdità teoriche e pratiche. Per Ibn ‘Arabī l’essere è manifestato ad ogni
istante sotto un nuovo rivestimento. L’Essere creatore è l’essenza o la sostanza preeterna e
posteterna che si manifesta ad ogni istante nelle innumerevoli forme dell’essere; quando si
occulta nell’una si epifanizza in un’altra. L’Essere creato è costituito da quelle forme
manifestate, diversificate, successive ed evanescenti, che ricevono sostanza non nella loro
autonomia fittizia, ma nell’essere che in loro e mediante loro si manifesta. Con un
rinnovamento, una ricorrenza d’istante in istante dalla pretereternità . Tuttavia noi non
smettiamo nemmeno per un istante di vedere ciò che stiamo vedendo. Nell’istante stesso della
sparizione il simile di quel che va sparendo viene esistenziato. Il mondo riveste ad ogni istante
una “creazione nuova”. Ad ogni Soffio del “Sospiro di compassione divina” l’essere cessa, e poi
è. Da parte dei fenomeni non vi sono che connessioni senza causa, nessuno essendo causa
dell’altro. Da parte del manifestato, non vi è che simile, d’istante in istante. E’ questa, per
quanto mi riguarda, la parte più ostica, essendo personalmente un cultore del determinismo
più totale.
Diciamo che la causalità è a monte, viene dal Nome divino investito in quella ecceità , mentre
tra i fenomeni non vi sono che connessioni senza causa, poiché essi non possono essere causa
gli uni degli altri, non avendo durata né continuità . Ogni soggetto percepito in ogni istante è
una “creazione nuova”. La continuità apparente consiste in una manifestazione di simili e di
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similitudini. Tutto ciò che gli esseri umani vedono nella loro vita terrena appartiene allo
stesso ordine delle visioni contemplate in sogno.
L’ecceità eterna è l’archetipo di ciascun essere individuale nel mondo sensibile, la sua
individuazione latente nel mondo del mistero, che Ibn ‘Arabī designerà anche come Spirito,
cioè “Angelo” di quell’essere. Conoscere la propria ecceità eterna, la propria essenza
archetipica significa, per un essere terreno, conoscere il proprio “Angelo”, cioè la propria
individualitò eterna. “Ritornare al proprio Signore” significa realizzare la coppia eterna del
fedele e del suo Signore, il quale non è l’Essenza divina nella sua generalità , bensì la sua
individuazione in questo o quello dei suoi Nomi. Sopprimere questa individuazione avvenuta
nel mondo del Mistero significa abolire nell’essere terreno la sua dimensione archetipica o
teofanica propria, il suo “Angelo”. Non avendo più da ricorrere ciascuno al proprio Signore,
tutti gli esseri si troverebbero abbandonati ad una medesima onnipotenza indifferenziata,
equidistanti e confusi nella collettività religiosa o sociale. A questo punto, sarà loro lecito
confondere il proprio Signore, non più conosciuto così com’è, con l’Essere Divino in sé,
pretendendo di imporlo a tutti. Prevarrebbe il “Dio creato nelle credenze”, l’imposizione a
tutti dello stesso Signore.
La forma visibile appartiene al fedele, mentre l’Ipseità divina è come “inserita” nel fedele. E’
l’inserzione nel Nome che il fedele “porta”. Come dire che la nostra persona è “inserita” nella
forma che viene manifestata come in uno “specchio”. Sempre in termini di teofania, non di
incarnazione. Ciò che si manifesta dell’Essere divino, è questo la creatura. Il Signore è il
segreto dell’Ipseità , il sé del suo fedele; è quello che opera in lui e mediante lui.
E’ dunque Dio che mi fa esistere. Ma conoscendolo io lo faccio esistere a mia volta (io sono
colui per cui e in cui egli esiste come Dio rivelato, Signore personale, poiché il Dio
inconosciuto, il “tesoro nascosto” non esiste per nessuno, è non-essere puro). In questo
quadro la preghiera non è un atto prodotto unilateralmente dal fedele; essa è invece la
congiunzione dell’Adorante e dell’Adorato, dell’Amante e dell’Amato. E’ il suo stesso essere
dell’orante, la capacità stessa del suo essere, ad essere la sua Preghiera, l’essere della sua
ecceità che domanda l’attuazione plenaria, integrale. Domanda questa che implica anche
esaudimento, non essendo altro che la voce espressa dalla divinità stessa ancora nascosta
nella sua solitudine d’inconoscenza: “Ero un Tesoro nascosto, e desideravo essere conosciuto”.
Anche per Ibn ‘Arabī ogni parte del cosmo ha il suo omologo nell’essere umano. Gli Angeli del
microcosmo sono le facoltà psichiche, fisiche e spirituali dell’individuo.

L’Immaginazione attiva

Esistenza “oggettiva” del mondo “immaginale”. Senza il “mundus imaginalis” (‘ālam al


mithāl) le visioni dei profeti e dei mistici non potrebbero avere avuto luogo. L’Immaginazione,
da non confondersi con l’immaginario irreale e soggettivo, è l’organo della sua percezione.
Nel mondo intermedio si corporizzano gli spiriti e si spiritualizzano i corpi.

Su quella Terra esistono figure (o Forme) di una specie meravigliosa; si levano all’inizio delle strade, e
dominano il mondo in cui noi siamo, la sua terra e il suo cielo, il suo paradiso e il suo inferno. Quando
uno di noi vuol penetrare in quella terra […] la condizione da soddisfare è la pratica della gnosi e
l’isolamento, fuori dal proprio tempio di carne. Egli incontra Forme che si levano e vegliano per ordine
divino all’ingresso delle contrade. Una di quelle Forme corre verso il nuovo arrivato, lo riveste di un
abito consono al suo rango, lo prende per mano e cammina con lui per quella terra. E mentre in essa si
inoltrano, la Forma continua a parlargli, come un uomo parla con il suo compagno di viaggio. Essi
hanno lingue diverse, ma quella terra ha la proprietà di concedere a chiunque vi penetri la
comprensione di tutte le lingue che colà si parlano. Quando egli vuol tornare, il suo compagno
cammina con lui fino al punto da cui era entrato, lo spoglia dell’abito, e si allontana da lui. l

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La descrizione che la teosofia sufi ci offre di questo mondo misterioso e trasfigurato
corrisponde in modo sorprendente a quelle del Buddismo mahayana li, e anche a quelle di
Swedenborg.
L’Immaginazione attiva investe l’uomo della sua “funzione teofanica”; essa è essenzialmente
Immaginazione creatrice, perché la Creazione è essa stessa teofania e Immaginazione
Teofanica. Il cuore, centro della fisiologia sottile, è la sede in cui si concentra l’energia
spirituale creatrice, mentre l’Immaginazione ne è l’organo.
L’intermediaria fra il mondo del Mistero e il mondo della visibilità non può essere che
l’Immaginazione, in quanto il piano dell’essere e della coscienza che questa designa è il piano
in cui gli incorporei del mondo del Mistero si “corporizzano”, prendono corpo, e dove,
viceversa, le cose naturali, sensibili, si spiritualizzano, si “de-materializzano”.
L’Immaginazione è il “luogo dell’apparizione” degli esseri spirituali, Angeli e Spiriti, che vi
rivestono la figura e la forma del loro “corpo d’apparizione”. I puri concetti e i dati sensibili vi
si incontrano per affiorare in figure personali, pronte agli eventi delle drammaturgie
spirituali, essa è il luogo in cui si compiono tutte le “storie divine” lii. Queste manifestazioni non
sono percepibili né verificabili dalla normale sensibilità , sono percepibili soltanto dalla
Immaginazione attiva. La verità simbolica, ove posseduta dalla cosa manifestata, implica una
percezione sul piano dell’Immaginazione attiva. Così è, se vi pare…

La Forma sotto la quale ciascuno Spirituale conosce Dio è anche la forma sotto la quale Dio lo conosce,
poiché essa è la forma sotto la quale Dio si rivela a se stesso in lui. Per Ibn ‘Arabī è la correlazione
essenziale tra la forma della teofania e la forma di colui a cui la teofonia si mostra. E’ la “parte
concessa” ad ogni Spirituale, la sua individualità assoluta, il Nome divino di cui egli è investito; è il
teofanismo essenziale, per cui ogni teofania ha la forma di una angelofania, poiché ogni teofania si
compie secondo questa correlazione determinata; tale determinazione essenziale, senza la quale
l’Essere divino rimarrebbe l’Incognito e l’Inconoscibile, è il senso dell’Angelo. liii

Traspare anche un comprensibile sgomento dalle parole di Corbin: “E’ una scienza oscura:
soli a comprendere la verità sono coloro che possiedono l’Immaginazione attiva; subendo
l’influenza di ciò che non ha esistenza esteriore, costoro sono più adatti a comprendere liv […]
Volerne sapere di più […] è chiedere l’impossibile: sarebbe come volere conoscere le relazioni
specifiche delle individualità -archetipi eterne con l’Essenza divinalv”.
L’archetipo è visibile solo attraverso uno dei suoi simboli e questi non sono mai arbitrari,
ciscuno di noi porta nel proprio essere il suo simbolo, e ne fa un uso personale, adeguandosi
ad una legge e ad un fatto a priori del suo essere. Ciascuno porta in sé l’immagine del suo
Signore, ed è per questo che egli si riconosce in esso; solo mediante questo suo Signore,
questo Nome divino a cui presta servizio, ciascuno conosce Dio. Una parola che ogni uomo
comprende secondo la sua attitudine, la sua conoscenza di sé e del mondo che lo circonda; è
un simbolo per la forma della sua credenza personale. In questo senso Dio è un’espressione
per il Dio creato dalle credenze, non Dio qual è in sé. Le altre creature non hanno alcun dovere
di obbedire a quel Dio che richiede la tua adorazione, poiché le teofanie corrispondono per
loro ad altre forme.
La visione teofanica non è l’impossibile visione dell’Essenza divina nella sua nudità , nella
sua assolutezza, bensì visione del Signore proprio a ciascuna anima mistica, rivestita del
Nome proprio corrispondente alla virtualità particolare dell’anima che ne è l’epifania
concreta. “All’atto iniziale del Creatore che immagina il mondo, risponde la creatura che
immagina il suo mondo, i mondi, il suo Dio, i suoi simboli […] La medesima Immaginazione
teofanica del Creatore che ha rivelato i mondi rinnova ad ogni istante la Creazione nell’essere
umano che egli ha rivelato in quanto sua Immagine perfetta, e che, nello specchio che è questa
Immagine, mostra a se stesso colui di cui è l’Immagine. Per questo [dice Corbin]
l’Immaginazione attiva dell’uomo non potrebbe essere vana funzione, perché è la stessa
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Immaginazione teofanica che, attraverso e nell’essere umano, continua a rivelare ciò che essa
ha mostrato a se stessa immaginandolo primordialmente”lvi.
Il cuore dello gnostico è predisposto a ricevere tutte le forme delle teofanie, mentre il non
gnostico è predisposto a riceverne una sola. Né il cuore né gli occhi del credente vedono mai
altro che la Forma della credenza che egli professa nei riguardi dell’Essere Divino. Anche
l’occhio non vede che il Dio delle credenze. La Teofania si produce secondo la dimensione del
ricettacolo che l’accoglie e in cui si mostra. La credenza esprime la misura della capacità del
cuore. Per questo le credenze si diversificano. Per ciascun credente l’Essere Divino è quello
che si mostra a lui sotto la forma della sua credenza. I credenti dogmatici pretendono che la
forma della loro visione sia la sola vera, ignorando che è l’immaginazione divina creatrice a
mostrare a se stessa quel “Dio creato nelle credenze” il quale è ogni volta una teofania che
essa stessa configura.
La scienza dell’Immaginazione è teogonia, ed è anche cosmogonia. E’ la scienza delle
teofanie dispensate propriamente ai mistici e di tutte le taumaturgie che ad essa si collegano.
Immaginazione congiunta al soggetto immaginante e Immaginazione dissociabile dal soggetto,
dotata di sostanza in sé. La prima sparisce con il soggetto, la seconda sussiste sul piano
dell’essere che è quello del mondo intermedio, il mundus imaginalis.

La himma

Quando l’Angelo, dopo sei mesi di sogni veridici, prendeva al cospetto di Maometto una
forma umana, il Profeta, con la sua coscienza visionaria, poteva al contempo parlarne ai
compagni come di un essere umano o simultaneamente dire: è l’Angelo Gabriele. Per Corbin in
entrambi i casi diceva il vero. La funzione universale e liberatrice dell’immaginazione attiva
consiste nel tipificare, trasmutare ogni cosa in Immaginazione-simbolo, e percepire la
corrispondenza tra il nascosto e il visibile. Tale tipificazione delle realtà immateriali nelle
realtà visibili che le manifestano è compiuta attraverso il taʼwīl, l’esegesi simbolica, funzione
per eccellenza dell’Immaginazione attiva. L’esegesi simbolica, instaurando le tipificazioni, è
dunque creatrice nel senso che essa trasmuta le cose in simboli, in Immagini-tipo, e le fa
esistere su un altro piano dell’essere. Per Ibn ‘Arabī “l’unione sessuale non è che un riflesso di
quella unione nuziale che, nel mondo degli Spiriti di pura luce, prende la forma dell’Energia
immaginativa, proiettiva e creatrice denotata dal termine himma”lvii.
La “fisiologia sottile” di Ibn ‘Arabī è elaborata a partire dalle sue esperienze ascetiche,
estatiche e contemplative, espresse in linguaggio simbolico, che operano su un “corpo sottile”
composto di organi psico-spirituali, distinti dagli organi corporei. Il cuore del mistico è l’
“occhio” attraverso il quale Dio vede se stesso. La potenza di un’intenzione in grado di
proiettare e realizzare (“essentificare”) un essere esterno a quello che concepisce,
corrisponde assolutamente al carattere proprio di questa potenza misteriosa che Ibn ‘Arabī
designa col nome di himma. Con la himma lo gnostico crea qualcosa che esiste al di fuori
dell’ambito delle sue facoltà rappresentative. Soltanto altri mistici possono percepirla. Con la
sua himma lo gnostico fa apparire nel mondo sensibile una cosa che ha già esistenza in una
dimensione superiore; concentrando l’energia spirituale il mistico ottiene un perfetto
controllo su quella cosa. Siamo nel terreno della magia.
Queste forme (teofanie) preesistono a noi, e continueranno ad esistere dopo di noi. Non vi è
nulla che cominci ad essere che già non fosse, e che non sarà (qui il nostro Emanuele Severino
avrebbe certamente qualcosa da replicare, credo con compiacimento). Farle apparire è
precisamente la funzione della himma. Possono comprendere questa facoltà soltanto coloro a
cui è stato conferito il dono, e che l’hanno sperimentato. Ma costoro sono in numero esiguo.
Quando l’uomo si assenta dalle proprie facoltà sensibili, gli oggetti che normalmente
riempiono la sua coscienza da sveglio cessano di velargli la percezione delle forme controllate
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dal potere dell’Angelo. Egli può allora percepire, anche in stato di veglia, ciò che il dormiente
percepisce durante il sonno. L’elemento sottile dell’essere umano si trova trasferito, con le sue
energie, dal piano sensibile alla facoltà immaginativa sostenuta dalla parte anteriore del
cervello. Allora questo angelo-spirito, custode delle forme e delle figure che sussistono di
esistenza propria nel mondo dell’Immaginazione autonoma, concede al visionario la visione
delle cose spirituali che si “corporeizzano” nel mondo intermedio.
Dio non può concedere all’uomo altro che quello che comporta la sua ecceità . Il supremo
dono mistico sarà di ricevere la visione intuitiva di questa ecceità , perché in tal modo egli
conoscerà la sua attitudine, la sua predisposizione eterna. Nessuna teofania è possibile se non
sotto la forma corrispondente alla predisposizione del soggetto a cui essa si mostra. Ibn ‘Arabī
non nega mai l’evidenza del dato oggettivo, o creduto tale.
Ciò che un essere raggiunge al culmine della sua esperienza mistica non è, non può essere, la
conoscenza dell’Essenza divina nella sua unità indifferenziata. Quel che un essere raggiunge è
il “polo celeste” del suo essereo, o piuttosto, l’ “Angelo” della sua persona, il cui io corporeo
non è che il polo terrestre; non è l’”Angelo custode” della teologia corrente, ma un’idea assai
vicina alla Daena-Fravarti del mazdeismo.

Canto finale dal “Libro delle teofanie” di Ibn ‘Arabī lviii:

Se tu mi percepisci, te stesso percepisci.


Ma non potresti percepirmi mediante te stesso.
Col mio sguardo mi vedi e al contempo ti vedi,
così col tuo sguardo sapresti percepirmi
[…] ti sono più vicino di quanto tu lo sia a te stesso,
più dell’anima tua, più del tuo sospiro.
Quale fra le creature, dunque,
saprebbe fare meglio?
Di te sono geloso a causa tua.
Non voglio nessun altro,
nemmeno te io voglio.
Sii mio, per me, così come sei in me,
senza che neanche tu lo sappia.
uniamoci dunque, Amato mio!

La religione dell’amore mistico

L’incontro con Nezā m riassume tutta la sostanza della sua “dialettica d’amore”. Alla Mecca,
a 36 anni, conosce una fanciulla di bellezza e sapienza straordinaria, che lui vede come figura
teofanica della Sophia aeterna (Corbin la paragona alla Beatrice di Dante). Se un Nome divino
non può essere conosciuto che nella forma concreta che ne è la teofania, allo stesso modo ogni
Figura divina archetipica non può essere contemplata al di fuori di una Figura concreta -
sensibile o immaginale - che la rende visibile esteriormente o mentalmente. Nezā m, sono
parole di Ibn ‘Arabī, è allusione ad “una Sapienza (Sophia) sublime e divina, essenziale e
sacrosanta, che si manifesta visibilmente all’autore di queste poesie con una dolcezza tale da
ingenerare in lui gioia, emozione e rapimento” lix. E’ la trasfigurazione di un essere che
l’Immaginazione di Ibn ‘Arabī percepisce direttamente alla stessa altitudine di un simbolo,
ponendolo sotto una luce teofanica, cioè una luce che ne rivela la dimensione nell’aldilà lx.

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Non capire, o non prendere sul serio l’intenzione di Ibn ʽArabī, consapevole di esprimere un’amore
divino rivolgendosi alla giovane Sophia, significherebbe semplicemente ignorare ogni aspetto di
questo teofanismo sul quale il presente libro [L’Immaginazione creatrice, n.d.r.] insiste, perché è il
fondamento stesso della dottrina del nostro shaykh, la chiave per comprendere il suo sentimento
dell’universo, di Dio e dell’uomo, e dei loro reciproci rapporti […] Il teofanismo è distante sia
dall’allegorismo sia dal letteralismo; esso presuppone l’esistenza della persona concreta, ma l’investe
di una funzione che la trasfigura, in quanto percepita sotto la luce di un altro mondo. lxi

La funzione teofanica della Bellezza - l’immagine più perfetta della Divinità - investita negli
esseri è il segreto della dialettica d’amore. Questa dialettica disvela nella natura dell’amore
mistico l’incontro tra l’amore sensibile, fisico, e l’amore spirituale. La Bellezza è la suprema
teofania, ma si rivela in quanto tale solo ad un amore che essa ha trasfigurato. L’amore mistico
è distante tanto dall’ascetismo negativo quanto dall’estetismo o dal libertinismo dell’istinto
possessivo.
La dialettica d’amore di Ibn ‘Arabī esperisce la simpatia dell’invisibile e del visibile, dello
spirituale e del sensibile. Solo questa “co-spirazione” rende possibile la visione spirituale, che
è poi visione dell’invisibile in forma concreta, così come la percepisce non già una delle facoltà
sensibili, bensì l’Immaginazione attiva, organo della percezione teofanica. Dio non può esserci
noto che in ciò che esperiamo di Lui. Egli è colui che in ciascun essere amato si manifesta allo
sguardo di ogni amante, così che niente altro che Lui è adorato, poiché è impossibile adorare
un essere senza rappresentarsi in esso la divinità . Così succede nell’amore: in realtà un essere
non ama altri che il suo creatore.
Tre sono le specie di amore per Ibn ‘Arabī: Amore Divino, l’amore del Creatore per la
creatura in cui egli si crea (cioè che suscita la forma in cui egli si rivela) e dall’altro l’amore di
questa creatura per il suo Creatore, che altro non è se non il desiderio del Dio rivelato nella
creatura, che aspira a tornare a se stesso dopo avere aspirato, come Dio nascosto, ad essere
conosciuto nelle creature; Amore spirituale, nella creatura sempre alla ricerca di quell’essere
di cui essa scopre in sé l’Immagine, o di cui scopre di essere l’Immagine; infine l’amore
naturale, volto al possesso di qualcosa che soddisfi i propri desideri.

L’Amato divino, il cui unico desiderio è che l’anima non ami altro che lui stesso e lo ami per lui stesso,
si manifesta ad essa, cioè si produce per lei in una teofania sotto una forma fisica. Facendo così, le
accorda un segno, o un segnale, notificando in maniera assoluta che è Lui che si manifesta a lei sotto
quella Forma, tanto che è impossibile all’anima negarlo a se stessa. Non è certamente un segno
intercettato dai sensi, ma da un altro organo; si tratta di una conoscenza d’evidenza immediata, a
priori. Allora l’anima percepisce quella teofania; riconosce che l’Amato è quella forma fisica (sensibile
o mentale, identificata dall’Immaginazione attiva), ne è attirata, trascinata, simultaneamente nella sua
natura spirituale e nella sua natura fisica. Essa “vede” il suo Signore, prende coscienza di vederlo in
quell’Immagine estasiante data alle sue facoltà interiori, e non può che amarlo per se stesso, amore
“fisico”, poiché cattura e contempla un’Immagine concreta, e simultaneamente amore spirituale,
poiché non si tratta, per lei, di entrare in possesso di quell’Immagine, ma di esserne completamente
investita. Questa congiunzione dell’amore spirituale e dell’amore naturale, mediante la trasmutazione
di questo in quello, descrive proprio l’amore mistico. lxii
[…] La “vera realtà ” è l’evento interiore prodotto in ciascuna anima dall’Apparizione che su di essa si
imprime. E’ dunque necessaria, qui, una facoltà di percezione e di meditazione altra rispetto al
ragionamento dimostrativo o storico stabilito sui dati sensibili ed acquisiti. Non è, perciò , nel reale di
una realtà già data e fissata che tale facoltà mediatrice opera l’unione teofanica del divino e
dell’umano, la riconciliazione dello spirituale e del fisico, condizione dell’amore perfetto, cioè l’amore
mistico. Tale facoltà mediatrice è l’Immaginazione attiva o creatrice, che Ibn ‘Arabī designa come
“Presenza” o “Dignità immaginativa” [la himma n.d.r.] […] E’ necessario che lo spirituale, lo Spirito, si
manifesti sotto una forma fisica, che potrebbe essere una figura sensibile che trasmuti
l’Immaginazione attiva in figura teofanica, oppure sarà una “figura d’apparizione” percepibile soltanto

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con l’Immaginazione attiva, senza la mediazione di un dato sensibile nell’istante della contemplazione.
L’Amato reale è colui che si manifesta in questa figura teofanica che al contempo lo rivela e lo vela, ma
senza la quale sarebbe privo di esistenza concreta, di qualsiasi relazione […] Egli raggiunge attraverso
di essa un modo di esistenza percepibile dallo sguardo di tale facoltà privilegiata.lxiii

Una annotazione personale tratta dal suo diario spirituale (le Futūhāt) ci fa comprendere
quanto abbia contato il sentimento amoroso nella vita di Ibn ‘Arabī:

Io stesso ho sperimentato uno dei fenomeni più sottili dell’amore. Tu provi un amore veemente, una
simpatia, un ardente desiderio, un’agitazione emotiva che finisce per provocare una grande debolezza
psichica, un’insonnia totale, il disgusto alla vista di ogni cibo, e tuttavia non sai nemmeno perché né
perchì. Non riesci a determinare l’oggetto del tuo amore. E’ la più sottile delle esperienze d’amore che
io abbia potuto osservare. E poi, ecco che, per caso, a te si mostra una teofania, nel corso di una visione
interiore. Allora questo amore resta sospeso (a quella teofania mentale). Oppure incontri una certa
persona, e, nel vederla, l’emozione che prima provavi si proietta su di lei; riconosci così che quella
persona era l’oggetto del tuo amore, e non ne avevi coscienza. O ancora, senti parlare di una certa
persona, ed ecco che provi un’inclinazione per lei, segnata da quell’ardente desiderio che serbavi in te,
e riconosci in lei il tuo compagno. Tutto ciò è fra i più sottili e segreti presentimenti che le anime hanno
delle cose, indovinandole attraverso il Velo del Mistero, e tuttavia ignorando il loro modo di essere,
senza nemmeno sapere di chi quelle siano invaghite, su che cosa riposi il loro amore, e nemmeno che
cosa sia in realtà l’amore che esse provano. Tutto questo si sperimenta nell’angoscia e nella tristezza, o
in un’esplosione di allegria, e la causa resta ignota. Ciò è dovuto al pre-sentimento che le anime
avvertono verso le cose prima ancora che si realizzino nella sfera dei sensi esteriori: sono queste le
premesse della loro realizzazione.lxiv

La vocazione del mistico consiste nel riconoscere che l’amore da lui provato è lo stesso di
cui Dio ama se stesso in lui; che, di conseguenza, è lui quella stessa passione divina; che il suo
amore è propriamente una teopatia, di cui deve assumersi il dolore e lo splendore, poiché tale
teopatia è, in lui, com-passione di Dio con e per se stesso, che chiama all’esistenza i propri
esseri del suo essere. Bisogna dunque liberare l’amore dallo squallido egoismo della creatura
che, dimenticando che cosa viva in lei, dimentica che la sua passione è compassione, e che,
vedendo in se stesso il fine del proprio amore, si rende così “colpevole di una catastrofe
divina”lxv.
Così come Adamo è lo specchio in cui Dio ha contemplato la propria Immagine, la forma
capace di rivelare tutti i Nomi, i Nomi del “Tesoro nascosto” del Sé divino non rivelato, allo
stesso modo la Donna è lo specchio dell’uomo, il suo mazhar, nel quale l’uomo contempla la
sua propria Immagine, quella che era il suo essere nascosto, quel Sé in cui doveva raggiungere
la conoscenza necessaria per conoscere il proprio Signore. Per raggiungere la contemplazione
della sua totalità , che è azione e passione, l’uomo deve contemplarla in un essere la cui
attualità , ponendo quell’essere come creato, ponga ugualmente quell’essere come creatore.
Ora tale è l’essere femminile, Eva, che è immagine della Compassione divina (Eva è creatrice
dell’essere da cui ella stessa è stata creata), ed è per questo che l’essere femminile è l’essere
per eccellenza in cui l’amore mistico (che coniuga per trasmutazione reciproca lo spirituale e
il sensibile) si lega ad una Immagine Teofanica per eccellenza.

Per l’Islà m il desiderio sessuale appare come una componente essenziale del suo stile e della sua
struttura. Si tratta tuttavia di un desiderio represso, creatore di quella tensione e di quell’erotismo che
oltre al proliferare di veli, di vicoli tortuosi e di barocchismi, costituisce il crogiò lo di una nuova
categoria di emozioni: l’amore romantico, basato sulla non realizzazione del desiderio. In poesia,
l’essenziale è che l’oggetto amoroso ideale non sia una sposa o una concubina, ma appartenga a una
categoria proibita. In tal modo, i versi d’amore rivolti a un oggetto imprendibile diventano tanto più
erotici e significativi di una assenza infinita, quanto più si crede di procedere sull’orlo dei precipizi e i

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baratri del proibitolxvi […] Ahmad, il fratello mistico di Al-Ghazā li, nei momenti di contemplazione della
bellezza, già soleva porre una rosa fra sé e un bell’adolescente, in segno di separazione […] Coloro che
dopo aver contemplato la bellezza, morivano casti, senza avere mai ceduto alla “tentazione” di rapporti
concreti, sessuali, venivano considerati “martiri” […] Questo movimento sotterraneo è sempre stato
avversato e duramente condannato come eretico dall’Islàm legalista, sia sunnita che sciita, il cui
campione resta, tra gli altri, un teologo della fine del XIII secolo, Ibn Taymiyya, che così si lamentava:
“Abbracciano un giovane schiavetto glabro e proclamano di avere visto Allah!”. lxvii

La precisazione di Henry Corbin: “Particolarmente gratuito il rimprovero formulato contro i


mistici d’amore da un ascetismo che, totalmente chiuso a tale simpatia e a tale simbolismo,
non sa fare altro che accusarlo di estetismo. Le pie ingiurie lanciate per ostilità o per viltà
contro la fragilità di queste teofanie provano soltanto una cosa: quanto si sia estranei al
sentimento sacrale della Bellezza sensibile professato da tutto il Sufismo della scuola di Ibn
‘Arabī o di Jalā loddīn Rū mī”lxviii.
Una vera potenza spirituale investe l’Immagine umana, la cui Bellezza manifesta sotto forma
sensibile quella bellezza che è l’attributo divino per eccellenza; poiché il suo potere è un
potere spirutuale, essa è una potenza creatrice. “Essa crea l’amore nell’uomo, risveglia in lui la
nostalgia che lo trascina al di là della sua apparenza sensibile, e che, sollecitando la sua
Immaginazione attiva a produrre per lei ciò che i nostri trovatori chiamavano “amore
celestiale” (l’amore spirituale di Ibn ‘Arabī), lo conduce alla conoscenza di sé, cioè alla
conoscenza del suo Signore divino. Per questa ragione l’essere femminile è il Creatore di ciò
che può esservi di più perfetto, e con cui si compirà il fine della “Creazione”, l’investitura di un
Nome divino in un essere umano che ne diviene il sostegno, la risposta, il “fedele d’amore”. La
sintesi del Nicholson: “La donna è il più sublime tipo di bellezza terrena, ma la bellezza terrena
non è nulla se non in quanto manifestazione e riflesso degli attributi divini. Sappi che Dio non
può essere contemplato indipendentemente da un essere concreto, e lo si vede in un essere
umano in maniera più perfetta che in qualsiasi altro essere, e più perfettamente nella donna
che nell’uomo”lxix.

Una scuola di mistici poeti e amanti

Rū zbehā n Baqlī (1128-1209), sufi persiano, fu per molti aspetti un anticipatore della
“dialettica d’amore” di Ibn ‘Arabī. Ciò che li accomuna è anche una grande capacità di
“visione”, che in entrambi risale alla fanciullezza. In gioventù ebbe per maestro un “adepto del
biasimo” (malāmatī), un uomo le cui conoscenze mistiche e il cui stato di esaltazione
spirituale erano, per sua scelta, tenuti celati a tutti.

Sono stato accettato fra gli gnostici perché portavo il vestito dell’amore. Ma presso i devoti la mia
strada è empia e scandalosa.lxx

Rū zbehā n aveva un viso bellissimo. Ibn ‘Arabī racconta che, recatosi in pellegrinaggio alla
Mecca, Rū zbehā n si innamorò di una giovane cantante. Al momento delle preghiere e delle
circumambulazioni attorno alla Ka‘ba, non poteva trattenere grandi sospiri ed esclamazioni
che disturbavano i vicini. Non poteva confessare il suo amore alla bella ma non poteva
mentire ai suoi compagni, e a loro si confessò gettando il suo mantello di sufi al centro della
loro assemblea. Qualcuno informò la cantante di questo amore, lei rinunciò alla sua attività e
divenne sua discepola. A Medina Rū zbehā n ebbe la visione del Profeta: “Mise la sua lingua nella
mia bocca e io la succhiai a lungo” lxxi.
Rū zbehā n distingueva tra i pii asceti o sufi che non hanno mai incontrato, sulla loro via,
l’esperienza dell’amore umano, e i Fedeli d’amore per i quali l’esperienza di un culto d’amore

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votato a un essere di bellezza era l’iniziazione necessaria all’amore divino e ne restava
inscindibile:

Lo gnostico ha un solo desiderio: mentre brucia la candela ben aggiustata sul suo candelabro,
contemplare il bel viso dell’amata dallo sguardo sorridente, ascoltando una bella poesia […] L’incontro
dell’amore divino non può avvenire che per questa via […] Altrimenti non ci sarebbe, nella prigione di
questo mondo, tutto questo tumulto dell’amore […] In questo deserto di sale che è la vita, il fisico e il
morale dell’essere umano non gustano alle sorgenti vive dell’anima che questa acqua di vita che è
l’amorelxxii. […] se i mistici, feriti dalla lancia dell’ardente desiderio, guardano il testimone di
contemplazione nelle loro assemblee, come se contemplassero la divinità stessa, allora sono degli
infedeli e violano il tawhid. Ma se io ti contemplo provando il sentimento d’essere separato
dall’inaccessibile, allora io sono un Fedele d’amore […] Io voglio che questa bellezza eterna
trascendente appaia in questa bellezza terrestre, e che nella mia condizione di Fedele d’amore questa
giovane bellezza faccia di me un folle e un insensato. lxxiii

Questa iniziazione non significa qualcosa di simile ad una conversione monastica all’amore
divino; si tratta di una modalità propria che trasfigura l’eros, l’amore umano per una creatura
umana in quanto tale. Rū zbehā n respinse l’ascetismo che contrappone amore umano e amore
divino. Sono due forme di un solo e medesimo amore, non c’è un trasferimento da un
“oggetto” umano a un “oggetto” divino, ma metamorfosi, trasfigurazione del soggetto.

La spiritualità di Rū zbehā n, caratteristica di tutto il sufismo iraniano, è in antitesi con l’idea corrente
dell’ascetismo per il quale la bellezza sensibile è vista come una trappola diabolica, che vede l’eros
umano e l’amore divino come termini che si escludono, e fra i quali l’asceta deve preliminarmente
scegliere […] Questa religione mistica della bellezza non esclude un’etica rigorosa, individuale, spesso
eroica e segreta, rappresentata dalla persona dello javānmard, il “cavaliere dell’anima” […] Si tratta di
un solo e medesimo amore, è nel libro dell’amore umano che si imparano le regole dell’amore divino
[…] Il messaggio della bellezza è un messaggio profetico. Come ogni testo profetico, va interpretato.
Occorre passare dalla forma impropria, metafora dell’amore in senso letterale (l’amore sensuale)
all’amore vero e autentico […] Il passaggio dall’amore umano all’amore divino non consiste nel passare
dall’uno all’altro. E’ una metamorfosi del soggetto che si compie […] Dio è lo stesso soggetto
dell’amore, è l’amante e l’amato.lxxiv

Questa scuola di pensiero ebbe molti esponenti, e tutti furono poeti e scrittori: fra i più noti,
Fakhroddīn ‘Erā qī, Kermani, Sa‘dī, Jā miʽ. Rū zbehā n passò poi dal misticismo acceso e
anticonformista degli anni giovanili alla crescente accettazione dell’ortodossia religiosa e delle
ragioni del potere politico. Rivendicò a se stesso il ruolo di protettore della comunità , e si
propose come uno dei Santi, polo di intermediazione con il divino. Da vecchio, come altri
grandi maestri prima di lui, si faceva circumambulare dai discepoli. Il suo ordine si rafforzò e
gli sopravvisse.
Così Rū zbehā n ha affrontato la questione dell’amore mistico nell’avvio del suo capolavoro
giovanile, “Il gelsomino dei fedeli d’amore”lxxv:

Quando il ciclo del mondo angelico sovrasensibile fu chiaro al mio animo, la sofferenza fece la sua
apparizione in me. Mi sentivo segretamente destinato alla prova dell’amore [...] Allora presi dimora nel
mondo della Bellezza. Ben presto, nel palazzo della prova, il mio spirito fu martoriato dalle frecce
dell’amore; il mio animo aspirava alla dolcezza dei sensi, mentre la mia intelligenza cercava nella
Bellezza il Creatore increato. Bruciato da questa malinconia d’amore per la bellezza divina, sono
emigrato al mondo delle crature effimere. Il mio destino mi portava verso la società degli esseri di
bellezza; in ogni conchiglia io cercavo la perla di una grazia sottile. E così, bruscamente […] nello
specchio dei Segni della bellezza ho percepito gli Attributi divini […] Con gli occhi dell’intelligenza, mi
attaccavo a comprendere il segreto della forma umana. Lei stessa mi diceva: “Contempla dunque il
mondo dell’uomo con lo sguardo di un essere umano”. Ecco che vidi davanti a me una bella e
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affascinante fata la cui grazia e bellezza consegnavano al potere dell’amore tutti gli esseri di questo
mondo […] Io la spiavo nel cammino che seguiva con graziosa fierezza, rigettando dal viso della mia
devozione il velo del pudore […] Nell’incantamento del mio cuore le dissi: “Tu fai parte della
compagnia dei mistici fedeli d’amore, o bella immagine! Tu ne sei degna in modo eminente, anche se
non partecipi con noi agli abbeveramenti d’amore nell’assemblea estatica […]”.
Lei: Se ti allontani dal mondo divino, è peccato di negligenza. Fare di me l’oggetto della tua
contemplazione, sarebbe il luogo della tua perdita, a meno che tu non sia già uno sconfitto.
Io: In amore sono molti gli sconfitti. Non è l’intelligenza razionale che ha il potere di penetrare
attraverso il tesoro del tuo amore in quell’amore là (l’amore divino) [...].
Lei: Il segreto della divinità è nell’umanità , senza che la divinità subisca il dramma e il danno di una
incarnazione. La bellezza nella creatura umana è il riflesso della bellezza della natura divina […] O
giocatore strano, che rischi con me al gioco della stranezza! Chiunque si avvezzi a me, riceve dalla pura
anima dell’anima lo stesso colore della sorgente archetipica della bellezza […].
Ho percepito il mistero della bellezza nell’immagine umana che mi offriva questa fidanzata, nella
maestà che rendeva così imponente la grazia della sua natura innata […] A forza di contemplarla, gli
attributi che formavano la purezza della sua anima, presero in me una forma immateriale, e ciò che,
nascosto nella forma umana esteriore ne costituiva la vera essenza, divenne per me indipendente dal
simbolo visibile […] Lei credette che io fossi uno sciocco in amore. Con rapidità ed eleganza volle
rompere con me. Le dissi: “Il riflesso del tuo spirito che è una cosa sola con lo Spirito, è la purezza della
forma visibile delle cose […] La proiezione del mio animo sei tu. Perché allora questo brutto modo di
agire? Essendo la questione dell’amore arrivata a questo punto fra di noi, rompere sarebbe da parte
nostra comportarci come gente senza esperienza”.
Lei: Come la tiri per le lunghe! Il discorso dell’amore si limita a una sottile allusione; se questo non si
capisce, il desiderio dell’amore si affloscia a forza di amore. Se tu non ti stanchi, io lo faccio […] Ai miei
occhi il sufismo è incompatibile con la licenza. Fare di me l’oggetto della loro contemplazione non è
affare di gente che fa professione di spiritualità. La meditazione del filosofo raggiunge il suo massimo
contemplando le cose che hanno una dimensione sensibile. Presso gli speculativi la contemplazione
scorge la bellezza della potenza del Creatore nella bellezza dell’immagine che è opera sua. In un mondo
siffatto, la sensibilità non ha alcuna parte, perché chi prende per guida l’animo con le sue facoltà
sensibili, non merita il nome di uomo della Conoscenza mistica. Se tu contempli un capolavoro dove si
svela qualcosa di straordinario e di creatore, mediti con lo sguardo stesso di Dio, contempli in verità la
potenza di Qualcuno che ha potenza […] O sufi! In questo amore [amore divino] che cosa ha a che fare
l’amore umano?
Io: L’amore provato per te è precisamente la premessa di quell’amore là […].
Lei: Sulla via che voi seguite, provare dell’amore per me non può essere che sconfitta.
Io: Il Libro rivelato al Profeta rende testimonianza all’amore casto […] “Noi ti racconteremo la più bella
delle storie” (Cor. 12:3) […] quella di Giuseppe e di Zolaykhā […] E ci sono ancora, dissi, queste parole
del nostro Profeta: “Chi ama, resta casto e muore avendo custodito il suo segreto, costui muore in
verità come martire […] Chi ha un amore e una ossessione dominante per Dio, da Dio e in Dio, costui
ama i bei volti”. Dhū ʼl-Nū n Misrī - che la Misericordia divina sia su di lui! - ha dichiarato: “Chiunque
familiarizzi con Dio, familiarizza con tutte le cose belle e tutti i visi graziosi” […] I mistici sanno su
queste cose dei segreti che vanno rivelati solo a coloro che ne sono degni; chi li rivela agli indegni,
merita punizioni e castighi esemplari.
Lei: E’ lecito impiegare la parola amore riguardo a Dio? E’ lecito a qualcuno di pretendere di amarlo
d’amore? La parola “amore” non è, nell’uso dei mistici, un termine da usare come semplice omonimo?
[…].
Io: I nostri maestri sono di vario avviso a questo proposito. Alcuni rifiutano questo uso, altri
l’approvano […] Quelli che l’approvano mostrano la loro audacia nell’amore e nell’esultazione. Gli
amanti e gli esseri amati “non temono in Dio del biasimo che li censuri […]” (Cor. 5:59). Si sa che
l’amore di Layla e Mağ nū n […] è un tema molto diffuso fra i sapienti e i letterati. Gli esperti di
conoscenze mistiche sanno che il sentimento di affinitò è al di sopra del sospetto che si collega alla
natura carnale […].
Lei: O sufi teosofo! Vedo che sei un oceano di teosofia mistica e un maestro di filosofia. Amo la
delicatezza sottile della tua natura, la freschezza della tua ingenuità , la bellezza della tua condotta: Per

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Dio! questa implicazione dell’amore umano nell’amore divino, saresti capace di commentarla in lingua
persiana, in un piccolo libro che sarebbe una Guida spirituale per noi stessi come pure per tutti gli
amanti e gli esseri amati, e un tema di meditazione per i pellegrini, adepti della religione dell’amore?
“Ai tuoi ordini ! le dissi. […] il mio amore per tre implica che io ottemperi ai tuoi ordini. L’amante è in
potere dell’amato; l’essere di desiderio è proprietà della persona del suo desiderio […]”. Così dunque,
con l’aiuto di Dio e l’eccellenza della sua ispirazione, mi sono messo a comporre un libro con lo scopo
di spiegare l’amore umano e l’amore divino, affinchè questo libro apporti agli amanti e Fedeli d’amore
la gioia dell’intimità e i fiori del Paradiso sacrosanto. L’ho intitolato Il gelsomino dei Fedeli d’amore, e
l’ho diviso in trentadue capitoli.

Non posso qui seguire oltre la figura di Rū zbehā n, anche se sarebbe piacevole e profittvole.
A rappresentarne la sensibilità dell’animo e la finezza della scrittura mi sia consentito un
ultimo accenno, tratto dal suo Gelsominolxxvi.

Gli indizi e le prove dell’amore di Dio che si ritrovano presso i mistici - amore per i Suoi amici, affetto
per i Suoi servitori - non differiscono da questo segno dell’amore umano che consiste nell’amare tutto
ciò che avvicina l’essere amato. “L’amante, nel cuore della notte, sente col suo animo anche l’abbaiare
dei cani nella strada dell’essere amato”. Mağ nū n fu sorpreso mentre dava il suo pane a un cane e lo
carezzava. Gli chiesero: “Da dove viene il tuo amore per questo cane? – Un giorno, disse, è passato per
il quartiere dove abita Layla”.

Altro riferimento ineludibile è Jalā loddīn Rū mī, ma su di lui devo sorvolare avendogli
dedicato qui uno studio specifico. Ibn ‘Arabī, grande maestro della teosofia mistica, e Rū mī,
“menestrello persiano della religione d’amore” lxxvii. La loro fiamma fu alimentata dallo stesso
sentimento teofanico della bellezza sensibile. Si sono conosciuti. Diversi fra loro ma
certamente non opponibili: “uno stesso sentimento teofanico ispira ambedue, una stessa
nostalgia della bellezza, una stessa rivelazione dell’amore. L’una e l’altra tendono alla stessa
“cospirazione” del visibile e dell’invisibile, del fisico e dello spirituale, in una unyo mistica in
cui l’Amato diventa lo specchio che riflette il volto segreto dell’amante mistico, mentre
quest’ultimo, purificato dell’opacità del suo ego, diventa reciprocamente lo specchio degli
attributi e degli atti dell’Amato”lxxviii.
La dialettica d’amore di Ibn ‘Arabī conduce alla visione, ancora virtuale, dell’Amato
invisibile nell’Amato visibile che solo può manifestarlo. La sua attualità dipende da una
Immaginazione che faccia “co-spirare” l’amore fisico e l’amore spirituale in un solo amore
mistico. La conclusione-condivisione di Henry Corbin: “Non è in mio potere suscitare una
risposta da Lui, ma posso risponderGli, provare nel mio essere un cambiamento di cui egli sia
la ragione, ed è quella, senza dubbio, la sola maniera con cui possiamo testimoniare per Lui:
essere in rapporto di azione-passione con Lui” lxxix.

Qualche riflessione molto generale

Il pensiero di Ibn ‘Arabī discende dalle sue esperienze interiori; è in adesione ad esse che,
con logica stringente, arriva alle sue definizioni. Se ne mettiamo in dubbio l’onestà , o anche
non siamo disposti a riconoscere una qualche soggettiva “realtà ” alla sua “vita spirituale”,
tutto cade. La sua teosofia si collega del resto alle teorie di tutti i mistici che l’hanno
preceduto, dai neoplatonici agli gnostici, ma anche allo sciamanesimo e all’induismo. Ne
risulta un quadro dettagliato e “coerente”, ma ovviamente nessuna “dimostrazione” è
possibile. E’ una risposta alle domande trascendenti dotata di una sua bellezza e logica, ma
difficilmente conciliabile con qualsiasi visione scientifica e filosofica aggiornata. Non sembra
lasciare spazio al contradditorio: prendere o lasciare. Ammirevole lo sforzo di concretezza di
Corbin, nel suo meraviglioso libro, a ridosso di problematiche che hanno caratterizzato tutto il

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pensiero antico. Al giorno d’oggi, così affermava anche Corbin, la teosofia tradizionale è vitale
solo in Iran, e anche lì sarebbe in via di obnubilamento. Il lavoro di Ibn ‘Arabī, a suo modo
condotto in modo molto razionale, vuole dare risposta ai problemi fondamentali della vita e
del cosmo. Possiamo anche ignorarlo, sapendo bene però che il problema dell’interpretazione
del mondo - mondo che sicuramente non può essere ridotto al visibile e al sensibile, e forse
nemmeno al concepibile - perdura irrisolto.
A fronte della assoluta mancanza di risposte decisive che caratterizza drammaticamente il
nostro tempo può essere accettata anche una discussione sulla realtà ontologica della visione
epifanica della vita e sull’esistenza di diversi piani di realtà . Possono risultare inaccettabili
risposte troppo dettagliate, ma si può certamente discutere di Abisso insondabile, che resta
pur sempre la migliore definizione della Divinità , e si può sicuramente ipotizzare una realtà
sottile che supera e ingloba la realtà fenomenica, senza essere accusati di essere degli epigoni
della New age. Difficile andare, su un piano filosofico-scientifico, molto al di là di ciò . Ognuno
potrà approfondire proprie eventuali esperienze, che appaiano dotate di qualche realtà , e
trarne proprie deduzioni. Esperienze che rimarranno personali, quindi inverificabili, e anche,
per loro natura, fraintendibili e poco comunicabili.
Difficile comunque sottrarsi al fascino di un pensiero fornito di una sua logica bella, robusta
e approfondita. Personalmente rilevo con fastidio l’aporìa riguardante la negazione di ogni
causalità a livello dei fenomeni, dei quali viene però riconosciuta la “realtà ” apparente e la
consequenzialità intrinseca. La mancanza di relazione effettiva e di causalità è l’inevitabile
conseguenza della visione della realtà come “apparizione” eternamente rinnovata e sostenuta
dall’Essenza divina creatrice. Si nega una causalità effettiva tra i fenomeni, ma in fondo se ne
ipotizza un’altra di pari significato, che opera da un’altra dimensione.
Cosa si può allora salvare della sua riflessione, pur restando freddi nei riguardi delle sue
opinabili, seppur granitiche, certezze in relazione a Corano, profezia e alle sue reverìes?
Esaminando la teosofia di Ibn ‘Arabī da un punto di vista vicino alla moderna sensibilità e alla
- poca - luce delle attuali conoscenze e convinzioni in materia, si potrebbe scoprire che gran
parte delle difficoltà sono di origine “nominalistica”.
Ibn ‘Arabī non nega mai l’evidenza: nessuna teofania è possibile se non sotto la forma
corrispondente alla predisposizione del soggetto a cui essa si mostra, che è come dire, alla
fine, che è sempre a livello del singolo personale cervello che si scioglie la teofania. Si ammette
cioè la piena autorevolezza del giudizio del ricevente la teofania: solo lui può esserne
interprete e giudice. E comunque si voglia intendere la cosa, questo dato è innegabile. Ibn
‘Arabī però sostiene che il ricevente parlerebbe “per un Altro”, perché il ricevente, in fondo,
non esiste.
In Ibn ‘Arabī c’è anche l’idea del Cristo (incarnazionismo a parte): il suo “Signore” è una
forza dipendente da Dio, una sua manifestazione, che opera a livello dell’uomo. Dio rimane
nascosto e incapace di relazionarsi direttamente col mondo creato. Questo è il suo aspetto
cristiano.
Fondamentale l’idea della Compassione divina. Nel Dio di Ibn ‘Arabī non c’è surplus di
potenza e creatività fine a se stessa. E’ la Compassione divina che lega Dio al mondo. Perché
Dio avrebbe dovuto creare degli esseri? La Compassione di Ibn ‘Arabī in fondo è l’unico
giustificabile motivo per la creazione del mondo da parte di un Dio certamente
autosufficiente. E’ l’unica spiegazione accettabile in grado di giustificare l’atto creativo divino.
Ed è anche la più bella. Compassione tutta interna alla divinità stessa, che alla divinità poi
ritorna. Le forme degli esseri sono lo strumento necessario - lo Specchio - all’operazione
divina di autocompassione. Dio compatisce se stesso, tesoro nascosto e sconosciuto, e crea il
mondo per avere, Lui, un senso. Dire che ciascun essere è una forma epifanica dell’essere
divino che vi si manifesta non è lo stesso che dire che il mondo risponde a delle ragioni che gli
sfuggono?
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“E’ possibile vedere senza essere là dove si vede? Le visioni teofaniche, visioni mentali,
visioni d’estasi nello stato di sonno o di veglia, di per sé sono penetrazioni nel mondo che esse
vedono”lxxx. Certamente si può invece pensare che “tutto” avvenga, al contrario di quanto
sembra sostenere Corbin, allo stesso livello delle immagini oniriche, cioè all’interno del
cervello, con il carattere di un movimento della nostra archiviazione a livello neuronale. Oggi è
sempre più diffusa la convinzione sul ruolo determinante ed esclusivo del cervello in ogni tipo
di processo sensitivo-conoscitivo. L’idea tradizionale di “anima” ne esce sempre più
malconcia.
Ibn ‘Arabī non spiega quale sia il criterio per cui Dio affida Nomi diversi alle diverse
creature: “Dio obbedisce alla creatura dandogli il grado di esistenza al quale aspira la sua
virtualità eterna”. Ciò che si manifesta dell’Essere divino, è questa la Creatura. Ma chi, se non
Dio, ha stabilito la qualità di tale virtualità , che in quanto eterna supera certamente
l’individuo? Perché Dio permette, anzi vuole, che esistano persone diverse, di diverso valore,
con diverse disposizioni? Perché Dio discrimina così? Al fondo si impone la convinzione
dell’insondabilità divina, e della necessità della sottomissione, come risposta fondamentale e
unico atteggiamento dotato di razionalità . Nell’insieme dei Nomi divini ciascun essere prende,
o riceve, ciò che corrisponde alla sua natura e alla sua capacità . “I Nomi divini appaiono negli
esseri solo in proporzione a quanto le loro virtualità eterne esigono”. Come dire che ognuno è
come è. Come sempre Ibn ‘Arabī prende un dato della realtà fenomenica ma lo valuta con
motivazioni aprioristiche. Su questo argomento il dibattito fu sempre ricchissimo e
dirompente. Pensiamo ad Agostino, Lutero e al problema della “giustificazione” per Grazia.
Inconcepibile anche per Ibn ‘Arabī l’esistenza di un essere estrinseco all’Essere assoluto. La
struttura dell’essere perciò deve essere teofanica e implica l’unità del creatore e della
creatura. Il mondo non essendo “reale” deve essere per forza continuamente “agìto”
dall’esterno. Il Signore è il segreto dell’Ipseità , il sé del suo fedele; è quello che opera in lui e
mediante lui (in fondo ne rappresenterebbe il carattere, la forma mentale). Dio stesso
sarebbe, nell’istante, la forma che agisce, e anche la forma agìta, ma può essere, più
semplicemente, solo un modo diverso di parlare del reale, della forza del reale. Tante parole
per usare alla fine solo normali concetti “razionali”. Li chiama Nomi divini, ma in fondo sono
solo “le cose che esistono”, e che comunque esisterebbero.
Due sono i livelli di individualizzazione dell’esistente, corrispondenti al suo essere nascosto
e al suo essere rivelato. Il rivelato (zāhir) è la manifestazione del nascosto (bātin). Insieme
formano una unità indissolubile. Esistenzialmente il manifesto non è il nascosto, il fedele non
è il Signore, ma una medesima realtà essenziale di fondo condiziona la loro diversificazione.
Al-Hallağ ha detto: “La conoscenza mistica è nascosta all’interno dell’ignoranza, e
l’ignoranza è nascosta all’interno della conoscenza mistica”. Mi piace questo apprezzamento
per l’ignoranza, intesa come una mente “pulita”, non inquinata da concetti importuni e
fuorvianti. Junayd ha detto: “La scienza è negazione, la conoscenza mistica rinnegamento, e
l’affermazione dell’unicità eresia”. Shiblī ha detto: “Chi dà una risposta sul tema dell’unicità
ricorrendo a una espressione chiara, costui è un eretico, chi vi fa allusione è dualista, chi vi fa
riferimento con un segno è il servitore di un idolo, chi ne parla è negligente e chi ne tace è
ignorante. Chi crede di averla compresa non ne trae alcun profitto e chi pensa di esserle vicino
se ne è di fatto allontanato. Chi si sforza di comprenderla non fa altro che ricercare ciò che non
possiede. Tutto ciò che voi discernete con le vostre riflessioni, tutto ciò che voi vi
rappresentate con le vostre intelligenze per quanto perfette possano essere le vostre idee,
tutto ciò vi è ritornato, perché è una storia inventata e forgiata a vostra immagine”. Rū zbehā n
Baqlī sull’impossibilità di comprendere Dio ha detto: “L’uomo vede le determinazioni formali
della presenza divina e si immagina di avere raggiunto la radice stessa della preeternità .
Presuntuoso come il bambino che vede la luna sopra la montagna, e crede che se sale sulla
montagna si impadronirà della luna”. Un altro ha detto: “Non c’è la creatura nell’affermazione
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dell’unicità , perché solo Dio può trovare Dio. L’affermazione dell’unità appartiene a Dio.
Quanto alla creatura, è un bambino importuno”. Questi sapienti dovevano avere letto il Tao te
Ching.
Secondo Ibn ‘Arabī il mondo non ha una vera esistenza. Non c’è vera creazione (dal nulla). Il
mondo è una proiezione del divino, avvenuta per dare consistenza e conoscenza (visibilità )
alla sua nascosta e sconosciuta perfezione. Proiezione provocata dalla sua tristezza e
solitudine. Le creature manifestano la realtà divina e agiscono “mosse” dalla realtà divina che
le permea. La loro apparente realtà è effimera. Però Dio rimane nascosto. Deve essere cercato,
e può essere avvicinato raggiungendo quel mondo “intermedio” dove avviene il passaggio
dalla realtà divina alla realtà teofanica dell’essere. La Nuvola. Una grande fabbrica della
cioccolata. Non essendo realmente esistente, la creazione è necessariamente continua,
ricorrente. Di istante in istante la teofania si rinnova. La vita è come un sogno. L’unica realtà è
Dio, del quale pochissimo si può dire. Dio è riflesso nei suoi Nomi, che diventano le
caratteristiche delle varie creature. Riconoscendo, accettando, il Nome che ci è stato affidato
“conosciamo” il nostro Signore. E’ la versione ibnarabiana del socratico “Conosci te stesso”.
La sostanza della teosofia di Ibn ʽArabī si racchiude nel legame di reciprocità fra Dio e la
creatura. La creatura non esiste per se stessa, è una teofania creata da Dio per avere uno
specchio che lo rifletta, gli rimandi la sua immagine e confermi la sua essenza. Esiste solo Dio
(cosa del resto ovvia, in una certa logica), tutto avviene al suo interno, tutto avviene per Lui.
La creatura che si rende consapevole di ciò può però “vivere” questo rapporto e approfondire
la conoscenza del suo Signore, che non è direttamente Dio ma un’immagine divina creata per
lui, a sua misura, dal Dio nascosto, che non può rivelarsi direttamente. Tutte le credenze sono
buone. Questo rapporto con il Signore, il dio delle credenze, è il banco di prova a cui il fedele è
sottoposto. Anche se non capisco bene con quale diritto e legittimità .
Nel coranico giorno di “a-lastu”lxxxi, nella pretereternità , Dio dialoga con se stesso (con la
massa virtuale delle esistenze archetipiche): “Non sono io il vostro Signore?” (a-lastu bi-
rabbikum?). Solo l’uomo rispose affermativamente e Dio stabilì con lui un Patto di sim-
pathesis eterna. Le affermazioni di Ibn ‘Arabī partono sempre da passi del Corano o da qualche
Hadith conosciutissimo. O vi trovano conferma.
Che dei nomadi del deserto potessero lottare per negare realtà al mondo creato è
stupefacente.

Ibn ‘Arabī ci ha dato testimonianza diretta della sua capacità visualizzatrice o visionaria
raccontando di un suo rapporto continuo negli anni con una figura di origine celeste lxxxii:

La potenza dell’Immaginazione attiva raggiunge in me un tale grado da rappresentarmi visualmente il


mio Amato mistico sotto una forma corporea ed oggettiva, extra mentale, così come l’Angelo Gabriele
appariva dotato di un corpo agli occhi del Profeta. All’inizio, non avevo la forza di guardare verso
quella Forma. Essa mi rivolgeva la parola, io ascoltavo e comprendevo. Queste apparizioni mi
lasciavano in uno stato tale che per tutto il giorno non riuscivo a mangiare nulla. Ogni volta che andavo
verso la tavola, quella Forma mi guardava e mi diceva, in una lingua che io sentivo con le mie orecchie:
Davvero mangeresti mentre mi contempli? Mi era dunque impossibile nutrirmi, e tuttavia non avevo
fame. Ero così colmo della mia visione da sentirmi ebbro; quella visione era tutto il mio alimento. I
miei amici, i miei parenti si stupivano delle mie buone condizioni, perché sapevano che per giorni e
giorni io mi astenevo totalmente dal cibo, senza avvertire né fame né sete. Questa Forma non smetteva
di essere l’oggetto del mio sguardo, che io fossi seduto o in piedi, in movimento o in quiete.

Una tale intimità con l’Amato celeste trova ampi riferimenti anche nell’opera di Rū zbehā n
Baqlī. Esperienze di questo tipo, qui riepilogate sommariamente da Ibn ‘Arabī nel secondo
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volume della sua opera maggiore, sembrano essere state un fatto ricorrente, ma in
precedenza, e proprio nel preludio al primo volume delle sue “Rivelazioni spirituali della
Mecca” - quasi a riconoscervi una fonte del suo misticismo - aveva parlato in modo molto
dettagliato di un incontro preciso, che deve averlo particolarmnte colpito per la sua
starordinarietà . Il fatto interessa in modo particolare anche perché i modi del suo svolgimento
ricordano l’incontro con Nezā m. Anche il periodo non dovrebbe discostarsi molto,
considerando che le Futūhāt hanno avuto una gestazione trentennale dovremmo essere nel
1210, più o meno sono gli anni del Diwān. Stessa ambientazione - la spianata della Ka‘ba - ,
stessa notte “magica”, stessa infelicità e tristezza come motivo scatenante. Ibn ‘Arabī si
dilunga sui dettagli e sui dialoghi e l’avvenimento diventa così un fatto esemplare, ricco di
implicazioni ed estremamente suggestivo. Henri Corbin ne ha tratto un lungo racconto
commentato, ricco di citazioni e pieno di fascino, che è un piacere seguire e che sarebbe un
peccato non rendere nella sua interezzalxxxiii.

“Entrai insieme a lui nella Ka‘ba del Hijr”

Ibn ‘Arabī sta compiendo, di notte, le sue circumambulazioni attorno alla Ka‘ba, quando,
davanti alla Pietra Nera, incontra l’essere misterioso che riconosce e designa come “il
Giovincello evanescente… il Parlante-Silente… colui che non è vivo e non è morto… il
composto-semplice… l’avvolto-avvolgente”. In quel momento, come accadeva al momento
dell’incontro con la bella Nezā m, Ibn ‘Arabī è tormentato da un dubbio: “Non sarà , questa
processione, niente altro che la preghiera rituale dei vivi attorno ad un cadavere [la Ka‘ba]?”.
“Guarda il segreto del Tempio - gli dice il giovane - guardalo prima che ti sfugga”. Ibn Arabi
vede all’improvviso il Tempio di pietra diventare un essere vivente. Capisce di trovarsi di
fronte ad un essere di elevato rango spirituale, e gli bacia la mano destra. Subito chiede di
diventare suo discepolo. Ha trovato un nuovo maestro, lui che ne era da sempre alla ricerca
ininterrotta.

Baciai la sua mano destra, con la fronte imperlata del sudore della Rivelazione. Gli dissi: “Guarda colui
che aspira a vivere insieme a te, e desidera ardentemente godere della tua intimità ”. In risposta mi fece
comprendere che tale era la sua natura più profonda da parlare solo attraverso simboli. “Quando tu
avrai imparato, sperimentato e compreso il mio discorso in simboli, saprai che non è dato percepirlo e
comprenderlo nella maniera in cui si percepisce e si apprende l’eloquenza degli oratori” […]. gli dissi:
“O messaggero della buona novella! In questo è un beneficio immenso. Insegnami dunque il tuo
vocabolario, iniziami ai movimenti che si devono imprimere alla chiave per aprire i tuoi segreti, perché
io vorrei restare con te tutta la notte, e vorrei stringere con te un’alleanza”. Di nuovo, colui che viene
presentito come il Compagno eterno, il paredro celeste, risponde appena con un segno. Eppure, io
compresi. La realtà della sua bellezza si svelò a me, e io fui perduto d’amore. Fui vinto, e all’istante egli
si impadronì di me. Quando tornai in me da quel rapimento, tremavo ancora di paura, ma egli sapeva
che io avevo compreso chi fosse. Gettò il bastone del viandante, e si fermò . Gli domandai: “Fammi
conoscere almeno uno dei tuoi segreti, affinchè io sia nel novero dei tuoi dotti”. Egli mi disse: “Presta
attenzione alle articolazioni della mia natura, all’ordine della mia struttura. Quel che mi domandi, lo
troverai disegnato in me stesso, perché io non sono uno che pronuncia discorsi, né uno a cui li si
rivolge. L’estensione del mio sapere è pari a me stesso, e la mia essenza altro non è che i miei Nomi. Io
sono la Conoscenza, ciò che conosce e ciò che è conosciuto. Io sono la Sapienza, l’opera della sapienza e
il Saggio”.

Mi spiace turbare l’atmosfera del racconto ma a questo punto mi sembra doveroso fare
riferimento a un passo di Rū zbehā n Baqlīlxxxiv, passo che Ibn ‘Arabī dovrebbe avere letto
perché anticipa in modo sorprendente quanto il Giovincello dirà sulla sua struttura (la sua
Essenza) e sui misteriosi “disegni” (ieroglifi) che ne chiarirebbero le articolazioni. Si fa

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riferimento a qualcosa che può essere colto, ma solo a livello intuitivo. Non esistono parole
che spiegano le realtà segrete, occorrono delle “capacità ”, dei “doni”.

Se tu non sai come aprire la porta del sapere, interroga quelli che conoscono la dura legge
dell’angoscia, quelli che leggono e rileggono i testi della malinconia. Tu imparerai allora quale è la
virilità di questo cavaliere spirituale (javānmard) sulla via d’Amore, e chi è questo cuore in pena in
mezzo ai re della Conoscenza. L’occhio dell’infatuato non ha mai individuato una tale fidanzata, e un
simile adepto sulla via dell’Unità non ha molti emuli […] Ma osserva bene: nel seno dell’amore sono
contenuti tutti gli scrigni del mistero del Volto della maestà , perché è sufficiente contemplare in questo
cielo un solo ieroglifo per scambiare il pudore angelico contro l’esuberanza della condizione amorosa.
Allora questo Fedele d’amore lacera la tonaca colore del Cielo e gusta le briciole del pasto dei Celestiali
[…] Chi dunque conosce la cifra di questa storia al di fuori del Fedele d’amore? Chi è capace di decifrare
gli ieroglifi di questo modo di essere al di fuori degli uomini del desiderio? […] Allora il pudico Sufi
infrangerà tutti i comandamenti della legge, al punto di ripetere i segreti che ha appreso da questi
ieroglifi, queste cifre dell’amore, al punto da aprire, suo malgrado, gli scrigni del mistero, per rileggerli
in compagnia dei profani.

“Compi le tue circumambulazioni seguendo le mie tracce […] Contemplami alla luce della
mia Luna, in modo che tu colga nella mia natura ciò che scriverai nel tuo libro e detterai ai tuoi
copisti”. Come si vede anche l’invito del Giovincello a dare pubblicità al loro colloquio era
presente in Rū zbehā n a pag. 132 del suo Gelsomino. Riprendo Corbin:

A questo punto ascoltiamo un dialogo inaudito che sembra sfidare qualsiasi possibilità di espressione
umana. Come poter tradurre, in effetti, quello che possono dirsi l’uno all’altro, due esseri che sono l’
uno l’altro: l’ “Angelo” che è l’io divino, e il suo altro io inviato come “emissario” sulla terra, affinchè
entrambi si ricongiungano al mondo della “Presenza Immaginativa”? Il racconto fatto dal visionario al
suo confidente su suo ordine è il racconto della sua Ricerca, cioè l’esperienza interiore dalla quale è
emersa l’intuizione di fondo della teosofia di Ibn ʽArabī.

Il dialogo con l’Angelo prosegue. Ibn ʽArabī gli parla della sua esperienza spirituale, di come
sia passato dalla religione dogmatica del “Dio creato nelle credenze” alla religione dello
gnostico, dell’iniziato, il cuore del quale si è reso capace di accogliere tutte le teofanie. La
“Forma di Dio” non è più la forma di questa o quella credenza, che affermando se stessa
esclude tutte le altre, ma è la sua propria Forma eterna, forma visibile, la sola visibile per lui,
della Essenza divina invisibile.

Il mio confidente fedele [cioè il Giovincello mistico] mi disse: “Mio nobile amico, non mi hai detto nulla
che io già non sapessi, e che non gravasse e sussistesse nel mio essere”. Io dissi: “Tu hai suscitato in me
il desiderio di istruirmi presso di te, con te e in te, cosicché io possa insegnare quanto tu mi insegni”.
“Certo” mi disse “Esule a cui mi ricongiungo! O viandante risoluto, entra con me nella Ka‘ba del Hijr, il
Tempio che si eleva al di sopra dei veli e dei rivestimenti. E’ questo l’ingresso degli gnostici, il riposo
dei pellegrini in processione”. E, all’ improvviso, io entrai insieme a lui nella Ka‘ba del Hijr.

L’Hijr, o meglio l’Hiğ r, è il muretto semicircolare addossato alla parete settentrionale della
Kaʽba; forma un recesso appartato ed è tradizionalmente ritenuto il luogo di sepoltura di
Ismaele.

Allora il Giovincello, avendogli rivelato chi fosse, gli rivela il mistero della sua esistenziazione e della
sua intronizzazione preeterna, la sua, o meglio: la loro: l’Angelo, Calamo supremo, che discende su di
lui dalle alte dimore, e insufflando in lui la conoscenza di sé e dell’altro.
“Il mio cielo e la mia terra si spaccarono; egli mi fece conoscere la totalità dei miei Nomi”.

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“Io sono il Giardino dei frutti maturi, io sono il frutto della totalità . Alza ora il velo, e leggi tutto ciò che
contengono le righe del mio essere. Ciò che avrai imparato di me e in me, lo metterai nel tuo libro, e lo
predicherai a chi ti è amico”.
“Allora sollevai i suoi veli, e considerai tutto ciò che era in lui. La luce deposta in lui permise ai miei
occhi di vedere la Scienza segreta, che egli conserva e contiene…”.

Che dire? Mi sembra di vedere Ibn ʽArabī sorridere sotto i baffi. Meglio non poteva
acconciarla. Questa è provocazione deliberata.

Mahdia, 27/7/2013

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Rumi

Dal momento che te per amore conobbi,


molti giochi nascosti ho giocato con te.
Accostati dunque ebbro d’amore alla tenda del cuore,
ché questa tenda l’ho preparata per te.

Ai tanti “amorosi”, rapidamente abbozzati ma vividamente


“occhieggianti”, che cento anni più tardi faranno da sfondo
all’incredibile sfinimento emotivo di Hafez, corrispose in Rumi una
sola concreta figura. Nella sua vita, tutta vissuta alla ricerca della
Realtà nascosta, fu Shams di Tabrīz, un derviscio errante, la chiave

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attesa che gli apriva i segreti più reconditi. O almeno così lui voleva
credere.
Rumi, con Sanā ’ī e ʽAttā r, ha costituito la triade famosa dei grandi
poeti persiani: “ ʽAttā r è lo spirito e Sanā ʼī gli occhi. Io vengo dopo di
loro”. Curiosamente furono tutti e tre “iniziati” in seguito all’incontro-
scontro imprevisto con misteriosi dervisci di passaggio. Ma va detto
che Shams di Tabrīz ha ben maggiore consistenza e referenze
indiscutibili.
Rumi ha vissuto trentasette anni prima di scoprirsi capace di
amorosa follia. All’incontro fatale con Shams seguiranno alcuni anni di
fuoco e un mare di poesia mistica. Vedremo questi anni, che hanno
segnato, rendendola straordinaria e inimitabile, la vita del “nostro
Maestro” (Maulānā in lingua turca), un musulmano-filosofo dall’indole
tollerante e buona, avviato sin da bambino sulla via del sufismo da un
padre-shaykh molto energico. Senza l’irruzione di Shams nella sua vita,
Rumi sarebbe ricordato solo per la malinconica e dotta propensione
alle fantasticherie, e per la capacità di annullarsi, fuggendo così da se
stesso e dal mondo, in una sua danza roteante sulle onde della musica
del flauto di canna.

*
Gialā l ad-Dīn detto Rumi nacque a Wakhsh, cittadina del Khorasan
storico (attuale Afghanistan), il 30/9/1207. Suo padre Bahā ’ ad-Dīn
era predicatore e stimato maestro Sufi a Balkh, il maggior centro di
cultura islamica della zona. La sua attività era una tradizione di
famiglia da molte generazioni. In seguito a gravi dissapori con il re del
Khwarizm, Bahā ʼ decise di allontanarsi da Balkh assieme alla famiglia
e a un gruppo di discepoli, in cerca di una nuova sistemazione. Si
avvicinava nel frattempo la tempesta dell’invasione da parte dei
mongoli di Gengis Khan.
Il piccolo Gialā l ha cinque anni. La sua infanzia trascorre mentre vaga
con la famiglia da una città all’altra, fuggendo i pericoli della guerra.
Vent’anni di peregrinazioni: Baghdad, la Mecca, Damasco, Malatya,
Karaman. Molti incontri con sufi e studiosi. Il padre è un mistico
stimato, ma da alcuni è visto con sospetto per la sua provenienza dal
Khorasan, ritenuto terra influenzata dal pensiero aristotelico e
incrocio inquinato di culture e religioni diverse. Frattanto muoiono la
madre e un fratello. A Nishapur – Gialā l ha diciotto anni – l’incontro
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con il grande ʽAttā r, che dirà : “Ho visto un mare [il padre] seguito da
un oceano [il figlio]”. ʽAttā r profetizza a Gialā l un grande futuro e gli
dona il suo “Libro dei segreti”. Si sposa e ha due figli: Sultan Walad e
ʼAlā ad-Dīn Chalabi. Alla morte della prima moglie, sposa un’altra
donna, forse cristiana, e ha altri due figli.
Nel 1228, su insistente invito del reggente dell’Anatolia, il padre di
Gialā l decide di stabilirsi definitivamente a Konya, capitale del
sultanato selgiukide di Rum. Bahā ’ vi deve fondare e dirigere una
madrasa, una scuola religiosa. L’Anatolia era stata chiamata per secoli
“Rum” (come “Roma”), a significare la terra dei Greci (che avevano a
lungo governato l’area da Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano
d’Oriente, poi Impero Bizantino). Da qui verrà a Gialā l il nome Rumi.
Molto curata la sua educazione religiosa, che resterà per nove anni
affidata ad un anziano discepolo del padre, Sayyid Burhan. Era un
mistico praticante, e fece conoscere al giovane Gialā l la poesia d’amore
persiana. Gialā l da giovane aveva memorizzato gran parte del Corano.
La famiglia apparteneva alla scuola hanafita, che seguiva in modo
particolarmente attento l’esempio del Profeta. Rumi passerà quattro
anni a Damasco per studiare, e lì avrebbe incontrato il famoso Ibn
ʽArabī. Alla morte del padre, nel 1241, Gialā l gli succede alla direzione
della scuola. La madrasa di Rumi ha più di mille studenti. Gialā l
diventa predicatore presso la moschea, e anche giudice. Sistemato.
Shams-i Tabrīz, Sole di Tabriz, derviscio errante, fabbricava e vendeva cinture,
guaine, busti. Era anche tessitore e ricamatore. Figlio di un imām, aveva
girovagato a lungo nel Medio Oriente. Cercava un’anima gemella. Un giorno una
voce gli disse: “Che cosa puoi dare in cambio?”. “La mia testa!”. La voce gli disse:
“Colui che cerchi è Gialā l ad-Dīn di Konya”.
Il 15/11/1244 un uomo di circa sessant’anni, vestito di nero da capo a piedi, si
presenta al mercato dello zucchero di Konya. Vede Rumi a cavallo. Shams, a
dorso di un asino, lo interpella rudemente: “Chi è più grande, Bayazidlxxxv o
Muhammad?”.
E’ lo stesso Shams, in un suo scritto (Moqalat, “Discorsi”), a ricordare
l’incontro con Rumi: “La prima cosa di cui parlai con lui fu questa: come fu che
Bayazid non ebbe bisogno di seguire l’esempio del Profeta, e non disse Sia gloria
a Te o Noi Ti adoriamo?... Rumi capì pienamente tutte le implicazioni del
problema, e da dove proveniva e dove andava a parare. Questo lo fece inebriare,
in accordo con la purezza del suo spirito, perché il suo spirito era puro e
splendeva dentro di lui… Io compresi la sua ebbrezza, anche se ero ancora
inconsapevole della sua dolcezza”. Shams torna anche in seguito a indagare la
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questione del seguire il Profeta, e il caso di Bayazid al Bistā mī gli forniva la
pietra di paragone con la quale poteva giudicare l’orientamento degli altri e
testare se una predilezione per la speculazione mistica o l’indulgenza in
antinomici comportamenti interferivano nella religiosità di una persona e nel
rispetto per lo spirituale raggiungimento del Profeta.
Rumi argomenta che è Muhammad il più grande, perché il suo desiderio di Dio
è stato continuo e continuamente realizzato. La sua risposta gli fa sentire come
una finestra che si apriva nella sua testa e del fumo che ne usciva. Grida, perde
conoscenza per un’ora. Shams capisce che è Rumi l’uomo che sta cercando, e che
era l’oggetto delle sue preghiere a Dio. Quando Rumi ritorna in sé, prende la
mano di Shams e assieme, a piedi, vanno alla scuola. Si appartano per quaranta
giorni, senza vedere nessuno.
Gialā l aveva trentasette anni. Shams risvegliò in lui il desiderio di liberarsi
dalle pastoie della sua conoscenza di tipo razionale-speculativo e lo aprì
“veramente” al misticismo. E’ questo il significato contenuto in due episodi, di
natura assai simile, che vengono anch’essi raccontati come caratterizzanti il
magico momento dell’incontro fra i due. Un giorno Rumi stava leggendo accanto
a una pila di libri: Shams, passando, gli chiese: “Cosa stai facendo?”. Rumi,
seccato, gli disse: “Qualcosa che tu non puoi capire”. Sentendo ciò Shams spinse i
libri dentro una vasca d’acqua. Rumi arrabbiatosi raccolse i libri e vide con sua
sorpresa che erano asciutti. Rumi chiese a Shams: “Cos’è questo?”. “Mevlana, è
qualcosa che tu non puoi capire!”. Una seconda versione vede Shams passare
vicino a Rumi intento a leggere. Rumi lo guarda in modo ostile come fosse uno
straniero ignorante. Shams gli chiede che cosa stia facendo: “Qualcosa che tu non
capisci!” Il libro prende immediatamente fuoco e a Rumi che gli chiede che cosa
stesse succedendo risponde: “Qualcosa che tu non puoi capire”.

Le correnti religiose al tempo di Rumi


“La conoscenza viene dal Corano e dalle parole dei profeti e di altri uomini santi; il Corano,
parola di Dio, è inimitabile”. Era questo il fondamento del pensiero dei Kharigiti. Una via di
pensiero non individualistica, che vedeva la volontà di Dio prevalere in tutto su quella
dell’uomo. Il Paradiso era riservato ai musulmani, e la vita dell’uomo aveva valore solo se si
apparteneva alla comunità dell’Islà m.
Altra corrente importante era quella dei Mutaziliti. Razionalisti e liberali, pur rimanendo
deterministi credevano parzialmente nel libero arbitrio. A loro si opponevano gli Ashariti,
legati al tradizionale punto di vista sunnita di “fato”, “destino”. Mantenevano con forza ciò che
i Mutaziliti di fatto sottraevano al potere divino. Credevano che il valore delle azioni umane
fosse determinato da Dio. La loro ideologia dominava l’educazione.
Rumi fu uno dei più celebrati pensatori ashariti, e diede forza all’asharismo nel suo ultimo
periodo polemizzando con tutti: razionalisti, atei, naturalisti, filosofi. La mentalità inquisitoria,
tutt’ora presente, si è formata in quel periodo. Rumi accettava con entusiasmo
l’incondizionata sottomissione alla volontà di Dio, in una visione sostanzialmente simile a
quella dei primi Kharigiti. Credeva anche all’esistenza di un piano di origine divina che vedeva

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nel tempo il ritorno alla Divinità di ogni forma creata, una sorta di riconquista dell’Eden dopo
la cacciata.
Fu però prevalentemente un mistico, che ricercava spasmodicamente l’unione con il divino
Amato, dal quale era stato separato. Si fece comunque apprezzare per una illimitata
tolleranza, bontà d’animo e sostanziale apertura verso tutte le fedi. Di fatto fu un liberale. Per
Rumi il peccato vero è l’oppressione dei deboli. Per questo Rumi è oggi considerato,
soprattutto in occidente, un campione dell’umanesimo.
Come sufi credeva appassionatamente ai poteri della musica, della poesia e della danza, che
vedeva come mezzi idonei al raggiungimento del trascendente. Dopo la sua morte, sulla base
dei suoi insegnamenti, organizzato da suo figlio Sultan Walad, sorse un Ordine, tuttora
esistente, denominato in turco Maulawiyya. Al suo centro il Samā’, la famosa danza rotatoria
dei Sufi detti “Volteggiatori”: una pratica mistica vista come viaggio spirituale e ascesa verso
Dio.
Rumi credeva in una sorta di processo evolutivo - in rapporto solo apparente con
l’evoluzionismo di Darwin - che porta tutto il creato ad avvicinarsi gradualmente a Dio. Una
“tensione” interna alla realtà naturale che Rumi chiama “Amore”, che spinge a cercare la gioia
di un rapporto con la fonte divina da cui tutto è disceso. La dottrina della caduta di Adamo
viene poeticamente reinterpretata come distacco dell’Ego dall’universale fondo della divinità .
L’Amore è visto come un fenomeno cosmico. Sorta di dottrina neoplatonica, in collegamento
col pensiero di Al Fā rā bī e Ibn Sinā (Avicenna).

[…] Da quando tu venisti in questo mondo d’esseri


davanti ti fu messa, a salvarti, una scala.
Fosti dapprima sasso, poi divenisti pianta,
e ancora poi animale: come ciò t’è nascosto?
Poi divenisti Uomo con scienza, mente, e fede:
guarda come ora è un Tutto quel corpo, già Parte di terra!
E, trascorso oltre l’Uomo, diverrai Angelo certo,
oltre questa terra, dopo: il tuo luogo è nei cieli.
E passa ancora oltre l’Angelo e in quel Mare ti immergi:
così tu, goccia, sarai mare immenso ed Oceano.
[ . . . . . . . . . . . . . . . .] lxxxvi

La passione religiosa lo dominava. Le sue idee, pur ritenendosi Rumi un musulmano


ortodosso, lo avvicinavano per certi aspetti al pensiero dei gruppi settari (Sciiti, Ismailiti).
Shams era shafita, il suo pensiero derivava da quello di ʽAlī ibn abī Tā lib, il cugino del
Profeta. Non era un illetterato e un selvaggio, come viene spesso descritto, ma aveva una
solida educazione religiosa ed era uno scrittore fluente in arabo e in persiano. Ha lasciato un
libro di prose lxxxvii (“Discorsi di Shams-i Tabrīz”), scritto durante i suoi ultimi anni di vita.
Alcune sue affermazioni testimoniano un pensiero originale: “Ogni essere umano muove
lentamente ma inesorabilmente verso la perfezione […] Si può conoscere solo ciò che si ama
[…] Non c’è saggezza senza amore […] Siamo creati a immagine di Dio. Siamo creati unici. Se
Dio voleva che fossimo uguali, ci avrebbe fatti uguali. Non rispettare le differenze e imporre il
proprio pensiero agli altri significa disprezzare il piano divino […] Ogni volta che ci
innamoriamo ascendiamo al cielo […] “Destino” non significa che la tua vita è stata
strettamente predeterminata, vivere abbandonati al destino e non contribuire attivamente
alla musica dell’universo è un segno di ignoranza. La musica dell’ universo pervade tutto. Il
tuo destino è suonare la tua parte. Tu non puoi cambiare il tuo strumento, ma la musica che
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suoni dipende da te [...] “Sottomissione” non significa essere passivi. Non è né fatalismo, né
capitolazione. E’ proprio l’opposto. Il potere risiede nella sottomissione. Un potere che viene
da dentro. Quelli che si sottomettono alla divina essenza vivono in una imperturbabile
tranquillità e pace, anche quando il mondo passa attraverso le turbolenze […] Una vita senza
amore è una vita senza valore. Non chiedere che tipo di amore dovresti cercare: spirituale o
materiale, divino o mondano, orientale o occidentale. Le divisioni portano solo nuove
divisioni. L’amore non ha etichette, non ha definizioni. E’ quello che è, puro e semplice.
L’amore è l’acqua della vita. Un amante è un amico di fuoco”.
Shams diventò per Rumi il simbolo vivente dell’amore divino, un sole che spandeva su di lui
la luce celeste. Il loro rapporto, inusualmente intenso, fu spirituale ed emotivo.
La loro storia, riflessa – fino alla burrascosa conclusione – nei versi del suo canzoniere, il
Divān-i Shams-i Tabrīz, fu complessa, un privilegio e un tormento per entrambi, e fu segnata
da molte ombre di tristezza e smarrimento. Cercherò di metterne in luce, per quanto possibile,
i dettagli, attraverso l’esame attento dei ghazal più allusivi. Non prima di aver visto la
successione dei fatti, spesso drammatici, che l’hanno contraddistinta.

La vicenda

All’inizio fra i due l’intesa è perfetta. L’uno trova nell’altro la realizzazione delle proprie
attese e la soddisfazione ai propri bisogni più intimi. Shams, ormai sessantenne, si trova fra le
mani una mente ancora vergine e pronta ad accogliere gli insegnamenti di un uomo come lui,
dalla vita ricca di esperienze all’insegna della sua passione religiosa fuori dagli schemi. Forse
trova in Rumi anche il calore di una famiglia. Una sorta di rinascita spirituale invece per il
trentasettenne Gialā l, sicuramente arrivato a una posizione di tutto riguardo, ma con un cuore
raffreddato che ora ritrova l’entusiasmo dei vent’anni.
Appena conosciuti si appartano per quaranta giorni, dimenticando il mondo esterno. Grandi
discussioni, letture di poesie, sedute mistiche con musiche e danze. Qualche considerazione su
questo periodo misterioso e intrigante la troviamo nel libro di Shams: “Riguardo a me e
Mevlana, se l’orario della preghiera veniva da noi dimenticato perché eravamo occupati,
questo fatto ci dispiaceva e allora pregavamo insieme appartati. E quando non andavo il
venerdì alla preghiera comune, questo mi rattristava […] Anche se non era un reale dispiacere,
ancora me lo ricordo […] Il culmine della vita nel mondo è quando due amici di Dio si
incontrano, quando essi si confrontano per l’amore di Dio, lontano dalla lussuria e dal
desiderio e il loro scopo non è il pane, la zuppa, il macellaio o gli affari del macellaio. E’ un
momemto così quando io tranquillo sono in compagnia di Mevlana”lxxxviii.
La gelosia e il sospetto cominciano a serpeggiare fra gli studenti di Gialā l. Si spargono voci
malevole sul conto di Shams. L’ambiente gli diventa ostile. Anche fra i due non tutto è sempre
idilliaco. Gialā l si rivela geloso e possessivo e Shams finisce col non sentirsi più libero. Questo
ci dicono molti versi tratti dai ghazal. Il suo Divān-i Shams-i Tabrīz sarà la ricchissima
testimonianza poetica dei palpiti, delle delusioni e delle speranze, fino al drammatico epilogo.
Shams, minacciato dagli studenti, l’11/3/1246 parte improvvisamente per Damasco, deciso a
non tornare più . Gialā l è disperato. Il figlio Sultan Walad, assieme a un gruppo di studenti, vi si
reca per convincerlo a tornare. Dopo molte resistenze Shams acconsente. Ma la convivenza
continua ad essere burrascosa, mentre riprendono le malignità e i contrasti con una parte
degli studenti.
Una notte Rumi e Shams stavano parlando. Shams fu chiamato alla porta sul retro. Vi andò e
non fu più rivisto. Era il 5 dicembre del 1247. Tutto si è concluso in una manciata di anni.
Rumi andò personalmente fino a Damasco a cercarlo senza esito. Arrivarono poi voci sulla sua
morte in occasione di certi tumulti. Il corpo di Shams sarebbe stato ritrovato in un pozzo e
seppellito dal figlio di Rumi, Walad. La sparizione di Shams fu un colpo tremendo per Rumi,
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aggravato dal fatto che forse il figlio ʼAlā ad-Dīn fu coinvolto nella vicenda. La conclusione
amara di un sogno difficile gli lascierà una infinita nostalgia.

I riflessi nei versi del “Divān-i Shams-i Tabrīz”

L’incontro avviene il 15 novembre del 1244. Rumi era diventato il rispettatissimo capo della
scuola fondata da suo padre. Aveva incarichi a livello cittadino (era giudice), predicava alla
moschea e anche per strada. Esibiva senza problemi il suo programmatico desiderio di Dio, e
la sua noncuranza del mondo e delle sue regole, irridendone sicurezze e sinecure. Qualcosa
doveva mancargli, se accoglie con tanto entusiasmo la novità dell’incontro con un’anziano
straniero dai modi eccentrici, affascinante e sbrigativo. Rumi era comunque un uomo sposato,
con quattro figli nati da due donne diverse.
Forse gli mancava un amico del cuore, a cui confidare i suoi pensieri, e ai suoi occhi Shams
potè rendere attuale la teoria, tanto dibattuta in ambito sufi, che vedeva nel sentimento
d’amore la porta privilegiata che introduceva al grande mistero dell’amore universale, la forza
reggente dell’ecumene. Una grande amicizia? Una sudditanza psicologica? Un vero amore, un
attaccamento che coinvolgeva tutto il suo essere? Su questi aspetti si può discutere all’infinito.
Meglio farlo dopo avere letto i suoi versi, i versi di un grande lirico, da molti considerato il più
grande poeta mistico di ogni tempo.

Il Divān-i Shams-i Tabrīz comprende ben 50.000 distici, o versi doppi. Dalla selezione di
cinquanta liriche, in prevalenza ghazal (liriche brevi tipo “sonetto”), operata da Alessandro
Bausani, intitolata Rumi, poesie mistichelxxxix, focalizzo, senza isolarli troppo dal contesto, i versi
che fanno riferimento, spesso chiarissimo, all’amico. Bausani si mostra molto sensibile agli
aspetti mistico-religiosi del rapporto con Shams, ma quasi tutte le poesie da lui scelte
contengono riferimenti al derviscio “errante” - credo che siano stati scelti appositamente fra
quelli più realistici ed espliciti - e del resto il Divān (nome persiano per “canzoniere”) è
dedicato al Sole di Tabrīz. Bausani dice che Shams (Sole in lingua persiana) è per Rumi
“simbolo vivo della persona trascendente di Dio”, e nell’introduzione richiama alcuni versi a
carattere mistico presi da liriche di Rumi non comprese nella sua selezione: “il divino sole del
mondo, l’amato di tutti gli amanti, che muove le anime e gli spiriti… sole che possiede tutte le
conoscenze, assiso sul trono dei significati profondi… solo se il Sole di Tabrīz ti tira verso il
suo fianco protettore, solo allora, uscito dalla cattività del corpo, potrai ritornare all’orbe
celeste”. Gli altri poeti mistici, dice Bausani xc nell’introduzione, usarono “ i superiori dei Magi,
o i Maestri Sacri solo come simboli: invece Gialā l ad-Dīn ne fu veramente innamorato”.

L’attesa, la gioia

Gialā l ha pensato molto all’amore, fino ad ubriacarsene, ed è cresciuto il lui il desiderio di


verificare in pratica teorie tanto affascinanti. Anche se possono essere pericolose, per un
uomo di una certa età , con una posizione pubblica. Gialā l ha certamente una visione ideologica
e poetica dell’amore, ma si sente pronto a mettersi in gioco.

Ho bisogno d’un amante che, ogni qual volta si levi,


produca finimondi di fuoco da ogni parte del mondo!
Voglio un cuore come inferno che soffochi il fuoco d’inferno
sconvolga duecento mari e non rifugga dall’onde!
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Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano […] (20)

Il sangue gli bolle nelle vene. Sente il pulsare della vita attorno. Tutto invita a lasciarsi
andare.

Strana cosa è che in pieno autunno il Sole sia entrato in Ariete,


e il sangue mi bolla e danzi come cammello in amore nei ruscelli del corpo!
Guarda a questa danza d’onde di sangue, guarda! Il deserto è pieno di folli
[amatori!
Guarda a questa letizia senza ragione, al sicuro da spada di Morte!
Una carogna riprende la vita, un vecchio ritorna giovane,
il rame diviene oro di miniera nella nostra città : mirabile cambio!
Una città piena di vita e di gioia, ogni ebbro ha in mano un calice
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Va, va a dire ai medici: “Non c’è qui lavoro per voi!
Qua non ci sono malattie e nessuno soffre disturbi!
Non c’è giudice, non tribunali, non sindaco, non poliziotti:
sull’acqua del mare non vanno né liti, né processi né lotte!” (31)

Qualcosa si è mosso! Gialā l è agitato, teme di dire troppo e chiude, come farà spesso, con un
impegno a dire il meno possibile. Certe cose si possono solo sentire dentro, non si devono
cercare parole, non si deve ricamare sulla Realtà Assoluta. Allora, Gialā l, perché scrivere
poesie? Forse quello che ti sta veramente a cuore è qualcosa di più terreno?

Svegliati, svegliati, è passata la notte, svegliati!


Lascia tutto, lascia, lascia anche te stesso!
Nel nostro Egitto, ecco, è venuto uno sciocco a vender Giuseppe:
non mi credi forse? Su vieni al bazar e vedi!
L’Assoluto ti farà assoluto, colorirà il tuo volto di rosa,
ti toglierà dalla mano la spina: vieni dunque al roseto!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
E’ giunto un grido dal cielo, è arrivato il medico degli amanti!
Vuoi ch’egli venga da te? Fatti malato, fatti malato!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Silente è descritto il mare e la perla: tu non parlare nel suo mare;
vuoi pescare perle nel fondo? Trattieni il fiato, trattieni il fiato! (44)

Il Sole è arrivato, tutti andranno a giudizio da lui. Gialā l ha paura. Un Pazzo si è presentato
e chiede a tutti di fare conti precisi con se stessi e col mondo. Testo completo.

Venite venite, che il giardino è fiorito


venite, venite, ché l’Amato è arrivato!
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Tutti assieme portate e il mondo e la vita
e consegnatele al Sole, che ha sguainato la spada!
Di quel brutto ridete che pur fa vezzi e moine,
di quell’amico piangete che s’è tagliato via dall’Amico!
Tutta la città è in tumulto da quando corre la voce
che ancora una volta il Pazzo s’è liberato dalle catene!
Che giorno è mai questo, che giorno? E’ il Dì del Giudizio:
non vedete sbandierato sull’orizzonte il Libro delle Azioni di tutti?
Battete i tamburi, battete, e più non parlate!
Che possono più , ora, cuore e intelletto? Anche l’anima stessa ha paura!(13)

Complessa elegìa dell’amore puro, che solo permette di avvicinarsi alla divinità : “Amore è
tutto quello che esiste”. Parla di vergogna e di segreti da mantenere. L’Amante è un
imperatore; ma chi non si sottomette al Re, ad un amore assoluto, non sarà mai libero.
L’amore non vuole calcoli. Solo l’obbedienza al cuore giustifica l’essere agli occhi di Dio. Gialā l
ha elaborato ancora una volta la sua personale “Carta dell’amore” e si dichiara pronto a ogni
rinuncia. Scoprirà poi quanto sia difficile ottemperarvi.

Quell’anima che non ha per costume l’Amore,


meglio è che non sia, ché onta è l’essere suo!
Inèbriati dunque d’amore, ché l’Amore è tutto quello che esiste,
senza la veste d’Amore non si va alla corte dell’Amato.
Se chiedono: “Amore cos’è?” rispondi: “Rinuncia al volere:
chi alla Libertà non sfugge non è libero mai!”
L’Amante è un Imperatore e i due mondi stan gettati ai suoi piedi:
il Re non riguarda nemmeno a quel che gli gettano ai piedi.
L’Amore e l’Amante vivono davvero in eterno:
non attaccate il cuore a cose riflesse e prestate!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Quando lo specchio è puro di forma, riceve ogni forma,
e quel purissimo volto non svergogna il volto di alcuno,
Se vuoi uno specchio puro, contémplati entro te stesso,
ché quello specchio non teme né ha vergogna del vero.
E se un volto di ferro trova, a forbirlo, tanta purezza,
che sarà mai del volto del Cuore che non sa polvere e ruggine?
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
l’uno mantiene i segreti e l’altro non sa mantenerli. (18)

Un’esplosione di fiducia! Tutte le speranze di Gialā l sembrano realizzarsi. Ora c’è


qualcuno che gli fa comprendere la vacuità della vita e gli sa indicare la strada verso la Realtà .
Si meraviglia della vecchiezza di Shams, che ai suoi occhi appare un ragazzino.

O mondo d’acqua e di terra, da quando t’ho conosciuto,


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centomila pene e dolori e disastri, ho conosciuto.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Ma ora conosco chi può sciogliermi, liberarmi le mani e i piedi!
Come albero, da sotto la terra alzo al cielo le mani,
nell’aria di Chi, amico, possa liberarmi dai ceppi!
O bocciolo di fiore! Come hai fatto a divenir vecchio nel fior dell’infanzia?
[. . . . . . . . . . . . . . . .] (36)

Appare qui il tema, così caratteristico in Hafez, della polvere sulla soglia dell’amato. Gialā l
chiede ascolto, invita Shams a non schernirsi. Shams può contare su di lui. Si autonomina suo
rappresentante e interprete. Il Sole di Tabriz avrà gradito?

Poi che son servo del Sole vi parlerò del sole


[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Comne mesaggero del Sole e suo interprete,
segreti messaggi prenderò da lui e vi porterò la risposta
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Da quando il mio cuore ha sentito il profumo della polvere della sua soglia,
ho vergogna anche della polvere sua, non parlo che d’acqua purissima!
Togliti il velo dal volto, ché il volto hai glorioso!
Non permettere ch’io debba parlarti come sotto ad un velo!
Se hai il cuore di pietra, io son pieno di fuoco qual ferro;
se assumi trasparenza di cristallo, io parlo di calice e vino!
Poi che sono nato dal Sole, come il Re Qobā d antico,
non sorgerò nella notte, non parlerò di chiaro di luna. (37)

L’amore furioso di Gialā l si manifesta con tutta la sua irruenza. Dice che Shams unisce alla
forza del messaggio, da tempo avvertito da Rumi nel profondo del suo cuore, le labbra che
sanno renderlo irrecusabile. “O indistruttibile amore… Tu che sei zucchero e latte”. Il distico
finale sembra messo in bocca a Shams, che lo invita a lasciare perdere le finezze letterarie e le
disquisizioni scientifiche. Gialā l gli piace di più quando non recita e non pensa.

Gioia non vidi in entrambi i mondi, salvo te, anima mia,


molte meraviglie ho visto, ma non vidi miracolo simile a te!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Alla finestra del cuore spesso ho accostato l’orecchio dell’anima,
molte parole ho sentito, ma non ho visto le labbra.
D’improvviso effondesti il favore tuo sopra questo tuo servo,
e io non vedo ragione se non la tua grazia infinita.
O eletto coppiere, o gioia degli occhi miei, a te somigliante
nessuno apparve fra gli Arabi, né fra i Persiani ho visto!
Versami tanto vino ch’io scenda giù da me stesso
perché nell’io, nell’essere, non ho trovato che pena.
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O tu che sei zucchero e latte, o tu che sei Sole e Luna
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
O indistruttibile amore, o menestrello divino,
sei tu appoggio, sei tu riparo, non trovo nome a te pari!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Silenzio fratello, abbandona scienza e finezza;
finché tu non parlasti finezza alcuna non vidi! (38)

Quartina amorosa, con toni e accenni molto intimi.

Dal momento che te per amore conobbi,


molti giochi nascosti ho giocato con te.
Accostati dunque ebbro d’amore alla tenda del cuore,
ché questa tenda l’ho preparata per te. (Quartina 3)

Gelosie, lamenti

Poesia dell’amore folle. Gialā l riconosce la sua totale dipendenza da Shams. Vive in uno stato
di esaltazione permanente. L’amato e il Primo Principio si confondono. Gialā l non vuole
dettagliare: “vino di fuoco, amore di fuoco”. Ma il suo animo è spaventato da tanto, troppo
ardore. L’immagine finale vede Shams di Tabrīz regalmente assiso in trono, mentre ai suoi
piedi un Gialā l affaccendatissimo depone le sue odi. Che per un poeta dall’animo libero non
sarebbe proprio il massimo della dignità .

Il profumo dell’Amato aspiro ogni istante dal seno profondo dell’Io:


come non abbracciar stretto dunque il mio Io ogni notte?
Ieri ero un giardino d’amore, e mi venne in cuore tal voglia,
il suo Sole mi apparve dagli occhi e ne scese un ruscello di pianto.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
D’improvviso entrò da una parte il mio snello Cipresso,
cadde in estasi il prato, il platano batteva a danza le mani.
Volto di fuoco, vino di fuoco, amore di fuoco, tutti e tre a gioia:
ma l’anima mia spaventata da quelle vampe intrecciate gridava: dove fuggire?
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Guarda che discorso hai nel cuore senza conto di lettere
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Il Sole di Tabrīz è assiso in pompa regale, e a lui dinanzi i miei versi
s’allineano fila a fila come servi obbedienti. (29)

L’inizio del ghazal è realistico. Shams trova che Gialā l esageri col suo attaccamento
soffocante. Gialā l si lamenta per la difficoltà di comunicazione. Shams è seccato: “Perché ti
lamenti? Godi della mia presenza e della poesia che ti dono!”. Gialā l è smanioso, vuole più

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considerazione da parte dell’amico. Shams gli dice che dovrebbe accontentarsi di averlo
vicino, e gioire di questo. Una baruffa tipica, quando il rapporto è acceso ma squilibrato.

Ieri, all’alba, passando mi disse l’Amato:


“Sei fascinato, fuori di te: quanto questo deve durare?
Il mio volto fa invidia alla rosa e pur tu gli occhi hai riempito
di lacrime di sangue di cuore cercando la spina!”
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
[Dissi] O tu, che hai tutti sconvolti i cieli e la terra,
non è cosa strana ch’io non abbia presso di te udienza!
Disse: “Son io l’anima tua e il tuo cuore: perché sei stupefatto?
Non far più parola e sii ancora, al mio petto di gelsomino, aiola dolente!”
Dissi: “O tu che all’anima e al cuore hai strappato la pace
di tacere non ho la forza”. E allora ei disse d’un tratto:
“Tu sei del mio oceano la goccia: a che più parli ancora?
Annègati in me, e l’anima conchiglia abbi piena di perle!” (28)

Sorta di dialogo fra amanti. Battute a raffica. I corpi sono presenti, intralciano e rendono
problematico il cammino spirituale. Gialā l vorrebbe non dovere parlare tanto. Cerca un
rapporto che si regga sul silenzio, che viva solo della sua forza e delle sue ragioni.

O Compagno mio, o mia Caverna, o Amore che il cuore mi divori!


[…] Vincitore e vinto tu sei
[…] e io ferito dal tuo becco!
Goccia tu sei, mare tu sei, grazia tu sei, ira tu sei,
zucchero sei, e sei veleno: più dunque non tormentarmi!
Tu sei la dimora del sole, tu il palazzo di Venere,
tu il giardino della speranza: mostrami la via, o Compagno!
[…] tu sei l’anfora, dammi da bere!
[…] non lasciarmi immaturo!
Se questo corpo meno inganni tramasse, meno assalisse come predone il cuore,
sarebbe questo un modo per por fine a tante parole! (7)

Soli contro tutti. Leggendo questo ghazal come non pensare a Rimbaud e Verlaine, amanti in
fuga per le strade della Londra di fine ottocento, ubriachi e irridenti? Al v. 9 un accenno alla
“contemplazione santa” della bellezza, pratica in uso presso i sufi? Chiara in entrambi la
preoccupazione di non dare adito a curiosità e invidie… Silenzio!

In questo mondo, noi non ci accordiamo a nessuno,


non costruiamo una casa sotto la volta azzurra del cielo!
Ebbri siamo, folli siamo, assetati e affamati,
per tutti è finito il banchetto, ma non è finito per noi!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
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E noi guardiamo all’anima, pura da ogni cosa del mondo,
non pel piacere che questa contemplazione santa dona allo sguardo.
Taci! Ché d’ora in poi né rime né ritmi
più canteremo, a che estranei non le ascoltino, e indegni. (39)

Che problema con Shams? Ora sembra evitare Gialā l, che invece lo cerca e lo corteggia.
Shams lo trova appiccicoso? Gialā l è in pena, fa di tutto per salvare una situazione che sembra
sfuggirgli di mano.

Io sono ubriaco e tu sei folle: chi mi porta dunque a casa?


Te l’avevo detto di bere due o tre calici in meno!
Sobrio non vedo nessuno nella città intera,
uno è peggio dell’altro, tutti ebbri e sconvolti!
Amico, vieni nella taverna per gustare il piacere dell’anima:
che gioia avrebbe mai l’anima senza l’Amato?
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Sono uscito di casa oggi e un ebbro ho incontrato:
cento nidi, cento giardini di rose c’erano, in ogni suo sguardo.
Come nave senz’ancora traballava qua e là per la via:
cento saggi, cento santi sarebbero morti per lui!
Gli chiesi. “Di dove sei?”. Rispose: “O anima mia!
Metà sono del Turkestā n, metà sono della Farghā na
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Gli dissi: “Fammi compagnia, dunque, ché son tuo parente!”
Rispose: “Non più riconosco l’estraneo, io, dal parente!
Sono senza cuore e intelletto, ebbro, non ho testa e turbante,
ho un petto pieno di canti, di voci: devo spiegarteli o no?”
O Sole di Dio di Tabriz! Perché sfuggi alla folla,
ora che cento tumulti e cento malìe hai lanciato nel mondo? (48)

L’interlocutore di Gialā l qui sembra Dio, a cui il poeta attribuisce gioie e dolori della sua vita.
C’è una punta di rincrescimento. Se tutto ciò che gli capita è voluto da Lui, come spiegare un
atteggiamento indagatore e diffidente da parte sua? Se al posto di Dio vediamo Shams ne
risulta il quadro di un Gialā l triste, senza iniziativa, dipendente in tutto, polemico e acre. Testo
completo.

Di tutto il mondo io scelgo te soltanto,


permetterai che me ne sieda triste?
Il cuore è come penna in mano tua,
da te la gioia mia da te la pena.
Che voglio io, se non quel che tu vuoi?
Che vedo io, se non quel che tu mostri?
Ora rosa tu cresci in me, ora spina;
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ora sento di rosa or colgo spine.
Se tu colà mi tieni, colà sono:
se tu costì mi vuoi costì rimango.
Nella tinozza in cui colori i cuori
chi sono io, qual è il mio amore, l’odio?
Tu fosti il Primo e l’Ultimo sarai,
fa tu l’ultimo mio meglio del primo.
Quando tu ti nascondi, in nulla credo,
quando ti manifesti son credente.
Solo posseggo ciò che tu mi desti
che cerchi dunque nelle mie bisacce? (35)

Shams e Dio si confondono, ma questi versi sono certamente l’espressione della furente
gelosia di Gialā l, e del suo timore di essere abbandonato: “Ho udito che vuoi partire lontano…
tu lanci sguardi nascosti ad altri… dov’è il patto che tu stringesti con me?... perché seduci, se
non sopporti legami?”. Critica anche se stesso. Gialā l, poveretto, deve avere cercato
consolazione da qualche parte…

Ho udito che vuoi partire lontano: non farlo!


che ami un altro amante, un altro amico: non farlo”
Tu sei un estraneo nel mondo, e pure mai fosti estraniato:
perché vuoi uccidere un povero mesto dolente? Non farlo!
Non sfuggire a me furtivo, non andare dagli estranei:
tu lanci sguardi nascosti ad altri: non farlo!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Dov’è il patto, dove il contratto che tu stringesti con me?
Vorresti violare la tua promessa e il tuo patto? Non farlo!
Perché far promesse, perchè giuramenti e scongiuri?
Perché ti difendi con promesse e scongiuri? Non farlo!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
L’anima mia è una fornace piena di fuoco, ma pur non ti basta.
Fai pallido come oro il volto mio pel distacco: non farlo!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Se non sopporti che gli amanti siano, come folli, in ceppi e catene,
perché allora abbagli gli occhi della ragione? Non farlo!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
L’occhio mio avido e ladro ruba la Tua bellezza:
e tu scomparendo, amore, punisci la mia vista ladra: non farlo!
Su altri che non sia la bellezza del Sole della Religione, Vanto di Tabrīz,
fra tutte le cose del mondo, volgi lo sguardo? Non farlo! (41)

Ancora baruffe. Gialā l è inguaribilmente geloso e soffre. Reagisce in modo inconsulto. Shams
appare seccato, e lo critica aspramente. Nel finale l’ode si apre a significati esoterici che
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vedono sofferenze e cupio dissolvi come aspetti ineliminabili a cui deve soggiacere chi
percorre strade tanto segrete.

Ohè, cammini, sembra, a torto e di sbieco… Che cosa hai bevuto, dimmi!
Come ebbro cammini, di casa in casa, di via in via!
Di chi sei stato compagno? I baci a chi li hai rubati?
Le trecce di chi hai sciolto, a anello a anello, a pelo a pelo?
Di chi mai puoi esser compagno, o tu, tutto occhio e luce?
Rapido e ascoso vai, come pesce guizzante, di lago in lago, di rivo in rivo!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Il tuo fantasma ieri, cercando me nella folla,
non riconobbe il suo servo e pur mi guardava, a faccia, a faccia.
E quando m’ebbe riconosciuto, me servo traballante e inebriato.
mi disse: “Vièntene a casa, perché vaghi in qua e in là come un folle?
Per tutta la vita hai invano viaggiato con buoni e cattivi, con santi e malvagi
come una donna sciocca, di casa in casa, di marito in marito!”
Gli risposi: “O messaggero dell’anima, o causa della discesa dell’anima!
dammi un po’ di quel che hai bevuto; fin quando rimproveri e parole?”
Mi disse: “Se una sola scintilla di quello t’avvicini alla bocca
[ti riarderà bocca e gola, e griderai, e urlerai!
Dio dà a ciascuno il cibo di cui quegli è capace,
non bramare quel che ti chiuderà la gola, non cercarlo, no non cercarlo!”
Risposi: “Dov’è dunque il vino dell’anima? Oh, quel vino cui sacrificherei il cuore
[e la vita!
Io non sono di quei codardi che si spaventano a ogni piccola rissa!”
Taci dunque e sii fidato, confidente al segreto del bene e del male,
e il segreto che non hai sperimentato mai non ridirlo! (45)

Ghazal della gelosia e della dipendenza. Gialal vede in Shams il motore del mondo, gli
riconosce una funzione determinante, lo pone al livello di un dio, ma non sembra disposto a
farsi da parte. Nemmeno un po’. Piange e implora. La loro relazione si è fatta difficilissima.

Graziosamente incedendo te ne vai; o anima mia non andare!


O vita degli amici! Nel giardino senza di me non andare!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
O Intelletto! Senza di me non sapere! O Lingua, senza di me non parlare!
O Occhio! Senza di me non vedere! O Anima, senza di me non andare!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Se compagno sei del re, o gaudente, non bere senza di me!
Se al palazzo vai del re, o guardiano, senza me non andare!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Gli altri ti chiamano Amore, io “Sultano d’Amore”,
o tu più alto d’ogni immagine di questo e di quello, senza me
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[non andare! (46)

Amore rabbioso, finito. Verso l’addio

Le malelingue e i dissapori alla fine prevalgono. Shams ha lasciato Konya, abbandonando lo


sbalordito Gialā l. E’ scappato a Damasco. Gialā l è sconvolto, manda il figlio a cercarlo e a
pregarlo di tornare. L’ode, che riporto per intero, esprime tutto il suo bisogno e tutta la sua
sofferenza. Non c’è alcun gioco, nessuna mistica allegoria. E’ tutto vero. Testo completo.

Vieni, deh vieni! ché da quando partisti più non mi resta né ragione né fede.
e ogni calma e ogni pace partirono da questo mio povero cuore.
Non chiedermi del pallore del volto, della pena del cuore, del bruciore del petto,
ché sono cose, queste, che nessuno potrebbe descrivere; vieni, guarda tu stesso!
Come pane ben cotto, pel tuo ardore avevo il volto rosato,
e ora sono molliche cadute, raccoglimi dunque da terra!
Come specchio, in virtù della tua bellezza ero pieno d’immagini;
ora vedi come ho pallido il volto pieno di rughe e di grinze!
Come acqua scorro in ruscello attorto a destra e a sinistra,
e a destra e a sinistra m’attende la Separazione!
Notte e giorno, come la terra, ho il viso rivolto al cielo,
in attesa del Volto tuo, che non entra nel cielo, non nella terra!
All’alba pieno di pena ho scritto una lettera alla brezza:
“Per amore di Dio – le dico – vieni, deciditi dunque a partire!
Se hai il capo sporco di fango, vieni, non indugiare a lavarlo,
se nel piede t’entra una spina, non sedere a toglierla, vieni!
Vieni, deh vieni! e liberami da questo venire ed andare
vieni! che l’anima mia sia salva da questo e da quello!”
Questo messaggio t’invio: ”O messaggero degli amanti,
dimmi presto, per amore di Dio, o profeta sicuro,
ché affogo nell’acqua e nel fuoco per l’onda dell’occhio e del cuore,
che rimedio c’è per salvarmi?”. Risponde: “Questo appunto è il rimedio!” (42)

Gialā l confida nel ritorno di Shams. Lo aspetta spasmodicamente.

Quando sarà che questa gabbia divenga giardino fiorito,


e degna divenga ch’io vi passeggi in letizia?
Quando questo veleno mortale si farà miele
e questa spina pungente sarà gelsomino?
Quando questa luna di quattordici giorni sarà stretta al mio seno?
Quando l’invidioso maligno sarà triste e scornato?
[. . . . . . . . . . . . . . . .] (24)

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Rumi ormai è rassegnato. Il faro che lo illuminava si è spento. Parla a nome della sua
comunità . Si spersonalizza, ma è chiaro che lo smacco è solo suo. Mancano ormai amici fidati,
incapaci di ingannare. Rumi è tormentato dal dubbio, teme agguati e imboscate. Gli resta solo
Dio.

Abbiamo cercato una guida altra che il tuo Amore: non c’è.
Abbiamo cercato un compagno diverso dal tuo Simbolo: non c’è.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Cercheremo ormai l’Amico nel cielo;
sulla terra cercammo un amico: non c’è.
Un’immagine come quella tua di luna, o tu senza immagine,
fino al settimo cielo l’abbiamo cercata: non c’è.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Anche ammettendo d’aver bevuto tutti i purissimi vini del mondo
cercammo la feccia della passione vera: non c’è.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
L’immagine di cui sto parlando, immagine santa,
era la forma del creatore di tutte le forme: non c’è.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Ben naturale è per noi avere dubbi e sospetti,
ché cercammo un amico fidato senza inganni: non c’è.
La nostra schiena è curva come arco sotto il peso del dubbio;
una strada cercammo senza agguati e imboscate: non c’è.
[. . . . . . . . . . . . . . . . .] (16)

L’ode è messa in bocca a Shams. Lui pure è senza pace. E’ lontano, forse è morto. Aveva
detto un giorno che era disposto a perdere la sua testa per avere un amico che lo
comprendesse e lo amasse. Ora una testa mozzata rotola verso la piazza, e potrebbe
raccontare tutti i segreti di una vicenda dolorosa e misteriosa. Shams tiene alto il tono del
discorso, rilancia quegli aspetti che dovevano avere fatto gran presa sull’animo, in fondo
ingenuo, di Gialā l. Ma ormai Gialā l è disilluso, lo congeda in modo brusco: “La nostra storia è
interrotta, è spezzata”. Per saperne di più può rivolgersi al nuovo amico, Salā h ad-Dīn, un
artigiano doratore, suo sostituto come maestro spirituale dei discepoli.

Limite alcuno non ha questo nostro deserto,


pace alcuna non ha questo cuore mio, quest’anima.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Se tu vedrai per la strada una testa mozzata
che verso la nostra piazza sta rotolando,
chiedile, chiedile, i segreti del cuore
e ti dirà il nostro mistero nascosto.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Che dir dovrei dunque? Che cosa sapere? Che questo racconto
è storia troppo alta pel nostro limitato potere.
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Ma come tenere il silenzio, se ad ogni momento
questa mente sconvolta mi diventa sconvolta più ancora?
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
[…] oltre l’Empireo e il Trono corre la nostra folle rivoluzione!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
E’ verso il giardino d’Unione Perfetta che vola il nostro sentiero!

Rumi interrompe Shams, in modo categorico:

Lascia questo discorso e più non chiedermi nulla,


ché la nostra storia è interrotta, è spezzata.
E ormai Salā h ad-Dīn, l’amico, ti mostrerà
la bellezza suprema del nostro Imperatore e Sovrano. (10)

Gialā l è solo a rimuginare il passato. Soffre la mancanza dell’amico. “Non si trova quello che
cerchi, molto l’abbiamo cercato!”. Ora anche le parole sprezzanti di Shams nei suoi confronti
non contano più . Shams ha lasciato in Gialā l un vuoto incolmabile.

[…] O Sole! Mostra il tuo viso oltre il velo di nuvole,


ché quella faccia splendente io desidero!
Innamorato di te, ho udito il suono del tamburo che chiama,
ed ecco il falcone è tornato: il braccio del Sovrano io desidero!
Capriccioso dicesti: “Vattene, e più non m’annoiare!”
Ma quel tuo dire “più non m’annoiare!” io desidero!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Davvero mi sembra prigione senza di te la città :
vagare cercando per monti e per valli io desidero!
In una mano il calice di vino, nell’altra la treccia dell’Amico
danzare così sulla piazza del patibolo io desidero!
Stanco è il mio cuore di questi compagni sciocchi e imbelli:
il Leone di Dio, Rustam l’eroe io desidero!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
M’han detto: “Non si trova quello che cerchi, molto l’abbiamo cercato!”
Ma la cosa che mai non si trova, quella io desidero!
E’ ascoso agli occhi, eppur tutti gli occhi vengon da Lui:
quell’Ascoso dalle manifeste creazioni io desidero! (17)

Rumi ormai è solo. Shams non è più nominato. Alla fine solo Dio è certezza. E’ rassegnato e
aspetta solo di morire. Non ama più e non odia nessuno. “In me c’è un’altra Persona”. Ancora
un accenno ad un pozzo, luogo giusto per accogliere le persone orgogliose e irridenti “che
hanno creduto Dio un nulla”. Se ci fosse un riferimento a Shams sarebbe la sua vendetta
postuma. Ma un amore tanto grande poteva ribaltarsi in odio e disprezzo? Chi può dirlo?

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Fango eri e cuore divenisti, ignorante eri e fosti sapiente;
Colui che fino a qui ti trasse, ti trarrà oltre, ora!
E, in questo suo trarre e tirare, dolci sono pure i dolori,
acqua sono i suoi fuochi, non guardarLo con ira!
Egli abita fondo nell’anima, spezza ogni pentimento, ogni voto,
per i suoi artifizi molteplici trema il cuore degli atomi!
O giocarello ridicolo che salti su come a dire: “qui comando io!”
Fin quando questi salti sciocchi? Piega il collo, o te piegheranno come arco!
Hai seminato imbroglio, tutto irridendo e burlando,
hai creduto Dio un nulla: guarda ora, o mascalzone!
Asino, meglio ti si addice la biada; pentola, stai bene sporca di fumo,
il tuo posto è in fondo a un pozzo, o disgrazia della casa e dei tuoi!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Non tengo in mano sassi, con nessuno sto in guerra,
non ce l’ho con nessuno, son lieto come un giardino di fiori.
Quindi l’occhio mio è d’altro Universo, altra Fonte;
qui un cosmo, là un cosmo: e io siedo sulla soglia.
Ma alla soglia sta solo colui il cui parlare è silenzio:
basta il mistero che hai detto, ritrai la lingua e più non parlare! (40)

Gialā l e Shams, definitivamente separati, vivono una loro irreale e felice unione. Non più
contese, dissidi. Uniti nel pensiero, seppur lontani.

Felice il momento quando sediamo, io e te, nel palazzo,


due figure, due forme ma un’anima sola, tu ed io.
L’acqua di vita darà immortale gioia al Verziere e al canto degli uccelli,
quando insieme incederemo nel giardino, tu ed io!
Le stelle del firmamento scenderanno a guardarci
e la nostra splendida Luna mostreremo a loro, tu ed io!
Tu ed io senza più tu né io ci uniremo nell’estasi,
lieti e felici e liberi dalle vane parole, tu ed io!
E gli uccelli celesti s’addolciranno di zucchero il becco
nel luogo ove noi così a gioia rideremo, tu ed io!
Ma ben strano è che io e te stretti in un solo nido
siamo, in questo momento, uno in ʼIrā q e uno in Khorā sā n, tu ed io!
[. . . . . . . . . . . . . . . .] (47)

Rumi si chiede se ne sia valsa la pena.

Corro affannato alla ricerca dell’Amico,


la mia vita è giunta al suo termine e ancora indugio nel sonno.
Sì, è vero che alla fine otterrò l’unione all’Amato,
119
ma chi mi ripagherà questa vita perduta? (Quartina 2)

Compianto per l’amico morto

Se cerco il cuore, lo vedo in capo alla tua via,


se cerco l’anima, la vedo legata alla tua nera treccia,
e se, bruciato dalla sete, bevo limpida acqua,
nell’acqua vedo riflesso il fantasma tuo. (Quartina 4)

Tu non sei acqua, non sei terra, altro tu sei!


Sei in viaggio, fuori dal mondo d’acqua e di fango.
Il Corpo è torrente e l’Anima è l’acqua di vita che scorre;
ma, dove tu sei, sei ignaro di ambe le cose. (Quartina 7)

Ti sei staccato alfine, sei partito per l’Invisibile:


meravigliosa è la via per la quale partisti dal mondo!
Tanto hai scosso le ali e le penne che hai frantumato la gabbia,
hai preso il volo e sei alfine partito per il paese dell’Amato!
Eri Falcone regale, tenuto prigioniero da un’orribile vecchia,
hai udito il suono del Tamburo, sei partito per l’Oltrespazio!
Eri usignolo ebbro d’amore dimorante fra i gufi,
t’è giunto il profumo dei fiori e sei volato al giardino!
Molti dolori di capo soffristi per quest’acido fermento del mondo,
ma alla fine partisti per la Taverna Eterna dell’Oltre!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Che fai con tiare e corone, ora che sei come il Sole?
A che cerchi cinture, ora che hai lasciato la vita?
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Taci, ormai libero da pena di parole, e più non dormire,
ché hai preso rifugio presso un simile dolcissimo Amico! (50)

Il Masnavī: discussione infinita sull’Amore e sull’Onnipotenza divina

Ora uno sguardo all’opera più famosa di Rumi, il Masnavī-ye Maʽnavī (“Versi spirituali”), un
monumentale trattato poetico di teosofia in sei volumi, costituito da 27.500 versi doppi. In
Oriente è considerato il “Corano persiano”, e va detto che circa seimila versi, tra Masnavī e
Divān, sono praticamente traslazioni di versi coranici in lingua persiana. Si dice che se Rumi
non è stato un profeta ha però certamente lasciato una Scrittura. Il contenuto è rappresentato
da racconti, favole, scene di vita di ogni giorno, rivelazioni coraniche, esegesi, metafisica.
L’immaginario è superbo, una esibizione di grande cultura ed erudizione ricca di valore
storico.
Leggendolo si può avere l’impressione di un impianto caotico. La scarsa linearità del
Masnavī, che molti fanno fatica ad accettare, è forse in parte addebitabile al fatto che è stato
120
scritto sotto dettatura dal suo allievo Husain Celebi. Il Masnavī può ricordare l’andamento
delle assemblee mistiche: il maestro esprime una opinione, gli allievi fanno delle domande, poi
la discussione si dipana in mille rivoli. Iniziato nel 1262, Rumi vi lavorò per dodici anni, fino
alla morte. L’ultimo racconto è rimasto incompleto.
Interessante seguire parte dell’introduzione di E. H. Whinfield alla sua versione molto
abbreviata del Masnavī xci. Pur trattandosi di un opera assai datata, contiene osservazioni
molto acute, di carattere generale, sull’Islà m e sul misticismo dei sufi.

L’idea centrale del poema è che la sola vera base della religione spirituale sia l’amore, e che ogni
apparente fede o pietà che non si sviluppi sull’amore non serva a nulla. Il cardinale Newman definisce
la visione “Mistica o Sacramentale” dell’Universo come un intuito religioso che vede nell’universo
visibile solo i segni esteriori di realtà spirituali nascoste, e specialmente nella bellezza umana un
esempio della divina perfezione […] I riferimenti del poeta furono il Corano e la Sunna, le speculazioni
dei teologi scolastici e, da ultimo, il misticismo dei sufi xcii.

Drastico il punto di vista di Whinfield sul Dio di Maometto:

Cominciando dal Corano: Allah è il Jehovah del Pentateuco, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della
terra, l’Eterno, il Più Alto, che siede sopra i cieli, un Grande Re, sopra tutti gli dei. Di tutti i divini
attributi quello che Muhammad considera più importante è la Potenza. Vede Allah come un grande
sultano orientale, che per il suo arbitrario volere innalza alcuni agli onori, e getta altri nella disgrazia.
Un Dio di grazia e di vendetta; di bontà e di severità ; molto benevolo verso i suoi servi fedeli, ma un
terribile castigatore di tutti quelli che lo offendono. Muhammad non è pervenuto al senso dell’intima
relazione fra Dio e l’anima, questo riconoscimento dell’amore paterno di Dio che ispira alcuni dei
Salmi. Il suo pensiero dominante è: “Come è irresistibile la potenza di Dio! come terribile cadere nelle
Sue mani! e quanto assolute la necessità della paura di Dio, e della completa rassegnazione al Suo
volere”.xciii
Muhammad disse di se stesso: “Un Profeta deve solo consegnare il suo messaggio”, e il suo messaggio
concerneva la pratica, non la speculazione. Accettava senza discussioni il vecchio punto di vista
giudaico sulla natura Divina, e la semplice moralità dei Patriarchi e del Re Salomone. Col passare degli
anni gli uomini trovano nel Corano dogmi come la Divina Natura, la Predestinazione, l’origine del
Demonio, e così via, ma, in realtà , questi furono solo “idee aggiunte dai teologi”. Il linguaggio del
Corano è popolare, e non si presta a supportare sforzi di analisi. Alcune delle sue espressioni, ad
esempio, sembrano alludere alla Predestinazione, mentre altre, ugualmente chiare, al Libero Arbitrio.
Due detti sono attribuiti a Muhammad che, genuini o no, certamente esprimono la sua attitudine
generale verso le questioni speculative: “Pensa alla grazia di Dio, non alla sua Essenza”; “Non perdere
tempo con quelli che discutono della Predestinazione”. Ebbe, invece, qualche presentimento di quello
che sarebbe successo dopo la sua morte, perché disse: “Il mio popolo si dividerà in settantatre sette,
delle quali tutte salvo una avranno il loro posto all’inferno”. xciv

Così è visto da Whinfield l’amore mistico di Rumi e dei sufi:

[Dopo aver parlato, in breve sintesi, dei dati poetici rumiani così prosegue]… egli li fuse in un sistema
con la coordinata principale dell’ “Amore”, che è, nei fatti, niente altro che “Amore”, “Carità ”, “Nuovo
comandamento”, “la via migliore” di S. Giovanni e S. Paolo. La sostanziale identità dell’Amore (‘Ishaq o
Eros) del Masnavī con l’Amore (Agapè) del Nuovo Testamento è oscurata dal linguaggio figurato del
poema. Ai nostri giorni non abbiamo la chiave di questo simbolismo, che forse era ben comprensibile a
S. Bernardo, S. Teresa, o S. Tommaso da Kempis. Questo sensuale immaginario fu usato per primo dal
fervido copto Origene, nel suo commento al Cantico dei cantici […] Quindi noi possiamo difficilmente
essere sorpresi nel vedere moderni teologi negare risolutamente che l’amore cristiano di Dio abbia
qualcosa in comune con il mistico amore dei Sufi. E, inoltre, noi non possiamo considerare il suo
sensuale simbolismo, anche se sgradevole, come un imperdonabile peccato, senza, allo stesso tempo,
condannare i nostri propri “teologi mistici”, e scomunicare un buon numero dei nostri propri Santi. Il
poeta ripete, ancora ed ancora […] che l’uomo è completamente incapace di avere una giusta
121
concezione dell’Assoluto, e che tutti i simboli derivati dal mondo dei sensi sono più o meno
ingannevoli; ma giustifica il loro uso con le necessità del pensiero umano e con l’esempio del Corano. E
ricercando fra gli oggetti sensibili un tipo di amore celestiale, egli non trova niente di meglio che
l’amore terreno […] In accordo con lui l’amore è “l’astrolabio dei misteri divini”, il collirio che apre gli
occhi alla bellezza spirituale […] la chiave della spirituale conoscenza. xcv

Alla base del Masnavī è il concetto di Tawhid: è dall’unicità di Dio che sorge nell’uomo
spirituale la ricerca dell’unione con l’Amato divino da cui è stato separato. Il prologo, in lingua
araba, ne illustra gli ambiziosi obiettivi:

Questo è il libro del Masnavī, che contiene le radici delle radici delle radici della Fede, e tratta dei
misteri dell’Unione e della sicura conoscenza […] Questo dice un debole servo, bisognoso della grazia
di Dio - il cui nome sia esaltato -, Muhammad, figlio di Muhammad, figlio di Husain, di Balkh, da cui
possa Dio accettarlo. Mi sono sforzato di realizzare questo libro di poesia in distici rimati, che contiene
strani e rari racconti, bei detti, e recondite indicazioni; un percorso per il devoto, e un giardino per il
pio; conciso nelle sue espressioni, ricco nelle sue applicazioni…

L’inizio del Masnavī è all’insegna della poesia più elevata. Rumi celebra il flauto di canna, lo
strumento che lo accompagnava nei suoi abbandoni mistici. La sua musica struggente gli
ricorda la separazione dall’Amato celeste, ma è molto avvertibile, qui nella traduzione di
Alessandro Bausanixcvi, anche il rimpianto per la perdita dell’amico. Testo completo.

Ascolta il flauto di canna, com’esso narra la sua storia,


com’esso triste lamenta la separazione:
“Da quando mi strapparono dal canneto,
ha fatto piangere uomini e donne il mio dolce suono!
Un cuore voglio, un cuore dilaniato dal distacco dall’Amico,
che possa spiegargli la passione del desiderio d’Amore;
perché chiunque rimanga lungi dall’Origine sua,
sempre ricerca il tempo in cui vi era unito.
Io in ogni assemblea ho pianto le mie note gementi,
compagno sempre degli infelici e dei felici.
E tutti si illusero, ahimè, d’essermi amici,
e nessuno cercò nel mio cuore il mio segreto più profondo.
Eppure il segreto mio non è lontano, no, dal mio gemito:
sono gli occhi e gli orecchi che quella Luce non hanno!
Non è velato il corpo dall’anima, non è velata l’anima dal corpo:
pure l’anima a nessuno è permesso vederla.”
Fuoco è questo grido del flauto, non vento;
e chi non l’ha, questo fuoco, ben merita di dissolversi in nulla!
E’ il fuoco d’Amore ch’è caduto nel flauto,
è il fervore d’Amore che ha invaso il vino.
Il flauto è compagno fedele di chi fu strappato a un Amico;
ancora ci straziano il cuore le sue melodie.
Chi vide mai come il flauto contravveleno e veleno?
Chi come il flauto mai vide un confidente e un amante?
Il flauto ci narra d’un sentiero tutto rosso di sangue,
122
ci racconta ancora le storie dell’amore di Majnū n:
Solo a chi è fuori dai sensi questo senso ascoso è confidato,
la lingua non ha altri clienti che l’orecchio.
Nel dolore, importuni ci furono i giorni,
i giorni presero per mano tormenti di fuoco;
Se i nostri giorni passarono, dì: Non li temo!
Ma Tu, Tu, non passare via da Noi, Tu che sei di tutti il più puro!
Ma lo stato di chi è maturo nessun acerbo comprende;
breve sia dunque il mio dire. Addio!
Concludo l’avvio del Masnavī in una forma prosastica, seguendo il testo inglese del
Whinfield (la cui traduzione come ho detto ha ridimensionato molto l’ampiezza del testo
originale), con un occhio anche al testo di R. A. Nicholson (entrambi tradotti da me senza
velleità ):

Svegliati, o figlio! Rompi i tuoi legami e sii libero. Per quanto tempo vorrai essere prigioniero dell’oro e
dell’argento? Anche se tu versi l’oceano in una brocca, essa non ti fornirà che il necessario per un
giorno. Il contenitore del desiderio dell’avaro non si riempie mai, l’ostrica non si riempie di perle a suo
piacimento; solo colui il cui vestito è affittato dalla violenza dell’amore è del tutto libero dall’avarizia e
dal peccato.
Salute a te, allora, o Amore, dolce follia! Tu che curi tutti i nostri mali! Che sei il medico del nostro
orgoglio e della nostra vanagloria! Il nostro Platone e il nostro Galeno! L’amore trasporta i nostri corpi
terreni verso il cielo, e fa danzare le colline per la gioia! O Amante, è stato l’amore a dare la vita al
Monte Sinai, quando si scosse e Mosè cadde in deliquio: se il mio Amato solo mi avesse sfiorato con le
sue labbra, anche io, allora, come il flauto, avrei voluto scoppiare e dire tutto. Ma chi è separato da uno
che parla la sua lingua, anche se conosce cento canzoni è per forza muto.
Quando la rosa è sfiorita e il giardino sbiadito, non sentirai più il canto dell’usignolo. L’Amato è tutto, e
l’amante è un velo, l’Amato è tutto ciò che vive, l’amante è una cosa morta. Quando l’Amore non ha
cura di lui, diventa come un uccello che ha perduto le ali. Ahimè!
Come posso mantenere il controllo di me stesso, quando l’Amato non mostra la luce del Suo viso?
L’Amore desidera che questo segreto sia rivelato, perché se uno specchio non riflette, a cosa serve?
Sai tu perché il tuo specchio non riflette? Perché la ruggine non è stata levata dalla sua faccia.
Se fosse stato pulito da tutta la ruggine e dalla sporcizia, rifletterebbe lo splendore del Sole di Dio.
O amici, ora udite questa storia che mostra il vero midollo del nostro stato interiore.
Il principe e l’ancella

Presento questa storia, la prima dell’immenso poema, nella versione estremamente


riassunta di E. H. Whinfield. La trovo particolarmente interessante perché al suo interno
compare, inopinatamente, un intermezzo - questo tradotto integralmente - dedicato da Rumi a
Shams, il Sole di Tabrīz, e alla loro vicenda:

Un principe, mentre era impegnato in una battuta di caccia, vide una graziosa fanciulla, e con la
promessa di denaro la indusse a seguirlo. Dopo un certo tempo essa si ammalò , e il principe la fece
visitare da diversi medici. Ma siccome, tuttavia, tutti dimenticarono di dire “Dio volendo, noi la
cureremo”, il loro trattamento non ebbe successo. Allora il principe pregò , e in risposta un medico fu
inviato dal Cielo. Egli condannò subito la diagnosi dei suoi predecessori, e, con uno studio sapiente,
scoprì che la vera causa della malattia della ragazza era il suo amore per un certo orafo di Samarcanda.

A dimostrazione di quanto detto sull’impianto caotico del Masnavī ecco ora le


considerazioni di ordine generale sull’amore fatte dal medico venuto dal Cielo quando scopre
la segreta passione dell’ancella per l’orafo di Samarcanda. Rumi, da queste riflessioni - in sé
123
interessanti perché toccano il tema principale del Masnavī - passerà poi, senza una apparente
ragione narrativa, a parlare, con toni decisamente sorprendenti, del suo passato rapporto con
un redivivo Shams di Tabrīz:

Il vero amore è dimostrato dalla pena del cuore; non c’è malattia come la malattia del cuore. Il dolore
d’amore è diverso da tutti i dolori; l’Amore è l’astrolabio dei misteri divini. Un amante può desiderare
ardentemente questo o quell’amore, ma alla fine esso è trascinato fino al Re dell’amore.
Anche se parliamo molto dell’amore, quando ci innamoriamo abbiamo vergogna delle nostre parole. La
spiegazione rende molte cose chiare, ma l’amore non spiegato è più chiaro. Quando la penna si affretta
a scrivere, al raggiungimento del soggetto dell’amore si spezza in due. Quando il discorso tocca la
questione dell’amore, la penna si rompe e la carta si strappa.
Nello spiegare l’Amore la Ragione si sdraia impotente, come un asino nel fango; nulla, se non l’amore
stesso, può spiegare l’amore e gli amanti! Solo il sole può illustrare il sole, se vuoi comprendere il sole,
non allontanarti da lui. Le ombre, in verità , possono indicare la presenza del sole, ma solo il sole
mostra la luce della vita. Le ombre inducono il sonno, come le chiacchiere della sera, ma quando il sole
sorge la “luna è divisa in pezzi”.
Nel mondo nulla è così meraviglioso come il sole, ma il sole dell’anima è eterno e non ha un ieri. Anche
il sole materiale è unico e singolo, non possiamo concepire altri soli simili a lui. Ma il Sole dell’anima,
oltre questo firmamento, non può essere immaginato, né in concreto né in astratto.
Dove ci fosse spazio per la concezione della Sua essenza, qualcosa di simile a Lui sarebbe concepibile?

E’ a questo punto che entra in scena Shams ad-Din di Tabrīz. Semplicemente si materializza,
da un verso all’altro, e avvia un dialogo difficoltoso con Rumi. Possiamo pensare che il parlare
del sole lo abbia richiamato alla mente di Gialā l, ma certo Shams era ancora ben presente al
suo animo. Un intermezzo che apre più problemi di quanti ne risolva. Il primo distico lo trovo
in Whinfield, ma non in Nicholson:

Il Sole di Tabrīz è una luce perfetta, un Sole, sì, uno dei pilastri di Dio! Quando fu
udita la preghiera del “Sole di Tabrīz”, il sole del quarto cielo inclinò la testa per
la vergogna. Visto che ho ricordato il suo nome, è giusto dare anche qualche
indicazione sui suoi meriti. In questo momento il mio animo ha strappato la mia
sottana, catturando il profumo della veste di Giuseppe.
Ha detto: “per il ricordo della nostra antica amicizia, parla innanzi tutto un poco
dei dolci stati dell’estasi, perché la terra e il cielo, e anche la Ragione e lo Spirito,
possono essere rallegrati al centuplo”.
Io dissi: “O tu che sei lontano dall’ “Amico”, come un uomo malato che è stato
allontanato dal suo medico, non importunarmi, perché io sono rinchiuso in me
stesso; la mia capacità di comprensione è andata, non posso cantare preghiere.
Qualunque cosa uno dica, se la sua ragione è fuori strada, non lasciatelo vantarsi;
i suoi sforzi sono inutili. Ogni cosa che dice, se non è centrata, è chiaramente
sbagliata, più larga della porta. Cosa posso dire quando nessun nervo mio è più
sensibile? Posso io spiegare l’ “Amico” a uno di cui Lui non è Amico? Veramente
ascoltare la sua preghiera sarebbe spiacevole; perché dovrebbe mostrare viva la
mia esistenza, quando l’esistenza è errore. Posso io descrivere il mio distacco e il
mio cuore? No, rimandiamo questa faccenda ad un’altra stagione”.
Lui disse: “Dammi da mangiare, perché io sono affamato, e subito, perché il
tempo è una spada affilata! O compagno, il Sufi è “il figlio del tempo presente”,

124
non è sua regola dire “Domani”. Può essere che tu non sia un vero Sufi? Il denaro
contante è perduto dandolo in prestito”.
Io dissi: “E’ meglio velare i segreti dell’ “Amico”, così da dare spazio alle morali di
queste storie. Sarebbe meglio che i segreti degli innamorati fossero raccontati
dagli altri”.
Lui disse: “Senza velo, copertura o inganno. Parla e non mi lasciare fuori. O
perdigiorno! Alza il velo e parla scopertamente, perché io non porto la camicia
quando entro sotto la stessa coperta con l’Amato”.
Io dissi: “Se l’Amato fosse esposto nudo alla vista esterna, tu non potresti
sopportarlo, né abbracciarlo, né vivere. Chiedi secondo il tuo desiderio, ma con
moderazione; un filo d’erba non può perforare una montagna. Se il sole che
illumina il mondo si avvicinasse troppo il mondo brucerebbe. Chiudi la tua bocca
e chiudi gli occhi su questa faccenda. Questo, la vita del mondo, non può
diventare un cuore sanguinante. Non sfidare più a lungo questo pericolo, questo
spargimento di sangue. D’ora in poi imponi il silenzio sul Sole di Tabrīz”.
Lui disse: “Questo mistero non ha fine. Va avanti, concludi la tua storia.”
Che dire? Avverto, nelle repliche brusche di Rumi, un tono duro e disincantato. C’è rabbia
repressa, nessuna voglia apparente di rivangare il passato. Il fatto di richiamare in vita Shams
può significare che Rumi non ha dimenticato, e che non considera la loro storia qualcosa di
deprecabile. Ma certamente rimane sempre qualcosa di troppo personale e doloroso per
essere messa in piazza.
Riprende subito e si conclude - senza soluzione di continuità - il racconto del principe e
dell’ancella. Così riassunto dal Whinfield:

In accordo con il parere del medico, il principe mandò qualcuno a Samarcanda a prendere l’orafo, lo
sposò all’ancella ammalata d’amore, e per sei mesi la coppia visse assieme nella più grande armonia e
felicità.
Alla fine di questo periodo il dottore, per ordine divino, diede all’orafo un veleno che causò la perdita
della sua forza e bellezza; allora egli perse il favore della fanciulla, e lei si riunì al principe.
Il comando Divino fu simile all’ordine di Dio ad Abramo di uccidere suo figlio Ismaele, e all’atto
dell’angelo che uccide il servo di Mosè (Cor. 18,73), ed è qualche volta oltre l’umana comprensione.

Su questi problemi, che riguardano la natura divina e l’autonomia dell’uomo, al tempo di


Rumi si è disputato moltissimo.

Sottomissione e Destino nel pensiero di Rumi

Sui concetti di “Sottomissione” e “Destino” ho già riportato (dai suoi “Discorsi”) il pensiero
di Shams di Tabrīz:

“Sottomissione” non significa essere passivi. Non è né fatalismo, né capitolazione. Proprio l’opposto. Il
vero potere risiede nella sottomissione. E’ un potere che viene da dentro. Quelli che si sottomettono
alla divina essenza vivono in una imperturbabile tranquillità e pace, anche quando il loro mondo passa
attraverso le turbolenze.
“Destino” non significa che la tua vita è stata strettamente predeterminata. Vivere abbandonati al
destino e non contribuire attivamente alla musica dell’universo è un segno di ignoranza. La musica
dell’universo pervade tutto […] Il tuo destino è il livello dove tu suoni la tua parte. Tu non puoi
cambiare il tuo strumento, ma la musica che suoni dipende da te.
125
Anche nel Masnavī di Rumi si trovano interessanti approfondimenti su questi temi – temi
posti subito al centro del primo racconto “Il Principe e l’ancella” – e possiamo ritenerli
influenzati anche dai reciproci scambi di opinioni fra Gialā l e Shams al tempo della loro
convivenza:

Io amo il tuo fare, o Dio, sia nel momento che ti ringrazio che quando sopporto paziente il tuo castigo.
Come potrei amare, come gli infedeli, quel che tu hai fatto? Colui che ama il fare di Dio è glorioso, colui
che ama ciò che Dio ha fatto è un miscredente!xcvii

Rumi commenta le due scuole di pensiero esistenti: l’una dice “accettare l’infedeltà è un atto
di infedeltà ”, e l’altra “chi non accetta il Mio destino si cerchi un Signore diverso da Me”:

Questa infedeltà è la cosa destinata, non l’atto di destinare. Questa infedeltà è invero l’effetto del
destinare. Distingui bene dunque il destinare dalla cosa destinata, si che possa subito fartisi chiara la
difficoltà che proponi […] Infedeltà è ignoranza, ma l’atto che destina l’infedeltà è sapienza […] La
bruttezza del disegno non è la bruttezza dell’artista, anzi è un’abile esibizione del brutto fatta da
Lui.xcviii

L’argomento è stato toccato anche da Ibn ‘Arabī, maestro di Rumi, nella sua immensa
enciclopedia mistica “Le illuminazioni Meccane” xcix:

Chi accetta l’atto del destinare non è costretto per questo ad accettare la cosa destinata; l’atto del
destinare è ordine di Dio ed è Lui che ci ha comandato di accettarlo, mentre la cosa destinata è ciò che
è ordinato, e noi non siamo obbligati ad accettarla.c

Sulla sottile distinzione ecco il commento di Bausanici :

Dio è, per così dire, un Dio artista, per il quale il brutto e il male sono lo strumento per costruzioni
misteriose valide su piani superiori, o futuri, dello spirito. Da questo punto di vista bisogna partire (ed
è un punto di vista tuttaltro che “panteistico”), per comprendere il concetto di libero arbitrio in Rumi,
e, oso dire, in tutti i grandi mistici. Egli parte da una affermazione a prima vista nettamente
predestinazionista a proposito dell’agire umano: “Noi siamo le arpe e tu ci tocchi col plettro, il dolce
lamento non proviene da noi, sei Tu che lo operi! Noi siamo il flauto, e il suono che è in noi è da Te;
siamo montagne impervie e l’eco è quello della Tua voce. Noi siamo i pezzi degli scacchi, impegnati in
vittoria e sconfitta, e Sconfitta e Vittoria sono da Te, o Perfetto! [...] Noi siamo come leoni, ma leoni
dipinti su una bandiera: spinti dal vento si slanciano ad ogni istante. Visibili i loro slanci, invisibile il
vento […] e se noi lanciamo una freccia, noi non siamo che l’arco e Iddio è l’arciere!”.cii

Ma poi Rumi nota:

In ogni atto che tu hai desiderio di fare, tu scorgi chiara la tua potenza di compierlo; in ogni atto che tu
non hai voglia di fare, allora vi vedi la costrizione e dici: “E’ da Dio!”. I Profeti, dunque, sono
predestinazionisti nelle cose del mondo, i pagani sono predestinazionisti nelle cose dell’Altro! ciii

Prosegue Bausaniciv :

L’uomo dunque, che accetta coscientemente, e mettendosi dalla parte di Dio, quel che il volgo chiama
predestinazione, o forse meglio “costrizione”, (che è il termine arabo ğabr), quel che il volgo chiama
tale perché non sa riconoscere l’artistico, arbitrario, attuoso agire di Dio, è l’uomo più libero, e non ha
allora più alcun senso parlare di “costrizione” e “predestinazione”. Anzi, quell’uomo, diviene quasi
attivo e potente come Dio: “Accetti tu di portare il Suo peso? Egli porterà te in alto. Accetti tu il Suo
ordine? Egli accetterà te, allora. Se tu accetti l’ordine Suo, Ne diverrai il portavoce, se cerchi l’unione

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con Lui, a Lui giungerai. Libero arbitrio significa sforzo di ringraziare Dio del Suo favore, il tuo
predestinazionismo è la negazione di quelle grazie divine! Ringraziare Iddio per il potere che ci ha dato
di agire liberamente aumenta questo potere, il fatalismo ti strappa di mano il favore di Dio […] Chi s’è
spezzato la gamba sulla via dello sforzo d’azione, ecco, un Burā q [la miracolosa cavalcatura del profeta
Muhammad] viene a lui ed egli lo monta e cavalca […] Prima d’ora riceveva ordini dal Re, ora porta gli
ordini regali al popolo, prima d’ora era influenzato dalle stelle, ora domina gli astri!”. cv

Questa visione dei rapporti con il Potere Massimo mi sembra la descrizione realistica del
tipo di mentalità che caratterizza, oggi come ieri, qualunque “collaboratore”, a un certo livello,
di ogni grande società o organizzazione complessa e potente. La Multinazionale divina chiede
innanzi tutto, come quelle, completa disponibilità e sottomissione. Chi si presta trova poi la
sua personale convenienza, e tante gratificazioni.
Una mentalità curiosamente mistico-aziendalistica quella di Rumi, che chiude così la
questione della Sottomissione:

Chi dunque dice: tutto è ugualmente vero, è uno stolto; ma chi dice tutto è falso è dannato. Ora chi ha
commercio con i Profeti guadagna e profitta, chi commercia col mondo immanente delle cose, colori,
odori, è cieco e nulla comprende.cvi

Anche dell’evoluzionismo di Rumi, ascientifico ma suggestivo e ispirato, ho già parlato


all’inizio. La questione è stata affrontata anche nel Masnavī, con toni apparentemente più
ragionati ma altrettanto confusi nella sostanza. Rumi disegna un quadro evolutivo della vita
sulla terra che può stupire per la sua sostanziale correttezza, ma poi il prosieguo del percorso
viene lasciato all’iniziativa dell’individuo, non più inserito in quello che sembrava un progetto
divino valido per tutti. Curiosa l’affermazione finale che vede nell’oppressione dei deboli il
peccato più grande:

Dapprima l’uomo entrò nel mondo delle cose inorganiche. Dallo stadio inorganico passò a quello
vegetale, e molti lunghi anni visse nel mondo delle piante, e più nulla ricordava del suo antico stato,
così radicalmente opposto al presente. E quando, poi, passò dallo stato vegetale a quello animale, si
cancellò dalla sua memoria il regno delle piante dove un tempo dimorava, eccetto per quel suo
misterioso inclinarsi alle piante, specialmente nella stagione di primavera e dei fiori gentili, come
l’inclinazione del bimbo verso la mamma […] E di nuovo il Creatore, che tu ben conosci, lo guidava
dallo stadio animale a quello umano. Così egli di paese in paese sconfinato avanzava, finchè divenne
intelligente, e saggio e potente, e nulla più si ricorda, ora, delle sue anime antiche. Ma da questa
intelligenza umana, oltre, ancora, egli deve migrare, deve correr lontano da questo intelletto materiato
d’avidità e d’egoismo, fuggire a contemplare centomila intelligenze più belle e sublimi. Sì, lo
desteranno ancora dal sonno alla veglia, una veglia nella quale schernirà il suo stadio presente […]
Questo è il mondo, il sogno di un dormiente e il dormiente crede che questo sogno duri in eterno,
finchè d’un tratto si leverà su di lui l’aurora della Morte, e sarà liberato dalle tenebre della vita, dalle
opinioni vere e false. E lo prenderà , allora, un grande riso di queste pene sue sulla terra, quando
guarderà la sua dimora vera ed eterna […] Ma attento, o uomo! Non immaginarti che queste cattive
azioni che ora commetti siano fantasie commesse nel sonno! No! Quel riso saranno lacrime e lamenti,
quel giorno, per colui che opprime i deboli!cvii

Concludo queste note sul Masnavī di Rumi con questo suo inno alla speranza e alla gioia:

Se comperi un melograno, compralo mentre ride, che il suo riso t’informi dei dolci semi! O benedetto
riso quel riso che dalla bocca mostra aperto il cuore, come perla nascosta nelle pieghe dell’anima, ma
disgraziato il riso che, come quello del tulipano, dalla bocca mostra il negrume del cuore! Il melograno
ridente fa ridente il giardino, la compagnia degli uomini pii ti fa uomo. Poni nel mezzo dell’anima
l’affetto pei Santi, non dare il cuore altro che all’amore dei cuori felici! Non entrare nell’angusta via
della disperazione: ci sono speranze! Non andare nelle tenebre: vi sono soli! cviii
127
Il continente perduto

Al di là delle interpretazioni che in passato venivano date a fenomeni, sicuramente spesso


anche inautentici, come quelli dell’estasi, dell’estraniamento, dei carismi e della taumaturgia -
interpretazioni e fenomeni comunque inquadrabili in un più generale bisogno di risposte alle
domande di fondo - non possiamo negare che anche ai nostri giorni tali necessità rimangano
invariate, e le domande tutte inevase, soprattutto presso noi così detti “occidentali” (parola
diventata ormai sinonimo di lucidi ragionatori, esperti di organizzazione e di tecnologie
scientifiche, nonché scettici e disillusi). Non deve perciò meravigliare che alcuni “nostri”
filosofi siano tornati a dibattere quei temi, dopo tanto scientismo positivista, con toni che
ricordano più antiche spiritualità . Nello sfiorare il problema di fondo, che non penso sia il caso
di trattare dettagliatamente in questa sede, quello dell’Essere - ovvero delle nascoste ragioni
che spiegano e giustificano la realtà , ivi compresi i modi della nostra inclusione - sono stato
stimolato da una rispondenza curiosa fra i toni, e il linguaggio, di certo pensiero definito
“esistenzialista” (quello di Heidegger e Merleau-Ponty in modo particolare) e alcuni versi di
Rumi.
L’Essere, parola che si può sicuramente, in ultima analisi, ricondurre all’idea di Divinità -
idea tanto conclamata in passato quanto, ora, rifiutata -, viene visto da questi filosofi come
cosa problematica, cosa misteriosamente manifesta, eppur nascosta, nel suo continuo
“approssimarsi e allontanarsi” da noi. Ma qualcosa che pure deve “esserci”, e avere
necessariamente un rapporto con l’uomo. La dottrina ibnarabiana dell’unità trascendentale
dell’essere (Wahdat al-wujūd), comune a tanti esponenti del pensiero sufi e fonte di
ispirazione per i grandi lirici persiani e arabi, si ritrova, in modo spesso esplicito, in certe
affermazioni della filosofia odierna, e Heidegger, innalzando la dignità del pensiero poetico al
livello delle più chiare analisi filosofiche, ha mostrato di scendere volentieri su quel terreno.
Heidegger ha amato in modo particolare Holdërlin, ma non mi risulta che abbia mai citato le liriche di
Rumi. Credo che avrebbe trovato espressioni molto confacenti al suo pensiero - del resto
rimasto molto in nuce - in questo poeta mistico del XIII secolo. A fare da trait d’union fra le
varie argomentazioni prendo il libro recente di un filosofo tunisino, Tahar Ben Helal cix, molto
attento alle ricerche di questi filosofi e sensibile, per sue ragioni culturali e storiche, ai segni di
ripresa della spiritualità .
Ben Helal introduce la sua ricerca citando Wittgenstein, analista del linguaggio ed
esponente del “Circolo di Vienna”:

Dell’essere in sé, non si può dire niente di adeguato e la proposizione logica è, secondo Wittgenstein,
una semplice “immagine” della realtà , una “trasposizione della realtà come noi la pensiamo”. Non si
può dunque dire niente a proposito dell’essere o della realtà in sé. Per potere dire l’essere, per poterlo
comprendere attraverso il pensiero, bisogna collocarsi fuori dal mondo… Il mondo, secondo
Wittgenstein, o la realtà pensata ed espressa logicamente non è la realtà in sé, ma la realtà come noi
possiamo conoscerla: è il fenomeno.cx

Prosegue con Carnap:

La metafisica esprime i sentimenti del vivere in un modo che è molto più vicino all’arte che alla
scienza. Anzi, il metafisico è piuttosto comparabile al poeta con la grande differenza che il poeta
riconosce che i suoi giudizi esprimono i suoi sentimenti di esistere e di vivere mentre il metafisico
crede, sicuramente a torto, che i suoi giudizi possiedano, come quelli provenienti dalle scienze
positive, un valore di conoscenza teorica rigorosamente dimostrabile. cxi

Citando Heidegger, Ben Helal illumina bene l’argomento:


128
“Per essere capaci di qualche cosa bisogna potere amarla” […] Heidegger riconosce che l’uomo non può
amare che ciò che l’ama. E’ unicamente per questo amore che il nostro pensiero è chiamato e si orienta
verso l’essere. Solamente, il pensiero non è trattenuto dall’essere che “tanto a lungo quanto noi
tratteniamo ciò che ci tiene”. Tutta la questione ora è di sapere cosa, in questo appello amichevole che
ci viene dal fondo dell’essere e che si orienta verso il nostro pensiero, merita di essere preso in
considerazione. E’ ciò che non ha mai cessato di darci pensiero e Heidegger lo chiama “Il Punto Più
Critico”. Ma che cosa vuol dire? Come questo Punto si mostra? La risposta di Heidegger è la seguente:
“Il Punto Più Critico si mostra in ciò che noi non pensiamo ancora. Sempre non ancora, anche se lo
stato del mondo dà sempre ulteriori motivi di pensare”[…] Pensare “in modo giusto”, come dice
Heidegger, non ha niente a che vedere con il procedere della metafisica. Ma non ha niente a che vedere
nemmeno con il procedimento adottato dalla scienza […] Heidegger sostiene con una semplicità
sorprendente che “la scienza non pensa” e che fra la scienza e il pensiero in modo proprio la distanza è
la stessa che separa questo modo di pensare da quello della metafisica. Fra la scienza e la metafisica da
una parte e il pensiero che si muove nel suo elemento, cioè il pensiero come pensiero dell’essere
dall’altra parte, non c’è alcun ponte da gettare: non c’è che il salto […] Pensare ciò che resta affidato al
pensiero significa prima di tutto attirare l’attenzione verso “Il Punto Più Critico” e vegliare su di lui con
cura, dal momento in cui si mostra fino al momento in cui si nasconde. Solamente, mostrarsi e
nascondersi, volgersi verso l’uomo e allontanarsi da lui, non sono due momenti diversi. Non c’è, al
fondo, che un solo e medesimo movimento: ciò che si mostra si mostra per lo stesso motivo per cui si
ritrae.cxii

Il canto dell’Essere

Vedo nelle ultime frasi di Ben Helal la descrizione precisa di problematiche e difficoltà che
caratterizzano anche, in modo certamente più tangibile e banale, ogni seduta meditativa di
qualsiasi scuola o orientamento. Appare anche chiaro come “Il Punto Più Critico” di Heidegger,
sia il suo modo di definire il trascendente, e possa essere avvertito come Dio nascosto. Parole
così chiare, così evocative, a definire ciò che, alla fine, potrebbe essere considerato solo “un
accidente” a livello cerebrale, emotivo o psichico, possono lasciare perplessi. Si allude
all’illuminazione? Che differenza allora, alla fine, fra Heidegger e Ibn ‘Arabī, Rumi, Rū zbehā n?
Il commento di Tahar Ben Helal:

Il linguaggio non è tutto: è un inizio. Le parole sono là per significare altre cose, esse parlano
dell’essere. L’uomo, con la mediazione del linguaggio, ama parlare il linguaggio dell’essere. Il
linguaggio, qualunque sia, s’alimenta del rumore profondo dell’essere e degli esseri. Tutto ciò che noi
diciamo o vogliamo dire trova le sue radici, le sue buone radici, in questo grande continente perduto al
fondo dell’indicibile, in questa atmosfera sacra che non ci lascia mai.
Se è preso in questo senso - ed è in questo senso che Heidegger e Merleau-Ponty l’hanno preso - il
linguaggio non è più allora una maschera messa sull’essere.
Ne è forse il suo più valido testimonio. Perché c’è sicuramente, come ci dice Merleau-Ponty, una voce
davanti a noi, una voce che ci è rivolta come un messaggio, come un Kérigma e che è per noi una
seduzione. Questa voce è un tema universale: forse è il tema centrale della filosofia. La filosofia, per
Heidegger e Merleau-Ponty, è cosa diversa da un discorso che continua sempre una ricerca di
articolazione che non si completa mai?
Il pensiero, ogni volta che è sufficientemente profondo e attento al suo senso dell’essere, tenta di
avvicinare questo appello insistente e sottostante, questo mistero tanto famigliare quanto inspiegato,
d’una voce che, facendo intendere tutto il resto, si lascia accantonare al fondo del non detto.
Forse è nel silenzio del pensatore - il pensatore che non vuole che approfondire e che le lunghe
discussioni infastidiscono - che risiede la nostra chance di potere nel rumore intenso e nel vuoto
immenso di oggi ascoltare il canto dell’essere.
Se l’uomo è capace della parola non è perché è a lui che la voce dell’essere si rivolge e che è in lui che
essa si fa capire? e se lui parla non è perché vuole che tutto il suo essere, come il suo pensiero, siano
l’eco pura di questa voce?
129
Ora, è proprio in questo senso che Merleau-Ponty ci dice che i filosofi scrivono per mettere in parole
certi rumori che essi ascoltano. Tutte le loro opere sono l’espressione di questo sforzo. Essi scrivono
per esprimere e comunicare agli altri uomini il loro contatto con l’essere. cxiii

Mostrarsi e nascondersi

Ecco ora, sull’inafferrabilità dell’Essere o sull’impossibilità di cogliere appieno le vere


ragioni dell’esistente, cosa dice Rumi. Altri i tempi, ma la stessa dichiarata difficoltà . Dio viene
però nominato. Non c’era in Rumi la sfiducia che attanaglia l’uomo di oggi e che gli impedisce
di riconoscere Dio come il vero nome dell’Essere che ci sfugge, e che, in fondo, sarebbe tanto
gratificante potere ritrovare. Testo completo.

Afferra l’orlo della veste del suo favore ché d’improvviso egli fugge,
ma non tirarlo come freccia, ché fuggirà certo dall’arco!
Quali giochi di forme, quali abili astuzie egli crea!
Se nella forma è presente, fugge per la via dell’essenza!
Se tu lo cerchi in cielo, splende nell’acqua come chiaro di luna,
ma come entri a afferrarlo nell’acqua, fugge rapido in cielo!
Lo cerchi nell’Oltrespazio? T’indica allora lo spazio,
e quando nello spazio lo cerchi fugge nel senza luogo.
Come la freccia fugge dall’arco, uccello di fantasia,
alla Fantasia sfugge, come da quella fugge Certezza.
Da questo e quello voglio fuggire, non per noia, ma per paura
che quella Bellezza sottile sfugga a questo ed a quello!
Come il vento ho fuggevole il piede, per amor della rosa son come brezza,
rosa che, per paura d’Autunno, fugge via dal giardino.
Quando vede che si sta per dirlo, il Suo nome fugge talmente
ché non riesci neppure a dire: ecco, il tale mi sfugge!
E a te sfuggirà in tal maniera, che se ne tracci l’immagine
l’immagine volerà dalla tela, fuggirà dalla mente il ricordo! (26)

Sulla misteriosa possibilità offerta al pensiero così Ben Helalcxiv:

Il fatto che il punto critico si nasconda deve dunque essere percepito come un invito. E’ il modo per il
quale il punto critico “tende le sue braccia”, per così dire, amichevolmente verso il pensiero perché
quello “risponda” al suo richiamo e “corrisponda” con lui. E’ ciò che dice questa frase di Heidegger:
“Ciò che sfugge sembra volersi allontanare da noi […] ciò facendo, ci porta con lui e ci porta alla sua
manieracxv”. Se il punto critico sfugge, si ritira chiudendosi in sé, è perché solo in questo modo può
essere preso in considerazione più di ogni altra cosa.

Anche questo pensiero è riflesso nell’ode seguente. E’ Dio che parla. Testo completo.

Son venuto a prenderti, a tirarti per l’orecchio


a privarti del tuo cuore e di te stesso e a metterti nel Cuore e nell’Anima!
Son venuto qual lieve primavera da te, o cespo di rose,
ad abbracciarti a me stretto, e a sfogliarti dolcemente!
130
Son venuto perché hai rapito un bacio a un bell’Idolo:
restituiscilo allora in letizia, che son pronto a prenderlo io!
Lascia il Fiore, ché tu sei il Tutto, sei colui che ordina la divina Parola,
Se gli altri non ti conoscono, poiché sei me, ti conosco!
L’anima mia tu sei, tu sei colui che recita la mia Fātihacxvi;
sii tu stesso una Fātiha , ch’io tutto ti legga col cuore
Sei la mia preda, la mia caccia, anche se sfuggisti alla rete;
ritorna ancora nella rete, ché, se non torni, ti acchiappo!
Il leone m’ha detto: “Strana gazzella tu sei, corri!
Perché m’insegui sì rapida? Attenta, ch’io voglio sbranarti!”
Accetta la ferita e corri avanti come scudo d’eroe
attento solo alla corda dell’arco, se non vuoi che ti pieghi come arco.
Dalla polvere infima all’uomo ci son migliaia di tappe;
di regno in regno ti portai, non ti abbandonerò sulla strada!
Non dir nulla, non spumeggiare, non alzare il coperchio alla pentola,
bolli ancora, bolli paziente: io ti farò in alto volare!
No, ché tu sei figlio di leone nascosto in un corpo di daino
ma io da questo velo di daino ti farò libero uscire.
Tu sei la mia palla da polo e corri spinto dalla mia mazza
sebbene io correr ti faccia, son Io che a corsa t’inseguo! (12)

Heidegger ricercava il senso dell’Essere, voleva ritrovare il senso della vita che riteneva
perduto da tempo immemorabile, e accennava ad una realtà che ci “occhieggia” e ci chiama.
Rumi mostra di avere vissuto questa problematica, e la esprime con l’evidenza delle sue
poesie. Per lui (ma anche per tanti altri esponenti del pensiero Sufi) è l’amore, il sentimento
d’amore, la strada da percorrere. E’ l’amore dei mistici un pensiero che ci congiunge
all’Essere?
Anche Ben Helal coglie un aspetto rumiano nel pensiero di Heidegger: “Forse è un desiderio
condiviso che, al fondo, mette tutti e due in movimento e li predestina l’uno all’altro. Il
desiderio e l’amore sarebbero la verità o l’ultimo significato da raggiungere nel rapporto del
Pensiero [l’Uomo] con l’Essere [Dio]?” cxvii. Ben Helal dice che la verità allo stato puro, di cui
parla Heidegger, “viene” a noi. Si rivolge a noi come un appello, una seduzione. Essa però
opera così solo per quelli che ci credono. Per quelli che sono iniziati all’ascolto. Per la maggior
parte di noi l’ascolto non è che finzione, o è una chimeracxviii.
Anche Merleau-Ponty vede l’Essere come un In-sé puro, un Assoluto: “Un Dio che non sia
solamente per noi, ma per Sé, la metafisica lo può cercare prima del livello cosciente, sotto le
nostre idee, come la forza anonima che sostiene i nostri pensieri e le nostre esperienze” cxix.
Sottolinea Tahar Ben Helal: “Merleau-Ponty determina come oggetto più proprio per il
pensiero questo tutto dell’Essere ove l’essere stesso del pensiero si iscrive, per un miracolo di
ogni istante. C’è un miracolo giustamente perché c’è un mistero, quello di un Essere che è già
tutto e che, ancora, non lo sarebbe, tutto, senza il nostro pensiero, come se avesse bisogno di
crescere con il nostro proprio Essere”cxx.
Parole, queste di Merleau-Ponty e di Ben Helal, che ricordano pari pari il pensiero dello
Sheikh al-Akbar, Ibn ‘Arabī.

Rumi e Shams

131
Alla ricerca di una conclusione, torno alla questione che in questo lavoro è posta al centro
dell’attenzione: quali rapporti fra Rumi e Shams sottostanno al Divān, al di là delle rigogliose
fioriture mistico-religiose presenti in tutte le liriche. L’approfondimento su quanto si conosce
delle loro vite e sui dati, nascosti e sfuggenti, intessuti nei ghazal è stato fatto. Va da sè che
non sarebbe comunque logico, né giusto, pretendere di esprimere giudizi drastici su questioni
tanto segrete. Meglio perciò , prima di chiudere, riportare anche il pensiero di quelli che, pur
non negando profondità e splendore all’amore di Gialā l e Shams, non vogliono credere
all’esistenza di cose riprovevoli e indegne di uomini santi. Argomentazioni a difesa che prendo
dal sito ufficiale in inglese dei Sufi Mevlevi (Dāru ‘l-Masnavī of the Mevlevi Order). Il tema (A
reply to misunderstanding about Rumi and Shams, by Ibrahim Gamard) vi è trattato con
spregiudicatezza, e si fa comunque luce su annose questioni.
Le parole “amore” e “amante” nelle lingue occidentali - sostengono i Sufi Mevlevi - sono state
caricate di sensualità , per questo può risultare molto naturale e facile per noi interpretare la
storia del rapporto fra Rumi e Shams come una storia di tipo omosessuale, anche
considerando che l’omosessualità è sempre più accettata nella nostra cultura e vista come
naturale. Oggi è facile pensare che uonini molto vicini, che spendono assieme il loro tempo,
siano omosessuali, o bisessuali. Rumi e Shams, dopo il loro primo incontro, passano dei mesi
reclusi. Può venire allora naturale credere che essi, oltre a una profonda intesa spirituale,
avessero anche una relazione di tipo omosessuale. Ovviamente anche versioni tendenziose o
addomesticate delle poesie possono contribuire alla formazione delle diverse opinioni. Rumi e
Shams, per il sufismo, erano amanti “spirituali”. Nella poesia persiana classica la parola
“Amante” (Āshiq) significa Amante di Dio, e nel linguaggio del sufismo il cercatore di Dio, il
mistico, è visto come l’Amante e Dio come l’Amato. A volte “gli amanti” sono gli Amanti di Dio.
Poiché nei fatti non c’è nessuna evidenza di un rapporto fisico fra i due, i sufi Mevlevi lo
giudicano un sospetto senza fondamento, conseguente al fraintendimento da parte
occidentale della poesia e della cultura persiana. La religione ha sempre condannato
fermamente l’omosessualità e si osserva che nelle società islamiche c’è stata segregazione fra
uomini e donne per centinaia di anni, e che gli uomini sono stati fra loro strettamente vicini
molto di più di quanto possiamo immaginare, senza per questo essere omosessuali. A
Istambul, ancora oggi, è facile vedere coppie di uomini passeggiare tenendosi per mano,
secondo un costume tradizionale che non ha nulla a che fare con l’omosessualità .
Nell’immaginario della poesia persiana classica è molto comune, nei confronti dell’amato,
l’apprezzamento per le belle trecce, gli occhi, le guance, i sopraccigli. Quando Rumi, nei suoi
ghazal, usa queste immagini per esprimere il suo spirituale amore per Shams, queste possono
essere interpretate come una evidenza di amore omosessuale. Si tratterebbe invece di una
convenzione della poesia persiana vecchia di secoli, a lungo adottata dai mistici sufi, che
interpretarono le variegate immagini in lode dell’amato come simboli dell’amore mistico.
Rumi e Shams erano entrambi dei pii musulmani. Rumi era una autorità religiosa che aveva
ereditato da suo padre il ruolo di insegnante di religione. Anche Shams era un sunnita, con
una solida educazione islamica, molto critico anche verso famosi maestri sufi che, a suo dire,
non seguivano sufficientemente l’esempio del Profeta. Rumi era sposato e cercò di dare per
moglie a Shams una donna della sua famiglia: Kimiya (Alchimia).
Sarebbe anche utile - dicono i Mevlevi - vedere la loro relazione alla luce dell’insegnamento
sufi del “passare oltre”, o “annichilimento”. Il discepolo è incoraggiato a coltivare amore per il
maestro spirituale, visualizzandone l’immagine nel cuore, e ricordandolo frequentemente. Fa
parte del percorso mistico vedere il maestro spirituale (o “amato”) dappertutto, vegliando o
dormendo. Rumi, per i suoi adepti, con lo scrivere migliaia di versi che esprimono il suo
spirituale amore per Shams, avrebbe fatto questo. Questo insegnamento dice anche che la
vicinanza spirituale, se dura troppo a lungo, può diventare un ostacolo per l’“annichilimento
132
in Dio” o fanā. Shams temeva questo e diceva a Rumi che, per progredire sulla via mistica,
doveva distaccarsi da lui. Quando Shams sparisce definitivamente, Rumi, una volta superato il
colpo, ricrea Shams nel suo cuore. Negli ultimi anni Rumi compone migliaia di distici (il
Masnavī), in cui descrive molte esperienze unitive ma raramente menziona il nome di Shams.
Questo sarebbe stato vero “annichilimento nel maestro”.
Rumi ha condannato la sodomia e i comportamenti effeminati in molti punti del suo
Masnavì. Dice che il vero sufi ricerca la purezza, non si adorna di ornamenti e toppe colorate,
non pratica la sodomia. Quando Rumi affidò suo figlio Walad come discepolo a Shams
dichiarò : “Mio figlio non consuma hashish e non pratica la sodomia, perché questi due
comportamenti sono molto disapprovati e vergognosi”. Nel contesto dell’Islà m mistico
ovviamente i dervisci amavano passare lungo tempo assieme. Anche se l’Islà m condanna
severamente l’omosessualità , tali relazioni potevano sorgere fra uomini e ragazzi adolescenti,
anche come conseguenza della segregazione dei maschi non sposati (che continua ancora
oggi). Rumi, Shams e il padre di Rumi hanno tutti condannato anche la pratica (gazing in
inglese) per cui il contemplante meditava sulla Divina Bellezza ammirando a distanza un
amabile giovane ancora senza barba.
A questo proposito ho raccolto una serie di considerazioni sull’argomento che mostrano
quanto fosse diffusa, e anche variamente giudicata, tale consuetudine nell’ambiente sufi. Del
gazing ha parlato anche Rū zbehā n Baqlī, nel suo Gelsomino dei fedeli d’amore cxxi. La traduzione
è quella di Henry Corbin, ingenua e politically correct; l’ “Amato” per Corbin è femmina.

Le dissi: “tu fai parte della compagnia dei mistici fedeli d’amore, o bella immagine! Tu ne sei degna in
modo eminente, anche se non partecipi con noi agli abbeveramenti d’amore nell’assemblea
estatica”.cxxii
Quanto all’attaccamento intimo che è straniero al mondo della natura e che è designato come il “puro
amore”, esso è conosciuto fra gli uomini ed è compreso dagli gnostici come cosa non corporale, ma
come l’azione che il Creatore, allorchè vuole guidare un eletto nella direzione dell’invisibile o del
mondo del mistero, proietta nel sentimento innato di questa persona e che gli permette di vedere con
gli occhi dell’anima le bellezze delle opere divine. Ciononostante ci sarà il pericolo di restare
prigionieri, come un ostaggio della bellezza di queste opere. Per andare più lontano, bisognerà
guardare a ciò che costituisce l’essenza delle opere divine, ciò che ne costituisce la Vera Realtà.
Certamente non si perviene alla sommità della dimora del mistero che passando per le scale che
rappresentano le operazioni o energie divine che costituiscono la Creazione; per l’insieme degli amanti
mistici questi sono i “testimoni” che si offrono alla contemplazione che aprono la via; un piccolo
numero può fare eccezione fra le genti del tawhid, che pervengono alla contemplazione totale senza la
contemplazione delle realtà esistenziate. Ma ciò appartiene alle eccezioni del mistero. cxxiii
Mentre brucia la candela ben aggiustata sul suo candeliere, contemplare il bel viso dell’amata dallo
sguardo sorridente, mentre si ascolta una bella poesia. Durante tutta questa sequenza egli non si
allontanerà da una totale purezza di cuore, perché il sentimento dell’inaccessibile lo rigetta in uno
stato equivalente alla stessa separazione. E l’incantamento dell’amore divino non può venire che per
questa via. E’ attraverso una tale esperienza che si coltiva la sostanza dell’argilla umana in fondo al
cuore umano. E se non fosse così non ci sarebbe, nella prigione di questo mondo, tutto questo tumulto
dell’amore.cxxiv
I testimoni di contemplazione sono, al tempo delle primizie, per gli uomini della certezza, le
cavalcature delle loro intelligenze per l’itinerarium ad Deum. Quando essi ricevono la certezza
dell’esistenza della luce divina, essi non devono più dopo ciò curarsi degli indizi forniti dai testimoni
umani di contemplazione. O immagine di bellezza! sia assicurato ai debuttanti in amore, perché se i
mistici, turbati dalla ferita della lancia dell’ardente desiderio, si volgono al Testimone di
contemplazione nelle loro assemblee, come se contemplassero la divinità stessa, allora essi sono degli
infedeli che violano il tawhid. Ma se io ti contemplo provando il sentimento di essere separato
dall’inaccessibile, allora io sono un Fedele d’amore. Poiché è così, guarda, ti prego, verso di noi, tu che
sei la felicità dei mistici! affinché per questo sguardo noi possiamo issarci fino alla vetta della
preeternità . L’amore è il primo frutto venuto nel suo giardino. Io sono sbalordito, e come potrei non
133
esserlo? Perché, quando gli Attributi divini sono in questi segni visibili, io so che il tawhid non può
tollerare nessuna incarnazione. Questa conoscenza che ho di te non è dunque che presunzione? Se è te
che io conosco, la mia conoscenza non è che tashbīh (assimilazione di Dio alla creatura). Ma se ti
ignoro, io faccio di Dio un nulla e una astrazione. Io voglio che questa bellezza eterna trascendente
appaia in questa bellezza terrestre, e che nella mia condizione di Fedele d’amore questa giovane
bellezza faccia di me un folle e un insensato. cxxv

Corbin fa un riferimento diretto alla pratica del gazing nel suo L’Immaginazione creatrice, le
radici del sufismo del 1975, parlando della dialettica d’amore di Ibn ‘Arabī, e ipotizza un
collegamento stretto fra lo Sheikh al- Akbar e Rumi:.

Uno stesso sentimento teofanico ispira ambedue, una stessa nostalgia della Bellezza, una stessa
rivelazione dell’amore. L’una e l’altra tendono alla stessa “cospirazione del visibile e dell’invisibile”, del
fisico e dello spirituale, in una “unyo mistica” in cui l’Amato diventa lo specchio che riflette il volto
segreto mistico, mentre quest’ultimo, purificato dall’opacità del suo ego, diventa reciprocamente lo
specchio degli attributi e degli atti dell’Amato. cxxvi
La funzione teofanica investita negli esseri è il segreto della dialettica d’amore. Questa dialettica
disvela nella natura dell’amore mistico l’incontro tra l’amore sensibile, fisico, e l’amore spirituale. La
Bellezza è la suprema teofania, ma si rivela in quanto tale solo ad un amore che essa ha trasfigurato.
L’amore mistico è distante tanto dall’ascetismo negativo quanto dall’estetismo o dal libertinismo
dell’istinto possessivo.cxxvii
La dialettica d’amore di Ibn ‘Arabī ci conduce alla visione dell’Amato invisibile (ancora virtuale)
nell’Amato visibile che solo può manifestarlo, invisibile ma la cui attualità dipende da una
Immaginazione che faccia “co-spirare” l’amore fisico e l’amore spirituale in un solo amore mistico. cxxviii

L’indulgenza di Corbin verso il gazing:

… il sentimento della Bellezza provato in un ampio territorio del Sufismo come teofania per eccellenza.
Non si tratta di un sentimento estetico accompagnato da una sfumatura, più o meno intensa, di gioia,
bensì della contemplazione della bellezza umana come fenomeno numinoso, sacrale, che ispira
sgomento e prostrazione, a causa dello slancio che essa suscita verso qualcosa che nello stesso tempo
precede e supera l’oggetto che lo manifesta, e di cui il mistico prende coscienza soltanto nel momento
in cui realizza la congiunzione, la co-spirazione dello spirituale e del sensibile, a cui l’amore mistico
tende.cxxix

Lo scetticismo di Chevalier:

Estetismo deviato. Probabile origine platonica (Simposio). Attraverso la contemplazione il mistico si


solleva dalla bellezza sensibile all’idea pura della bellezza. Alcuni ricercavano l’estesi nella
contemplazione della bellezza fisica, la bellezza di un adolescente da cui rimanevano separati, secondo
certi autori, da una rosa. Il bel giovane imberbe funge da testimone (shahīd). Il contemplativo tende
così ad innalzarsi verso la contemplazione della bellezza suprema, di cui lo specchio è testimone. Ibn
‘Arabī lo considera il più arduo degli scogli e la più immorale delle scelleratezze. Alcuni gruppi
ricorrevano anche alla droga, per esaltare l’immaginazione cxxx.

Secondo il sito web dei Mevlevi il professor Franklin Lewis avrebbe dato una eccellente
risposta alle fantasie occidentali su una relazione di tipo omosessuale fra Rumi e Shams nel
suo libro Rumi- Past and present, East and West: The Life, Teachings and Poetry of Jalāl al –Din
Rumi, 2000. Lewis dice che Rumi era trentasettenne quando incontrò Shams, il quale, in
accordo con la tradizione Mevlevi, aveva sessant’anni. Lewis spiega che l’omoerotismo nella
cultura persiana del tempo di Rumi era molto differente dalla omosessualità di oggi. Il ragazzo
penetrato aveva uno stato sociale inferiore…

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Uno stigma si attaccava all’essere penetrato e un maschio maturo rispettoso di se stesso non avrebbe
mai permesso che accadesse a lui. Un maschio dominante, attratto da un ragazzo androgino,
desiderava anche le donne, e voleva eventualmentre sposarsi e avere figli. Quando un ragazzo
superava una certa età e si copriva della barba, lui stesso diventava un membro della classe
sessualmente dominante e non avrebbe più voluto sottomettersi alla penetrazione. La violazione di
queste norme portava scandalo e perseguimento legale cxxxi […] La convinzione che la relazione fra
Shams e Rumi fosse di tipo fisico e omosessuale è interamente smentita dal contesto. Rumi, un uomo
di quarant’anni, impegnato in pratiche ascetiche e insegnante di legge islamica, per non parlare della
sua ossessione nel seguire l’insegnamento e l’esempio del Profeta, non si sarebbe sottoposto a
penetrazione da parte del sessantenne Shams, che era, d’altra parte, come Rumi impegnato nel seguire
il Profeta, e ostile alla pratica del culto divino attraverso la bellezza umana (gazing, n.d.r.). Rumi
impiegò il simbolismo omoerotico nei suoi poemi rivolti a Shams come Divino Amante, semplicemente
adottando una convenzione poetica vecchia di 300 anni nella poesia di lode della letteratura
persiana.cxxxii

Così viene posta la parola fine alla delicata questione da parte dei moderni Mevlevi:
“Sperando che queste parole risolvano la popolare erronea credenza sulla relazione fra Rumi
e Shams. Come Mevlevi noi dobbiamo difendere l’onore di grandi Santi di Dio come questi che
furono i fondatori della nostra tradizione (e possa Allah perdonarci per il nostro stesso
dubbio)”.

Il Samā’

Questo il pensiero sul ballo in generale, espresso da Hujwiri cxxxiii, autorevole protagonista
del primo sufismo:

Devi sapere che il ballo non ha giustificazione né nella religione della legge, né nella via del sufismo,
perché tutte le persone ragionevoli concordano che sia una diversione quando è sincero, e una
sconvenienza quando è scherzoso. Nessuno degli shaykh lo ha raccomandato o ha ecceduto dai confini
prestabiliti, e tutte le tradizioni citate a suo favore dagli antropomorfisti sono senza valore. Ma da
allora i movimenti estatici e la pratica di coloro che tentano di indurre l’estasi vi si ispirano, alcuni
frivoli imitatori hanno indugiato in esso smodatamente e ne hanno fatto una religione. Ho incontrato
una marea di persone comuni che hanno adottato il Sufismo credendo che esso sia questa danza e
niente altro. Altri lo hanno condannato. In breve ogni gioco di gambe è cattivo in legge e in ragione, in
ogni modo sia praticato, e il meglio dell’umanità non potrebbe praticarlo. Ma quando il cuore batte con
gioia, e il rapimento diventa intenso e l’agitazione dell’estasi è manifesta e le forme convenzionali sono
abbandonate, questa agitazione non è più né danza, né gioco di gambe, né indulgenza al corpo, ma una
dissoluzione dell’anima. Quelli che la chiamano “danzare” sono in errore. E’ uno stato che non può
essere spiegato con parole: “senza esperienza non c’è conoscenza ”.

Il samā’, la danza rotatoria dei Mevlevi, che molti dervisci non considerano una forma di
danza, presenta alcuni attributi del rituale dionisiaco, e ha le sue radici nella antica cultura
anatolica. Antecedenti possono essere trovati anche nelle antiche danze sciamaniche dei
Turchi dell’Asia centrale. Anche se è essenzialmente un rituale ditirambico, il samā’ non ha
indegnità , né oscenità . I dervisci non si toccano. La sensualità dei Mevlevi rimane un affare
privato. La danza stessa è comunitaria, non solitaria.
La moderna danza dei Mevlevi comincia con i dervisci che fanno atto di obbedienza al loro
sheykh e ricevono la sua benedizione. All’inizio le loro braccia sono incrociate e strette al
corpo con le mani che toccano le spalle e le teste inclinate. I loro piedi nudi sono vicini.
All’inizio girano molto lentamente, le loro mani lasciano le spalle, e gradualmente le braccia
dei danzatori si estendono orizzontalmente. Qualche volta la mano destra è sollevata con il
palmo verso l’alto, e la sinistra abbassata con il palmo verso il basso. La postura è

135
simbolicamente interpretata dicendo che l’influenza del cielo, ricevuta dalle palme volte verso
l’alto, è portata nel mondo dalle altre. Qualche volta un braccio è disteso e l’altro pressato
contro il cuore. Il derviscio piroetta restando alternativamente sul tallone di ogni piede
mentre l’altro mantiene un movimento rotatorio. Gli occhi sono bassi o chiusi e la testa è
dolcemente pendente su una spalla. Come il movimento si velocizza, le loro lunghe sottane
cominciano ad espandersi come degli ombrelli aperti. Quando il capo del rituale dà il segnale
della fine, i danzatori si fermano tutti assieme. Ci sono diverse pause, che simbolizzano il ciclo
delle stagioni. La rotazione simbolizza il movimento degli astri; come la terra ruota sul suo
asse e gira attorno al sole, così il derviscio ruota sui suoi piedi mentre si muove attraverso la
sala, che è considerata il luogo del movimento celeste.
Al tempo di Rumi il samā’ non era organizzato in maniera così elaborata. Era praticato in
ogni circostanza e in ogni luogo, anche senza musica. La danza dei Mevlevi gradualmente
evolvette fino alla perfezione attuale. Fu arricchita da poesie, musica (strumentale e vocale).
La sala dove il rituale si svolge ha normalmente una forma ottagonale. Lo sheykh siede su uno
scranno rosso. Il rosso simbolizza il colore del cielo al tramonto, in onore di Shams di Tabrīz,
che rappresenta il sole. Il rosso ricorda anche la morte di Mevlana, ed è il colore dell’unione
mistica.
Rumi ha detto: “Il samā’ è l’ornamento dell’anima che aiuta a scoprire l’amore, a sentire il
brivido dell’incontro, a togliere il velo, e a raggiungere Dio”. Fu il primo a praticarlo,
suscitando scandalo; la prima volta in un mercato, poi al funerale di un amico. Si racconta che
un giorno, mentre era completamente assorbito dalla sua passione per Dio, Rumi arrivò
camminando al negozio di un orafo. Il ritmo del martello esercitò una tale influenza su di lui
che cominciò a girare in estasi, coinvolgendo anche l’artigiano. E’ detto che fu questo l’inizio
del samā’. Rumi, col suo esempio, ne incoraggiò la pratica. Per lui rappresentava un viaggio
mistico, una spirituale ascesa attraverso la mente e l’amore verso l’Uno perfetto. Chi danza
gira simbolicamente attraverso la verità , cresce attraverso l’Amore, al servizio dell’intera
creazione, senza discriminazione riguardo a religione, razza, classi e nazioni.

Danzando nel silenzio

Questa ode fa parte del Divān-i Shams-i Tabrīz , anche se il Rumi che vi appare sembra
emergere da un contesto diverso. Le ferite dolorose causate dalla partenza di Shams
sembrano cicatrizzate e prevale un senso di malinconica rassegnazione e di abbandono a Dio.
Anche fare poesia sembra una cosa del passato, una attività diventata fastidiosa. In
collegamento con la dichiarata stanchezza poetica c’è il consueto invito al silenzio, ribadito
con insistenza, C’è sempre stata in Rumi la convinzione che le parole fossero inutili e mai
appropriate a commentare i fatti spirituali al centro delle sue poesie. Quelle emozioni,
originate da realtà nascoste e appena percepibili nelle loro ragioni più profonde, possono
essere avvertite solo negli aspetti più epidermici e devianti. Meglio sarebbe allora non
parlarne, dice Rumi, perché le parole non sono adeguate e la mente è insufficiente a
comprendere. Testo completo.

Mi sono liberato al fine dalla carne e dalla passione: il Vivo è dolore,


[il Morto è dolore,
Vivo e Morto non sono mia patria, mia patria non è che la grazia di Dio!
Mi sono liberato alfine da questi versi, da questi ghazal, o Eterno
136
[Sovrano e Sultano,
Mofta’elon mofta’elon mofta’elon m’hanno ammazzato!
cxxxiv

Rime e pasticci di metri dì: Se li porti il demonio!


Non son che scorza, non son che scorza, adatta a midollo di poeta!
O silenzio! Tu sei il mio midollo, la mia melodia dolce e profonda:
ben poca è la virtù del Silenzio in chi non ha timore e speranza!
Pei villaggi distrutti e deserti non ci sono decime, né kūch o qalān,
ebbro e distrutto son io, non cercar nei miei versi valori ed errori!
Finché non mi rende Rovina come mi darebbe il Tesoro?
Finché non mi annega nell’onda come mi abbraccerebbe nel mar della
[Grazia?
Lo specialista della parola che può saperne di zuccherino Silenzio?
Che può sapere il secco dell’umido tarlalalà nostro?
Specchio son io, specchio son io: niente parole, niente parole,
potrai vedere l’estasi mia, se si fa occhio l’orecchio tuo!
Agito a danza le mani come albero, turbino in tondo come la luna
il mio rotare colore di terra è più puro dei cerchi del cielo.
O iniziato che parli! Parli a che possa pregare per te,
ch’ebbro e felice divento ogni alba al tempo della preghiera
Non ti rifiuto la tunica mia, non il mio rozzo centone,
e quel che dal Sovrano mi giunge, mezzo è per te, mezzo per me!
Dalla mano del Re mi giunge il Calice, mi giunge l’Anfora eterna,
la fonte lucente del Sole ne chiede, qual mendicante, un sorso!
Sono silenzioso, la gola ho stanca, parla tu, eloquente Iniziato,
tu hai l’alito dolce di David ed io sono fuscello che vola a
[quell’alito! (8)

Filosofo e mistico dell’Islà m, ma non un musulmano di tipo ortodosso. Il 17 dicembre 1273


Rumi muore a Konya. Non solo i musulmani lo piansero: al suo funerale, durato quaranta
giorni, parteciparono numerosi i cristiani (compresi greci e armeni) e gli ebrei, assieme ad
appartenenti a diversi altri credi, linguaggi ed etnie. Fu sepolto accanto a suo padre e un
mausoleo, la “Casa verde”, fu poi eretto su di loro dalla regina della Georgia, Gü rü n Hatun, alla
quale era legato per parte di madre. Oggi l’edificio comprende anche la casa dei dervisci
volteggiatori e le tombe di tutti i capi della confraternita.

“Il mio testamento è questo: siate pii verso Dio in privato e in pubblico; mangiate
poco, dormite poco, parlate poco; state lontani dalla malvagità e dal peccato;
abbiate la forza di restare saldi nel digiuno e nella vigilanza; fuggite dai desideri
carnali con tutte le forze, sopportate pazientemente le offese degli uomini,
evitate la compagnia degli sciocchi, e frequentate cuori nobili e pii. In verità
l’uomo migliore è colui che fa del bene agli altri, e il miglior discorso è quello
breve e teso a guidare gli uomini sulla retta via. Sia lode a Dio che è l’Unità !”cxxxv

137
138
Dante

LE DOLCI RIME
D’ AMOR CH’ I’
SOLÍA•AMOR CHE
NELLA MENTE MI
RAGIONA•L’ AMOR
CHE MOVE IL SOLE
E L’ ALTRE STELLE

Dante Alighieri - da qualche anno costretto all’esilio, lo spirito


ancora forte e battagliero - si accinge a scrivere una nuova opera.
Intende pubblicare quattordici sue canzoni, “sì d’amor come di vertù
139
materiate”, - alcune già scritte da anni - accompagnate da un esteso
commento che “ogni colore di loro sentenza farà pervenire”. Alla
soglia dei quarant’anni così si pone nei confronti della sua opera
giovanile, la Vita nuova: “quella fervida e passionata, questa temperata
e virile esser conviene [...] perché certi costumi sono idonei e laudabili
ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra [...] io in quella
dinanzi, a l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella
già trapassata”cxxxvi.
Nel trattato introduttivo così recrimina:

Peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga
de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata.
Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi
porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono
apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano
imaginato, nel cospetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor
pregio si fece ogni opera, sì già fatta come quella che fosse a fare.cxxxvii

Sarà il Convivio. Nell’introduzione l’annuncio sorprendente:

che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni
predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la
litterale istoria ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro che a
questa cena sono convitaticxxxviii [...] Movemi timore d’infamia, e movemi
desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare non può . Temo la
infamia di tanta passione avere seguita, quanto concepe chi legge le sopra
nominate canzoni in me avere segnoreggiata; la quale infamia si cessa, per lo
presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù
sia stata la movente cagione. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle,
che per alcuno vedere non si può s’io non la conto, perché è nascosta sotto figura
d’allegoria.cxxxix

Iniziato a partire dal 1304-1307, il Convivio sarà presto


abbandonato. Solo quattro trattati dei quindici previsti arrivano a
compimento, solo tre le canzoni presentate. Lo chiama qualcosa di ben
più impegnativo, la Divina Commedia.
Qualche stralcio dalla prima canzone, Voi che ’ntendendo il terzo ciel
movete, ci introduce alla più prestigiosa, e alla più ambigua,
operazione a ridosso della retorica dell’allegoria che la grande
letteratura del nostro paese annoveri. L’anno di composizione della
140
canzone è il 1293. Dante, dopo la morte di Beatrice, la donna a cui si
era consegnato sin dalla fanciullezza (morte avvenuta a Firenze
nell’agosto del 1290), viveva nel ricordo di lei. Ma qualcosa era
arrivato a turbare la sua dolente serenità :

[...] Suol esser vita de lo cor dolente


un soave penser, che se ne gia
molte fiate a’ pie’ del nostro Sire,
ove una donna gloriar vedia
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Or apparisce chi lo fa fuggire
e segnoreggia me di tal virtute,
che ’l cor ne trema che di fuori appare.
Questi mi face una donna guardare,
e dice: “Chi veder vuol la salute,
faccia che li occhi d’esta donna miri,
sed e’ non teme angoscia di sospiri”.

Trova contraro tal che lo distrugge


l’umil pensero, che parlar mi sole
d’un’angela che ’n cielo è coronata
[. . . . . . . . . . . . . . . .]

Lo “spirito” si rivolge all’anima di Dante:

dice uno spiritel d’amor gentile:


“ché quella bella donna che tu senti,
ha transmutata in tanto la tua vita,
che n’hai paura, sì se’ fatta vile!

Mira quant’ell’è pietosa e umile,


saggia e cortese, ne la sua grandezza,
e pensa di chiamarla donna, omai!
[. . . . . . . . . . . . . . . .]”.
Canzone, io credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto la parli faticosa e forte [...]

Dante ammette che una nuova donna sta prendendo il posto di Beatrice, e con
la sua dolcezza e la sua grazia sta facendo rifiorire la passione nel cuore del
poeta. Il fatto gli provoca però molti scrupoli nei riguardi del vecchio amore, al
cui ricordo era rimasto religiosamente legato. Ma la tentazione è forte. Al
141
momento della sua composizione - avvenuta circa dieci anni prima della stesura
del commento - era sembrato certo questo il senso della canzone, senso che si
collegava anche alle pagine conclusive della Vita nuova, la sua opera precedente.
Quel suo primo, e ormai lontano, prosimetro - opera mista di poesia e
autocommento prosastico - vedeva infatti poco prima della sua conclusione la
comparsa di una “donna gentile” che, affacciata ad una finestra, aveva osservato
con atteggiamento compassionevole il poeta mentre piangeva - Beatrice era
morta da poco - facendogli con ciò sentire ancor di più la disperazione della sua
situazione. Dante sarebbe stato spinto a cercarla, per averne conforto, per un
certo tempo, salvo poi ritornare alla memoria, ormai definitivamente vincente,
di Beatrice. Ora, circa dieci anni dopo, nel commento del Convivio alla canzone
suddetta dichiara che la nuova donna, la “donna gentile”, non era reale, ma era
rappresentazione allegorica della Filosofia, al cui studio intensissimo Dante,
dopo la morte di Beatrice, si era dedicato:
Come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima [...] io rimasi di tanta tristizia punto,
che conforto non mi valeva alcuno [...] e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro
di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea. E udendo ancora che Tullio scritto
aveva un altro libro [...] E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza
[...] io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli
d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era
donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E immaginava lei
fatta come una donna gentile, e non la poteva immaginare in atto alcuno se non
misericordioso [...] E da questo immaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava
veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol
tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore
cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. Per che io, sentendomi levare dal pensiero del
primo amore a la virtù di questo, quasi meravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la
proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d’altre cose. cxl

Le allegorie del Convivio

Da secoli, in ambiti specialistici, si dibatte sulla questione. Ci sono certamente


validi motivi per accogliere la precisazione di Dante, e vederne le giustificazioni
anche nel tono di alcuni passaggi della canzone: “quella bella donna che tu
senti, / ha transmutata in tanto la tua vita”, sembrano parole troppo generiche e
fredde per una canzone d’amore e potrebbero ricondurre a un significato
nascosto; in particolare il congedo: “Canzone, io credo che saranno radi / color
che tua ragione intendan bene...”, accenna a una qualche verità segreta che può
essere difficile da comprendere, mentre Dante chiude con spirito facendo
parlare la canzone: “Ponete mente almen com’io son bella!”. Alcuni passaggi: “li
occhi d’esta donna miri, / sed e’ non teme angoscia di sospiri [...] quella bella
donna che tu senti, / ha transmutata in tanto la tua vita, / che n’hai paura, sì se’
fatta vile! / Mira quant’ell’è pietosa e umile, / saggia e cortese ne la sua
grandezza”, esprimono concetti che poco si attagliano a descrivere un nuovo

142
innamoramento - con quella massa di aggettivi che, pur attinenti al repertorio
dello stilnovo, mancano di calore e di entusiasmo -, mentre possono riferirsi a
una passione di altra natura che, per la sua capacità di coinvolgimento, turba
l’animo di Dante, avvezzo ormai a piangersi addosso senza vedere vie d’uscita.
Sicuramente la cosa è ben nascosta, ma Dante anche nel congedo della canzone
sembra alludervi, mostrandosi fors’anche compiaciuto della sua macchinosa
abilità .
Si pone anzitutto un problerma di concordanze. Secondo il Convivio lo studio
acceso della filosofia sarebbe durato trenta mesi, quasi tre anni, mentre
l’episodio della donna gentile della Vita nuova viene collocato da Dante subito
dopo la morte di Beatrice. Dalla morte di Beatrice all’agosto ’93, data della prima
canzone del Convivio, sono passati giusto tre anni. Questo depone a favore
dell’allegoria, ma non a favore dell’identificazione della donna gentile del
Convivio con quella della Vita nuova, come Dante sostiene.
Un uomo viveva nel ricordo di un amore finito tragicamente e aspettava - così
dice la lettera della canzone - solo di morire per ricongiungersi alla donna amata.
Ma qualcosa accade che lo getta in subbuglio e lo spinge a confidare alle forze
celesti (guarda caso agli angeli reggitori del cielo di Venere) il suo problema.
Cedendo a dolci richiami, il suo cuore si sarebbe risvegliato ad un nuovo amore.
Comprensibile il suo sconcerto, ove si consideri l’intensità emotiva della passata
esperienza - l’amore per Beatrice -, tale da averlo coinvolto totalmente, riversata
in un opera originale e personalissima - la Vita nuova - che lo aveva vincolato
anche per il futuro a celebrare le lodi di quella donna con parole che si auspicava
elevatissime. Ammettendo che tra la realtà della vita di Dante e la sua opera
letteraria sia ipotizzabile una connessione sufficientemente forte da consentire
gli agganci e i parallelismi a cui si è facilmente indotti, viene da chiedersi cosa
giustifichi l’esposizione dei fatti suggerita nella canzone: Dante esprime sorpresa
per la sua “resa” al nuovo sentimento, e dà voce al pensiero che, all’interno del
suo animo, lo vuole invece convincere che la nuova donna meriti tutta la sua
considerazione, e che in futuro le sue gioie saranno sempre crescenti. L’accenno
finale a possibili ragioni nascoste - all’epoca impossibili da afferrare - poteva
lasciare un velo di incertezza che il commento del Convivio, dieci anni dopo, si
incaricherà di dissipare.
Si può così ipotizzare che la prima canzone del Convivio (assieme alla seconda
e ad altre liriche “estravaganti” presenti nelle Rime dantesche) appartenesse ad
un nuovo ciclo a matrice allegorica, e che quando la canzone venne composta
fosse presente in Dante la volontà di celarvi significati diversi sotto parole che
appaiono sì chiare ma forse un poco estranianti, e tutto sommato fredde e
retoriche. Ma che voleva allora il Dante afflitto dalla morte di Beatrice? Voleva continuare a
dolersi della perdita della sua donna, che poi sua non era mai stata, riproponendosi di
esaltarla in futuro con parole altissime, ma senza più guardarsi attorno e senza neppure
cercare di procurarsi gli strumenti concettuali atti all’impresa? E come doveva riempire le
lunghe ore di vuoto che prima dedicava all’inseguimento di lei per le strade di Firenze,

143
cercando di vederla, sia pure da lontano? Nel commento alla prima canzone Dante ci dice che
si dedicò con entusiasmo agli studi filosofi. Un’ottima scelta. Perché allora coprire una
decisione così saggia e motivata inventandosi una nuova storia d’amore, difficile da accettare
e che per giunta sembra a Dante uno sviamento, una vigliaccheria?
Parlare direttamente in rima degli studi avviati - nella difficoltà degli esordi - doveva
sembrargli prematuro e poco consono alle sue corde ancora non rodate; aveva capito d’altra
parte che occorreva girare pagina e dotarsi degli strumenti di conoscenza ed espressivi
adeguati a portare a compimento il grande progetto su Beatrice. Ma perché ora la cosa
intrapresa gli sembrava un tradimento, un mettere da parte Beatrice e il suo ricordo? Perché
la cosa doveva turbarlo? La canzone testimonierebbe proprio questo. Passare dalla consueta
lirica amorosa a una più propriamente dottrinaria e concettosa non era facile, la strada
dell’allegoria, del resto già praticata da Dante (aveva, così sembra, composto, anonimamente,
il Fiore, una voluminosa operina totalmente allegorica) e ampiamente frequentata dai letterati
d’ogni tempo, poteva consentirgli di cominciare a cimentarsi nella nuova dimensione, senza
eccessivi obblighi né novità rispetto al passato. Forse l’allegoria non è delle migliori sotto
l’aspetto della coerenza: come pensare che un sano proposito di dedicarsi a studi coinvolgenti
e impegnativi possa essere visto come cosa nemica rispetto al dolce convivere con un ricordo
profondissimo d’amore? Sembrerebbe anzi che possa esserne il naturale complemento e
sviluppo. E comunque nulla di sconveniente. Dante è in mezzo al guado. Ha deciso di svoltare,
ma ancora non sa fare le rime che vorrebbe, teme di sbagliare ad abbandonare la maniera che
gli aveva dato sicurezza di sè e notorietà , ma sente di doverlo fare, per procedere sulla strada
che si è prefisso. Dà allora un colpo al cerchio e uno alla botte, ma usando ancora il vecchio
strumento. Quello nuovo deve essere ancora forgiato. Dei problemi di comprensione e delle
contraddizioni si rende ben conto lo stesso Dante, che alla fine consiglia il lettore a lasciar
perdere. Sa bene di essersi lasciato prendere la mano.
Con queste parole Dante ristabilirà la sua verità delle cose:

Dove dice: “uno spiritel d’amore” s’intende uno pensiero che nasce dal mio studio. Onde è da sapere
che per amore, in questa allegoria, sempre s’intende esso studio, lo quale è applicazione de l’animo
innamorato de la cosa a quella cosa [...] In fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna
di cu’ io innamorai appresso lo primo amore, fu la bellissima e onestissime figlia de lo Imperadore de
lo universo, a la quale Pittagora pose nome filosofía.cxli

Così il Cudinicxlii, commentatore del Convivio, vede le questioni sollevate. Sulla base delle
parole di Dante:

Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi meravigliandomi
apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d’altre
cose; però che de la donna di cu’ io m’innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente
poetare; né li uditori erano tanto bene disposti, che avessero si leggiere le non fittizie parole apprese;
né sarebbe dato loro fede a la sentenza vera come a la fittizia, però che di vero si credea del tutto che
disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo [...] E non è qui mestiere di procedere
dividendo, e a littera esponendo; ché, volta la parola fittizia di quello ch’ella suona in quello ch’ella
’ntende, per la passata sposizione questa sentenza fia sufficientemente palese. cxliii

dopo aver ammesso che l’esposizione letterale è sovrabbondante rispetto a quella allegorica,
che pure sarebbe qualitativamente privilegiata, nota che può trattarsi poi in pratica solo di
fare qualche funzionale sostituzione allegorica, come “filosofia” per “donna gentile”.
Comunque, sostiene Cudinicxliv, l’identificazione donna gentile-filosofia non può essere ridotta
a mero espediente giustificativo. Dante afferma l’identità fra la donna gentile della Vita nuova,
e quella che compare nella canzone. E sempre si sarebbe trattato della filosofia. Della cosa si

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può anche discutere: se la donna delle due opere sia la stessa, e reale, o in entrambi i casi
simbolica, oppure se siano due, l’una reale, l’altra simbolica. Rapporti di continuità -diversità
che autorizzano anche - almeno letterariamente - talune, apparenti o reali che siano,
contraddizioni. Cudini dice che le speculazioni su questi argomenti, pur se comprensibili, non
sono letterariamente giustificate, né autorizzate. Meglio seguire gli itinerari stabiliti da Dante
stesso, che, quantomeno, giustificano certi passaggi e sviluppi interni. Il tessuto dell’opera nel
suo complesso (poesia e prosa) sarebbe in effetti assai meno distinto di quanto possa
sembrare. In particolare la seconda canzone giustificherebbe di per sè (e non solo, dunque,
come intervento voluto a posteriori da Dante) i due tipi di esegesi, letterale e allegorica, che
Dante con dovizia di particolari e informazioni condurrà nel commento. Contento lui..

Più evidenti forse nei versi della seconda canzone, Amor che nella mente mi ragiona, gli
elementi che avvalorano la tesi dell’allegoria sostenuta con la più tranquilla decisione da
Dante stesso circa dieci anni dopo la composizione. Dante ammette le sue difficoltà a trattare
la nuova materia:

Amor che ne la mente mi ragiona


de la mia donna disiosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo ’ntelletto sovr’esse disvia.
Lo suo parlar sì dolcemente sona,
che l’anima ch’ascolta e che lo sente
dice: “Oh me lassa! ch’io non son possente
di dir quel ch’odo de la donna mia!”
E certo e’ mi convien lasciare in pria,
s’io vo’ trattar di quel ch’odo di lei
ciò che lo mio intelletto non comprende;
e di quel che s’intende
gran parte, perché dirlo non savrei [...]

Segue un esempio di allegoria stiracchiata:

[…] Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira,


cosa tanto gentil, quanto in quell’ora
che luce ne la parte ove dimora
la donna di cui dire Amor mi face [...]

I consueti temi stilnovistici appaiono adoperati da Dante un po’ strumentalmente:

[…] Cose appariscon ne lo suo aspetto


che mostran de’ piacer di Paradiso,
dico ne li occhi e nel suo dolce riso,
che le vi reca Amor com’a suo loco [...]

Qui l’allegoria donna-filosofia appare chiara:

145
[…] Elle [cose, n.d.r.] soverchian lo nostro intelletto,
come raggio di sole un frale viso:
e perch’io non le posso mirar fiso,
mi convien contentar di dirne poco [...]
Nel finale Dante non può fare a meno di affrontare un tema che sembra spinoso, l’apparente
contraddizione con un’altra composizione coeva:

[…] Canzone, e’ par che tu parli contraro


al dir d’una sorella che tu hai;
che questa donna che tanto umil fai
ella la chiama fera e disdegnosa [...]

Il riferimento è a una ballatetta delle Rimecxlv (Voi che savete ragionar d’Amore). La ballatetta
sembra il ritratto a tutto tondo di una sdegnosa e altera che respinge le profferte del poeta:

Voi che savete ragionar d’Amore,


udite la ballata mia pietosa,
che parla d’una donna disdegnosa,
la qual m’ha tolto il cor per suo valore.

Tanto disdegna qualunque la mira,


che fa chinare gli occhi di paura,
però che intorno a’ suoi sempre si gira
d’ogni crudelitate una pintura [...]

Va da sè che, ove si ponesse mente al solo significato letterale, questo ritratto farebbe a
pugni con la donna della canzone del Convivio; il discorso cambia se invece ci si apre al
sotterraneo significato allegorico della donna come immagine della filosofia, il cui aspetto
feroce sarebbe solo una sottolineatura che ne dà un Dante in difficoltà nello studio, ma che
non dispera di venirne a capo:

[…] però che i miei disiri avran vertute


contra ’l disdegno che mi dà tremore.

Quali motivi potrebbero avere spinto Dante a intraprendere, molti anni prima del Convivio
riparatore, un’operazione così sconcertante? Le ragioni potrebbero effettivamente essere
legate solo al suo sopravvenuto crescente interessamento per la filosofia e lo studio, l’unico
fatto nuovo che ci risulti nella vita del poeta in quegli anni. Continua a utilizzare gli usuali
stilemi amorosi (che cominciano, almeno quelli più consueti, a mostrare la corda) ma con lo
sguardo sempre più rivolto a nuove forme dottrinali di poesia, quasi una specie di
addestramento in vista di futuri progetti. Dante confessa i motivi della sua scelta allegorica:
l’incapacità di trattare apertamente temi nuovi e difficili: “La lingua non è di quello che lo
’ntelletto vede compiutamente seguace”cxlvi. E certo l’ispirazione può venirne molto
mortificata. C’è da chiedersi cosa avranno pensato i suoi lettori, se mai ne ebbe al di fuori della
ristretta cerchia degli amici “fedeli d’Amore”, quando avranno saputo cosa si celava, o
coesisteva, in quei versi che pure ancora si imponevano per la perfezione e la grazia. Un altro
uomo si andava formando, un’altro poeta. Fu certo un grande artificio, con forse un po’ di
malafede alla base.
146
Nella cultura duecentesca è centrale l’idea che l’esistenza umana sia sempre riconducibile a
realtà diverse, di natura ultraterrena. Di qui l’importanza conoscitiva assegnata al simbolo e
all’allegoria, nella letteratura, nelle opere morali, didattiche e enciclopediche. Filosofia, per
Dante, è il nome della “Sapienza”, intesa come realtà divina, come verità nascosta: “Dico lei
essere di tutto madre [e di moto] qualunque principio, dicendo che con lei Iddio cominciò lo
mondo e spezialmente lo movimento del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni
movimento è principiato e mosso [...] nel divino pensiero, ch’è esso intelletto, essa era quando
lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse” cxlvii. Appare chiaro come il concetto di Filosofia
di Dante sia estremamente ampio, non semplice summa di umane e problematiche
conoscenze, ma terreno riflesso della Sapienza e Intelligenza divine, trasfuse nell’uomo, con
gradi diversi a seconda delle capacità di recepimento indivuduali; verità da scoprire, scienza
oggettiva e legge divina, sorella della teologia.

Di sopracxlviii è detto che amore è forma di Filosofia, e però [perciò ] qui si chiama anima di lei.cxlix
Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma ha amore, e per composto de l’uno e de
l’altro l’uso di speculazione [...] L’amore che è parte de la filosofia.cl

Si offrono qui gli elementi di una chiave interpretativa importante: in queste frasi del
Convivio Dante spiega che le umane vicende hanno significati nascosti, anche quelle sue
amorose; allora l’allegoria non le nega. Le interpreta e le nobilita. Spiega la particolare elevata
natura del suo amore per la donna gentile, come prima aveva fatto con Beatrice. Dice in
sostanza che entrambi i piani sono “veri”, l’uno è realissimo (e come tale Dante ce lo
rappresenta), l’altro “deve” esserlo, nella visione platonica di Dante, che crede
fermissimamente nelle potenze oltramondane. La spiegazione allegorica altro non sarebbe
allora che portare alla luce la valenza filosofico-religiosa insita nel fatto umano dell’amore.
Non sarebbe come dice Cudini, che, nella sua nota cli al commento del terzo trattato, parlando
della donna gentile sottolinea “la sua identificazione con la Filosofia” (facendo così della
Filosofia la “realtà ” della donna gentile) ma il contrario: è la Filosofia che va a identificarsi e
riconoscersi nella donna gentile, la quale la rappresenta, ne ha le caratteristiche, la ispira e la
richiama. Non è solo un’assurda “maschera” che nasconde i riferimenti alle questioni
filosofiche. Un grande amore, in quanto grande, realizza in sè le massime potenze
dell’universo, le illustra, se ne nutre e le traduce nel mondo reale. E’ la visione platonica della
vita: dietro le cose reali ci sono le idee, le “forme”. La forma della donna gentile è la Filosofia, è
la Sapienza. Il letterale e l’allegorico hanno pari dignità . L’allegoria dantesca non potrebbe
esistere senza quella lettera. Il letterale (l’amore) è il “subietto”, la sostanza su cui si appoggia
la “forma” dell’interpretazione allegorica, la sua nascosta verità , che però non è più vera di
quella letterale, è solo di diversa, e più profonda e difficile, natura. L’una ragione e l’altra
daranno sapore all’esposizione. Non c’è dicotomia. Questo pensava Dante al momento della
composizione delle canzoni? Così si preparava a mettere in campo l’opera sua massima, la
Commedia?
Dante dirà poi di avere rimato mostrando la sua condizione “sotto figura di altre cose”. Dirà
di averlo fatto perché il volgare non si prestava a parlare direttamente di Filosofia, la gente
non avrebbe capito i nuovi termini che Dante avrebbe dovuto coniare per esprimerne i
concetti, nessuno avrebbe creduto alla sua passione per la Filosofia mentre tutti erano
disposti a credere all’amore per una nuova donna. Allora Dante avrebbe risolto il problema
creando appunto la figura di un nuovo folgorante amore? Che logica! Considerare che quando
la canzone è uscita non c’era alcun commento: a chi dunque parlava Dante?
Credo comunque possibile che, dopo il raffreddamento evidenziato dalla ballatetta, Dante
abbia smesso di correre dietro alla donna gentile, e ne abbia veramente fatto una figura

147
meramente simbolica, dedicandosi solo allo studio: “Me convien lasciare le dolci rime
d’amore”. Ammette che ne faceva.
Così, stupendamente, il De Santis: “Il poeta lascia al volgo il senso letterale [dell’amore
n.d.r.] e cerca un soprasenso, il senso teologico e filosofico, di cui quello sia il velo […] La
donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale […] forma fissa del pensiero
teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall’uso invalso di cercare il senso
allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico […] Il Dio di questo mondo
è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della giovinezza, poi con un
misticismo ed un entusiasmo filosofico […] La Donna è perciò il viso della conoscenza, la bella
faccia della scienza, che invaghisce l’uomo e sveglia in lui nova intelligenza, lo fa intendere. La
donna dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza […] La beltà
non è altro che l’apparenza della saggezza, sì che piaccia e innamori di sè […] E’ la prima volta
che questo contenuto esce fuori nella sua integrità , e con così perfetta coscienza. E’ l’idealismo
di quel tempo, con la sua forma naturale, l’allegoria”clii.
La Filosofia era già nelle canzoni di dieci anni prima, perchè era la comprensione razionale
da parte di Dante della realtà del suo sentimento amoroso. Era la sua riflessione - certo anche
alla luce degli studi che andava facendo - sui fatti poetici ed emozionali che andava
costruendo. Non sarebbero due cose diverse; avendo occhi e cuore aperti e distaccati si può
vedere la realtà come allegoria, se ne vede il soprasenso. E’ un fatto mentale, non
necessariamente espresso. Il commento, se non fosse venuto molto dopo, avrebbe potuto già
allora essere la spiegazione razionale, che vede oltre il contingente descritto nelle canzoni. Le
cose possono anche essere chiamate con altri nomi, gli ambiti diventare più generali e ampi,
l’amore diventare l’Amore. L’amore può tingersi di religioso se è sentito come una “forza”. Se
la riflessione si istituzionalizza in allegoria, se diventa autonoma e vuole vivere di vita propria
perchè vuole interpretare, a fini pedagogici, un fatto reale, deve negare l’essere di quel fatto, lo
deve rendere allegorico. Già il racconto è sempre allegoria e non c’è raccontare che non sia
alla fine interpretazione allegorica del fatto reale. Lo svelamento dell’allegoria diventa allora
la banalizzazione del fenomeno. La spiegazione allegorica uccide la verità della lettera, se c’è.
Le allegorie vere sono generalizzazioni tratte da fatti inventati. Chi vuole fare della filosofia
può avere bisogno di allegorie (Platone, con i suoi miti, insegna) ma non ha bisogno di dare
loro la credibilità di fatti concreti e specifici. Chi parla di amore vuole parlare di amore, o
perlomeno del suo desiderio d’amore, poi potrà anche tornarci su cercando di trarne dei
significati, degli insegnamenti, delle conclusioni valide anche per altri. E potrà anche rivedere
quei fatti, oppure negarli. Credo che Dante abbia fatto questo.
Vero è che le cose della religione, ancor più le cose esoteriche, sono difficili da identificare
direttamente con le parole. Si può allora pensare che si trattino meglio usando delle allegorie.
Vedere la lettera di un testo come allegoria è sempre possibile, ma è cosa che si fa comunque
sempre a posteriori. Dante l’ha fatto dieci anni dopo. Se il testo letterale è diventato scabroso,
troppo erotico o passionale, se la situazione lo impone, se qualcosa è cambiato si può rifiutare
il senso apparente e avvalorare una spiegazione allegorica. Può essere l’autore a farlo, ma
possono farlo, a maggior ragione, anche i fruitori, nella più assoluta buona fede, soprattutto
quando ci sono interessi di tipo religioso, o altro. Gli esempi non mancano. C’è sempre una
realtà più grande a cui ci si può rapportare, c’è sempre la possibilità di astrarre dal personale
per cogliere l’universale. La cosa diventa poi facile, quasi un gioco, quando c’è un vasto
retroterra Scritturale a cui attingere. E’ sempre possibile estrapolare da un qualsiasi fatto dei
significati generali, e trovare il versetto adatto che li giustifica.
Importanti le seguenti considerazioni di Gianfranco Contini relative al Convivio: “Il secondo
libro del Convivio situa l’apparizione della donna gentile (anche se poi l’identifica, che è certo
superfetazione secondaria, con la filosofía)cliii[…] Il Convivio insinuerà più tardi
un’interpretazione della Vita nuova conforme al suo subentrato allegorismo cliv […]
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quell’identificazione donna gentile/filosofia che, attuata dal Convivio, par suggerire d’investire
a ritroso di luce allegorica, con la Vita nuova vera e propria, una parte della lirica che la
precede e la segue. E’ un atteggiamento da non incoraggiare; ma lo scusa il fatto che “amore” è
termine equivoco, passato dal senso proprio a quello morale di sapienza e virtù e all’analogico
dell’attributo divino. Poesie strettamente amorose e poesie allegorico-morali si presentano
tutte invariabilmente come discorsi d’amore clv […] La ricerca dell’allegoria è sovrapposta; il
verso finale Ponete mente almen com’io son bella! sancisce il divorzio non necessariamente fra
lettera e allegoria, ma fra senso proprio e senso figurato, che, si ripete, appartiene alla lettera;
non sembra trattarsi di testi nati allegorici, come tante parti della Commediaclvi”.
“Non vede il sol che tutto ’l mondo gira, / cosa tanto gentil, quanto in quell’ora / che luce ne
la parte ove dimora / la donna di cui dire Amor mi face”, questa strofa non può avere altro
significato che quello di lode verso una donna. Non può essere nata come allegoria, la filosofia
è tale nello stesso momento in tutto il mondo, ma ovviamente Dante potrebbe essersi fatto
prendere la mano.
Va ricordato che la seconda canzone del Convivio è ricordata da Dante nel De vulgari
eloquentia, assieme ad altre di rimatori provenzali, di Guinizzelli, Cavalcanti e Cino da Pistoia,
come esempio di componimento “sapidus et venustus etiam et excelsus”clvii. Ne farà menzione
anche nel secondo canto del Purgatorio dove viene intonata dal musico Casella. L’opera De
vulgari eloquentia è preannunciata nel Convivio. Riesce difficile pensare, ove si dia al
significato allegorico il peso rivendicato nel Convivio, che Dante potesse apprezzare così tanto
una canzone che presentava, a suo dire, una tale oggettiva oscurità di contenuti.
La seconda canzone riprende anche il tema della donna “fera e disdegnosa”. Dante non
avrebbe insistito tanto sulla questione - il tema c’entrerebbe come i cavoli a merenda - se non
la avesse ritenuta importante all’interno del discorso allegorico che “doveva” sorreggere, e
con logica inattaccabile, il lavoro poetico di quegli anni ormai lontani. Interessante anche a
fronte di quello che Dante aveva detto di se stesso nell’introduzione, quando spiega la
necessità di dare di sè un’immagine di maggiore autorità : “Fatto mi sono più vile forse che il
vero non solamente a quelli ai quali la mia fama era già corsa [il riferimento è a Cavalcanti?],
ma eziandio a gli altri”. Dante voleva sradicare la sua fama di vagheggino, questo è certo. Non
avrebbe potuto lasciare quella mina vagante. Come avrebbe potuto opporre ad amici e
detrattori delle canzoni con un tale inespresso doppio senso? Ma, va anche detto, come ha
potuto allora Dante poetare così, in perfetto “nuovo stile” (sia pure denotando a volte
ripetitività e stanchezza), dovendo inseguire, come sembra oggettivamente avere fatto, e solo
pro domo sua, entrambi i significati? Un mostro di doppiezza?
A ben vedere i due amori (quello per la donna gentile come quello per la filosofia) possono
essere trattati usando lo stesso linguaggio, tanto più quando la “lode” dantesca si esplica su
questioni generali a contenuto altamente morale, e sorvolando (come Dante fa) su eventuali
contraddizioni. Va da sè che trattandosi di due “amori” senza nome e senza riferimenti
oggettivi, dove è solo questione di “lodare”e “ammirare”, è sufficiente cambiare l’oggetto e il
gioco è fatto. Il tutto, nel commento, viene poi letteralmente “affogato” dalla “pappa”
sapienziale distribuita al volgo e il risultato che ne deriva, a me sembra, è quanto di più
equivoco si possa immaginare. Lo stesso Dante non è riuscito a reggere oltre il quarto trattato.
Va bene che lo attendeva ben più stimolante impegno. Il lavoro di “mascheramento” è certo
ben condotto, e anche, a volte, credibile, forse per la sottolineata intrinseca verità . Ma chi
avrebbe potuto pensare di nascondere una legittima passione per lo studio sotto la veste di
una passione d’amore? E quante sono queste donne gentili? E quante altre pargolette e donne
“pietre”? Gli studi affrontati da Dante sono certo reali, conseguenti alla delusione d’amore e al
desiderio di pace interiore e riconsiderazione di sè, ma perché, sul versante amoroso,
prendere tutto per oro colato? Dante potrebbe avere ripreso il tema della Donna gentile
perché l’aveva già aperto nel finale della Vita nuova, anche se erano passati diversi anni e
149
quella gentile, che forse era stata reale, se n’era andata ormai per la sua strada. E, d’altra
parte, quale ragione avrebbe avuto Dante per comporre delle lunghe laboriose canzoni
d’amore al solo fine di fare l’elogio di studi appena iniziati, e farlo sotto mentite spoglie? Di
vero, di autentico, c’è forse solo la storia disperata con Beatrice. E ci sono la tremenda serietà ,
la volontà e la inmensa capacita poetica di Dante. Non c’è bisogno di essere crociani per
pensare che nemmeno le costruzioni e il bozzettismo della Commedia avrebbero retto senza la
sua magica parola.
Dante, in chiusura del terzo trattato, ribadisce la natura allegorica anche della ballatetta Voi
che savete ragionar d’amore, che non è nel Convivio, quella che parlava della donna “fera e
disdegnosa”. Ché tale sarebbe stata per lui, cioè difficile e faticosa, all’inizio dei suoi studi, la
filosofia. Possiamo accettare che il tour de force sia stato pesante (anche la malattia agli occhi
lo dimostrerebbe) ma il risultato ribaltato nel trattato potrebbe anche essere giudicato niente
di trascendentale, per un uomo che era già ben fornito di studi giovanili, e aveva dimostrato di
ragionare finemente. De Sanctis dice che il Convivio fu un insuccesso e venne abbandonato. Il
volgare usato da Dante in modo pomposo con scarsezza di dottrina (De Sanctis dice che Dante
come filosofo non era valente) non piacque all’intelligenza del tempo. Nel Convivio, mostrando
un animo da vero enciclopedista, fa grande sfoggio di scienze astronomiche e fisiche, con
diligente acume, ma poco senso critico. Un commento di Antonio Banfi sulla filosofia di Dante:
“La speculazione filosofica non ha per Dante un vero e proprio interesse teoretico, neppure un
interesse teologico-religioso. La sintesi scolastica, specie nella sua forma tomistica, vale per lui
come risposta a queste esigenze ed egli, in generale, se ne appropria senza originalità di
sviluppi”clviii.

Significativo del percorso poetico e letterario di Dante l’avvio della terza e ultima canzone del
Convivio, Le dolci rime d’amor ch’io solia:

Le dolci rime d’amor ch’i’ solìa


cercar ne’ miei pensieri,
convien ch’io lasci; non perch’io non speri
ad esse ritornare,
ma perché li atti disdeggnosi e feri
che ne la donna mia
sono appariti m’han chiusa la via
de l’usato parlare.

E poi che tempo mi par d’aspettare,


diporrò giù lo mio soave stile,
ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore;
e dirò del valore,
per lo qual veramente omo è gentile,
con rima aspra e sottile [...]

Dante ha studiato per conseguire un più sicuro sapere filosofico, teologico e scientifico e
vede ora giunto il momento di chiudere la precedente esperienza poetica: nuovi interessi e
difficoltà nel campo sentimentale lo consigliano di mettere da parte, almeno per il momento, i
modi e gli argomenti del suo poetare. Sarebbe però una scelta temporanea: ne approfitta per
cimentarsi nel forbire una nuova rima, “aspra e sottile”, più adatta a trattare argomenti a
contenuto filosofico e morale. Comincia a realizzarsi così il progetto risalente al tempo della
150
Vita nuova di dedicarsi con accresciute e rinnovate capacità e con voce profetica e
ammonitrice al canto elegiaco in memoria ed onore di Beatrice.
L’avvio della terza canzone è aperta confessione della svolta, segno di una mutazione
dell’animo del poeta: sospende per il momento le rime amorose, essendo ormai lontano nel
tempo lo spirito che le aveva generate. Letteralmente sembrerebbe che Dante, respinto dalla
sua bella, abbia deciso, per il dispetto, di non più rimare d’amore; ma in realtà non sembra per
niente addolorato. Dice che vuole cambiare registro, magari solo per un po’. In realtà sta
gettando le basi dell’opera sua futura, che certo comincia ad avere in mente, seppure forse
ancora vagamente. Solo dieci anni dopo, al momento del Convivio, impelagato nel monstruum
retorico-filosofico-morale che alla fine lo disgusterà molto anzitempo, maturerà modi e
significati dell’opera grande a cui ambiva.

Per che io sentendo in me turbata disposizione, per la cagione che detta è nel precedente capitolo, a
parlare d’Amore, parve a me che fosse d’aspettare tempo, lo quale seco porta la fine d’ogni desiderio, e
appresenta, quasi come donatore, a coloro a cui non rincresce d’aspettare. clix

C’era dunque del desiderio vero sotto le proclamate allegorie. Dante studiava, ma
continuava a sentire il pungolo della passione per qualche umano incontro, stimoli ai quali
non sapeva sottrarsi, che gli davano ancora materia per le sue elaborazioni poetiche, aperto
sempre più ad una visione omnicomprensiva e poliedrica della realtà , visione che restava
però (e lo restò ancora per anni) tutta all’interno di Dante, un lavorìo attorno a una idea di
amore disincarnato, fatto puro simbolo, immagine eterea, astratta, suscettibile di prestarsi ad
ogni riferimento, purché nobile, appassionante, elevato ad un livello superiore, in una visione
della vita che tendeva al nobile, al giusto, al santo. Ma non sapendo ancora parlare con una
lingua adeguata trovava necessario e ancora piacevole appoggiarsi al consueto repertorio del
sentimento amoroso, mentre all’altro riesce solo ad alludere, con tacite e intime allegorie solo
da lui visibili e godibili. Sarà poi lo stesso Dante ad ammettere prosaicamente che in sostanza
bastava chiamare Filosofia la donna, e se si parlava di una donna di valore, si poteva intendere
che ad avere valore è la Filosofia; se la donna era fiera e disdegnosa, è la Filosofia ad essere
difficile e ostica; se la donna portava pace e serenità , è la Filosofia che così opera nel cuore
dell’uomo.

ché, volta la parola fittizia di quello ch’ella suona in quello ch’ella ’ntende, per la passata sposizione
questa sentenza fia sufficientemente palese.clx

La terza canzone aveva trattato pochissimo il tema dell’amore, e la data della sua
composizione deve essere di molto posteriore alle altre. Dante si era incamminato ormai sulla
via di un nuovo sentire, che lo porterà infine ad intraprendere con superiore forza e maturità
artistica l’opera, forse già abbozzata, a cui si stava preparando da tutta la vita, e il cui
irrompere lo porterà anzi tempo ad abbandonare l’artificioso Convivio, con il suo peccato
d’origine. Tutto appariva messo in discussione, ne approfitterà per dedicarsi a trattare una
questione che gli stava a cuore, la definizione della vera nobiltà .
A parte la prima stanza non c’è più spessore allegorico, lo dice Dante stesso: solo la prima
stanza offre motivi di riflessione in questo senso. Dante dice che vuole lasciare da parte per il
momento “le dolci rime d’amore” che usava fare, perchè gli atteggiamenti ostili di una certa
donna a cui si sente molto legato glielo impediscono. La questione degli atteggiamenti “feri e
disdegnosi” è capitale, parlando di comprensione del Convivio. Il tema è presente anche nella
canzone precedente, variamente spiegato da Dante. Dante direbbe allegoricamente: “per la
qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto mi sostenni”, significando che, per difficoltà
sopravvenute negli studi, li avrebbe momentaneamente interrotti, ma per non stare con le
mani in mano avrebbe composto una lunga canzone a contenuto filosofico morale: “Disporrò
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giù lo mio soave stile, ch’io ho tenuto nel trattar d’amore”. Allora in precedenza parlava
d’amore? Allora come è nata questa folle passione per la filosofia? C’è ancora poca o nessuna
logica, mentre ce n’è ove si legga la canzone come è stata scritta.
Tutto è perfettamente coerente quando si pensi che la donna gentile, o comunque una
donna, abbia cominciato con le sue ripulse a creargli dei problemi, così spingendolo a
cimentarsi su nuovi temi, quelli appunto rispondenti ai suoi progetti e conseguenti agli studi
metodicamente avviati. Per non parlare della necessità di cominciare a rispondere,
prendendone distanza, della sua passata condotta. Dante stava entrando in politica.
Questo lungo sorvolamento del Convivio, giustificato da una materia aspra e complessa,
viene ora accantonato. Per comprendere gli anni tormentati che vanno dalla morte di Beatrice
al dispiegarsi della Commedia - nel tentativo ambizioso di capire che tipo di uomo fosse Dante
e di valutarne amori e allegorie - occorre vedere gli anni della formazione, e seguire da vicino
attraverso le pagine di un diario - la Vita nuova - la storia d’amore più famosa.

Dante e Beatrice

Il primo incontro nel 1274, al calendimaggio. Beatrice ha otto anni e quattro mesi, Dante
appena più grandicello:

Apparve a me ed io la vidi [...] vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a
la guisa che alla sua giovanissima etade si convenia [...] D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la
mia anima [...] Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giovanissima;
onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti [...]
Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo [...] era di si nobilissima vertù che nulla volta
sofferse che Amore mi reggesse senza lo fedele consiglio de la ragione (capitolo II).

Dante tralascia gli anni successivi, che non devono avere registrato ricordi particolari, se
non il continuare di un legame affettivo a distanza.

Compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l’ultimo di questi
die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due
gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse gli occhi verso quella
parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande
secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la
beatitudine [...] quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi
tanta dolcezza che come inebriato mi partìo da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e
puosimi a pensare di questa cortesissima (III).

Dopo il primo incontro, a cui saranno seguiti altri momenti vissuti nel segno confuso e
inconsapevolmente felice e ignaro della fanciullezza, si arriva, dopo nove anni, a qualcosa di
decisivo. Lei, che doveva, da tempo ormai, avere notato quel giovane che si trovava ad
incontrare sempre più spesso, cresciuto come lei era cresciuta, si decide a guardarlo e a
rivolgergli, sembrerebbe non sollecitata, un formale e forse anche imbarazzato saluto.
Scatenando così un terremoto di felicità nel giovane. Cosa potrebbe fare un giovane poeta che
vede attuarsi, inaspettatamente, la sua speranza più grande? Corre a casa, a gustare il
momento del trionfo.

E pensando di lei, mi sopragiunse un soave sonno, ne lo quale m’apparve una meravigliosa visione: che
me parea vedere ne la mia camera una nebula color di fuoco, dentro la quale io discernea una figura
d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sè, che
mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali
intendea queste: “Ego dominus tuus”. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda,
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salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggermente; la quale io riguardando molto
intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di
salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami
che mi dicesse queste parole: “Vide cor tuum”. E quando elli era stato alquanto, pareami che
disvegliasse questa che dormìa; e tanto si sforzava per suo ingegno che le facea mangiare quella cosa
che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò poco dimorava che la sua
letizia si convertìa in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia,
e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio
deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato (III).

Sull’onda dell’entusiasmo Dante compone un sonetto, uno dei suoi primi lavori, che invierà
ad alcuni noti rimatori del tempo, chiedendo, nella loro qualità di fedeli d’Amore ed esperti, un
parere sul sogno fatto, nel sonetto abbastanza fedelmente riportato. Non accenna però alla
cosa più importante, il saluto di Beatrice, che è fondamento del sogno stesso. Rispose, in rima,
fra i tanti anche Guido Cavalcanti, che Dante definisce “primo de li miei amici”, e a cui il libro
verrà poi dedicato.
Dal saluto inopinato di Beatrice cominciano le sofferenze: “l’anima era tutta data nel
pensare di questa gentilissima; onde io divenni in picciolo tempo di si fraile e debole
condizione, che a molti amici pesava della mia vista [...] io volea del tutto celare ad altrui [...] e
quando mi domandavano “Per cui t’ha così distrutto questo Amore?”, ed io sorridendo li
guardava, e nulla dicea loro” (IV).
Dante è innamorato. Comincia l’inseguimento della gentilissima; solo la sua vista, o almeno
il mettersi sulle sue poste, può alleviare la sua smania. Un giorno lei si trova ad una funzione
religiosa, assieme a tanta altra gente. Dante è ben piazzato e si bea in incognito dell’immagine
di lei. Va detto che sul perché Dante non potesse aspirare ad avere un contatto più ravvicinato,
o se fosse più precisamente lei ad avere degli impedimenti o delle difficoltà o delle preclusioni,
non è dato sapere. Probabile che fossero entrambi promessi, cosa che, a quell’epoca, poteva
avvenire in età molto giovane. Beatrice Portinari era probabilmente di un ceto più elevato
(figlia di un ricco commerciante), mentre Dante apparteneva alla piccola nobiltà decaduta e
squattrinata. Ma l’amore cortese aveva le sue regole e poteva lasciare spazio a giochi di questo
tipo. Dante fissava Beatrice con il batticuore, la mangiava con gli occhi e certamente non
distoglieva lo sguardo. Caso volle che fra i due sedesse “una gentile donna di molto piacevole
aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che pareva che
sopra lei terminasse. Onde molti si accorsero de lo suo mirare”. La cosa non sarebbe
dispiaciuta a Dante, che voleva proteggere dalla curiosità altrui il suo vero scopo. Decise di
assecondare la piega presa dagli avvenimenti:

Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette
per rima (V).

Che dire? Il principio cortese della segretezza andava salvaguardato, anche se forse qui la
cosa appare un po’ fuori luogo, trattandosi di due giovani ancora liberi, impegnati in
improbabili approcci; conosciamo solo la versione di Dante, ma l’impressione è che sulla
questione della donna-schermo il nostro giovane poeta ci abbia un po’ marciato, come si dice.
Quando questa donna dovette lasciare Firenze per andare in un paese “molto lontano” Dante
si sarebbe trovato in imbarazzo: “sbigottito de la bella difesa che m’era venuta meno, assai me
ne disconfortai [...] E pensando che se de la sua partita io non parlasse alquanto
dolorosamente, le persone sarebbero accorte più tosto de lo mio nascondere, propuosi di
farne alcuna lamentanza in un sonetto”(VII). Dante però maschera le cose in modo che chi sa
possa capire a chi sono veramente indirizzati i suoi lamenti. Qualcuno sapeva? Ma lei, lei
sapeva? Beatrice sapeva che la donna dello schermo era a sua difesa e che quel ragazzo, con
153
fama di poeta in erba, che la guardava fissamente e che incontrava ad ogni piè sospinto, faceva
tutto quel quarantotto solo per lei? E soprattutto, la cosa poteva interessarla? In questa fase
l’impressione, stando al racconto di Dante, è che facesse tutto lui.
Dante è in viaggio, assieme ad altre persone, in una località vicina a quella dove si trovava la
donna-schermo. Descrive l’incontro con Amore in veste di povero pellegrino, lungo l’Arno,
che così gli parla:

Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo rivenire non sarà a gran
tempi; e però quello core che io ti faceva avere a lei, io l’ho meco e portolo a donna la quale sarà tua
defensione, come questa era (IX).

E gli dice il nome.

Ma tuttavia, di queste parole ch’io t’ho ragionato se alcuna cosa ne dicessi, dille nel modo che per loro
non si discernesse lo simulato amore che tu hai mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad altri
(IX).

Il racconto in prosa si accompagna a un sonetto bellissimo “Cavalcando l’altr’ier per un


cammino, / pensoso de l’andar che mi sgradia, / trovai Amore in mezzo de la via / in abito
leggier di peregrino. / Ne la sembianza mi parea meschino...” (IX). Dante attribuisce ora a
decisioni superiori - al dio Amore - le vicende connesse alle donne schermo. Che sono
diventate due. Il commento in prosa è posteriore, e certamente c’è in Dante la volontà di
giustificare un comportamento troppo leggermente improntato a pratiche “cortesi” e
“leggiadre” a cui il giovane non sapeva sottrarsi. Il cambio di “donna” è dichiarato nel sonetto,
quindi queste storie erano pubbliche e potevano arrivare anche all’orecchio di Beatrice.

Appresso la mia ritornata mi misi a cercare di questa donna che lo mio segnore m’avea nominata ne lo
cammino de li sospiri [...] in poco tempo la feci mia difesa tanto che troppa gente ne ragionava oltre li
termini de la cortesía [...] E per questa cagione, cioè di questa soverchievole voce che parea che
m’infamasse viziosamente, quella gentilissima, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina delle
virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta la mia
beatitudine (X).

Gli errori in amore si pagano. Dante, innamorato di una donna che lo intimidiva e lo
costringeva - al di là del formale saluto - a distanza, aveva sperimentato, crescendo, una sua
capacità di affascinare e, soprattutto, di rendere poeticamente la infinita gamma dei
sentimenti amorosi. Beatrice era il centro attorno a cui ruotava il suo interesse amoroso, ma
era troppo in alto e Dante troppo libero e voglioso di vivere per rifiutare le opportunità che si
presentavano. Dell’importanza di Beatrice si accorgerà quando l’avrà perduta.

Poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga
parte andai a bagnare la terra d’amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo
lagrimare, misimi nella mia camera, la ov’io poteva lamentarmi sanza essere udito; e quivi chiamando
misericordia alla donna della cortesia, e dicendo “Amore, aiuta lo tuo fedele”, m’addormentai come un
pargoletto battuto lacrimando. Avvenne quasi nel mezzo de lo mio dormire che me parve vedere ne la
mia camera lungo me sedere uno giovane di bianchissime vestimenta [...] pareami che sospirando mi
chiamasse e diceami queste parole: “Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra [figlio mio,
è tempo che dimettiamo le nostre finzioni] […] Ego tamquan centrum circuli, cui simili modo se habent
circunferentie partes; tu autem non sic [Io sono come il centro del cerchio rispetto al quale tutti i punti
della circonferenza sono equidistanti, tu invece no]”[...] “Che è ciò , segnore, che mi parli con tanta
oscuritade?”[...] “Non dimandare più che utile ti sia [...] Quella nostra Beatrice udio da certe persone di
te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e

154
però [perciò ] questa gentilissima la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua
persona, temendo non [che] fosse noiosa” (XII).

E’ un momento fondamentale nello svolgimento della vicenda amorosa di Dante. Nella


consueta forma della visione onirica Dante comincia a maturare un nuovo approccio e una via
di uscita da una situazione che la sua leggerezza ha reso senza sbocco. Le frasi riportate
aprono la strada alla tormentata riconsiderazione del suo rapporto d’amore: non più finzioni,
mettere al centro della sua vita Beatrice senza divagazioni, non aspettarsi più niente in
cambio; d’ora in poi il suo amore sarà donazione totale e gratuita e troverà in se stesso la sua
ricompensa. Farà un tentativo di scusarsi, con una ballata musicata, Ballata, i’ voi che tu ritrovi
Amore, mostrando tutta la profondità del suo sentimento e tutto il dolore per l’accaduto.
Chiede l’aiuto di Amore: “Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore, / e con lui vade a madonna
davante, / si che la scusa mia, la qual tu cante, / ragioni poi con lei lo mio segnore [...] però che
quella che ti deve audire, / sì com’io credo, è ver di me adirata...”.
Suggerisce ad Amore cosa dire a Beatrice per rabbonirla: “... dunque perché li fece altra
guardare / pensatel voi, da che non mutò ’l core”. / Dille: “Madonna, lo suo core è stato / con sì
fermata fede, / che ’n voi servir l’ha ’mpronto omne pensero: / tosto fu vostro, e mai non s’è
smagato [...] lo perdonare se le fosse a noia, / che mi comandi permesso ch’eo moia, / e
vedrassi ubidir ben servidore [...] e s’ella per tuo prego li perdona, / fa che li annunzi un bel
sembiante pace”.
Dante non accennerà mai ad alcuna risposta, ad alcun segnale ricevuto. Sono giorni di
riflessione: “buona è la signoria d’Amore, però che trae lo intendimento del suo fedele da tutte
le vili cose [...] non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta,
tanto più gravi e dolorosi punti li conviene passare” (XIII).
Tanti pensieri:

E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo
cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne vada; e se io pensava di volere cercare una comune
via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa era via molto inimica verso me, cioè di chiamare
e di mettermi ne le braccia de la Pietà (XIII).

La fiducia è scarsa: “la donna per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che
leggermente si muova del suo cuore” (XIII). Attribuisce sempre ad una forza esterna,
dominante, i suoi movimenti amorosi.
Iniziano i tempi bui. Un amico lo conduce, credendo di fargli cosa gradita, ad un consesso
che vedeva la presenza di molte donne, riunite per festeggiare una di loro che s’era maritata.
Dante è titubante, ma accetta, per non contraddire l’amico, di fare la parte del cavalier
servente:

E nel finire del mio proponimento mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto
da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo [...] Poggiai la mia persona
simulatamente ad una pintura la quale circundava questa magione, e temendo non [che] altri si fosse
accorto del mio tremore, levai gli occhi e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora
fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la
gentilissima donna [...] Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si
cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima; onde lo
ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì
mi domandò che io avesse. Allora io riposato [...] “Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la
quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”[...] Mi ritornai nella camera de le lagrime [...]
piangendo e vergognandomi (XIV).

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Troppo realistica la descrizione del crollo emotivo di Dante per pensare che sia inventata.
Più comuni nelle donne, lo svenimento, la perdita di coscienza, l’incapacità di controllo della
situazione di fronte a un fatto spiacevole e imprevisto proveniente da parte della persona
amata - aggravato qui dalla presenza di altre persone che rende difficilissima qualsiasi azione
di controllo e di difesa - sono i sintomi di una dipendenza affettiva esagerata. Definiscono
l’amore folle, un sentimento determinato non da ragioni obiettive, ma unicamente dipendente
dalla natura di chi lo vive. Se non c’era questa natura alla base del suo amore per Beatrice
forse non avremmo avuto nemmeno il poeta.
E’ questo il periodo della sofferenza. Sulla vicenda del “gabbo”, Dante, colpito nel profondo
dalla constatazione della propria debolezza e ferito oltremodo dall’atteggiamento di Beatrice,
che assieme alle amiche rideva di lui, scriverà ben tre sonetti, inseriti tutti nella Vita nuova.
Dissertare d’amore e analizzare la natura del sentimento amoroso erano sempre stati la sua
occupazione preferita. Vi aveva costruito sopra la sua fama di giovane poeta molto dotato, e gli
amici lo avevano accolto e lo stimavano proprio per questo. Ma ora è diverso. Dante, lontano
da tutti, incide la sua carne viva, e mostra le brucianti sofferenze dell’amore non ripagato e le
domande cocenti a cui non sa dare risposta. Cerca una via di salvezza dall’autodistruzione, e
alla fine la troverà .

Con l’altre donne mia vista gabbate,


e non pensate, donna, onde si mova
ch’io vi rassembri sì figura nova
quando riguardo la vostra beltate.
Se lo saveste, non poria Pietate
tener più contra me l’usata prova,
ché Amor, quando sì presso a voi mi trova,
prende baldanza e tanta securtate [...]

Nel primo sonetto Dante attribuisce tutta la colpa al solito Amore, che si burla di lui e lo
spinge in avanti in una battaglia impari che lo vede soccombente. Ne dà addirittura una
interpretazione scientifica, sulla base di teorizzazioni del fenomeno amoroso come lotta di
“spiriti” all’interno del corpo, un pensiero allora di moda, del quale era riconosciuto esperto
l’amico Cavalcanti. Questa la sentenza della seconda parte del primo sonetto del gabbo nelle
parole di un Dante ancora reattivo che vuole dimenticare la figuraccia fatta:

Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro. E
questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d’Amore; e a coloro che vi
sono è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale
dubitazione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio (XIV).

Appare chiaro come Dante si rivolga a Beatrice, accusandola di insensibilità , ma anche, con
atteggiamento complice, alla sua consorteria, loro solo in grado di giudicare tali questioni,
questioni che anche Dante, se volesse, potrebbe dimostrare di capire a fondo. Ma la realtà è
più dura e gli altri sonetti ne mostrano i pesanti aspetti. Ripensando alla sua disavventura (la
“trasfigurazione”) Dante si chiede:

“Poscia che tu pervieni a così dischernevole vista quando tu se’ presso di questa donna, perché pur
cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi domandato da lei: che avresti da rispondere, ponendo che tu
avessi libera ciascuna tua virtude in quanto tu le rispondessi?”. E a costui rispondea un’altro, umile,
pensero, e dicea: “S’io non perdessi le mie virtudi, e fossi libero tanto che io potessi rispondere, io le
direi che sì tosto com’ io imagino la sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne uno desiderio di vederla,

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lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne la mia memoria ciò che contra di lei si potesse
levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei” (XV).

Nulla può frenare il suo desiderio di vederla: “non mi tengo di gire presso di questa donna”,
pur sapendo che non può venirne nulla di buono per lui. Così nel secondo sonetto del gabbo:

Ciò che m’incontra, ne la mente more,


quand’i’ vegno a veder voi, bella gioia;
e quand’io vi son presso, i’ sento Amore
che dice: “Fuggi, se l’ perir t’è noia”.
Lo viso mostra lo color del core,
che, tramortendo, ovunque pò s’appoia;
e per la ebrietà del gran tremore
le pietre par che gridin: Moia, moia [...]

Appresso ciò che io dissi questo sonetto, mi mosse una volontade di dire anche parole, ne le quali io
dicesse quattro cose ancora sapere sopra lo mio stato [...] La prima de le quali si è che molte volte io mi
dolea, quando la mia memoria movesse la fantasia ad imaginare quale Amore mi facea. La seconda si è
che Amore spesse volte di subito m’assalia sì forte, che ’n me non rimanea altro di vita se non un
pensero che parlava di questa donna. La terza si è che quando questa battaglia d’Amore mi pugnava
così, io mi movea quasi discolorito tutto per vedere questa donna, credendo che mi difendesse la sua
veduta da questa battaglia, dimenticando quello che per appropinquare a tanta gentilezza m’addivenia.
La quarta si è come cotale veduta non solamente non mi difendea, ma finalmente disconfiggea la mia
poca vita. E però dissi questo sonetto, lo quale comincia: Spesse fiate ( XVI).

Spesse fiate vegnonmi a la mente


le oscure qualità ch’Amor mi dona,
e venneme pietà , sì che sovente
io dico: “Lasso! Avviene elli a persona?”;
ch’Amor m’assale subitanamente,
sì che la vita quasi m’abbandona:
campami un spirto vivo solamente,
e que’ riman perché di voi ragiona.
Poscia mi sforzo, ché mi voglio atare;
e così smorto, d’onne valor voto,
vegno a vedervi, credendo guerire:
e se io levo li occhi per guardare,
nel cor mi si comincia uno tremoto,
che fa de’ polsi l’anima partire.

Il fondo è toccato. Altri avrebbero risolto l’insopportabile situazione rifugiandosi nella


pazzia o nel delitto, Dante troverà una strada tutta sua.

Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna però che fuoro narratori di tutto quasi
lo mio stato, credendomi tacere e non dire più , però che mi parea di me assai avere manifestato,
avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la
passata. E però che la cagione de la nuova matera è dilettevole a udire, la dicerò (XVII).
Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe
donne, le quali adunate s’erano [...] sapevano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a
molte mie sconfitte [che devono essere state ben più di quelle narrate da Dante, n.d.r.] [...] fui chiamato
da una di queste gentili donne. La donna che mi aveva chiamato era donna di molto leggiadro parlare
[...] vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le salutai, e domandai
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che piacesse loro. Le donne erano molte [...] certe si rideano [...] altre mi guardavano aspettando [...]
altre parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li occhi suoi verso me e chiamandomi per nome
disse queste parole: “A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua
presenza? Dilloci, che certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo” [...] Tutte l’altre
cominciarono ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: “Madonne, lo
fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, e in quello dimorava la
beatitudine, ché era fine di tutti li miei desideri. Ma poi le piacque di negarlo a me, lo mio segnore
Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno”.
Allora queste donne cominciaro a parlare fra loro; e si come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di
bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri [...] “noi ti preghiamo che tu ne
dichi ova sta questa tua beatitudine”. Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: “In quelle parole che lodano
la donna mia” [...] “Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua
condizione, avrestù operato con altro intendimento”. Onde io, pensando a quelle parole, quasi
vergognoso mi partìo da loro, e venia dicendo di me medesimo: “Poi che è tanta beatitudine in quelle
parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?”. E però [perciò ] propuosi di
prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e
pensando molto a ciò , pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di
cominciare, e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare (XVIII).

Durante una passeggiata lungo un bel ruscello, Dante trova la desiderata ispirazione:

pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona
[...] solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua
parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore [...] Onde poi [...]
pensando alquanti die, cominciai una canzone (XIX).

Donne ch’avete intelletto d’amore,


i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Lo cielo, che non have altro difetto
che d’aver lei, al suo segnor la chiede [...]

Ma Dio non può acconsentire al trapasso, mentre dei versi confusi potrebbero alludere a
Dante stesso “che perder lei s’attende”. Qui Beatrice avrà incrociato le dita!

[...] Dice di lei Amor: “Cosa mortale


come esser pò sì adorna e sì pura?”
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Color di perla ha quasi, in forma quale
convene a donna aver, non for misura:
ella è quanto de ben pò far natura [...]

La canzone mostra effettivamente un atteggiamento diverso nei confronti di Beatrice, non


c’è più il disperato ansimare senza speranza, lo sbattersi sapendo che a nulla servirà . Dante ha
anche trovato un delizioso pubblico di attente ascoltatrici in ansiosa attesa delle sue parole, e
ad esse ora si rivolge. Legittimo pensare anche a una sottile strategia di aggiramento, che,
158
facendo magari leva sulla gelosia della gentilissima nei confronti delle amiche, possa fargli
riacquistare credito agli occhi di lei. Il tono è certamente mutato. Dante non si rivolge più
direttamente a Beatrice, questo sembra dargli più ardire, quasi una sorta di impunità , fino a
dargli il coraggio di fare apprezzamenti sul fisico della gentilissima. L’amore eccelso comincia
ad essere una cosa costruita, ora forse meno sincero, mentre prima sicuramente lo era fino
allo spasimo. Comincia anche ad accostare alla gentilissima aspetti extramondani, la pone in
una situazione di divinità scesa in terra “a miracol mostrare”.

Appresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti [...] alcuno amico l’udisse [...] pregare
me che io li dovesse dire che è Amore [...] io pensando che appresso di cotale trattato bello era trattare
alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire [Cavalcanti? n.d.r], propuosi di dire parole ne
le quali io trattassi d’Amore (XX).

Si rifà al Guinizzelli, l’altro suo maestro. Dante diventa un esperto di cose d’amore, il che,
vista la situazione di partenza, può fare sorridere.

Amore e ’l cor gentil sono una cosa,


sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l’un sanza l’altro osa
com’alma razional sanza ragione.
Falli natura quand’è amorosa,
Amor per sire e ’l cor per sua magione,
dentro lo qual dormendo si riposa,
tal volta poca e tal lunga stagione [...]

Poscia che trattai d’Amore ne la soprascritta rima, vennemi volontade di voler dire anche in loda di
questa gentilissima [...] (XXI).

Questi versi saranno certamente arrivati anche all’orecchio di Beatrice:

Ne li occhi porta la mia donna Amore,


per che si fa gentil ciò ch’ella mira,
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Aiutatemi, donne, farle onore [...]

ma Dante il suo saluto non lo avrà più .

Muore il padre di Beatrice.

Appresso ciò non molti dì passati [...] colui che era stato genitore di tanta meraviglia [...] di questa vita
uscendo [...] manifesto è che questa donna fue amarissimamente piena di dolore [...] secondo l’usanza
[...] donne con donne e uomini con uomini s’adunino a cotale tristizia, molte donne s’adunaro colà dove
questa Beatrice piangea pietosamente [...] alcuna lagrima talora bagnava la mia faccia, onde io mi
ricopria con porre le mani spesso a li miei occhi [Dante è con gli uomini sulla porta della casa, n.d.r.]
[...] “Questi ch’è qui piange né più né meno come se l’avesse veduta [...] Vedi questi che non pare esso,
tal è divenuto! ” [...] feci due sonetti (XXII).

Il primo è descrittivo, il secondo contiene qualche annotazione interessante. Parlano le


donne:

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Se’ tu colui c’hai trattato sovente
di nostra donna, sol parlando a nui?
Tu risomigli a la voce ben lui,
ma la figura ne par d’altra gente.
E perché piangi tu sì coralmente,
che fai di te pietà venire altrui? [...]

Dante è ben noto al gruppo delle amiche, per le sue poesie e per la sua vicenda amorosa. Qui
si dipinge come una specie di zombi irriconoscibile. Dov’é finito il lodatore ricercato, l’esperto
d’amore? Altre informazioni, forse più vere, possiamo avere dai due sonetti di analogo
argomento - così possiamo sicuramente supporre - presenti nelle Rime, e che hanno l’aspetto
di studi per i sonetti inseriti nella Vita nuova. O forse scartati perchè ritenuti non consoni al
tono che Dante aveva deciso di dare all’opera e che lo voleva pacificato, soddisfatto di “lodare”
senza attesa di retribuzione. In questa circostanza certamente partecipe del dolore di
Beatrice.
Sonetto Onde venite voi così pensose dalle Rimeclxi:

[...] Deh, gentil donne, non siate sdegnose,


né di ristare alquanto in questa via
e dire al doloroso che disia
udir de la sua donna alquante cose;

avvegna che gravoso m’ è l’udire:


si m’ha in tutto Amor da sè scacciato
ch’ogni suo atto mi trae a ferire.
Guardate bene s’i’ son consumato,
ch’ogni mio spirto comincia a fuggire,
se da voi, donne, non son confortato.

Dante esprime qui delusione e sfiducia profonde. La via della lode è dura..
Nel secondo sonetto “estravagante” Voi donne, che pietoso atto mostrate (24) Dante parla
alle donne direttamente di Beatrice:

“Voi donne, che pietoso atto mostrate,


chi è esta donna, che giace sì venta [prostrata]?
Sarebbe quella ch’è nel mio cor penta?
Deh, s’ella è dessa, più non mel celate.
Ben ha le sue sembianze sì cambiate,
e la figura sua mi par sì spenta,
ch’al mio parere ella non rappresenta
quella che fa parer l’altre beate”.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
“non pianger più , tu se’ già tutto sfatto”.

Il ritratto che Dante fa qui del suo amore e di se stesso ha toni tragici e tristissimi. Lei
sembra malata e prossima alla fine, lui non è in uno stato migliore. Cerca conforto nelle
amiche di lei, che ora vuole credere anche sue, con fare umanissimo, evidenziando grande
confusione e debolezza. Questi aspetti nella Vita nuova non appaiono, o almeno non hanno
accenti così crudi.
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Appresso ciò per pochi dì avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa
infermitade onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta
debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere [...] Ne lo nono giorno,
sentendome dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero lo quale era de la mia donna [...]
cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo:
“Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia”. E però mi giunse uno si
forte smarrimento che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a
imaginare [...] apparvero a me certi visi di donne scapigliate [...] “Tu pur morrai” [...] certi visi diversi e
orribili a vedere [...] “Tu se’ morto” [...] vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via [...]
e pareami vedere lo sole oscurare [...] li uccelli volando per l’aria cadessero morti [...] grandissimi
tremuoti [...] imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: “Or non sai? La tua mirabile donna è partita
di questo secolo”. Allora cominciai a piangere molto pietosamente [...] con gli occhi, bagnandoli [...] Io
imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso,
ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima [...] “Vero è che morta giace la nostra donna” [...]
Mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì
forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè
la sua testa, con un bianco velo [...] parea che dicesse: “Io sono a vedere lo principio della pace” [...] io
chiamava la Morte, e dicea: “Dolcissima Morte, vieni a me [...] che molto ti disidero [...]” E quando io
aveva veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti s’usano di fare, mi parea
tornare nella mia camera, e quivi mi parea guardare verso il cielo, e sì forte era la mia imaginazione,
che piangendo incominciai a dire con verace voce: “Oi anima bellissima, come è beato colui che ti
vede!” [...] Onde altre donne che per la camera erano s’accorsero di me, che io piangea [...] si trassero
verso di me per isvegliarmi [...] sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch’io volea dicere: “O
Beatrice, benedetta sie tu” […] quando riscotendomi apersi gli occhi, e vidi che io era ingannato [...]
molte parole mi diceano da confortarmi […] dissi loro quello che veduto avea, tacendo lo nome di
questa gentilissima (XXIII).

[...] Piansemi Amor nel core, ove dimora;


per che l’anima mia fu sì smarrita,
che sospirando dicea nel pensero:
- Ben converrà che la mia donna
[mora.-
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
ed omo apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua, ch’era sì bella – […]

Lungo racconto di una malattia e dei suoi incubi. La poesia drammatizza molto fedelmente.
Colpisce la ormai stabile presenza delle “donne”, alle quali Dante si è emotivamente affidato.
Colpisce anche che possa avere scritto una lunga canzone in cui prefigura la morte di una
persona che, anche se Dante dice di averne mantenuto l’anonimato, era certo ben conosciuta,
almeno fra le donne (che però qui non sono le stesse).
Argomento molto delicato. Perché Dante avrebbe dovuto temere così tanto la morte di
Beatrice, sua giovanissima coetanea? Sembra - la frase in volgare va certo interpretata
correttamente, cosa oggi non facile -, quasi un auspicio che sale dal fondo di un cuore
esacerbato e privo di speranza. In alternativa mantiene certo una sua consistenza l’ipotesi di
una malattia che segnava la giovane “dal viso di perla”.
Dante, disperato, si ammala e sogna, nell’incubo della malattia, di vedere Beatrice morta
salire in cielo fra gli angeli. Inizia il processo di divinizzazione. Non potendola avere in vita, se
la rende disponibile come idealizzazione ultraterrena.
Ne ha comunque un beneficio sul piano psicologico:

161
Sedendo io pensoso in alcuna parte, ed io mi sentio cominciare un tremuoto nel cuore, così come se io
fosse stato presente a questa donna […] Mi giunse una imaginazione di Amore; che mi parve vederlo
venire da quella parte ove la mia donna stava […] me parea avere lo cuore sì lieto […] io vidi venire
verso di m una gentile donna la quale era di favolosa bieltade, e fue già molto donna di questo primo
mio amico […] E appresso lei, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice. Queste donne andaro presso
di me così l’una appresso l’altra (XXIV).

Fantasia? C’è quì un Dante distaccato e sereno, che gioisce della fortuna inaspettata.
Beatrice lo avvicina - e già questo sarebbe un avvenimento - senza traumi eccessivi da parte
sua. Dedica il sonetto relativo all’amico Cavalcanti, che sembra non abbia gradito il
riferimento a Monna Vanna, con la quale era in disaccordo, e l’intrusione di Dante nelle sue
cose personali.
Nel cap. XXV Beatrice viene messa da parte. Dante fa una lunga digressione sul significato
da attribuire al fatto che abbia così spesso descritto Amore come persona viva, che parla, ride
piange. Chiarisce che Amore non è sostanza, una cosa che vive di vita sua, ma un ente di
natura intellettuale, un modo di essere, un “accidente”, qui uno stato della persona, che lui ha
voluto trattare in forma di “figura”, così come hanno sempre fatto i poeti antichi. Fa
riferimento a problematiche letterario-filosofiche presenti nel mondo dei rimatori, sulle quali
si era espresso anche l’amico Cavalcanti. Dice che il primo che cominciò a usare il volgare
italiano (la lingua del sì)

si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li
versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che
cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore […] degno e ragionevole è che a
loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a gli altri parlatori volgari: onde, se alcuna figura o
colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li rimatori […] né li poete parlavano così sanza
ragione, né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro, di quello
che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore
rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che
avessero verace intendimento (XXV).

Spegazione, con largo anticipo, delle logiche del Convivio. Ci dice anche quanto contassero
per Dante gli aspetti “letterari” della Vita nuova, in misura tale da fargli accantonare a volte la
sua vicenda amorosa. Senza dimenticare che il commento in prosa è stato elaborato attorno al
1293, circa tre anni dopo la morte di Beatrice. Quegli anni di passione cominciavano a essere
lontani.
Dopo il lungo excursus teorico ritorna la gentilissima. Il commento prosastico accompagna
due sonetti sublimi di lode:

Questa gentilissima donna […] venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone
correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungeva [lui doveva essere presente, lui che non
era però più salutato, n.d.r.]. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di
quello che non ardia di levare gli occhi, né di rispondere a lo suo saluto […] Ella coronata e vestita
d’umiltade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udìa. Diceano molti, poi che passata
era: “Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo” […] Onde io pensando a ciò ,
volendo ripigliare lo stile della sua loda, propuosi di dire certe parole (XXVI).

Tanto gentile e tanto onesta pare


la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

162
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
uno spirto soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

Il secondo sonetto considera Beatrice nel consesso femminile e afferma che anche le donne
vengono esaltate dalle sue qualità e traggono onore dalla sua vicinanza. Dante tiene fede al
patto tacitamente stipulato con le amiche di dire a loro quello che non ha né il coraggio né la
possibilitò di dire direttamente a lei. Dante ama “donneare” - il termine è suo -, è un aspetto
della sua personalità . Ormai la trasformazione di Beatrice in “santa icona” è perfezionata.
Dante si accinge a commemorarla, mutando in una vittoria della nobiltà e della “leggiadria”
quella che era stata per lui una dolorosa sconfitta.
Dante si rende conto di essersi messo da parte sino a scomparire. Anche ai suoi stessi occhi.
In fondo la lode doveva essere un dialogo di nuovo tipo, per vincere la ritrosia di Beatrice. Una
strategia, una possibilità nuova di arrivare al suo cuore - non dimentichiamo che Beatrice era
ormai sposata - senza turbarla imponendole la sua muta e ossessiva presenza. Però sentiva di
doverle dire anche delle cose su di sè.

Appresso a ciò , cominciai a pensare uno giorno sopra quello che detto avea de la mia donna, cioè in
questi due sonetti precedenti; e vegendo nel mio pensero che io non aveva detto di me quello che al
presente adoperava in me, paréami defettivamente avere parlato […] propuosi di dire parole, ne le
quali io dicesse come me parea essere disposto a la sua operazione, e come operava in me la sua
vertude […] cominciai allora una canzone (XXVII).

Dante all’inizio dice di riconoscere senza ribellarsi la nuova situazione:

Si lungiamente m’ha tenuto Amore


e costumato a la sua segnoria,
che sì com’elli m’era forte in pria,
così mi sta soave ora nel core.

Poi confessa di non resistere senza vederla. La chiama.

Però quando mi tolle sì ’l valore,


che li spiriti par che fuggan via,
allor sente la frale anima mia
tanta dolcezza, che ’l viso ne smore,
poi prende Amore in me tanta vertute,
che fa li miei spiriti gir parlando,
ed escon for chiamando
la donna mia, per darmi più salute.
Questo m’avvene ovunque elle mi vede,
e sì è cosa umil, che nol si crede.

La canzone si interrompe dopo la prima strofa. Beatrice è morta.


163
*

Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua domina gentium. Io era nel
proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia, quando lo
signore de la giustizia chiamoe questa gentilissima a gloriare sotto le insegne di quella regina
benedetta virgo Maria (XXVIII).

Queste scarne parole, introdotte dal passo tratto dalle Lamentazioni di Geremia, sono tutto
quanto Dante ha deciso di lasciare a commento della morte della donna amata. Certamente la
canzone venne interrotta, e Dante così l’ha lasciata. Poche altre parole per dire che così era
deciso dall’inizio della stesura del libro, e che comunque lui ancora non è pronto a trattare
convenientemente un fatto come la morte della gentilissima. Per il momento, con parole molto
ermetiche - se ne parlasse dovrebbe diventare lodatore di se stesso, compiendo con ciò un
atto biasimevole (generale la resa degli interpreti) -, lascia la cosa a chi vorrà occuparsene.
Altre considerazioni mostrano come ormai Dante vivesse l’accaduto da un punto di vista quasi
notarile: Beatrice è morta, confermando però ancora la sua straordinaria natura. Torna qui in
ballo con forza la teoria del numero nove, su cui Dante si era già espresso in precedenza:
Beatrice è morta il nove di un mese (ottobre) che nel calendario della Siria (!) corrisponde al
nono mese dell’anno. L’anno è il 1290, che comprende nove volte il dieci, numero perfetto. Il
numero nove corrisponde al numero dei cieli, secondo la dottrina tolemaica accettata dalla
Chiesa e significa che in Beatrice “tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano
insieme”. Il numero tre è la radice del nove: “Dunque se lo tre è fattore per sè medesimo del
nove, e lo fattore per sè medesimo de li miracole è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li
quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad
intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo” (XXIX). Dante è sensibile al pensiero
analogico, da cui la sua mentalità cabalistico-scaramantica molto comune all’epoca.
Dante ha fatto della morte di Beatrice un momento di svolta nella narrazione: l’annuncio
drammatico segue il passo biblico, anticipato dall’interruzione della canzone. Oggi sarebbe
una sospensione delle trasmissioni televisive per dare l’annuncio di una qualche grave
disgrazia o lutto di interesse nazionale. Poi considerazioni di tipo formale, che bloccano
l’emozione. Ma un pianto vero non poteva tardare, e Dante lo farà ancora tra le braccia ideali
delle “amiche”:

Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano
disfogare la mia tristizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole dolorose (XXXI).

[…] donne gentili, volentier con vui,


non voi parlar altrui,
se non a cor gentil che in donna sia
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
no la ci tolse [Beatrice, n.d.r.]qualità di gelo
né di calore, come l’altre face,
ma solo fue sua gran benignitate;
ché luce de la sua umilitate
passò li cieli con tanta vertute,
che fé meravigliar l’etterno sire,
sì che dolce desire
lo giunse di chiamar tanta salute
[. . . . . . . . . . . . . . . .]

164
perché vedea ch’esta vita noiosa
non era degna di sì gentil cosa
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
e spesse fiate pensando a la morte,
veneme un disio tanto soave,
che mi tramuta lo color nel viso
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Poscia piangendo, sol nel mio lamento
chiamo Beatrice , e dico: “Or se’ tu
[morta?”;
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
e però , donne mie, pur ch’io volesse,
non vi saprei io dir ben quel ch’io sono,
sì mi fa travagliar l’acerba vita;
la quale è sì invilita,
che ogn’om par che mi dica:”Io
[t’abbandono”,
veggendo la mia labbia tramortita
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Pietosa mia canzone, or va piangendo;
e ritruova le donne e le donzelle
a cui le tue sorelle
erano usate di portar letizia;
e tu, che se’ figliuola di tristizia,
vatten disconsolata a star con elle.

Si conferma nel congedo il rapporto consolidato con un pubblico femminile di “donne e


donzelle” a cui Dante si rivolge in modo esclusivo per parlare di Beatrice, proseguendo un
discorso avviato da tempo. Si possono anche ravvisare segni di distacco dal gruppo degli
amici. Ci furono accuse di viltà da parte di Cavalcanti.
Segue l’episodio concernente la richiesta di una lirica commemorativa per una giovane
donna morta da parte di un amico di Dante, che lui definisce “amico a me inmediatamente
dopo lo primo, e questi fue tanto distretto di sanguinitade con questa gloriosa, che nullo più
presso l’era”. In breve si trattava di Manetto Portinari, uno dei cinque fratelli di Beatrice. Al di
là della riservatezza usata da entrambi, Dante lo esaudirà con piacere, inserendo all’interno
delle due liriche, in un quadro convenzionale, parole idealmente riferite alla sorella. La notizia
è interessante perchè dimostra quanto Dante dovesse sentirsi e trovarsi vicino a Beatrice -
essendo amico intimo del fratello -, e, nello stesso tempo, quanto fosse invece, lo dicono i fatti,
oggettivamente impedito dall’avere con lei un rapporto franco e cameratesco, anche
giustificato dalla comune giovinezza. Credo siano state le nozze di Beatrice, e i precedenti
impegni di lei, e anche quelle, ma c’è incertezza sulla data - successive? -, di Dante (dopo
lunga promessa) a costituire il principale impedimento. Da qui le donne-schermo,
superficialmente gestite dal poeta, e una interessata faciloneria nel rapporto con il gruppo
delle “amiche”. Nelle poesie Dante tocca, e lo farà sempre più spesso, il tema della nuova
condizione di Beatrice assunta in cielo fra gli angeli: “divenne spiritual bellezza grande, / che
per lo cielo spande / luce d’amor, che li angeli saluta, / e lo intelletto loro alto, sottile / face
maravigliare” (XXXIII). La questione lo appassiona veramente, non credo sia solo un riflesso
della sua indiscutibile religiosità . Dante crede veramente, lo dimostra anche l’importanza che
ha sempre dato a certi “segnali”, ad un destino particolare della gentilissima, un destino
“celeste”. Del quale egli vorrà essere il cantore.
165
Un anno dopo la morte di Beatrice:

Io mi sedea in parte ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette […]
volsi gli occhi e vidi lungo me uomini a li quali si convenia di fare onore. E’ riguardavano quello che io
facea […] Quando li vidi, mi levai, e salutando loro dissi: “Altri era testé meco, però [perciò ] pensava”
[…] partiti costoro, ritornaimi alla mia opera […] mi venne uno pensero […] quasi per annovale, e
scrivere a costoro li quali erano venuti a me (XXXIV).

[…] Amor, che ne la mente la sentía,


s’era svegliato nel destrutto core,
e diceva a’ sospiri: “Andate fore”;
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
“Oi nobile intelletto,
oggi fa l’anno che nel ciel salisti”.

Certamente Dante qui non si nasconde, e non si nega agli ammiratori, ma questo non vuol
dire che il suo dolore non sia sincero. Il suo cuore è rimasto bambino.
Entriamo ora in un terreno molto delicato e complesso che costituisce l’oggettivo trait
d’union fra Vita nuova e Convivio. Ciò di cui si parlerà ha dato l’avvio a una vertiginosa ridda di
ipotesi che non riesce a trovare un punto di mediazione. Entra in scena la “donna gentile”.
Proprio lei, quella che provocherà tanti problemi al Dante del Convivio e che lui stesso
identificherà con queste parole: “appresso lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive
in cielo con gli angeli e in terra con la mia anima, quando quella gentile donna, cui feci
menzione ne la fine dela Vita nuova, parve primamente, accompagnata d’Amore, a li occhi miei
e prese luogo alcuno ne la mia mente”clxii.

[essendo] in parte ne la quale mi ricordava del passato tempo, molto stavo pensoso, e con dolorosi
pensamenti, tanto che mi faceano parere di fore una vista di terribile sbigottimento. Onde io,
accorgendomi del mio travagliare, levai gli occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile
donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista,
che tutta la pietà parea in lei accolta […] io senti’ allora cominciare li occhi miei a voler piangere; e
però , temendo di non mostrare la mia vile vita, mi partio dinanzi da li occhi di questa gentile; e dicea
poi fra me medesimo. “E’ non può essere che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore”. E
però propuosi di dire uno sonetto, ne lo quale io parlassi a lei e conchiudesse in esso tutto ciò che
narrato è in questa ragione (XXXV).

Il Convivio indicherà anche la data dell’incontro: 21 agosto 1293. Tre sono le tesi principali,
senza fare nomi: tutti i testi relativi alla donna gentile sono stati allegorizzati da Dante a
posteriori, per le ragioni che ho già illustrato nella prima parte; si distingue la Vita nuova dal
Convivio, ritenendo allegorico solo quest’ultimo, però ci si scontrerebbe con l’inadeguatezza
della figura della “gentile” della Vita nuova rispetto al climax generale dell’opera; i caratteri
“formali” e “fattuali” delle due donne, molto simili, portano a vedere spessore allegorico nella
“gentile” già all’altezza della Vita nuova. Comunque si affronti la questione restano insanabili
contraddizioni. Si arriva allora ad ipotizzare una doppia redazione del finale della Vita nuova,
con un primitivo blocco all’altezza della donna gentile. E’ un fatto che Dante definisce
“vilissimo “ il pensiero per la gentile della Vita nuova e “virtuosissimo” quello per la gentile del
Convivio. Un abbozzo di spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che la morte di Beatrice
rispetto al fatto della gentile era troppo recente per lasciare spazio ad atteggiamenti diversi
(solo la ripulsa netta poteva essere accettabile), mentre il commento del Convivio - con la
clamorosa apertura della questione dell’allegoria da parte di Dante -, scritto dopo dieci anni
dal fatto doveva tenere conto anche di altre vicende che dovevano avere visto il poeta

166
protagonista sulla scena della “cortesia” - e che si erano riflessi nelle poesie (ovviamente
pensiamo anche alle estravaganti delle Rime) -, dando di lui quell’immagine che ora gli pesava.
La gentile del Convivio richiedeva un approccio diverso, più consono alla sua identificazione
tout court con la filosofia. Qualche problema Dante lo ha avuto comunque al tempo della
ballatetta (gli atteggiamenti “feri e disdegnosi” di una sua donna), sulla quale è intervenuto in
due delle tre canzoni del Convivio. Dilungarmi ancora sulla questione vorrebbe dire
riprendere gran parte degli argomenti già trattati nella prima parte. Meglio procedere. Sono
convinto che solo terminando il percorso sia possibile sbrogliare l’intricata matassa.

là ovunque questa donna mi vedea, sì si facea d’una vista pietosa e d’un colore palido quasi come
d’amore; onde molte fiate mi ricordava de la mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava
tuttavia. E certo molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia tristizia, io andava per vedere
questa pietosa donna (XXXVI).
Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di
vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai. Onde più volte
bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensiero: “Or voi solavate fare piangere
chi vedea la vostra dolorosa condizione, e ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi
mira; che non mira voi, se non in quanto le pesa de la gloriosa donna di cui piangere solete; ma quanto
potete fate, ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maledetti occhi, che mai, se non dopo la morte,
non dovrebbero le vostre lagrime avere restate” (XXXVI).

Certamente anche qui può essere possibile pensare, come per il Convivio, ad una veste
allegorica delle poesie (poesie che qui tralascio per l’oggettiva fedeltà del commento
prosastico e la sua maggiore efficacia esplicativa) che nasconda il tanto conclamato nuovo
interesse per lo studio della filosofia. In questo senso potrebbe andare anche l’intenso parlare
che Dante fa degli occhi arrossati e più o meno lacrimosi, pensando a quanto dirà nel Convivio
di una malattia che li colse per il troppo leggere di sera e che lo costrinse a starsene molto al
buio in luoghi freddi fino al recupero della vista. Ma, come accade con certe figure che, per
gioco, ne racchiudono altre ben diverse, oppure certe immagini che, per un effetto di
ombreggiatura, appaiono indifferentemente in rilievo, oppure incavate, a seconda del
momento, così è per l’allegoria della filosofia. C’è, ma può anche non esserci, il riferimento alla
filosofia come consolazione delle pene dell’animo, che, per il suo intrinseco interesse,
allontana Dante dai dolci ricordi, e viene così vista con perplessità e timore. Ma lo spunto ai
sonetti può essere stato un fatto realmente accaduto, l’atteggiamento pietoso di una qualche
donna (una delle tante a cui Dante si era rivolto) nei suoi confronti, che gli aveva dato l’idea di
una veste “cortese” a lui molto consueta, e risonante pure di un significato allegorico che non
si sentiva, e forse neppure lo interessava, di approfondire poeticamente in modo diretto.
Dopo tanto rivolgersi “alle donne” non c’è da meravigliarsi che una di esse lo abbia potuto
colpire per il suo atteggiamento comprensivo. Ciò non esclude che nel contempo Dante si sia
dedicato agli studi filosofici con una punta di timore e di rimpianto, almeno iniziali, rispetto a
una iniziativa che, per l’impegno che richiedeva, poteva allontanarlo dalla sua totalizzante,
mortifera e vivificante al tempo stesso, dipendenza da Beatrice.

Molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse; e pensava di lei così: “Questa è una
donna gentile, bella, giovane e savia, e apparita forse per volontade d’Amore, acciò che la mia vita si
riposi” […] e dicea fra me medesimo: “Deo, che pensero è questo, che in così vile modo vuole consolare
me e non mi lascia quasi altro pensare? [...] Or tu se’ stato in tanta tribulazione, perché non vuoli tu
ritrarre te da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li disiri
d’amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte com’è quella de li occhi de la donna che tanto pietosa
ci s’hae mostrata” […] dissi questo sonetto, lo quale comincia: Gentil pensero; e dico “gentile” in quanto
ragionava di gentile donna, che per altro era vilissimo (XXXVIII).

167
I rapporti fra i sonetti di questo periodo della Vita nuova e la canzone Voi che ’ntendendo il
terzo ciel movete del Convivio sono strettissimi e fittissimi, come notano tutti gli interpreti,
autorizzando il pensiero che possano risalire allo stesso periodo. Ma in tutti i sonetti è
centrale l’idea di viltà e tradimento legata al nuovo innamoramento, che nella Vita nuova verrà
ben presto rifiutato, mentre verrà invece esaltato nel Convivio, diventando la “donna gentile”
veste allegorica della filosofia.

Contra questo avversario della ragione si levoe un die, quasi ne l’ora de la nona, una forte
imaginazione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne con
le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami giovane in simile etade in quale io prima la vidi […] lo
mio cuore cominciò dolorosamente a pentere de lo desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato
possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione: e discacciato questo cotale malvagio
desiderio, sì si rivolsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice. E dico che d’allora
innanzi cominciai a pensare a lei sì con tutto lo vergognoso cuore, che li sospiri manifestavano ciò
molte volte […] si raccese lo sollenato lagrimare […] per lo lungo continuare del pianto, dintorno loro
si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva… Onde io
volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentazione paresse distrutto […] dissi (XXXIX):

[…] gli occhi son vinti, e non hanno valore


di riguardar persona che li miri
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
elli hanno in lor li dolorosi
quel dolce nome di madonna scritto,
e de la morte sua molte parole.

Si evidenzia qui la “insormontabile” difficoltà di conciliare l’esperienza della donna gentile


“pietosa e umile, saggia e cortese” non solo con i sintagmi “malvagio” e “vana tentazione”, ma
anche con la natura dei desideri di Dante visti come irriducibili nemici della ragione (là dove il
malvagio e vile desiderio lotta contro “la costanzia de la ragione”). L’ambiguità di fondo non
consente di dipanare razionalmente il problema, certamente se non avessimo il posteriore
Convivio, tanti problemi di interpretazione sul finale della Vita nuova non sarebbero sorti.
Superata, così ci dice il poeta, la questione della donna gentile, è un Dante nuovo quello che
si accinge a concludere l’iter della Vita nuova. Dopo un rapido passaggio per mostrare il suo
nuovo atteggiamento nei confronti del mondo esterno, un atteggiamento di interesse, la voglia
non taciuta di dire al mondo - qui le masse dei pellegrini venuti in città per la settimana santa
e la visita ad una riverita immagine del Cristo - la storia straordinaria di Beatrice, gloria di
Firenze, ritorna il colloquio privilegiato con le “donne”:

Poi mandaro due donne gentili a me pregando che io mandassi loro di queste mie parole rimate; onde
io, pensando a loro nobilitade, propuosi […] di fare cosa nuova, la quale io mandassi a loro con esse […]
e dissi allora uno sonetto lo quale narra del mio stato (XLI).

Oltre la spera che più larga gira


passa ’l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur su lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ’l mi ridice,

168
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo intendo ben, donne mie care.

Dante ha affrontato un tema nuovo, ma ricco di prospettive: Beatrice in cielo, che il suo
spirito, pieno di desiderio, nostalgia e riverenza, s’immagina di raggiungere, traendone
confuse sensazioni. Comincia ad aprirsi l’immaginario che diventerà la sostanza della
Commedia.

Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero
proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di
lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì come ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di
colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che
mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa
gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira
ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus (XLII).

La visione non è specificata, e pare più che altro un artificio poetico per aprire alla promessa
- questa molto concreta e di enorme spessore, anche umano - di un futuro dedicato alla
memoria di Beatrice. C’è il presentimento di un grande lavoro a cui è destinato, del quale
sembra avere intravisto le coordinate, e per il quale già si sta preparando, mentre si evidenzia
un parziale collegamento con lo spirito del futuro Convivio. Ma il seme della Commedia è stato
gettato, il Convivio dovrà arrendersi a lei.

Beatrice e le altre

L’oggettiva scarsità di notizie biografiche relative a Dante Alighieri rende giustificato anche
il ricorso ad un’opera particolare, il Trattatello in laude di Dante clxiii, lavoro giovanile del
Boccaccio. Anche se lo stesso autore lo definì scritto “in stile assai umile e leggero, però che
più alto non mi presta lo ingegno”, oltre a notizie di vario genere di interesse letterario e
storico, contiene un ritratto, anche caratteriale, del poeta ed estemporanee considerazioni sul
suo matrimonio con Gemma Donati, questione che costituisce certamente un grosso punto
interrogativo nella vita di Dante. Dice il Boccaccio che Dante conosce Beatrice a nove anni non
ancora compiuti, accompagnato dal padre ad una festa del maggio in casa di Folco Portinari,
un ricco commerciante fiorentino. Beatrice aveva fattezze delicate e piene di tanta onesta
vaghezza che la facevano reputare un angioletto. Le fiamme amorose moltiplicarono in Dante
con l’età . Trascurando ogni altro affare, desiderava solo vedere lei “quasi del viso o degli occhi
di lei dovesse attingere ogni suo bene e intera consolazione”. Mai si manifestò , per sguardo,
parola o cenno alcun libidinoso appetito: “onestissimo fu questo amore”. Alla sua morte Dante
ne fu tanto colpito, che si temette la potesse seguire. Piangeva continuamente. Diventò
selvatico, magro e barbuto. Faceva compassione. I parenti cercarono d’aiutarlo e gli trovarono
moglie. Il matrimonio divenne pesante per Dante che doveva spesso lasciare i suoi amati
studi. Boccaccio compiange la sorte di Dante: “Certo io non affermo queste cose a Dante essere
avvenute che nol so […] una volta da lei partitosi, che per consolazione de’ suoi affanni gli era
stata data, mai né dove ella fosse volle vernire, né sofferse che là ove egli fosse ella venisse
giammai; con tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente […] Lascino i
filosofanti lo sposarsi a’ ricchi stolti, a’ signori e a’ lavoratori, e essi con la filosofia si dilettino,
molto migliore sposa che altra”clxiv.

169
“La familiare cura trasse Dante alla pubblica […] Quasi tutto al governo della città si diede”.
Quando venne scacciato dalla città e costretto all’esilio, lasciò la moglie e i figli piccoli a
Firenze. La moglie è al sicuro perchè legata alla importante famiglia dei Donati, i capi della
parte avversa a Dante. Qualche proprietà - la dote della moglie - è stata salvata dalla rabbia
cittadina e consente alla famiglia di vivere.
Per avere un quadro più completo della personalità di Dante, con particolare attenzione agli
aspetti affettivi e amorosi in lui così predominanti, sarà opportuno gettare uno sguardo, che
difficilmente potrà essere meno che superficiale, sul resto della sua produzione poetica - dalle
rime giovanili alle canzoni della maturità - non accolta nei due prosimetri, Vita nuova e
Convivio. Sono le rime cosiddette “estravaganti”, anch’esse nella quasi totalità di contenuto
amoroso. Le Rime costituiscono un corpo a sè, utilissime perchè fiancheggiando le opere
esaminate fin’ora e offrendo spesso un punto di vista diverso, impongono considerazioni
corretive e aggiuntive, quando non contraddittorie rispetto a quelle affidate dall’autore alle
opere organiche di più ampio respiro.

Per le Rime manca, come è noto, un ordinamento dell’autore. Le cronologie sono incerte,
una lettura unitaria diventa problematica. Quella che può essere tentata, a detta del Contini, è
solo una “cronologia ideale”; nella lirica di Dante non appare “uno sviluppo stilistico chiaro e
distinto, ma un processo d’inquietudine permanente”.
Nella replica a Dante da Maiano (4ª estravagante nell’ordinamento continiano ripreso dal
Cudiniclxv), un rimatore di buona fama con il quale, in età molto giovanile, si cimenta in una
tenzone poetica su quale sia il maggior dolore in amore, il nostro sostiene che non ci si deve
opporre ad Amore, anzi lo si deve compiacere e seguire mettendo in campo “Savere e cortesia,
ingegno ed arte, / nobilitate, bellezza e riccore, / fortezza e umilitate e largo core, / prodezza
ed eccellenza”. L’amore lo attrae, e la battaglia amorosa non lo spaventa. Si mostra un perfetto
vagheggino, un concentrato di virtù cortesi. Ed è su queste premesse psicologiche e
caratteriali che prende avvio la storia amorosa di Dante. Nato per amare.
7 - La dispietata mente, che pur mira
Canzone per una donna lontana che ha fatto innamorare Dante. Lui è titubante, le si rivolge
con timore. Si dichiara, ma non è sicuro dell’animo di lei. Le chiede di inviarle un saluto
“amoroso”. Non sembra un tipo da donna-schermo, e tantomeno Beatrice. Una delle tante?
Dante è fuori Firenze. Scrive alla bella di turno.
8 - Non mi poriano già mai fare ammenda
Dante a Bologna, ammirando la torre Garisenda, non notò il passaggio di una donna di
insigne belleza. Sicuramente anteriore al 1287, Beatrice morirà nel 1290. Potrebbe essere
anche di molto anteriore. Seguono altre liriche tutte improntate ad uno spirito “leggero”, da
amoroso. Veramente “cortese” il Dante giovane.
16 - Com più vi fere Amor co’ suoi vincastri
“Com più vi fere Amor co’ suoi vincastri, / più li vi fate in ubidirlo presto, / ch’altro consiglio,
ben lo vi protesto, / non vi si può già dar”. Dante, esperto di cose dell’amore, eroga consigli e
sprizza ottimismo da tutti i pori.
19 - Ne le man vostre, gentil donna mia
Sonetto che avrebbe potuto figurare nella Vita nuova. Dante, disperato per amore, brama la
morte e chiede compassione.
20 - E’ m’incresce di me sì duramente
Bella canzone che ricalca andamenti già presenti nella Vita nuova. Dante si rivolge alle
donne come in Donne ch’avete intelletto d’amore, ma il tono è più sconsolato, con accenti
molto critici verso quella – Beatrice - che “mai non fu pietosa” e che “per lo mirare intenso
ch’ella fece” lo aveva fatto innamorare. Il tono della lode è assente, doveva ancora maturare.
Dante è avvilito, sconfitto e irato.
170
21 - Lo doloroso amor che mi conduce
Beatrice gli ha tolto il saluto, Dante è sconvolto: “[…] quella / che lo mio cor solea tener
gioioso, / m’ha tolto e toglie ciascun dì la luce / che avëan li occhi miei di tale stella […] Per
quella moro c’ha nome Beatrice […] Morte, che fai piacere a questa donna, / per pietà , innanzi
che tu mi discigli, / va’ da lei, fatti dire / perchè m’avvien che la luce di quigli / che mi fan
tristo, mi sia così tolta: / se per altrui ella fosse ricolta, falmi sentire, e trarra’mi d’errore, / e
assai finirò con men dolore”.
L’esclusione dalla Vita nuova delle ultime tre liriche (19,20,21), chiaramente riferite a
Beatrice (in 21 c’è anche il suo nome), appare motivata, credo, dal loro carattere accesamente
sconfortato e dispiaciuto. Ci sono toni di rimprovero anche pesanti che a posteriori
contrastavano con il piano di Dante, che intendeva, sulla vicenda amorosa che tanto lo aveva
segnato, costruire anche la sua opera futura. La beatificazione di Beatrice non consentiva
immagini di lei che in qualche misura ne davano un ritratto controverso, fatto di luci ma anche
di ombre, rimpianti e accuse. Beatrice doveva essere presentata purissima, senza macchia
alcuna. Lo doloroso amor che mi conduce arriva a chiedere alla morte “che fa piacere a questa
donna” di domandarle perchè non lo voglia più vedere, e se per caso il suo amore fosse ora
rivolto ad altri. Sofferente di amore rifiutato, getta un ponte verso l’altra vita (è disposto
anche alle pene dell’inferno) quando Dante potrà avere la gioia di liberamente contemplare la
donna amata, e avere da Amore il dovuto riconoscimento per tanta dedizione. Trova avvio
quel concetto di “amore gratuito” che lo caratterizzerà nel prosieguo. E’ il seme della “loda”.
Col progredire del sentimento amoroso si affina sempre più il lavoro del poeta. E’ lo
“stilnovo”. L’estrema cura della veste delle liriche, ne fa apparire quasi secondario il
contenuto, pure tanto cogente e convincente. Il genio del poeta trova continuamente nuove
forme espressive, e riesce mirabilmente a fondere la rigorosità del tema amoroso con le più
nuove ed entusiastiche invenzioni poetiche. C’è da chiedersi come potesse Dante, che si
dipinge prossimo a morire per amore, lavorare con tanta passione e studiata competenza.
Possiamo pensare che certamente il sentimento per Beatrice è stato totalizzante, in una vita
giovanile del poeta ricca di propensione verso l’amore e le donne, ma anche era tema
prescelto di visione poetica e in esso Dante aveva anche la capacità di astrarre. Un grande
amore per un grande poeta.
29 - Voi che savete ragionar d’Amore
E’ la “ballatetta” famosa che, dieci anni dopo nel Convivio, darà tante preoccupazioni a
Dante, citata com’è in due delle tre canzoni commentate. Dante era preoccupato che potesse
mettere a rischio la credibilità della rivendicata allegoria donna gentile-filosofia. Si parla di
una donna “disdegnosa” e “fera”, sdegnosa e feroce, che gli ha tolto il cuore, e così sarà stata
certo interpretata dai contemporanei. Dante dirà che intendeva anche qui significare la
filosofia, assieme alle difficoltà che aveva incontrato nello studio. Chiude esprimendo
speranza per il futuro. Che dire che non sia già stato detto in precedenza? Certo Dante temeva
che potesse essere stata fraintesa (ne aveva ben donde!), eppure a posteriori la spiegazione
allegorica, a fronte di una certa astrattezza della ballata e alla mancanza di partecipazione
emotiva da parte del poeta nei confronti di una situazione dai contenuti difficilmente
definibili, può trovare consenso. Torna la mia domanda: ma allora per chi scriveva Dante?
30 - Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato
Un Dante che si dichiara libero da legami amorosi, “disamorato”, dedica una lunga canzone
al tema della “leggiadria” e delle virtù cortesi. Sarebbe potuta entrare nel Convivio, come
quella sulla vera nobiltà , se il libro fosse stato portato a compimento: contro quelli che “non
sono innamorati / mai di donna amorosa […] non moveriano il piede / per donneare a guisa di
leggiadro […] vanno a pigliar villan diletto”. Dante mostra qui un temperamento da dandy che
poco gli si addice; arriva a fare l’elogio dei “bei sembianti” e dei “begli atti novi”, e descrive il
perfetto vagheggino: “Già non s’induce a ira per parole, / ma quelle sole / ricole che son bone,
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e sue novelle / sono leggiadre e belle; / per sè caro è tenuto / e disiato da persone sagge […]
per nessuna grandezza / monta in orgoglio”.
31 - Parole mie che per lo mondo siete
Sonetto fondamentale per gettare un po’ di luce sulle vicende amorose di Dante dopo la
morte di Beatrice. Un esplicito riferimento (v. 4) a Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete,
canzone coeva al sonetto e che sarà poi la prima canzone del Convivio - e conclamata
allegorica da Dante: la donna gentile è la filosofia - mostra quanto possa essere giustificato
definire un mascheramento a posteriori la questione dell’allegoria. Qui c’è una donna che ha
fatto “errare” Dante, che si ripropone di non più rimare per lei. Perché in lei non c’è amore.
L’ha deluso. E’ l’addio alla donna gentile (o altra probabilmente posteriore) di carattere
sdegnoso (le sue preferite!) che lo ha fatto soffrire e lo ha respinto. L’aggancio esplicito a Voi
che ’ntendendo, attorno ad una figura di donna qui molto concreta, fa soffrire
irrimediabilmente la tesi allegorica.
32 - O dolci rime che parlando andate
L’incredibile sonetto, la “palinodia” di quello precedente (Rime 31), smentisce tutto quanto
ivi affermato. Deve essere successo qualcosa, oppure non ha resistito al pensiero del vuoto
che gli si prospettava. Dante è pentito e vinto dall’amore. Parla del sonetto Parole mie: “… Io vi
scongiuro che non l’ascoltiate, / per quel signor che le donne innamora, / ché ne la sua
sentenza non dimora / cosa che amica sia di veritate”. L’alzata di scudi è ritirata: “Ov’è ’l disìo
de li occhi miei?”. E’ un bel romanzo. Se fosse solo questione di allegorie che nascondono altro
tutto questo che senso avrebbe? Certo di chiacchiere ne devono essere girate parecchie.
33 - Due donne in cima de la mente mia
Una metaforica disputa tra Bellezza e Virtù : “l’una ha in sè cortesia e valore […] l’altra ha
bellezza e vaga leggiadria […] Parlan Bellezza e Virtù a l’intelletto / e fan quistion come un cor
puote stare / intra due donne con amor perfetto. / Risponde il fonte del gentil parlare
/ch’amar si può bellezza per diletto / e puossi amar virtù per operare”.
All’attenzione ora un nutrito gruppo di liriche, ben cinque e tutte datate fra il 1290 e il 1300,
ruotanti attorno allo stesso argomento: l’amore per una “pargoletta”. Questa figura si collega
con Purgatorio XXXI, 58-60, che verrà esaminato in chiusura. Alla ricerca del senso di questa
relazione e del possibile ruolo giocato nella vita del poeta, procedo al solito attraverso una
selezione di passi significativi.
34 - I’ mi son pargoletta bella e nova
L’entrata in scena è tranquillizzante, la giovane è una belleza celeste che spande attorno la
sua grazia: “I’ fui del cielo […] e chi mi vede e non se ne innamora / d’amor non averà mai
intelletto”. Temi stilnovistici già usati con Beatrice per definire un incontro fatale. “Queste
parole si leggon nel viso / d’un’angioletta che ci è apparita; / e io, che per veder lei mirai fiso, /
ne sono a rischio di perdere la vita […] ch’i’ vo piangendo e non m’acchetai pui”. Quel “ci”
intriga: è riferito a noi terrestri, in contrapposizione all’origine celeste di lei, o, più
prosaicamente, dobbiamo figurarci i commenti di un gruppo di “leggiadri”, fra cui Dante,
sull’avvenenza di una qualche sconosciuta giovinetta?
35 - Perché ti vedi giovinetta e bella
Già le cose sono cambiate: “pres’hai orgoglio e durezza nel core./ Orgogliosa se’ fatta e per
me dura, / po’ che d’ancider me, lasso, ti prove […] Ma perché preso più ch’altro mi trove, /
non hai respetto alcun del mi’ dolore”. Siamo alle solite. O trattasi in realtà ancora della stessa
“fera” e “disdegnosa” della famosa ballatetta?
36 - Chi guarderà già mai sanza paura
Sempre a rischio di morire per la passione, con toni qui molto letterari e astratti: “li occhi
d’esta bella pargoletta,/ che m’hanno concio sì che non s’aspetta / per me se non la morte, che
m’è dura? [...] la mia vita eletta / per dare essemplo altrui ch’uom non si metta / in rischio di
mirar la sua figura […] lasso, fu’ io così ratto / in trarre a me ’l contrario de la vita”.
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37 - Amor, che movi tua vertù dal cielo
Ancora la pargoletta. Canzone dottrinale: “Per questo mio guardar m’è ne la mente / una
giovane entrata, che m’ha preso / e hagli un foco acceso”. Dante si dilunga a teorizzare
sull’amore, principio attivo che rende operanti le potenzialità insite nell’uomo nobile: “sanza
di te è distrutto / quanto avemo in potenzia di ben fare”; giustifica la sua propensione verso le
donne: “l’anima mia fu fatta ancella / de la tua podestá [di Amore, n.d.r.] primeramente; /
onde ha vita un disìo che mi conduce / con sua dolce favella / in rimirar ciascuna cosa bella /
con più diletto quanto più è piacente”. Chiede aiuto ad Amore: “Falle sentir, Amor, per tua
dolcezza, / il gran disìo ch’i’ ho di veder lei; / non soffrir che costei / per giovanezza mi
conduca a morte: / che non s’accorge ancor com’ella piace, / né quant’io l’amo forte”. Dante si
riconosce “schiavo d’amore” per elezione. Riconosce la sua infelicità e debolezza ma non si
scaglia contro la donna, della quale riconosce la potenza, i meriti e il diritto a signoreggiarlo.
Tutto si concretizza, sembra, nel suo poterla “guardare” e così disperarsi.
38 - Io sento sì d’Amor la gran possanza
L’ultima canzone del gruppo della “pargoletta”. Tutto vi si riconferma, con tono dottrinale,
estrema cura formale, e una volontà esplicita di dare giustificazione morale al conclamato
totale asservimento. Dante lo definisce volontà di “servizio”: “tanto l’amo / che sol per lei
servir mi tegno caro […] Ben è verace amor quel che m’ha preso, / e ben mi stringe forte […]
nullo amore è di cotanto peso / quanto è quello che la morte / face piacer, per ben servire
altrui […] e io son tutto suo: così mi tegno / ch’Amor di tanto onor m’ha fatto degno […] quella
che non s’innamora, / ma stassi come donna a cui non cale / de l’amorosa mente / che senza
lei non può passare un’ora”. Siamo alle solite, quando Dante ama, ama totalmente, follemente.
E la povera Gemma? I suoi interlocutori sono ora gli amici del suo gruppo poetico, in chiusura
si rivolge a loro, con lo spirito del martire che sta soffrendo stoicamente le pene d’amore di chi
è in servizio permanente di testimonianza dei valori della “leggiadria” e della “cortesia”.
Arriva a rimbrottare aspramente qualcuno, che sembra possa essere Guido Cavalcanti, perché
frequenterebbe cattive compagnie e si è allontanato da lui, l’unico candido del gruppo, quello
che in nome del “servizio” e dell’amore “gratuito”, con la sua sudditanza e la sua sofferenza,
paga - verrebbe da dire per tutti - il doveroso e nobilitante tributo all’Amore e alla Bellezza.
43 – Io son venuto al punto de la rota
E’ la prima delle “petrose”, un gruppo di quattro canzoni dal contenuto omogeneo,
contraddistinte da grande energia e forza evocativa. Una densità di linguaggio che si ritroverà
nella Commedia. C’è chi ha parlato di artificiosità delle “petrose”, sottovalutandone, come
spesso viene fatto a proposito di Dante, i contenuti. Personalmente le ritengo fra le sue cose
migliori, di una stupefacente modernità . Non è qui questione di individuare chi possa essere
questa “donna petra”, è chiaro che Dante si affida alla parola che meglio esprime, a suo avviso,
il carattere freddo e duro della donna che si trova comunque vicino. Tanti elementi
consentono di pensare che possa trattarsi ancora della “pargoletta”, in una fase del rapporto
caratterizzato da stanchezza, difficoltà e mancanza assoluta di prospettive. Dante si accanisce
contro un blocco di ghiaccio, una pietra, appunto, fredda e distante, che continua nonostante
tutto a soggiogarlo. Siamo attorno a Natale del 1296 (gli elementi per la datazione sono
all’interno della canzone), a metà strada fra la morte di Beatrice e l’esilio. Dante ribadisce il
suo sofferto amore per una donna “c’ha picciol tempo”. Tutt’attorno è gelo invernale, la natura
è inclemente e priva di ogni vita. Dante rimugina sulla sua infelicità : “ […] e la crudele spina /
però Amor di cor non la mi tragge; / per ch’io son fermo di portarla sempre / ch’io sarò in vita,
s’io vivesse sempre. […] e io de la mia guerra / non son però tornato un passo a retro, / né vo’
tornar; ché, se ’l martiro è dolce; / la morte de’ passare ogni altro dolce. / Canzone, or che sarà
di me […] se in pargoletta fia per core un marmo”.
44 – Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra

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L’inverno sta passando, la natura comincia a risvegliarsi, Dante però si vede, con una
metafora derivata dal mondo della natura, arrivato ormai al declino: “Al poco giorno e al gran
cerchio d’ombra / son giunto, lasso, ed al bianchir de’ colli, / quando si perde lo color ne
l’erba: / e ’l mio disio però non cangia il verde, / sì è barbato ne la dura petra / che parla e
sente come fosse donna”. La descrive: “Similmente questa nova donna / si sta gelata come
neve all’ombra: /chè non la move, se non come petra,/ il dolce tempo che riscalda i colli […]
Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba, / trae de la mente nostra ogn’altra donna / perché
si mischia il crespo giallo [i capelli biondi, n.d.r.] e ’l verde / sì bel, ch’Amor lì viene a stare a
l’ombra, / che m’ha serrato intra piccioli colli [i seni di lei, n.d.r.], più forte assai che la calcina
petra […] Io l’ho veduta già vestita a verde, / sì fatta ch’ella avrebbe messo in petra [avrebbe
fatto innamorare anche i sassi, n.d.r.] / l’amor ch’io porto pur a la sua ombra: / ond’io l’ho
chiesta in un bel prato d’erba, / innamorata com’anco fu donna, / e chiuso intorno d’altissimi
colli”. Dante confessa di averla supplicata di darsi a lui con ardore: “Ma ben ritorneranno i
fiumi a’ colli / prima che questo legno molle e verde / s’infiammi, come suol far bella donna, /
di me”. Chiude con un’immagine che si imprime nella memoria: “Quandunque i colli fanno più
nera ombra, /sotto un bel verde la giovane donna / la fa sparer, com’uom petra sott’erba”.
Come dimenticare questo vestito verde e la donna riottosa, in una fantasmagorica scena di
prati e colli all’imbrunire? Una donna disumana, che pure deve essergli stata prossima per
lungo tempo, che si muove attorno col suo vestito verde cancellando al suo passaggio,
annullando, ombre, cose e persone. E Dante stesso si vede infine sepolto in quell’ombra, sotto
l’erba sormontata dalla pietra tombale.
45 - Amor, tu vedi ben che questa donna
“Petrosa” estremamente complessa negli schemi di rima che successivamente lo stesso
Dante, nel De vulgari eloquentia, pur giudicandola nuovissima, criticherà per l’inutile
complicatezza, dannosa al senso logico. Solo cinque parole-rima (donna, petra, freddo, luce,
tempo) vengono utilizzate, con alternanza di significati e di sfumature, nelle cinque sestine
doppie. Il tema è il solito: il lamento sulle freddezza della sua amata. Si rivolge direttamente
ad Amore: “ […] E io, che son costante più che petra / in ubidirti per bieltà di donna, / porto
nascoso il colpo de la petra / con la qual tu mi desti come a petra / che t’avesse innoiato lungo
tempo […] Da li occhi suoi mi ven la dolce luce / che mi fa non caler d’ogni altra donna: / così
foss’ella più pietosa donna / ver’ me, che chiamo di notte e di luce, / solo per lei servire, e
luogo e tempo. / Né per altro disìo viver gran tempo. […] entrale in cor omai, ché ben n’è
tempo, / sì che per te se n’esca fuor lo freddo”. Una nota nuova nel congedo della canzone:
“Canzone, io porto ne la mente donna / tal che, con tutto ch’ella mi sia petra, / mi dà baldanza,
ond’ogni uom mi par freddo”; Dante esprime qui la sua sorpresa per tanto amore a fronte di
tanta indifferenza, ma anche una sorta di compiacimento. E’, credo, la reazione tipica degli
uomini veramente innamorati che, pur consapevoli di essere usciti di senno e di rischiare di
farsi travolgere, restano stupiti e orgogliosi della forza del loro sentimento, che li differenzia
dalla massa dei pavidi. Ci sono tutti i segni dell’amore infelice, ma anche la fierezza del
coraggio del cuore e il riconoscimento di vivere, pur nella sofferenza, la forza invincibile, rara
e preziosa dell’amore.
46 - Così nel mio parlar voglio esser aspro
Forse la petrosa più potente, dove il sentimento amoroso di Dante prorompe oltre la
confessione della sofferenza che gli causa la durezza del cuore di lei, arrivando fino a dare
sfogo alle sue fantasie erotiche: “Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è ne li atti questa
bella petra […] non esce di faretra / saetta che già mai la colga ignuda; / ed ella ancide […] Non
trovo scudo ch’ella non mi spezzi / né loco che dal suo viso m’asconda”. Dopo le metafore
guerresche si rivolge direttamente ad Amore: “Ahi angosciosa e dispietata lima / che
sordamente la mia vita scemi, / perchè non ti ritemi / sì di rodermi il core a scorza a scorza?”.
Riprende la metafora guerresca: “E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra […] Amore, a cui io
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grido / merzè chiamando […] Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida / la debole mia vita, esto
perverso, / che disteso a riverso / mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco: / allor mi surgon ne
la mente strida […] allor dico: “S’elli alza / un’altra volta, Morte m’avrà chiuso”.
Le due strofe finali e il congedo sono tutte rivolte alla donna, petra o pargoletta che sia, con
una fantasia accesissima, un “unicum” nell’opera di Dante, che trasuda passione repressa,
erotismo al massimo livello, voglia di ferire e desiderio di ritrovata armonia. La novità del
contesto e la bellezza dei versi richiedono una citazione completa:

[...] Così vedess’io lui fender per mezzo


lo core a la crudele che ’l mio squatra;
poi non mi sarebb’ atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro:
ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Omè, perché non latra
per me, com’io per lei, nel caldo borro?
ché tosto griderei: “Io vi soccorro”;
e fare’l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
metterei mano, e piacere’le allora.

S’io avessi le belle trecce prese,


che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace.

Canzon, vattene dritto a quella donna


che m’ha ferito il core e che m’invola
quello ond’io ho più gola,
e dà lle per lo cor d’una saetta:
che bell’onor s’acquista in far vendetta.

Dal Trattatello del Boccaccio:

Tra cotanta virtù , tra cotanta scienza, quanta dimostrata è di sopra essere stata in questo mirifico
poeta, trovò amplissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi. Il
quale vizio, come che naturale e comune e quasi necesario sia, nel vero non che commendare, ma
scusare non si può degnamente. Ma chi sarà tra mortali questo giudice a condannarla? Non io. Oh poca
fermezza, oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femine in noi, s’elle vogliono, che,
eziandio non volendo, possono gran cose?clxvi

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Seguendo il consiglio del Boccaccio, meglio non “commendare”. Si può forse dire, dopo aver
sottolineato la riconosciuta scarsa affidabilità generale del testo giovanile del Boccaccio, che
qualche informazione, anche di prima mano, Boccaccio deve averla avuta, basterebbe pensare
che Boccaccio ha studiato legge a Napoli dove ebbe per insegnante proprio Cino da Pistoia,
che di Dante è stato quasi un epistolare compagno di merende. Anche la controversa notizia
che Boccaccio ci ha tramandato sul viaggio in età matura di Dante a Parigi, per studiarvi
teologia, vi troverebbe una qualche conferma nel fatto che il padre dell’autore del Decamerone
era stato a Parigi “dove ancora si ricordavano di Dante”. Per che cosa non viene detto.
47 - Tre donne intorno al cor mi son venute
Canzone, composta nel primo esilio, dal palese, anche se certamente non chiaro, impianto
allegorico. Parla di tre donne, bellissime e dolenti, che vengono al cuore del poeta. Vogliono
dialogare con lui, in presenza di Amore, che è, dice Dante, “in signoria della sua vita”:
“Ciascuna par dolente e sbigottita / come persona discacciata e stanca […] Tempo fu già nel
quale, / secondo il lor parlar furon dilette, / or sono a tutti in ira ed in non cale […] Dolesi
l’una con parole molto, / e ’n su la man si posa / come succisa rosa: / il nudo braccio, di dolor
colonna / [l’immagine spopolerà nell’universo preraffaellita, n.d.r.] […] discinta e scalza, e sol
di sè par donna. / Come Amor prima per la rotta gonna / la vide in parte che il tacere è bello
[…] son Drittura; / povera, vedi, a panni ed a cintura”.
Questa donna, lo ha spiegato successivamente il figlio Pietro, rappresenta la Giustizia divina,
l’altra più giovane “che s’asciuga con la treccia bionda”, e a lei sottoposta, è la Giustizia umana,
la terza rappresenta la Legge. Amore ascolta rattristato e confuso poi trae le sue amareggiate
conclusioni: “Larghezza e Temperanza e l’altre nate / del nostro sangue mendicando vanno
[…] piangano gli occhi e dolgasi la bocca / de li uomini […] noi, che semo de l’etterna rocca […]
noi pur saremo, e pur tornerà gente / che questo dardo farà star lucente”. E’ in sostanza il
lamento di Dante sul declino delle virtù cortesi, che tanto spazio hanno avuto nella sua vita.
Ora le illustri donne da lui cantate viaggiano sbrindellate e derise, e l’amore virtuoso è
negletto. Quanto a lui: “l’essilio che m’è dato, onor mi tegno […] cader co’ buoni è pur di lode
degno”.
Due punti credo meritino una riflessione particolare. A Dante era stato impedito, dopo
l’ambasceria a Bonifacio VIII, di ritornare a Firenze. Era stato bandito assieme agli altri
esponenti della parte bianca, la sua casa saccheggiata, le sue carte rovistate e disperse. La sua
intimità messa a nudo da gente “grossa” è riflessa certamente nell’immagine della donna
costretta a mostrare la sua più segreta nudità . Un Dante qui sincerissimo che non può
trattenere la sua rabbia e reagisce all’offesa. Rivendica poi le sue scelte politiche, anche se non
se ne fa più paladino. Seguono delle parole bellissime, ma di incerto significato. Sembra che
parli di Firenze, l’amata città che ha dovuto abbandonare, ma potrebbe riferirsi a
qualcos’altro: “E se non che de gli occhi miei ’l bel segno / per lontananza m’è tolto dal viso, /
che m’à ve in foco miso, / lieve mi conterei ciò che m’è grave. / Ma questo foco m’ave / già
consumato sì l’ossa e la polpa / che Morte al petto m’ha posto la chiave. / Onde, s’io ebbi colpa,
/più lune ha volto il sol poi che fu spenta, / se colpa muore perché l’uom si penta”. C’è
comunque voglia di perdono, c’è l’espressione di un rammarico, la dichiarazione di una
qualche colpa. Non manca l’allusione misteriosa: “Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom
mano, / per veder quel che bella donna chiude; / bastin le parti nude”.
Infine si rivolge alla parte a lui avversa: “li neri veltri, / che fuggir mi convenne, / ma far mi
poterian di pace dono. / Però nol fan che non san quel che sono […] il perdonare è bel vincer
di guerra”. Sembrano maturare qui le convinzioni che lo spingeranno a concepire il Convivio:
la necessità di dare una migliore immagine di sè e acquisire quel prestigio che possa aprirgli la
strada del ritorno.
Interessanti considerazioni sugli sviluppi del pensiero amoroso di Dante si possono
ricavare dall’esame di due distinti gruppi di sonetti che Dante e l’amico Cino da Pistoia si sono
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scambiati nel corso degli anni. Un primo gruppo vede - così credo, ma la cosa è contestata - i
due entrambi esiliati da poco tempo. Cino, che era stato dalla parte dei “neri”, fu esiliato da
Pistoia dal 1303 al 1306; Dante, “bianco”, è fuori di Firenze dal 1302. Cino si è innamorato di
una donna molto giovane, teme di scottarsi e chiede consiglio: “S’io levo gli occhi, e del suo
colpo perde / lo core mio quel poco che di vita / gli rimase d’un’altra sua ferita. / Che farò ,
Dante? ch’Amor pur m’invita”.
40a - I’ ho veduto già senza radice
Un Dante rinsavito e disilluso sconsiglia l’amico, col tono di chi la sa lunga, dal cercare
avventure con donne giovani: “Giovane donna a cotal guisa verde / tale per gli occhi sì a
dentro è gita / che tardi poi è stata la partita. / Periglio è grande in donna sì vestita: / però
[perciò ] l’affronto de la gente verde [giovane, n.d.r.] / parmi che la tua caccia non seguer de’ ”.
L’altra coppia di sonetti è a ruoli invertiti, Dante è angosciato per l’assenza di Amore e Cino
lo consola rammentandogli Beatrice.
41 - Perch’io non trovo chi meco ragioni
Un Dante sconsolato si lamenta di non avere nessuno con cui parlare d’amore, amore che
evidentemente è ancora in cima ai suoi pensieri: “Perch’io non trovo chi meco ragioni / del
signor a cui siete voi ed io”. Chiede scusa all’amico per il ritardo, ma la colpa è del “loco ov’i’
son, ch’è sì rio / che ’l ben non trova chi albergo li doni. // Donna non ci ha ch’Amor le venga
al volto, / né omo ancora che per lui sospiri; / e chi ’l facesse, qua sarebbe stolto. / Oh, messer
Cino, come ’l tempo è rivolto / a danno nostro e de li nostri diri, /da po’ che ’l ben è sì poco
ricolto”. Dante non può “donneare”, sperduto in qualche borgo del Casentino. Sempre alto
però lo stendardo della “cortesia”.
I sonetti del secondo gruppo scambiati con Cino appartengono sicuramente all’esilio ormai
consolidato. Ancora problema e scrupoli amorosi per l’amico, che chiede a Dante se il cuore
possa passare ad altra passione quando il primo amore divenga impossibile. Lo chiede
all’esperto.
50a - Io sono stato con Amore insieme
Dante risponde sottolineando l’ineluttabilità e la forza invincibile dell’amore: “Io sono stato
con Amore insieme / da la circulazion del sol mia nona, / e so com’egli affrena e come
sprona, / e come sotto lui si ride e geme”. Esplicito il riferimento alla sua storia con Beatrice.
“Però nel cerchio de la sua palestra / libero arbitrio già mai non fu franco, / sì che consiglio
invan si balestra […] e qual che sia ’l piacer ch’ora n’addestra, / seguitar si convien, se l’altro è
stanco”. Un Dante pragmatico, amareggiato e cinico, che non crede all’utilità dei consigli in
amore. Tanto vale seguire il proprio impulso.
51a - Degno fa voi trovare ogni tesoro
Dante risponde ad un sonetto che l’amico aveva inviato al marchese Moroello Malaspina,
signore di Lunigiana, per chiedere il suo aiuto in una questione di donne. Il marchese era stato
per un certo periodo in rapporti con Dante, che aveva trattato per suo conto una sorta di
armistizio con il vescovo di Luni; ora Dante risponde a Cino in suo nome. Il tono, leggermente
derisorio e denigratorio, rimarca la perdurante leggerezza dell’amico nelle faccende di cuore,
la forma è molto curata: “Degno fa voi trovare ogni tesoro / la voce vostra sì dolce e latina, /
ma volgibile cor ven disvicina, /ove stecco d’Amor mai non fe’ foro”. Parla poi di sè: “Io, che
trafitto sono in ogni poro / del prun che con sospir’ si medicina, / pur trovo la minera in cui
s’affina / quella virtù per cui mi discoloro”. Dice in sostanza che a lui il “materiale” non manca
(Cino aveva parlato di una donna che gli stava a cuore come di oro in una miniera). Chiude
dicendo a Cino, in modo brusco, che se la donna non lo asseconda è solo colpa della sua
volubilità .
52 - Io mi credea del tutto esser partito
Il tono è sentenzioso e distaccato, un Dante maturo che posa a grand’uomo che ha
abbandonato le quisquilie giovanili - anche certi modi di rimare che tanto lo avevano
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caratterizzato - , e che sta maturando altri programmi più corposi. Allude al Convivio, forse
anche alla Commedia. Un Dante dimesso, senza la cappa, che si è messo da parte, ma che
ancora ci tiene a mostrarsi esperto del campo e che, pur fuori dalla mischia, mostra ancora
interesse alle questioni amorose. Anche Cino, come Dante, era soggetto a rimproveri per
leggerezza e volubilità (e lo stesso Dante lo rimbrotta perchè continua a correre la cavallina -
evidentemente lui si sentiva ormai diverso - dandogli lezioni di virtuosità amorosa).
“Io mi credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino, / ché si conviene
omai altro cammino / a la mia nave più lungi dal lito, / ma perch’i’ ho di voi più volte udito /
che pigliar vi lasciate a ogni uncino, / piacemi di prestare un pocolino / a questa penna lo
stancato dito. // Chi s’innamora sì come voi fate, / or qua or là , e sè lega e dissolve, / mostra
ch’amor leggermente il saetti”. Cino risponderà onestamente ammettendo l’incostanza dei
suoi innamoramenti e quanto “a simil di beltate / in molte donne sparte” si diletti.
Colpisce l’incredibile consequenzialità dell’opera poetica di Dante. A ben guardare è un
“diario sentimentale”, con pochissimi elementi gratuiti. Non c’è fase conosciuta della vita del
poeta che non vi trovi rappresentazione. E ancor più lo sarebbe ove si potessero collocare
cronologicamente tutte le Rime, che del diario costituiscono certamente il tessuto più intimo e
coerente. Di questo tanti soloni poco si curano, ma questo fatto ha spinto sempre a cercare di
ricostruire la complessa figura del poeta e chiarire tempi e modalità delle sua vita e delle
circostanze. Questo stretto legame fra la vita e l’opera di Dante, pur a fronte di tanti tasselli
mancanti, non può essere sottovalutato, né tantomeno accantonato, ed è in fondo la strada
maestra da seguire per intendere anche le questioni di poetica ed esegetiche, con la
consapevolezza ovvia che trattasi pur sempre di opere di fantasia, e che Dante, come avrebbe
detto Curtius a Contini, “era un grande mistificatore”. Le liriche dantesche non sono mai
banalmente evocative, ma i temi trattati - pur tipici dell’epoca, e certamente elaborati anche
dagli altri rimatori - acquistano in Dante particolare forza, sostanza e peso narrativo ed
esprimono un insopprimibile legame con il Dante persona, recando sempre tracce palesi di
verità che ne fanno opere d’ingegno ma anche di testimonianza. Così nota il Cudini nella sua
introduzione alle Rime: “Non esiste mai in Dante un passaggio, una modulazione che non
abbia una giustificazione profonda” clxvii. Osservazioni queste che trovano le migliori conferme
in quella che viene tradizionalmente considerata l’ultima canzone di Dante, la cosiddetta
Montanina.
53 - Amor, da che convien pur ch’io mi doglia
La canzone accompagna una lettera (Ep IV) che Dante invia al marchese Moroello
Malaspina, signore di Lunigiana, al cui servizio aveva ricoperto incarichi di epistolografo.
Fenzi l’ha definita “uno dei casi più intriganti nel corpus delle Rime”; Dante nella lettera parla
di un ritorno impetuoso di Amore che lo ha distolto dagli studi (portandolo probabilmente ad
abbandonare l’avviato Convivio, a cui lavorava dal 1304). Dante dovrebbe ora trovarsi presso i
conti Guidi, nel Casentino. L’anno è il 1307. La lettera focalizza il momento particolare
dell’incontro, in riva all’Arno, con una donna “ai miei voti in tutto per costumi e bellezza
conforme”: “[…] Scorta la fiamma di questa bellezza, Amore tremendo e imperioso mi ebbe
suo […] Qualsiasi cosa era stata dentro di me a lui contraria o uccise, o sbandì, o imprigionò
[…] Uccise dunque quel proposito lodevole per cui mi tenevo lontano dalle donne e dai loro
canti, e cacciò empiamente come sospette le assidue meditazioni con le quali andavo
considerando le cose del cielo e della terra […] rese in catene il mio libero arbitrio […] Così
regna amore in me, non resistendogli alcuna virtù ; come mi governi cercate più sotto, fuori del
seno della presente lettera”. L’ “apparizione” vi viene enfatizzata al massimo, legata com’è a
manifestazioni straordinarie e terrifiche, fulmini e tuoni, che ne fanno un momento di enorme
impatto emotivo, ma a ben guardare Dante parla metaforicamente solo di un “colpo di
fulmine” amoroso, mentre il tuono è solo la subitanea consapevolezza acquisita dal poeta
dell’apertura di un nuovo periodo di totalizzante dipendenza amorosa.
178
La canzone ignora l’atmosfera della lettera e tratta della realtà in atto di un amore molto
forte che già possiede Dante, con toni e anche espressioni che ricordano la “fera e disdegnosa”,
la pargoletta e la donna delle “petrose”, ma senza i virtuosismi esasperati che le
caratterizzavano. La donna non può essere la stessa, non sembra tanto giovane, ma è
certamente il tipo di donna che affascinava Dante, una donna ammaliatrice e sfuggente,
orgogliosa e imperiosa. Nella canzone il punto di vista di Dante è già interno alla vicenda, e la
narrazione descrive lo stato di fatto: un Dante preso fino allo spasimo, che nel finale sente
addirittura il bisogno di farlo sapere ai Fiorentini, quasi irridendoli. Colpiscono toni
scopertamente masochistici. Si rivolge ad Amore: “E se mi dà i parlar quanto tormento, / fa’,
signor mio, che innanzi al mio morire / questa rëa per me nol possa udire: / ché, se intendesse
ciò che dentro ascolto, / pietà faria men bello il suo bel volto”.

[… ] La nimica figura, che rimane


vittoriosa e fera
e signoreggia la vertù che vole,
vaga di se medesma andar mi fane
colà dov’ ella è vera,
come simile a simil correr sò le,
ma più non posso: fo come colui
che, nel podere altrui,
va co’ suoi piedi al loco ov’egli è morto.
Quando son presso, parmi udir parole
dicer: “Vie via vedrai morir costui”.
Allor mi volgo per vedere a cui
mi raccomandi; e ’ntanto sono scorto
da li occhi che m’ancidono a gran torto.

Qual io divegno sì feruto, Amore,


sailo tu, e non io,
che rimani a veder me sanza vita;
e se l’anima torna poscia al core,
ignoranza ed oblio
stato è con lei, mentre ch’ella è partita.
Com’io risurgo, e miro la ferita
che mi disfece quand’io fui percosso,
confortar non mi posso
sì ch’io non triemi tutto di paura.
E mostra poi la faccia scolorita
qual fu quel trono che mi giunse addosso;
che se con dolce riso è stato mosso,
lunga fiata poi rimane oscura,
perchè lo spirto non si rassicura.

Così m’hai concio, Amore, in mezzo l’alpi,


ne la valle del fiume
lungo il quale sempre sopra me se’ forte […]

Che dire di questa rappresentazione? Non è qui il caso di esagerare ma certamente ci


potrebbe illuminare sulla natura amorosa di Dante, che, come qui, a volte si scompone e lascia

179
emergere aspetti molto particolari. Dante si abbandona totalmente nelle mani della bella di
turno, che lo lascia tramortito. Lei sorride in modo inquietante.
Si impone qualche rapido accenno ai problemi sollevati fra gli studiosi dalla Montanina.
Qualcuno ha autorevolmente parlato di “falso d’autore”: Dante, che non rimava d’amore ormai
da tempo, avrebbe “rifilato” a Moroello, per accontentarlo, una sua vecchia lirica, forse
addirittura antecedente alle “petrose”, corredata da un congedo ad hoc per i Fiorentini. Il
tutto, mi sembra, avrebbe poco senso: perché dichiararsi “vinto da Amore” e in crisi
irrimediabile con il suo lavoro (il Convivio?) quando ciò non fosse stato vero? Anche
considerando che scopo dichiarato di Dante in quel periodo era proprio quello di fare
dimenticare al mondo le sue passate intemperanze. Una vecchia canzone che poteva essere
anche già conosciuta? Nella canzone non si accenna ad una donna giovane, né gentile:
“petrosa” sì, ma quella doveva essere una caratteristica di tutte le sue fiamme, era la sua
condanna. Sul tempo della composizione, a parte la lettera a Moroello che l’accompagna, che è
sicuramente del 1307, credo forniscano preziose indicazioni alcuni versi tratti dal sonetto
(Rime 41) a Cino da Pistoia (che può essere ragionevolmente datato attorno al 1306, assieme
agli altri già visti in precedenza) che ci mostrano un Dante avvilito e rassegnato al grigiore:
“Non trovo chi meco ragioni […] il loco ov’io son, ch’è sì rio […] Donna non ci ha ch’Amor le
venga al volto, / né omo che per lui sospiri / e chi ’l facesse, qua sarebbe stolto. / Oh, messer
Cino, come ’l tempo è rivolto a danno nostro”. Le cose poi devono essere cambiate,
sembrerebbe di colpo, e non molto tempo dopo stando all’epistola e ad alcuni versi della
Montanina che al sonetto oggettivamente si collegano: “Lasso, non donne qui, non genti
accorte / veggio, a cui mi lamenti del mio male: / se a costei non ne cale, / non spero mai
d’altrui aver soccorso”. Se non se ne può parlare che gusto c’è? Allora lo comunica al mondo
intero (cioè a Firenze): “O montanina mia canzone, tu vai: / forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
/ che fuor di sè mi serra, / vota d’amore e nuda di pietate; / se dentro v’entri, và dicendo:
“Omai / non vi può far lo mio fattor più guerra: / là ond’io vegno una catena il serra / tal che,
se piega vostra crudeltate, / non ha di ritornar qui libertate ”. Si mostrerebbe qui anche un
aspetto del carattere di Dante, la sua incapacità di piegarsi alle circostanze, di adeguarsi alla
realtà delle cose rinnegando se stesso. Fortunatamente per un Convivio abortito c’è una
Commedia che sta prendendo il largo, “più lungi dal lito”.

Un uomo che amava le donne

Il Convivio, con le sue allegorie “postume”, rappresentò , in una fase confusa e difficile della
vita di Dante, una caduta nell’opportunismo, motivata dagli squilibri non risolti della sua vita.
Poi, nella Montanina e, più chiaramente, nell’epistola a Moroello che l’accompagnava, Dante
rivendicherà apertamente anche quella parte di sè, anche quegli errori. Una testa dura, un
uomo tutto d’un pezzo e dotato di una fantasia creatrice senza paragoni; la potenza della
parola a riflettere sentimenti passati attraverso le fiamme delle cocenti passioni d’amore.
Schiavo d’amore. Nel Convivio amore e allegorie coesistono, l’amore c’è stato, le allegorie che
si rintracciano ne sono il soprasenso. Dante non ha mai inventato. L’amore era la sua vita. Ha
parlato solo d’amore, sempre. Interessante lo scambio di poesie con Chiaro Davanzati (Rime
dubbie, 57). Vi compare un Dante giovane, timido e indeciso, che non vuole chiedere l’amore
alle sue donne: l’uccello canta peggio quando è soddisfatto. La schiettezza aspra di Chiaro:
“Credevo che voi amaste come gli altri, ma se vi piace stare a vedere […] a nessuna donna
dispiace l’amore carnale […] pensavo che tu amassi come tutti gli uomini”. Ma lui l’ha detto, il
canto d’amore viene prima.

180
Dante ha molto vissuto: amori infelici, l’esilio, la diffamazione, la lotta politica anche su un
ambito nazionale, problemi materiali. Anche l’impegno per darsi una veste di studioso, di
filosofo, alla ricerca del prestigio connesso. Arriva a snaturare le sue poesie attribuendo loro
significati forzati. Amori sempre dolorosi e rabbiosi. Certo Beatrice non è stata dimenticata
ma quando si decide a scrivere la Commedia, che forse aveva già iniziato a Firenze (così
sostiene anche il Boccaccio) aveva ormai dato fondo al suo potenziale amoroso. Le poesie a
Cino documentano un uomo stanco, che sente lontane le intemperanze della gioventù (resta il
soprassalto misterioso e isolato della Montanina).
Le vicende delle donne-schermo, che nel racconto di Dante appaiono di difficile
comprensione, rientrano forse anch’esse in un piano di recupero di credibilità e di immagine
già a livello della stesura della Vita nuova nel 1293? Dante potrebbe poi avere ripreso nel
Convivio, dandogli natura di allegoria, il tema della “donna gentile” perchè l’aveva già aperto
nel finale della Vita nuova, dove era presentato però come fatto “verissimo”. Ciò non toglie che
anche la faccenda della filosofia abbia un suo fondamento, una verità sotto traccia, che si
concretizzerà negli anni seguenti nel discorso allegorico enfatizzato dal Convivio.
In fondo anche il Convivio era già una piccola Commedia, era su quella strada, e presentava
una possibilità di approcci e di elaborazioni pressoché infinita. Una Commedia forse più
umana che divina. Ma i modi erano impoetici, le poesie già preparate e vecchie. E c’era la
necessità prioritaria di reinterpretarle per renderle accettabili e “buone”. Il meccanismo era
imperfetto e viziato all’origine. Come avrebbe potuto Dante esprimersi compiutamente su
tutto - personaggi, filosofia, scienza, e sulle sue vicende - se non avesse avuto l’idea di scrivere
la Commedia? La Commedia gli dava tutta la libertà di cui aveva bisogno, per parlare della vita,
di tutta la vita. E di Beatrice. Dante sa che solo un vero capolavoro potrà dare forza a quanto
ha già fatto in precedenza, mettere a tacere i maligni e i diffamatori, e aprirgli le porte del suo
ritorno a Firenze.

L’avvio del poema vede Dante che si è perso in una fitta boscaglia. Come avesse potuto
finirci, alle falde del colle di Sion, non viene chiarito. Fuor di metafora è evidente che Dante
riconosceva in quel periodo - siamo a Pasqua del 1300, dieci anni sono passati dalla morte di
Beatrice e Dante ora è in politica a Firenze con incarichi sempre più importante - un punto di
snodo cruciale che lo ha visto in grande difficoltà per un riconosciuto stato di confusione
spirituale, la mancanza di prospettive chiare, difficoltà nel lavoro artistico. Un uomo in crisi.
Dante ne parla dieci anni dopo, sempre tanto tempo gli occorre per potere arrivare a
maturare un giudizio, autocriticarsi, superarsi. Ritroverà se stesso nel ritorno alle idee
cristiane, nella venerazione dell’amore puro che aveva contraddistinto la sua giovinezza, nella
adesione militante alle idee guida che devono informare l’attività politica delle città , degli stati
e della Chiesa. Alla base della Commedia c’è la decisione di ammettere, per bocca di Beatrice, le
proprie colpe, le leggerezze, le frequentazioni ardite, anche dubbi e confusione in materia di
religione, con vaghi accenni a misteriose scuole filosofiche di libero pensiero da lui
frequentate, e di prendersi nel contempo tutte le soddisfazioni possibili nei riguardi di coloro
che lo avevano condannato, il papa Bonifacio avanti a tutti. Nobilitare le proprie origini,
mettere a punto i capisaldi della fede cristiana ed esaltarne i rappresentanti, fare di Beatrice
una santa in cielo (l’aveva promesso nella Vita nuova), e così sancire la fine della sua vita
sentimentale errabonda e infelice.
Dante colloca il punto di crisi profonda a metà della sua esistenza, a trentacinque anni.
Pasqua del 1300, stando a non chiarissimi riferimenti astronomici rintracciabili all’interno del
poema. Boccaccio ha detto che sette canti dell’Inferno furono scritti già a Firenze prima
dell’esilio; il manoscritto trovato nella casa depredata di Dante colpiva per la sua bellezza e gli
181
venne fatto recapitare (Boccaccio trova conferma a ciò nel “seguitando” che apre il canto VIII).
Pur essendo la sua stesura continuata fino alla morte di Dante nel 1321, la vicenda - il suo
viaggio immaginario nei mondi dell’aldilà seguendo un cammino di redenzione sotto la
protezione di Beatrice, fino alla visione della Realtà divina - resta bloccata a quella data (il
diavolo Scarmiglione dice a Dante e Virgilio che sono passati 1266 anni dalla morte di Cristo).
La stesura ebbe certo vari andamenti, con intermezzi legati alla composizione delle altre
opere (Convivio, De vulgari eloquentia, Monarchia, Egloghe, Questio de aqua et terra), i canti
venivano dati man mano in visione ad amici ed estimatori. Nel poema il momento di crisi
esistenziale viene messo da Dante sul piano di un rischio di morte física. Lucia a Beatrice: “la
morte che ’l combatte / su la fiumana”.
Dante si è gettato nell’agone politico nel periodo peggiore per la città . L’attivismo
esasperato, la passione partigiana, sicuramente un precipitare di sofferte vicende amorose,
forse anche una situazione familiare difficile, avevano creato una situazione pesante per lui.
Nel cuore ancora presente, a dieci anni dalla scomparsa, il ricordo di quell’amore giovanile
purissimo, incontaminato, a cui Dante sente di dovere restare attaccato. La sua ancora di
salvezza, un’ideale uscita di sicurezza, una via da imboccare per porre fine al caos e al dolore
di una vita che lo sta uccidendo. Nella Commedia Dante immagina di incontrare nuovamente
Beatrice. Lei ora vive in Paradiso, beata. “Loda di Dio vera”, si intrattiene con la biblica
Rachele, parla con Santa Lucia.

“Nel mezzo del cammin di nostra vita…

… mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita… ”. Dopo pochi versi lo
squarcio stupendo. Dante, appena uscito dalla selva, vede davanti a sè le propaggini della
montagna: “… guardai in alto, e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta… ”. Poi le
tre fiere, figure simboliche rappresentanti vizi, debolezze e impedimenti gravanti sulla sua
vita, e l’apparizione di Virgilio che gli chiarisce l’arcano. Se ne stava tranquillo nel Limbo
assieme ad una bella congrega di antichi filosofi e poeti quando gli si è presentata una donna:

[...] Io era tra color che son sospesi,


e donna mi chiamò beata e bella,
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
“l’amico mio, e non della ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
e temo che non sia già sì smarrito,
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
l’aiuta sì, ch’i ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare […]”

Virgilio chiede i motivi di tanto interessamento, e lei aggiunge:

[...] Donna è gentil nel ciel [Maria Vergine, n.d.r.] che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
[. . . . . . . . . . . . . . . . .]
Questa chiese Lucia in suo dimando
182
e disse: “Or ha bisogno il tuo fedele
di te, ed io a te lo raccomando”.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: “Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’ uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana…? ”
[. . . . . . . . . . . . . . . . .]
Al mondo non fur mai persone ratte
[…] com’io […]

Virgilio vede Dante titubante e lo rincuora: il viaggio sarà lungo e difficile ma lui non deve
preoccuparsi, “tre donne benedette / curan di te ne la corte del cielo”. Dante ha allestito,
anche all’altro mondo, la solita rassicurante e ben disposta platea femminile alla quale non sa
rinunciare. Lo stesso Virgilio se ne meraviglia. Lo rincuora e lo spinge a seguirlo. Capisce che il
personaggio deve essere importante e va trattato con ogni riguardo. La via diretta al monte è
impedita dalla lupa, Dante dovrà purtroppo fare un giro più lungo per accedere alla sua
Beatrice. Dovrà passare dall’Inferno, traendone gli opportuni insegnamenti. Dante stava per
morire, e sarebbe morto nel peccato, ma in cielo si vuole che abbia modo di ravvedersi, e,
ancora in vita, gli viene concesso di redimersi attraverso il magico viaggio attraverso i tre
mondi ultraterreni.
Superata la voragine infernale ed arrivati alla montagna del Purgatorio, Virgilio spiegherà
così a Catone, guardiano all’ingresso, cosa ci fa lì un uomo in carne ed ossa: “Questi [Dante]
non vide mai l’ultima sera; / ma per la sua follia le fu sí presso, / che molto poco tempo a
volger era. / Sí com’ io dissi, fui mandato ad esso / per lui campare; e non lí era altra via / che
questa per la quale i’ mi son messo”.
L’incontro con Beatrice, inaspettato, avverrà nel Paradiso terrestre, sulla vetta della
montagna del Purgatorio, preceduto dalla vista di una bella donna che, sola soletta, raccoglie
fiori cantando al bordo di un torrente (il Lete). Dante le si rivolge: “Deh, bella donna, che a’
raggi d’amore / ti scaldi”, e le chiede di avvicinarsi al fiume affinché lui possa sentire il suo
canto. Non si smentisce, galante e pronto all’entusiasmo. Boccaccio dirà che Dante “si dilettò
in suoni e in canti nella sua giovinezza, e a ciascuno che a quei tempi era ottimo cantatore o
suonatore fu amico e ebbe a sua usanza, e assai cose, da questo diletto tirato compose, le quali
di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire”. Nome e sostanza di un tipo di
creazione artistica rimasta invariata fino ai giorni nostri, la canzone. Matelda, questo il suo
nome, “di levar gli occhi suoi mi fece dono / […] ella ridea dall’altra riva dritta, / […] cantando
come donna innamorata”. Un quadretto idilliaco a cui Dante non ha saputo rinunciare, e che
apre al momento culminante, credo, di tutta la Commedia.

“Conosco i segni dell’antica fiamma”

E’ il canto XXX del Purgatorio. Dante è invitato da Matelda ad osservare una luce che
attraversa la foresta, a cui segue una misteriosa processione. Un canto aleggia nell’aria: “Veni,
sponsa, de Libano”. Scena altamente simbolica: animali fantastici, fanciulle dall’aspetto di ninfe
danzanti, corteo di santi. Un grifone trascina un carro su cui, avvolta da nuvole di fiori gettati

183
dalle fanciulle, sta una donna velata col capo cinto d’olivo, vestita d’un abito rosso vivo con un
manto verde.

[...] E lo spirito mio, che già cotanto


tempo era stato ch’ a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
d’antico amor sentí la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù , che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di pü erizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: “Men che dramma
di sangue m’è rimaso, che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma”.

Ma Virgilio è scomparso.
“Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti convien per altra spada”.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar gli occhi ver’ me di qua dal rio.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”.

Dopo gli inconsapevoli brividi anticipatori, stupendamente resi da Dante, che riportano
in un attimo indietro nel tempo alla travagliata giovinezza, e scoprono al fondo dell’anima
del poeta, sepolti, sentimenti non più confessati e accarezzati però ancora vivi e pronti a
sommergerlo, ecco l’entrata in scena di Beatrice. Finge una severità molto materna, ma
anche un po’ troppo studiata. Dante poteva fare come voleva, ha scelto di presentarla così,
una santa nelle sue funzioni, contrastante con la Beatrice preoccupata e amorosa che
aveva avvicinato Virgilio, e che si era precipitata da lui dopo l’incitamento di Santa Lucia.
Una Beatrice che vuole essere severa, non complice, non umana. Tanto che se ne
meravigliano gli altri del corteo: “Donna, perché sí lo stempre [mortifichi]?”. “Ella, pur
ferma in su la detta coscia / del carro stando” fornisce ai suoi la sua versione, che è quella
evidentemente ufficiale e certificata, in quanto emanante dalle “alte sfere” che tutto sanno,
e, ancor più , in quanto proveniente da Dante stesso.

“[...] questi fu tal nella sua vita nova


virtü almente, ch’ogne abito destro
fatto avrebbe in lui mirabil prova.
184
Ma tanto piú maligno e piú silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non có lto,
quant’elli ha piú di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vò lto.
Sí tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sí poco a lui ne calse!
Tanto giú cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l’uscio d’i morti,
e a colui che l’ha qua sú condotto
li preghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda”.

Qui è tutto spiegato, anche il motivo del viaggio attraverso i regni dell’oltretomba. Dante
deve pagare uno scotto. E’ un vero processo. Beatrice impone a Dante anche la confessione
dei suoi torti: “Dí, dí se questo è vero”. Dante, piangendo, risponde: “Le presenti cose / col
falso lor piacer volser miei passi, / tosto che ’l vostro viso si nascose”. Seguono le
considerazioni di Beatrice. Lei parla come esponente della vera realtà e lo rimprovera
molto convinta: “perché mo vergogna porte / del tuo errore, e perché altra volta, / udendo
le serene, sie più forte, / pon giú il seme del piangere e ascolta: / sí udirai come in
contraria parte / mover dovieti mia carne sepolta. […] e se ’l sommo piacer sí ti fallìo / per
la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?”

“[…] Ben ti dovevi, per lo primo strale


De le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era piú tale.
Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar piú colpo, o pargoletta
o altra novità con sí breve uso [...]”

C’è un rovesciamento totale del principio di realtà da parte di Dante. Beatrice, pur
defunta, dopo i primi smacchi avrebbe dovuto diventare più vera e desiderabile delle
donne reali. La sua morte non significava la sua scomparsa, ma il suo perfezionamento col
passaggio alla realtà celeste. Dio non è forse, ancorché invisibile e inavvicinabile, più reale
185
di ogni cosa creata? Così per Beatrice, più amabile lei in cielo, ivi assunta per la sua
perfezione, che tante altre vive in questo mondo imperfetto. In fondo è il proseguimento
della scelta di amore gratuito che già Dante aveva cercato di fare ancora viva Beatrice. Chi
ama senza aspettarsi contropartita può amare anche un fantasma, che non deluderà mai.
E’ Dante, non una immaginaria Beatrice, a fare esplicito riferimento ad una “pargoletta”
che l’ha distolto, tra le tante che avrebbe potuto citare. Avrebbe potuto rimanere nel vago,
“cose fallaci… novità ”, ma dice “pargoletta”, personaggio di punta delle Rime: convalida in
modo preciso, notarile direi, la verità delle rime amorose, o almeno così ha voluto che
sembrasse. Poteva, ripeto, restare nel vago, ma non l’ha fatto. Non più allegorie confuse in
bocca a Beatrice, ma parole chiare. Sappiamo che non risale certo a così antica data, al
1300, la sua conversione alla vita morigerata (ove mai sia avvenuta, e la Montanina è lì a
ricordarcelo), ma ora (siamo al Purgatorio, la seconda Cantica, già completato nel 1316) si
registra un fatto nuovo: Dante “ammette” quello che nel Convivio aveva cercato di negare,
la sua ricerca di avventure, i suoi innamoramenti compulsivi, il suo vivere da uomo nel
mondo.
Finita la ramanzina Dante è distrutto. Beatrice lo invita ad alzare gli occhi. E’ ancora
velata in volto, pur gli sembra più bella di quando era in vita. Sviene. Quando si riprende,
nelle braccia di Matelda, beve l’acqua del Lete e viene poi coccolato dalle sette ninfe (le
virtù cristiane). Beatrice ora assiste benevola. Finalmente Dante la guarda negli occhi, il
resto del viso è ancora velato: “Mille disiri piú che fiamma caldi / strinsermi li occhi a li
occhi rilucenti”. Le fanciulle si scatenano: “ Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”, / era la lor
canzone, “al tuo fedele / che, per vederti, ha mossi passi tanti! / Per grazia fa noi grazia che
disvele / a lui la bocca tua, sí che discerna / la seconda bellezza che tu cele”. Beatrice si
svela. Tutto quello che Dante aveva invano cercato, almeno dal rifiuto del saluto in poi, ora
abbonda, piove letteralmente dal cielo. Le fanciulle lo rimproverano perchè la guarda
troppo fissamente. Contegno! Da ora in avanti, fino ai più alti cieli, sarà tutto uno scambio
di sguardi e di sorrisi.
Lei lo invita ad andarle più vicino: “Vien più tosto”, / mi disse, “tanto che, s’io parlo
teco, / ad ascoltarmi tu sie ben disposto […] Frate, perchè non t’attenti / a domandarmi
omai venendo meco?”. Lo assolve: “ Da tema e da vergogna / voglio che tu omai ti
disviluppe”. Poi parole durissime contro la Chiesa di Roma: “Sappi che ’l vaso, che ’l
serpente ruppe, / fu e non è”. Dante, tramite Beatrice, la disconosce. Beatrice, in questo
primo colloquio, accenna anche alle idee di una scuola filosofica seguita da Dante che gli
impediscono di comprendere le verità che lei gli va esponendo. Dante libero pensatore,
venato da troppo razionalismo? Non abbiamo elementi per rispondere, quelli erano anni
di aspre battaglie fra averroisti latini, tomisti, eretici. Dante, che pure ha trattato
diffusamente di filosofia nel Convivio, non vi era particolarmente versato, e quello che è
apparso è una sua acritica e molto ortodossa adesione alle tesi ufficiali della Chiesa, anche
di quella Chiesa temporale della quale peraltro era oppositore ferreo. Potrebbe entrarci il
suo supposto viaggio d’istruzione a Parigi, dato per certo dal Boccaccio? Allo studium
parigino insegnavano, in acerba lotta fra loro, le avverse fazioni. In presenza di Beatrice
avviene l’oscena pantomima della prostituta (la Chiesa) e del gigante, e lei non batte ciglio.
Dante se la cava così: “Non mi ricorda / ch’i’ stranïasse me già mai da voi, / né honne
coscïenza che rimorda”. E’ da capire, ha bevuto l’acqua del Lete, che fa dimenticare il male
commesso e permette alle anime ammesse al Purgatorio di godere, senza remore, della
loro situazione.
Si prosegue in Paradiso in un clima da Convivio, affabulatorio e consolatorio, con
Beatrice nel ruolo della maestrina. Continui scambi di occhiate amorose. Predominano i
temi teologico-filosofici: l’anima e le sue vicissitudini, il libero arbitrio, anche problema di

186
fisica e astronomia. Dante, per bocca di Beatrice, vuol dire la sua su tutto. Sarebbe stato un
ottimo giornalista.
Si perde negli occhi e nel riso di lei:

“Beatrice mi guardò con li occhi pieni / di faville d’amor così divini, / che vinta, mia virtute
dié le reni / e quasi mi perdei con li occhi chini” (Par. IV,139).
“ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la
mia gloria e del mio paradiso” (XV, 34).
“O dolce amor che di riso t’ammanti, / quanto parevi ardente” (XX, 13).
“Già eran li occhi miei rifissi al volto / de la mia donna, e l’animo con essi, / e da ogne altro
intento s’era tolto” (XXI, 1).
“Cosí la donna mïa stava eretta / e attenta […] veggendola io sospesa e vaga […] pariemi
che ’l suo viso ardesse tutto, / e li occhi avea di letizia sí pieni” (XXIII, 10,22).
“La mente innamorata, che donnea / con la mia donna sempre, di ridurre / ad essa li occhi
piú che mai ardea” (XXVII, 88).
“Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso / in questa vita, infino a questa vista, / non m’è il
seguire al mio cantar preciso” (XXX,28).

Anche dalla bocca di lei ora escono parole molto dirette, in un clima di complicità :

“S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore / di là dal modo che ’n terra si vede, / sí che del viso
tuo vinco il valore, / non ti maravigliar” (Par. V,1).
“Perché la faccia mia sí t’innamora” (XXIII, 70).

Poi non la vede più :

E “Ov’è ella?”, sú bito diss’io. / Ond’elli [S. Bernardo, che si era aggiunto a loro]: “A
terminar lo tuo disiro / mosse Beatrice me dal loco mio; / e se riguardi sú nel terzo giro /
dal sommo grado, tu la rivedrai […] Sanza responder, gli occhi sú levai, / e vidi lei che si
facea corona / riflettendo da sé li etterni rai […] e quella, sí lontana / come parea, sorrise e
riguardommi (XXXI, 64).

L’addio è fantasmagorico. Beatrice si allontana ascendendo e continua a sorridergli.

Dante, la cui anima è stata risanata da Beatrice - “l’anima mia che fatta hai sana” - ,
prosegue il suo viaggio fino alla meta, che è quella di tutti i mistici: vedere Dio. Ma Dante
non è propriamente un vero mistico, il suo è un vedere della fantasia, una costruzione
lirica che poteva anche essere diversa, non riflette una esperienza reale, o creduta tale,
paragonabile ad altre che qui abbiamo pur visto parlando di altri cercatori di infinito. San
Bernardo prega la Vergine perchè lo aiuti “tanto, che possa con gli occhi levarsi / più alto
verso l’ultima salute […] sí che il sommo piacer li si dispieghi”. Dante arriva a fissare
intensamente lo sguardo nella accecante luce divina, vi si perde, e vi scorge, e qui è il senso
vero della visione, il confluire di tutto l’esistente in una amorosa unione, e nella luce
iridescente di una confusa Trinità gli sembra di scorgere una forma umana. Negli ultimi
versi della Commedia Dante si perde a commentare un suo non riuscito sforzo di inserire
la figura umana nel cerchio di luce divina che lo tiene soggiogato. Come non pensare ad un
uomo vitruviano ante-litteram? E Leonardo, secoli dopo, lo avrà avuto presente?clxviii
L’esperienza si conclude in un fulgore della mente che spezza l’incanto e riporta Dante a se
stesso. Le ultime parole del poema fanno ancora riferimento all’Amore, epiteto della
divinità , che tutto governa.
187
Beatrice è utilizzata come figura simbolica che consente a Dante di sviluppare il suo
percorso di perfezione e parlare delle massime ragioni. La vera operazione non è tanto
ridare vita a Beatrice, che rimane figura evanescente, sfuggente, di una santa in carriera,
quanto esaminare il proprio passato, che viene rivisto criticamente. Dante parla dell’uomo
e del suo tempo, e si pasce della grande architettura che ha saputo immaginare. E’ quasi
una seconda Creazione. Esplode il senso “teatrale” di Dante. La sua religiosità è del tutto
ortodossa, è solo offeso dalla corruzione della Chiesa. Giovanni Pascoli, studioso di Dante,
ha scritto che Dante voleva farsi frate. L’amore per Beatrice, per quanto grande sia stato,
rimane esperienza giovanile racchiusa nella Vita nuova. La sua vita è poi proseguita, con
amori sempre infelici, irreali. Una selva oscura. Ora, nella Commedia, al primo posto sono
la poesia, la rivendicazione del rispetto di sè, il desiderio della fama.
Beatrice è figura poetica, espressione dell’amore celeste, puro, del “bene”, della tensione
dell’uomo verso il divino. Dante ne ha fatto il suo “angelo”. Per il resto ha vissuto, con il suo
cuore così sensibile alla bellezza femminile, così fragile, così generoso e pronto a donarsi,
così bisognoso di “servire”. Dante in un sonetto giovanile inviato a Chiaro Davanzati,
suscitandone la schiettezza aspra, dice che il suo primo desiderio è amare e non chiedere
soddisfazione alla donna amata. Dante non ama chiedere. L’uccello canta meglio, dice,
quando è amoroso, diventa noioso quando è stato soddisfatto. Beatrice defunta lo salva dal
compromesso col mondo. Gli appare coronata di ulivo come Minerva, simbolo di sapienza.
Dante nel Purgatorio fa dire a Beatrice che lei, morta e in cielo, avrebbe dovuto essere più
vera e viva delle altre donne reali. Non comprendere questa verità sarebbe stato il suo
errore. Posizione estrema, insostenibile. Se non fosse Dante a parlarne, con la forza e la
bellezza delle sue immagini e delle sue parole, ci sarebbe da restarne allibiti. Detto da uno
che aveva fatto dell’amore la sua “religione di vita”. Si avverte odore di forzatura, la figura
di Beatrice nella Commedia è artificiosa, assolutamente irreale e in fondo debole. Una
specie di Madonna-bis.
Del resto cosa avrebbe potuto trarne di diverso? L’amore per Beatrice, tanto declamato,
è diventato solo un canovaccio su cui lavorare poeticamente, solo la scusa per un
grandioso viaggio immaginario nell’aldilà . Eppure l’incontro fra Dante e Beatrice, gli
sguardi, l’addio sono ricchi di pathos e adeguati a rappresentare lo spessore di un grande e
perdurante amore. Dante non avrebbe potuto raggiungere tali altezze emotive se, oltre ad
essere il poeta che è, non avesse potuto attingere a dei sentimenti reali, alla sua storia
personale. Dietro c’è in estrema sintesi la storia di tutta la sua giovinezza, gli anni passati,
sin dalla prima adolescenza, a sognare e desiderare. L’amore di Dante per Beatrice fu
sempre purissimo, fatto di ricerca del suo sguardo, del saluto, di un cenno. Dante ha
vissuto per anni alla ricerca di una luce negli occhi di Beatrice, timoroso di incontrarla,
impossibilitato a reggerne la prossimità , eppure prigioniero del suo impulso a vederla.
Anche nel Purgatorio e poi sempre nel Paradiso Dante si mostra in continua ricerca di
quella luce, in continua attesa degli smaglianti e complici sorrisi. Si rinnovano i rituali che
già avevano caratterizzato la Vita nuova e tante delle liriche amorose; le virtù -ninfe del
corteggio attorno alla bellissima, come un tempo le amiche attorno a Beatrice fanciulla,
hanno toni concilianti verso Dante e un ruolo che si presenta suppletivo e surrogatorio.
Dante si è sempre trovato bene in ambienti di donne, viveva per le donne, ne amava
respirare la presenza, ne subiva oltremodo il fascino. Loro lo sapevano e ne
approfittavano. Queste atmosfere si ritrovano anche nella Commedia: Matelda, le ninfe, le
tante donne che compaiono nel poema - Elettra, Taide, Manto, Mirra, Marzia, Pia, Sapìa,
Alagia, Nella, Gentucca, Lia, Piccarda, Cunizza, Raab - spesso figure appena abbozzate, ma
che Dante ha voluto inserire nel racconto. Anche se sono figure di sfondo, solo
marginalmente presenti. Lo sfondo in Dante, alla fine, è sempre femminile.

188
Beatrice (meglio sarebbe dire Dante) accenna anche a un problema di vergogna, che lui
dovrebbe (se lo dice lei..) superare, e parla di una passata riprovevole adesione di Dante a
qualche “scuola” di pensiero che lo avrebbe interessato. Tutto cancellato. Ora Dante è
tornato, col cuore e con la mente, alla sua piccola Beatrice (diventata adesso un gigante del
pensiero e dell’universo), la ricorda, ne suggella le grazie, ne beve l’immagine, come in un
bel sogno. Non è solo fantasia, è resa, è fuga dalla vita che non si lascia comprendere, né
addomesticare. E’ addio alla lotta politica. E’ un rifugiarsi nel ricordo che non tradisce, in
emozioni che possono sostituire anche le deludenti esperienze reali.
Dalla bocca di Beatrice sono venute alcune sentenze che non si possono discutere. Dante
qui è credibile, non si nasconde, al di là del fatto che la figura di Beatrice in cielo sia figura
di fantasia, letteraria e non necessariamente specchio fedele di quella reale, quello che
Dante le fa dire sul suo passato, sul suo traviamento, contrastante anche con quanto
sembrava volere affermare con risolutezza al tempo del Convivio e della sua operazione di
rettifica a proposito di un passato su cui si poteva recriminare, è certo un giudizio su di sè
che Dante non aveva mai dato. L’autocritica è aspra, seppur forse un poco addolcita da un
suo preteso obnubilamento dovuto alla bevuta d’acqua del Lete. Il tutto è certo funzionale
alla figura della Salvatrice, che se doveva salvarlo lo doveva trovare colpevole, ma se Dante
arriva, dopo anni di scorribande letterarie sui più diversi registri psicologici, a definire una
figura come quella di Beatrice in cielo è certo anche conseguenza di una sua, magari senile,
presa di coscienza e sul rifiuto delle sue, giovanili e non, intemperanze.
Le allegorie del Convivio, pur posteriormente rielaborate, avevano effettivamente avuto
risonanza nella mente di Dante, ma l’amore che le sorreggeva era stato reale. Con la
Commedia tutto è cambiato, il discorso ora è ad un altro livello. Il “grande disegno”
dell’opera non ha più una relazione stretta con la vita reale di Dante. Non più allegorie, ma
direttamente simboli, figure. La poesia e la potenza dell’immaginazione di Dante ora
sovrastano la realtà , sono autonome, vivono di vita propria. La costruzione è un
ingranaggio, una grande macchina che gli offre il destro per parlare di tutto e di tutti,
antichi e contemporanei, amici e nemici, papi e re, facendo sfoggio - al solito - del suo ricco
bagaglio di conoscenze religiose, storiche e astronomiche. Con la sua magica, meravigliosa,
inimitabile voce. A volte magari anche stanca e ripetitiva.
Il Dante della Commedia è un grande “bozzettista”, organico creatore di strutture
artificiali. Il genio è piegato alla forma, e la forma predomina. La verità poetica, la poesia,
ne è però il cemento costitutivo, e l’ortodossia religiosa e morale come programma
indefettibile. La Commedia è volontaristica nelle sue tesi generali, bellissima nei tanti
episodi particolari - un susseguirsi di quadri e quadretti - che solo Dante avrebbe potuto
offrirci così sapidi, freschi, nuovi, potenti e umani.
Oggi non la leggiamo più come opera unitaria (forse non è mai stata letta così), ne
gustiamo con enorme piacere i tanti mirabili intarsi. E possiamo avvertire, se siamo
interessati, che vi sono dipanati molti dei fili ingarbugliati della sua vita, anche letteraria;
con accenni sfumati, ma, in definitiva, chiarissimi. E’ un libro di poesia, che vuole essere, a
torto, un libro di morale e di teologia. Del resto la Chiesa non l’ha mai apprezzata, e non
credo tanto per la questione degli attacchi al papa, quanto perchè tutta la parte religiosa è
piattamente ortodossa, pretenziosa, e non serviva certo come libro di edificazione
spirituale. Dante come mistico non convince. E’ uomo tutto intero, che ha cercato la giusta
strada nella vita, ma della vita ha voluto gustare il succo.

“… l’amor che move il sole e l’altre stelle”

La parola “amore” chiude il poema. L’amore, sempre presente nella poesia di Dante, ha
un posto fondamentale anche nella Commedia e ne caratterizza in modo particolare
189
l’ultima cantica. Il sentimento amoroso viene sacralizzato ed elevato a valore fondante dei
rapporti umani e della creazione. E’ l’amore il motore di tutto. E Dio è quell’amore. Il
trasporto amoroso per Dante è “riconoscimento” della luce divina che alberga nell’anima
della persona amata. Nel Paradiso chi ama “fiammeggia”, per simpatia. Ora Dante - il
giudizio è di Beatrice - è posseduto dall’eterna luce. Chi si apre al sentimento elevato
d’amore, ma anche al desiderio, al contingente, è comunque protagonista di una
operazione divina.
Nella sua massima opera Dante precisa, a se stesso e al mondo, la sua concezione
dell’amore divino: una forza che lega gli innumerevoli elementi dell’universo (Par. XXXIII,
86), che “move il sole e l’altre stelle”, e orienta così la realtà umana che dal movimento
degli astri dipende. Dante è un astrologo convinto. La Commedia è suggellata dall’amore,
quell’amore che aveva dominato tutta la sua vita. Dante va oltre – c’è collegamento con il
consiglio di Beatrice di lasciare perdere il sentimento di vergogna che lo aveva
tormentato? – e nel Paradiso usa i vocaboli espliciti dell’amore carnale a suggello dei
momenti alti del ricreato rapporto con la Beatrice celeste, e vi fa sorprendentemente
ricorso anche negli attimi culminanti della sua visione divina. Era stato accusato di
lussuria pur avendo nei suoi scritti sempre sorvolato sugli aspetti materiali, anche
lessicali, dell’amore; ora sembra indulgervi con atteggiamento di sfida. E’ la logica del
congedo della Montanina: voi mi criticate per il mio stile di vita e io, che di voi non mi curo,
ribadisco oltre misura tutto. E’ indiscutibilmente vero, quando Dante nel Paradiso affronta
passaggi significativi che lo toccano direttamente, anche in riferimento a problematiche
“alte”, usa vocaboli e modi espressivi molto prosaici e ambigui, che recano in sè un
indiscutibile e intrigante doppio senso:

“tu stesso ti fai grosso / col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti, se l’avessi
scosso (Par. I, 88 sgg.)”, così Beatrice replica a Dante, meravigliato dalla vista del Sole e dal
suono delle sfere. Fin troppo esplicito…

“se corpo in corpo repe [penetra] / accender ne dovrìa più il disìo / di veder quell’essenza,
in che si vede / come nostra natura e Dio s’unìo (Par. II, 39 sgg.)”. Problemi di fisica, poco
prima Beatrice lo aveva stimolato così: “Drizza la mente in Dio grata”.

“Beatrice mi guardò , con gli occhi pieni / di faville d’amor così divini, / che, vinta, mia virtù
diede le reni (Par. IV, 139 sgg.)”. Poco prima Dante l’aveva chiamata: ”O amanza del primo
amante, o Diva”.

“La sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perchè l’ami […] Il ben disposto spirto d’amor
turge (Par. X, 140 sgg.)”. Dopo il colloquio con S. Tommaso. Parla della Chiesa.

“così mi ha dilatata mia fidanza / come il sol fa la rosa, quando aperta / tanto divien
quant’ella ha di possanza (Par. XXII, 55 sgg)”. Dante parla con S. Benedetto.

“Sì che la vostra voglia è sempre piena (Par. XXIV, 3)”, così Beatrice agli apostoli e ai santi
discesi dalla Scala.

“La grazia che donnea con la tua mente (Par. XXIV, 18)”, così S. Pietro a Dante descrive
l’opera della divina Grazia su di lui. Sempre lessico amoroso, anche negli argomenti più
elevati e spirituali.

190
“Io credo in un Iddio / solo ed eterno, che tutto il cielo move, / non moto, con amore e con
disìo (Par. XXIV, 130 sgg.)”. Dal “Credo” di Dante.

“Le fronde [le creature] onde s’infronda tutto l’orto / dell’ortolano eterno, am’io cotanto, /
quanto da lui a lor di bene è porto (Par. XXVI, 64 sgg.)”. Dante ama le donne e la vita per
volontà divina, in ossequio al “bene” che Dio vi ha volutamente racchiuso.

“splendor che va di gonna in gonna (Par. XXVI, 72)”. Qui sarebbero le membrane
dell’occhio ma, più avanti, al canto XXXII, 140, il verso “come buon sartore / che, com’egli
ha del panno, fa la gonna” chiarisce un significato del termine legato all’universo
femminile.

“Vidi […] ridere una bellezza […] nel caldo suo calor (Par. XXXI, 133 sgg.)”. Parla di Maria
come di una madre calda, dolce e bellissima.

“Qual è quell’angel […] innamorato sì che par di foco? [...] Baldezza e leggiadria […] tutta è
in lui (Par. XXXII, 103 sgg.)”. E’ l’arcangelo Gabriele, anche per S. Bernardo un modello di
virtù cortesi.

“Nel ventre tuo si riaccese l’amore, per lo cui caldo nell’eterna pace / così è germinato
questo fiore […] Donna… (Par. XXXIII, 7 sgg.)”. Una Madonna molto donna.

“sì che ’l sommo piacer gli si dispieghi (Par. XXXIII, 33)”.

“L’ardor del desiderio in me finii (Par. XXXIII, 48)”.

“dicendo questo mi sento ch’io godo (Par. XXXIII, 93)”.

“La mia mente fu percossa / da un fulgore, in che sua voglia venne (Par. XXXIII, 140 sgg.)”.

Della questione si è discusso, sia pure con mano lieve. Si fa riferimento al linguaggio dei
mistici - quali? - che avrebbero spesso assunto situazioni psicologiche e parole anche
crude dalla vita dei sensi per caricarle poi di significati religiosi. Si accenna anche
genericamente al “sanguigno linguaggio” dei medievali. Ciò che ha colpito è soprattutto la
parola “ventre” riferita al grembo di Maria. Ma qui siamo di fronte ad una vera e propria
“orchestrazione” di parole e frasi dal significato ambiguo, e non credo che Dante possa
essere considerato un “mistico”: era troppo calato nella realtà , di un vero mistico non
possedeva le qualità , le competenze, le aspirazioni.
Certamente può stupire che Dante, nel finale della Commedia, mentre mette in scena
tanti santi e figure divine, abbia voluto realizzare questa operazione. Evidentemente ci
teneva a farlo. Cade qui ogni eventuale ipotesi di un Dante bacchettone e arrendevole
opportunista. Dante aveva un’idea dell’amore come forza centrale, informante, della
creazione. Anche l’amore-trasporto verso le donne, la sua croce-delizia, vi rientrava. Su
quel terreno forse pensava di avere esagerato, di avere trasceso perdendosi nel mare
“dell’amor torto”, ma quel terreno era sacro per lui, era la sua vita. Anche Beatrice,
rievocando il traviamento di Dante dopo la sua dipartita, riconosce in lui abbondanza di
“buon vigor terrestre”. L’amore naturale, legato al “vigore”, è riconosciuto come “forza
buona” anche da Beatrice. Dante, di vigore, doveva averne parecchio. L’amore superiore,
l’amore che coinvolge l’animo, non era gioco, non era animalesca passione naturale - che
comunque era ritenuta da Dante “sempre senza errore” - era nobilissima apertura del
191
cuore. Era riconoscimento di bene e bellezza, generoso slancio, fuori da ogni calcolo, che
non poteva essere condannato. Soprattutto era riconoscimento dell’opera informatrice di
Dio. Senza l’amore le cose sarebbero state tutte separate, “squadernate” dice Dante, anzi
non sarebbero esistite. Senza l’amore, come principio “cosmico”, il mondo non sarebbe
nato. Origine anche di tanti mali, causa di sofferenze, ma, per Dante, essenza del vivere e
della vita. Beatrice, purissima, dallo sguardo ardente, alta sulla “coscia” del carro, defunta e
assunta in cielo, sovrintendente generale agli affari divini, è là a rappresentare la
sublimazione di quei sentimenti di puro trasporto, di pura adesione all’altro - in ossequio
ad una legge naturale, ad un principio informatore di origine divina -, che superano il
calcolo, il timore, e si presentano nudi al giudizio.
Colpisce come Dante si rappresenti abbacinato dalla vista di Beatrice, bramoso di ogni
suo sguardo, di ogni suo sorriso. Quanto tutto ciò rispondesse al suo desiderio
insoddisfatto, risalente alla prima giovinezza e rimasto sepolto nel fondo del cuore, è
chiaro. Quanto poco dovette giovare al suo cuore maturo il ricordare e l’illusione di
ritrovare, sembra altrettanto chiaro. In fondo è stato solo un dolore, che lo ha avvicinato
alla sua morte prematura.

Mahdia, 27 Maggio 2012

192
Hafez

C’è un turco a Shiraz: mi dicesse di sì, a Samarcanda


rinuncio, a Bukhara, per l’indico nero nonnulla che ha in volto.

Ahimè, zingarelli vezzosi! Son gente proterva e tumulto di questa città,


quali turchi festanti a saccheggio di mensa, scompiglio di questo mio
[cuore.

Su di lui poche certezze al di là delle sommarie date di nascita e


morte e del luogo di vita. Dalla fantasiosa e contraddittoria massa di
notizie biografiche che lo riguardano non si ricava quasi nulla che ne

193
illumini credibilmente il carattere e chiarisca il senso del suo percorso
umano.
In fondo possiamo contare solo sul suo canzoniere, un vasto corpus
di circa cinquecento ghazal - l’espressione più tipica della poesia
persiana classica, una specie di sonetto - conosciuto in Occidente dal
XVIII secolo, oggetto di molti studi e, nella lingua inglese, anche molto
tradotto. Fondamentale allora, per ogni tentativo di approfondimento,
l’ancoraggio al suo Divān e alla temperie culturale dell’epoca.
Molto amato nel suo paese, Hafez vi è visto comunque da sempre
come il migliore interprete dell’animo persiano e della sua millenaria
cultura. I suoi versi sono ancora popolarmente usati - come una specie
di I-Ching - per trarne responsi e vaticinii.
Nell’opera poetica di Hafez la supposizione di dicotomie tra lettera e
significato si presenta al massimo livello di possibilità . Il sentimento
amoroso ne è sicuramente a fondamento, ma i toni mistici, assieme ai
numerosi riferimenti coranici o genericamente religiosi sullo sfondo,
che sembrano avvolgere tale sentimento pongono Hafez
obbligatoriamente all’interno del gruppo di protagonisti di questa mia
fatica attorno ad un fenomeno letterario, ma certo anche psicologico e
forse antropologico, che ho definito “amore allegorico”: un linguaggio
poetico realisticamente amoroso (e quale realismo in Hafez!) che
vorrebbe, dovrebbe o potrebbe, essere veste di elevati sentimenti di
aspirazione al trascendente.
Questa in breve la “questione hafeziana” tanto dibattuta: si tratta
solo dell’obbedienza ad un codice letterario intangibile - come sempre
e comunque avveniva in quella poesia -, un canonico approccio a temi
religiosi (qui è la spiritualità del sufismo) che si vogliono anche
rendere interessanti, smaglianti, oppure in Hafez questo aspetto è
rovesciato e la spiritualità suggerita è solo, alla fine, il mascheramento
che permette invece la fuoriuscita, la messa in luce, di realtà
esistenziali non ortodosse e deprecabili, ma dotate di una loro
insopprimibile verità ? O entrambe le possibilità sussistono, in una
particolare visione, da sempre oggetto di apprezzamento, che non
disgiunge i due aspetti - l’amore terreno e quello divino - ma vuole
considerarli legati, reciprocamente funzionali, e parimenti degni e
auspicabili?

194
L’interpretazione mistica dei versi di Hafez è sicuramente
maggioritaria; ad essa si oppongono scarsi oppositori che vedono
invece in Hafez un edonista dedito ai piaceri. Nel contempo si va
affermando la posizione di chi, a fronte della supposta mancanza di
credibili dati biografici, ritiene la disputa priva di basi oggettive e si
accontenta di apprezzare la bellezza del canto, la suggestione delle
immagini, la finezza delle ironie e dei sarcasmi. Una scelta
“estetizzante”per ragioni di forza maggiore, che però mette da parte
nella sostanza l’una posizione (l’Hafez “mistico”) e l’altra (lo “schiavo
d’amore”), marginalizzandole e rendendole entrambe accessorie.
L’ortodossia religiosa lo respingeva. Il mondo del sufismo, al tempo
di Hafez alla sua massima espressione, si sforzava di comprenderlo.
Jā mī, famoso mistico e poeta, sosteneva che il Divān di Hafez, anche se
il suo autore non apparteneva ad alcuna confraternita, era il miglior
libro che un sufi potesse leggere. C’è un sito sul Webclxix che mostra
tutto Hafez tradotto in algido inglese, corredato da disegni ispirati al
tema del vecchio pensoso in taverna, in ammirazione estatica di belle
fanciulle, ballerine per lo più , dal volto androgino. Sarebbero la
versione femminile dei coppieri, i baldi giovani che tanto ammaliavano
Hafez. Tant’è.
Va bene che la lingua persiana non ha il genere, ed è spesso difficile
distinguervi il maschile dal femminile (un po’ come in inglese), ma,
volendo trovarli, i riferimenti nei ghazal che fanno giustizia delle
preferenze sessuali di Hafez sovrabbondano. Nel qual caso resterebbe
solo la scappatoia che Dio è maschio per pensare che “i belli” siano
solo il suo paradigma.

Hafez, l’uomo che sapeva il Corano a memoria

Il sacco di Bagdad da parte dei Mongoli nel 1258 (cinquant’anni prima della
nascita di Hafez) aprì un’era di instabilità , con ascesa e caduta di molte dinastie,
caos sociale e incertezza politica. Allo stesso tempo fu epoca di grandi conquiste
culturali e letterarie. Lo Sciismo prenderà il potere in Persia (diventando
religione ufficiale dello stato) solo nel XVI secolo, con i Safavidi. Al tempo di
Hafez gli sciiti erano ancora perseguitati.
Hafez è vissuto a Shiraz, in Persia, nel turbolento intermezzo fra Gengis Khan e
Tamerlano. Il panegirismo del Divān di Hafez riflette questa situazione e il
susseguirsi dei vari regnanti. Il primo patrono di Hafez, Shā h Abu Esḥ ā q, fu
deposto dal suo stesso figlio. Molti i lavori elogiativi di Hafez a lui dedicati.
195
Successivamente sarà Shā h Sojā ʽ a porre fine al crudele esercizio del potere
condotto da un padre bigotto e violento. Shā h Sojā ʽ, storicamente rappresentato
come un illuminato principe rinascimentale, era dedito alle scienze, alla
letteratura e agli studi religiosi. Mecenate generoso. Poeta egli stesso pose,
probabilmente per gelosia, un problema riguardo all’unità interna dei ghazal di
Hafez accusandolo di divagare troppo, dal vino al sufismo, alle caratteristiche
della persona amata: “Una tale volubilità è contraria alla via dell’eloquente!”. La
maggior parte dell’opera poetica di Hafez è stata composta sotto di lui. I ghazal
registrano anche i momenti turbolenti nei loro rapporti, fino al trionfale rientro
di Hafez a Shiraz, dopo un suo volontario allontanamento, nel 1366.
Hafez (Shams al-Din Moḥ ammad Shirā zi, meglio noto con il suo pseudonimo
poetico “Ḥ ā feẓ”, ovvero “colui che conosce a memoria [il Corano]”) è uno dei
grandi poeti della Persia, con un fortissimo impatto sulla vita e sulla cultura del
paese. Nasce a Shiraz tra il 1315 e il 1321, e lì si spegne nel 1389 o nel 1390.
Come ho detto molti riferimenti biografici sono inaffidabili, e, oltre a qualche
notizia contenuta nella “prefazione” alla prima raccolta delle poesie di Hafez
fatta dal suo contemporaneo Moḥ ammad Golandā m, solo rari dettagli presenti
nelle sue poesie possono essere presi in considerazione. Golandā m si dichiara
suo compagno di studi e dice di avere raccolto i ghazal sparsi di Hafez poco dopo
la sua morte. Ovviamente anche cercare di evocarlo da interpretazioni troppo
letterali dei suoi ghazal può portare a perseguire delle chimere. Ogni
generazione ha dovuto rileggerli di nuovo, ma giustamente si dice che in queste
risposte successive si può ritrovare solo la biografia del Divān, certamente non
quella del suo autore .
Vero è che in occidente i suoi ghazal sono stati da subito interpretati come
poesie mistiche, con uno zelo che in ogni parola ritrovava sempre significati
trascendenti; d’altra parte Hafez non poteva sovvertire i motivi antinomici - gli
amori eccessivi, gli elogi del vino e dell’ebbrezza - che erano sempre stati usati,
fin dal XII secolo, e sempre visti in chiave allegorica. Hafez è stato coinvolto nella
vita di corte - molti i riferimenti nelle poesie - e fu in tutto dipendente dal
mecenatismo dei ricchi e dei potenti. Ebbe conoscenza profonda del Corano e
della letteratura persiana. Precoce e diffusa la sua fama. Circa mille i manoscritti
conosciuti del suo Divān.
Per la verità conosciamo molto poco anche degli altri poeti persiani. Gli
anneddoti che li riguardano sono tutti posteriori. Qualcuno ha detto che Hafez
sia nato a Isfahan, poi trasferito con la famiglia a Shiraz. “Piccolo e brutto”. Dopo
avere svolto vari mestieri divenne professore di materie religiose in un collegio.
“Shā kh-e-Nabā t” (Ramo di canna da zucchero) è il nome della donna di cui
sarebbe stato innamorato, e forse marito. Nelle poesie forse si parla della morte
della moglie, e forse anche della morte di un figlio, ma senza alcuna certezza.
Hafez fu anche copista ed esistono carte originali ascritte a lui. Ha studiato
giurisprudenza, scienze matematiche e astronomiche, oltre ai grandi poeti e ai
grandi maestri spirituali. Esperto di arabo e anche della lingua turca. Notizia non
196
verificabile su una “recensione” delle proprie poesie fatta da Hafez stesso nel
1368.
Un principe timuride, 110 anni dopo la morte di Hafez, raccolse (assieme ad
amici ed esperti) 646 ghazal, visionando 500 manoscritti. Definì la poesia di
Hafez “lingua dell’Arcano”. La prima edizione a stampa è del 1791 (a Calcutta).
La prima traduzione in inglese (o piuttosto un rifacimento che ne triplicò il
numero dei versi) di un suo ghazal, il terzo nell’edizione ufficiale clxx, è di Sir
William Jones (1771). Fu intitolata “A Persian Song”. Nel 1813 apparve la prima
traduzione integrale del Divān in tedesco, che ispirò Goethe e il suo “West-
östlicher Divan”.
Fu chiamato anche “interprete dei Misteri”. Col tempo la distinzione fra
l’identità storicamente ricostruibile e l’immagine del poeta come raffigurata e
progettata da lui stesso venne ignorata. Comparvero le tadhkere, le tradizionali
raccolte di biografie:

ʼʼSuo padre, mercante di carbone, muore ancora giovane. Lascia debiti. Hafez e la
ʼʼmadre vanno a vivere da uno zio. Hafez lascia la scuola per lavorare in un
ʼʼnegozio di stoffe, poi in un forno. Consegnava il pane in un ricco quartiere. A 21
ʼʼanni vede Shā kh-e-Nabā t, una giovane donna molto bella. Le dedica delle
ʼʼpoesie. Passa ogni giorno, come ubriaco, sotto la sua finestra. Lei gli dichiara il
ʼʼsuo amore. A Shiraz si crede alla promessa di Baba Ruki’ (un mistico, morto a
ʼʼShiraz nel 1050): “Chi resterà sveglio presso la mia tomba per 40 notti avrà il
ʼʼdono della poesia, l’immortalità , e soddisfatti i suoi desideri”. Di notte va alla
ʼʼtomba. Il 40° mattino l’Arcangelo Gabriele va a visitare Hafez. Gli offre una
ʼʼcoppa contenente l’acqua dell’immortalità . Hafez rimane affascinato dalla
ʼʼbellezza di Gabriele. Dimentica la bellezza di Shā kh-e-Nabā t: “Io voglio Dio!”.
ʼʼGabriele lo manda al negozio di Moḥ ammad ʼAṭṭā r, un mistico. Hafez si lega a
ʼʼlui. Dai 20 ai 30 anni diventa famoso a Shiraz come poeta. Vive in bramosa
ʼʼattesa dell’illuminazione. Resta per 40 giorni e 40 notti vigile dentro un
ʼʼ‘cerchio’ disegnato da lui stesso. Al 40° giorno vede il suo maestro e realizza
ʼʼl’illuminazione.
ʼʼFu poeta di corte presso lo Shā h Abu Esḥ ā q. Periodo del “romanticismo
ʼʼspirituale”. Scrive poesie di protesta. Perde poi il favore di Shā h Sojā ʽ, e si
ʼʼautoesilia a Isfahan. A 52 anni, su invito di Shā h Sojā ʽ, torna a Shiraz e al suo
ʼʼcollegio. Dopo i 60 anni, fino alla morte, compone più della metà dei suoi
ʼʼghazal. Ha una piccola cerchia di discepoli. Parla con l’autorità di un maestro
ʼʼche è unito alla divinità . Scrive solo quando è ispirato religiosamente. Ebbe due
ʼʼfratelli più anziani. Ebbe un figlio.

Alcune di queste notizie rappresentano palesemente lo sforzo popolare e


dell’ortodossia per dare spiegazione e giustificazione al lato “oscuro” del poeta:
amava una donna bellissima, che lo ha contraccambiato; c’era in lui una
fortissima propensione verso il trascendente, che ha cercato di condividere con
197
l’amore terreno; il contatto con il divino vede la trasmissione di una Coppa
contenente acqua, non vino; Hafez, affascinato dalla bellezza divina dell’angelo,
sceglie Dio (questo forse a spiegare i tanti irriducibili accenti omoerotici dei suoi
ghazal); diventa un mistico dedicato solo alla ricerca della divinità ; si lega ad un
uomo che diventa il suo maestro; negli ultimi anni raggiunge l’illuminazione e
completa il suo lavoro poetico, scrivendo la metà dei suoi ghazal. Proprio quelli
dove l’atteggiamento appare più discutibile e fuori dalle convenzioni.
Il ghazal persiano nasce nel XII secolo, definendosi nel XIII. Vi confluiscono la
poesia breve araba abasside e la tradizione persiana preislamica dei cosidetti
“menestrelli”, legata alla musica. Evolve dal nasib, breve e spesso erotico prologo
dell’arabica qaṣida, della quale segue la struttura. Il ghazal è molto più corto. La
parola deriva dall’originale arabo “scambi d’amore”. E’ una sorta di sonetto,
lungo in media dai sette ai dieci versi doppi, sintatticamente indipendenti. La
rima è alla fine del secondo emistichio con l’eccezione del primo verso (i due
emistichi rimano fra loro). Di solito nell’ultimo verso si trova la firma dell’autore,
ovvero il suo pseudonimo poetico. Il ghazal persiano non ha la dichiarata
finalità , ora panegiristica ora filosofica ora elegiaca, del componimento lungo.
Ogni verso è di solito completo e concluso in se stesso. La seconda parte di ogni
distico bilancia la prima nel tema e ne riecheggia la rima. Metro e ritmo sono gli
stessi per l’intero ghazal. Forma poetica tipicamente persiana (come il sonetto
per gli inglesi), rappresenta la fusione della triade classica anacreontica - amore,
vino, primavera - con l’elemento religioso. Il tema normale del ghazal era
l’amore.

Hafez
Divān

Ghazal 1clxxi
Il calice porgi, coppiere, e in circolo fallo girare,
poiché cosa ben ardua è l’amore, che facile gioco una volta ci parve.
Da quella treccia attendiamo nell’ansia che s’apra ad aroma di muschio:
oh, per quei riccioli foschi ritorti, qual sangue sgorgò dentro i cuori!
Se lo dice il Maestro dei magi, colora di vino il tappeto ove preghi,
ché ben conosce il viandante la strada, per ogni sua pietra miliare.
A me, accanto all’amato, qual mai garanzia di letizia serena,
se giunge un sonar di campana che incita e urge a partire?
Notte nera, paura dell’onda, terribile gorgo:
di noi che sa chi con carico lieve percorre le rive?
E’ disonore, lo so, ciò cui gusto protervo m’indusse,
ma come celare il segreto che ad ogni simposio dà vita?
198
Se quanto desideri è stargli vicino, poeta, non devi ritrarti da lui:
lascia il mondo che è un nulla, se quello che brami hai raggiunto.

Un poeta disilluso ma non domo parla dall’interno di un gruppo di fedeli d’amore. Esplicito
il riferimento alla teoria del “segreto”, un tempo giustificazione per ogni atteggiamento, poi
rivelatasi fragile, e incapace di sostenere difficoltà e pericoli. Gli “accucciati” sono però ancora
in attesa: dalla loro vita tormentata dovrà discendere quel progresso tanto atteso verso una
conoscenza del mondo al di là . Ancora si confida nel Maestro, ancora ci si sprofonda
nell’abbandono, fiduciosi che ciò che è stato affermato e sperimentato dal Maestro possa
realizzarsi. Hafez gode della compagnia dell’amato, ma è dolorosamente colpito
dall’insicurezza della sua condizione, e dalla paura della morte sempre in agguato. C’è qui un
richiamo alla carovana sempre pronta a partire che ha tanto influenzato il Diwān (canzoniere
in arabo) di Ibn Arabi?
C’è sofferenza, sfiducia e senso di isolamento. Anche dubbio, confrontando quanto sia
diversa la vita delle persone normali. Teme di avere violato una consegna parlando di cose che
dovrebbero restare nascoste. ma come non parlare dei motivi che spingono a scelte tanto
difficili e condannate? Si consola pensando che in fondo quello che veramente desidera è stare
vicino all’amato. Ottenuto questo, si può anche abbandonare tutto il resto. Il mondo è nulla, e
di fuggevole peso anche aspirare all’Altrove. Forte presenza di termini tecnici del sufismo;
verso iniziale e finale in arabo. Completi i testi dei tre ghazal di questa prima selezione. La
numerazione corrisponde all’edizione persiana di riferimento (Hafez, 1996)

Ghazal 2
Oh, mirate, mirate il cammino infinito
che sta fra questa mia torbida ebbrezza e pietà !
Commisurar devozione d’asceta a una vita di gioia ribelle?
Intorno al pulpito assorti, o fra melodie di ribeca? Distanza infinita!
Solo tedio, l’ipocrisia di cenobio e di tonaca, in cuore:
a purezza di vino esso aspira, al convento dei magi:
Il tempo d’incontro è trascorso: ne sia sempre lieto il ricordo!
Che cosa ne è, che ne è stato, di quelle schermaglie d’amore?
A malevole cuore che vale visione di volto d’amico?
Mirate la lampada morta e mirate candela di sole!
Non guardare a quel mento tornito, ché pozzo profondo nasconde!
O cuore mio, dove corri? Non sai a che cosa vai incontro.
A noi basta, per fare collirio, la terra che è sulla tua soglia:
ci sia mostrato, di grazia, altro luogo ove andare.
Non chieda pace al poeta, l’amico, non chieda a lui sonno:
mai dell’una egli ebbe sentore, mai ebbe notizia dell’altro.

Riflette su se stesso e sulla distanza che separa le sue torbide passioni, ancorché
misticamente vissute, dalla tranquilla pietà dei benpensanti e dei sufi. Ma come paragonare la
devozione degli asceti agli entusiasmi di una vita all’insegna della sincerità , e dell’abbandono
alle passioni? Sono ipocriti e noiosi i religiosi ufficiali, il cuore di Hafez aspira alla purezza e
alla spontaneità . Si rende però conto che le sue gioie sono fuggevoli, anche se belle da
ricordare. Se non si accetta di buon grado la realtà di quella vita è inutile sperare che da essa
possa derivarne qualche vantaggio. In alternativa, solo grigiore.
199
Mette in guardia se stesso dal correre dietro alla bellezza come sta facendo. Nasconde
pericoli. Comunque lui non ha niente di meglio da fare che rincorrere il suo “bello”. E la
polvere delle sue scarpe. Senza pace, e senza riposo.

Ghazal 3
C’è un turco, a Shiraz: mi dicesse di sì, a Samarcanda
rinuncio, a Bukhara, per l’indico nero nonnulla che ha in volto.
L’eternità sta nel vino, coppiere, a me versane l’ultima goccia:
lassù non fiorita è radura, non quale a Shiraz riva d’acque.
Ahimè, zingarelli vezzosi! Son gente proterva e tumulto di questa città ,
quali turchi festanti a saccheggio di mensa, scompiglio di questo mio cuore.
Ma a bellezza d’amico che giova, se l’amo d’amore imperfetto?
Non sono tocchi, non sono, che valgono a fare un bel volto più bello.
Di liuti parlatemi solo, parlatemi solo di coppe: il segreto
di questo mondo è un enigma che mai saprà scioglier sapienza.
Da quella sempre crescente bellezza ho capito che cosa è l’amore:
perché, come appare Giuseppe, si perde la donna d’Egitto.
E se pur mi disprezzi, non conta, lietissimo sono:
risposta amara fa ancora più dolce un bel labbro di dolce rubino.
Ascoltami, amore: ben più della vita hanno caro,
i giovinetti felici, segreto dal vecchio dei magi dischiuso.
Sono un filo di perle, poeta, i tuoi versi. Rallegraci dunque cantando,
ché sul tuo canto oggi certo monile di Pleiadi scende.

Il bello è un turco. Per il suo neo Hafez rinuncerebbe a tutte le ricchezze della terra. Mette a
confronto le bellezze della sua città con i grandi spazi del Paradiso. E’ il vino, quello vero, ad
aprire la porta dell’Eternità . “Ahimè, zingarelli vezzosi! Scompiglio di questo mio cuore”.
Reclama un abbandono all’amore senza remore. La bellezza va amata senza cautele o riserve.
Interessanti accenni realistici a una situazione della città invasa da immigrati turchi,
scalmanati e in cerca di cibo. Accenna al segreto: inutile parlarne con toni da dottore, rimane
un enigma. Meglio abbandonarvisi fiduciosi, nei conviti e nell’ebrezza. La bellezza del turco gli
ha fatto capire cosa sia l’amore. Quando la suprema bellezza (qui rappresentata dal biblico
Giuseppe) si manifesta, la donna è perduta. E Hafez pure. La sottomissione è totale. Non
importa il disprezzo, la felicità di Hafez non è in discussione. Anche parole amare escono
addolcite sulle labbra dell’amato. I giovinetti sono felici di seguire le istruzioni del maestro e
prestarsi al gioco. Hafez loda la sua abilità di poeta: i suoi versi sono come una collana di perle.

_______________

Penso che le poesie di Hafez possano essere meglio comprese facendo seguire a questo
primo approccio la lettura di un testo tratto dal Gelsomino dei fedeli d’amoreclxxii, opera
giovanile di Ruzbehā n Baqlī (1128-1209), un mistico, scirazeno come Hafez, che concluderà la
sua esistenza come rispettatissimo shaykh di una sua personale confraternita. Lo scritto
dimostra che il Divān di Hafez si pone entusiasticamente nel solco lasciato da Ruzbehā n. Tutte
le tematiche emergenti in Hafez, e anche l’immaginario, erano già presenti nel libro giovanile
di Ruzbehā n, e in modo particolarmente evidente nel capitolo che propongo. Quello tracciato
sembra il suo ritratto.
200
Capitolo IX – Sulle caratteristiche dei fedeli d’amore, che entrano nella via
spirituale attraverso l’esperienza dell’amore umano.
Sappi, fratello mio – possa Dio farti gustare il nutrimento dell’amore – che il
dolore è il solo guadagno che i fedeli d’amore trovano nel loro amore. Il dolore è
quello che loro permette di guadagnare, una maniera di ottenere nella quale non
ci sono che i fuochi e le lacrime. Sono dei folli ingegnosi, degli stranieri famigliari,
dei saggi insensati. Del loro amore fanno un testimone contro lo spirito. Nel loro
amore per l’Amata, essi non considerano il cuore e l’anima carnale che per votarli
all’annichilimento. Sono uccelli distruttori di gabbie, i giardinieri d’un corpo che
ha la fragilità della rosa. Sono dei viaggiatori senza viatico, dei viventi immortali.
Il loro viaggio è il solo che conduce alla vera realtà. Il collirio per i loro occhi è solo
la polvere raccolta al suolo, caduta dalla religione della Legge.
Sono uomini liberi e tuttavia trattenuti in ostaggio. Sono astri erranti nei cieli
della certezza. L’uomo dall’animo libero è, secondo loro, lo schiavo d’amore.
Perché questi liberi uccelli, i loro spiriti, hanno infranto la gabbia dei loro corpi, e
danno colpi con la testa contro il cancello del giardino d’amore; lavano la loro
anima, la perla dell’oceano d’Amore. Sono dei devastatori del palazzo della natura,
dei forsennati sulla via della Vera Realtà. Il destriero del loro cuore non sopporta
che il fardello dell’amore, le labbra del loro animo non gustano che la bevanda
dell’intimità. Sono dei delusi che non si aveva l’intenzione di ingannare; dei
maestri privati di allievi. Seguono la via dell’amore, ignorando lo scoraggiamento.
Sono esseri di grazia e di cortesia, ed essi la dedicano ai bei visi. La loro bevanda
non è altro che afflizione, perché il nembo d’Amore non effonde sul loro cuore che
lacrime di dolore. Tutta la loro notte è come giorno; tutto il loro giorno è un “now-
rūz” [sic]. In teoria sono i predoni della dimora dell’Amata. Che fanno d’altro, in
effetti, che non dovrebbero confessare come furto? Bari che giocano con l’Amata,
essi non sfuggono al peso della loro pena che nel vicolo ove abita l’Amata. Sono dei
maghi dell’India; avendo il sentimento della loro debolezza nella loro condizione di
innamorati, essi non conoscono che la magia. Il fondo del loro essere è
cavalleresco: il loro comportamento, castità e virilità. Nella casa della loro
devozione essi praticano una cortese sottomissione, e chiedono agli amici di
intercedere presso la maestà dell’Amata.
Sono degli esaltati, e per conseguenza dei valorosi. Sono sapienti, per cui hanno
fermezza. La modulazione del canto della loro sofferenza e il dolce concerto dei
flauti fanno cessare la loro pena; su questo ritmo fanno sentire dei toni patetici,
perché l’usignolo del loro dolore incupisce di tristezza davanti al loro amore,
mentre il loro animo esperto in prodigi si inchina davanti al viso dell’amata. Sulla
via dell’Amata essi operano la fusione dell’anima e del cuore, così bene che
annullano l’effetto della separazione. Nella moschea del vicolo ove abita l’Amata,
essi insistono in salmi confidenziali, mentre nella cella dei pii asceti si parla di loro
come di debosciati. Ma, checché si dica di loro, essi non intendono! E nell’amore

201
dell’amata non si prendono un istante di riposo. I regnanti temporali non hanno
potere su di loro, perché il loro amore non è inferiore al possesso dei due mondi.
Essi danno credito a certe menzogne che vengono dai servitori dell’amata, e ne
accolgono nel loro animo gli inganni. Quando si sentono dominati da ebbro
entusiasmo, fuggono davanti all’Amata, e vanno, con gli occhi pieni di lacrime, a
cercare il Contemplato eterno. La rivoluzione del cielo non fa maturare altri frutti
che il loro amore, e l’eternità non gusta nel salotto del loro dolore che bevanda di
tristezza. Quando piangono è una nuvola che piange. Quando gemono è la
montagna che geme. Tutti gli esseri compresi nella bilancia del loro amore pesano
pochissimo, e l’Intelligenza stessa del mondo, davanti alla regale dignità del loro
cuore, varrebbe come un argomentatore inefficace.
Sono degli afflitti che modulano il loro dispiacere, persone provate che hanno
perso la coscienza. Se si nutrono è per sostenere il loro animo; quanto al sonno, è la
via larga aperta alla loro fede. E’ in compagnia del dolore d’amore che hanno
bussato timidamente alla porta della casa-da-gioco (dell’amore), perché sono di
nuovo tornati alla condizione di Fedele d’amore.
Yūsuf ibn Hosayn Rāzī – su di lui la misericordia divina – racconta: “Ero presente
un giorno alla conferenza di Dhūʼl-Nūn Misrī. Settanta mila persone avevano preso
posto. Lo shaykh discuteva sull’amore di Dio; undici persone morirono. Quando la
conferenza arrivò alla fine, una specie di vagabondo che poteva essere preso per
un impostore, si alzò. Aveva digiunato per sessant’anni, e la sera non aveva mai
mangiato altro che baccelli di fave. “O Abūʼl-Fayz !, disse, tu hai parlato a
sufficienza dell’amore del Creatore. Dicci ora qualche cosa sull’amore delle
creatura per la creatura”. Dhūʼl-Nūn mandò una esclamazione, stracciò la sua
veste, e cadde al suolo. Il suo viso divenne color porpora, finché mormorò in arabo:
“I loro pegni non sono liberati e i loro occhi non conoscono che lacrime”.
La storia dei Fedeli d’amore è quella che tu vieni dall’avere intesa, o tu che nel
disegno delicato d’un orecchio rendi visibile la grazia della Sīmorgh eterna! Tu che
nel giardino della tua capigliatura, dai centomila usignoli d’anima, (nascondi)
l’amante insensato. Descrivere questi patetici sorpassa ogni descrizione. E in
questo argomento centomila enigmi si presentano.

Queste persone il cui cuore non è attaccato a tutto ciò che muore,
la loro casa non può trovarsi che nella strada della verità.
Quando il loro vivere diventa difficile,
solo il vino può risolvere i loro problemi.
Anche in Hafez l’amore umano viene visto come la via per arrivare alla unione con la
divinità , come molto ruzbehaniani sono sicuramente i mille aspetti di contorno che illustrano
le gioie e i dolori del poeta amante. Le passioni di Hafez sono accecanti, ma vengono
addebitate alla volontà divina. La ricerca dell’amico divino vuole apparire totalizzante, ma
“coesiste” con quella della passione terrena, che le è funzionale, essendone conseguenza e
origine. Pur con vergogna e tremore Hafez “vuole” trovare una giustificazione alle sue
pulsioni. Non può lasciarle, allora le nobilita e le dipinge, le vive, come la chiave per aprirsi ai
202
misteri più alti. Alla luce di Ruzbehā n risulta tutto più chiaro. Hafez si dipinge come un
mistico, ma è spesso in crisi e alterna fasi di entusiasmo a momenti di avvilimento. La sua
passione per Dio, la sua “mania”, è discontinua, mentre la sua propensione per i belli, per i “bei
visi”, è una costante mai rinnegata.
L’amore terreno apre gli occhi dell’amante alla bellezza divina, e lo porta (in modi che
riecheggiano il Convito platonico) a desiderare di avvicinarsi alle origini di Amore e Bellezza.
Importante comprendere che il percorso delineato non è basato su un impegno volontaristico,
ma bensì su una precisa volontà divina. E’ Dio a volere ciò , e a renderlo possibile. Il
superamento della passione terrena diventerà poi la condizione necessaria al proseguimento
del percorso mistico. In Hafez tutti gli argomenti di Ruzbehā n trovano eco, con i toni lirici a lui
peculiari, in maniera sorprendente. Hafez lo ha sicuramente letto, e lo rispecchia pienamente
nella sua opera poetica.
Il che non vuole affatto significare che l’amore che Hafez mette in campo (omoerotico,
mentre quello di Ruzbehā n, ma credo solo nella traduzione di Henry Corbin, si rivolge ad una
amata) non sia “vero” (come è “vero” quello di Ruzbehā n). Sicuramente l’approccio di
Ruzbehā n al tema è più fondato religiosamente e misticamente (lo dimostra il successivo
personale percorso dello shaykh); in Hafez la teoria appare più confusa, molte sono le
contraddizioni e i ripensamenti. Ma lo sfondo, il quadro, l’atmosfera - se non lo spirito - sono
gli stessi.

Ancora sul “segerto”

Già nei primi tre ghazal si sono manifestati i temi che ricorrono in Hafez, con l’evidenza che
discende da un tipo di versificazione - un distico programmaticamente autonomo, in sé
concluso, e conseguentemente intercambiabile - che li isola e li esalta. Il successivo rapido
excursus confermerà la loro continua ripresa. In particolare continuerò a dare rilievo ai distici
che fanno riferimento al Patto primordiale - o Segreto -, che Hafez ama citare e mettere a
giustificazione delle sue scelte di vita. Su questo aspetto poggia in gran parte la sua supposta
connotazione mistica.
Questi i passi coranici di riferimento: “E quando il tuo Signore trasse dai lombi dei figli
d’Adamo tutti i loro discendenti e li fece testimoniare contro se stessi: ‘Non sono io il vostro
Signore?’. Ed essi risposero: ‘Sì, l’attestiamo!’. E questo facemmo perché non aveste poi a dire,
il Giorno della Resurrezione: ‘Noi tutto questo non lo sapevamo!’(Cor. VII,172, Sura del
Limbo)”; “Noi abbiamo proposto il Pegno ai Cieli e alla Terra e ai Monti, ed essi rifiutarono di
portarlo, e n’ebbero paura. Ma se ne caricò l’Uomo, e l’Uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro!
(Cor. XXXIII, 72, Sura delle fazioni alleate)”. Secondo Henry Corbin clxxiii Dio si realizza
attraverso l’Uomo. Sarebbe questo il “segreto” secondo lo studioso del pensiero di Ibn ‘Arabī.
La domanda posta da Dio alla “massa primordiale delle esistenze archetipiche” nel giorno di
A-lastu: “Non sono io il vostro Signore? (a-lastu bi-rabbikum?)”, è un dialogo dell’Essere Divino
con il suo “se stesso”. I “Fedeli d’amore” danno l’essere al “Dio patetico” di cui essi sono la
passione.

Ghazal 148
La tua bellezza, un baleno nell’attimo eterno, in principio,
e l’amore che apparve fu fuoco che avvolse la terra di vampe.
Si manifestava il tuo volto, vedeva che l’angelo è privo d’amore,
e fu una vampa d’orgoglio furente che all’uomo s’apprese.
Voleva farne lanterna, intelletto, di fiamme sì alte,
ma furono lampi abbaglianti, e sconvolsero il mondo.
203
Un tracotante cercò d’introdursi, tentò d’ osservare il mistero,
ma una mano invisibile venne e lo spinse lontano.
Altri ottennero in sorte letizia di vita:
fu il nostro cuore nel pianto che ottenne, qual sorte, il dolore.
E fu per passione del dolce tuo mento tornito che prese
lo Spirito Santo a molcire i tuoi riccioli, anello su anello.
Il poeta scriveva il tuo libro gioioso d’amore,
nel giorno che fu cancellato gioioso tripudio dal petto.

Testo completo. E’ il ghazal che stabilisce l’origine divina dell’Amore nel mondo. Legato al
dolore. Il “bello” come opera dello Spirito e strumento dell’Amore divino. L’Amore divino
avvolge come un fuoco la terra. L’Amore offerto da Dio, rifiutato dagli Angeli - privi della
capacità di scegliere e quindi di amare - , viene accettato dall’uomo (qui anche un riferimento
al “pegno” di cui parlava Dhū ʼ al-Misrī nel passo che ho preso da Ruzbehā n). Ci fu chi voleva
speculare sulla faccenda, indagando la cosmogonica complessità del Mistero: verso misterioso
che allude, sembra, all’intelletto umano, e alle sue pretese, ma che potrebbe tirare in ballo
addirittura il Diavolo.
Ne venne felicità per molti (l’amore umano), dolore e pianto per altri (quelli che dall’amore
umano partivano per arrivare alle fonti divine). La bellezza divina si concretizza nella figura
del bello (mento e riccioli). Hafez vive di quella bellezza, ma è dalla parte di quelli che ne
ricavano dolore e insoddisfazione.

Ghazal 175
Chi al cuore ebbe accesso restò nei segreti precinti d’amico,
e colui che di tanto non seppe mai nulla restò nel diniego.
Se il nostro cuore lasciò la cortina, tu non biasimarlo:
grazie a Dio non restò dietro il velo di vane illusioni.
Si ripresero, i sufi, le vesti già date qual pegno per vino:
la tonaca nostra soltanto fu quel che restò alla taverna.
Altri ancora che indossano il saio passarono ebbri, e fu nulla:
la nostra storia restò , e per tutti i mercati fu nota.
Quella tonaca mia, che ben cento peccati celava,
fu data in pegno per vino e cantore […]
[. . . . . . . . . . . . . . . . ] (1-5)

Lo gnostico, che ne comprese le segrete ragioni, restò fedele al Patto amoroso primevo; altri,
che non lo compresero, ne negarono l’esistenza. Hafez preferì agire allo scoperto, ne ebbe
discredito, ma non fu vittima di illusioni. I Sufi ritornarono alle loro occupazioni, dopo un
superficiale interesse, solo Hafez e i suoi “ribelli” restarono sulla breccia, nella loro taverna
diruta.
Altri religiosi, e gli ipocriti, vissero nell’ebbrezza ma non furono disprezzati. Hafez e i suoi
furono marchiati. Hafez, gran peccatore, visse per bere e gioire…

Ghazal 179
Vidi gli angeli, ieri. Bussavano a vespro in taverna:
rimestavano il fango d’ Adamo plasmandolo a coppa.
204
Chi abita angelico mondo inviolato nascosto virtruoso
ha sorbito con me vagabondo quel vino che reca l’ebbrezza.
Peso grave del pegno d’amore non seppe, no, il cielo portare:
giocaron così questo giro di dadi nel nome di me che son folle
[. . . . . . . . . . . . . . . .] (1-3)

Hafez ha bevuto il suo vino in taverna, usando una coppa plasmata dagli Angeli. Lui,
vagabondo e ribelle, ha bevuto con loro. Loro, che non hanno voluto portare il peso del Patto
primordiale, non possono ora rinunciare alla riscossione del frutto del suo dolore…

Ghazal 193
“Avrò mai le tue labbra, avrò mai la tua bocca?” gli dissi.
“Che t’obbediscano vuoi, senza battere ciglio?” rispose.
“Le tue labbra”, dissi, “richiedono tutto il tributo d’Egitto!”
“E’ questo uno scambio”, rispose, “in cui non è perdita alcuna”.
“Qualcuno mai”, dissi, “raggiunse codesta tua bocca minuta?”
“E’ cosa nota”, rispose, “soltanto a chi sa di miniuzie”.
“Non farti”, dissi, “idolatra, tu invoca piuttosto l’Eterno!”
“Là dov’è amore”, rispose, “si compiono entrambe le cose”.
“Spira un’aura, in taverna, che strappa via al cuore la pena”.
“Beati quelli”, rispose, “che rendono un cuore felice!”
“Vino e tonaca”, dissi, “non sono un’usanza virtuosa”.
“Fanno parte”, rispose, “del culto del Vecchio dei magi”.
“Ma quale”, dissi, “vantaggio al Maestro, da labbra sì dolci?”
“Con i baci soavi”, rispose, “lo rendono giovane sempre!”
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
“E’ un’invocazione”, rispose, “che cantano gli angeli in cielo!”. (1-7,9b)

Hafez dialoga con il suo “bello”:


“Non farti”, dissi, “idolatra, tu invoca piuttosto l’Eterno!”
“Là dov’è amore”, rispose, “si compiono entrambe le cose”.
Qui Dio e il “bello” coesistono. C’è in Hafez la cosapevolezza - e il desiderio di comunicarla -
che la passione amorosa sia parte costitutiva del piano divino. Tutto qua il risvolto metafisico
e mistico dei ghazal hafeziani. Hafez non nasconde le sue terrene e poco ortodosse pulsioni, le
vede però decise dall’Alto, difficili da sostenere, ma anche apportatrici di gioie. Fa la parte di
chi contesta l’atteggiamento del coppiere, e non condivide il suo ottimismo: “Vino e Tonaca
non sono un’usanza virtuosa”. “Fanno parte del culto del Vecchio dei magi”. Difende, il “bello”
misterioso, lo strano culto “segreto” che apre sentieri verso il Divino, assolve l’ebbrezza da
vino, ed esalta l’amore che mantiene l’animo giovane e libero dalle insidie del mondo.

Ghazal 207
La perla racchiusa in tesoro d’arcani è qual era,
e tale qual era è il sigillo, ed il marchio, su scrigno d’amore.
Sono certo, gli amanti, una cerchia di grande lealtà :
ancor piove perle, quell’occhio, sì, tale qual era!
205
[. . . . . . . . . . . . . . . . .]
Vieni a trovare colui che con quelle movenze tu uccidi,
ché ancora il suo misero cuore è angosciato qual era.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Sperai che il tuo ricciolo indiano mai più ci assalisse per via,
ma trascorsero gli anni, ed ancora egli è tale qual era.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ] (1-2, 5, 7)

Riprende il tema: l’amore terreno è di origine divina. Hafez rassicura che il Pegno primevo è
ancora in buone mani. Lo scrigno d’amore è intatto. I folli amanti sono leali, e i loro occhi
versano sempre pianti dirotti. Invita all’incontro colui che gli dà tormento, assicurando che il
dolore è sempre presente. Senza dolore l’amore non sarebbe come fu voluto dall’Alto e
accettato. Hafez ha sperato di essere abbandonato dalla sua passione, ma gli anni sono passati
e nulla è cambiato.

Ghazal 224
La lieta notizia ci è giunta: ha forato la zolla una nuova verzura.
Se c’è dato di che prodigarci, è in sapore di vino, in profumo di fiore.
C’è dato ascoltare le alate canzoni. Si porga a noi dunque la brocca,
chè gli usignoli in tumulto si dolgono: è stata svelata la rosa!
Cogli il fiore che il volto coppiere, la luna in lui piena, ci porge:
oggi il volto, al giardino, l’abbruna una lieve peluria di viola.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Son sconvolte, le leggi che detta percorso d’affetti,
volge in fuga una mite gazzella, laggiù , furibondo leone.
Se t’avventuri al sentiero d’amore, considera il rischio
dell’essere solo: procedi a tentoni, e sei perso.
Ma non ti dolere del pianto, perché quel sentiero è ricerca,
e non è vera gioia, se non fu tremore né pena.
E come, come sapere del gusto che in alti giardini matura,
se quel pomo che un giovane bello ti porge quaggiù non addenti?
Non so dove abbia fine il deserto, non so se abbia fine l’amore,
però , in nome di Dio, si conceda un soccorso a chi sponde non vede.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Una coppa al poeta, una coppa che sia tutta d’oro:
ai peccati dei sufi il sovrano ha concesso regale perdono. (1-3, 6-10, 12)

La primavera è in arrivo. Hafez si sente fremere di desiderio, ha visto sul volto del suo bello
la prima peluria. I tempi sono difficili, Hafez è disposto ad accontentarsi perché i sentieri del
percorso amoroso sono sconvolti. I deboli e poveri dervisci sono minacciati da forze ostili, e
chi ha deciso di seguire quella via corre dei rischi. Può avere aiuto dal numero.
Ma il rend non deve lamentarsi, ha imboccato una via difficile, alla ricerca dell’ineffabile.
Senza timore e pena, su quella strada non c’è vera gioia. E come prefigurarsi le gioie del
paradiso, se non si assaporano le gioie possibili sulla terra? La sofferenza è continua, l’amore
può non durare. Si abbia pietà dei poveri dervisci perduti sulla via dell’amore.

206
Nel finale giunge la notizia: “ai peccati dei sufi il sovrano ha concesso regale perdono”. A se
stesso Hafez rivendica una coppa d’oro per i suoi meriti di poeta.

Ghazal 260
M’ha rubato, ecco, il cuore impetuoso gitano,
mentitore incostante dai modi assassini.
Sacrificate a casacca strappata dei volti di luna
mille tonache pie, mille vesti astinenti!
No, no, l’angelo ignora che cosa è l’amore: coppiere
prendi un calice, e d’acqua di rose cospargi la creta d’Adamo.
A quel verbo m’inchino che grande una fiamma seconda,
non a quelle parole che gettano acqua sul fuoco.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Vieni, ché messaggero d’arcano in taverna iersera mi disse:
“Non lamentarti di nulla, mai fuga di fronte al destino!”
Nel mio sudario riponi una coppa, che all’alba del dì del Giudizio
con il vino mi tolga dal petto il terrore di risurrezione.
Nessun distacco tra amante ed amato, nessuno giammai:
il velo dell’esser te stesso, poeta, anche tu getta via. (1-4, 7-9)

Ancora un chiaro riferimento al Patto: l’Angelo ignora il sentimento d’amore, solo il


Coppiere lo interpreta e lo vivifica con il suo vino nella taverna dei magi. Hafez è tutto per lui,
e per quelli che a lui ricorrono. Non vuole ascoltare parole di moderazione.
Riceve messaggi dal mondo nascosto che lo invitano a perseverare, a non sfuggire al suo
destino. Hafez non deve mantenere coscienza razionale di sé, deve solo mantenere l’unione
con l’amato.

Ghazal 285
Il mio cuore è fuggito: io che sono derviscio non so
a quella preda raminga che cosa sia occorso.
Come un salice tremo per questa mia fede, ché il cuore
è nelle mani di un empio che ha sopracciglia arcuate.
Credo aver la pazienza del mare? Fughiamo il pensiero!
Che cosa ha mai nella testa la piccola goccia sognante?
Me ne vado piangendo e abbattuto dov’è la taverna,
ché m’assale vergogna di ciò che ho saputo ottenere.
Né la vita di Kheżr è rimasta né il regno del grande Alessandro:
no, non t’adombrare, derviscio, con questo vilissimo mondo.
Io lo adoro, quel ciglio, così fuorviante e spietato,
pungiglione feroce battuto da onde d’ambrosia.
dai camici, stilla su stilla, ecco il sangue trasuda,
se accostando la mano i dottori m’ascoltano il cuore ferito.
Tu sei un servo, poeta, e non devi lagnarti di quelli che ami,
ché non è tra le leggi d’amore il lamento del troppo e del poco.
207
[. . . . . . . . . . . . . . . . ] (1-8)

Un prorompente inno alla passione. Il bello viene definito “empio”, il che chiarisce ogni
possibile dubbio: non ha nulla a che fare con l’Amato divino, è proprio quello che appare, una
bella preda. Hafez stesso viene colto da scrupoli, si vergogna di quello che ha fatto e vede
anche la sua fede in pericolo. Trova una via d’uscita nel ribadire, al solito, la legge del rend: sei
schiavo d’amore, è una tua scelta, non lamentarti di ciò che ne consegue.

Ghazal 310
Lo dico ben chiaro, e di quanto ora dico ben lieto:
son servo d’amore, sì, son dai due mondi affrancato.
Son l’uccello del santo giardino, sì, come spiegare il distacco?
In questa rete che è fatta d’eventi in qual modo mai caddi?
Ero un angelo, e avevo nel paradiso superno dimora:
fu Adamo a trarmi precipite in questa contrada in rovina.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Da che mi son fatto servente nella taverna d’amore
ogni attimo è nuovo soffrire che nel benedirmi s’aggiunge.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ] (1-3, 7)

Parla con l’amato. Spiega la sua storia. Viene dal cielo, precipitato sulla terra per volontà
divina. Alla fine, come al solito, giustifica la sua vita come conseguenza di decisioni prese
dall’Alto. E’ ancora il tema del Patto. Molto ruzbehaniano.

Ghazal 356
Noi senza vincoli, ebbri, noi il cuore l’abbiamo smarrito:
intimi siamo al segreto d’amore, alla coppa di vino sodali.
Oh, quanti archi di biasimo vollero tender su noi,
da che il sopracciglio d’un essere amato ci ha reso felici!
Rosa, il marchio rovente del vino dell’alba accogliesti iersera:
noi quale papavero siamo che venne nel mondo col marchio.
E se rattristiamo, pentendoci, il Vecchio dei magi?
Ci dia vino puro, ché siamo ben pronti all’ammenda.
Tutto viene da te: uno sguardo, o tu che ci guidi,
Ché noi tanto ammettiamo sinceri, sì, abbiamo perduto la strada.
Tu no, non guardare, qual nel tulipano, la coppa ed il vino:
questo marchio tu osserva, che abbiamo sul cuore vermiglio.
“Tutti questi colori e illusioni che sono”, dicesti, “poeta?”
Bada a quanto ti par di vedere, noi siamo la tabula rasa.

Testo completo. Ghazal dell’amore appassionato, con riferimento, en passant, al “segreto


d’amore”. Hafez si vede predestinato, assieme ai sodali. Ma ammette di avere perduto le
coordinate. Tutto dipende da un segno, un marchio, presente nel cuore. Un imprinting di
origine divina. Inutile discuterne. Hafez rifugge dal ragionamento: “Noi siamo la tabula rasa”.

208
Ghazal 359
A questa porta non siamo venuti cercando gli onori e la gloria:
quaggiù a cercare rifugio da eventi funesti venimmo.
Noi dai confini del nulla, viandanti alla tappa d’amore,
abbiam tanta strada percorso finchè ad esistenza venimmo.
La tua calugine verde vedemmo, e quaggiù , dal giardino superno,
a ricerca di questo virgulto d’amore venimmo.
Pur avendo un tesoro siffatto che n’è tesoriere lo Spirito Santo,
noi mendici alla porta, alla reggia sovrana venimmo.
Dov’è, vascello trionfante, quell’à ncora tua di pietà ?
Da marosi di colpa sommersi, all’oceano di munificenza venimmo.
Si dilegua l’onore: o tu nube che celi i peccati, da’ pioggia,
perché all’ufficio degli atti con nero quaderno venimmo.
Getta via questo saio di lana, poeta, ché noi
la carovana a inseguire col fuoco dei nostri sospiri venimmo.

Testo completo. Ghazal molto forte. Hafez parla a nome di “tutti”. C’è rivendicazione di
amore efebico. Non è chiaro a chi sia rivolta la perorazione. Si ribadisce il possesso di una
legittimazione di origine celeste. Ma c’è timore: “da marosi di colpa sommersi… si dilegua
l’onore… con nero quaderno venimmo”. C’è prefigurazione del giorno del Giudizio. Chiude con
un’eco che sembra venire dal Diwān di Ibn Arabi: “la carovana a inseguire…”. Possibile che
parli al sovrano, chiedendo protezione e comprensione?
______________

Volendo ulteriormente districarvisi e pervenire a una percezione più chiara dei termini
della cosiddetta “questione hafeziana”, credo sia utile raccogliere e presentare assieme, altri
tre “filoni”. Con un occhio all’estetica e l’altro alle ragioni del “curioso”.
Seguirò un certo ordine, lavoro non facile giacché, come ho detto, i ghazal sono circa 500 e
la loro struttura “molecolare” si apre con fatica al cercatore dei vari oggetti preziosi: dapprima
i “belli” (chi sono e perché lo sono), poi gli atteggiamenti di Hafez nei loro confronti (“lo
schiavo d’amore”), infine la figura del rend (il ribelle dissoluto e ingenuo), con il quale Hafez si
identifica. Rimarrebbero da trattare in modo organico gli argomenti della taverna, del vino,
degli ipocriti, delle confuse e misteriose pratiche esoteriche che fanno baluginare le loro flebili
luci fra le rovine delle periferie di Shiraz. Ma anche di essi si sarà alla fine visto parecchio.
Per affrontare questi temi, e focalizzarli all’interno dell’opera di Hafez, trovo necessario
isolarli. Se i versi di Hafez, come ha detto William Jones, sono “perle infilate a caso”, ne farò
una mia “collana” tutta formata di immagini tratte dal vasto repertorio della taverna. Mi rendo
conto della parzialità di tale modo di procedere, ma non trovo di meglio e non voglio tediare il
lettore. Si entra così pienamente sul suo terreno. Senza questi versi non ci sarebbe stato Hafez.

Hafez e i “belli”

E’ gradita, l’ebbrezza, per l’occhio del bello che a sé m’incatena,


e ad ebbrezza per questo affidarono un giorno le redini mie.
Zefiro, se di volare a giardino dei belli t’occorre,
discreto porgi all’amico, ti prego, il messaggio:

209
“Perché dedicarti a far sì che di me si smarrisca memoria?
Inesorabile cala da solo, su ciò che fu nostro, l’oblio”. (11, 6-8)

O tu, fra i tuoi riccioli quali catene è la vita di molti ben noti:
oh, ti dona davvero, sul volto vivace, quel neo così scuro, straniero.
Sul tuo viso di luna si specchia l’immagine rossa del vino,
come petalo rosso su fiore di rosa canina straniero.
Brulichio singolare, di giovane barba, dintorno al tuo volto,
se pur là dove stanno i dipinti non è, fosco tratto, straniero!
“Sono notte straniera”, dicevo, “i tuoi riccioli neri colore del buio,
però bada, nell’alba, ai lamenti che a te leva questo straniero!” (15, 4-7)

A chi, vano e altero, ci nega il diritto di amare,


io contrappongo, trionfale argomento, che il volto tuo è bello. (29, 2)

Ma tu, lieve idolo mio, quale rito funesto hai per legge?
La mia morte è a te coppa più pura che seno di madre. (40, 2)

Veramente infinita è la bruna dolcezza d’un corpo,


e il bruno vino dell’occhio, e il riso del labbro, e la grande letizia del volto!
Io sono lo schiavo di tutte le bocche soavi del mondo […] (59, 1-2a)

Un solo sguardo d’audace narciso dall’alto, e son vinto,


un sol sorso di rossa alterigia, e non scorto mi prostro.
Persegui ciò che t’aggrada senz’esser molesto ad alcuno:
la nostra legge pronuncia a tal unica colpa condanna.
Non cavalcare al galoppo, signore del regno dei belli […] (76,5-7a)

Il liquore che danno le rosse sue labbra non bevvi: andò via:
Non scorsi appieno il suo volto di luna: andò via. (85, 1)

Coppiere, vieni: l’amico ha svelato la gota,


e s’è il lume di quelli che sono in ritiro riacceso.
Fiammeggiante candela attizzava, ecco, ancora il suo volto
e questo vecchio dagli anni infiniti la sua giovinezza ritrova. (86,1-2)

Chiesi: “E i ricci degli idoli, quelle catene, a che pro?”


“Ma non era il poeta”, rispose, “a lagnarsi del cuore suo folle? (136, 8)

Oh, gli ingannevoli trucchi che tu praticasti, poeta:


accattivare a te stesso volevi quel bello, e fu tutto vano. (166,8)

Concedi un bacio alle labbra mie, dissi, di grazia!


210
Rispose, e rise: ”Fu mai tra noi due tal legame?”
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
In quella bocca d’amico il rimedio al tuo male, poeta:
ma ohimè, quella bocca minuta, ritrosa ad aprirsi a pietà ! (208, 6,8)

E come, come sapere del gusto che in alti giardini matura,


se quel pomo che un giovane bello ti porge quaggiù non addenti? (224,9)

M’ha rubato, ecco, il cuore impetuoso gitano,


mentitore incostante dai modi assassini. (260,1)

In quella sua gota qual luna si fondono grazia e avvenenza,


ma le mancano amore e lealtà : Tu provvedi, Signore!
Un fanciullo leggiadro rapisce il mio cuore, ed un giorno per gioco
questa misera vita mi toglie, e per legge non ha colpa alcuna.
Quattordici anni ha quell’idolo mio, è un bel dolce monello,
al cui orecchio pienezza di luna è servile pendente.
Esala dal suo dolce labbro il profumo del latte,
ma sangue è che goccia la nera malizia degli occhi.
Lo so, per me è meglio proteggere il cuore da lui
che non sa averne cura, ché mai vide il bene né il male.
Il mio cuore, o Signore, inseguendo la rosa da poco spuntata,
dov’è andato a finire? Ché io non riesco a vederlo, è gran tempo.
Io dò ringraziando la vita, se quella mia perla minuta
si rifugia nell’occhio di questo poeta che è come conchiglia.
Colui che possiede il mio cuore, se spezza in tal modo le vite,
molto presto sarà dal sovrano alla guardia del corpo prescelto. (284)

Io lo adoro, quel ciglio, così fuorviante e spietato,


pungiglione feroce battuto da onde d’ambrosia. (285,6)

Io sono l’amante d’un giovane volto che sorge soave:


fu a Dio che impetrai con preghiere la gioia di questo dolore.
Sì, io amo, gioisco ribelle, mi piace giocar con gli sguardi!
Sappilo, sì, sono i pregi di cui solamente m’adorno!
La tonaca impura che indosso mi fa vergognare:
con troppe trame d’inganni ne rammendavo l’ordito.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Me n’andrò qual poeta in taverna, indossando una lacera veste.
E una sola speranza: m’accolga quel giovane amore. (305, 1-3,6)

Il volto del bello appariva davvero a quegli occhi, ed allora


io mandavo lontano i miei baci, alla gota del chiaro di luna.
211
L’occhio fisso su volto coppiere, l’orecchio su canto di lira,
era così che con gli occhi e le orecchie traevo i miei auspici. (313, 3-4)

Il primo giorno che vidi il tuo volto, così disse, il cuore:


“Oh, se a me giunge danno, il delitto ricada sull’occhio!”
Sperando in lieta novella d’incontro con te, fino all’alba iersera
sulla strada del vento ho lasciato la lampada accesa dell’occhio.
Ma tu il cuore crucciato di questo poeta, per tua cortesia,
non colpirlo coi dardi taglienti e possenti dell’occhio. (331, 5-7)

Da calugine lieve d’amico tu apprendi ad amare un bel volto,


perché cosa dolce è sfiorare le gote dei belli. (385, 5)

Infonde, il crespo giacinto, fragranza al respiro del vento:


tu lo vinci, col ricciolo tuo che ha il profumo dell’ambra. (391, 6)

Spargono sangue i miei occhi, per l’arco di quel sopracciglio:


per il mondo saranno un tumulto, questi occhi e quel suo sopracciglio!
Lode agli occhi di un turco che dolce riposa in ebbrezza:
il sopracciglio una fronda muschiata, un adorno giardino quel volto.
E’ una luna sottile, il mio corpo, da tanto dolore: al nero arabesco di lui
come osa mostrare la luna, da cielo ricurvo, quel suo sopracciglio?
Ignari di tanto, i rivali,: con ogni respiro a noi giungono mille messaggi diversi
dalla sua fronte e dagli occhi, e nel mezzo c’è quel sopracciglio.
La sua fronte è roseto d’incanto per le anime sole e in disparte,
ché là il sopracciglio s’aggira grazioso tra i bei gelsomini.
Nessuno mai più potrà fare un elogio di fate e d’urì, né che queste
hanno gli occhi sì belli, o che quelle hanno un tal sopracciglio!
Empio cuore, dei riccioli non ti fai velo, ed io temo divenga
per me nicchia sacra la curva di quel sopracciglio ladrone di cuori.
Volava scaltro, il poeta, all’aereo suo gioco d’amore:
una freccia di sguardo bastò a catturarlo, dall’arco di quel sopracciglio. (404)

Sei il sovrano dei belli, e te ogni mendìco contempla,


eppur non sai quanto valga tal rango: che cosa vuol dire?
Non m’offristi dapprima la punta del ricciolo tuo?
Sì, ma poi mi gettasti giù a terra: che cosa vuol dire?
La tua bocca un segreto, i tuoi fianchi un mistero: li svelano lingua e cintura,
ma tu contro noi la tua spada sguainasti, che cosa vuol dire? (412,3-6)

Mi portai pieno di sonno iersera alla soglia in taverna,


madido il saio, e la veste e il tappeto di vino macchiati.
Affliggendosi venne quel giovane mago che tale bevanda dispensa:
212
“Orsù destati”, disse, “o viandante da sonno macchiato!
Solo quando hai compiuto i lavacri a taverna tu incedi,
non mai che il diruto convento per te sia macchiato.
Bramando le labbra dei dolci fanciulli per quanto vorrai
che la perla dell’anima sia da disciolto rubino macchiata?
per la tua tarda età transitando in purezza, la veste di gloria
del declino non sia come giovane onore macchiata.
quanti sanno la via dell’amore, in tal mare profondo
annegarono e, pure, non furon dall’acqua macchiati.
E’ un pozzo, natura: tu fuggine limpido e terso,
perché non dona purezza, quell’acqua da fango macchiata”.
“O tu vita del mondo”, risposi, ”quando mai che sia fallo
se in primavera il quaderno di rosa da limpido vino è macchiato?”
“O poeta”, mi disse, “agli amici non vendere enigmi ed arguzie!”
Ohimè, questa gran leggiadria da rampogna macchiata! (414)

“Vino e fiori da spargere attorno: che cosa cercar dalla vita?”


Così parlava nell’alba la rosa: e tu che hai da dire, usignolo?
Va’ a ristar nel roseto: alle labbra coppiere ed a un giovane volto
carpir baci, e libare tra fiori che dà nno profumo soave.
E al roseto fa’ incedere il bosso, che apprenda il cipresso
da quella tua snella statura maniere di grazia.
A chi darà poi la fortuna, codesto bocciolo ridente?
Per chi, per chi cresci, tu fragile ramo di rosa?
La bellezza è una fiamma che arde laggiù dove transita il vento:
tutto il bene che puoi con quel cero ora cogli e cattura.
Al tuo mercato oggi fervon gli affari? Tu fanne tesoro,
e del capitale di grazia leggiadra ricolma i forzieri.
In quel ricciolo cento son sacche di muschio cinese a ogni piega:
oh, se in lui fosse stato d’un indole buona un sentore! (486, 1-7)

Hafez “schiavo d’amore”

Mai sappia intelletto che il cuore è felice nei ceppi del ricciolo suo:
farebbero i saggi, altrimenti, follie per finire in catene. (10, 5)

Posai sulla sua strada questo volto, e lui ecco non passò .
M’attendevo da lui ben mille grazie, e neppure mi guardò .
Di mie lagrime una piena non gli erose odio dal cuore,
ché non resta mai la traccia della pioggia su una pietra.
E’ un baldo giovane: sempre su lui veglia, Signore!
Non bada al dardo dei lai che sospiriamo schivi.
A queste grida mie non dormirono, a notte, pesci e uccelli,
213
e guarda l’impudente, neppure si svegliò !
Volevo, qual candela, spegnermi ai piedi suoi,
ma lui qual brezza d’alba non mi volle visitare.
Chi c’è di così duro e così indegno, dimmi,
che a parar la tua spada non offre anima e scudo?
La lingua tua, penna eloquente, mai si tradì, poeta:
però perse la testa, e il suo arcano svelò . (139)

Il cuore anela, minuscolo storno, all’arcata d’un bel sopracciglio:


bada bene, colomba, sta’ in guardia, il falcone rapace ecco è giunto! (172, 5)

Sopporta da amante rampogna d’amico che ha volto di fata,


ché un’occhiata poi basta a indennizzo di cento tormenti. (182,2)

Oh, memoria di quando mia sede era il vicolo ov’hai tu dimora,


di quando all’occhio era luce la polvere della tua soglia! (203,1)

Oh, che in santo volo egli a questa mia soglia ritorni,


e a me che son vecchio la vita trascorsa ritorni.
In queste mie lacrime simili a pioggia confido, che ancora
il lampo perduto di sorte propizia al mio sguardo ritorni.
La terra che lui calpestava era quale corona al mio capo:
io chiedo al Signore che sopra quel capo ritorni!
Certo lo seguirò , e se a tutti i compagni a me cari
la mia persona non torna, di me pur notizia ritorni.
Se non la dilapido ai piedi di quell’amico prezioso,
a qual altro utile vuoi che la perla di questa mia vita ritorni? (232, 1-5)

Arrecami, zefiro, un soffio di terra da strada d’amico,


cancella l’angoscia del cuore, e notizia d’amico a me porta!
Vivificante minuzia da bocca d’amico racconta,
e una lettera a buona novella dal mondo d’arcani qui porta.
E sì ch’io profumi di grazia alla dolce tua brezza le nari,
dal respiro d’amico un sentore d’aroma, a me un alito porta.
Per la tua fedeltà ! Dalla via dell’amico diletto,
quando libero appare da estranea foschia, terra porta.
La sabbia ove passa l’amico, che possa accecar l’avversario,
a sollievo dell’occhio che lacrima sangue tu porta.
Non s’addice innocenza a colui che con l’anima gioca:
da ferocia d’un ladro di cuori una sola notizia a noi porta. (244, 1-6)

Ho sofferto una pena d’amore… non chiedermi nulla.


Sorso amaro di vino, il distacco… non chiedermi nulla.
214
peregrino vagavo nel mondo, quand’ecco, alla fine,
io sceglievo al mio cuore un signore… non chiedermi nulla.
E scorre, scorre, ed anela alla terra di quella sua soglia,
quest’acqua che sgorga dagli occhi… non chiedermi nulla.
Ieri sera ho sentito, sì, proprio con queste mie orecchie,
parole su quella sua bocca… non chiedermi nulla.
E tu, a che morderti il labbro per farmi tacere?
Io mordevo un rubino, lo sai… su, non chiedermi nulla.
In assenza di te, nella povera cella mendìco,
oh, che pena ho sofferto, che pena… non chiedermi nulla.
Come questo poeta, straniero che batte la strada d’amore,
d’una sosta la pietra miliare ho raggiunto… non chiedermi nulla. (265)

Il mio cuore è fuggito: io che sono derviscio non so


a quella preda raminga che cosa sia occorso.
Come un salice tremo per questa mia fede, ché il cuore
è nelle mani d’un empio che ha sopracciglia arcuate. (285, 1-2)

Ha una lingua, lo stilo, che non vuol narrar del distacco,


altrimenti io a te spiegherei questa storia di separazione.
A esercito di fantasia son soldato, a costanza son io cavaliere,
son compagno del fuoco d’esilio, ed amico di separazione.
Ahimè, questa vita ch’io tutta trascorsi sperando d’averti vicino,
è finita, e non vengono a termine i giorni di separazione.
Il mio capo orgoglioso innalzavo a toccare la ruota celeste:
io lo giuro sui giusti, or l’ho posto su soglia di separazione.
In che modo potrò dispiegar le mie ali nei venti d’incontro?
Il volubile cuore ha perduto ogni penna nel nido di separazione.
E v’è forse ora rimedio? nel mare di pena è caduto in un gorgo
il mio remissivo battello, da vela sospinto di separazione.
Non molto resta a che affondi la nave di questa mia vita,
sotto l’onda d’amore per te, nell’oceano infinito di separazione.
Come posso pretender di giungere a te con la vita mia sola?
Del destino è avvocato il mio corpo, il mio cuore garante di separazione.
Il cielo osservò che il mio capo era ostaggio del cappio d’amore:
aggiogò allora quel collo paziente alla corda di separazione.
Un anelito ardente bruciava il mio cuore lontano da amico:
senza sosta sol sangue mi nutre su mensa di separazione.
Oh, se passo smanioso valesse a percorrer la strada, poeta!
Non affiderebbe nessuno al distacco le briglie di separazione. (291)

Hafez è vecchio, soffre per la lontananza dell’amico. Si dipinge poeta e d’animo nobile. Un
sofferente per predestinazione, sulla scia del ritratto del fedele d’amore che abbiamo letto nel

215
“Gelsomino” di Ruzbehā n. “Non molto resta a che affondi la nave di questa mia vita,/sotto
l’onda d’amore per te, nell’oceano infinito di separazione”: un bel verso di sapore mistico, che
sembra richiamare l’idea di una presenza divina sempre cercata, desiderata, e mai realmente
incontrata. “Come posso pretender di giungere a te con la vita mia sola?”. Ma se Hafez
intendesse questo, quale motivo avrebbe, prossimo alla morte, di piangere e disperarsi per il
mancato, e irrecuperabile, incontro? Dovrebbe anzi finalmente trovare pace, felice di essere
arrivato al naturale epilogo, e al sicuro ricongiungimento. Il suo stato d’animo è invece di
sofferenza per una perdita che vede definitiva: “Il cielo osservò che il mio capo era ostaggio
del cappio d’amore:/aggiogò allora quel collo paziente alla corda di separazione”. Al primo
posto sempre le sue passioni, il resto è contorno.

Sono triste e sconfitto, e vivrò solo quando il dolore


che dà i vibrerà su di me la sua lama assassina.
Ti ho forse recato un’offesa, ho il tuo onore ferito?
Devozione è, la mia, disperata, perché non l’accetti?
A mani vuote, padrone di nulla, sto sulla tua soglia,
m’è negato l’accesso, e non so via d’uscita. (300, 4-6)

Tu rischiari ogni cerchia, e mi lasci bruciare geloso,


ma alla fine mi scordo di te, se tu troppo d’estranei ti curi!
Se ti scegli un amico diverso, mi togli la vita:
non osar darti pena per altri, o mi fai disperato!
Accorri quando ti chiamo, d’un misero prova pietà !
Non ridurmi a invocare un ministro più giusto a soccorso.
Oh, no, mai distolga da te sanguinando lo sguardo, il poeta!
Egli è libero solo da quando l’hai messo in catene. (309,7-10)

Lo dico ben chiaro, e di quanto ora dico ben lieto:


sono servo d’amore, sì, son dai due mondi affrancato.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Da che mi son fatto servente nella taverna d’amore
ogni attimo è nuovo soffrire che nel benedirmi s’aggiunge.
Si nutre in me, la pupilla, del sangue del cuore: è ben giusto,
perché alla più cara fra tutte le genti quel cuore donavo.
con il ricciolo il viso di questo poeta detergi dal pianto,
o le mie fondamenta travolge diluvio infinito. (310, 1,7-9)

Mi finisce di spada: non fermo la sua mano.


Con dardi mi colpisce: lo accetto qual dono.
ha un sopracciglio ad arco, che scocchi la sua freccia!
E venga a me la morte di fronte al braccio suo!
Ho dolore di mondo e non so, che lo allevii,
di strumento diverso da una coppa di vino. (323, 1-3)

216
Quando prego la sera in esilio ed al pianto dò inizio,
una mia storia racconto con legno straniero.
Ricordandoi l’amico e la terra mia piango con tale dolore
che cancello dal mondo il costume e l’usanza del viaggio.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Su questa mia tarda età come può la ragione far conto,
se pratico ancora l’amore con idolo infante?
Oltre a zefiro e bora nessuno ha notizia di me,
di questo misero me che col vento e non altri divide i segreti. (325, 1-2, 5-6)

Venga, venga una lieta novella d’incontro, ed io lascio la vita!


Io volavo nei santi giardini, ecco, voglio fuggire la rete del mondo!
Sull’amore per te io lo giuro! Mi chiami tuo servo,
e rinuncio al dominio su tutte le cose che sono.
Oh, una pioggia da quella Tua nube che illumina i passi,
prima ch’io come polvere perso nel vento svanisca.
Al mio sepolcro tu vieni a posare col vino e il melode,
e risorgo danzando, al dolcissimo aroma che sale.
Orsù levati alto, mio idolo bello e soave,
ed io come il poeta abbandono la vita e le cose!
Sono vecchio, ma stringimi forte una notte sul seno,
ed io dal tuo abbraccio ancor giovane nasco nell’alba. (328)

Sulla terra ove incedi la gota noi ben cento volte ponemmo:
l’ipocrita faccia del volgo a distanza ponemmo.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Come quelli che osservan la luna, alla festa d’unione sperando,
su quei spraccigli ricurvi noi supplici gli occhi ponemmo.
“Ma dove, poeta”, mi chiedono, “sta quel tuo cuore vagante?”
negli anelli dei riccioli curvi, ecco, là lo ponemmo. (357, 1, 7-8)

Orsù un varco alla gioia da porta in taverna cerchiamo!


Su via d’amico insediamoci, e quanto ci aggrada cerchiamo!
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Al nostro cuore si neghi il piacer d’avvampare di pena per te,
se giustizia dal male d’amore che dà i noi cerchiamo.
Una lavagna, la vista, che non vi si traccia il tuo neo come un punto,
a meno che la pupilla dell’occhio l’inchiostro ci dia che cerchiamo.
A prezzo dell’anima il cuore voleva del tuo labbro un cenno,
ma quel labbro diceva con dolce sorriso: “Ben altro cerchiamo!”
Al cuore, preso da buia passione, a dar atra ricetta,
nella calugine tua profumata una copia cerchiamo.
Poiché il dolore per te non si trova se non in un cuore felice,
217
noi in questo dolore sperando felice pensiero cerchiamo. (361, 1, 4-9)

L’amore terreno - gioia e dolore - come mezzo per arrivare al divino. La passione dolorosa è
la via per il trascendente. Così Hafez giustifica se stesso. Seguendo Ruzbehā n.

Oh, come narra di me la città , e del mio dilettarmi d’amore!


Ma io questi occhi preservo da sguardo funesto d’invidia.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Ma volgiamoci al vino e lasciamolo dire, chi vuole!
E’ pur legge, per noi, trascurare parola d’inetti.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
E tu bacia due cose soltanto, poeta: le labbra e la coppa,
perché grave peccato è baciare la mano ai bigotti! (385, 1,7,9)

Io preda irrefrenabile di gelosia sconvolto barcollavo,


vedendo ieri notte su quell’idolo mio mano straniera.
Oh, gli inutili, vani, ingegnosi disegni!
Per lui soltanto fole, gli incantesimio miei!
Sopra il cerchio soave delle sue labbra giuro
di tacer d’altro cerchio che non sia coppa rotonda.
E a me non dir di scuola, non narrar di conventi:
son preda irrefrenabile della mia sete di vino. (417, 6-9)

“A te”, cento volte dicesti, “dan quello che vuoi, le mie labbra”.
Perché quale giglio di campo tu l’hai sì protesa, la lingua?
“A te”, dici, “dò quello che vuoi, e la tua vita mi prendo!”
Ho paura di perder la vita, e di non ottenere quanto cerco. (466, 4-5)

Hafez e il “rend”

Per Hafez sono preferibili - perché più vere - le libagioni di vino in compagnia di giovani
“zoroastriani”, le apparizioni rivelatrici di qualche “bello” in osteria alla sera o all’alba - con i
loro ineffabili cenni alla pretereternità - rispetto alle sedute di audizione devozionale nella
khāneqāh, e alle deludenti esperienze estatiche e teopatiche dei sufi. Il rend di Hafez, alter ego
del poeta, è un inesausto cercatore di gioia e verità che conduce un’esistenza di amante
derelitto e bevitore dissoluto, ma del tutto privo di doppiezza. Conscio della propria
condizione e mai vergognoso di essa, volto unicamente alla realizzazione del proprio sé, così
come fu stabilito da Dio prima dei tempi.

A ebbra vita ribelle tu chiedi il segreto velato,


ché ad alterigia di sufi rimane quest’estasi ignota. (7,2)

Scapigliato ridente affannato discinto in ebbrezza,


cantando una dolce canzone reggendo una coppa di vino,
nello sguardo il furore, beffarde le labbra dolenti,
218
mi colse iernotte assopito al mio fianco sedette.
Al mio orecchio si fece, e la voce amarezza gravava:
“O tu amico di tempi trascorsi, sei forse ora preda del sonno?
Il vino che dà nno al fedele d’amore dissolve le notti,
e lui, sacrilegio d’amore, a quel vino, ecco, non si prosterna?”
Asceta, vattene, e non disprezzare chi il nero dell’orcio sorseggia:
accettammo di viver nel mondo, e a noi questo solo fu dato.
Quello ch’Egli versò nella coppa, non altro, bevemmo,
volessero a noi dare ambrosia celeste o liquore da renderci ebbri.
A noi rida dunque la coppa, sorrida a noi il ricciolo attorto dei belli:
non la piange il poeta, la tetra rinuncia, e non è chi la pianga. (22)

Su questa via, di rottami di cuore, non d’altro, si può aver mercato:


chi fa conto di sé qual moneta di scambio si volga a ben altri! (40, 6)

Il mondo intero non è che l’ansante officina del nulla.


Solo il vino: ogni affanno che resta è forgiato nel nulla,
e se non fossero l’anima e io cuore protèsi alla festa d’amore,
anche quest’anima, sì, e questo cuore, sarebbero persi nel nulla.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Corre il verso d’un grande poeta sonoro nel mondo:
fama e infamia, a chi ha gioia ribelle, è il frastuono del nulla. (75, 1-2, 9)

Bere vini e gioire nascosti a che vale? Oh, l’agire infondato!


Nei ranghi entrammo di gioia ribelle, e sia quel che sia!
Sciogli il nodo che serra il tuo cuore, e dimentica il cielo:
mai lo sciolse, quel nodo, pensante geometra alcuno.
[. . . . . . . . . . . . . . . .]
Vieni, vieni, che il vino ci renda ubriachi un momento!
Chissà , forse in queste rovine giungiamo a scoprire un tesoro. (97, 1-2, 8)

A me, che ho modi selvaggi e la mente ormai vagabonda […] (105, 3a)

Venere più con dolcezza non suona: arse forse il liuto?


Non è chi possieda il talento d’ebbrezza: dei gran bevitori che fu?
Nessuno conosce i segreti divini, tu dunque, o poeta, sta’ zitto:
a chi chiedere, a chi, della giostra rotante dei tempi che fu? (164, 8-9)

Motteggiava una sera con me: “Sì, sarò al tuo convito signore!”
Per compiacerlo, umilissimo servo mi feci, e fu tutto vano.
“Da chi ha gioia ribelle”, egli stesso annunciava, “non mai mi separo”.
A me fama era gioia ribelle, inesausto sapere, e fu tutto vano. (166, 4-5)

219
Se chi il vino dispensa compiace chi ha gioia ribelle,
Iddio gli rimetta i peccati, e risparmi il malanno.
Versa il calice in giusta misura, o coppiere,
così che il mendico geloso non sia per il mondo sciagura.
A noi sofferenti d’amore, a noi torpidi dopo l’ebbrezza
son due rimedi concessi: o d’unione all’amico o di limpido vino.
[. . . . . . . . . . . . . . . . ]
Non è strada a ragione o intelletto, entro quest’officina:
perché fiacca illusione dibatte di cose che ignora?
Accorda il liuto ed intona: “C’è un giorno assegnato
a ogni morte”. Se canti canzone diversa, è un errore.
Nel vino è l’anima persa, e il poeta è bruciato d’amore […] (181, 1-3, 6-8a)

Oh, sia vivo il ricordo di quando vivevo in taverna ubriaco,


poiché là c’era quello che adesso mi manca in moschea! (200, 8)

Oh, che tumulti, con l’alba, laggiù alla taverna, Signore!


Che spumeggiare di belli e di fiamme, e di coppieri e candele!
A raccontare d’amore non serve lo scritto e la voce:
cantava ben alto, laggiù , quel lamento di flauti e tamburi.
Una riunione di folli, a discorrer di cose,
oh, ben altre da quelle che si dibattono a scuola!
E gratitudine c’era nel cuore per quei dolci sguardi coppieri,
e disappunto per quella svanita passione pur era.
All’ebbra malia di quegli occhi pensavo, che è tale
da scorar mille maghi, provetti che siano d’incanto. (208, 1-5)

Era l’alba, ed ancor m’ubriacava la notte,


che a libare m’accinsi tra cimbali e arpe.
Affidavo a intelletto provviste abbondanti di giare,
e lo spedivo lontano da questa città d’esistenza.
A me regalava moine, quel vago mercante di vino:
mi poneva al sicuro da tutti gli inganni del mondo.
Ascoltavo il coppiere dal bel sopracciglio qual arco:
“O tu fatto bersaglio di freccia e rampogna,
non sarai qual cintura felice alla vita sottile di lui,
sino a che in questa vita è di te che sei conscio.
Va’, questa tua trappola tendila ad ali diverse,
ché ben oltre si trova fenice ed il nido suo alto.
Confidenti, cantori e coppieri non sono che Lui:
i modelli di cosa creata son solo pretesti per via!”
A noi dona la nave del vino, e vedrai, salperemo felici,
da questo mare di cui non si vedono sponde e confini.
220
La nostra esistenza è un enigma, o poeta:
a risolverlo vale soltanto un incanto, o una fiaba. (418)

Hafez indossa la veste del mistico, parla con uno spessore inusuale. “Affidavo a intelletto…”
Sembra che il vino sia cibo per la mente. Però è sempre chiara la situazione in cui si muove:
musica, vino, coppieri. Coppieri stanchi e disillusi, che vogliono aprirgli gli occhi. “Non
raccontarmi favole, quello che dici di cercare, qui non puoi trovarlo. Sei troppo attaccato a
noi!”. Ma per Hafez l’esistenza è un’enigma, meglio stordirsi. Nomina Dio ma non vede
soluzioni.

Sulla strada del gioco d’amore son quiete e certezza sventura:


sia lacerato quel petto che balsamo chieda penando per te.
per chi vive di vezzi e piaceri non strada alla gioia ribelle:
val viandante che al mondo dia fuoco, non serve un ignavo inesperto!
In questo mondo che è fatto di terra non uomo tu trovi:
un mondo diverso bisogna plasmare, ed un uomo diverso.
A che i pianti di questo poeta, di fronte a un amore concluso e perfetto,
diluvio per cui i sette mari non sono che esigua rugiada? (461, 6-9)

Non è in convento di magi chi sia come me così folle:


qui la tonaca in pegno del vino, ed altrove il quaderno.
Un velo di polvere opaco fa il cuore che è specchio regale,
io chiedo al Signore un compagno che splenda di luce nel petto.
Dispensa un idolo il vino, a lui innanzi mi sono votato
a non bere più vino se assente è la gota che adorna il convivio. (481, 1-3)

_______________
Il ghazal: “A Persian Song”

Ho riportato diversi ghazal hafeziani completi e una ricca selezione di versi che mostrano,
nella traduzione di Scarcia e Pellò , i modi e la qualità delle sue passioni. Il problema della
supposta mancanza di unità strutturale del ghazal di Hafez, sempre sollevato e dibattuto,
secondo Robert Rehderclxxiv non si porrebbe: “ogni ghazal possiede l’unità di essere un
ghazal”, frutto di una lunga serie di scelte precise (versi, lunghezza, soggetto, immagini). I
distici dei suoi ghazal, sempre conclusi in se stessi, appaiono effettivamente intercambiabili e
possono dare ragione a Sir William Jones che li ha definiti “perle orientali infilate a caso”, nel
verso finale del ghazal n. 3 da lui tradotto, primo fra gli occidentali. Forse allora può avere un
qualche senso anche raccoglierli “a collana”, come ho fatto io, per rappresentare con più
evidenza specifiche problematiche.
I ghazal di Hafez generalmente accettati come autentici sono circa 500, e costituiscono il suo
Divān. Un blocco così coeso e omogeneo si potrà ritrovare solo nei Sonnets shakespiriani. Il
ghazal classico viene da una storia di almeno due secoli, e tutte le sue caratteristiche, formali e
tematiche, sono già riscontrabili nei suoi predecessori. Hafez, pur mantenendone intatta la
forma, ha esteso la gamma dei toni - che erano principalmente a carattere erotico - all’etica,
alla filosofia mistica, all’omiletica e alla politica. Il takhallos, la firma, è quasi sempre presente
e rappresenta più direttamente la voce del poeta. Hafez è un poeta dotto, usa citazioni in

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arabo, inserisce emistichi completi in tale lingua (versetti del Corano, massime pie o proverbi)
e anche brani di poeti persiani.
Come si è visto i temi più ricorrenti riguardano i tormenti e le tribolazioni del poeta amante,
l’annullamento nel vino, il riflesso del trascendente nella bellezza terrena tanto ricercata. Al
tema centrale dell’amore e della bellezza, si accompagnano le critiche all’ipocrisia di figure
dell’establishment clericale (predicatori, muftì, giudici, poliziotti, e in particolare coloro che si
pongono come asceti). Di grande rilievo le immagini e i motivi incentrati sulla figura del rend,
il “dissoluto”. Si accompagnano vari temi sussidiari: rose e usignoli in continuo dialogo,
l’arrivo della primavera, lamenti contro la crudeltà del destino e la caducità del mondo, la lode
sperticata di se stesso come poeta.
Riferimenti al biblico Salomone e alla sua leggendaria conoscenza della lingua degli uccelli,
ad Alessandro e ad un suo specchio miracoloso. Le più frequenti allusioni letterarie sono a
famose storie d’amore (Giuseppe e Zoleykhā , Laylā e Majnū n, Maḥ mū d e Ayyā z). L’ambiente è
spesso quello della taverna, ma anche un cerchio conviviale di amici, oppure una festa di
corte. Tra i presenti il cantante, il musicista, il coppiere. Il coppiere (saqī) è spesso identificato
con la persona amata, anche se il suo ruolo primario è quello di confortare la persona
sofferente con il suo vino. Altri personaggi tipici: il pretendente, rivale del poeta nella poesia e
nell’amore, il guardiano, la spia. Oltre alle figure religiose, compaiono, con toni sfumati e
allusivi, principi e patroni.

Gli altri, prima di Hafez

Si dice giustamente che la poesia di Hafez, e in generale tutta la poesia orientale, risponde
ai dettami di un canone - un comune codice espressivo - che si è venuto formando nel tempo.
Sottostarvi era considerato doveroso, e caratterizzava la figura del poeta.

E’ proprio il canone che ne costituisce il substrato clxxv […] Si tratta in realtà di una struttura composta
da più moduli (i singoli versi) in sé compiuti e autonomi, quindi svincolabili l’uno dall’altro […] Il
principio sostanziale che garantisce la tenuta dell’insieme, oltre alle costanti di natura formale quali il
metro e la rima, è proprio il fatto che le idee espresse provengono dal repertorio tematico unico e
omogeneo del canoneclxxvi […] Compito del poeta è infatti fare suoi forme e motivi per esercitare,
all’interno dei confini della tradizione, le proprie capacità espressive, plasmando i temi e le immagini
apprese come se fosse il primo a utilizzarle clxxvii […] Tutto ciò in un costante dialogo con un pubblico
cortigiano e colto (e in seconda istanza anche popolare e religioso), che conosce la tradizione clxxviii.

Un canone, dei codici espressivi, un immaginario stilizzato a cui si è fatto ricorso con
continuità da parte di tutti. Anche le poesie di Hafez, intese come “forme” poetiche che
poggiano su loro tipiche “figure”, non sono dunque propriamente creazioni completamente
sue, ma raccolgono e riflettono, pur con le loro specificità , un retaggio che custodiva al proprio
interno, ormai da secoli, gli stessi temi e modi espressivi.
Di questo ci si può facilmente rendere conto gettando uno sguardo agli autori più
importanti che lo hanno preceduto, nei confronti dei quali Hafez si pose come erede e
rispettoso continuatore.
֍

Omar Khayyā m di Nishapur (1048-1131) è il più “occidentale” dei poeti persiani. Autore di
robāʼiyyāt, “quartine”. Più di 1200 quelle attribuite, ma solo circa 250 sono considerate sicure.
Per alcuni Khayyā m (“fabbricante di tende”) è un ateo scettico, per altri un mistico esoterico,
per altri ancora un razionalista pessimista. Fu anche scienziato: fece parte di una commissione
nominata dal Sultano per la riforma dl calendario e scrisse un trattato di algebra. In Persia fu
considerato a lungo un poeta di terz’ordine, perché considerato troppo semplice.
222
Fu esecrato dai religiosi. Un famoso maestro suficlxxix così si esprime:

Infelici filosofi e materialisti che sono staccati dalle benedizioni divine e brancolano nella stupefazione
e nell’errore, insieme a un certo dotto, famoso fra loro per il suo talento, la sua sapienza, la sua sagacia,
la sua dottrina. Costui è Omar Khayyā m. Per farsi un’idea della sua estrema svergognatezza e
corruzione, basta leggere i seguenti versi da lui composti:

Il Creatore, allorquando plasmò adorne forme e nature,


Per qual ragione mai le gettò sotto imperio di morte?
Se ben riuscita era l’Opra, perché mandarla in frantumi?
E se mal riuscita era, di chi, dunque, la colpa? (31)clxxx

Il Cerchio che tutto compone il nostro Andare e Venire


Non si vede dove cominci, né dove abbia la fine.
Non un solo verbo di Vero, su questo, disse nessuno:
Nessuno sa donde sia il Venir nostro, dove l’Andare. (34)

Anche se alcuni sufi hanno voluto prendere il senso esteriore delle sue poesie, adattandolo
al loro sistema, e facendone oggetto di discussione nelle loro confraternite, appare chiaro che
Khayyā m non si prende troppo sul serio. Fornito di una delicata vena di umorismo, non si cura
dell’immortalità dell’anima, né del paradiso. Vorrebbe l’immortalità vera, quella del corpo. Per
lui tutto è incomprensibile. Fu sostanzialmente un edonista e un epicureo. Il tema
dell’allegoria non riguarda Khayyā m, che interessa qui solo perché in lui sono già presenti
temi e figure che saranno utilizzate successivamente da ʽAṭṭā r, e - con altro peso - da Hafez.
Totale il suo scetticismo: “Coloro che furono oceani di perfezione e di scienza/e per virtù
rilucenti divennero Lampade al mondo,/non fecero un passo nemmeno fuori di questa notte
scura:/narrarono fiabe, e poi ricaddero nel sonno”(54).
Totale il suo determinismo: “Quest’Essere a corsa lanciato nel gorgo di Cause e
d’Effetti,/tutte le cose già furon compiute senza di lui./Gli viene gettato dinanzi l’oggi, pretesto
lucente,/ed il Domani sarà quel che già pronto era ieri” (55).
La schiettezza di Khayyā m: “Dicono: Ci saranno, dopo, il Paradiso e le Hūrī./Dicono: Ci
saranno, laggiù , e vino e latte e miele./Che male v’è allora se, qui, ci scegliamo vino ed
amanti/quando, alla fine di tutto, così saremo ancora?” (87).
“Mi leverò , ed al vino correrò , deciso e leggero… A questa sciocca ragione sferrerò sulla
faccia/un pugno di Vino… ” (124). Al bando la ragione e la serietà , meglio vivere seguendo gli
impulsi del cuore. In questo è molto hafeziano.
“Un buontempone vidi, seduto in un angolo a terra,/ignaro d’Infedeltà e di Fede, di
Ricchezza e di Cielo,/di Verità ignaro e di Dio, di Teologia e di Certezza:/in questo mondo e
nell’Altro chi avrebbe tanto ardimento?”(141). Qui c’è tutto Khayyā m, ma anche lo stampo del
rend di Hafez.
Tante le immagini e i temi di Khayyā m ritrovabili in Hafez: “O Coppiere, che hai la guancia
più bella della coppa di Già m,/morir per te è più dolce che vivere vita in eterno!/La polvere
sotto il tuo piede (che dona luce ai miei occhi),/ogni suo atomo brilla di mille soli più bello!
(185); “Se ebbro io sono di vino delle taverne dei Magi, ebbene?/E se dissoluto amante e
buontempone e idolatra, ebbene?/Ognuno pensa di me secondo le sue fantasie,/ma io solo so
bene che quel che sono, sono “ (188); “Noi stiamo far vino ed amiche, tu nel monastero e nel
tempio;/noi siamo gente d’Inferno; voi gente di Paradiso./Ma in questo qual colpa mai
abbiamo dai giorni prima del tempo?/Sopra il Quaderno del fato così ci dipinse il pittore”
(227); “O coppiere, se il cuore un dì mi sfuggirà di mano,/ebbene, esso è un mare, come uscirà
mai da se stesso?/Il sufi qual piccolo vaso di sciocca ignoranza ricolmo,/se solo un sorso
bevesse traboccherebbe davvero” (246); “L’ipocrita veste fratesca gettammo sul vaso del
223
Vino,/e l’abluzione facemmo con polvere della Taverna./E in quella polvere ancora, forse,
ritrveremo/quegli anni di vita che già perdemmo vacui nei chiostri ” (268); “Tu sei il Creatore
e me così Tu creasti,/così follemente amante del vino e di belle canzoni./Poi che così mi
formasti già fin da prima del Tempo,/per qual mai ragione poi nell’Inferno mi getti?” (271).

Calma la brama del mondo e vivi contento di poco,


taglia i legami tutti col Bene e col Male del Tempo:
in mano prendi una coppa e la treccia d’amica gentile,
ché passa, passa e non resta, questa tua vita d’un giorno (83).

E’ qui la filosofia di vita di Khayyā m: ritirarsi in un canto, lontani dal mondo e dalle sue
brame, dalle assurde pretese di assolutizzarne la confusa realtà , e godere delle piccole,
concrete, gioie della vita semplice. Sull’ “amica gentile” si veda il pensiero di Bausani clxxxi:
“Quanto al sesso di questo stereotipato Idolo, la lingua persiana, mancante di genere
grammaticale, lascia sussistere una cosciente ambiguità : ma è un fatto che ben spesso con
esso si intendono giovani efebi. nella presente traduzione ho sempre scelto, data la nostra
diversa sensibilità estetica [?], il genere femminile”.
Il testamento poetico di Khayyā m:

Quando sarò già spento, lavate il mio corpo col Vino,


E sia il mio funebre rito di Vino Purissimo un canto.
E se nel dì del Giudizio vorrete vivo trovarmi,
Nella polvere delle taverne cercatemi ancora! (281)

֍
Sanā ’ī, morto nel 1130, è il primo grande poeta del sufismo iraniano. La critica pungente di
Hafez alle forme esteriori di devozione religiosa e alle figure istituzionale del sufismo era ben
nota alla tradizione letteraria persiana, almeno a partire da Sanā ’ī, che dedicò un certo
numero di suoi componimenti alla denuncia dei costumi ipocriti e della falsa pietà , attraverso
la celebrazione di una figura antagonista, il qalandar: dissoluto frequentatore di osterie e
adepto di un culto immaginario costituito da una mescolanza di elementi zoroastriani e
cristiani, dedito nel profondo alla ricerca della verità assoluta e dell’esperienza diretta
dell’incontro con il divino.
Il suo Giardino della verità - tra i primi della lunga serie di mathnavī didattici persiani - è una
delle opere più popolari della letteratura persiana. Fu detto il “Corano persiano”. Poema
epico-religioso, tratta temi importanti in ambito teologico-filosofico. Numerosissime le
citazioni in mistica e nelle opere profane. “Cerca di passare dal nulla all’essere, e ubriacati col
vino di Dio”. Sanā ’ī ha anticipato tutti. Fonda il sufismo e la poesia persiana. Fu preso a
modello da molti grandi: Nezami, ʽAṭṭā r, Rumi e Jā mī. Rumi ha detto: “ʽAṭṭā r è lo spirito e
Sanā ’ī gli occhi. Io vengo dopo di loro”. La sua poesia è stata definita: “la fragranza essenziale
del percorso d’amore”. Un’altra sua opera, il Viaggio dei fedeli al luogo del ritorno, fu accostato
alla Commedia di Dante.
Sanā ’ī ha acquistato una grande reputazione come poeta religioso già durante la sua vita.
Viene dipinto dalla tradizione come un mistico solitario, frequentatore di luoghi in rovina e
cimiteri. Girava a piedi nudi, a volte in compagnia di altri dervisci asociali come lui.
Inizialmente poeta di corte presso il sultano moghul di Ghazni, fu pubblicamente
rimproverato per la sua vita agiata da un asceta errante, un qalandar (un po’ come sarebbe
successo ad ʽAṭṭā r). Questo fatto lo convinse a cambiare radicalmente vita. Si fece derviscio e
passò lunghi anni vagando fra una città e l’altra della Persia. Il qalandar divenne protagonista
di molte delle sue poesie, assieme a mendicanti dissoluti, giocatori d’azzardo e ubriaconi che
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indugiano in losche taverne situate nelle periferie in rovina. Partono da Sanā ’ī le figure
utilizzate per simboleggiare un radicale distacco dal mondo, utilizzate da tanta poesia
persiana classica, e in particolare da Hafez con il suo rend.

֍
Ruzbehā n Baqlī (1128-1209), mistico e visionario, fondatore di una sua confraternita a
Shiraz. In gioventù ha respinto con entusiasmo la contrapposizione fra le gioie dell’amore
terreno e l’amore divino e ha esaltato il valore trasfigurante e metamorfico della bellezza
umana, interpretata come segno profetico, concreto riflesso nel mondo della bellezza divina.
Di lui abbiamo già visto un lungo brano, un intero capitolo, tratto dal suo giovanile “Gelsomino
dei Fedeli d’amore”, che dipinge la condizione dell’amante esaltato e sofferente, che ha scelto
di imboccare da folle la via del cuore, senza compromessi e calcoli, sottoponendosi alle prove
più dolorose. Per Ruzbehā n il fuoco d’amore purifica e rende degni dell’incontro con l’Eterno.
Hafez ne è stato affascinato, e i toni alla Ruzbehā n sono l’architrave portante del suo Divān. Ma
anche molta parte dell’immaginario “spicciolo” usato da Hafez è quello di Ruzbehā n. Il canone
non si discute.

O mio caro essere di bellezza! Se succede che colui che ti ama gioca con i tuoi capelli, oppure per
sentire il tuo contatto, essendosi assimilato alla polvere del tuo cammino, muore ai tuoi piedi, stai
attento, non dire: Cos’è questa aberrazione? No, non c’è aberrazione nell’amore degli iniziati che è
l’altro aspetto dell’amore spirituale (95)clxxxii.
Sulla via dell’Amata, essi operano la fusione dell’anima e del cuore, così bene che essi rigettano l’effetto
della separazione. Nella moschea del vicolo ove abita l’Amata, essi perseverano in salmi confidenziali,
mentre nella cella dei pii asceti si parla di loro come di debosciati. Ma qualsiasi cosa si dica loro, essi
non la intendono! E nell’amore dell’amata essi non prendono un istante di riposo. I regnanti temporali
non hanno la precedenza su di essi, perché il loro amore non è inferiore al possesso dei due
mondi (115).
E’ questo usignolo, questo cantore melodioso dalle mille melodie, che subito cadde nella rete dei
cacciatori della Prova; essendosi lasciato sedurre dall’esca della visione, è restato prigioniero delle
spine del rosaio (127).
Allora questo Fedele d’amore lacera il vestito color del Cielo e gusta le briciole del pasto dei Celestiali
(132).
I pellegrini della Via d’amore si distendono con una esuberanza ingenua fra i fiori della bellezza umana
[…] questa coppa, che è il tuo animo puro, contiene la bevanda dell’intimità del Testimone-di-
contemplazione dell’Increato (137).
O amica mia! come dire che nei riccioli di una capigliatura che ondeggia, ci sono i lunghi tiranti delle
rivelazioni interiori agli splendori dell’aurora? E che nei petali di una gota in fiore, ci sono i soli e le
lune delle contemplazioni? La grazia della tua statura slanciata promette a questo cuore consumato,
nella dimora dell’amore, tutte le resurrezioni. Il tuo passo dalla grazia altera caccia dal mio animo tutti
i cattivi desideri (148).
Subito, ecco che dalla stradina dove l’operazione divina apre la sua taverna mistica, questa giovinetta
del convento della Divina Potenza è uscita coperta dal gran velo della sua casta modestia (153).
Egli si nasconde vicino alla porta della sua casa, come il membro di una carovana che ha perduto la sua
cavalcatura, poiché ha perduto la compagna del suo cuore; resta nei paraggi, attento al respiro
dell’amata, consegnato in ostaggio alla bellezza del suo viso; interrogante e desolato, avendo
abbandonatoo tutto ciò che possedeva, perduta salute e sicurezza, timido e tremante fra la paura e la
speranza (178).
“L’amore provato per un essere umano è la scala dell’amore per l’Essere divino.” Questo amore è dato
a chi è dato, lo conosce chi lo conosce. E’ per ciò ché, quando, guardando da lontano il muro della casa
del dolore, ho visto questa giovane bellezza del Turkestan, le sue lunghe ciglia mi allontanarono, come
un getto di freccia, da tutto ciò che non sarebbe stato amore. Questo sufi sconsolato (Ruzbehā n) si
esprime in allusioni così strane, che fa pensare al gruppo degli intenti a scrutare, nella khaneqah, il
225
mistero della Bellezza (quest’ultima frase sembra più un commento di Corbin - il cui lavoro sul
“Gelsomino” fu pubblicato, incompleto, dopo la sua morte - non ascrivibile direttamente al testo di
Ruzbehān. In questo caso, assieme anche alla seguente, sembrerebbea fare riferimento alla pratica del
“gazing”, della quale si parla dettagliatamente in altra parte del libro. N.d.r.) (183).
Gli esperti di alte dottrine, i pellegrini delle luci rivelatrici, sanno che queste tappe riguardano solo i
pellegrini in cerca dell’Essere divino. Loro possono dire: la spiegazione delle tappe dell’amore divino si
trova nell’amore umano; perché la grazia delle giovani bellezze del Turkestan è la tavoletta sulla quale
bisogna decifrare i caratteri della scrittura sconosciuta (191).
Mentre legge nelle trecce della sua capigliatura profumata d’ambra (192).
Quando la Fidanzata eterna s’è mostrata, l’inferno diviene paradiso, la cella dell’asceta diviene il
tempio del fuoco (212).
La perla del nostro amore non si trova che nella conchiglia del biasimo. Soli, la condizione di fedele
d’amore, l’amore spinto fino alla follia, il rifiuto delle regole dell’ascetismo devoto, sono la salvezza.
Sotto le volte del biasimo ufficiale, l’anima degli iniziati alla religione d’amore è preservata dall’occhio
degli invidiosi; sotto il velo del loro anonimato i segreti del loro cuore restano nascosti e velati ai
nemici.

Sappi che il biasimo inflitto allo gnostico protegge il suo amore


Sappi che l’acqua amara dell’oceano è il guardiano della perla (257)

֍
ʽAṭṭā r (1142-1220) ereditò dal padre una bottega di speziale a Nishapur (nel Khorasan). La
tradizione vuole che un derviscio passasse di lì e lo sollecitasse a lasciare perdere gli affari e a
seguire la via del sufismo. ʽAṭṭā r gli chiese di argomentargli meglio quanto gli stava dicendo,
allora il derviscio si stese a terra e morì. Dopo la conversione ʽAṭṭā r si dedicò per un certo
tempo alla vita meditativa. Tornò poi alla sua bottega, che divenne col tempo luogo di raccolta
dell’intelligenza locale. Tra una ricetta e l’altra, scrisse molte opere in versi e in prosa,
diventando molto conosciuto, ammiratissimo per la sua grande erudizione e la sua umana
disponibilità . Fu un fervente musulmano. Morì per strada decapitato da un soldato, durante
l’invasione mongola della sua città .
Mistico tormentato e insoddisfatto, vide l’amore terreno come cosa giusta, specchio di
ragioni superiori: “… su questo mondo e l’altro regna amore,/e in ambedue si perde chi
soggiace all’amore […] e all’amico, dolcezza del suo cuore,/alla mano benigna,/chiese conforto
e pace:/alla mano, al liuto,/alla coppa ignorata,/all’ebrezza del pianto clxxxiii”. Nei suoi versi il
risvolto allegorico-mistico è chiaro. Toni ed immagini saranno poi ripresi da Hafez, con altro
spirito e maggiore coinvolgimento personale.
ʽAṭṭā r (“colui che commercia in profumi”) ha scritto soprattutto lunghi mathnavī in versi,
sempre tradotti in prosa poetica, ma il fondo umano dei due autori non sembra molto
differente. Il suo misticismo sembra più solido e convinto di quello di Hafez, anche se il suo
mezzo espressivo si prestava meno a rappresentare balenanti significati allegorici. L’amore
omofilo, molto presente nelle narrazioni di ʽAṭṭā r, era un segno dei tempi ma certamente
anche una scelta a lui peculiare. Forse anche un risvolto malāmati. L’immaginario di ʽAṭṭā r,
affrontato dopo avere visto Hafez, evidenzia le differenze di sensibilità e i diversi modi di
utilizzo. Il confronto è certo utile e appaiono palesi le differenze fra il misticismo
convenzionale di ʽAṭṭā r e il sostanziale “rendismo” di Hafez. Un breve quadro dedicato ad
ʽAṭ̣ṭā r può servire a comprendere le differenze, mentre si conferma ancora una volta la
sostanziale continuità formale di Hafez rispetto ad un canone ormai consolidato.
“Il Poema celeste”, l’opera di ʽAṭṭā r che prendo come riferimentoclxxxiv, è una delle sue otto
opere poetiche in versi. Una lunga composizione del tipo mathnavī. Opera della maturità , si
presenta come una successione di racconti diversi, all’interno di una vicenda unitaria: un

226
lungo dialogo fra un califfo e i sei figli. Si colloca nella tipologia classica del romanzo
ellenistico-medievale. Non mi dilungo oltre a parlare di ʽAṭ̣ṭā r e della sua opera, limitandomi
ad evidenziare, presi dai vari racconti, temi ed immagini che si ritroveranno poi largamente
presenti nei ghazal di Hafez. Sottolineo anche quanto spazio vi abbiano le vicende di
personaggi - appartenenti ai più diversi contesti sociali - infervorati in storie amorose a
carattere schiettamente omoerotico, riconducibili in qualche modo a quelle accennate nei
ghazal di Hafez. L’amore in ʽAṭ̣ṭā r è però sempre “puro”. Un sentimento fortissimo,
incontrollabile, che resta a livello spirituale. Questo tipo di amore fra uomini, che non sembra
prevedere rapporti fisici, si presta meglio a raffigurare l’amore disinteressato per Dio. Oltre a
confermare l’esistenza del famoso “canone” condiviso, si dimostra in modo tangibile anche la
realtà dell’amore omosessuale nella poesia persiana, nei cui confronti grandi poeti e scrittori
del tempo hanno mostrato di non avere problemi, anche in contesti chiaramente religiosi e di
alta spiritualità .

In tutta la mia vita ho sperato di trovare un amico del cuore cui confidare i miei segreti, ma non vedo
un intimo che mi comprenda. Ahimè questi compagni infedeli!... (Prologo).
Consuma te stesso nella passione, o amico. Altrimenti sarai come un gelido asceta. Non è cosa lecita
cercare la maturità in un asceta: egli è imperfetto, così come è crudo un mattone. L’amante brucia e
piange come una candela, tutto raccolto nelle lacrime e nella fiamma. Piange e brucia tutta la notte
perché il mattino sarà estinto come una candela… (Lo shaykh e la vecchia).
Qualsiasi cosa ti tenga lontano dal tuo Io: è quello il tuo vino, non il succo dell’uva. Quando capirai la
differenza fra l’ebbrezza e l’annullamento, avrai la consapevolezza di ciò che sta oltre la tenda dei
segreti. Quando la vera esaltazione prende la mano di qualcuno, egli sa di essere annullato, non ebbro.
Se non conosci la differenza fra ebbrezza e annullamento, tu sei solo ebbro. Non vantarti quindi
d’avere raggiunto l’annullamento… (Il saggio Khālū di Sarakhs).
In amore non sei né uomo né donna… (Lo shaykhʼ Alī di Rūdbār).
Se dalla testa ai piedi ti trasformi in dolore, sarai degno del santuario dell’unione… Ma tu non sei tu…
sei il Suo riflesso… ne sei solo un riflesso… Lui ti ha dato questo modo di essere… Ammira la Sua
natura, non la tua… (Il bambino nel bazar).
La poesia è perfetta, ma se la guardi attentamente, non è che il mestruo dei maschi. Se il tuo cuore
fosse solo minimamente consapevole, non saresti occupato a raccontare storie. La poesia è sempre il
tuo idolo: tu non hai altra occupazione che l’idolatria… (Le parole di un uomo devoto di Dio).
Non consentirmi di pensare a me stesso, rendimi privo di me. Sono sazio del mio Io. Aiutami ad
annullarmi. Non conosco me stesso. Non so di bene né di male. Poiché esisti Tu, cosa farò del mio Io?...
dopo avermi reso privo di me stesso, volgimi verso di te: non permettere che torni in me mai più …
(ʼAbd Allāh ibn Masʼūd).
Un visir aveva un figlio così bello che la stessa luna, innamorata di lui, ne era confusa… L’arco delle sue
sopracciglia unite ne rendeva la bellezza impareggiabile, coi suoi occhi simili a narcisi era un vero
predatore sulla strada degli amanti. Un sufi si innamorò di lui in modo che è impossibile descrivere,
ma non aveva l’ardire di esprimere il suo sentimento: tutto il suo corpo bruciava senza sosta al fuoco
della passione… (L’amore del sufi).
C’era un principe, bello come la luna, di fronte al quale perfino il sole, pieno di gelosia, vagava
smarrito… Un ufficiale si innamorò di quel principe affascinante (Il principe e l’ufficiale).
Il sovrano glorioso aveva uno schiavo, unico per la bellezza del viso. I suoi riccioli erano come due
serpenti color muschio, ma che dico? Erano come due Indù in Cina. Come luna era la sua guancia e
come un pesce il suo ricciolo: dal Pesce alla luna, spaziava il suo regno. Se un occhio lo vedeva,
rimaneva stregato dalle sopracciglia ricurve. I suoi due narcisi, per via delle ciglia, erano sposi delle
spine, le sue labbra avevano la grazia di un chicco di mela granata. Erano labbra così piene di zucchero
che la canna aveva legato ad esse i suoi fianchi. La sua bocca era più stretta della cruna di un ago, e per
questo l’occhio ne era ignaro… Quando Fakhr lo vide chinò la testa verso il corpo, perse i sensi e gli
diede il cuore; ma per paura del re non ebbe il coraggio di guardare il volto di luna. Sebbene privo di
sensi, era cosciente e controllava virilmente i suoi occhi. Il re si accorse all’improvviso di quel segreto,
ma non dischiuse la cortina che lo velava… (Fakhr al-Dīn di Gurgān e lo schiavo).

227
C’era un bel ragazzo dal volto di luna. Il muschio non era altro che un capello della sua testa
inanellata… Un derviscio si ammalò d’amore per lui… la passione d’amore lo gettò nel fuoco… Quando
infine la sua resistenza cedette, si presentò a quel rubacuori del mondo, dicendo: “Il mio dolore non ha
rimedio. Vivere senza te è impossibile: Non resisterò un solo attimo lontano da te. Non trovo requie. Il
resto lo conosci. Se mi perdoni, io cadrò . Se mi uccidi, resterò in piedi. Senza di te non posso resistere.
Fa’ in fretta ciò che vuoi”… (Il ragazzo e il derviscio).
Una volta all’alba, Maḥ mū d il Giusto disse al suo Ayyā z: “O tu dal cuore gentile, oggi desidero andare a
caccia, se vieni anche tu è una bella cosa”. Lo schiavo gli rispose: “A me basta la mia preda, perché qui
ho già cacciato”. Il re gli disse: “Sei un cavaliere così bravo? Con che cosa hai catturato la preda?”. E lo
schiavo disse: “Mio sovrano sublime, la preda è stata presa col mio laccio”. E il re: “Dov’è la tua preda?”.
Gli rispose: “Il suo nome è Maḥ mū d”. Disse il re: “Fammi vedere il tuo laccio”. E quello fece cadere ai
suoi piedi la lunga chiome. “Il mio laccio” disse “è il ricciolo sciolto, e il re del mondo è la preda del mio
laccio”… Ordinò a un servo di legare quell’alto cipresso nel proprio laccio. Sembrava aver imprigionato
quel petto odoroso di gelsomino, tuttavia segretamente aveva legato a lui il cuore con cento vite. Disse:
“O Ayyā z, questa è la fine per me. Chi di noi è la preda nel laccio?”… (Il sultano Maḥmūd e Ayyāz).
C’era un affascinante rubacuori. Vedendo il suo volto il giardino stillava un’acqua profumata…
all’improvviso cadde su di lui lo sguardo di un giovane che, per suo amore, smarrì la strada del cuore.
Quel giovane divenne suo schiavo… Non pazientava un attimo lontano dalla bellezza dell’altro, ma non
conosceva l’unione con lui. Un giorno cominciò a piovere: fu forse la fortuna degli amici. Tutti gli
abitanti del deserto correvano a ripararsi sotto le tende. La sorte volle che l’amante e l’amato
rubacuori si trovassero assieme sotto la stessa tenda. Quando la pioggia prese a scendere più copiosa,
tutti si coprirono con un mantello. Sotto la tenda i due amanti si ripararono sotto un unico mantello.
Con gli occhi, l’uno rubava l’anima dell’altro e, con le labbra, l’uno la rinvigoriva all’altro… ( Il ragazzo
affascinante e il suo innamorato).
Fa’ della povertà una bevanda magica per tutti i re della terra; della polvere delle tue scarpe un collirio
per gli angeli… Così trasudava la Sua anima nel desiderio di Dio, che Egli si lacerò in cento pezzi la
tunica… (In lode del Profeta).
La mia tomba deve essere in cima a quella collinetta, dove vengono molti frequentatori di taverne e
anche qualche ladro senza profitto. Anche i giocatori sono tanti laggiù . Lì tutti sono peccatori.
Seppellitemi nel loro stesso luogo e mettete la mia testa ai loro piedi. Sono sempre stato un compagno
degno di loro: in fondo condividevo le loro abitudini. Il mio posto è tra quei peccatori: non ho la forza
di stare fra gli uomini perfetti. Sebbene quella gente sia discesa nell’oscurità , è vicina alla luce della
misericordia divina… (Abūʼl Faḍl Ḥasan in agonia).
Se concordi con queste parole, sarai compagno di quel tronco di cipresso… (L’amore di Majnūn).
Il mio cuore sanguina, o coppiere, tu lo sai… (Una domanda posta a Majnūn).
Estinguiti come candela per amore dell’Amato (La conversione di un ebreo all’Islam).
La sua statura allungata ricordava un cipresso in cammino, la sua gota affascinante ricordava la luna in
cima a un cipresso. L’ambra, costantemente presente tra i suoi capelli, ne faceva uno stregone indiano.
Le sue labbra erano come una coppa di rubino ricolma di nettare e delineata da una peluria appena
accennata… (Ardashīr).
Sedeva desiderando la polvere del cammino di Giuseppe… (Giuseppe e Zulaykhā).
Per tutta la notte l’usignolo innamorato non riusciva a dormire: cantava alla rosa il sentiero penoso di
chi soffre per le spine. Da bocciolo che era, con cento gesti amorosi e cento carezze, la rosa si apriva in
un sorriso seducente e, simile a un neonato ancora intriso di sangue, emergeva scarlatta dalla sua culla
verde… La sua giovane peluria è come uno scritto perfetto, privo di ogni disordine… Baktā sh la vide e
la riconobbe: da lungo tempo contemplava con amore la sua immagine. Le strappò la veste, ma la
ragazza, indignata, respinse le sue braccia e disse. “Ehi, insolente, che cos’è tanta audacia? Se sei una
volpe percè ti comporti da leone? Nessuno ha mai osato avvicinarsi a me: chi sei tu per strapparmi
l’abito? Il servo le rispose: “Io sono la polvere del tuo cammino. perché mi nascondi il viso, mentre
prima giorno e notte mi inviavi poesie e rapivi il mio cuore con la tua immagine ammaliatrice? Mi hai
reso folle di amore per te: perché ora mi respingi?”. Rispose allora la fanciulla dal seno di argento: “Tu
non conosci minimamente questo segreto. Nel mio petto è nato un sentimento il cui epilogo dipende da
te. E’ una cosa che vale cento schiavi, ma io te l’ho accordata interamente. Ciò ti basti. Non ti contenti di

228
essere stato il pretesto di questo sentimento? Di fronte alla mia passione hai agito in modo
vergognoso. Ti sei lasciato andare al gioco della lussuria”… (Rābi’a figlia di Kaʼb).
La mia poesia è un mare perfetto… La mia lirica è pura dichiarazione dell’unità di Dio… Vivo in
solitudine come un selvaggio e al mondo mi è sufficiente una scodella di ḥamza… Sono prigioniero di
questa volta celeste e in questo mondo non avverto altro bisogno che quello di una casa… (Epilogo).

Con ciò si dimostra anche quanto siano molto più realisti del re tanti studiosi occidentali,
traduttori ed autonominati esperti di mistica sufi, da sempre oltremodo infervorati, pur di non
ammettere quanto salta agli occhi, nello scioglimento obbligatorio di supposte allegorie,
metafore e quant’altro. Il che non vuol dire ovviamente che ʽAṭṭā r non sia un fior di mistico, e
che non lo sia stato anche Hafez, sia pure a suo modo.
Sicuramente quanti vedono un significato mistico nelle tante descrizioni di folli passioni,
trovano più facilmente nell’opera di ʽAṭṭā r le loro ragioni. A questa considerazione spingono
anche i chiari riferimenti religiosi contenuti nei racconti. Indubbiamente Hafez si è rifatto ad
ʽAṭṭā r (oltre che a Ruzbehā n), prendendo da lui molte delle sue immagini, e sarebbe facile
accostarli sotto ogni punto di vista, anche se Hafez è più sanguigno, più chiaro e diretto. Però
quello che dice Hafez sull’amore è più forte, più personale, meno “letterario”. Più vissuto. Se
c’è in Hafez un riferimento mistico, è più nascosto, molto meno evidente. In Hafez è più forte la
convinzione che l’amore terreno e quello divino abbiano pari dignità , siano la stessa
meravigliosa esperienza, e attingano, quando sono disinteressati, senza calcolo, pura passione,
alla stessa sublime matrice. Siano la stessa cosa. L’amore come unica sublime esperienza. C’è
del sublime, per Hafez, anche nell’amore e nella passione terrena. L’ “amour fou” di Hafez vale
“per sé”, non è mera allegoria dell’amore divino. L’amante , pederasta e succube della bellezza,
è considerato da Hafez (come è del resto anche da ʽAṭṭā r, ma con toni più da osservatore
esterno) persona privilegiata, nobilissima, che percorre sentieri “divini”. Amando la bellezza e
la bontà , ama Dio.

ʽUmar ibn al-Fā rid (1181-1235). Visse al Cairo (15 anni passati alla Mecca).

Gli bastava ascoltare un canto per la strada e sulle rive del Nilo, per esaltarsi, piangere, gemere… “I
miei occhi lo vedono in tutto ciò che è bello, ricco di grazia e fascino”… Il suo Dio sembra più immenso
che non immanente nella natura e nella bellezza... Utilizzò le risorse verbali dell’amore profano per
esprimere l’amore sacro… I suoi versi sono ancora cantati durante i concerti spirituali dei sufi… Per
Ibn al-Fā rid le stelle, la luna, il mare, la donna sono il riflesso dell’Esistenza suprema clxxxv.

Bevemmo un Vino in memoria dell’Amato


che già donava ebbrezza primordiale,
prima ancora che la vigna fosse creata
[. . . . . . . . . . . . .]
Aspro è il cammino fino alla Coppa
ma basta che al Convivio il nome si pronunci
perché l’ebbrezza avvinca gli avventori
ebbrezza che non sa cos’è vergogna né peccato.
[. . . . . . . . . . . . .]
A chi giunge alla mensa del Coppiere
si mostrino i sigilli che serrano gli otri:
inebriano ancora prima che una goccia
varchi lo spazio dalla Coppa al labbro.
[. . . . . . . . . . . . .]
Mi hanno detto: bevendo del vino
229
commetti peccato! Al contrario,
bevilo puro, quel vino
ché a mischiarlo con altro liquore
che non sia la dolce saliva d’Amato
ti macchi di un assurdo peccato.
A te scoprire la bettola in cui
lo splendore del vino si cela,
a te porgere salda la Coppa al suono del liuto:
rifugge il Coppiere quel luogo in cui regna tristezza clxxxvi.

Il vino, il Coppiere, la Coppa, la taverna, la dolce saliva d’Amato. I temi sono gli stessi di
Hafez, ma quanto diversi il tono e lo spirito! Manca qualsiasi caratterizzazione dell’amato.
Unico risalto è dato all’Ebbrezza, al Vino come metafora chiarissima dell’entusiasmo mistico. Il
suo linguaggio è stato mutuato da Hafez, con spirito più luciferino, e luci molto più inquietanti,
che già si potevano osservare nel giovane Ruzbehā n.

Saʽdi (1210/1291). Orfano, lascia la sua città natale, Shiraz, per continuare gli studi religiosi
a Bagdad al seguito del suo maestro sufi. Poi viaggia moltissimo. Prigioniero dei crociati in
Siria, commerciante in Palestina, Iraq, poi sulla via della seta fino in India. Trenta anni di
peregrinazioni. Sotto la pressione mongola le dinastie locali crollano. Nel 1258 il sacco di
Bagdad. La conquista mongola fu caratterizzata dalla distruzione di antichi centri di cultura e
civilizzazione, dalla fine di stabili istituzioni politiche e da migrazioni di massa. Saʽdi ha
attraversato uno dei secoli più drammatici nella storia dell’Asia e del medio-oriente.
Quando torna a Shiraz è un poeta rinomato. Dopo il suo ritorno volle vivere in un ospizio
per sufi (khaneqah). Concluse la sua vita come poeta di corte presso i regnanti che
governavano Shiraz. La sua vita fu conforme all’impegno distaccato che mostra nei suoi lavori
letterari. Fu dotato di grande spirito, ironia, carità . Celebrò l’amore in tutte le sue forme:
solidarietà , amicizia, desiderio, devozione religiosa. Mostrò consapevolezza dell’assurdità
della vita. Ammirava la libertà dei dervisci. Suo panegirismo verso l’autorità . Scrisse un’ode
sulla caduta di Bagdad. In lui vi fu una stretta miscela di bontà umana e cinismo, umorismo e
rassegnazione. Nella sua opera letteraria l’esperienza del commerciante vissuto tra
caravanserragli, ospizi e moschee, si unisce all’apertura religiosa maturata in tanti anni di
vita raminga.
Il Bustan (“Il Frutteto”) fu completato nel 1257, dopo il definitivo ritorno dalle sue lunghe
peregrinazioni. Il Golestan (“Il giardino delle rose”) apparve un anno dopo. Le sue opere
riprendono la forma mathnavī di quelle di ‘Aṭṭā r: raccolte di racconti in prosa con inserimenti
in versi, a carattere moraleggiante. Hafez, suo concittadino, lo considerava suo primo maestro.
I racconti a soggetto amoroso, anche quelli che riguardano direttamente Saʽdi, trattano quasi
esclusivamente rapporti di tipo omosessuale. Per chiarire meglio questo aspetto, significativo
per gli agganci alla personalità dello stesso Hafez, prendo dal Golestanclxxxvii due storie:

Nella mia prima giovinezza un fatto come questo (come tu ben sai) poteva capitare. Fui in rapporti di
stretta intimità con un tesoro che aveva una voce melodiosa e una figura bella come la luna appena
sorta.
Sta bevendo alla fontana dell’immortalità chi può accarezzare le sue guance; e sta mangiando dolci chi
può giocare con lo zucchero delle sue labbra.
E’ successo che, essendomi dispiaciuto qualcosa nel suo comportamento, interruppi i rapporti e
rinunciai al mio affetto per lui, dicendo:
Vai e fa ciò che ti aggrada; tu non vuoi seguire il mio consiglio, allora fa come vuoi.

230
Lo sentii dire, mentre se ne andava:
Se il pipistrello non apprezza la compagnia del sole, la luce del sole non diminuirà.
Così disse, e partì.
La sua condizione vagabonda mi addolorò molto. L’occasione di gioia era perduta, e un uomo non dà
importanza al gusto della felicità finché non ha conosciuto l’avversità .
Torna e resta con me, perchè morire vedendo il tuo volto è molto meglio che sopravvivere nella tua
assenza.
Grazie alla bontà divina, egli, dopo un po’ di tempo, ritornò . Ma la sua melodiosa voce era cambiata, e la
sua bellezza, che era come quella di Giuseppe, era svanita; la mela del suo mento era ricoperta di peli
come una mela cotogna, e lo splendore della sua bellezza era sparito.
Si aspettava che lo abbracciassi; io mi misi da parte e dissi:
Quando il culmine della grazia fioriva sulle tue guance tu mi hai allontanato dalla tua vista; ora sei
venuto a cercare la mia amicizia quando la tua faccia è coperta di fathahs e zammahs [elementi della
scrittura persiana e araba usati per le vocali brevi, n.d.r.], ovvero i peli di una barba. Il verde fogliame
della tua primavera è diventato giallo; non mettere il tuo bollitore sulla mia griglia perché il fuoco è
spento. Quanto durerà lo sfoggio della tua boria e vanità; pensi di poter riconquistare il tuo potere? Fa
come desideri. La verdura del giardino, ci hanno sempre detto, è bella. Io so a cosa mi riferisco. In altre
parole, ciò che i tuoi ammiratori soprattutto desideravano era la freschezza delle tue guance liscie, ora il
tuo giardino è come un letto di porri. Più ne tagli e più cresceranno. L’anno scorso te ne andasti liscio
come un’antilope, ora ritorni barbato come un leopardo. A Saʽdi piacciono le guancie morbide e fresche,
non quando sono come aghi da imballaggio. Anche se tu avessi la pazienza di toglierti la barba dalla
faccia, la felice stagione della giovinezza deve venire a una conclusione. Avessi io lo stesso potere sulla
mia vita che tu pensi di avere sulla tua barba, essa non mi sfuggirebbe fino al giorno del Giudizio.
Gli chiesi:
Cosa è successo alla bellezza del tuo volto, che ora delle formiche stanno strisciando sul globo della luna?
Lui rispose:
Io so cosa è accaduto al mio viso, forse indossa il nero del lutto per la mia bellezza perduta.

Sullo stesso argomento, un altro raccontino più sentenzioso.

Ho chiesto a uno di Bagdad cosa pensasse dei giovani ancora senza barba. Mi ha risposto: “Non c’è
niente di buono in essi: quando uno di loro è ancora delicato e desiderato, è insolente, ma quando
diventa ruvido e non è più desiderato diventa affabile”
Quando un giovane senza barba è bello e dolce,
il suo parlare è amaro, il suo temperamento frettoloso.
Quando la sua barba cresce e arriva alla pubertà
si lega agli uomini e cerca affetto.
֍

Rumi (1207/1273), Jalā l al-dīn Muḥ ammad Rū mī, persiano di Balkh, credo faccia storia a sé
e gli ho dedicato uno studio specifico. Comunque sorprendenti le affinità con Hafez. Stessi
temi, stessa “ambientazione”. Più variegato e ricco l’immaginario di Rumi, e più teologia. Più
mirata e realistica in Rumi, pur nell’ambiguità ricercata, l’evocazione dell’amato, che in Hafez
non supera mai l’accenno. C’è da credere nella diversità delle posizioni: assoluto l’amore di
Rumi, “personalizzato” concretamente nel derviscio errante Shams di Tabrīz; smania
insoddisfatta, vizio e tormento, in Hafez. La lirica di Rumi appare più motivata da fatti
concreti, più legata al contingente, ma meno curata. Hafez si dimostra un vero
“professionista”: mostra di amare oltremodo il suo stile e il suo mondo poetico è diventato la
sua vita, ma certo della sua vita “vera” raccoglie palpiti e sofferenze. Grande comunanza delle
forme e dei temi. Potrebbero essere confusi. Difficile spesso districarsi nella complessità delle
evocazioni: c’è sicuramente la volontà di non essere troppo espliciti, e di non fornire appigli
univoci. Ma questo non avviene sempre. Ci sono in entrambi “momenti veri”, da individuare,
affioranti nel mare infinito delle possibili allegorie.
231
Gli altri, dopo Hafez

A sua volta Hafez è stato il capofila, anche questo può essere detto senza ombra di dubbio, di
una lunga corrente di imitatori, di epigoni, che ne hanno raccolto il lascito più specifico -
quello amoroso di chi cerca e subisce la bellezza in modi molto umani - e l’hanno portato
quasi fino ai nostri giorni. Hafez non ha inventato nulla, basta dare uno sguardo a Ruzbehā n o
ad ‘Aṭṭā r. Ma dovette costituire comunque qualcosa di innovativo, e di definitivo allo stesso
tempo, almeno nello spirito, perché dopo di lui si crea una scuola vera e propria di poeti
contraddistinti da torbide e terrene fantasie, che finiscono per abbandonare sempre più quei
veli di misticismo che ancora in Hafez sopravvivevano, nel riconoscimento implicito e
conseguente della sua e della loro natura più vera.

֍
Nawā ’ī (1441/1501), discepolo di Jā mī, apre l’ “età d’oro” della letteratura turca:

Colui che noi in lagrime scioglie e fa lui tanto bello


rende quello impunito, e noi ecco impotenti ha ridotto.
Chi più nel suo amore è fedele, più aspri patisce i tormenti:
tra gli amanti del bello, la luna vezzose maniere ha inventato.
Cento giovani volti al convento dei Magi s’addestrano
[. . . . . . . . . . . . . .]
E’ questa passione morbosa che tanti ha mandato in rovina!
Sì, in rovina è il dominio del cuore, ma che sarà mai?
E’ solo un turco incursore che porta entro quella
[contrada il saccheggio d’amore clxxxviii.

Ahmad Nishā nī (1570/1640), curdo:

[…] il cuore mio


s’è prostrato lontano, a un buio neo,
volto di perla e collo di candela,
chiaror di fronte sotto trecce nere.
Sono il ricciolo e il neo lettere scritte
per agevoli imbrogli, il volto è raso,
le orecchie come l’arco della luna,
nei riccioli di seta ambra è il profumo
[. . . . . . . . . . . . .]
statura di cipresso, e tondo neo,
[. . . . . . . . . . . . .]
O Mago giovinetto, mio coppiere,
fino all’alba, in ebbrezza,
l’inno al vino intoniamo! […]clxxxix

Fuzū lī (m. 1555), turcomanno di Bagdad:

Io seguo un coppiere ben largo a chi soffre di grazie,


232
[. . . . . . . . . . . . .]
Chi, libero dalle sue pene, dispregia il poeta, non sa
che al mercato dei folli, dei denigratori, ad
[onore non badano, a stima.
[. . . . . . . . . . . . .]
Era l’alba, ed al bagno egli mosse leggiadro e sicuro:
s’accese quello di luce alla fiamma splendente del volto
e il balenio già intuito tra lembi di panno dischiuso
fu, come sciolse la veste, pienezza di bianca visione.
poi, quale mandorla al guscio sfuggita raccolse
il corpo nudo in grembiule d’azzurro colore
[. . . . . . . . . . . . .]
. . . disfecemi l’ira le membra.
carezzò l’acqua il suo corpo: geloso non ebbi più pace.
Uscì poi dal bagno, il mio occhio l’avvolse, lo cinse.
A suo agio sedette, in un canto dell’ebbro mio sguardo
[. . . . . . . . . . . . .]
Esile qual ombra fragile d’alto cipresso lo vedo levarsi,
[. . . . . . . . . . . . .]
Entrò nel giardino […]
sulla neve del volto era l’umido muschio del ricciolo curvo […] cxc

Poeta apertamente omofilo, mentre il richiamo ai temi hafeziani è ancora molto presente.
Nel tempo le suggestioni di Hafez, cosa ovvia, hanno fatto breccia nella sensibilità di tipo
omoerotico. Il richiamo all’Amato mistico, se c’è, è estremamente sullo sfondo. Eppure ai suoi
tempi Fuzū lī fu considerato il cantore dell’amore divino. Oggi ridimensionato a più terrene
misure di cantore dell’eros.
Riprende, come gli altri, temi hafeziani. Insistite e corrive le sue descrizioni. Togliamo un
sospetto di religiosità e resta una perfetta atmosfera hafeziana omoerotica.

Hā tif Isfahā nī (m. 1783), mistico:

Fatto preda a passione, in ardore d’amore,


io senza meta correvo smarrito ier sera,
ed ecco che, infine, la smania d’ Incontro
le mie redini volge al convento dei Magi.
[. . . . . . . . . . . . .]
C’era un vecchio laggiù che accendeva quel fuoco,
e giovani magi d’intorno con modi cortesi,
tutti gote d’argento e dai volti di rosa,
tutti dolci d’eloquio e con bocche minute.
Liuti, arpe, flauti, mandole e tamburi,
candele, confetti, basilico, vino, e le rose.
Un coppiere con volto di luna e capelli muschiati,
un arguto melode dal canto soave.
Magi e figli di magi, e diaconi, e grandi maestri,
tutti quanti apprestati a solerte servizio.
Provando vergogna di questa mia islamica fede,
io m’appartai nel rifugio d’un angolo ascoso.
Il vecchio chiese però : “Chi è dunque costui?”
“Un amante”, risposero, “inquieto, errabondo”.
233
[. . . . . . . . . . . . .]
Di sapienza i maestri, poeta, che a volte
son detti ubriachi, ma sobri altre volte,
con il vino, il banchetto, il coppiere e il melode,
con il mago, il convento, il ragazzo e la cinta,
intendono solo indicare i segreti nascosti
che rendon talora evidenti coi loro segnali.
Se trovi la strada che a tanto segreto conduce,
saprai che è ben questa di tutti i misteri radice:
E’ Uno e nulla esiste se non Lui:
è Uno, non è Dio fuori di Lui.cxci

Isfahā nī è un mistico ortodosso. Il suo poemetto, intitolato “E’ Uno”, chiaramente ispirato
dalle teorie ibnarabiane e generalmente sufiche, appare soprattutto finalizzato a ribadire i
supposti significati mistici celati nei versi dei poeti che l’hanno preceduto (Hafez in modo
particolare), dai quali assume, in modo chiaramente strumentale, immagini e stilemi. La sua è
soprattutto una preoccupazione dogmatica. Di fatto è il contraltare di Hafez, del quale, non
richiesto, rivela scontate metafore. Ma quanto diverso il pathos!

Nazīr Akbarā bā dī (1740/1830), precettore indiano:

C’impigliammo in quel ricciolo, e il cuore fu prigioniero.


[. . . . . . . . . . . . .]
a che s’uniron gli occhi, lo sguardo, il sopracciglio?
[. . . . . . . . . . . . .]
Così andammo ad ammirar quell’imnpudente
[. . . . . . . . . . . . .]
Pur lo fissammo in volto, e se ne fuggì via.
[. . . . . . . . . . . . .]
Poiché della tua grazia i folli divenimmo
[. . . . . . . . . . . . .]
Si strinse a me, ma come, come m’ha conquistato?
Con delicati amplessi, in gola a picco versati.
E un vortice fu la fossetta del mento.
[. . . . . . . . . . . . .]
S’attardò allo specchio a lungo.
Per quell’a lungo fu in noi gran vergogna.
Dicemmo: “Perché proprio un tal amante c’è signore?”
Ma a sentir ciò ritrasse dallo specchio il bel volto.
Cosparse il nostro amato di profumo il mantello,
e, masticando pān, se n’uscì via di casa.
Dicemmo: “Oh, no, non andartene , o caro!
E’ vicina la sera!”. C’insolentì, poi rise.
[. . . . . . . . . . . . .]
Di vino noi una coppa prendemmo dal coppiere,
sino in fondo bevemmo, estinguemmo l’arsura.
Se ci piegammo ignoro, o restammo seduti,
o giù cademmo, o un poco sostenerci sapemmo […]cxcii

Ancora ben saldo in Akbarā bā dī l’ancoraggio al canone classico.

234
Quale misticismo in Hafez?

Con la diffusione del sufismo e delle confraternite, alla tradizionale visione ascetica della
vita molto sostituirono la fede nella possibilità di raggiungere la verità divina seguendo la via
dell’amore umano e dell’abbandono piuttosto che quella della ragione o della rinuncia.

Contemplando in molte anime i tratti della beltà divina, e separando in ciascuna di esse ciò che è
divino dalle macchie che ha contratto nel mondo, l’amante ascende alla più alta bellezza, all’amore e
alla conoscenza della divinità , per gradini superati su questa scala delle anime create cxciii.

Anche il ghazal si confrontò con il sufismo, interpretandone letterariamente le tendenze e le


particolarità , senza con ciò trasformare nella sostanza il proprio cardine espressivo di carme
amoroso cortese, cesellato di motivi bacchici e primaverili di carattere profano e
argomentazioni sentenziose. La mistura di spirituale e fisico tipica delllo spirito persiano, e la
fusione tra l’elemento secolare e quello mistico ne diventarono un carattere intrinseco. Ma
l’innesto delle riflessioni mistiche sul precedente carattere del ghazal fu dirompente. Il
linguaggio si fece sempre più polisemico, e una gamma di letture anche antitetiche fra loro
risultava già codificata in partenza nel testo. L’età di Hafez era così satura di espressioni del
pensiero mistico che era quasi impossibile ignorarlo.

Inizialmente la poesia persiana è pura rappresentazione astratta e non mira a svelare alcuna realtà
arcana dietro agli oggetti descritti: il suo unico scopo è quello di “stupire” e di “lodare”. Su questa
poesia di superficie nei secoli XII e XIII si innesta un modo indissolubile la riflessione mistica
producendo un totale cambio di prospettiva. Le forme e le sostanze rimasero pressoché le stesse,
arricchite però , nei precedenti aspetti narrativi, didascalici e descrittivi, di valori “verticali” prima
sconosciuticxciv.

Anche se, secondo Annemarie Shimmel, orientalista, storica delle religioni e accademica
tedesca, non si può derivare un vero sistema mistico dalla poesia, persiana o turca, o vedere in
essa l’espressione di esperienze da prendere direttamente, è un fatto che la maggioranza dei
traduttori in lingua inglese ha ritenuto Hafez un poeta mistico. Secondo Wilberforce-Clarke
ogni parola di Hafez aveva un significato mistico, e niente andava letto come era scritto. Anche
se Hafez non è visto come membro di un ordine sufi, i suoi riferimenti al vino, al peccato, alla
musica, al piacere sono interpretati in modo metaforico come via gnostica, e l’iconologia del
peccato e del piacere fisico vengono letti come un elaborato codice di simboli trascendenti. I
temi mondani e mistici si intrecciano su un piano terreno di sensualità incarnata, trasportata
nello stesso tempo al livello mistico ultraterreno. La pazzia d’amore sfrenato per l’amato non
è destinata a perdersi nel nulla, ma è una disciplina che porta all’Unione. La Coppa deve essere
intesa come il cuore dell’amante. Anche Gertrude Bell trova in Hafez una sotterranea corrente
di misticismo, che ne farebbe un mistico rigoroso, anche se trattenuto.
Presso i sufi non c’è mai stato dubbio sul misticismo di Hafez. Jā mī, posteriore ad Hafez,
gran maestro di una confraternita sufi ad Herat e poeta lui stesso, ne ha ripreso le immagini e
ha scritto: “Se i tuoi passi sono stranieri ai sentieri d’amore,/parti, impara l’amore e poi
ritorna da me./Poiché se tu temi di bere il vino dalla coppa della Forma/ non puoi sorbirne un
sorso da quella dell’Idealecxcv”. Abbiamo visto quanto Hafez sia stato fortemente influenzato
dal linguaggio figurato di ‘Aṭṭā r, Ruzbehā n, Rumi e Saʽdi (e Ruzbehā n e Saʽdi erano di Shiraz).
Hafez usa con frequenza vocaboli ed espressioni riconducibili al lessico tecnico della mistica
sufi, e accenna a celebri personaggi o maestri mistici del passato. Anche l’ambientazione
genericamente sufi è predominante. Alcuni (fra cui Corbin) suppongono addirittura che Hafez
appartenesse all’ordine fondato da Ruzbehā n a Shiraz. La girandola dei significati espressi, la
grazia sfuggente, ambigua e allusiva, dell’esposizione, l’enigmaticità irriducibile di molti suoi
235
versi, hanno guadagnato sin dal XIV secolo, al testo e al suo autore, gli eloquenti epiteti di
“lingua dell’Arcano” e “interprete dei Misteri”. Dal suo Divān, attraverso la lettura casuale di
un ghazal, durante le riunioni conviviali vengono tutt’ora popolarmente estratti i vaticinii
noti come Fal.
In Hafez si identifica il momento culminante della tradizione lirica persiana, e il suo Divān è
considerato il rappresentante indiscusso della maturità del ghazal. Il paragone fatto da
qualcuno con Petrarca non appare giustificato: Petrarca è un innovatore, mentre Hafez porta
alla perfezione un patrimonio poetico consolidato vecchio di molti secoli.

Prodigio di sapienza nell’impiego di forme note [...] inedita densità [...] sorprendente icasticità allusiva
[...] sfruttamento inesausto delle possibilità ambigue della parola […] delicata virtuosità retorica […]
sottigliezza ironica […] capacità politematica […] giustapposizione d’argomenti ora profani ora
religiosi […] poggiando coscientemente su un canone ormai definitivamente stabilizzato e condiviso
dal suo pubblicocxcvi.

Ovviamente le differenze fra i vari “poeti mistici” rimangono, non vanno appiattite e
omologate in modo innaturale, e comunque le opere poetiche non sono trattati di sufismo.
Hafez mette assieme, combinandoli fra loro in vario modo, elementi propri del contesto
religioso istituzionale (di cui il Sufismo è all’epoca espressione primaria) ed elementi
provenienti da un ambito genericamente anticonvenzionale e blasfemo (che aveva già avuto i
suoi rappresentanti nel mondo poetico e letterario), segno e incarnazione del valore positivo
della sincerità . C’è un capovolgimento normativo: i benpensanti vengono delegittimati e
contrapposti a una serie di personaggi, tanto reali quanto immaginari, viventi al di fuori delle
cerchie dell’ortodossia. Gli asceti e i sufi sono accusati per la dissonanza fra il loro
comportamento privato e quello pubblico.
Per Hafez sono preferibili, perché più vere, le libagioni di vino in compagnia di giovani
“zoroastriani” con i loro ineffabili cenni alla pretereternità , e le apparizioni rivelatrici di
qualche “bello” in osteria alla sera o all’alba, rispetto alle sedute di audizione devozionale e
alle deludenti esperienze estatiche e teopatiche dei sufi nella khaneqah
Quelli che vedono in Hafez una superiore forma di mistica pietà fanno riferimento ai
Malāmati. Il movimento dei Malāmati sorse a Bagdad in risposta al sufismo ufficiale di Junaīd
e al tradizionale pietismo. Fu molto presente nel Khorasan, a Nishapur. Essere oggetto di
riprovazione aiuta l’uomo ad acquistare sincerità . L’apparenza di immoralità , anche la
realizzazione di azioni illecite, mette al sicuro dall’orgoglio e dalla potenziale corruzione del
potere religioso. Sembrerebbe la spiegazione più convincente per l’esistenza di tanti
personaggi ribelli e ostili all’ortodossia ufficiale. Anche l’ostentazione di toni omoerotici
potrebbe rientrarvi. Ma la spiegazione è troppo facile. Hafez usa la parola malāmat parecchie
volte, ma sempre in riferimento al biasimo e alla vergogna che, per il suo tipo di vita, ricadono
su di lui. Lui non si biasima. Dice che non c’è amore senza vergogna.
Il rend di Hafez è visto come il più evocativo simbolo dell’indefinibile ambiguità del
carattere persiano, e c’è chi considera Hafez una specie di contestatore che protesta contro la
crudeltà e l’ipocrisia degli oppressori Timuridi. Hafez praticherebbe deliberatamente
l’ambiguità come strumento di una sua campagna contro l’ipocrisia e mezzo per rigettare il
dogma e l’ideologia in generale. Alla convenzionale “insincerità ” del ghazal si unisce anche la
necessità del tempo di essere politicamente obliqui. In questa logica anche il punto di vista
critico, da attribuire al contemporaneo Shā h Shojā ʽ, che Hafez, rispetto al canone riconosciuto,
riflettesse un’eccessiva varietà di motivi, dal misticismo ai baccanali, dal serio e spirituale allo
irriverente e mondano, poteva essere ritenuto vicino al vero.
In realtà Hafez non mostra di essere stato un formale sufi, ma nemmeno un membro di un
gruppo di dèracinès ostili all’ordine costituito (come i qalandar). In lui il consiglio di cercare la
felicità e l’invito al bere si accompagnano a una profonda tristezza e pessimismo, e il rimedio
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dell’ubriachezza spesso sembra invocare calde lacrime anziché spingere a trascendere,
sfidandolo, il mondo terreno. Nella sua poesia non ci sono toni agnostici o libertini. Per Hafez
il mistero dell’amore non può essere contenuto nel convento dei sufi, ma solo nella taverna
dei Magi.
Ci sono anche quelli che disperano nel vedere attribuire dei significati spirituali ad ogni
sfogo di Hafez: “Lo studente di Hafez, che non può decidere da solo quali versi siano da
accogliere nel loro significato letterale e quali in modo simbolico, guadagna poco dai
commenti che invariabilmente ripetono che il Vino significa Estasi, la Taverna il convento sufi,
il vecchio Mago la guida spirituale, e così viacxcvii”.
Tanti sforzi per giustificare una interpretazione mistica alla lode del vino e dell’ubriachezza
non hanno avuto sempre successo. Il noto orientalista Helmut Ritter cxcviii (che dovette lasciare
l’insegnamento universitario per un’accusa di omosessualità ) ha esaminato un gran numero
di poesie di Hafez con il motivo del rend e le ha confrontate con quelle di ‘Aṭṭā r e di Sanā ’ī.
Conclude che Hafez non era un mistico, ma semplicemente un rend. Come un rend egli non si
ritira dai piaceri dela vita, prende in giro coloro che rinunciano al mondo, scusa il suo modo
scandaloso di vita con la predestinazione e si rivolge alla misericordia divina. Ritter crede che
i ghazal di Hafez siano lo specchio sincero del tipo di vita che conduceva a Shiraz. Solo volontà
di assimilazione, la sua, o conoscenza di una psicologia?
Dice Hafez: ”sono un amante e un rend e un bevitore di vino, un ubriacone. Tutte e tre
queste cose le tengo per la loro inconparabile bellezza”. La frase, significativa, l’ho trovata sul
Web. Credo di poterla inserire anche se non trovo la fonte precisa. Proverrà sicuramente da
una qualche traduzione inglese di un ghazal che non posso identificare.

“al-maʽšūq”, “the beloved”: amato o amata?

La lingua persiana non differenzia i generi grammaticali (maschile, femminile e neutro) e ha


pronomi ed aggettivi identici per tutti. Ha una parola sola per “lui” e “lei”. Il genere
grammaticale semplicemente non esiste, e la differenziazione di sesso è espressa unicamente
con strumenti lessicali, quando è necessario. Esistono aggettivi che indicano se un
determinato essere sia maschio o femmina, ma non esiste nessuna desinenza o articolo o
pronome distinto. Esistono naturalmente parole diverse per indicare solo il maschio o la
femmina dell’essere umano e di alcune specie animali. Una struttura grammaticale
complessivamente piuttosto vicina a quella inglese dove “the beloved” può essere
indifferentemente l’amato o l’amata. Difficile rendere in italiano “l’amato” che vi si ritrova, che
a volte può essere un maschio, una femmina o Dio, senza che il testo fornisca in merito la
chiarezza che un analogo testo in italiano sarebbe grammaticalmente obbligato a dare. Il
traduttore italiano deve sempre fare una scelta tra il femminile e il maschile, e tra la maiuscola
e la minuscola.
Anche se alcuni traduttori ritengono la prosa il modo migliore per presentare la complessità
di Hafez, la maggior parte delle traduzioni sono in versi. A Persian Song di William Jones, la
prima traduzione in inglese di un testo di Hafez, ne è stata il modello di partenza. Per molti la
traduzione più lucida, musicale e accurata, risulta ancora quella di Gertrude Bell (1868-1926).
Sostanzialmente tre i tipi di traduzioni. Alcuni tentano di imitare la rima e il metro
dell’originale, attraverso assurde acrobazie letterarie. Altri, presentano Hafez in versi inglesi
della lingua attuale, rischiando di banalizzare e confondere la chiarezza delle immagini
dell’originale. Una terza categoria di traduzioni - imitazione o “traduzione creativa” - è quella
in cui l’autore, per la riluttanza a snaturare la forma persiana con forme di altra cultura, usa
un “verso libero”, esercitando la libertà non solo di cambiare le parole e il senso dell’originale,
ma anche di abbandonare il testo.
237
Le problematicità connesse al comunicare, all’interno di una data cultura e tradizione
letteraria, i principi estetici di una tradizione diversa, si confermano in modo particolare nel
caso di Hafez. I risultati nel complesso sono deludenti. Appena un assaggio, quando c’è, della
ricchezza e della vigorosa bellezza del grande poeta medievale persiano. Difficile pensare che
Hafez possa essere veramente trovato nelle traduzioni che circolano. L’approccio, spesso
superficiale, è anche viziato dai pregiudizi; ogni traduttore vi vede ciò che vuole, e le
traduzioni ovviamente lo assecondano. A volte si pretende di restare fedeli al ritmo, al verso
originario, ma se ne sfigurano, con pochi scrupoli, forma e sostanza. Molto meglio servirebbe,
almeno per lo studioso, una prosa che ricalcasse fedelmente il testo persiano e tenesse
d’occhio la musicalità senza però violentarne il lessico e l’apparato figurativo. Di Hafez ce n’è
uno, non servono volontaristici interventi che, se appaiono convincenti, lo sono solo a
condizione che lui venga messo da parte. Il problema in Hafez é estremamente acuito a fronte
dell’enorme ricchezza concettuale e di un immaginario variegato e sovrabbondante. Cadono le
braccia. Veramente ha pochissimo senso ragionare sul testo tradotto che, anche se offre il
“senso” del discorso di Hafez, e magari ha anche una sua bellezza, è mille miglia lontano dal
colore, dal ritmo, dal sapore dell’originale. Cosa resta? La nostra “illusione” di comprendere?
Ovviamente quello che si vorrebbe sempre trovare in un testo poetico tradotto è la
restituzione delle sensazioni che si crede possa provare il lettore a cui il testo suona nella
madrelingua. Sensazioni che vengono a lui con “quella” forma (metro, ritmo, ecc.), con “quei”
significati lessicali, infine con un messaggio (e il messaggio, nel caso di Hafez presenta anche
sicuramente, come vado dicendo, seri problemi di interpretazione). Tutto ciò è già complicato,
e per un lettore “straniero” diventerebbe una possibilità solo dopo anni di studio. Rendere
tutto ciò fruibile nell’immediato presupporrebbe almeno una conoscenza “vera” da parte dei
traduttori della lingua e della cultura, cosa che può essere solo in parte, e nel contempo la
capacità , tutta poetica, di “ricreare” lo stesso ghazal nella nuova lingua. Inoltre, tranne qualche
eccezione, viene a mancare la rima, elemento fondamentale nell’economia del ghazal. Ci si può
ovviamente accontentare, e trovare anche motivata soddisfazione (ci sono casi di traduzioni
ritenute paradossalmente migliori dell’originale), ma il problema resterebbe comunque
quando l’approccio è motivato da particolari ragioni di studio, e si vorrebbe almeno avere
chiara la “misura” degli interventi effettuati, che sono sempre distruttivi, tanto più quanto più
preoccupati di rendere “tutto il testo”. Il problema chiaramente non sorge se non ce lo si pone.
Resta il fatto che “tradurre la poesia” è quasi un ossimoro.
Una canzone in qualsiasi lingua può essere benissimo riassemblata in un’altra e, anche con
un testo molto cambiato e adattato, può funzionare ed essere apprezzata. L’ascoltatore potrà
anche pensare di avere perso qualcosa, ma non di essere stato portato troppo fuori strada.
Perché, nel caso della canzone, è la musica la cosa più importante, e il suo linguaggio è
ritenuto universale. Non si può certo dire lo stesso per la poesia in lingua straniera quando,
all’atto della traduzione, tutte le sue componenti (ritmo, musicalità , significati, sottigliezze
linguistiche e concettuali, rime, ecc.) vengono necessariamente manipolate, ristrutturate, al
fine di un risultato che è dei più vari, strettamente dipendente dall’abilità e dalla sensibilità
del traduttore. Certamente non appare troppo scoraggiato il Nicholson, insigne studioso del
sufismo:

Tradurre quegli inni meravigliosi è rompere la loro melodia e portare in terra il volo della loro
passione, ma nemmeno una traduzione in prosa può nascondere completamente l’amore di verità e la
visione di bellezza che li ispirò cxcix.

Devo dire che trovo l’opera di Stefano Pellò e Gianroberto Scarcia molto bella, e sicuramente
capace di esaltare i valori poetici dell’originale persiano, senza tradirne complessità e
problemi. Rende Hafez al meglio, assumendo ogni allusione, o metafora, o almeno non

238
lasciandola cadere (le note puntuali aiutano sempre a rendersi conto delle operazioni di
adattamento effettuate), spesso rianimando anche la rima, con un risultato gradevolissimo.
La selezione di ottanta ghazal, a cui mi sono rifatto, proviene dalla loro traduzione cc dell’intero
Divān hafeziano, e segue “un criterio rigorosamente estetico, privilegiando cioè i
componimenti che, nella nuova veste italiana, sono sembrati loro fare meno ingiustizia alla
densitò strutturale, alla precisione retorica e alla ricchezza semantica e tematica del testo
persianocci”.

La questione hafeziana

I riferimenti al vino, all’amore, alle figure sociali eterodosse, sono da vedere come
descrizioni di una concreta realtà , oppure sono mere allegorie mistiche? A fianco esiste la
persistenza di approcci, da qualcuno giudicati anacronistici, di tipo essenzialmente biografico
e romantico - in cui per la verità credo di riconoscermi - volti a ricostruire la vera personalità
dell’autore, e da cui derivare il sistema di pensiero riflesso nel Divān.
Per alcuni l’incertezza riguardante lo status di Hafez - se santo o edonista - non deve
sorprendere. Sarebbe lo stesso Hafez a crearla, e sarebbe la cifra stessa del ghazal a richiedere
tale ambiguità . C’è grande indeterminatezza in questi giudizi di Annemarie Schimmel, forse
perché, non potendo negare quello che è tanto evidente, è preferibile nascondersi in una
nebbia indefinita.

Il ghazal non vuole spiegare o illuminare i sentimenti del poeta; al contrario, vuole velarli ccii.
Lo speciale fascino dei suoi versi consiste nel fatto che egli usa il vocabolario tradizionale con tale
perfezione che ogni interpretazione sembra avere un senso completo. Il bello ma crudele amato da cui
egli aspetta un segno d’amore, solo qualcosa per prendere l’uccello del suo cuore nella trappola,
secondo la lettera può essere realmente un giovane ragazzo quattordicenne con la faccia di luna, simile
alla luna della quattoprdicesima notte, o anche un bambino che può “uccidere” il suo amante senza
esserne responsabile. Può anche essere il Divino Amato da cui si implora un segno di grazia, una
parola di consolazione, ma che rimane inaccessibile, che si nasconde dietro apparizioni senza numero
della sua bellezza e maestà , e può essere raggiunto solo se l’amante si annichilisce completamente in
Luicciii.

Anche G. M. Wickens non ci si pronuncia. Sembra proprio che Hafez non dovesse avere un
suo punto di vista, preoccupato solo di una coerenza di tipo testuale, in un accordo solo
formale con il canone condiviso.

Un mistico o un libertino; un buon musulmano o uno scettico, o tutto ciò a seconda del caso […] E’ oggi
opinione generale (senza pregiudizi) semplicemente che egli parli attraverso i temi standard e la
terminologia dell’edonismo, il lamento per la mortalità, umano e mistico amore, e così via. Egli fu un
superbo linguista e letterato forbito, che prese le sue forme lontano, attraverso il lavoro dei suoi
predecessori dai quali praticamente si distaccò cciv.

Riporto anche alcuni giudizi scontati che provengono dall’interno del movimento sufi.
Hazrat Inayat Khan (1964), fondatore del sufismo nell’ovest del mondo:

Hafez trova la via di espressione del suo animo e della sua filosofia. Il suo animo è musica, e quando
sperimenta la realizzazione della divina verità la sua tendenza è di esprimerla in versi. Per chi studia
Hafez, dall’inizio alla fine, il suo lavoro è una serie di bei quadri. Raggiunge la cima di una montagna
dalla quale può comprendere la sublimità dell’immanenza divinaccv.

Meher Baba (1989), leader spirituale indiano:

239
Ognuno beve un vino peculiare a se stesso. Hafez dipinge il mondo come una cantina […]
I maestri sufi spesso comparano l’amore con il vino. Entrambi ubriacano ccvi.

Un nodo da sciogliere

Indubbiamente Hafez ha una straordinaria capacità di valorizzazione delle possibilità


ambigue offerte dalla forma poetica impiegata. Il tessuto tematico dei suoi ghazal è molto
ricco, e continuamente rivisitato. Prevalgono i motivi amorosi. L’amato è in genere un giovane
di sesso maschile, altero, irraggiungibile, circondato dai rivali dello amante-poeta.
Celebrazione convenzionalmente blasfema del vino e dei conviti. Riferimenti alla natura.
Topoi antiortodossi e critiche all’ordine costituito. Si addita l’ipocrisia dei maestri sufi, dei
giudici, dei censori e si celebra la purezza di cuore dei bevitori, dei mendicanti e dei
miscredenti cristiani e zoroastriani, depositari di un sapere esoterico superiore. Anche versi
di ispirazione gnomica e sapienziale, a fianco di accenti panegiristici più o meno espliciti.
Figura principale anti-establishment è il rend - irreligioso alter-ego di Hafez - da lui visto in
contrapposizione rispetto all’alto concetto di sé che caratterizza le autorità religiose. Il rend,
gozzovigliatore, ubriacone, figura antinomica e preislamica, è un tipo letterario preso a
simbolo della vera spiritualità a fronte della religione ufficiale, legalistica e falsamente pietosa.
Un’operazione poetica di tipo politico, secondo alcuni, che, attraverso la figura del libertino e
del disobbediente civile, incarna una embrionale rivolta sociale (come quella dei poeti e degli
artisti bohémiens) opposta alla politica e al conformismo religioso. Il rend di Hafez sarebbe il
risultato dell’unione dell’ “uomo perfetto” (al-Insān al-Kāmil) del sufismo col mendicante, il
libertino e il politico ribelle che rifiuta di piegare il ginocchio all’ipocrisia e ai valori imposti
con la forza. La figura più criticata è quella del sufi, la cui ipocrisia è vista come il polo opposto
dell’onestà e autenticità del bevitore di vino.
I banchetti degli Shāh e dei Sultani sono stati celebrati spesso nei primi periodi della poesia
persiana. Non c’era proibizione del vino in Persia. Le taverne erano fra le rovine (karabat)
delle periferie. Poi Shā h Shojā ʽ le fece chiudere. Spesso erano cristiane. Hafez le associa agli
zoroastriani. Nella coppa di vino portata dal giovane mago c’è la memoria del soma, la
bevanda sacra degli zoroastriani. Il genere del “coppiere” non è normalmente specificato, ma
possiamo assumere dalle convenzioni omoerotiche del ghazal la sua connotazione mascolina
(ragazzo mago, piuttosto che bambino). Non ancora barbato. Hafez ne ammira i sopraccigli, i
capelli, le guancie luminose, le labbra. Ne ricava un’immagine da paradiso islamico.
I temi e le figure principali delle quartine di Khayyā m sono stati successivamente utilizzati
da ‘Aṭṭā r e poi, con tutt’altro peso, da Hafez. Hafez, come Khayyā m ci invita a celebrare la vita
e ad essere felici in questo mondo invece di cercare di esserlo nell’altro, negando il piacere
della vita a noi stessi oggi. Si dichiara nemico di un tipo di moralità che nega la vita, basato
sull’ascetismo. Ragione, fede e moralità per Hafez sono nulla se non portano felicità e se non
servono la vita. Il suo edonismo e la sua filosofia di vita lo collocano per certi versi vicino allo
zoroastrismo, per il quale la norma morale è considerata razionale solo se contribuisce alla
felicità dell’uomo e alla protezione dell’ambiente.
Per comprendere Hafez occorrerebbe anche considerare il clima culturale del tempo, e
sapere come venissero accolte opere con la veste dei suoi ghazal. Tanta esibizione di omofilia
era cosa così neutra? Perché alllora Hafez fu scomunicato dai benpensanti islamici, che
arrivarono anche a cercare di impedire, alla sua morte, la costruzione del grande mausoleo a
lui dedicato? L’immagine che Hafez offre di sé, per tutta la distanza di oltre 500 ghazal, avrà
ben un significato che supera la semplice adesione ad un canone riconosciuto. Quanto poteva
essere condivisibile tutto ciò ? Certamente un risvolto mistico è presente nelle sue poesie, e,
volendo, può diventare anche assolutamente predominante.

240
Nei ghazal ci sono anche molti esempi, facili da trovare, che mostrano senza possibilità di
dubbio come Dio stesso, certamente convocato spesso e in modo significativo, si trovi
frequentemente “a fianco” di personaggi, i “belli”, che, per quanto possano essere irreali,
meramente testuali, canonici, teatrali, sono forniti di pari peso letterario, e si pongono
materialmente come attori sulla scena allo stesso modo e titolo della figura divina
chiaramente evocata, oppure suggerita. Figura divina della quale, secondo i mistici più
integralisti, loro dovrebbero essere esclusivamente simboli e metafore. Se Hafez non ha la
preoccupazione di evitare tali incongruenze (di grande peso ove avesse veramente voluto, con
tutto il cuore, favorire una reinterpretazione mistico-allegorica del suo immaginario) significa
che la visione allegorica, i significati di tipo religioso e mistico nascosti sotto una lettera che fa
riferimento ad una realtà tutta terrena e anche orgogliosamente refrattaria a tale visione della
vita, non sono il primo dei suoi pensieri. Il Dio di Hafez rimane sempre sullo sfondo, una figura
pallida. Qualcuno che amava la verità , che non sopportava di mentire e che non voleva
nascondere tutto, doveva pur esserci.
Le poesie più appassionate, anche molto esplicite, sono nella seconda metà dell’opera. Il
Divān si infiamma verso la fine. Il ritratto che ne deriva è quello di un Hafez che sempre meno
si preoccupa del giudizio del mondo e ammette con coraggio le sue pulsioni. Se l’ordine delle
poesie segue l’avanzare dell’età , ciò testimonierebbe un uomo che invecchiando sente meno il
problema religioso e accentua invece le sue scelte di vita, quasi in un bisogno di
autodistruzione.
Hafez si dipinge come un vecchio debosciato. Ma non è quello che sentono di essere tanti
“schiavi della bellezza”, uomini e donne? In fondo sono solo vittime volontarie di sentimenti
più forti di loro. Mettono al primo piano i loro “trasporti”. In quello che sono e che fanno
trovano del bello, e lo giustificano attribuendone la ragione al destino e a volontà superiori.
Hafez è così. Suscita meraviglia che sia stato capito in modo completamente diverso da tanti
connazionali e anche da tanti critici occidentali. Bisognerebbe anche spiegare come sia stato
possibile che Hafez sia diventato in Persia un modello di misticismo, sia pure in chiave
contestataria.
Possibile che tanta ostentazione di omofilia fosse così indifferente?

“Oggi il volto, al giardino, l’abbruna una lieve peluria di viola”

Nella letteratura zoroastriana preislamica non ci sono evidenze di rapporti fra adulti maschi
e adolescenti. Sodomia e lesbismo sono condannati dalla legge e considerati peccaminosi. E’
punita fortemente anche la sodomia passiva per costrizione. Tali rapporti sarebbero voluti
dalle forze del male per indebolire l’energia riproduttiva. I sodomiti possono essere uccisi sul
posto, senza processo. Però un raporto sessuale con un ragazzo di otto anni non equivale al
rapporto fra adulti, meritevole di morte. E’ sicuramente meno grave.
Anche la legge islamica condanna le relazioni sessuali fra membri dello stesso sesso. Anche
se il Corano ignora l’aspetto legale del problema, l’omosessualità vi viene aborrita in relazione
alla storia di Lot. Le allusioni coraniche ai coppieri del Paradiso hanno suscitato
interpretazioni divergenti. Ignorate dagli esegeti ufficiali, sono state popolarmente
interpretate come se i rapporti omoerotici fossero una cosa permessa, ma solo nell’altra vita, e
per le anime sante (allo stesso modo del consumo del vino). Negli hadīt (fatti e detti della vita
del Profeta) non si parla di omosessuali. Essenziale per il giudizio è sempre la penetrazione
(anche per l’adulterio). Rapporti diversi sono giudicati a discrezione del giudice. Lapidazione
per gli adulteri o i sodomitii, cento frustate per gli altri rapporti.
Col tempo testi storici e aneddotici indicano una crescente accettazione dei rapporti
amorosi omoerotici nei paesi islamici, almeno nelle elìtes e probabilmnte anche più in
generale, con piccole differenze geografiche o etniche. La poesia omoerotica fiorì a Bagdad,
241
soprattutto nei versi di Abū Nuwas (747/814), in cui l’amore per i ragazzi era pareggiato solo
dal suo amore per il vino. In entrambi i casi le delizie che egli celebrava erano antinomiche,
quelle riferite ai ragazzi erano espresse sia con versi casti, come osceni. Abū Nuwas non fu il
solo, presto nella sua generazione venne generalmente accettato che i poeti fossero liberi di
comporre versi sui ragazzi come sulle donne. Dopo un secolo, la lirica d’amore omoerotica in
lingua araba potè estendere la sua influenza all’intero campo delle emozioni amorose, da
quelle del cuore a quelle di tipo mistico.
L’omosessualità espressa nei testi islamici, sia in poesia che in prosa, in arabo o persiano, fu
di tipo particolare, comparabile con quella conosciuta nel Mediterraneo orientale
nell’antichità . Era accettato che uomini maturi fossero sessualmente attratti da ragazzi
adolescenti, in un modo strettamente parallelo, e compatibile, all’attrazione per le donne.
Come le donne i ragazzi hanno corpi senza peli e pelle morbida, e come le donne sono membri
subordinati della società , cioè subordinati agli uomini maturi. Gli interessi degli uomini sono
ovviamente diversificati (molti sono interessati in entrambi i campi). C’è sempre meno
differenza fra l’amore dei poeti e quello delle altre persone. Resta il fatto che nella lingua
araba, e di più in quella persiana senza genere, è spesso oggettivamente impossibile
determinare il sesso della persona amata presa in considerazione.
L’apparizione della barba era di fatto un aspetto cruciale dell’omoerotismo maschile di
queste società ; apprezzata come il culmine della bellezza (il maschio ideale amato era circa
quattordicenne), stabiliva anche la fine della desiderabilità sessuale. In Saʽdi abbiamo visto
significativi lamenti poetici su questo passaggio. L’attività sessuale vi era connaturale;
all’uomo adulto spettava il ruolo attivo, al ragazzo quello passivo, ma non era accettabile il suo
utilizzo bruto per il raggiungimento di una soddisfazione sessuale (pur con molta confusione
in merito). Quando il ragazzo raggiungeva la maturità diventava attivo a sua volta. L’uomo
maturo che cercava un ruolo passivo era considerato un malato da disprezzare e dava motivo
a una diffusa forma di insulto.
L’omoerotismo in letteratura è presente dall’ VIII secolo, fino al XIX. Ne parla già il letterato
Jā hez (m. 869): i soldati mandati da Abū Moslem dal Khorasan nelle terre islamiche per
combattere, nel 749, la rivoluzione abasside, non furono autorizzati a portare con sé le mogli,
e venne l’uso di approfittare sessualmente dei servitori. Ne sarebbe derivata una moda
duratura. Disse perciò che l’omosessualità maschile era venuta dall’Iran. Scrisse anche un
testo che dibatteva la questione dell’amore verso le donne raffrontato a quello per i ragazzi.
Poteva essere paragonato a quelli analoghi della letteratura greca, e divenne un frequentato
genere letterarioccvii.
Ci fu differenza fra l’apprezzamento dell’omosessualità in Iran e nelle altre regioni
islamiche. Il culto della bellezza dei Turchi appare dapprima nella poesia iranica. Il Turco
soldato diventò lo stereotipo dell’amato. La storia di Maḥ mū d (sovrano ghaznavide, fondatore
dell’impero Moghul in India) e del suo amore per lo schiavo Ayyā z divenne paradigmatica,
nella letteratura persiana, alla pari di quelle tradizionali eterosessuali di Yū ssuf (Giuseppe) e
Zoleykhā , Majnū n e Laylā , Khosrow e Shirin.
L’accettazione dell’erotismo omosessuale (anche specificamente pederastico) non fu
esclusiva della poesia e del romanzo. Fin dal IX secolo i circoli sufi avevano sviluppato l’idea e
la pratica del “gazing”: contemplazione comune di un bel giovane come rappresentante o
“testimone” della bellezza di Dio. Seppur criticati dai conservatori, che ritenevano i sufi
conventicole dedite all’omosessualità (certo non senza ragione, anche considerando il
carattere antinomico di molti raggruppamenti), tale pratica continuò , difesa Ahmad Ghazā lī,
autore di una grande opera mistica e fratello del più noto teologo. Nel tardo medioevo in Iran
(in contrasto con il mondo arabo), sufismo e manifestazioni letterarie di omoerotismo si
intrecciarono sempre più , dando esito al peculiare fenomeno della lirica persiana, i cui
referenti – un ragazzo, Dio, una donna? – sfidano regolarmente ogni tentativo di fare chiarezza
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fra misticismo e letteralità delle esuberanti espressioni d’amore di un Hafez per i suoi coppieri
o di un Rumi per Shams-i-Tabrīzi.
I caratteri omoerotici, sviluppatisi nella letteratura persiana, si estesero poi anche a quella
araba. Divenne anche letteratura licenziosa. Nella letteratura l’omosessualità è stata
condonata, anzi l’omoerotismo divenne aspetto predominante del ghazal persiano, luogo
principale della poesia d’amore. “The beloved”, l’amato/a, divenne regolarmente, non una
donna, ma un giovane uomo, spesso un adolescente. Senza senso di vergogna, senza cura per
le proibizioni religiose, con esuberanti descrizioni dell’amato “maschio” e dell’appassionato
amore espresso dal poeta per lui. L’amato non è mai individualizzato. Crudele, freddo,
indifferente. Raramente è pietoso. E’ una rappresentazione astratta della bellezza perfetta.
Non differisce la sua rappresentazione da un poeta all’altro. Rappresenta un tipo, non un
individuo. Non conosciamo mai il nome dell’ “amato”. E’ raro udire un poeta parlare di altri
aspetti dell’amato al di fuori di quelli fisici. Non c’è menzione di attrattive di tipo “morale”.
Spesso c’è consapevolezza della disgrazia verso cui si corre per questo stravagante amore.
L’amante diventa fragile, debole, supplicante. Spesso si caratterizza come pedofilo. Interessato
non solo ai ragazzi musulmani, ma anche zoroastriani e cristiani appartenenti ai conventi.
L’astrattezza di queste figure può avere favorito le convinzioni di chi vuole leggere queste
opere poetiche in chiave mistica. Ma certo l’oggettiva presenza di un canone non impedisce di
per sé l’esistenza di conformi realtà extratestuali.
Il principe del Tabaristan scrisse un’opera per la nobiltà , dedicata al figlio, dove tesse
l’elogio degli amori omosessuali e consiglia la bisessualità , con moderazione, come il migliore
atteggiamento verso la sessualità . Abbiamo anche un curioso dibattito fra un sodomita e un
fornicatore, scritto dal capo-giudice di Balk nel XII secolo. Anche qui si apprezza la
bisessualità . Helmut Ritter ha studiato le relazioni amorose dei sufi, non solo in ‘Aṭṭā r ma in
generale fra i mistici islamici. Scrive: “L’amore fra uomini e ragazzi, all’interno delle comunità ,
può essere identificato nelle islamiche futuwwat, associazioni di mestiere con tendenze
sufiche, e nelle altre anatoliche varianti - come pure negli ordini dervisci -, ma, essendo un
atteggiamento di origine non semita, non è riconosciuto come una loro caratteristica
obbligante. Conosciamo il fatto per le critiche che venivano sollevate. Caratteristica la pratica
di molti circoli sufi di organizzare un evento musicale e contemplare la bellezza di un giovane,
specialmente adornato, con il ruolo di testimone (sāhed), che ai loro occhi rappresentava la
bellezza di Dioccviii”.
‘Aṭṭā r, nelle sue opere narrative, esalta l’amore del cuore come preludio e gradino
preparatorio all’amore mistico. I suoi amori appassionati non sono mai separati dagli aspetti
spirituali. In amore l’amato diventa un essere supremo, l’amante si lascia guidare dall’amato e
a lui sacrifica tutto. Anche quando l’amato è uno schiavo.
Secondo Zā ngi Bukharī, contemporaneo di Sa’di, “per comprendere l’origine dell’amore
omosessuale e la sua prevalenza in Persia, non c’è bisogno di andare lontano. E’ un costume
vecchio, che fa parte della natura umana ccix”. La pubblica accettazione dell’amore omosessuale
nella letteratura persiana, particolarmente in Khorasan e Transoxiana, durante il X-XII secolo,
nonostante le proibizioni religiose, è un fatto. Legittimi anche collegamenti con realtà
Manichee e Buddiste (e i loro conventi maschili), molto presenti in quelle contrade. Acuto il
contrasto fra il trattamento dell’omosessualità nella letteratura e la legge. La presenza delle
pene dimostra che l’omosessualità esisteva, sia prima che dopo l’Islam. L’amore omosessuale,
che non era contemplato nelle opere più antiche (Shāh-Nāmā di Firdusi), esplode in modo
sorprendente nella nuova poesia persiana, ed evidenzia la sua correntezza e accettabilità ,
particolarmente nelle corti e fra i poeti. Non fu portato dagli Arabi.
Nella letteratura sufi ci sono molte discussioni sulla valutazione dell’amore per “i bei volti”,
e i bei giovani. Con il diffondersi delle filosofie panteistiche, molti sufi in Iran aderirono
all’idea che la bellezza umana fosse nello stesso tempo manifestazione della bellezza divina,
243
ed espressero disponibilità a contemplare e rendere omaggio alla bellezza terrena,
indulgendo al limitato e all’effimero, con l’intento di raggiungere l’assoluto e l’eterno.
Interpretazioni generalmente riconducibili alla filosofia sufi nota come Waḥdat al-wujūd -
unità trascendente dell’Essere -, la dottrina di Ibn ʽArā bī. Essi argomentavano che
l’apprezzamento della bellezza preparava la strada all’amore divino.
Oltre al peso delle traduzioni dei primi occidentali entusiasti, studiosi sciovinisti
impediscono di fare chiarezza su queste questioni. Pochi persiani moderni hanno affrontato la
questione. Correnti di omofobia presenti in Persia, aiutate dal fatto che la lingua persiana non
presenta distinzioni di genere, portano così a fraintendere natura e significati di gran parte
della poesia persianaccx.

“Noi siamo la tabula rasa”

La passione amorosa (di tipo chiaramente omoerotico), innegabile fondamento dell’arte,


della psicologia e anche della vita di Hafez, appare sorretta da giustificazioni a sfondo
religioso. E’ dichiarata la sua adesione all’idea dell’amore come forza cosmica centrale del
progetto divino; ad essa si accompagna un atteggiamento polemico e individualista che si
pone contro la società , anche se costituita su basi religiose. Hafez mostra disprezzo verso i
notabili e i conformisti, mentre si colloca spesso a fianco dei sovrani e della corte. Si atteggia a
ribelle, assertore del diritto personale alla gioia ed avalla comportamenti fuori dalle regole in
ossequio ai propri bisogni e desideri, su un fondo malcelato di paura e di vergogna.
Atteggiamenti che esprimono però sempre passività conciliante verso se stesso. Sufismo e
misticismo, sullo sfondo, non sembrano la vera ragione della sua poesia. Sicuramente
presente ed elemento comunque importante della sua poetica, l’aspetto religioso appare
difficilmente definibile e certamente subordinato al mondo primitivo e ossessivo delle sue
passioni. La contrapposizione del ribelle al sufi riconosciuto si accompagna alla
rivendicazione della passione a fronte della brevità della vita. Certamente Hafez dovette
curare molto la circolazione delle sue liriche, e fu un ottimo promotore di se stesso. Colpisce
che la sua produzione fosse così diffusa e conosciuta, come ci viene detto, e che, nonostante il
carattere al limite dell’ortodossia delle sue poesie, riuscisse ad essere, seppur con problemi,
così vicino al potere. Il che autorizzerebbe a pensare che una lettura simbolica e mistica dei
suoi versi fosse già praticata e anche diffusa.
Hafez crede che la promozione della vita e la ricerca della felicità si oppongano alla ragione
e alla moralità ufficiale, perché la sola ragione che conosce è quella dogmatica dei dottori, e la
moralità è quella repressiva e ipocrita dei religiosi del tempo. L’enfasi che Hafez pone sul vino
è molto significativa. Vuole che il lettore comprenda che la salvezza passa attraverso
l’abbandono della ragione e della comunicazione razionale con gli altri esseri umani. La
ragione è il principale ostacolo alla felicità e deve essere superata: “Noi siamo la tabula rasa
(356)…Non è strada a ragione o intelletto, entro quest’officina (181)… Mai lo sciolse, quel nodo,
pensante geometra alcuno (97)”. Il piacere e la felicità non sarebbero un problema per Hafez.
Differisce dai difensori della moralità ufficiale perché egli ha una spinta insopprimibile a fare
ciò che essi proibiscono. Per il resto non si pone problemi. Non chiede di coltivare nuovi
bisogni e nuovi desideri più umani e più razionali. Chiede solo di essere lasciato in pace.
I toni sono spesso umoristici. E’ il più arguto dei dissacratori. Condanna l’asceta, il
predicatore, lo sceicco della khāneqāh, il chierico, il giudice, lo studioso, il poliziotto, l’imam. E’
contro i sufi organizzati, che descrive come disonesti e ingannatori. Per umiliare e
imbarazzare gli ipocriti benpensanti, pone come modelli di virtù i derelitti della società . Il
rend dissoluto, il qalandar senza dimora, il venditore di vino, il Maestro dei magi. Santifica
luoghi ignominiosi come le taverne (i conventi dei Magi) fra le rovine alla periferia della città . I
meriti dei suoi reietti sono il candore e la sincerità . Vuole mettere in difficoltà gli ipocriti,
244
perché bere vino è proibito. La celebrazione del vino e dell’ebbrezza segue l’esaltazione del
sentimento amoroso. Nessun poeta ha baccanali così frequenti. Si dice devoto del vino, e
destinato a ciò per decreto divino. Per Hafez i bevitori aperti e sinceri sono migliori degli
astemi disonesti. La sua condanna è assoluta. Si vanta della sua ebbrezza, e considera questo
destino come prefissato dal giorno del patto primordiale. Lo chiama: “la nostra dottrina”.
Il suo linguaggio è trasparente, ma naturalmente utilizza anche la metafora e l’allegoria.
Hafez, lungi dall’essere un ateo deliberato, è un musulmano, cresciuto in ambiente
musulmano, educato in scuole religiose tradizionali, e immerso nella cultura islamica. Sembra
che insegnasse in un istituto religioso. Ma quando parla del vino, ne parla in modo concreto. A
volte mostra molto scetticismo, e spesso disprezza la promessa del Paradiso. Hafez sarebbe
stato scomunicato da dei giurisperiti per avere dubitato, in un ghazal, della realtà del Giorno
del Giudizio. Sostiene spesso che l’uomo non conosce il segreto dell’universo e quindi non può
esservi nessuna certezza. Pur sentimentalmente e culturalmente vicino al mondo del sufismo,
Hafez distingue i mistici sinceri, schivi ed autentici, da quelli falsi, non appartiene a nessuna
scuola di pensiero sufi e sceglie di essere completamente libero. Supplica di rimanere
agnostico. E’ un uomo di normale sensibilità con un appetito inconfondibile per la bellezza e i
piaceri della vita. Vuole vivere una buona vita fra musica, gite, feste con gli amici. Circondato
dai “coppieri”.
Numerosi critici moderni riconoscono che molte linee dei suoi ghazal concernenti l’amato, il
saqī e il vino non possono essere interpretate in modi diversi da quelli letterali, e che l’amore
e il vino vi hanno i significati di amore terreno e vino di uva. La trasparenza del suo linguaggio
e la lucidità della sua dizione non possono essere ignorati. Ma una certa timidezza che porta
gran parte degli studiosi a non discutere i supposti significati esoterici e la riluttanza a
ridimensionarne l’aura mistica hanno provocato equivoci e favorito nei fatti l’adozione di una
lettura binaria delle sue poesie, mistica e terrena. Lettura inevitabilmente opportunistica e
confusa. A fronte della mancanza di dati biografici credibili, continuare conformisticamente a
diffondere interpretazioni non supportate dai testi, spesso anzi in palese contraddizione,
porta solo a favorire la permanenza delle idee di una parte (fosse pure maggioritaria) dei suoi
interpreti.

“Sono un peccatore, o un santo?”

Questa la posizione di Stefano Pellò , che pensa così di sottrarsi ai due corni del dilemma
hafeziano:

…. non ha più valore tanto il rapporto dell’oggetto poetico con il referente reale, quanto il suo ruolo
all’interno del testo e nella sua relazione con gli altri testi. Per tale motivo è inutile ricercare in Hafez
una sincerità di carattere ideale e romantico: chi parla non è (non può essere, né si pretende che sia) la
voce immediata dell’Hafez storico, ma un Io poetico cui si richiede una sincerità stilistica, ovvero la
capacità di assolutizzare e reinterpretare l’esperienza reale conformemente al genere di versi
composti, siano essi bacchici, mitici o encomiastici, in una maniera riconoscibile dal pubblico al quale
si rivolge [….] In quest’ottica, il misticismo può essere visto come una funzione stilistica fondamentale
del ghazal hafeziano, da non mettere in relazione necessaria con la figura storica dell’autore: ciò che
conta non è la corrispondenza fra l’allusione mistica e la sua oggettiva realizzazione, ma la sua
plausibilità formale nello schema poetico, che è, come abbiamo già ricordato, la riproduzione testuale
di una realtà idealizzata e universalizzata, sullo sfondo di una temperie estetica tendente alla
cancellazione delle contingenze spaziali e temporali [….] Ma c’è altro, e si tratta forse del punto più
importante. L’opera di Hafez è la vetta suprema del cosiddetto “stile iracheno” (con Iraq intendendosi
l’antica Media) della poesia persiana, che, proprio in conseguenza del radicamento della speculazione

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mistica, si caratterizza per la tendenza a cogliere insieme l’aspetto immanente e quello trascendente
degli oggetti poetici, a indicarne i sensi arcani, metafisici senza per questo rinnegarne la fenomenicità
terrena e concreta. Un ruolo fondamentale in questo processo è svolto dagli scritti dello scirazeno
Ruzbehā n Baqlī (1128-1209), che respinge la contrapposizione fra amore terreno e amore divino
ponendo l’accento sul valore trasfigurante e metamorfico della bellezza, interpretata come segno
profeticoccxi.

Ne discenderebbe che “la creazione di Hafez è l’inestricabile miscela, portata nella pura
forma, di sensibile-reale e soprasensibile-spirituale ccxii […] Il vino è, nello stesso momento,
motivo di tangibile ebbrezza e strumento di conoscenza esoterica, l’amato è, nello stesso
momento, un giovane e grazioso oste zoroastriano e Dio, o anche il sovrano [….] Su un piano
essenzialmente testuale, ovvero senza inplicare necessariamente l’inclinazione all’amore
efebico o al consumo di bevande vietate da parte del poeta ccxiii”.
Credo che Il giudizio di Pellò su Hafez rischi di apparire - come negarlo? - l’esaltazione del
“manierismo”. Che altro sarebbe questa “capacità di assolutizzare e reinterpretare
l’esperienza reale conformemente al genere di versi composti, in una maniera riconoscibile
dal pubblico al quale si rivolge”? Sostanzialmente in Hafez ci sarebbe solo preoccupazione per
una “plausibilità formale” con lo schema poetico dominante. Il discorso potrebbe forse essere
accettabile se riferito a temi episodici e isolati, che si giustappongono in modo vario ad un
canone esistente e riconosciuto. Ma se essi si ripropongono in modo univoco e ossessivo,
come di fatto è riscontrabile nel Divān di Hafez, la plausibilità formale - l’altro nome
dell’artificio - si scolora ed emerge una realtà ben delineata, che non può non corrispondere a
caratteristiche dell’autore, a sue convinzioni, a forme mentali fortemente consolidate che
hanno chiesto di venire estrinsecate. E queste, come abbiamo visto, non erano certo
caratteristica esclusiva di Hafez. Una qualche inclinazione dominante la debbono implicare.
Perché allora non farne oggetto di specifica attenzione? Solo un’apertura in questa direzione
può portare “veramente” a comprendere Hafez. Il poeta e l’uomo.
Ammesso, e non concesso, che sia da prendere per oro colato quello che ci dice Pellò sulla
totale artificiosità della costruzione hafeziana, che, di fatto, non risponderebbe a nessuna vera
urgenza, a niente di personale, solo una questione di stile nel solco di una consolidata
tradizione, perché dovremmo accontentarci del “teatrino” di Pellò ? Perché accettare con gli
occhi praticamente, e pateticamente, chiusi quello che Hafez ci sottoporrebbe? Pellò dice che
l’unico piano che conta veramente - e ciò non per ragioni di forza maggiore (la mancanza di
certezze biografiche), ma perché sarebbe così ontologicamente, cioè in accordo con lo stesso
Hafez - sarebbe dunque solo quello testuale. Perché non ne esisterebbero altri, oppure perché
si è a priori rinunciato a riconoscerli? D’accordo, la scena è quella, quello il proscenio, quella la
commedia a cui applaudire, ma se ci aggiriamo un po’ fra le quinte come possiamo non
riconoscere i tratti di un canovaccio evidentissimo che non poteva, come tale, essere
rappresentato: al di là dell’offerta di un misticismo sostanzialmente d’accatto, oltre il realismo
crudo ma anche convenzionale di Hafez, c’è il riflesso di tutta una situazione fuori dagli schemi
che apre panorami molto diversi. Tutto questo Hafez ce lo dice chiaramente, ma solo se
vogliamo ascoltarlo possiamo comprenderlo. E la sua poesia può diventare ancora più bella,
più bella perché anche specchio della realtà .
Il generalizzato ricorso alla metafora, a partire dal XII secolo, da parte dei poeti persiani -
metafore e simboli che sarebbero diventati indispensabili anche al sufismo in quanto unici
mezzi per parlare delle realtà divine e del mondo degli archetipi - cambia l’equilibrio fra
lessico e contenuto, e il rapporto credente/Dio assume, in questo contesto, le sembianze del
rapporto tra amante ed amato. Le forme non cambiano, ma cambia spesso la sostanza. Un
ricciolo nero che si staglia su una gota d’argento ora può raccontare, ad esempio, la realtà
sublime dell’opposizione fra la molteplicità dei fenomeni (i capelli) e il mistico valore
dell’Unità (il volto). Le varie indicazioni offerte, con empatia, dai commentatori - anche
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occidentali - mancano però di ogni pregnanza, ove si consideri che il lettore si troverebbe a
poter scegliere, al solito, fra mille “offerte” di scioglimento proponibili. Pur considerando che
il canone - ancora lui! - dei simboli e delle metafore dovesse essere meglio conosciuto
all’epoca, l’operazione è in sè problematica e, al fondo, ontologicamente assurda. Tutto ciò l’ho
già visto e valutato parlando del Cantico dei cantici. Almeno da noi occidentali, questo tipo di
approccio, che accetta la ampia, ma assolutamente generica, e gratuita, metaforicità delle
immagini, come può essere considerato, soprattutto oggi, soddisfacente e giustificato? E,
anche, come poteva esserlo per i contemporanei? I due piani dell’opera, quello contenutistico-
sostanziale e quello realizzativo-formale, nascono in ambiti e tempi diversi e trovano poi la
loro inscindibile unità , nel crogiolo creativo. Saranno per sempre legati ma certamente il
secondo poggia sul primo che ne è condizione. I contenuti caratterizzano un autore -
rappresentano il “suo” mondo – ed è a loro che si dovrebbe sempre porre primaria
attenzioneccxiv.
Hafez si dipinge schiavo d’amore, ossessionato dai bei ragazzi e insensibile alle critiche per
il suo tipo di vita. La fragile veste religiosa, gli appelli e le richieste di aiuto a Dio, anche le
ammissioni di colpevolezza e la vergogna esibita, non arrivano mai, per tutta la vita “poetica”
di Hafez, ad auspicarsi il raggiungimento di una pace dello spirito e dei sensi. La sua vita vera
non sarà stata quella poeticamente suggerita dai ghazal, ma certamente poteva esservi
ricondotta. Era allora, la sua, solo smania di raggiungere il trascendente, nel rifiuto del mondo
e delle sue convenzioni? Tanti “belli” tenebrosi e sfuggenti solo immagini per alludere alla
imperturbabilità divina, alla sua irragiungibilità ? Solo una divina mania la sua?
Nella scelta di Hafez di mettere al centro della sua narrazione personaggi dissoluti,
discutibili, e luoghi infamati, c’è sicuramente anche lo scopo di ricreare, ispirandosi ad una
realtà esistente e risaputa, un universo dai forti caratteri di letterarietà e teatralità . Ma certe
figure, proprio per la loro pervasività - al di là di un canone che pure le contempla -
rappresentano idee e concetti che evidentemente gli stanno molto a cuore. Anche se non fosse
nel senso letterale del testo, c’è sicuramente molto del vero Hafez dentro il suo personaggio.
Hafez è come si dipinge. E l’ambiente che descrive gli è caro, lo conosce, lo affascina, lo
stimola. Lui è, vuole essere, il poeta degli emarginati, degli esclusi. E’ dalla loro parte, non
vuole stare dalla parte dei potenti, dei benpensanti. Forse per questo è sempre stato amato dal
popolo. La sua tensione mistica non è quella tipica, convenzionale. Nessun dubbio sul
misticismo di un Sanā ’ī, o di altri. Anche in Hafez c’è apertura al problema religioso, anche al
trascendente, ma in modo assolutamente personale, libero. Si atteggia a mistico per giocarvi
sopra, mentre parla liberamente della sua vita. Veramente il velo è costituito da quel
misticismo superficiale, non è tanto l’edonismo a nascondere (da malāmati quale pure è
Hafez) una sofferta ricerca di trascendenza. Se così non fosse tante affermazioni prive di
speranza sulle questioni escatologiche non avrebbero senso.
“Io sono un peccatore o un santo?”. La domanda se la pone Hafez e credo provenga da una
qualche traduzione inglese di un suo ghazal. Anche questa l’ho trovata, senza indicazioni, sul
Webccxv. Questa domanda non retorica svela la vera natura della “questione hafeziana”. Se il
problema di una realtà di vita perlomeno opinabile e criticabile non fosse esistito, non
sarebbe stato posto da lui stesso in maniera così drastica. Mostrando tutto il peso di una
riflessione che lo investe totalmente, Hafez valuta la sua scelta di vivere - o anche solo di
rappresentarsi letterariamente - al di fuori delle regole, schiavo delle sue generose pulsioni.
C’è in lui incertezza evidente, ma la sua convinzione di fondo di essere nel giusto, unita
all’impossibilità di cambiare, prevale e lo porta spesso fino ad attribuire a forze superiori la
natura e i modi dei suoi “affetti”. Il che, “segreto” mistico a parte, è anche un modo di
autoassolversi. In fondo, l’innocenza e la passività sono assimilate da Hafez a qualità che si
possono porre su un piano di santità e di bontà .

247
_____________________

248
Giovanni della Croce

Miei sono i cieli e mia la terra, miei sono gli uomini,


i giusti sono miei e miei i peccatori. Gli Angeli sono miei
e la Madre di Dio, tutte le cose sono mie. Lo stesso Dio è
mio e per me, poiché Cristo è mio e tutto per me.
Che cosa chiedi dunque e che cosa cerchi, anima mia?
Tutto ciò è tuo e tutto per te.
Orazione dell’anima innamorata

E’ necessario notare come tutti i danni che l’anima


riceve provengono dai suoi nemici, che sono il mondo,
il demonio, la carne. Il mondo è il meno pericoloso, il
demonio è il più difficile a capirsi, la carne è il più tenace
di tutti e i suoi assalti durano quanto l’uomo vecchio.
Cautele

“In virtù del precetto che mi è stato dato affermo e dichiaro quanto
segue. Conobbi il Padre Giovanni della Croce e trattai e conversai con lui
molte volte. Fu un uomo di media statura, dal volto grave e venerabile,
un po’ bruno, di bell’aspetto, il suo tratto e la sua conversazione amabili

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e molto spirituali, tali da edificare chi lo ascoltava o lo avvicinava. E in
ciò fu dotato in modo così singolare e straordinario che quanti lo
avvicinavano, uomini e donne, ne uscivano spiritualizzati, devoti e
affezionati alla virtù. Conobbe ed ebbe esperienza profondissima
dell’orazione e dell’unione con Dio, e a tutti i dubbi che gli venivano
proposti su questo argomento rispondeva con grande saggezza,
lasciando chi lo consultavaa molto soddisfatto e migliorato. Gli piacque
stare raccolto e parlar poco; rideva poco e dignitosamente. Quando fu
superiore, e lo fu spesso, riprendeva con dolce severità, esortando con
amore fraterno congiunto a un’amabile serenità e gravità. Ciò è quanto
mi ricordo per ora. Se mi ricorderò di più, lo comunicherò al P.N.
Generale per adempiere al suo precetto. Dato nel Messico il ventisei
marzo del mille seicento diciotto. Fra Eliseo dei Martiri”ccxvi.

Giovanni della Croce è vissuto in Spagna lungo l’arco del ‘500 ma


nelle lettere e negli scritti poetici e religiosi del Doctor Mysticus non
trovano alcuna attenzione i tanti fatti clamorosi che caratterizzarono il
Siglo de oro: la scomunica di Lutero, l’abdicazione di Carlo V e l’ascesa
di Filippo II, la guerra alla Francia, le persecuzioni contro i protestanti,
il concilio di Trento, la guerra delle Fiandre, la ribellione dei mori in
Andalusia, la battaglia di Lepanto, la strage degli ugonotti, il disastro
dell’ “Invincibile armata”. Sincero, privo di ambizioni, ipocrisie e
calcoli, totalmente assorbito dalla sua passione per il supremo
reggitore, Giovanni fu lontano dalle cose del mondo.
Carmelitano “Scalzo”, esponente, ancora giovanissimo, della
osteggiata riforma del suo Ordine, venne rinchiuso in una fetida e buia
latrina trasformata in prigione nel convento di Toledo, dalla quale
riusci a fuggire dopo nove mesi di sofferenze con una evasione
rocambolesca.
Segnalano un bisogno di affetto i rapporti continuati e intensi,
motivati da ragioni di cura d’anime, con le carmelitas, le monache
carmelitane di Castiglia e Andalusia? Chiamato a questo incarico da
Madre Teresa d’Avila, che lo ebbe in grande simpatia, Giovanni della
Croce fu il confidente prediletto di tanti nascosti e negletti “fiori dei
chiostri”.
Fu umanamente più accessibile per alcune donne vicine ai
monasteri, che lo avevano eletto a loro maestro, guida e luce della loro
vita, fino a inseguirlo anche nei suoi materiali spostamenti?
250
Sicuramente Giovanni le assecondò , fino a trovarsi anche nella
necessità di contenerne gli entusiasmi, curandone nel contempo le
afflizioni e gli scoramenti. Operò delle strategie morbide di
sganciamento solo quando si trovò a rischio di essere travolto dal
fronte dei “maldicenti”.
Anche una fede immensa in Dio può evidentemente convivere con
certi slanci più terreni, soprattutto quando il cuore è sotto ferreo
controllo. Forse fu consapevole - e certo lo fu alla fine della sua vita -
delle sue contraddizioni e debolezze. Sarà interessante vedere come
venivano vissuti tali sentimenti fra le mura, non sempre invalicabili,
delle tante “clausure”.
In quegli anni di accesa religiosità – tra esorcismi, roghi, demoni in
agguato, commistioni e conflitti tra Chiesa e potere - può sorprendere
tanta profondità di fede, e non può non meravigliare, oggi, anche la
debolezza di tanti postulati su cui era fondata. Così credevano.

I versi più belli scritti da Giovanni della Croce sono quelli della
Noche oscura. Credo i soli veramente belli. Il fascino del poemetto non
è legato ai significati religiosi dell’allegoria, che facilmente si
indovinano; l’emozione si blocca, e precipita, sull’orlo della voragine
bruciante dell’invenzione letteraria. Andiamo come ipnotizzati dove
Giovanni, siamone certi, ha voluto portarci. Molti anni dopo, al solito,
anche Giovanni vorrà , o dovrà , commentare fino all’esasperazione il
senso religioso e mistico di quei versi ribollenti – per la verità anche
lui fermandosi dopo le prime due strofe – ma noi, se avessimo potuto
leggerli appena composti, ignorando chi fosse l’autore, cosa avremmo
potuto pensarne?

Le pulsioni profonde di una poesia semplice

Qui non si respira quel profumo di Cantico dei cantici caramellato


che esala, salvifico e scontato, da tanta sua produzione, anche
contemporanea alla Noche. Qui si sente solo il battere del cuore,
l’emozione dell’uomo che si traveste, si nasconde ma anche si rivela, e
corre nella notte verso la sospirata avventura.

251
Se non sapessimo che l’autore è un frate, un teologo e un mistico,
potremmo solo pensare alle morbose fantasie di un adolescente
letterariamente dotato. L’aspetto che più colpisce in questi versi è la
loro compiuta - seppur surreale e metafisica - verosimiglianza, che
scaccia lontano da sé ogni altra ipotesi di lettura. E’ il loro voluto e
sudato realismo - perfetto, suggestivo e coraggioso – a ergersi come un
muro e testimoniare la verità di un’emozione che non può essere
scalfita. Hanno una forza oscura.

Quei versi non hanno titolo, Giovanni li chiamava Canciones (Strofe)


o Canciones del almaccxvii.

1- En una noche oscura, 1 - In una notte oscura,


con ansias, en amores inflamada, con ansie, in amori infiammata,
¡oh dichosa ventura! - oh! felice ventura! -
salì sin ser notada, uscii, né fu notata,
estando ya mi casa sosegada. stando già la mia casa addormentata.

2 - A oscuras y segura, 2 – Al buio uscii e sicura,


por la secreta escala, disfrazada, per la segreta scala, travestita,
¡oh dichosa ventura!, - oh felice ventura! –
a oscuras y en celada, al buio e ben celata,
estando ya mi casa sosegada. stando già la mia casa addormentata.

3 - En la noche dichosa, 3 - Nella felice notte,


en secreto, que nadie me veía, segretamente, senza esser veduta,
ni yo miraba cosa, senza nulla guardare,
sin otra luz y guía senza altra guida o luce
sino la que en el corazón ardía. fuor di quella che in cuore mi riluce.

4 - Aquésta me guiaba 4 - Questa mi conduceva,


más cierto que la luz del più sicura che il sol del
mediodía, mezzogiorno,
adonde me esperaba là dove mi attendeva
quien yo bien me sabía, Chi bene io conosceva
en parte donde nadie parecía. e dove nessun altro si vedeva.

5 - ¡Oh noche que guiaste! 5 - Notte che mi hai guidato !

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¡Oh noche amable más que el O notte amabil più dei primi
alborada! albori!
¡Oh noche que juntaste O notte che hai congiunto
Amado con amada, l’Amato con l’amata,
amada en el Amado transformada! l’amata nell’Amato trasformata!

6 - En mi pecho florido, 6 - Sul mio petto fiorito,


que entero para él solo se che intatto per lui solo avea
guardaba, serbato,
allí quedó dormido, Ei posò addormentato,
y yo le regalaba, mentre io lo vezzeggiava,
y el ventalle de cedros aire daba. e la chioma dei cedri il ventilava.

7 - El aire de la almena, 7 - Degli alti merli l’aura,


cuando yo sus cabellos quando i suoi capelli io
esparcía, discioglievo,
con su mano serena con la sua man leggera
en mi cuello hería, il mio collo feriva
y todos mis sentidos suspendía. e tutti i sensi miei in sé rapiva.

8 - Quedéme y olvidéme, 8 - Giacqui e mi obliai,


el rostro recliné sobre el Amado; il volto sul Diletto reclinato;
cesó todo, y dejéme, tutto cessò , e posai,
dejando mi cuidado ogni pensier lasciato
entre las azucenas olvidado. in mezzo ai gigli perdersi obliato.

Perché tanta insistenza erotica e tanta ambiguità ? Allegorie, si dirà .


Diciamo che l’entusiasmo gli ha preso la mano, e anche che la mente si
è trovata catturata dalla propria rete.
Le altre sue opere poetiche maggiori, Cantico espiritual e Llama de
amor viva, furono poi dedicate, corredate da lunghi commenti, a due
delle sue più care amiche; la Noche oscura non lo fu, e forse nessuna
osò richiederla. Quella era cosa sua.

Juanccxviii nacque a Fontiveros (Avila) nel 1542, in data sconosciuta. Il padre,


Gonzalo de Yepes, apparteneva a una nobile famiglia di Toledo. Restato orfano,
Gonzalo fu allevato da ricchi zii, proprietari di una fabbrica di seta. Per
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raggiungere Medina del Campo, in Castiglia, un importante mercato
commerciale, Gonzalo passava per Fontiveros, dove conobbe una giovane
tessitrice, Catalina Alvarez, anche lei orfana, poi accolta da una ricca vedova che
gestiva una tessitura di seta. Si innamorò di lei, e, contro il parere degli zii, la
sposò perdendo così ogni appoggio da parte della famiglia di origine.

Povero, mite e studioso, Giovanni si guadagna da vivere come aiuto


infermiere in un ospedale per sifilitici

Nascono tre figli: Francisco, Luis, Juan. La famiglia è in difficoltà economiche,


Gonzalo si ammala e muore. Francisco ha 14 anni, Juan 2. Luis muore in tenera
età . Catalina, con il piccolo Juan in braccio, va a Toledo a chiedere aiuto agli zii
del marito. Trenta leghe, a piedi. Il tentativo fallisce. Nel 1551 la famiglia si
trasferisce a Medina del Campo. Juan vi rimarrà per tredici anni. Catalina, aiutata
dal figlio Francisco, tesse berrette di seta. Juan viene ammesso al collegio “de los
doctrinos”. Per sdebitarsi assolve dei compiti alla chiesa del monastero
agostiniano. Va anche per le strade a chiedere l’elemosina per i ragazzi poveri
del collegio. Viene messo a bottega da un falegname, poi da un sarto, uno
scultore, infine un pittore. Ma Juan non abbraccia alcun mestiere, è solo
interessato allo studio.
Un benefattore, Don Alonso Alvarez, chiama Juan a lavorare come aiuto
infermiere all’ospedale della Concezione, da lui gestito, dove si curano ogni sorta
di malattie infettive, in particolare le malattie veneree che costituiscono un vero
flagello. E’ conosciuto come l’ospedale delle pustole ( “Las bubas”).
La sifilide fu importata dai marinai di Colombo, al ritorno dalle Americhe. Si
diffuse poi in Europa al seguito delle truppe di Carlo VIII. Dal racconto di
Cumano, medico veneziano, nel 1495:
Diversi uomini d’arme avevano delle pustole su tutta la faccia e su tutto il corpo. Esse assomigliavano a
dei grani di miglio, e di solito comparivano sotto il preepuzio, o sulla parte esterna o sopra il glande,
accompagnate da un leggero prurito […] Dopo pochi giorni i malati erano ridotti allo stremo dai dolori
che sentivano nelle braccia, nelle gambe e nei piedi e da una eruzione di grandi pustole, che duravano
un anno o più se non venivano curate […] Se il pene risulta ulcerato dopo un rapporto con una donna
infetta è bene lavarlo con un sapone delicato partendo dall’alto al basso, oppure applicarvi un gallo o
un piccione spiumato spellato vivo o anche una rana viva aperta in due.

Era chiamato “mal francese”. L’uso del mercurio fu la prima pratica terapeutica (frizioni,
impiastri, lavande), poi affiancato dall’arsenico e dal “guaiaco”, una pianta proveniente
dall’isola di Hispaniola.
Juan si applica con grande solerzia. Di notte studia. A 17 anni lascia il collegio della Dottrina
e passa al collegio dei Gesuiti dove per quattro anni studia con profitto filosofia, greco, latino,
retorica. Continua a lavorare presso l’ospedale fino a 21 anni. Don Alonso gli propone di farsi
prete e di restare all’ospedale ma Juan rifiuta.
Qualcosa va pur detto su questa lunga permanenza di Juan presso l’ospedale delle pustole.
Un adolescente con una natura mite, confusa e remissiva, si è trovato per anni, nella sua
qualità di aiuto infermiere, ad affrontare incombenze come, in buona sostanza, prestare

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assistenza a malati maschi affetti da malattie veneree di ogni tipo, sfoghi cutanei, piaghe nelle
parti intime. Un gran viavai di bacili per lavacri, con le conseguenti opere di disinfezione
condotte manualmente sicuramente anche da Juan, a ridosso delle persone colpite. Uomini
provenienti da esperienze poco raccomandabili, e poco raccomandabili loro stessi. Un
panorama di degrado, promiscuità , cattivi odori, pus, nudità esibite. Il piccolo Juan ne era al
centro. Doveva vedere e toccare. Questo per anni, negli anni della formazione. Una situazione
sicuramente con caratteristiche di morbosità e sconcezza, anche se a quei tempi la sensibilità
era certamente diversa da oggi. Juan l’ha attraversata a lungo. Come l’abbia vissuta ed
elaborata possiamo solo immaginarcelo.

Religioso, con accentuata tendenza al misticismo. Accantona il suo sogno di purezza e


solitudine affascinato da Teresa e dalle sue sorelle

Nel 1560 a Medina del Campo era stato fondato un convento dei Carmelitani. Juan chiede di
esservi ammesso. Assume il nome di Juan de Santo Matìas: tonsura da frate, tonaca bianca,
abito di panno nero, cintura di cuoio, scapolare bianco, cappuccio nero, grande cappa di lana
grezza, scarpe di cuoio nero. Comincia a seguire gli “esercizi spirituali” di Ignazio di Loyola:
non mangia carne, digiuna, indossa abiti logori, passa le notti in preghiera, confeziona
strumenti di disciplina.
Dal 1564 al 1568 Juan frequenta l’università di Salamanca (una delle grandi università del
tempo, assieme a Bologna, Parigi e Oxford). Suo insegnante di teologia è l’agostiniano Luis de
Leò n (poeta, filosofo, biblista, giurista, mistico, verrà poi incarcerato dall’Inquisizione per
avere tradotto in castigliano il Cantico dei cantici). L’insegnamento è libero. Si studiano le
opere di Aristotele, la “Summa Teologica” di San Tommaso. Ma sono presenti anche correnti
antitomistiche o antiaristoteliche di origine platoniana, avicenniana o averrorista. Giovanni
pensa solo allo studio. Diventa prefetto degli studenti. Studia in modo particolare il
carmelitano John Baconthorpe, detto il principe degli Averroisti, e il carmelitano italiano
Michele di Bologna. Juan è attratto dalla teologia mistica, e dalla mistica dell’Amore. Studia
Dionigi l’Aeropagita e San Gregorio.
Porta una camicia di giunco e mutande dello stesso tessuto. Alla vita tiene stretta una catena
di ferro munita di punte. Si flagella a sangue e trascorre le notti in preghiera. Durante il giorno
resta ritirato nella sua piccola cella. Dorme senza materasso, sempre vestito. Rifiuta il
sacerdozio. Il suo sogno è di ritirarsi in fondo a una valle, a Lozoya, ai piedi della Sierra di
Guadarrama. In mezzo a una foresta di quercie ha visto, restandone affascinato, l’antica
Certosa di Santa Maria del Paular.
Non ha piani, strategie, non cerca incarichi. E’ perso nel suo mistico abbandono, tutto teso al
perfezionamento di una sua via alla ricerca di un contatto con un trascendente che sente
immanente. Comincia a detestare il suo Ordine, che giudica troppo tiepido e disposto a
compromessi. Juan è in crisi. Ma l’incontro con Madre Teresa de Jesus, da tempo impegnata
per una riforma dell’ ordine carmelitano tendente al recupero della severa regola primitiva,
susciterà il suo interesse.
Teresa de Cepeda y Ahumada ha 52 anni, viene da una famiglia ragguardevole, e ha un
carattere forte e indipendente. Monaca carmelitana dall’età di 21 anni, si confronta da tempo
con le autorità religiose del suo ordine per vedere accettati e riconosciuti quelli che lei reputa
suoi doni e grazie particolari in campo mistico e far prevalere la sua volontà di dare vita a
monasteri femminili che ripristinino la vecchia regola di S. Alberto, patriarca di Gerusalemme,
basata su una stretta clausura e una vita conventuale principalmente dedita all’orazione e al
ritiro dal mondo. Il monastero della Incarnazione di Avila ha 200 monache. I padri carmelitani
di Avila sono irritati con lei, che dice di avere estatici contatti con la divinità , e li rifiuta come
confessori, preferendo rivolgersi ai domenicani o ai gesuiti. Teresa li disprezza per i loro
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vestiti di panno fine, e li chiama “i padri del Panno” o “i Gatti”. Alla fine, dopo anni di battaglie,
forte delle buone aderenze a corte e dell’appoggio di molti amici ed estimatori, otterrà il
permesso di fondare nuovi monasteri in Castiglia che ripristinano la regola di Nostra Signora
del Carmelo, interamente, senza mitigazioni, quale la ordinò Frate Ugo cardinale di Santa
Sabina nel 1248. Le sue monache si chiameranno “Scalze” (carmelitas descalsas) perché
abbandonano gli stivaletti di cuoio per dei semplici sandali di canapa.
L’incontro con Juan avviene a Medina nel 1567. Giovanni confessa a Teresa che è sua
intenzione di entrare in Certosa, lei lo convince a soprassedere dicendo che il Carmelo
cambierà . Sarà anche presente alla prima messa del giovane diventato finalmente sacerdote.
Teresa scriverà all’amica Anna di Gesù : “Il nostro padre Giovanni è un uomo celestiale e
divino”. Nel 1568, completata l’università a Salamanca, Giovanni accetta di aderire al progetto
di Teresa: la fondazione del primo convento riformato maschile, a Duruelo, nei pressi di
Medina del Campo. Giovanni si sente sollevato, l’isolamento e le pratiche ascetiche troppo
intense lo avevano prostrato. Teresa cuce l’abito da monaco per Juan, che abbandona il
vecchio nome diventando Juan de la Cruz.
L’entusiasmo di Giovanni e dei suoi compagni, sei monaci in tutto, per la nuova esperienza li
porterà a viverla in chiave di rinunce, sacrifici, penitenze esagerate. Giovanni è il più acceso.
Teresa critica la sua eccessiva durezza e chiede di moderare i loro slanci. Giovanni finisce per
convenire con lei. L’esperienza deve essere stata dirompente tanto che i monaci decisero di
comune accordo di non parlarne per il resto della loro vita. Giovanni si ritaglia la carica di
maestro dei novizi, ma finisce con l’ampliare la sua azione collaborando, su richiesta di Teresa,
alla fondazione di nuove comunità riformate, e accettando anche di essere il rettore del nuovo
collegio degli Scalzi presso l’università di Alcalà . La sua fama di uomo spirituale ed erudito si è
diffusa e, quando Teresa, seppur fra la contestazione di parte delle monache, diventa priora
del monastero dell’Incarnazione di Avila, nel 1572, Giovanni viene da lei richiesto come
vicario.
Il grande monastero di Avila necessita di essere ricondotto all’ordine. La scarsità di mezzi
economici obbliga molte sorelle a recarsi in famiglia a scapito della clausura. Il monastero è
un porto di mare, i visitatori hanno le porte aperte. Ci sono corteggiatori, musica e danze. Il
giovane Juan, arrivato a piedi da Medina del Campo, distante 120 km., si trova a vivere una
situazione per lui del tutto nuova. Teresa, per evitare malintesi, chiede ai superiori il
permesso di fare abitare Giovanni, insieme a un confratello, in una casetta attigua alle mura
della clausura, alla Torrecilla, un vecchio locale usato come deposito. Senza mobilio, solo due
pagliericci e un tavolo. Giovanni, che fino a quel giorno non era mai stato sfiorato da presenze
femminili, a parte la madre, improvvisamente è diventato il cappellano e il confessore delle
130 monache dell’Incarnazione. Un mondo nuovo, che si rivelerà per lui molto stimolante e
forse conturbante.
Teresa dirà : “Mi si attribuiscono la conversione e il rifiorimento di questa casa, ma posso
affermare che è stato Giovanni della Croce ad avere chiuso la porta agli spiriti maligni. I
passatempi e le varie libertà sono stati estirpati con gioia e sollievo perché le anime delle
sorelle si nutrono d’altro”. Giovanni è l’unico maestro d’anime da tutte richiesto. La
testimonianza di Anna di Gesù : “In generale tutte le sorelle riconoscono il suo genio nel
governo delle anime, la sua infinita pazienza nel guidarle a piccoli passi, senza violenza e
attraverso semplici vie, fino al punto di ottenere risultati con le più disinvolte, le quali
abbandonano le civetterie e le cose di questo mondo per sottomettersi alla sua parola, che è
umana, celestiale e piena d’amore”.
Teresa ha 27 anni più di Giovanni ma fa tesoro di ogni suo consiglio. Giovanni è per lei
“un’anima fra le più pure che la Chiesa abbia posseduto […] E’ un uomo senza malizia, non ha
inganno […] è uno spirituale, un saggio, un uomo di esperienza”. Giovanni , per la verità , tenta
di smorzarne gli entusiasmi mistico-visionari, che giudica evidentemente eccessivi: “Rimanga
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in una amorosa avvertenza, senza desiderio di voler sentire o intendere cose particolari di Lui
[…] la perfezione non consiste nelle virtù che l’anima conosce in sé ma in quelle che nostro
Signore vede in lei, che è uno scrigno sigillato, e così ella non ha di che presumere ma, per
quanto la riguarda, deve stare con il petto a terra”.
La madre di Giovanni, Catalina, vive con le monache dell’Incarnazione e insegna loro a
tessere la seta. Giovanni viene spesso chiamato per praticare degli esorcismi su monache,
anche di altre comunità religiose, che manifesterebbero segni di essere possedute da spiriti
maligni. Le sorelle assistono alle sedute. Giovanni cerca di sottrarsi ai loro sguardi. Si veste di
nascosto. Loro lo assediano con grande familiarità . Gli esorcismi si ripetono. La vista di tanti
corpi femminili, spesso discinti, lo turba e lo mette alla prova. Giovanni è scosso: “I demoni mi
hanno maltrattato, non so come sia ancora vivo” ccxix. Che voleva dire?
Nel 1575 Giovanni ha una visione di Cristo in croce. Ne ricaverà un disegno che donerà a
una monaca a lui particolarmente devota. Il punto di vista è stranamente dall’alto (modalità a
cui si rifarà con enfasi Salvador Dalì in un suo quadro) ed evidenzia Gesù in una posizione
molto raccolta, col capo abbassato. Le gambe sono avvicinate e confusamente si avverte la
presenza di un perizoma. La scena non deve essere troppo diversa da quelle che Giovanni
poco più che bambino ha visto per anni all’ospedale delle pustole, quando con il bacile delle
medicazioni in mano se ne stava in piedi vicino a qualche derelitto, seduto su un letto disfatto.

Punito. Nove mesi in una latrina buia formano un poeta

Nel frattempo all’interno dell’ordine carmelitano infuriano le polemiche. I rapporti fra Scalzi
e Calzati si sono fatti molto pesanti. Anche fra gli Scalzi c’è dissenso tra chi vorrebbe
privilegiare la via contemplativa e quelli che spingono per la via missionaria. L’obiettivo degli
Scalzi è ottenere dal Papa l’autonomia. Nel 1576 un primo atto di grave inimicizia da parte
dell’ordine verso i riformati coinvolge Giovanni e il suo confratello che vengono prelevati dalla
Torrecilla e imprigionati a Medina del Campo, con grande scandalo della città . Il nunzio
interviene e ordina che i due siano ricondotti ad Avila, ma che non abbiano più contatti con
l’Incarnazione. Giovanni vorrebbe rinunciare all’incarico di confessore, ma le monache
scrivono una supplica al Nunzio chedendo il ritorno di Giovanni.
Giovanni riprende il suo andirivieni fra Torrecilla e convento. Credo che la cosa non
garbasse a qualcuno e che sia stata quella la causa del primo arresto. Nella notte del 2
dicembre 1577 Giovanni sta pregando nella sua cella alla Torrecilla. Un gruppo di padri
Calzati, accompagnati da armati, batte alla porta. Entrano urlando e mettono i ferri ai polsi dei
due monaci. A Giovanni viene ordinato di indossare l’abito di panno fine; lui si rifiuta. Gli
strappano di dosso saio e tunica. Lo vestono con la forza steso sul pavimento. Giovanni non
parla. Vengono portati al convento, frustati e gettati in celle separate. Il giorno dopo Giovanni
chiede di poter celebrare la messa. Celebra da solo, poi ne approfitta per allontanarsi di
soppiatto dal convento e correre alla Torrecilla. E’ sua intenzione distruggere alcuni
documenti compromettenti per Teresa e per la riforma. Fa in tempo a bruciare alcune carte, e
altre le ingoia in tutta fretta, poi viene fermato. Le modalità sembrano suggerire che Giovanni
si sia preoccupato anche di distruggere, ingoiandoli, singoli fogli su cui forse aveva scritto i
suoi versi, versi come quelli della Noche, che potevano essere, se fraintesi, disdicevoli e
compromettenti.
Giovanni viene portato di notte, in tutta fretta, al convento di Toledo per essere processato.
Teresa si lamenta col Re, anche le monache dell’Incarnazione protestano. Nessuno sa dove
Giovanni si trovi. Il suo arresto è l’inizio della guerra fra Mitigati e Scalzi. Durerà due anni.
Giovanni non si piega ai voleri di Maldonado, priore di Toledo. E non parla. Ritenuto una delle
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colonne della riforma teresiana, arrivano ad offrirgli il priorato di un grande convento.
Persino una grande croce d’oro ornata di pietre preziose. “Chi cerca Cristo non ha bisogno di
gioielli d’oro!”. Attigua alla sala comune c’è una latrina. Un vano di un metro e mezzo, con una
feritoia verso l’esterno larga tre dita. Coprono la latrina con un’asse. Diventa la prigione di
Giovanni. Senza pagliericcio, solo due vecchi mantelli. Giovanni vi resterà nove mesi, al freddo,
al puzzo, al caldo asfissiante dell’estate.
Tre volte alla settimana scende in refettorio per essere ingiuriato e frustato dai padri.
Mangia inginocchiato sul pavimento. Viene accusato di essere ipocrita e orgoglioso. Lui resta
sempre in silenzio. Frustato a turno, la tunica mai lavata si attacca alle ferite. Le nuove
fondazioni degli Scalzi vengono soppresse. Giovanni teme per la sua vita. Tutti sono all’oscuro
della sua sorte. Un nuovo carceriere lo prende a benvolere. Lo fa uscire dalla cella di nascosto,
gli dà una tonaca pulita. Gli dà anche della carta, una penna e l’inchiostro. Giovanni scrive dei
versi, alcune strofe della Noche, del Cantico espiritual, della Llama.
Il 15 agosto del 1578 chiede al suo custode il permesso di vuotare il vaso da notte. I padri
sono scesi in refettorio, Giovanni si affaccia alla finestra che dà sui bastioni. Getta una corda e
misura l’altezza. Un altro giorno il guardiano lascia la porta socchiusa e Giovanni allenta le viti
della serratura. Chiede poi ago, filo e forbici per riparare la tonaca, ma taglia le coperte per
farne una corda. Nel cuore della notte spinge la porta, va alla finestra, fissa il gancio e butta la
corda di coperte. Due padri di passaggio al convento stanno dormendo profondamente.

La luna illumina il ponte di Alcà ntara, le rocce, gli ulivi aggrappati ai dirupi sul Tago. Tutto è incerto. La
resistenza del gancio, il sonno dei due padri, le sue forze, il chiarore della luna, il suo lanciarsi nel
vuoto. Atterra su un largo muraglione e avanza fino al muro perpendicolare. Le gambe tremano ma
stanno ben salde, e salta. No, non ha messo piede sulla strada, è finito nel cortile del monastero della
Concezione, di cui gli ha parlato l’amico carceriere. Un’angoscia mortale l’afferra all’idea di farsi
trovare lì, e davanti c’è un muro che non sa come affrontare. Pensa di tornare indietro, ma le forze
sono andate. Abbattuto, spera nel ritorno di qualche energia. L’aria fredda della notte penetra nei
polmoni consumati e il rintocco di un sonaglio giunge da lontano.
Ha fiducia nella Provvidenza. Supplicando la Vergine si arrampica e non sapendo come guadagna la
cima. Ancora un salto e finalmente è sulla strada. Barcollante, di fretta si avvia nascondendosi agli
angoli di vie che non conosce. Con quegli occhi rossi e assenti, la barba sporca e i capelli lunghi fa
davvero spavento. E’ più pallido di un cadavere, ma a Colui che ama sopra ogni cosa non fa che
balbettare parole di gratitudine. Si dirige verso piazza Zocodover, passando sotto l’Arco de Sangre […]
Passa davanti a un albergo. Degli uomini chiacchierano allegramente agitando vistosi boccali di vino.
Gli fanno cenno di fermarsi e di attendere il giorno: credono infatti che lo abbiano respinto alla porta
del convento, nello stato in cui si trova e a quell’ora. Giovanni non li sente, e continuando per la sua
strada giunge al mercato. Rannicchiate ai piedi delle loro bancarelle in attesa del giorno, le venditrici
ambulanti lanciano ingiurie a quel frate vagabondo che se ne va a piedi nudi e coperto di stracci come
un reprobo.
Giovanni non sa che il convento delle carmelitane scalze fondato da Teresa è molto vicino. In ogni caso
non intende presentarsi a casa delle sorelle nel bel mezzo della notte..
Ma dove passare quelle poche ore al sicuro dagli inseguitori? Davanti a una casa scorge un uomo che
rientra, ha la spada al fianco e uno scudiero gli fa strada con una torcia. Si avvicina, gli chiede di
trascorrere la notte nell’atrio. Il cavaliere non vede inconvenienti: il povero viandante, così gracile e
innocuo, può benissimo alloggiare dietro la porta dello scalone. Dopo essersi informato sul monastero
delle carmelitane di Teresa, Giovanni si butta infine su una panca di pietra e chiude gli occhi. Fino
all’alba.ccxx

Giovanni viene accolto molto bene dalle monache, che erano al corrente della sua
reclusione. Giovanni non parla, balbetta. Appare assorto, unicamente impegnato nel tentativo
di ricostruire il suo personale tesoro poetico. Le monache lo incoraggiano, scrivono quanto

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riescono ad afferrare. Verrà poi favorito il suo ricovero nell’ospedale di Toledo per due mesi,
all’insaputa dei Mitigati, consentendogli di riprendersi fisicamente.

Dieci anni di successi

Sfuggito alle grinfie dei persecutori, Giovanni ritrova il suo mondo. Gli Scalzi tengono il loro
primo capitolo organizzato autonomamente. Giovanni assiste. Viene nominato priore al nuovo
convento riformato del Calvario. Ma vengono tutti scomunicati dai Mitigati. Giovanni, ignaro
degli anatemi piovuti su di lui, si reca a prendere possesso della sua carica. Prima di arrivare
si ferma al monastero di Beas per una visita. La priora di Beas ora è Anna di Gesù , amica di
Teresa, che Giovanni aveva conosciuto all’Incarnazione. Giovanni è ancora l’ombra di se
stesso, chiuso in un mutismo impenetrabile. All’improvviso nel monastero si leva un canto.
Giovanni appare turbato, piange, supplica di cessare quella dolce melodia. L’esplosione di
lacrime lo ha liberato dalla tensione che lo imprigionava. Giovanni ora parla della condizione
vissuta in carcere, quando aveva fortemente deciso di accettare le sofferenze che gli venivano
inflitte come un prezzo volontariamente pagato e offerto sulla via dell’avvicinamento del suo
animo a Dio. Il ritorno alla vita normale lo aveva sconvolto, la serenità e gli affetti gli erano
diventati incomprensibili. Li viveva come la perdita di un grande tesoro. Ma poi
improvvisamente Giovanni non parla più , e si ritira per giorni e giorni in totale solitudine.
Anna di Gesù è allarmata e scrive a Teresa, che risponde:

Figlia mia, mi fa un po’ sorridere il suo lamentarsi senza motivo. Perché con voi avete Giovanni della
Croce, che è un uomo celestiale e divino. Glielo dico, figlia mia, da quando Giovanni è partito non ho
trovato un altro come lui in tutta la Castiglia. Lei non immagina la solitudine che mi causa la sua
assenza. Deve sapere che in quest’uomo santo voi avete un grande tesoro. Le sorelle comunichino con
lui le cose dell’anima e si troveranno molto avanti in tutto quello che riguarda lo spirito e la perfezione,
perché nostro Signore gli ha dato una grazia particolare. Stia certa che io lo vorrei tanto tra noi fra
Giovanni della Croce, perché egli è veramente il padre della mia anima. Con lui voi potete avere molto,
in tutta semplicità , come con me. Le sorelle che erano abituate alla sua dottrina lo rimpiangono.
Ringraziate Dio che ha voluto lasciarlo così vicino a voi.ccxxi

Giovanni lavora al suo Cantico spirituale (Canciones entre el alma y el esposo), e cerca di
moderare l’entusiasmo ascetico dei suoi confratelli. Al Calvario una trentina di frati
conducono vita da eremiti, passano giorni interi a digiunare, portano il cilicio, dormono su
graticci di rosmarino. Ogni sabato Giovanni va a Beas, a due leghe dal Calvario, a trovare le
monache, delle quali è diventato il confessore. Le intrattiene lungamente a colloquio, lascia
loro dei bigliettini su cui meditare. Si ripete la situazione dell’Incarnazione di Avila. Tutte le
monache pendono dalle sue labbra. Aspettano il suo arrivo scrutando la collina e applaudono
quando lo vedono sbucare con il suo mulo.
Si conclude ormai la lotta fra le due componenti del Carmelo, che aveva visto ultimamente
anche una campagna diffamatoria dei Calzati contro il riformato Graziano, contestato
Visitatore dell’ordine in Andalusia, accusato di familiarità e comportamenti indecenti con le
monache di Siviglia. Teresa, che lo apprezza, dice che sono stati usati due poveri frati privi di
buon senso. Gli Scalzi si appoggiano al re e al consiglio reale. I padri non riformati si
appoggiano al Nunzio apostolico.
Questa la posizione di Filippo II comunicata al Nunzio: “Mi dicono che i Mitigati stanno
contrastando gli Scalzi. Promuova la virtù . Poiché queste persone professano una perfezione
più rigorosa”. Il re nomina una commissione con l’incarico di esaminare il litigio. Il Nunzio
deve fare ammenda e firmare la seguente dichiarazione: “Revochiamo, cancelliamo e
annulliamo con le presenti la sottomissione dei religiosi e delle religiose della Regola
primitiva ai padri provinciali, detti Mitigati”. La commissione invierà al re un rapporto
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conclusivo: “Di comune accordo e con il consenso di tutti, ci è parso conveniente per il servizio
di Dio e la crescita dell’osservanza, per la pace e la tranquillità dei religiosi sia Primitivi che
Mitigati, che Sua Maestà faccia domanda e supplichi Sua Santità il papa di voler ordinare che
di tutti i religiosi e le religiose che professano la Regola primitiva del suddetto Ordine si faccia
una provincia separata dai Mitigati, il cui territorio sarà la Castiglia e l’Andalusia”ccxxii. Il trionfo
di madre Teresa si viene delineando.
Nel decennio 1570-80 l’Inquisizione spagnola procede ad arresti clamorosi di persone,
anche d’alto rango, e di professori delle università . Le forti presenze di ebrei e di musulmani
convertiti, “marrani” e moriscos, creano preoccupazione. Molte le realtà caratterizzate da
sincretismi a carattere magico. Il soprannaturale è alla portata di tutti. Dopo il Concilio di
Trento la pratica dell’eremitaggio non è più autorizzata. Anche le esperienze mistiche sono
viste con sospetto, e collegate alle pratiche degli Alumbrados (Illuminati), quietisti settari che
venivano assimilati ai luterani. Anche Teresa d’Avila deve sopportare i sospetti dei suoi
confessori.
Giovanni lascia il Calvario per fondare il nuovo convento riformato di Baeza. E’ sempre
impegnato nella sua personale via di ricerca del trascendente, e i fenomeni estatici che lo
riguardano sono a conoscenza di tutti. Continuerà , una o due volte al mese, a visitare le
monache di Beas, che ora sono a 80 km. di distanza. Le monache lo reclamano. A volte si
trattiene per un mese. Canta loro strofe del suo Cantico spirituale, che è apprezzatissimo, e
solletica il loro amor proprio: “Conosco il vostro cammino in Cristo, di cui siete le Spose, la
gioia e la corona”.
Nel primo capitolo dei Riformati (a. 1581) Giovanni viene eletto uno dei quattro definitori
degli statuti. E’ una carica di prestigio, ma Giovanni in cuor suo comincia a desiderare
ardentemente di tornare alla sua terra d’origine, la Castiglia. Si prepara invece il suo passaggio
alla nuova fondazione di Granada, che deve avvenire in concomitanza con la fondazione a
Granada di un monastero femminile affidato ad Anna di Gesù , buona amica di Giovanni, già
priora a Beas. Giovanni e Anna si vedono per organizzare la spedizione. Vorrebbero portare
con loro anche Teresa per una sorta di rimpatriata. Giovanni si reca ad Avila per convincerla,
ma Teresa, malata, declina l’invito. Non si vedranno più .

Dieci anni difficili

Donna Anna del Mercado y Peñ alosa, una ricca vedova, ha da poco perduto l’unica figlia di
sette anni. Vive a Granada con il fratello don Luis del Mercado, uditore alla cancelleria della
città poi al consiglio supremo della Castiglia. Vedendo le difficoltà di Giovanni e Anna del Gesù
(la casa che doveva accoglierli non è più disponibile per l’acquisto), mette a disposizione una
parte della sua signorile dimora. Donna molto religiosa, li accoglie piangendo di gioia. Anna,
seguita dal fratello e dalla nipote Ines, si rivelerà , fra le donne guidate da Giovanni, la più
generosa e la più appassionata. A lei Giovanni dedicherà il suo poemetto Llama de amor viva
(Fiamma viva d’amore). Resteranno tutti ospiti nella sua casa per sette mesi.
Siamo nel 1582. E’ passato quasi un secolo da quando Granada è stata riconquistata agli
arabi dai re cattolici Isabella e Ferdinando. L’Alhambra ora è sede della capitaneria generale. I
moriscos, pur battezzati e “legalmente cristiani”, subiscono l’ostilità dell’Inquisizione che li
perseguita per il modo di vestire e di nutrirsi, e persino per i loro nomi. Hanno ufficialmente
un nome cristiano, ma conservano quello ricevuto alla nascita. Non possono recitare il Corano,
né scrivere lo spagnolo in caratteri arabi. Una violenta ribellione dei mori rifugiati sulle
montagne attorno a Granada, nel 1570, si è conclusa con un esodo massiccio della popolazione
musulmana. Durante la distruzione degli edifici musulmani del quartiere di El Albaicìn furono
trovati una sessantina di libri del Corano nascosti all’interno di un muro.

260
Dopo alcune traversie Giovanni riesce a trovare una sede adeguata per la nuova fondazione.
E’ così priore al convento di Los Martires, e va regolarmente a trovare le carmelitane della
nuova fondazione femminile diretta dalla sua amica Anna di Gesù .

Sarà Giovanni a trattare l’acquisto della casa dove le riformate possono finalmente stabilirsi, e lui
ancora ad aiutarle nella sistemazione […] Durante i lavoro, non essendovi clausura, Giovanni può
entrare e uscitre liberamente […] Spesso Giovanni si reca a visitare le sorelle ammalate. Fa ogni cosa
con spontaneità . Lì è la sua famiglia, lì si sente felice […] hanno rispetto per Giovanni, e molte fanno
follie per lui. Lo venerano, a volte sembra che lo adorino. Si contendono come reliquie i resti dei suoi
pasti.ccxxiii

A Granada Giovanni decide di redigere, come richiestogli caldamente da persone a lui molto
vicine, dei laboriosi commenti che mirano a esplicitare i significati mistici e teologici celati nei
suoi poemi: le Canciones del alma (commentate nella Noche oscura e nella Subida del Monte
Carmelo), le Canciones entre el alma y el esposo (commentate nel Cantico espiritual), le
Canciones que hace el alma en la intima union en Dios su esposo Amado (commentate nella
Llama de amor viva). Quei versi erano ben noti da anni alle carmelitas da lui contattate per
ragioni del suo ministero di confessore e direttore spirituale. Venivano recitati, e cantati, dalle
monache nei momenti di ricreazione, e Giovanni era certamente stato felice di illustrarne i
complessi significati nei suoi frequenti contatti con loro. C’erano probabilmente solo ragioni
legate alla mancanza di tempo che gli avevano fin’ora impedito di affrontare in modo organico
quello che era sicuramente un compito difficile e impegnativo.
Le sue minute sono stracolme. Il suo segretario scrive sotto dettatura. La Subida (Salita)del
Monte Carmelo e la Noche oscura, sono due grandi trattati di teologia mistica a commento
delle Canciones del alma. I versi, conturbanti per il linguaggio così eroticamente esplicito,
descriverebbero le operazioni attraverso le quali l’anima deve passare per ricevere la piena
luce di Dio. Il commento si ferma però , in entrambi i trattati, alle prime due strofe.
Il commento è perfettamente conseguente al testo, anche se è stato elaborato molti anni
dopo. Difficile pensare che sia “sovrapposto” e ingannevole. Importante allora capire perché
Giovanni abbia voluto tradurre in immagini come queste, così traboccanti di sensualità e
lirismo autentico – e tali da concretizzare un piccolo capolavoro –, un fondo mistico-teologico
che doveva essere già ben presente al momento della composizione. Il riferimento, sullo
sfondo, è sempre il Cantico dei cantici, ma l’adesione a quella spiritualità era riuscita a
produrre, in un momento di grazia, immagini originali e potenti quali solo l’animo di un poeta
“appassionato” dell’amore poteva concepire.
All’inizio il commento della Subida differisce solo leggermente da quello della Noche. Del
resto i versi da commentare sono gli stessi, e i commenti non potrebbero essere alternativi.
Sono comunque un dittico inseparabile. La Subida del Monte Carmelo tratta del modo in cui
un’anima deve porsi nei confronti del cammino da compiere per giungere all’unione con Dio;
la Noche oscura vuole chiarire il processo da un punto di vista oggettivo: cosa succede
all’anima? come agisce Dio?
Perché Giovanni poi abbandona Subida e Noche? Perché voleva dedicarsi ai commenti del
Cantico e della Llama? Certamente aveva poco tempo e là trovava un immediato riscontro
nelle sue interlocutrici, che forse lo ossessionavano. E’ strano comunque che abbia lasciato
entrambe le opere allo stesso punto. Sembra che precedessero affiancate, in parallelo, seppur
su chiavi diverse. Il fatto che le restanti dieci strofe del poemetto siano così eroticamente
debordanti e fuori controllo, autorizza a pensare che Giovanni possa essersi arreso,
rifiutandosi di inquinarle con argomentazioni necessariamente capziose e obbligatoriamente
insincere.
Un altro commento riguarda il poemetto conosciuto come Llama de amor viva. Giovanni dirà
di avere composto il commento alla Fiamma viva d’amore su richiesta di Donna Anna de
261
Peñ alosa. Lei aveva chiesto con caparbietà - evidentemente sentiva il poemetto come suo - che
Giovanni facesse anche per lei ciò che aveva fatto col Cantico espiritual per Anna di Gesù .
La permanenza a Granada evidenzia il particolare carattere di Giovanni, schivo e alieno dal
coltivare rapporti di cortesia con esponenti delle autorità locali estranei al suo ristretto
mondo conventuale. Rapporti verso le autorità temporali, politiche o religiose che fossero, che
lui vive come forme di servilismo. Per Giovanni tutto, anche l’aiuto economico alle comunità
monastiche, deve essere fatto solo per amore verso Dio, e nulla è dovuto agli uomini. Per
questo viene criticato e accusato dai superiori di negligenza inopportuna verso i secolari.
Giovanni partecipa al capitolo del 1585 a Lisbona. Vede il mare per la prima volta. Si acuisce
il conflitto con padre Graziano, ora provinciale in Portogallo, del quale non accetta la smania
di potere e le mollezze. La proposta di Giovanni sulla non rieleggibilità dei priori è stata
rifiutata. Essa mirava a liberarlo da ogni incarico, e a consentirgli di dedicarsi finalmente a se
stesso, soddisfacendo pienamente le sue esigenze di vita contemplativa. Possibilmente
rientrando nella sua nativa e amatissima Castiglia. Giovanni cessa effettivamente di essere
priore a Granada ma viene incaricato come provinciale in Andalusia. I prossimi tre anni dovrà
trascorrerli, visitandone i conventi, a piedi o a dorso di mulo. A Siviglia si scontrerà con
l’uomo che gli renderà amarissimi gli ultimi anni di vita.

La vita sbagliata di Juan de Yepes

Le strade dell’Andalusia sono fangose d’inverno e polverose d’estate. Gli alberghi poco
raccomandabili. Viaggiare equivale a esporsi a ogni sorta di pericoli. Numerosi banditi
attaccano i convogli, specialmente al sud dove transitano i metalli preziosi provenienti dal
nuovo mondo. I moriscos, espulsi da Granada, vagano fra le montagne e sopravvivono
svaligiando i viandanti. I colpevoli catturati vengono giustiziati, e i loro corpi tagliati a pezzi
appesi agli alberi o in cima a dei pali agli angoli delle strade.
La visita di Giovanni a Siviglia provoca una tempesta. La città è ricca di attrattive, e alcuni
frati passano molto tempo fuori dal convento, a scapito della vita contemplativa. Giovanni li
richiama energicamente al rispetto della regola e si attira il livore di Diego Evangelista, vero
destinatario del richiamo. In lui maturerà un risentimento fortissimo che troverà modo di
sfogarsi nel prossimo futuro. Si scontra nel contempo con il maestro dei novizi, Francisco
Crisostomo: “I novizi non stanno bene, soffrono di mal di testa e di altri mali insoliti alla loro
età . Li istruisca, sì, ma li avvii alla meditazione come fossero principianti, quali in realtà essi
sono. Non li faccia arrivare alla contemplazione troppo in fretta. Non li trattenga tutto il
giorno chiusi in cella. Li faccia esercitare in lavori manuali. Imparino a frenare le passioni, che
impediscono l’accesso alla contemplazione” ccxxiv.
Le cure a cui sarà sottoposto per un ascesso ai polmoni faranno scoprire che Giovanni porta
un cilicio, una catenella, alla vita che è ormai penetrato nella carne. Giovanni chiede
moderazione agli altri, ma personalmente è sempre più votato all’autopunizione e alla ricerca
di una perfezione che per lui si può trovare solo nella povertà , nella preghiera e nel silenzio.
Un fossato comincia ad aprirsi fra lui e i dirigenti dell’ordine, sempre più immischiati in lotte
di potere e preoccupati soprattutto di problemi economici.
Giovanni è amareggiato. Alle varie riunioni capitolari i suoi pareri sono quasi sempre
respinti. Voleva fosse conservato il rito di Gerusalemme, ma viene adottato quello romano.
Desiderava con tutto il cuore di ritornare in Castiglia, e viene inviato in Andalusia. Non voleva
più cariche ufficiali e si ritrova provinciale e definitore con il compito delle nuove fondazioni
e delle visite ai conventi. Si confida con suor Marina de San Angelo: “Non dirò più nulla perché
non mi ascoltano […] nessuno ha peccato facendomi soffrire. Io devo riuscire a rallegrarmi
delle pene. Pur vedendomi in lacrime chieda a Dio per me la gloria di soffrire, perché ne ho
bisogno”ccxxv.
262
Molti indizi dimostrano quanto avanti fosse Giovanni sulla via che porta al distacco dal
mondo nel mistico abbandono alle pulsioni più irreali. Spesso è confuso: “La dolcezza ricevuta
dall’anima è tale che non oserei più entrare in un luogo di preghiera, poiché mi sembra di non
poterne sopportare di più , data la debolezza della natura. Per qualche giorno mi asterrò dal
celebrare la messa, perché temo mi possa accadere qualcosa di troppo vistoso. Ho chiesto al
Signore di rendermi più forte o di farmi uscire da questa vita. E di non avere più l’incarico
delle anime. Mi sento troppo indegno”ccxxvi.
Le ultime parole sembrano alludere a un problema di inadeguatezza al ruolo di guida
spirituale. Non saranno le sole di questo tenore. Giovanni trovava nel suo “fare” motivi che
cozzavano con quanto diceva di ritenere corretto e giusto? Soffriva un’intima contraddizione?
Comunque continua ad aprire il suo cuore alle sorelle. Solo loro sembrano in condizione di
comprenderlo.
Al capitolo di Valladolid del 18 aprile 1587 Giovanni si getta in ginocchio di fronte
all’assemblea e chiede di venire esonerato da cariche ufficiali. Il vicario padre Doria lo libera
dalla carica di provinciale e di definitore, anche per ragioni di salute. Viene però eletto per la
terza volta priore di Granada. Solo per un anno. Il 10 luglio 1588, Papa Sisto V erige a
Congregazione l’Ordine degli Scalzi. La struttura dirigente dell’ordine viene riformata e si crea
un governo collettivo, la consulta. Giovanni viene chiamato a farne parte, con l’incarico di
primo definitore. Per ragioni burocratiche il primo definitore è il presidente della consulta, e
deve ricoprire anche l’incarico di priore del convento di Segovia. Giovanni è stato così
nuovamente fagocitato.
Quando Donna Anna viene a sapere del trasferimento di Giovanni a Segovia si sente cadere
il mondo addosso. Come farà a vederlo? Anche la nipote Ines soffre per la prossima
separazione. La nobildonna, erede di una grande fortuna, decide di lasciare la casa del fratello
a Granada e di stabilirsi a Segovia. Farà di più : vende un palazzo che già vi possiede e acquista
una casa proprio di fronte al convento. Ora solo una strada li separa. Fa costruire un muro che
protegge la nuova proprietà e va ad abitarvi assieme alla nipote.
Finalmente Giovanni ha ritrovato l’amata Castiglia, e forse anche un cuore che batte
all’unisono. Il convento necessità di cospicui lavori di ristrutturazione, e Donna Anna sostiene
i costi di quello che riterra il “suo “convento. In seguito sceglierà di esservi sepolta. Donna
Anna e il fratello ottengono dal vicario Doria il seguente impegno: “In qualsiasi luogo il nostro
venerabile padre Giovanni della Croce dovesse morire, il suo corpo prezioso sia consegnato a
loro, affinché lo facciano trasportare nel loro convento di Segovia e lì possano rendere gli
onori che gli spettano”ccxxvii.
Giovanni partecipa attivamente ai lavori, come ha sempre fatto: “Soffro meno stando in
mezzo alle pietre che in mezzo agli uomini”. In una vicina cava di pietre, che Giovanni utilizza
per la costruzione, c’è una piccola grotta, alta poco più di un uomo. Spesso vi si reca e vi
trascorre lunghi momenti di preghiera. Nella notte resta ore e ore inginocchiato davanti al
Sacramento. Nei giorni che seguono le notti di contemplazione deve lottare perché il suo
spirito non lo abbandoni. Gli capita, parlando con qualcuno, di dovere picchiare con le nocche
contro il muro per non perdere il filo della conversazione. Possiede solo una croce di legno,
una Bibbia, una tela per letto e una tavoletta come scrivania. Ora sono le carmelitane di
Segovia a ricevere regolarmente le sue visite. Trascorre lunghissime ore al confessionale ad
ascoltarle una ad una. Ha a cuore soprattutto le più giovani.

Una novizia di tredici anni gli dice un giorno davanti all’intera comunità . “Io, padre, le voglio un bene
immenso, e lei?”. “Una cosa mi piace in lei, l’essere predestinata”, risponde Giovanni. E per la novizia
ricopia lui stesso le quaranta strofe del suo Cantico spirituale. In monastero, quel giovanissimo angelo
passerà settantacinque anni della sua vita […] Isabella di Cristo gli confessa di torturarsi per ogni
minima cosa, e lui: “Inghiotta i bocconi amari , sorella, perché sono dolci agli occhi di Dio”. Isabel de
Santo Domingo, la religiosa che la Madre amò particolarmente, lo mette in guardia da una persona “che
263
potrebbe ingannarlo”. “Non sia così”, le risponde Giovanni, “non abbia cattivi pensieri, perché
perderebbe la purezza del cuore. Meglio lasciarsi ingannare” […] Quando può si reca a visitare le
famiglie, ricche o povere, di Segovia. Fra queste la famiglia Carriò n, di cui due figlie entreranno in
monastero. Un giorno Donna Francisca Carriò n, avendo tre dei suoi figli colpiti dal vaiolo, supplica
Giovanni di venire a trovarli perché in cuor suo è certa che la sola sua presenza li guarisca. Lui va e si
inginocchia davanti ai poveri ragazzi come “davanti al presepio”, entrando in estasi. Il fatto sarà
ricordato dai ragazzi stessi quindici anni più tardi. ccxxviii

La dama di compagnia di Donna Anna racconta: “Ho visto spesso padre Giovanni della Croce
a casa di Donna Anna del Mercado y Peñ alosa, e con lei e sua nipote Ines parlare alla presenza
di tutte le domestiche di cose sante, come se loro stesse avessero voluto diventare sante.
Donna Anna gli offriva da sedere comodamente, ma lui rifiutava e andava a sedersi per terra
nell’angolo più nascosto”ccxxix. Anche Donna Anna sale spesso al convento insieme con la nipote
per confessarsi o intrattenersi a colloquio con Giovanni. I monaci, abituati a vederli insieme,
dicono: “San Girolamo, santa Paola e santa Eustochio si sono riuniti per parlare di Dio”. Fra i
discepoli di Giovanni si contano anche arcidiaconi, vicari episcopali e canonici.
All’interno dell’ordine riformato c’è tensione fra Graziano, superiore degli Scalzi al tempo di
Teresa, e l’attuale vicario Nicola Doria. Graziano è uomo mondano, ben introdotto a corte,
ossessionato da un suo progetto di estendere la riforma ai paesi di missione. Doria è un uomo
giusto ma prepotente, insofferente verso chi vuole limitare la sua autorità e desideroso di
recuperare un pieno controllo sui monasteri femminili che avanzano pretese autonomistiche,
quanto meno nella scelta dei direttori spirituali. Quello che le monache vogliono soprattutto è
mantenere il loro rapporto privilegiato con Giovanni. Ma è proprio questo rapporto che viene
messo in discussione.
Nell’ultimo capitolo generale del 2 giugno 1591 è risultato eletto consigliere e definitore
Diego Evangelista, l’uomo che un giorno, nel convento di Siviglia, aveva reagito malamente ai
rimproveri di Giovanni, allora provinciale in Andalusia, per il suo gran darsi da fare in città .
Evangelista cercava da tempo la sua rivincita, ora più facile da cogliere perché Giovanni è
libero, senza incarichi e anche senza protezioni. Doria lo ha accontentato, anche perché, senza
incarichi, non avrà più titolo per interessarsi alle carmelitas. Giovanni avverte il mutamento di
clima, e si offre come accompagnatore per una prossima spedizione in Messico. Ma le sue
forze declinano ogni giorno di più . Rifiuta il priorato di Segovia, perché “vuole prendersi cura
solo della sua anima”.
Riceve molte lettere di rammarico e di incoraggiamento dai monasteri. Ad Anna di Gesù e
alle monache dice di non abbattersi “perché così andranno immuni da quegli errori che
avrebbero fatto a cagione della mia miseria” ccxxx. Le dice che, libero dal governo delle anime,
potrà finalmente godere a suo piacimento della pace che viene dalla solitudine, dall’oblio di se
stesso e di tutte le creature. Teme però che lo facciano ritornare a Segovia. Alla fine otterrà di
essere mandato in Andalusia, in un convento a sua scelta. Attorno a lui il clima è cambiato.
Nelle giornate conclusive del capitolo di Madrid, Diego Evangelista lo umilia pubblicamente
togliendogli la parola in pubblico.
Anna de Peñ alosa si trova a Madrid presso il fratello Luis, nominato uditore al Consiglio
reale e membro del Consiglio supremo dell’Inquisizione. Giovanni, prima di partire per
l’Andalusia, va ad accomiatarsi. Accompagnato da un confratello, che ha l’ordine di non
perderlo di vista, perché le diffamazioni di Diego Evangelista stanno circolando. Donna Anna
lo riceve in lacrime. Padre Cirillo vorrebbe sottrarsi, ma Giovanni lo invita a restare.
Sconvolta per dover lasciare un padre al quale ha consacrato tutta se stessa, Anna dice:
“Padre, come può partire e abbandonarmi così? Perché non resta a Segovia? Non ci rivedremo
più allora? Crede che io possa sopportare questa vita senza di lei?” ccxxxi.

La Certosa ritrovata
264
Giovanni riprende la strada dell’Andalusia. Giunto a Peñ uela, il primo convento dei
carmelitani riformati in Andalusia, scrive al provinciale Antonio, quello stesso assieme al
quale aveva dato vita al convento di Duruelo, chiedendo la sua destinazione. Padre Antonio lo
lascia libero di scegliere, ma non potrà più spostarsi da lì.

Il convento è annidato fra le montagne della Sierra Morena, in mezzo a una natura che profuma di erbe
aromatiche, cisti, fichi selvatici, eriche, corbezzoli. I frati si sono dati da fare: hanno piantato settemila
piedi di vigna, tremila olivi, seminato il grano. Come dodici anni prima, Giovanni riprende la vita di
preghiera, silenzio e solitudine. Esce dalla cella quando non è ancora giorno, scende al ruscello, si
inginocchia fra i salici e resta in preghiera fino a mezzogiorno. Ritorna per celebrare la messa e
ritirarsi poi in cella. Finché ha forza partecipa al lavoro dei campi. Per ogni cosa, come un semplice
novizio, domanda il permesso al priore. Il pasto è frugale, lo stesso dei padri: fave, pane, legumi, erbe
amare. Non vuole favori […] Scrive a Donna Anna: “Mi trovo bene in questo deserto, senza saper nulla,
e la pratica del deserto è mirabile. Questa mattina abbiamo già raccolto i nostri ceci. E’ bello
maneggiare queste creature mute, meglio che essere maneggiati da quelle vive…”. ccxxxii

Diego Evangelista non cessa di nutrire rancore verso Giovanni. Lo vuole distruggere,
cacciare dall’Ordine. Lo diffama creandogli addosso una reputazione di donnaiolo. Indaga nei
monasteri dove Giovanni è stato visitatore provinciale per scovare tracce di relazioni
sconvenienti. Semina sconcerto fra le monache.

Giovanni entrava liberamente in clausura, a quale scopo? Vedeva le penitenti da sole o accompagnate?
Dove confessava? Dormiva in convento o fuori? Tutte quelle penitenti non erano piuttosto amanti?
Non incontrava forse più ragazze belle e mondane che donne anziane senza fascino? Diego vede il
male in ogni cosa, trasforma l’opera di Giovanni in una vasta impresa di seduzioni. Certamente non ha
letto la Fiamma d’amor viva, non sa che Giovanni conosce gli arcani dell’amore più folle e in esso si è
incendiato non grazie a creature di carne e ossa, che gliene davano solo un’immagine , ma attraverso
l’illuminazione dell’anima alleggerita dalle pesantezze del creato. ccxxxiii

Diego Evangelista spedisce i suoi rapporti ai consiglieri della consulta. Le monache di


Granada, per proteggersi, bruciano un intero sacco di lettere e distruggono i suoi ritratti. A
poco a poco la notizia dell’inchiesta si sparge in tutte le case. Giovanni scrive a una monaca:
“Figlia mia, avrà certamente saputo dei molti travagli a cui siamo sottoposti. Dio li permette
per la gloria dei suoi eletti…”. Sembra più una difesa d’ufficio che altro. Diverso il tono usato
verso un fratello quando arriva da Granada la notizia che potrebbero ritirargli l’abito: “Non
addolorarti fratello, perché l’abito si può togliere solo a chi è incorreggibile. E io sono pronto a
correggere tutti gli errori in cui sarei caduto e a sottostare a qualsiasi penitenza che mi sarà
data”ccxxxiv. In un frammento ritrovato attribuito a Giovanni compare un verso tratto dal
Cantico dei cantici: “… Filii matris meae pugnaverunt contra me”.
La campagna di Diego Evangelista contro Giovanni della Croce, costruita spesso su false
testimonianze, dichiarazioni falsificate e rapporti fantasiosi, non ebbe molta fortuna. Inoltre
non era stata autorizzata e suscitò l’ira del vicario. Diego Evangelista fu ufficialmente punito e
obbligato a darsi la disciplina da solo a dorso nudo. Nel frattempo era stato nominato
provinciale in Andalusia. Recandosi a prendere possesso della sua carica, improvvisamente
morì.
Forse Giovanni non ha mai reagito alle diffamazioni di Diego Evangelista perché le riteneva
funzionali al suo desiderio di essere considerato un nulla. Però fisicamente ne risente. Ogni
giorno ha attacchi di febbre. Siccome alla Peñ uela non può essere curato gli viene ordinato di
trasferirsi al convento di Ubeda. Scrive a Donna Anna per l’ultima volta: “Domani parto per
andare a curarmi di alcune febbriciattole che, a mio parere, hanno bisogno dell’aiuto della
medicina perché mi tormentano da otto giorni. Vado, ma con l’intenzione di ritornare qui
265
quanto prima, perché in questa solitudine mi trovo tanto bene […] Mi sono rallegrato molto
nel sentire che il signor Don Luis è già sacerdote di Dio […] anche se fossi di memoria labile,
non potrei non rammentarmi di lui, essendo il suo ricordo sì congiunto con quello di sua
sorella, di cui non mi dimentico mai”.
Il 28 settembre 1591 lascia Peñ uela con una brutta infezione a una gamba. Sotto un sole
cocente arriva a sera a Ubeda. “Che non mi si parli più di viaggi!”. Il priore di Ubeda, proprio
quel Crisostomo con cui aveva avuto una discussione aspra a Siviglia, non l’aveva in simpatia,
e gli rende la vita difficile. Giovanni è costretto a partecipare a tutti gli atti della comunità .
L’infezione alla gamba si aggrava. Giovanni dà prova di “pazienza celeste”. “Sembrava più
nell’altra vita che in questa”, dirà un testimone. Rifiuta di ascoltare un improvvisato concerto
di giovani musicisti: “Nostro Signore non mi ha detto che devo dimenticare i dolori che mi
dona”. Gli ascessi si moltiplicano, una grande piaga compare sulla schiena. Il 13 dicembre
confida a un fratello: “Le assicuro che nulla ho fatto di cui abbia motivo di pentirmi”. Giovanni
sente vicina la fine. Chiede l’ora: “Quasi mezzanotte”. “A mezzanotte sarò in cielo a cantare
Mattutino”. I padri agitati cercano la preghiera dei moribondi. “Lasciate stare. Padre mi legga
un passo del Cantico dei cantici, perché questa preghiera non è necessaria”. Dopo avere
ascoltato alcuni versetti esclama: “Quali perle preziose!”. L’orologio suona la mezzanotte.
“Cosa suonano?”. “Mattutino”. “Sia gloria a Dio! Vado a cantarlo in cielo il giorno della Vergine
Maria!”. Bacia il piccolo crocefisso che ha in mano: “Nelle tue mani, Signore, rimetto il mio
spirito”. Chiude gli occhi senza il minimo segno di trapasso.
Muore all’età di quarantanove anni. La sua fama di santità si era diffusa. Già si erano contese
le bende delle sue ferite. In molti affluiscono al convento. “Si dovette fare molta attenzione
perché non prendessero parti del corpo per farne reliquie” ccxxxv. Da Madrid, dove la notizia
della morte di Giovanni era giunta a Donna Anna e al fratello, arriva l’ordine di trasferire la
salma al convento di Segovia, secondo l’impegno preso da Doria con la nobildonna. Dopo una
sosta al monastero di Madrid, viene portata alla cappella di Donna Anna. Lei fa rivestire il
corpo con un abito bianco e riempire la bara di fiori. Poi il trasferimento a Segovia, prendendo
strade fuori mano per evitare i fanatici. Per un’intera settimana una folla immensa sfilò per
dare a Giovanni della Croce l’ultimo saluto.

Non è mia intenzione affrontare l’esposizione dettagliata e sistematica del pensiero mistico
di Giovanni della Croce, che richiederebbe troppo spazio e obbligherebbe a richiamare qui
tutta la grande e spesso prolissa e ripetitiva mole dei suoi commenti alle opere poetiche.
Opere poetiche che, a suo dire, ne rappresenterebbero, verso per verso, la precisa sintesi in
forma allegorica. Credo che la cosa sia vera per quanto riguarda Cantico spirituale e Fiamma
viva d’amore; pongo su un piano diverso la Notte oscura, nei cui versi vedo prima di tutto
l’immagine, la carne e il sangue, dell’autore. Trovo la lettera di quei versi più importante e
significativa delle arzigogolate teorie che vorrebbero definire.

La salita a Dio secondo Giovanni della Croce

Una buona traccia per avvicinare la concezione mistica di Giovanni la si può trovare nella
lunga letteraccxxxvi scritta nel 1589, nel periodo di Segovia, “a un religioso diretto da lui”:

266
La pace di Gesù Cristo sia sempre nell’anima sua, o figlio. Ho ricevuto la lettera in cui Vostra Reverenza
espone i grandi desideri che Nostro Signore le dà di occupare la sua volontà in lui solo, amandolo
sopra tutte le cose, e mi chiede alcuni avvisi per conseguire questo scopo.
Godo che il Signore le abbia dato desideri così santi e mi rallegrerei molto di più se li mettesse in
esecuzione. Per questo è bene ricordi che nell’anima tutti i gusti, tutte le gioie e le affezioni nascono
sempre per mezzo della volontà e della ricerca delle cose che le si offrono come buone, convenienti e
dilettevoli, perché, secondo il suo parere, esse sono gustose e preziose. Secondo ciò , gli appetiti della
volontà si muovono verso di esse, la volontà stessa le aspetta e, se le possiede, ne gode, teme di
perderle e, qualora le perda, ne soffre. E così, a seconda delle affezioni e del gaudio delle cose, l’anima è
alterata e inquieta.
Dunque, per annientare e mortificare queste affezioni del gusto circa tutto ciò che non è Dio, Vostra
Reverenza deve notare che tutto ciò in cui la volontà può godere distintamente è ciò che è soave e
dilettoso, perché le sembra gustoso. Ma nessuna cosa dilettosa e gustosa in cui elle può trovare gusto e
diletto è Dio, poiché, come non può cadere sotto il dominio delle altre potenze, così Dio non può cadere
sotto quello degli appetiti e gusti della volontà . Infatti, poiché in questa vita non si può gustare
essenzialmente Dio, così, ogni soavità e diletto che l’anima prova, per quanto sia sublime, non può
essere Dio, poiché anche quanto la volontà può gustare e appetire distintamente, è tale in quanto lo
conosce per un determinato oggetto. Quindi, poché la volontà non ha mai gustato Dio come è né lo ha
conosciuto per mezzo di qualche apprensione di un appetito, e quindi non conosce com’è Dio, il suo
gusto non può sapere come sia; né il suo essere, il suo appetito e il suo gusto possono arrivare a saper
desiderare Dio, che è superiore a ogni loro capacità . Quindi è chiaro che nessuna cosa distinta di quelle
che la volontà può gustare è Dio. Perciò , per unirsi con lui si deve vuotare e liberare da qualsiasi affetto
disordinato dell’appetito o gusto di tutto ciò che può gustarsi distintamente, sia celeste che terrestre,
temporale che spirituale, affinché, purificata e pura di qualunque gusto, gaudio e appetito disordinato,
con i suoi affetti si impieghi tutta in amare Dio. Infatti, se in qualche maniera la volontà può
comprendere Dio e unirsi con lui, ciò non avviene per qualche mezzo apprensivo dell’appetito, ma per
amore. Poiché il diletto, la soavità e qualsiasi gusto che può cadere nella volontà non è amore, ne segue
che nessun sentimento gustoso può essere un mezzo proporzionato perché la volontà si unisca con il
Signore, ma l’opera della volontà , poiché essa è molto diversa da quella del sentimento: per mezzo
dell’operazione si unisce con Dio e termina in lui, che è amore, e non per mezzo del sentimento e
apprensione del suo appetito, che si colloca nell’anima come fine. I sentimenti possono servire soltanto
come motivi di amare, se la volontà vuole andare avanti, e non più , e così i sentimenti gustosi di suo
non fanno incamminare l’anima verso Dio, anzi la fanno fermare sopra di loro; solo l’operazione della
sua volontà , che è amare Dio, serve a ciò ; solo in lui l’anima pone il suo affetto, la sua afflizione, la sua
gioia, il suo gaudio, contento e amore, lasciate da parte tutte le sue cose e amandolo sopra tutto. Quindi
se alcuno ama Dio non per le soavità che ci prova, mette da parte queste e colloca il suo amore in lui,
che non sente, poiché se lo ponesse nella soavità e gusto che prova, riparandosi e fermandosi in essi,
vorrebbe dire riporlo in qualche creatura e cosa appartenente ad essa e far diventare fine o meta il
mezzo, e quindi l’opera della volontà sarebbe viziosa. Infatti, poiché Dio è incomprensibile, la volontà ,
per riposare in Dio, non deve collocare le sue operazioni di amore in ciò che ella può toccare o
percepire con l’appetito, ma in ciò che con esso non può comprendere o raggiungere. In tal modo la
volontà ama certamente e davvero secondo il gusto della fede, anche nel vuoto e all’oscuro dei suoi
sentimenti sopra tutto ciò che può sentire con l’intelletto, credendo e amando sopra ciò che può
intendere.
E così sarebbe molto insipiente colui che, perché le mancano la soavità e il diletto spirituale, credesse
che le mancasse Dio e quando fosse in possesso di quel diletto, gioisse e si rallegrasse pensando di
possedere Dio. Più insipiente sarebbe ancora se cercasse in lui queste soavità e se ne rallegrasse e ci si
fermasse, poiché in tal modo egli non cercherebbe Dio con la volontà fondata nel vuoto della fede e
della carità , ma cercherebbe il gusto e la soavità spirituale, che è creatura, seguendo il suo gusto e il
suo appetito, e così non amerebbe puramente Dio sopra tutte le cose (che è riporre il lui tutta la forza
della volontà ). Infatti, fermandosi e appoggiandosi con l’appetito su questa creatura, la volontà non
sale sopra di essa a Dio, che è inaccessibile, essendo impossibile che essa possa giungere alla soavità e
al diletto dell’unione divina, ad abbracciare e sentire i dolci e amorosi amplessi di Dio se non si trova
nella nudità e nel vuoto dell’appetito in ogni gusto particolare, sia celeste che terrestre.

267
Questo infatti vuol dire David quando afferma: Dilata os tuum et implebo illud (Sal. 80,11); perciò è
bene ricordare che l’appetito è la bocca della volontà la quale si dilata quando non si imbarazza e non
si riempie con qualche boccone di qualsiasi gusto, giacchè l’appetito si restringe dal momento in cui si
ferma in qualche cosa, poiché fuori di Dio tutto è angustia. E così l’anima, per riuscire ad andare a Dio e
a unirsi con lui, deve tenere la bocca della volontà aperta solo verso Dio, vuota e libera da ogni boccone
di appetito, affinchè egli la riempia completamente del suo amore e della sua dolcezza ed ella se ne stia
con questa fame e sete di Dio solo, senza cercare soddisfazione in nessun’altra cosa, poiché ora ella
non può gustare Dio come è, e ciò che si può gustare, se vi è qualche appetito, è anche impedito da
esso. La cosa viene insegnata da Isaia quando dice: Tutti voi che avete sete, venite alle acque, ecc. (55,1),
dove invita tutti coloro che hanno sete di Dio, ma privi dell’argento dell’appetito, a dissetarsi delle
acque dell’unione divina.
Conviene che Vostra Reverenza, se vuole godere una grande pace nell’anima e giungere alla
perfezione, doni tutta la sua volontà a Dio, perché si unisca con lui, senza occuparla nelle cose vili e
basse della terra. Sua Maestà lo renda tanto spirituale e santo quanto desidero. Segovia, 14 aprile
1589.

Vi si coglie bene la durezza della visione di Giovanni. L’esistenza di Dio è indiscutibile, però
la sua inconoscibilità è totale. E nulla possiamo fare per superare l’enorme incolmabile
distanza. Non serve illudersi di avere degli approcci con Dio, interpretando secondo la nostra
umana sensibilità fatti emotivi del tutto soggettivi e derivanti dal nostro bisogno di certezze e
di intimo conforto. Andare verso Dio è perciò - deve essere - solo un fatto della volontà . E una
scelta deve essere anche la rinuncia al mondo e alle sue attrattive, con la consapevolezza che
questa ricerca di vuoto interiore, che porta molto dolore e confusione all’anima, è anche
l’unica via per liberarla da ogni umana imperfezione. E’ questa la lunga notte dell’anima,
fondamento della mistica di Giovanni della Croce. Scelta difficile e dolorosa che, se condotta
con coerenza, la prepara ad accogliere l’intervento divino su di essa. Quando l’anima sarà
“ripulita”, Dio ne prenderà possesso, la colmerà di felicità e la guiderà a sé fino all’Unione. Il
contemplativo non deve fare nulla, non deve desiderare nulla, non deve neppure godere di
nulla. Tutto sarà opera di Dio. L’uomo deve però dimostrare di volerlo con la sua decisione di
rinuncia nei confronti del mondo.

Il vuoto, l’Unione, l’Amore divino. Riflessi d’oriente

Mi soffermo ora su qualche aspetto di particolare interesse, spigolando in libertà nel gran
mare dei suoi trattati mistico-teologici. Insistente la richiesta di Giovanni, qui in aperta
polemica con un immaginario direttore spirituale, sulla necessità di fare il “vuoto” mentale,
abbandonandosi passivamente a Dio. Senza la completa rinuncia al mondo, e alla propria
cosciente individualità – in un senso squisitamente “orientale” - non c’è possibilità di
avvicinare il trascendente:

Dio come il sole sta sulle anime per donarsi loro. Si contentino quindi i direttori [spirituali] di disporle
secondo la perfezione evangelica che consiste nella nudità e nel vuoto del senso e dello spirito […]
Perciò non dire: - O! non va avanti perché non fa nulla! – giacché, se ciò è vero, io ti dimostrerò che fa
molto, proprio perché non fa niente. Infatti se l’intelletto lavora per svuotarsi delle conoscenze
particolari, naturali e spirituali, progredisce di molto ed anzi, quanto più si allontana da esse e dagli
atti della conoscenza, tanto più andrà avanti camminando verso il sommo bene soprannaturale. – O!
l’anima non intende distintamente nessuna cosa e quindi non può progredire -. Anzi ti dico che, se
intendesse distintamente non andrebbe avanti, perché Dio, a cui va l’intelletto, trascende l’intelletto
stesso e quindi gli è incomprensibile e inaccessibile. Perciò quando l’intelletto intende, non si avvicina
a Dio, ma se ne allontana. Per giungere a Lui dunque bisogna allontanare l’intelletto da se stesso e dal
suo atto, camminando in fede, credendo senza capire. In tal modo esso arriva alla perfezione perché si
unisce con Dio unicamente per mezzo della fede e l’anima si avvicina di più al Signore evitando più che

268
cercando di comprendere. Pertanto non ti preoccupare che, se l’intelletto non torna indietro (il che
avverrebbe se volesse applicarsi a notizie distinte, ad altri discorsi e pensieri, ma vuole anzi rimanere
quieto), va avanti, poiché si vuota di tutto ciò che può contenere. Dio infatti non ha niente a che fare
con queste cose poiché, come è stato detto, Egli non può essere contenuto in un cuore occupato.
Quando si è raggiunto questo grado di perfezione, chi non retrocede progredisce; il progresso
dell’intelletto poi consiste nello stabilirsi maggiormente nella fede, vale a dire nel mettersi sempre di
più all’oscuro, giacché la fede è tenebre per l’intelletto […] - O! – dirai – se l’intelletto non intende con
chiarezza, la volontà starà oziosa e senza amare, cosa da evitare sempre nella via dello spirito, poiché
non è possibile amare se non ciò che si conosce. Sì, specialmente negli atti e nelle azioni naturali
dell’anima, è vero che la volontà ama solo quello che l’intelletto conosce in modo chiaro, ma nella
contemplazione di cui stiamo parlando, durante la quale Dio infonde qualche cosa nell’anima, non v’è
bisogno di nessuna notizia chiara né di nessun atto dell’intelletto, poiché Dio in un solo atto le
comunica luce e amore, cioè notizie soprannaturali amorose, che possiamo paragonare a luce calda che
riscalda, poiché, oltre a risplendere, innamora.ccxxxvii

Anche il misticismo di Giovanni della Croce poggia sulla ricerca dell’Unione Divina. L’unione
con Dio è lo scopo di tutti i mistici di ogni religione. Sotto altri cieli si parla di Illuminazione,
Shamadi ecc. Se non si accontenta della religione della Legge, e se, fidando nella propria
personale predisposizione, lo ritiene perseguibile, il mistico ricerca ovunque l’incontro diretto
con il trascendente. Giovanni della Croce ne parla in continuazione, indagandone fino allo
sfinimento i modi per ottenerla. Difficile dire, leggendo quanto ha scritto, se ne abbia poi
avuta una soddisfacente esperienza. Certamente sul percorso da lui definito ha conosciuto
momenti esaltanti, ma forse la morte è intervenuta quando si proponeva di sferrare l’assalto
più consistente.

… Tale è la notte o purificazione del senso. Essa, in coloro che devono poi entrare in quella più grave
dello spirito per passare quindi a quella divina unione di amore di Dio, (non tutti, ma pochi
ordinariamente vi entrano), è in generale accompagnata da grandi travagli e tentazioni sensitive, che
durano a lungo, sebbene in alcuni più e in altri meno […] Con altre anime più fiacche Dio, per
esercitarle nel suo amore, si comporta ora mostrandosi ora nascondendosi poiché senza tali assenze,
non imparerebbero ad accostarsi a Lui. Ma le anime che devono entrare nello stato felice ed alto come
è quello dell’unione con Dio, per quanto presto Egli le conduca, sono solite durare molto tempo in
queste aridità e tentazioni, come si è visto per esperienza.ccxxxviii

Ecco alcuni dei tanti tentativi di Giovanni di definire i vari aspetti dell’Unione:

Ciò non significa altro che illuminare l’intelletto con la luce soprannaturale di modo che questo diventi
qualcosa di divino unito con il divino. Similmente Dio informa la volontà di amore soprannaturale di
maniera che questa non sia meno che divina, amando come ama il Signore, perché diventa un’unica
cosa con la volontà e l’amore di Dio. Lo stesso accade anche alla memoria, alle affezioni e agli appetiti
che vengono tutti mutati e diretti divinamente secondo Dio. In tal modo tale anima sarà anima
celestiale, più divina che umana.ccxxxix
La contemplazione è scienza di amore la quale è notizia amorosa infusa da Dio che simultaneamente
illumina e innamora l’anima fino a farla salire di grado in grado a Dio suo Creatore, poiché solo l’amore
è quello che unisce e congiunge l’anima con Dio.ccxl
Il decimo e ultimo grado della scala segreta di amore rende l’anima del tutto simile a Dio, per la chiara
visione di Lui che ella possiede allorché, giunta in questa vita al grado nono, si separa dal corpo. Tali
anime, che sono poche, giacché sono già molto purificate dall’amore, non entrano nel Purgatorio […]
Non va inteso nel senso che l’anima acquisterà le perfezioni di Dio, che è impossibile, ma che tutto
quanto ella è, diventerà simile a Dio, per cui si chiamerà e sarà Dio per partecipazione.ccxli
Si opera un’unione delle due nature e una comunicazione di quella divina a quella umana tale che, pur
conservando ciascuno il proprio essere, ognuna sembra Dio. Se in questa vita ciò non può accadere in
maniera perfetta, tuttavia accade in un modo che trascende quanto si può dire o pensare.ccxlii

269
Molte anime riescono ad entrare nelle prime cantine, ciascuna in quella corrispondente alla perfezione
di amore che ella possiede, poche invece in vita arrivano all’ultima e più interna in cui avviene l’unione
perfetta con Dio alla quale viene dato il nome di matrimonio spirituale. E’ del tutto impossibile dire ciò
che Dio comunica all’anima in questa intima unione. Non se ne può dire niente, come niente si può dire
che corrisponda pienamente a ciò che Dio è in sé, poiché è Lui stesso che si dà all’anima con
ammirabile gloria di trasformazione di lei in Lui. Essi sono due persone in una sola, sebbene non
essenzialmente e perfettamente come nell’altra vita, come un’unica cosa sono il cristallo e il raggio di
sole, il carbone e il fuoco, la luce delle stelle e quella del sole. ccxliii
Tale spirare dello Spirito Santo, per mezzo del quale Dio la trasforma in sé, procura all’anima un diletto
tanto sublime, delicato e profondo che non può essere espresso, neppure in parte, dall’intelletto
umano in quanto tale. Non si può riferire nemmeno quello che nella trasformazione temporale avviene
nell’anima circa tale comunicazione perché ella, trasformata in Dio e unita con Lui, spira a Dio in Dio la
stessa spirazione che il Signore compie in lei divinamente trasformata. ccxliv

Giovanni, come tanti mistici, ritiene che il fondamento dell’Unione sia il sentimento
dell’amore. La forza che lega la creatura al mondo è la stessa che lega Dio alla sua creatura. E’
l’amore - in Giovanni più agapè che eros - ad operare nella reciproca ricerca, nella “caccia”, ai
limiti del mondo reale. L’amore vi parla il suo linguaggio:

Da quanto è stato detto appare chiaro che l’anima giunta allo sposalizio spirituale non sa fare altra
cosa che amare e andare sempre in delizie di amore con lo Sposo, perché è arrivata alla perfezione, la
cui essenza, come dice S. Paolo (Col. 3,14), è l’amore. Un’anima, quanto più ama, tanto più è perfetta in
ciò che ama, e quindi quest’anima che ormai è perfetta, è tutta amore, se si può dire così, e tutte le sue
azioni sono amore. Essa impiega nell’amare tutte le sue potenze e tutto quello che possiede, dando
tutte le sue cose, come il saggio mercante (Mt. 13,46) per il tesoro di amore trovato nascosto in Dio. ccxlv
Centro dell’anima è Dio. Quando ella sarà giunta a Lui secondo tutta la capacità del proprio essere e la
forza della propria azione e inclinazione, avrà raggiunto l’ultimo e più profondo suo centro in Dio, il
che si verificherà allorché con tutte le sue forze essa conosce e ama Dio e gode di Lui. ccxlvi
L’amore è l’inclinazione, la forza e la virtù di cui l’anima si serve per andare a Dio, poiché per mezzo di
esso ella si unisce con Lui. Perciò tanto più ella penetra in Dio e vi si concentra, quanti più sono i gradi
di amore da lei posseduti.ccxlvii
Se infine giungerà al più alto grado, sarà ferita fino al suo ultimo e più profondo centro dall’amore di
Dio, il quale ne trasformerà e illuminerà tutto l’essere, le potenze e le virtù , a seconda della sua
capacità recettiva, fino a farla diventare simile a Dio.ccxlviii
Non vi sono vocaboli adatti a nominare cose divine tanto sublimi, come sono quelle che avvengono in
quest’anima, il cui linguaggio proprio è quello di capirle per sé, sentirle per sé, tenerle e goderle da chi
le possiede.ccxlix

Ancora riflessi di oriente. I passi seguenti portano alla mente i favolosi racconti, e le
immagini, dei “giochi” di Krishna con le Gopi:

L’amore che non sta mai ozioso, ma in continuo movimento come la fiamma, getta sempre lingue di
fuoco qua e là ; l’amore, il cui ufficio è quello di ferire per innamorare e generare diletto, presente
nell’anima qual viva fiamma, lancia verso di lei i suoi dardi come vampe tenerissime di delicato amore,
esercitando in modo giocondo e festoso le sue arti e i suoi scherzi amorosi […] perciò queste ferite, che
sono i suoi giochi, sono vampe di tocchi soavi che di volta in volta giungono all’anima da parte del
fuoco di amore, che non rimane ozioso.ccl

Colpiscono per la loro voluta crudezza i termini usati da Giovanni nel commento alla prima
strofa della Llama (il corsivo è nel testo):

Per quale ragione l’anima chiede al Signore che rompa la tela, invece di chiedergli di tagliarla o di
finirla? […] di un incontro si predica più propriamente il verbo rompere che tagliare o finire […]
l’amore ama la forza amorosa e il tocco forte e impetuoso, che si hanno più nel rompere che nel
270
tagliare o nel finire […] l’amore desidera che l’atto sia brevissimo, affinchè si compia velocemente […]
l’atto di amore in pochi istanti penetra nell’anima disposta perché l’esca asciutta si infiamma ogni volta
che viene a contatto con la scintilla […] sono veri incontri durante i quali Dio penetra nella sostanza di
lei divinizzandola e assorbendola sopra ogni altro essere nell’essere divino. ccli

Chiudo questa parte dando spazio a un commento di Giovanni che meraviglia per il suo
collegarsi perfettamente al pensiero ibnarabiano: “A questo scopo egli mi esistenzia: affinchè
conoscendolo, io gli dia l’essere”cclii. Il grassetto è mio:

Costei [l’anima] divenuta qui una medesima cosa con Lui è in un certo modo Dio per partecipazione,
quasi un’ombra di Lui […] diventata ombra di Dio per mezzo di questa trasformazione sostanziale, ella
fa in Lui per Lui, nello stesso modo di Lui, quello che il Signore fa da sé in lei. Infatti la volontà dei due è
una e una è anche l’operazione di Dio e sua, per cui, se Dio si dona all’anima con volontà libera e
gratuita, anche lei, avendo la volontà tanto più libera e generosa quanto più è unita a Lui , dona a Dio
lo stesso Dio in Dio […] in questo stato ella capisce che Dio è veramente suo e che lo possiede in
possesso ereditario, come figlio adottivo, con tutti i diritti di forza della grazia che il Signore le ha fatto
di donarsi a lei e che, come cosa sua, lo può dare a chi vuole, ella lo da al suo Amato, che è lo stesso Dio,
che si è dato a lei. In tal modo paga a Dio quello che gli deve, poiché gli dà quanto riceve da Lui. In
questa donazione a Dio, l’anima come cosa propria gli offre lo Spirito Santo , affinché Egli ami se
stesso quanto merita.ccliii

”Un precursor hispano-musulman de San Juan de la Cruz”

In campo scientifico l’attenzione verso Giovanni della Croce ha avuto un momento “alto” in
Francia, negli anni 20-30 del ‘900, all’interno della discussione accesasi fra chi spingeva al
radicale rinnovamento del cattolicesimo (Blondel, Bergson, Massignon, Baruzi) e gli esponenti
più rilevanti del neotomismo francese (Maritain, Garrigou-Lagrange, Lemonnyer). La
discussione ha preso le mosse dal libro che ha avviato il dibattito francese sul mistico del
Carmelo: “Saint Jean de la Croix e le probleme de l’experience mistique”, tesi di dottorato di
Jean Baruzi.
Allievo di Bergson, Baruzi focalizza la sua analisi sul linguaggio del contemplativo spagnolo,
rapportato con la sua “curva personale di vita”. Baruzi ha preso la figura di Giovanni come
paradigma dell’esperienza mistica e mette in risalto la singolare unicità della sua esperienza e
la difficoltà , al limite la impossibilità , di una sua traduzione in discorso: “La sua opera, alta e
appena abbozzata, esige una attenzione di ordine metafisico […] lontano dalle semplificazioni
e dalle deformazioni che ne hanno alterato l’immagine”. Per Baruzi, conoscitore del pensiero
protestante e dell’idealismo tedesco, l’esperienza mistica è una sintesi di costruzione logica e
d’immaginazione simbolica, di logica astratta e di lirismo. Il suo senso rimane duramente
estraneo all’interprete e “sospeso in una latenza tra biografia e opera”. Baruzi fa anche
riferimento alla mistica musulmana, e attribuisce un carattere universale, non semplicemente
cattolico, alla esperienza mistica
Secondo parte dei razionalisti e dei seguaci del modernismo l’esperienza soprannaturale
descritta da Giovanni della Croce è da ricondurre alla mistica naturale che si ritrova in gradi
diversi in tutte le religioni. Sulla questione è intervenuto anche M. Vannini ccliv : “celebri teologi
cattolici del nostro secolo, come il benedettino Stolz e il gesuita Rahner, hanno messo in
dubbio il carattere specificamente cristiano della mistica sanjuanista, e studiosi indiani hanno
sottolineato le straordinarie concordanze tra gli insegnamenti dei maestri dello Yoga e il
pensiero del santo castigliano, chiamandolo addirittura ‘Patanjali dell’Occidente’ ”.

271
Il cattolicesimo non porterebbe niente di nuovo, solo dà più sicurezza. L’essenza
dell’esperienza mistica si ritrova presso gli animi più profondi di tutte le religioni. Il
neotomista Garrigou-Lagrange non può però non distinguere fra una “premistica naturale”,
alla quale avrebbe accesso l’universalità degli uomini, e una “mistica soprannaturale”,
rigorosamente propria della Chiesa.

Le teorie pneumatiche della mistica, sia la cristiana che la musulmana, entrambe imparentate a una
tradizione neoplatonica, vengono in una certa misura travisate dalla nozione di “psicologia” che gli
stessi ambienti cattolici applicano al fenomeno mistico. Tale concetto otto-novecentesco deforma
riduttivamente l’esperienza mistica. D’altro canto esso viene impiegato per riscattare fenomeni
ascetici e mistici da una interpretazione scientista ugualmente riduttiva, incline a spiegarli nei termini
di malattia mentale o nevrosi. Peraltro la psichiatria e la psicanalisi non si sono emancipate se non
tardivamente da un tale approccio.cclv

Lo spagnolo Miguel Asin Palacios, sacerdote e arabista, ha indagato le fonti arabo-islamiche


nella cultura cristiano-latina. Nel 1919 aveva raggiunto la notorietà parlando dei possibili
influssi islamici nella Divina Commedia. Nel 1931 ha pubblicato “Islà m cristianizado”, la prima
monografia europea sul mistico andaluso Ibn ‘Arabī. Suo è anche “Un precursor hispano-
musulman de San Juan de la Cruz” pubblicato nel 1933 cclvi. Attraverso un suo “paradigma
dell’influenza”, Palacios tende a dimostrare l’influsso della mistica andalusa su quella
carmelitana. Secondo Asin Palacios la Šādiliyya, una scuola ascetica andalusa risalente ai
tempi della Reconquista, presenta notevoli affinità con il cristianesimo carmelitano. Il lavoro
di Palacios fa emergere, secondo lo studioso italiano Andrea Celli, prossimità spirituali e
geografiche, e un comune tessuto originario tardomedievale e rinascimentale che si estende
fino alla modernità .
Le sue deduzioni sono state ritenute sbrigative da molti colleghi, in particolare per Baruzi la
relazione tra il mondo musulmano e la spiritualità spagnola del XVI secolo resterà una cosa
sempre cercata, ma mai precisata. Mancando i documenti storici, nel caso di Giovanni, non si
può avere certezza sulla reale influenza della mistica šādilita andalusa, che si svilupperà
invece nelle zone di emigrazione dei moriscos (Tunisia e Marocco).
Secondo Baruzi nel cinquecento le comunità moresche non potevano più avere diretta
conoscenza degli insegnamenti della Šādiliyya, che aveva avuto in Ibn ʽAbbā d di Ronda uno dei
principali capostipiti, e che sarebbe stato, secondo Palacios, il “precursore musulmano” di
Giovanni della Croce. Baruzi critica il “paradigma delle influenze” di Palacios, che non
permette l’indagine di un’opera o di una esperienza culturale in base alla sua cifra di unicità , al
“segreto interiore di ogni pensiero creatore”, bensì in base ad analogie con testi precedenti
che ne sarebbero di per sé spiegazione sufficiente. Baruzi fa riferimento, per criticarle, alle
teorie che vedono i movimenti del pensiero dipendenti non dalle personali scelte degli autori,
ma dai movimenti delle masse.
Al tempo di Giovanni, anche secondo Andrea Celli, vi era ancora la presenza di rilevanti
comunità di moriscos, in particolare in Andalusia (ancora arabofone) e in Aragona e Castiglia
(ispanizzate). Secondo Palacios, e Celli mostra di condividere, sopravvive in Spagna, fino
all’inizio del seicento, una numerosa comunità cripto-musulmana che mantiene fedeltà alla
rivelazione coranica, in un contesto sociale sempre più sfavorevole. In tale milieu continuano a
circolare, anche in lingua spagnola, testi di sufi come Ibn ʽAbbā d.
Palacios stabilisce un legame, se non un’equivalenza, fra il simbolo di Giovanni, la “notte
oscura”, e metafore della notte rinvenibili nelle “Sentenze” di Ibn ʽAtā ʼ Allā h di Alessandria (m.
1309 d.C.), poeta e principale capostipite della Šādiliyya. La scuola šādilita però nega la
possibilità di unione sostanziale tra Dio e uomo, e manca di un linguaggio unitivo. E’ un
sufismo integrato all’Islà m ortodosso e congiunge lo studio delle scienze legali alla conoscenza
e all’esperienza della scienza mistica. Ibn ʽAbbā d di Ronda, glossatore di Ibn ʽAtā ʼ Allā h, vive
272
solo indirettamente la scienza mistica, della quale non aveva esperienza. Non è comunque
“l’amico” che è stato introdotto nella intimità cosciente del Ben-Amato, intimità assieme
crocifiggente e beatificante, ma è “il servo” che contempla da lontano la maestà del suo
Signore.
Asin Palacios vi vede un ascetismo che rifiuta i prodigi e i carismi. Gli stati di beatitudine e di
illuminazione sono per la Šādiliyya un ostacolo alla pietà , nella misura in cui si impossessano,
per la via del godimento, dell’anima del mistico, per l’altra ne accarezzano l’amor proprio in
forma sottile. Bisogna dubitare delle grazie. E’ nella desolazione, anche per i šādiliti, lo stato
preferito dei contemplativi; la notte dell’anima implica la privazione di ogni godimento
sensibile, perché dispone all’atteggiamento di servitù verso Dio, indispensabile alla
contemplazione.
Ibn ʽAtā ʼ Allā h, e il suo glossatore di Ronda, sostengono che Dio, nella notte dell’angustia, si
rivela all’anima molto più che nel giorno luminoso della larghezza. L’anima non deve
disperarsi se non sente la consolazione della presenza divina (come raccomanda sempre
anche Giovanni alle monache) durante la preghiera o durante gli esercizi di pietà , perché per
Dio sono preferibili le opere in cui l’anima fa conoscenza dell’aridità , e non della dolcezza e del
gusto spirituale. Tale consolazione è, per i šādiliti come per Giovanni della Croce, una specie di
ingordigia spirituale o segreta voluttuosità che deve essere repressa più di ogni altro
attaccamento a ciò che non è Dio. La Šādiliyya, in questo differenziandosi da Giovanni, mette
l’accento, più che sulla speranza della visione e dell’illuminazione, sull’umiliazione dell’amor
proprio e della stessa volontà di vedere e vivere il divino.

La notte oscura di Ibn ʽAbbād di Ronda

Sul Web ho trovato la traduzione di Andrea Celli del libro di Palacios, ricco di
approfondimenti interessanti sul personaggio di Ibn ʽAbbā d e sul pensiero della Šādiliyya.
Ibn ʽAbbā d di Ronda (1332-1394), prossimo geograficamente e cronologicamente alla
scuola carmelitana, per Palacios è “tipo analogo”, sotto l’aspetto dottrinale, di Giovanni della
Croce. Nacque a Ronda, rimasta sotto il potere dell’Islà m fino alla fine del XV secolo. Capitolata
alla vigilia della resa di Granada, nel 1495. Ibn ʽAbbā d apparteneva a una delle più nobili
famiglie della città . Aveva studiato sotto la guida di numerosi maestri sufi. Si trasferì poi
definitivamente in Marocco, a Fes, con incarichi di Imam, rettore e predicatore. Fu
riconosciuto santo dagli abitanti di Fes, e considerato mistico senza pari nel suo tempo. Scelse
la castità innanzi a tutto, e accettò volontariamente il celibato. La sua mortificazione della
sessualità era assoluta. Viveva solo nella sua casa, senza alcun servo, vestito con l’abito
monacale islamico, la muraqqa’a, fatto di cenci rammendati, che ricopriva con una tunica
verde o bianca qando doveva uscire. Viveva nel timor di Dio. Si considerava, nei suoi confronti,
meno importante del più umile degli insetti. L’assoluta consegna nelle mani di Dio lo rendeva
indifferente nei confronti di tutte le cose create. La sua amorevolezza nei confronti del
prossimo era esemplare, a tutti dispensava i suoi consigli di direzione spirituale. In tutti non
vedeva altro che le loro anime, oggetto della volontà di Dio. Respingeva ogni adulazione.
L’innocenza dei bambini era per lui un incanto. Uno dei suoi biografi che da bambino lo
conobbe, Muhammad ibn as-Sakkā k, ci ha lasciato una curiosa memoria su questo aspetto
della sua personalità (così nel testo di Asìn Palacios tradotto da Celli):

Una delle misteriose doti di questo maestro dello spirito era quella di guadagnarsi la simpatia dei cuori
dei piccoli, assai degni di tenerezza, ai quali Dio ispirava tanto amore per lui, che spontaneamente
accorrevano a studiare nella sua scuola. Lo amavano più dei loro stessi genitori. aspettavano che
uscisse di casa per andare alla moschea alle ore dell’orazione in numero incalcolabile, convenendo in
gruppi da ogni quartiere e perfino dalle scuole più appartate della città , attratti solo dal desiderio di
vedere da vicino il suo volto benedetto e baciargli la mano. Avevo allora da sette a dieci anni ed ero
273
uno di quelli maggiormente catturati dal suo affetto. Non avevo mai provato un attaccamento verso
persona o cosa simile a quello che Dio mi aveva ispirato per il maestro, senza che io sapessi a che causa
obbediva, poiché nessuno mi aveva spiegato che dovevo amarlo e nemmeno me lo aveva
raccomandato. Se mancavo, sentiva la mia mancanza e si preoccupava delle ragioni della mia assenza.
Un giorno non ero andato a lezione, e il giorno dopo arrivai all’ora in cui egli usciva di casa per andare
all’orazione serale. La biblioteca era già piena di studenti, ma quando mi vide si trattenne sino a che lo
raggiunsi. A quel tempo ero un moccioso magro e piccoletto, che si trascinava in giro. Il maestro inclinò
affettuosamente la testa verso di me, e mi chiese: “Che cosa ti è capitato? sei stato ammalato?”. E restò
così a lungo in piedi parlando con me, mentre io rimanevo silenzioso senza sapere cosa dirgli, perché
mancavo ancora del discernimento indispensabile per mantenere una conversazione con chiunque.
Varie volte entrai a casa sua, e alcune pure mangiai dal suo piatto.

Il suo commento a Ibn ʽAtā ʼ Allā h è un minuzioso manuale di dottrina ascetica e mistica,
destinato ai novizi. Le osservazioni sono personali e molto profonde. Non abbondano tra i
biografi i dati relativi ai carismi di Ibn ʽAbbā d. Solo un caso di levitazione, o ratto estatico,
difficile da interpretare. Fu visto attraversare il patio della moschea in volo, seduto a gambe
incrociate. Ebbe una continua attività epistolare come direttore di coscienze. Raccolse le
lettere a novizi e aspiranti in un epistolario. Trattava in modo particolare dei patimenti di
coloro che aspiravano alla perfezione. Dava avvertimenti atti a favorire la sopportazione delle
avversità , e a rifuggire da tutto ciò che può compiacere l’anima sensitiva. Sarebbe perduta la
sua produzione poetica (circa 800 versi). Numerose le note sui pericoli della familiarità con le
donne, mentre confessa che Dio gli ha fatto la grazia di non sentire alcuna inclinazione a
guardarle.
Sicuramente molte le somiglianze col pensiero di Giovanni. Così Palacios sintetizza la sua
dottrina della rinuncia, patrimonio collettivo della scuola šādilita:

La dottrina della rinuncia ha soggiacente una metafisica, il cui principio fondamentale è il seguente:
Dio è inaccessibile alle creature; dall’assoluta trascendenza dell’Essere infinito, spogliato di ogni
analogia con l’essere finito, si ricava che Dio non è nulla di ciò che possiamo sentire, immaginare,
pensare e vedere. Applicando questo principio alla mistica, risulta assiomatico che tutto quanto faccia
l’anima per raggiungere Dio, anziché essere mezzo adeguato ed efficace, sarà un impedimento,
ostacolo e velo che gli impedirà di guadagnare l’unione […] Per guadagnare l’unione con Dio, bisogna
rinunciare a tutto ciò che non è Dio.

Simile rinuncia si concretizzerebbe in un atteggiamento strettamente assimilabile a quello


di Giovanni della Croce. Tale passo risulta anche quasi perfettamente sovrapponibile a quanto
Giovanni scrive nella lettera “a un religioso diretto la lui”, da me riportata. Palacios deve
averla letta.
Vuoto, nudità , libertà . L’anima deve vuotarsi, spogliarsi, liberarsi di ogni appetito sensuale,
ogni egoismo, ogni appoggio nelle creature; deve uscire dalle cose del mondo per andare
verso Dio; deve eliminare ogni iniziativa, ogni autonomia del suo arbitrio, per incontrare la
calma, la quiete spirituale, la solitudine. Dio ispira alternativamente due stati d’animo. Si inizia
con l’oppressione, che ispira all’anima disgusto e tedio per tutto ciò che non è Dio: la coscienza
dei peccati, i difetti presenti, le tribolazioni fisiche e morali. Dio poi la soccorre con la
consolazione spirituale, favori, grazie, carismi, affinchè non disperi di giungere all’unione. Poi
la pone di nuovo nella strettezza. Profonda affinità di questa dottrina con quella di Giovanni
della Croce. Anche la scuola šādilita adotta la metafora del giorno e della notte. La notte viene
trattata con preferenza. Anche questo accentua la parentela con la dottrina di Giovanni, che
nella “notte oscura” individua il fondamento della mistica. Identica la concezione del ruolo
passivo del mistico: tutto è lasciato all’azione divina.
Per i šādiliti è la desolazione lo stato preferito dai contemplativi, perché tale notte
dell’anima, implicando la privazione di ogni godimento sensibile, dispone all’attegggiamento
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di servitù verso Dio, indispensabile alla contemplazione. L’anima non deve ricercare la
benevolenza divina. Meglio le avversità che non favoriscono lo sviluppo dell’amor proprio.
Vanno accettate senza reagire, la rassegnazione e la calma scioglieranno poi rapidamente
l’animo dallo sconforto. Il servo di Dio, nel suo vivere quaggiù , deve sentirsi schiavo del suo
signore. Timore peraltro non semplicemente servile, ma filiale. Timore di perdere l’unione
esclusiva con Dio per l’affezione alle cose che non sono lui, anche quando queste siano Sue
cose, ovvero i favori e i carismi. La vita è una prigione, c’è solo l’attesa della morte.
Da qui sorge la dottrina šādilita sull’accettazione delle tribolazioni, somigliante a quello
delle scuole carmelitane. Sotto la loro rude corteccia si agitano ingenti segreti, favori e grazie
spirituali, che i contemplativi conoscono a fondo. Le avversità spingono a cercare rifugio
unicamente in Dio, fiaccano l’energia vitale e abbassano il tono delle passioni, stimolo di ogni
peccato. Favoriscono le rinunce, gli abbandoni in Dio, il desiderio di unirsi a Lui. Fanno
espiare le colpe passate. L’anima paga i suoi debiti spirituali. Vittima di piaghe e difetti fisici o
afflitto da ripugnanze morali, il contemplativo sperimenta la propria viltà . Ciò lo porta alla
ricerca di Dio e lo spinge all’orazione con grande partecipazione. Dio allora è spinto a
concedere con maggiore larghezza i suoi tesori e i suoi favori: “Le tribolazioni sono la pasqua
dei contemplativi [sentenza di Ibn ʽAtā ʼ Allā h]”.
Esattamente come in Giovanni della Croce. Chi aspira alla perfezione deve preferire la
povertà alla ricchezza, la fame all’abbondanza, il basso all’alto, la condizione vile alla nobile,
l’umiliazione all’onore, la tristezza all’allegria, l’inferno alla salute e la morte alla vita.
Anche le disposizioni alla rinuncia ai carismi adottate dai sufi ispano-musulmani della
scuola šādilita, e specialmente da Ibn ʽAbbā d di Ronda, coincidono singolarmente con le
attitudini delle scuole carmelitane, in particolare con Giovanni della Croce. Anche l’Islà m
crede alla possibilità dei prodigi carismatici (che distingue dai miracoli profetici e dalle
falsificazioni diaboliche). Secondo Ibn ʽArabī il carisma è la interruzione delle norme abituali
del mondo fisico, una rottura delle leggi della natura creata. Dio concede il carisma per
premiare gli atti buoni; è la ricompensa della virtù . A volte il carisma è un incoraggiamento a
proseguire nel cammino di perfezione, a volte è accordato a vantaggio delle terze persone. Ibn
ʽAbbā d, come Giovanni, disprezza i carismi. La loro fede non ne ha bisogno. Se non si rende
convinto di non meritare e persino di non volere l’unione, il contemplativo non la raggiungerà
mai. Deve essere soppressa ogni iniziativa, ogni autonomia, ogni decisione spontanea (così
anche in Giovanni). Solo l’atteggiamento di rinuncia prepara la strada alla concessione dei
carismi. Il pericolo è di incorrere nel peccato di vanagloria. Meglio allora celare i favori mistici,
le rivelazioni, le estasi. Solo i perfetti e i contemplativi, liberi dal pericolo di affezionarsi al
carisma come cosa di loro proprietà , possono violare la riservatezza e divulgare i favori
ricevuti, con il solo intento di edificare il prossimo.
Entrambe le scuole (Šādiliyya e Carmelo) dipendono dalla stessa tradizione, cristiana e
neoplatonica. C’è innegabile comunanza dei termini mistici e delle metafore. Forse si può dire
che la “noche oscura” di Giovanni è un simbolo più ricco di contenuto, più suggestivo e
complesso dei suoi antecedenti šādiliti. Ha un doppio significato: “notte del senso” e “notte
dello spirito”. Traduce in pratica la rinuncia a soddisfare l’appetito per ogni cosa, ed esalta
l’oscurità , il vuoto della parte razionale dell’anima.
Sembra impossibile ad Asin Palacios una mera coincidenza casuale (vista la molteplicità e la
caratteristica tipologica delle somiglianze nel pensiero e nel lessico), o il semplice
parallelismo funzionale della comune psicologia umana. Nella Spagna del XVI secolo viveva
sparso un copioso numero di moriscos da poco convertiti al cristianesimo, che certo non
hanno dimenticato l’educazione islamica ricevuta. Ovviamente i temi comuni alle due religioni
- l’ascetica e la mistica - non concernono il dogma. Dappertutto, nei luoghi percorsi da
Giovanni - Pastrana, Salamanca. Granada, Alcalà , Segovia, Avila, Toledo - le statistiche del XVII
secolo svelano la sopravvivenza di importanti centri moreschi. Forse c’erano mori anche fra
275
gli Alumbrados (Illuminati) perseguiti dall’Inquisizione. Giovanni fu, come la Šādiliyya,
contrario al quietismo e agli Illuminati. La scuola šādilita è continuata fino ai nostri giorni nei
paesi musulmani del Nord Africa dove si rifugiarono i moriscos dopo la loro espulsione dalla
Spagna. Tunisi fu il rifugio dei moriscos spagnoli.
Appare allora giustificata l’ipotesi di una trasmissione letteraria. L’intera mistica cristiana
ha impiegato il lessico dello Pseudo-Dionigi, che è in gran parte neoplatonico e, pertanto,
pagano. Non si può dimenticare che la mistica musulmana in generale, e la šādilita in
particolare, è erede diretta di quella cristiano-orientale, allo stesso che del platonismo. La sua
propagazione all’Islà m è molto probabilmente dovuta soprattutto al grande sufi persiano
Hā llaj. Si tratterebbe dunque, secondo Palacios, di un caso di restituzione culturale: un
pensiero evangelico e paolino innestato nell’Islà m del medioevo, avrebbe lì uno sviluppo ricco
di sfumature ideologiche nuove che, trasferito poi sul suolo spagnolo, i mistici spagnoli del XVI
secolo non avrebbero disdegnato di accogliere, forse senza neanche sospettare la filiazione
islamica del tronco sul quale il pensiero paolino era stato innestato. Comunque resta il fatto
sorprendente che nella Spagna del XIV secolo fiorisse un precursore musulmano di Giovanni
della Croce, il mistico cristiano le cui idee e simboli più tipici sono stati sino ad oggi, così scrive
Asin Palacios, un enigma indecifrabile, in ragione del loro difettare assolutamente di
precedenti letterari.
Granada in particolare rimase terra di arabi, e vi fu continua negli anni una presenza
islamica caratterizzata da rivolte popolari anche molto accese. Giovanni vi arrivò ne 1584, in
occasione della fondazione del nuovo convento degli Scalzi, e si trovò a vivere, nei primi
tempi, anche a stretto contatto con i moriscos nel quartiere di El Albaicìn. Fu a Granada che
Giovanni dette l’avvio alla serie dei laboriosi commenti alle sue opere poetiche più importanti
e conosciute, dove i temi teologico-mistici che lo hanno poi caratterizzato sono stati precisati.
Prima dei commenti Giovanni non aveva mai approfondito temi come quelli del vuoto, della
itotale rinuncia, della passività , della sottomissione completa, temi che sono molto presenti
negli scritti della Šādiliyya, e che poteva indubbiamente avere avvicinato al tempo della sua
permanenza a Granada. Temi che, va detto, non erano mai stati da lui affrontati con quella
forza e quella precisione, tantomeno nei versi sparsi che aveva scritto durante tutta la vita. Il
pensiero mistico di Giovanni si precisa negli anni di Granada, e va poi a investire i suoi versi,
colorandoli di un misticismo nuovo e duro, che vela i palpiti dolci che contenevano. Il suo
referente letterario erano state le Scritture e soprattutto il Cantico dei cantici. Il suo “Cantico
spirituale” ne è platealmente l’eco ingenua e sterile. Tutta la sovrastruttura teologico-mistica
matura e si precisa al momento dei commenti, a Granada. Dove forse aveva scoperto le parole
che corrispondevano a quanto confusamente aveva sentito nel suo animo negli anni
precedenti, senza avere avuto la capacità di organizzarlo in un pensiero completo.

Affascinato dal Cantico dei cantici

Queste le parole con cui Giovanni della Croce introduce il commento al Cantico espiritual,
commento scritto su pressanti richieste della sua “sorella spirituale” Anna di Gesù , quasi
coetanea, conosciuta sin dai tempi dell’Incarnazione ad Avila e ora priora a Granada.

Poiché sembra, Reverenda Madre, che queste strofe siano state scritte con un certo fervore di amore di
Dio […] non ho intenzione di dichiarare tutta l’ampiezza e la copia che lo spirito fecondo d’amore vi ha
racchiuso. Sarebbe anzi da ignoranti credere che in qualche modo si possano spiegare bene a parole i
detti d’amore nell’intelligenza mistica, quali sono quelli delle strofe seguenti […] Invero, chi potrà
descrivere ciò che Egli fa capire alle anime innamorate dove dimora? E chi ha parole sufficienti per
esprimere ciò che fa loro sentire o desiderare? Certamente nessuno lo può , neppure quelle stesse
persone in cui ciò accade. Questa è la causa per cui piuttosto che spiegarlo con ragioni, esse

276
preferiscono far comprendere parte di quel che sentono servendosi di figure, comparazioni e
similitudini, e dall’abbondanza dello spirito spargono segreti misteri.
Queste similitudini sembrano spropositi piuttosto che detti ispirati dalla ragione, se non si leggono con
la semplicità di spirito e di intelligenza che contengono, secondo quanto possiamo osservare nel divino
Cantico di Salomone e in altri libri della Sacra Scrittura dove lo Spirito Santo, non potendo farci
intendere l’abbondanza del suo senso con termini volgari e usuali, rivela i misteri usando figure e
immagini strane […] Essendo dunque queste strofe state composte in amore di abbondante
intelligenza mistica non si potranno spiegare con esattezza, né questo sarà il mio intento […]
quantunque vengano spiegati [i detti d’amore, ndr.] in una maniera, non vi è bisogno di attaccarsi a
tale spiegazione giacchè non è necessario capire distintamente la sapienza mistica, che è per amore, e
di cui trattano le seguenti strofe, per produrre effetti ed affetti d’amore nell’anima, essendo conforme
alla fede, mediante la quale serviamo Dio senza comprenderlo. cclvii

Circa venti strofe, tra le quaranta del suo Cantico espiritual, sono calchi di versi, immagini o
situazioni del Cantico biblico. La cosa non può non sorprendere, quando sappiamo che il
Cantico espiritual è stato per tutta la vita il tesoro più grande di Giovanni, il suo vanto e la
chiave che gli apriva le porte dei monasteri del Carmelo spagnolo. La ragione di tanto successo
deve per forza di cose collegarsi alla situazione culturale delle donne, anche delle religiose,
dell’epoca. In realtà il testo del Cantico dei cantici, compreso nella vulgata latina della Bibbia
elaborata da S. Girolamo nel 318 d.C., non era ben conosciuto dalle monache. Sappiamo che le
donne, anche le religiose, non si intendevano di latino, e la Chiesa non permetteva alle donne
di studiarlo. Dovevano accontentarsi dei normali libri di preghiere e degli insegnamenti orali
dei loro direttori spirituali.
Le donne non potevano frequentare l’università e nel 1559 il tribunale dell’Inquisizione
aveva proibito la pubblicazione di libri di spiritualità in lingua volgare. Dal 1572 al 1576, Luis
de Leò n, famoso professore dell’università di Salamanca, agostiniano, docente di teologia e
mistico, fu imprigionato e processato dall’Inquisizione per avere tradotto il Cantico dei cantici
in castigliano, con un commento ritenuto troppo letterale. Teresa d’Avila, nel 1566, aveva
scritto i suoi “Pensieri sull’amore di Dio” - delle meditazioni sul Cantico dei cantici - ma il libro
finì distrutto perché ritenuto sconveniente. In fondo il poema di Giovanni aveva una funzione
divulgativa rispetto a un testo - il Cantico biblico - malconosciuto, che incuriosiva molto.
Nell’introduzione al commento del suo poema Giovanni esalta la figura della monaca come
Amante privilegiata del Cristo, votata in terra ad essere sua Sposa nel matrimonio spirituale,
rifacendosi fedelmente alla tradizione interpretativa del Cantico dei cantici come allegoria
sacra. Che Giovanni della Croce amasse oltremodo il Cantico biblico lo dimostrò anche in
punto di morte, quando volle ascoltarne dei versi al posto della preghiera per i moribondi:
“Quali perle preziose!”, fu il suo commento.
Così Giovanni inquadra l’argomento del suo Cantico espiritual:

Nell’ordine seguito da queste strofe si traccia il cammino di un’anima dal momento in cui comincia a
servire Dio fino a quello in cui giunge all’ultimo stato di perfezione, cioè al matrimonio spirituale. E
così in esse si parla dei tre stati, o vie dell’esercizio spirituale, attraverso le quali l’anima giunge allo
stato di cui sopra, che sono quello purificativo, quello illuminativo e quello unitivo, e vengono spiegate
alcune loro proprietà ed effetti.
Le prime strofe trattano dei principianti, che si trovano nella via purgativa. Quelle più avanti parlano
dei proficienti, cioè della via illuminativa, dove si realizza il fidanzamento spirituale. Seguono poi
quelle che trattano della via unitiva, cioè quella dei perfetti, dove avviene il matrimonio spirituale, via
la quale avviene dopo quella illuminativa, o dei proficienti. Le ultime strofe parlano dello stato di
beatitudine a cui l’anima, già nello stato di perfezione, soltanto aspira.cclviii

Non voglio riportare per intero il lungo testo poetico. Una selezione di versi che si
richiamano apertamente al Cantico biblico è sufficiente a dimostrare la natura surrettizia
277
dell’opera, e ci fa comprendere le ragioni del suo successo nell’ambito femminile del Carmelo:
il poema di Giovanni era tagliato a misura della sensibilità delle monache. Esibiva un io
narrante al femminile che consentiva l’immedesimazione e toccava legittimandoli, ma con
mano molto sfuggente, anche temi “amorosi” gratificanti per anime sofferenti che spesso
vivevano tali aspetti al limite del patologico.

Cantico spirituale Cantico dei cantici

1 - Dove ti nascondesti, 3,1-2 – Sul mio giaciglio, lungo la notte ho cercato


in gemiti lasciandomi, o Diletto? l’amante del mio cuore;
Come il cervo fuggisti, l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
dopo avermi ferito; “Mi alzerò e farò il giro della città;
ti uscii dietro gridando: ti eri involato. per le strade e per le piazze;
voglio cercare l’amato del mio cuore”.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato.

2 – Pastori, voi che andate 1,7 – Dimmi, o amore dell’anima mia,


di stazzo in stazzo, fino all’alto monte, dove vai a pascolare il gregge,
se per caso incontrate dove lo fai riposare al meriggio,
chi più di ogni altro bramo, perché io non sia come vagabonda
ditegli che languisco, soffro e muoio. dietro i greggi dei tuoi compagni.

5 – Mille grazie spargendo 2,8 – Una voce! Il mio diletto!


passò per questi boschi con snellezza Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline.

15 – è come notte calma 2,17 – Prima che spiri la brezza del giorno
molto vicino al sorger dell’aurora e si allunghino le ombre

16 – Prendeteci le volpi, 2,15 – Prendeteci le volpi,


ché fiorita è ormai la nostra vigna le volpi piccoline
che guastano le vigne

17 – Fermati, o borea morto, 4,16 – Levati, aquilone, e tu, austro, vieni


austro vieni, che susciti gli amori, soffia nel mio giardino,
spira per il mio orto si effondano i suoi aromi.
sì che corran gli odori Venga il mio diletto nel suo giardino
e l’Amato si pasca in mezzo ai fiori. e ne mangi i frutti squisiti.

19 – Nasconditi, o Diletto 2,17 – ritorna, o mio diletto


e volgi la tua faccia alle montagne [ . . . . . . . .]
sopra i monti degli aromi.

21 – non mi toccate il muro, 2,7 –non destate, non scuotete dal sonno
l’amata
perché la sposa dorma più al sicuro. finché essa non lo voglia.

22 – Entrata ormai è la sposa 5,1 – Son venuto nel mio giardino,


nel già desiato giardinetto ameno, sorella mia sposa
a suo piacer riposa,
278
il collo reclinato 8,3 – La sua sinistra è sotto il mio capo
sopra le dolci braccia dell’Amato. e la sua destra mi abbraccia.

23 – Di un melo sotto i rami 8,5 – Sotto il melo ti ho svegliata;


quivi da me tu fosti disposata, là, dove ti concepì tua madre,
[. . . . . . . .] là, dove la tua genitrice ti partorì.
colà dove tua madre fu violata.

24 – Fiorito è il nostro letto, 1,16 – Anche il nostro letto è verdeggiante.


da tane di leoni circondato, 4,4 – Come la torre di Davide il tuo collo
da porpora protetto, costruita a guisa di fortezza.
in pace edificato, Mille scudi vi sono appesi,
di mille scudi d’oro incastonato. tutte armature di prodi.

25 – Dietro le tue vestigia 1,4 – Attirami, dietro a te corriamo!


le giovani scorrazzano in cammino, M’introduca il re nelle sue stanze:
al tocco di scintilla, gioiremo e ci rallegreremo per te,
al rinforzato vino, ricorderemo le tue tenerezze più del vino.
emissioni di balsamo divino. A ragione ti amano!

26 – Nell’intima cantina 2,4 – Mi ha introdotto nella cella del vino


io bevvi dell’Amato, quindi uscita e il suo vessillo su di me è amore.
alla pianura bella 1,6 – I figli di mia madre si sono sdegnati con me
tutto dimenticai, mi hanno messo a guardia delle vigne;
anche il gregge smarrii, prima seguito. la mia vigna, la mia, non l’ho custodita.

29 – dite che son smarrita, 5,8 – se trovate il mio diletto,


che, essendo innamorata, che cosa gli racconterete!
mi son persa volendo e ho guadagnato. Che sono malata d’amore!

33 – Non voler disprezzarmi, 1,5 – Bruna sono, ma bella


se di colore bruno mi hai trovata 1,6 – Non state a guardare che sono bruna,
perché mi ha abbronzata il sole.

34 – La bianca colombella 2,14 – O mia colomba che stai nella fenditura..


col ramoscello all’arca è ritornata, 6,9 - Ma unica è la mia colomba,
e già la tortorella la mia perfetta
il suo compagno amato 2,11 – e la voce della tortora ancora si fa
sentire
lungo il verde ruscello ha ritrovato. nella nostra campagna.

35 – nel deserto la guida 8,5 – Chi è colei che sale dal deserto,
da solo il suo Diletto appoggiata al suo diletto?

36 – Godiam l’un l’altro, Amato, 7,12 – Vieni, mio diletto,


in tua beltà a contemplarci andiamo, andiamo nei campi,
sul monte e la collina passiamo la notte nei villaggi.
dove l’acqua pura sgorga; 7,13 –Di buon mattino andremo alle vigne…
dove è più folto dentro penetriamo. là ti darò le mie carezze!

37 – colà noi entreremo, 8,2 – Ti farei bere vino aromatico,


279
di melagrana il succo gusteremo. del succo del mio melograno.

L’operazione compiuta da Giovanni a ridosso del Cantico biblico conferma la natura della
sua poesia: nata da esigenze religiose e specchio di un’anima limpida, ma prigioniera
dell’ortodossia e del conformismo. Una poesia, ed un autore, sostanzialmente ingenui, anche
se corroborati dalla conoscenza approfondita delle Scritture, del pensiero tomistico e dei
dogmi cattolici, e sorretti da una fede autentica. Una poesia e una storia, quella di Giovanni
della Croce, che potrebbero essere respirate ancora oggi, credo, all’interno delle vecchie mura,
o nei ricordi delle anziane monache e dei loro stagionati assistenti e confessori. Emanano
inevitabilmente un odore di chiuso, di antico, come quello che si avverte sfogliando tante
pubblicazioni “interne” agli ordini religiosi e alle parrocchie, anche se evidenziano una certa
modernità editoriale a livello della presentazione.
Non credo che i versi del Cantico spirituale, di per sé, aggiungano molto a quanto si può
comprendere di Giovanni e della sua mistica semplicemente approfondendo i commenti
dettagliati alle opere poetiche da lui elaborati, e leggendo le sue lettere. Personalmente lo
ritengo un’operina spuria, mera rielaborazione di temi presi dal Cantico biblico, come tale
fredda e artificiosa. Non vi ravviso la forza e il coraggio, la teatralità , delle allegorie della Notte
oscura, e tanto meno la serena bellezza e la fascinosa poesia del Cantico biblico. Giovanni non
ha voluto, né potuto, neppure sfiorare la fisicità di certi temi a carattere erotico che
costituiscono la natura e la forza dirompente, incensurabile e senza tempo, del Cantico dei
cantici.
il mio nardo spande il suo profumo.
Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra,
riposa sul mio petto. (1,12-13)
Sul mio giaciglio, lungo la notte, ho cercato
l’amato del mio cuore (3,1)
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,
che risalgono dal bagno (4,2)
Come un nastro di porpora le tue labbra
e la tua bocca è soffusa di grazia;
come spicchio di melagrana la tua gota
attraverso il tuo velo. (4,3)
I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli. (4,5)
Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,
c’è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti
è come il profumo del Libano. (4,11)
Il suo petto è tutto d’avorio,
tempestato di zaffiri.
Le sue gambe colonne di alabastro (5,14-15)
Dolcezza è il suo palato;
egli è tutto delizia! (5,16)
Io sono per il mio diletto
e il mio diletto è per me;
egli pascola il gregge tra i gigli. (6,3)
Il tuo ombelico è una coppa rotonda
che non manca mai di vino drogato.
280
Il tuo ventre è un mucchio di grano,
circondato dai gigli.
I tuoi seni come due cerbiatti ,
gemelli di gazzella. (7,3-4)cclix

Eppure dovevano essere anche queste le perle preziose del Cantico a cui avrebbe fatto
riferimento nei suoi ultimi istanti di vita.

Dei diletti e delle pene

Giovanni si mostra critico verso coloro che, contemplativi avanzati, fanno caso alle
senzazioni piacevoli, a volte anche esaltanti, che provano durante l’orazione. Riconosce tali
evenienze, ma non vuole che sia dato loro eccessivo peso, negando che siano da attribuire a
particolari concessioni divine. Credo che lo fosse anche nei confronti di Teresa, con la quale
ebbe discussioni anche accese sull’argomento. Li reputa giustamente accadimenti legati alla
predisposizione personale di ciscuno e conseguenti al raccoglimento interiore e all’abbandono
di sé. Pur riconoscendo l’esistenza di tali piaceri - e credo che fossero anche a lui ben noti - li
giudica fuorvianti, quasi un impedimento sulla strada da lui indicata che vede invece nel vuoto
interiore, nella rinuncia e nell’aridità , i veri conseguimenti che testimoniano il progredire
verso la conoscenza. La sua è una posizione ideologica: solo la sofferenza interiore può aprire
la porta verso la divinità . Sui piaceri dei mistici molte cose interessanti possono essere trovate
negli scritti di Giovanni e di Teresa. All’argomento si collega anche il tema, sempre solo
sfiorato, dei cosiddetti carismi, in particolare quello della levitazione sul quale avrò occasione
di fare un minimo di chiarezza. Utile poi il raffronto senza pretese con quanto si può rilevare
di analogo presso altre culture, religiose o filosofiche.
Inizio vedendo un passo, tratto dal commento alla Notte oscura e forse eccentrico rispetto al
preannunciato tema dei diletti dei mistici, che dimostra comunque quanto Giovanni fosse
libero, sincero e onesto, anche su argomenti sicuramente scabrosi. Uno scritto, questo, che
credo potrebbe difficilmente trovare serena accoglienza nel turbato clima religioso di oggi:

I principianti hanno molte imperfezioni alle quali si potrebbe dare il nome di lussuria spirituale, non
perché in realtà sia tale, ma perché procede da cose spirituali. Avviene spesso che durante gli stessi
esercizi devoti insorgano e si verifichino nella sensibilità , senza che sia possibile impedirli, movimenti
e atti turpi anche quando lo spirito è immerso in orazione o si accosta ai Sacramenti della Penitenza e
dell’Eucarestia […] La prima causa è il piacere che la natura prova nelle cose spirituali. Infatti, poiché il
senso e lo spirito gustano tali cose, ciascuna parte dell’uomo vi trova piacere secondo la propria
natura e la propria qualità. Allora lo spirito, che è la parte superiore, si muove a gusto e diletto di Dio,
mentre la sensualità che è la parte inferiore si eccita a gusto e diletto sensuale; non sapendo essa
rivolgersi ad altri piaceri, si aggrappa a ciò che a lei è più consono, cioè al turpe sensuale. Accade
quindi che mentre l’anima, secondo lo spirito, se ne sta con Dio immersa in orazione, il fisico secondo il
senso prova passivamente, con grande sua ripugnanza, ribellioni, movimenti e sensazioni sensuali.
Tale cosa avviene frequentemente durante la Comunione; poiché l’anima riceve in questo atto gioia e
diletto, concessole dal Signore, il quale si dà a lei proprio per tale scopo, anche la sensualità , a modo
suo, prende la sua parte […] Vi sono anime dotate di una natura tanto sensibile e fragile le quali,
appena provano qualche gusto di spirito o di orazione, sentono immediatamente in sé lo spirito di
lussuria il quale ne inebria e lusinga la sensualità , talché esse si trovano ingolfate nel piacere
procedente da questo vizio. L’uno insieme con l’altro perdura in modo passivo e qualche volta costoro
si accorgono che si sono verificati alcuni atti turpi e contrari alla ragione. Ciò è causato dal fatto che a
tali nature le quali, come ho detto, sono sensibili e fragili, con la minima alterazione si turbano gli
umori e il sangue […] Alcuni di costoro, per via spirituale contraggono degli affetti che spesso nascono
non da spirito, ma da lussuria. Si conosce essere così, allorché, insieme con la memoria di

281
quell’affezione, non crescono anche il ricordo e l’amore di Dio, ma aumenta solo il rimorso dellla
coscienza.cclx

Torno all’argomento sottolineando che la realtà delle gioie legate alla meditazione, alla
contemplazione, all’orazione, è stata vista, presso molti religiosi cristiani, come anticipazione
di gioie celesti, come grazia e dono. Queste che seguono sono le valutazioni di Giovanni. Non è
più qui questione di “lussuria spirituale”. Così critica l’atteggiamento di molti contemplativi
verso i diletti e le gioie facilmente sperimentabili ai primi passi sul difficile sentiero che porta
alla vetta del monte:

Credono infatti che sia sufficiente rinnegare la propria natura solo in ciò che riguarda il mondo e non
che si debba anche annientarla e purificarla in ciò che appartiene allo spirito. Per questo motivo,
quando si presenta loro qualcosa di solido e di perfetto, come sarebbe quello di rinunciare alla ricerca
di ogni soavità in Dio e di restare nell’aridità , nella sofferenza e nei travagli, in cui consiste la pura
croce e la nudità dello spirito povero di Cristo, tali anime rifuggono da tutto ciò come dalla morte e
vanno cercando nel Signore solo dolcezze e comunicazioni soavi, il che non è certamente rinuncia a se
stessi e nudità di spirito, ma ingordigia spirituale […] cercare se stessi in Dio è desiderare i doni e le
consolazioni divine; cercare invece Dio in noi stessi vuol dire non solo rinunciare a tutto per amore di
Lui, ma in forza di questo amore essere propensi a scegliere quanto di più disgustoso c’è sia da parte di
Dio che da quella del mondo. Questo è il vero amore di Dio.cclxi

Così Giovanni parla delle autentiche gioie - lui le chiama “unzioni spirituali” - riservate ai
contemplativi avanzati:

Circa la vista sogliono presentarsi loro figure e personaggi dell’altra vita, sembianti di santi e di angeli,
buoni e cattivi, luci e splendori straordinari. Con l’udito possono percepire parole strane, ora
pronunziate dalle figure loro apparse, ora senza vedere chi le proferisce. Con l’odorato avvertono
talvolta odori soavissimi, senza sapere di dove provengano. Accade che anche con il gusto possono
percepire qualche sapore molto piacevole e con il tatto un diletto che talvolta è così grande da
sembrare che tutte le midolla e le ossa esultino e fioriscano o nuotino nel piacere. Tale è la cosi detta
unzione dello spirito che da questo si diffonde nelle membra delle anime pure. Nelle persone spirituali
è molto comune questo gusto sensibile il quale deriva in loro dall’affetto e dalla devozione sensibile
dello spirito, in maggiore o minore abbondanza, a seconda della capacità di ciascuna di esse.cclxii
A causa della sua unione con lo spirito, da questo bene dell’anima ridonda talvolta nel corpo l’unzione
dello Spirito Santo; tutta la sostanza sensibile e tutte le membra, le ossa e le midolla godono non
debolmente come suole accadere, ma con un gran sentimento di diletto e gloria, che si sente fino alle
estreme congiunture dei piedi e delle mani.cclxiii

L’anima, purificata da un lungo processo di rinuncia al mondo, agli appetiti terreni e a ogni
forma di terreno godimento, si appresta finalmente ad unirsi spiritualmente con la divinità .
Qui il diletto è legittimo e il godimento sacrosanto perché ultraterreno. La situazione è certo
difficilmente descrivibile anche per Giovanni, che ne rimarca l’ineffabilità . Sembra più un
diletto dello spirito che del corpo. Così Giovanni descrive ciò che avviene all’anima durante la
trasformazione beatifica:

Lo Spirito Santo con la sua spirazione divina innalza l’anima in maniera sublime e la informa e le dà
capacità affinché ella spiri in Dio la medesima spirazione di amore che il Padre spira nel Figlio e il
Figlio nel Padre, che è lo stesso Spirito Santo, che in questa trasformazione spira in lei nel Padre e nel
Figlio per unirla a sé […] Tale spirare dello Spirito Santo, per mezzo del quale Dio la trasforma in sé,
procura all’anima un diletto tanto sublime, delicato e profondo che non può essere espresso da lingua
mortale e non può essere appreso, neppure in parte, dall’intelletto umano in quanto tale. Non si può
riferire nemmeno quello che nella trasformazione temporale avviene nell’anima circa tale

282
comunicazione perché ella, trasformata in Dio e unita con Lui, spira a Dio in Dio la stessa spirazione
che il Signore compie in lei divinamente trasformata. cclxiv

Il brano seguente assomiglia molto a quello, più conosciuto, scritto da Teresa nel Libro de la
vida, sulla sua famosa “transverberazione”, al quale Giovanni deve essersi rifatto:

O piaga deliziosa prodotta da colui che non sa fare altro che sanare! O piaga fortunatissima, poiché sei
stata fatta unicamente per dilettare, la cui peculiarità è diletto dell’anima ferita! Grande sei, o piaga,
essendo grande colui che ti ha fatta e grande è il piacere generato da te, perché infinito è il fuoco
d’amore che ti diletta, secondo la tua capacità e grandezza! O piaga veramente deliziosa e tanto più
profondamente deliziosa quanto più il cauterio di amore è penetrato nell’intimo della sostanza
dell’anima, bruciando tutto ciò che si poteva bruciare, per dilettare quanto si poteva dilettare! […] si
tratta di un tocco della Divinità nell’anima senza alcuna forma né figura intellettuale o immaginaria.
V’è però un’altra maniera molto sublime di cauterizzare l’anima con forma intellettuale, ed è la
seguente. Potrà accadere che, essendo l’anima infiammata di amore di Dio, come è stato detto, benché
non lo sia in grado molto elevato (ma conviene molto che lo sia, per quello che voglio dire), si sentirà
investire da un Serafino con un dardo o una freccia ardentissima di fuoco amoroso. Questo dardo,
trafiggendo l’anima già accesa come brace o per dire meglio, come fiamma, la cauterizza in modo
sublime. Allora, questa cauterizzazione, trafitta l’anima con la saetta di cui si è parlato, fa sì che la
fiamma di essa immediatamente si innalzi con la veemenza stessa con cui si avviva una fornace o una
fucina allorché vi si attizza o vi si alimenta il fuoco. Ferita da questo dardo acceso l’anima gusta la
piaga con diletto sovrano perché, oltre ad essere tutta sconvolta con grande soavità per l’impetuosa
mozione cagionata da quel Serafino, in cui prova un grande ardore e uno struggimento d’amore, sente
anche la soave ferita e la virtù dell’erba con cui è stato temprato il ferro, come una punta viva nella
sostanza dello spirito, nel suo cuore trafitto.
Chi potrà parlare come si conviene di questo punto intimo della ferita che sembra colpire il centro
dello spirito, dove si gusta il massimo diletto? All’anima sembra di avere in quel punto un granello di
senape molto piccolo e acceso che irradia alla periferia un vivo e ardente fuoco di amore […] questo
fuoco si sente infondere sottilmente per tutte le vene spirituali e sostanziali dell’anima […] Ella allora
sente che cresce e si rinvigorisce nell’ardore e che, per mezzo di esso, si raffina nell’amore in maniera
così alta da sembrarle un mare di fuoco amoroso che penetra in tutto il suo organismo, ricolmandolo
di amore.cclxv

Un inciso. Questa fascinazione per la simbologia del “fuoco” è ricorrente in Giovanni e


richiama il passo seguente, tratto dal suo commento alla Noche oscura. Vi trovo una
sconcertante corrispondenza con le condanne al rogo per gli eretici comminate dal tribunale
dell’Inquisizione. C’era condivisione in Giovanni sul ruolo positivo del fuoco ai fini di una
rigenerazione dell’anima del peccatore?

la cognizione purificativa e amorosa, o luce divina di cui parliamo, purificando e disponendo l’anima
per unirla perfettamente con sé, si comporta come il fuoco in un legno per trasformarlo in sé. La prima
cosa che fa il fuoco materiale, quando viene appiccato al legno, è quello di incominciare a seccarlo
cacciandone fuori l’umidità e facendone gemere l’umore in esso contenuto. Lo fa poi diventare oscuro,
nero e brutto, facendogli emanare anche cattivo odore e, mentre a poco a poco lo dissecca, ne mette
alla luce e toglie tutti gli accidenti brutti e oscuri, contrari al fuoco. Infine, investendolo dal di fuori con
la fiamma e comunicandogli calore, lo trasforma in sé rendendolo bello come il fuoco stesso […] con il
ragionamento dobbiamo applicare questo processo al divino fuoco di amore della contemplazione il
quale, prima di unire e trasformare in sé l’anima, la purifica da tutti gli accidenti a sé contrari. La fa
uscire fuori dalle sue indegnità, la rende nera e oscura, talché ella sembra peggiore, più brutta e più
abominevole di prima. Infatti questa divina purificazione rinnova a poco a poco tutti i mali e tutti i
viziosi umori che l’anima non riusciva a vedere […] Ora invece, per cacciarli fuori e per annichilirli, ella
se li pone davanti agli occhi e li vede molto chiaramente perché illuminata dalla luce oscura di
contemplazione divina […] da ciò possiamo dedurre la maniera di soffrire delle anime del Purgatorio. Il
fuoco da cui sono avvolte non avrebbe alcun potere su di esse, se non avessero alcuna imperfezione in
283
cui patire. Queste costituiscono la materia su cui il fuoco può compiere la sua azione; finita questa
materia non vi resta niente altro da bruciare.cclxvi

Nelle opere di Giovanni spicca l’assenza di elementi che consentano di delinearne l’umano
carattere, la personalità dell’uomo, al di là degli aspetti squisitamente religiosi. Come ho detto
all’inizio, non troviamo accenni al mondo circostante, commenti di tipo politico o altro, che ci
illuminino. Penso siano significative queste due “perle” che ci dicono quanto Giovanni fosse
fino in fondo un uomo del suo tempo.
Dagli insegnamenti di Giovanni raccolti da Fra Eliseo dei Martiri:

Essendogli stato presentato un aspirante all’abito, dopo avergli parlato qualche volta, disse che non lo
ricevessero, perché la sua bocca emanava odore cattivo. Tale odore procedeva dalle interiora malate.
Ordinariamente tali persone sono male inclinate, crudeli, menzognere, timorose, calunniatrici, ecc. E’
regola della filosofia che i costumi dell’anima seguono la natura e le complessioni del corpo. cclxvii

Dal commento al Cantico spirituale:

L’anima dunque dice: O ninfe di Giudea! Chiama Giudea la parte inferiore dell’anima, cioè quella
sensitiva, perché essa di suo è fiacca, carnale e cieca, come la gente giudaica. cclxviii

I diletti di Teresa d’Avila

Per Giovanni i diletti “veri” sono prova del raggiungimento di un particolare conseguimento
sulla via dell’orazione, segnali di uno stato di vicinanza con il trascendente. Ma vanno
comunque ignorati. Teresa invece li vive fieramente come un anticipo dei piaceri della gloria
celeste che Dio le concede per ragioni misteriose:

L’orazione non stanca, anche se dura molto […] quest’anima va ormai elevandosi dalla sua miseria ed
ormai le è concesso di conoscere qualche piccola cosa dei piaceri della gloria celeste […] La Divina
Maestà infatti comincia a farsi conoscere da quest’anima e vuole che essa senta come Egli si fa
conoscere. Giungendo a questo stato si comincia a perdere il desiderio delle cose terrene e delle loro
poche soddisfazioni perché si vede ben chiaramente che un solo momento di quella delizia non si può
ottenerla qui, né vi sono ricchezze né potenze né onori né diletti che possano dare neppure una
fuggevole visione di quel godimento, perché esso è reale ed è un godimento che ci soddisfa.cclxix
Mentre l’anima cerca Dio si sente con un diletto grandissimo e soave smarrirsi tutta in un grande
svenimento che le toglie lentamente il respiro e tutte le forze corporali di modo che, se non con molta
fatica, non può muovere neppure le mani; gli occhi le si chiudono senza volerli chiudere o se li tiene
aperti non vede quasi nulla […] i sensi non l’aiutano in nulla e le recano danno fino a quando non la
abbandoneranno al suo godimento […] secondo quanto mi pare, per quanto la sospensione in cui
l’anima è rimasta, sia di lunga durata, effettivamente è breve; se arriva a mezz’ora è già molto; mi pare
di non esservi mai rimasta di più [è il tempo canonico di ogni seduta di meditazione, di qualsiasi tipo e
natura, ndr.] […] In tale condizione si può passare alcune ore in orazione, e si passano perché quando
le due facoltà [intelletto e immaginazione, ndr.] cominciano a ubriacarsi ed a gustare quel vino divino
[il vino dei mistici! ndr.], con facilità ritornano a smarrirsi, per stare più unite ed accompagnare la
volontà e godere tutte assieme.cclxx

Segue la descrizione delle sue famose “transverberazioni”, ripresa anche da Giovanni. Lui la
attribuisce ad un Serafino, Teresa ad un Cherubino. Credo che l’esperienza sia stata vissuta da
Teresa e raccontata a Giovanni che la inserì poi nel commento alla Llama quando Teresa era
ormai morta da qualche anno. Evidentemente Giovanni ricordava un Serafino… :

Il Signore volle che vedessi qualche volta questa visione: vedevo un angelo vicino a me, al mio fianco
sinistro, in forma corporea, cosa che non sono solita a vedere senza meravigliarmene; anche se spesso
284
mi appaiono degli angeli, avveniva senza che io li vedessi […] Questa visione il Signore volle che la
vedessi così: non era grande, ma piccolo, molto bello con il viso tanto ardente da parere quello degli
angeli più elevati che paiono ardere tutti (devono essere quelli che chiamano cherubini, però essi non
mi dicono i loro nomi; tuttavia vedo che nel cielo vi è molta differenza fra un angelo e l’altro, e fra
questi e quelli, anche se non so nominarli); gli vedevo fra le mani un lungo dardo d’oro e in cima al
ferro mi pareva che avesse un po’ di fuoco. Mi sembrava che con esso mi trapassasse il cuore diverse
volte e che lo facesse giungere fino alle viscere; quando lo toglieva mi pareva che lo portasse con sé
lasciandomi tutta ardente di grande amore di Dio. Era così grande il dolore da farmi emettere quei
gemiti, e così intensa la soavità che mi infondeva questo grandissimo dolore da desiderare che non mi
fosse tolto mentre l’anima non era paga se non di Dio. Non è dolore corporale, ma spirituale, anche se il
corpo vi partecipa in parte ed anche abbastanza. E’ un amore soavissimo fra l’anima e Dio che io
supplico la divina bontà di far gustare a chi pensasse che mento. Durante i giorni in cui provavo questo
mi muovevo come intontita; non avrei voluto né vedere né parlare, ma stare abbracciata alla mia pena
che per me era la gloria maggiore di quante vi sono in tutto il creato. Questo provavo qualche volta
quando il Signore volle che mi venissero quei rapimenti così forti che, anche se ero fra la gente, non
potevo oppormi ad essi per cui con mio grande dolore cominciarono ad essere divulgati. Da quando li
ho, non sento più tanto quella pena, la quale però in confronto a quella di cui parlai prima in altra parte
– non ricordo più in quale capitolo - è molto differente in molte cose, e di maggior valore. Prima di
cominciare a provare la pena di cui parlo, sembra che il Signore rapisca l’anima e la ponga in estasi, e
così non vi è tempo di soffrire, né di capire perché giunge subito al godimento.cclxxi

In questo passo tratto dalla Vida Teresa, contemplativa avanzata, esamina così la differenza
fra l’unione e il rapimento:

Con il favore di Dio vorrei spiegare la differenza che esiste fra l’unione ed il rapimento o elevazione o
quello che chiamano volo dello spirito o trasporto che è tutto una cosa sola; dico che questi differenti
nomi significano la stessa cosa che si chiama anche estasi. Essa supera di gran lunga l’unione, i suoi
effetti sono molto maggiori e compie molte altre azioni perché l’unione sembra principio, mezzo e fine,
e agisce all’interno dell’anima, e siccome questi altri fini sono di un grado più elevato, agiscono
interiormente ed esteriormente. Spieghi questo il Signore come ha fatto per tutto il resto perché,
certamente, se la Divina Maestà non mi avesse fatto comprendere in qual modo potessi spiegarmi, io
non avrei saputo farlo […] Durante questi rapimenti sembra che l’anima non vivifichi più il corpo e così
esso sente, molto sensibilmente, che gli viene a mancare il calore naturale; si raffredda lentamentre
anche se con grandissima soavità e diletto; non è possibile opporsi a questo stato. Nell’unione invece,
poiché ci troviamo ancora sulla terra, si può ancora farlo; si può quasi sempre resistere anche se a
fatica e facendo grandi sforzi. In questa condizione invece il più delle volte, se non tutte, non si può fare
nulla perché spesso, senza che il pensiero sia prevenuto e senza alcun sforzo, si prova un trasporto
così improvviso e violento per cui potete vedere e sentire alzarsi questa nube, ossia quest’aquila
imperiale, e trascinarvi innalzandovi con le sue ali.cclxxii

Non so, ma non credo che Giovanni avrebbe condiviso . Mite com’era forse non avrebbe
osato eccepire di fronte a Teresa su queste cose, anche se sappiamo che a volte litigavano.

Diletti comparabili

Trovo molto significativo che analoghi stati di particolare benessere e soddisfazione


interiore risultino raggiungibili anche in situazioni e in orizzonti culturali e religiosi del tutto
diversi. Una selezione di brani provenienti da testi che fanno riferimento a diverse scuole e
dottrine orientali dimostra in modo inoppugnabile che tali conseguimenti, intesi da Giovanni e
Teresa come successi di tipo mistico sulla via di Cristo, segnali di passi effettuati in
improbabili ascese mistiche, sono in definitiva solo il portato della situazione di
estraniamento raggiunta nella contemplazione, e dimostrano, questo sì, che oltre la mente
“contingente” esiste uno stato fisico-psichico indefinibile, i cui caratteri ci sfuggono,
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potenzialmente ricco di piacevoli sorprese, che è possibile avvicinare nella calma, nel vuoto
interiore, nell’oblìo di sé.
Si descrivono esperienze variamente assimilabili a quelle che abbiamo visto, riscontrabili
normalmente fra i praticanti delle discipline “pneumatiche” taoiste, buddiste e yoga:

All’inizio le nostre sensazioni saranno prevalentemente di origine sessuale, gli uomini potranno
avvertire una sorta di vibrazione ai testicoli o nella prostata, le donne invece potranno percepire delle
vibrazioni o delle espansioni e contrazioni nell’utero o nei seni. Tutti questi fenomeni sono difficili da
descrivere accuratamente poiché non esiste un linguaggio adeguato a queste esperienze interiori. Tali
fenomeni variano moltissimo anche da persona a persona. Il termine generale cinese per includere
tutte queste sensazioni è “Yang Qi”. L’apparire di particolari segnali di eccitazione sessuale indica che è
stato raggiunto uno stadio cruciale e, naturalmente, ciò potrà renderci molto felici perché è
l’indicazione di un progresso.cclxxiii
La concentrazione può essere sia interna sia esterna. Quando è esterna, l’attenzione è diretta su un
oggetto esterno, come ad esempio una rosa, la cima di una montagna, un disegno, ecc. Questa tecnica è
lenta ma sicura e non c’è la possibilità di incorrere in risultati negativi. La prima è la concentrazione su
un punto del corpo, chiamato Chia, ossia Tan-Tien, un punto tre dita sotto l’ombelico e due dita in
profondità . Questo metodo darà risultati più rapidi ma richiede maggiore attenzione, poiché è più
facile incorrere in risultati negativi.cclxxiv
Il Qi è l’energia che permea tutto l’universo, pervadendo ogni cosa armoniosamente. Quando
esprimiamo un atto di volontà , il Qi è l’energia che fa da tramite per il movimento del corpo e della
mente; sebbene un bambino nasca dotato di corpo e mente, egli giunge a controllarli coscientemente
soltanto con l’esperienza e la pratica. Allo stesso modo, un adulto può acquisire la percezione e il
controllo del Qi che è dentro il suo corpo solo sottoponendosi a una pratica rigorosa. cclxxv
Quando sedevo in meditazione nel pomeriggio, ho sentito il Qi muoversi nelle dita e nelle piante dei
piedi. Improvvisamente lo scroto ha cominciato a prudermi ma in modo molto piacevole. Ho sentito
come se qualcosa mi entrasse da fuori nel pene e nei testicoli. Mi sentivo molto bene ed era molto
difficile concentrarmi, ma sono riuscito lo stesso a concentrare l’attenzione sul Tan-Tien. Ho sentito
una calda energia muoversi fra i testicoli, e il pene mi diventava ora duro ora morbido, dopo circa dieci
volte è diventato molto morbido. Poi ho sentito una corrente calda scorrere dal pene all’area dell’ano, e
poi giù nelle gambe, in particolar modo in quella sinistra. Ero molto concentrato sul Tan-Tien.
Ovunque il Qi scorresse, provavo una sensazione molto piacevole. cclxxvi

L’apertura del sistema nervoso autonomo può avvenire dopo che lo studente ha assorbito tutte le
esperienze che ora descriveremo. La pienezza del Qi dello stomaco nel “palazzo mediano” produrrà un
senso di sprofondamento. In tale stadio, se un uomo può purificare la mente e attendere
tranquillamente le contrazioni spontanee dei testicoli e del perineo, o se una donna sperimenta
contrazioni dell’utero e reazioni nei seni, avranno la sensazione che vi sia una linea di forza che si
muove entro il pube, scorre verso il Tan-Tien inferiore e incontra il Qi che discende dal “palazzo
mediano”. Ciò risveglierà improvvisamente l’attività della “ghiandola della giovinezza” o addome, e
avrà luogo uno straordinario orgasmo che supera quello sessuale. Tale orgasmo scorrerà lungo la
parte interna delle gambe e dei piedi e raggiungerà le piante e le dita dei piedi. In questo momento la
gioia e il piacere sono simili a quello che si prova bevendo un buon vino […] In realtà questo è il primo
passo della trasformazione del Jing in Qi.cclxxvii
Il Tan-Tien inferiore è approssimativamente quattro dita sotto l’ombelico. Tan significa la pillola
dell’immortalità [il granello di senape di Giovanni della Croce? n.d.r.]. Tien significa un campo. cclxxviii

Quando avevo sessant’anni un giorno, durante la meditazione sentii come se delle formiche mi
corressero su tutto il corpo e ad un tratto il mio centro del Tan–Tien inferiore divenne anormalmente
calmo e rilassato, sommergendomi in una grande gioia. Ad un tratto il pene mi si drizzò e la mia vitalità
prenatale vibrò .cclxxix
Io sedevo respirando lentamente e ritmicamente, contemplando un immaginario loto in piena fioritura
che irradiava luce [...] Il mio essere era così assorbito nella contemplazione del loto che persi contatto
con il corpo e con quanto mi circondava per parecchi minuti di seguito. Durante tali intervalli mi
286
sentivo sollevato in aria senza la sensazione di avere un corpo […] sentii improvvisamente una strana
sensazione sotto la base della spina dorsale, nel punto che tocca il cavallo, mentre sedevo con le gambe
incrociate su di una coperta piegata posata sul pavimento. La sensazione era così straordinaria e così
piacevole.cclxxx

Scoprii che il fermento causatomi nella mente dall’esperienza era troppo grande, al punto che […]
provai distintamente un’incomparabile sensazione estatica in tutti i nervi che vanno dalla punta delle
dita delle mani e dei piedi e del tronco e degli arti alla spina dorsale […] sempre accompagnata da un
piacere indescrivibile, che supera di molto la più piacevole delle sensazioni corporali che segna l’apice
dell’unione sessuale, l’orgasmo.cclxxxi

Il passo seguente sembra collegarsi più a una situazione di rapimento, che di semplice
diletto frutto dello stato di raccoglimento. Va pur detto che non è enfatizzato alcun aspetto
chiaramente religioso:

Gradualmente cominceremo a dimenticare le sensazioni sessuali e a concentrarci sulle sensazioni del


Qi che fluisce nel Tan-Tien. Maggiore è la concentrazione sul Tan-Tien, e tanto più cominceremo a
sperimentare una nuova dimensione. E’ come se improvvisamente ci trovassimo in una radura, fuori
dalla foresta, o se passassimo dalla oscurità alla luce. Non ci sono parole per descrivere pienamente
questa esperienza, e ognuno ne ha una diversa percezione. E’ molto simile alla luce della luna piena,
morbida, brillante e amabile; una persona si sente eccitata, un’altra è tranquillamente felice, un’altra
ancora si sente nostalgica e triste. E’ una esperienza completamente personale. cclxxxii

Nel passo seguente si fa cenno alle immagini mentali, aspetto di grande rilevanza nel caso di
Teresa d’Avila:

Cos’è il vero Qi? E’ difficile descriverlo. Nello Yoga è definito energia spirituale (Shakti); il potere del
serpente (Kundalini). Negli insegnamenti esoterici tibetani è detto forza spirituale o calore spirituale.
Nella terminologia moderna lo possiamo definire l’energia primordiale della vita, o semplicemente
energia […] I fenomeni del Qi variano da persona a persona, ma generalmente si risolvono nella
produzione di immagini mentali.cclxxxiii

Le visioni di Teresa d’Avila

Parlando di Teresa d’Avila si impone qualche accenno alle visioni, che indubbiamente hanno
costituito un aspetto importante del suo sentirsi privilegiata da Dio, nonostante essa
ammettesse sempre di non esserne degna, e di avere avuto un passato disdicevole per mille
motivi.
La visione di Cristo:

Mentre stavo con una persona, fin dal principio della nostra conoscenza, il Signore volle farmi capire
che non mi convenivano quelle amicizie e volle avvisarmi ed illuminare la mia grande cecità . Apparve
dinanzi a me Cristo con un aspetto molto severo per farmi capire quanto lo addolorava quell’amicizia
[ebbe la visione – Cristo alla colonna – nella portineria del suo monastero, n.d.r.]. Lo vidi con gli occhi
dell’anima più chiaramente che se lo avessi visto con gli occhi del corpo, e mi rimase talmente
impressa la sua immagine che dopo più di ventisei anni mi sembra ancora di averla dinanzi. Rimasi
molto meravigliata e turbata e non volevo più vedere la persona con la quale stavocclxxxiv .
Questa stessa visione l’ho vista altre volte. E secondo me è la visione più elevata che il Signore mi ha
concesso la grazia di vedere mentre porta con sé grandissimi vantaggi. Pare che purifichi
estremamente l’anima e tolga quasi completamente le forze alla nostra sensualità . E’ una gran fiamma
che pare bruciare e distruggere tutti i desideri della vita cclxxxv.
Quasi sempre il Signore mi appariva nella gloria della resurrezione ed anche nell’ostia. Qualche volta
però per darmi forza, se mi trovavo in tribolazioni, mi mostrava le piaghe, altre volte lo vedevo sulla

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croce o nell’orto, ma di rado con la corona di spine; l’ho visto anche mentre portava la croce per le mie
sofferenze, come dico, e per quelle di altre persone, ma sempre con la carne glorificata. Ho sofferto
molti affronti e molte pene per avere detto questo e molti timori e molte persecuzioni. Ad alcune
persone pareva così certo che io fossi indemoniata da voler farmi gli esorcismi; a me importava poco
di questo, ma mi addoloravo quando vedevo che i confessori temevano di confessarmi o quando
sapevo che qualcuno diceva loro qualcosa. Malgrado tutto, mai mi potevo affliggere per aver visto
quelle visioni celestiali, e non avrei cambiato una sola di esse con tutti i beni e i piaceri del mondo
cclxxxvi
.

Visioni di demoni:

Una volta mi trovavo in un oratorio e il demonio mi apparve al fianco sinistro con un aspetto
abominevole; guardai specialmente la bocca perché mi parlò e mi parve spaventosa. Sermbrava che
dal corpo gli uscisse una gran fiamma, tutta chiara e senz’ombra. Mi disse in tono spaventoso che mi
avevano, è vero, liberata dalle sue mani, ma che egli mi avrebbe riafferrata […] vidi accanto a me un
piccolo negro molto ripugnante che digrignava i denti come se fosse disperato perché perdeva dove
aveva preteso vincere […] quelle che erano presenti non potevano più dominarsi, né sapevano quale
rimedio opporre a tanto tormento perché erano molto forti i colpi che mi faceva dare con il corpo, la
testa, le braccia senza che io potessi evitarlo […] quelle che entrarono dopo che era già andato via
(erano due monache di tutta fiducia che per nessuna ragione avrebbero mentito) sentirono un odore
molto cattivo come di zolfo […] una notte pensai che i demoni mi soffocassero, e quando gettarono
molta acqua benedetta vidi una moltitudine di essi fuggire come chi si precipita in un burrone […] un
demonio si sedette sul libro per impedirmi di finire le preghiere; io feci il segno della croce ed egli
fuggì; quando ripresi a leggere, tornò cclxxxvii.

La visione dell’inferno:

Essendo un giorno in orazione d’improvviso mi trovai, senza sapere come, con la sensazione di essere
tutta nell’inferno. Compresi che il Signore voleva che vedessi il luogo che i demoni mi tenevano
preparato laggiù e che io avevo meritato per i miei peccati […] L’entrata mi sembrava simile a quella di
un vicolo molto lungo e stretto, simile a un forno molto basso, buio e angusto; il suolo mi sembrava di
un’acqua melmosa molto sporca e di odore pestilenziale, e in essa molti animali schifosi; in fondo c’era
una cavità scavata nella parete, con una nicchia, nella quale mi vidi rinchiusa molto strettamente […]
Sentii un fuoco nell’anima che io non posso capire in qual maniera si possa spiegare […] I dolori del
corpo erano insopportabili […] vedevo che avrebbero dovuto essere eterni e incessanti. E questo è
nulla in confronto all’agonia dell’anima: un’oppressione, un soffocamento, un travaglio così sensibile e
disperato, e uno sconfortato disgusto che io non saprei come spiegare. Dirò che è come se l’anima sia
inesorabilmente strappata via […] mi sentivo bruciare e fare a pezzi […] in un luogo così grandemente
pestilenziale e tale da non potere sperare consolazione, non c’è dove ci si possa sedere, né coricare e
neppure vi è lo spazio adatto per farlo, anche se ero stata messa in quella specie di buco nella parete
[…] non vi è luce, ma tutto è tenebra scurissima […] Io provai un grande spavento e lo provo ancora
mentre sto scrivendo, per quanto siano passati sei anni […] da ciò mi venne anche la grandissima pena
che provo per le molte anime che si dannano (specialmente quelle di questi luterani perché per il
battesimo erano già membri della Chiesa)cclxxxviii.

La confusa visione del Trono:

Qualche volta mi assale un’ansia di comunicarmi […] Appena arrivai in Chiesa fui presa dal rapimento
e mi parve di veder aprirsi i cieli, e non un passaggio come avevo visto altre volte. Mi apparve il trono
di cui parlai a Vostra Grazia e che avevo visto altre volte; su di esso ve ne era un altro dove per una
conoscenza che non so spiegare intesi, anche se non vidi, che vi era la Divinità . Mi parve che lo
sostenessero alcuni animali, per lo meno mi pare di aver visto una figura di questi animali; pensai che
raffigurassero gli evangelisti. Ma non vidi come fosse il trono né chi si trovasse in esso, vidi solo una
gran moltitudine di angeli; mi parve che fossero di una bellezza senza confronto maggiore di quella di

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altri che ho visto nel cielo. Ho pensato che fossero serafini o cherubini perché erano molto differenti
nella gloria poiché sembravano completamente ardere […] Intesi che lassù era riunito tutto ciò che si
può desiderare, eppure non vidi nulla. Mi dissero, e non so chi, che l’unica cosa che potevo allora fare
era di intendere che non potevo intendere nulla e di considerare la nullità del tutto in paragone a ciò .
Per questa ragione in seguito la mia anima si vergognava vedendo che ci si possa fermare su qualche
cosa creata, e per di più affezionarsi ad essa, mentre tutto mi sembrava un formicaiocclxxxix.

Su questo aspetto - le immagini mentali che assurgono al rango di “visioni” - Giovanni della
Croce andava molto cauto:

Alcuni, poiché hanno questi lumi spirituali tanto esterni e tanto facili ad estendersi al senso, cadono in
maggiori inconvenienti e pericoli […] infatti trovando essi così a larga mano tante comunicazioni e
apprensioni spirituali per il senso e per lo spirito, dove assai spesso hanno visioni immaginarie e
spirituali, cose queste che, congiunte con sentimenti piacevoli, succedono a molti di costoro in tale
stato in cui il demonio e la propria fantasia molto spesso ingannano l’anima, e poiché il demonio è
solito imprimere e suscitare nell’anima quelle apprensioni e quei sentimenti con molto gusto, ella ne
rimane molto facilmente rapita e ingannata perché non ha la cautela debita per umiliarsi e difendersi
fortemente con la fede da queste visioni e da questi sentimenti. In questo stato il demonio spinge
molte anime a credere a visioni vane e a false profezie, e cerca di farle insuperbire facendo crescere in
esse la presunzione che Dio e i santi parlino con loro, molte volte poi credono alla loro fantasia. Ora il
demonio è solito farli cadere nella presunzione e nella superbia ed essi, spinti da vanità e arroganza, si
lasciano vedere in atteggiamenti esterni che denotano santità , come sono le estasi e altre esteriorità ccxc.

Verso la fine del suo Libro de la vida - ma Teresa vivrà ancora diciassette anni - si possono
però trovare toni sconsolati e parole dubbiose sulla effettiva consistenza di tante sue visioni,
che ora vengono assimilate a “sogni”.

Qualcosa mi apparve, come dico, ma non potrei affermare d’aver visto qualcosa; eppure qualcosa vidi
perché io posso fare questa similitudine. Tuttavia appare in modo così sottile e delicato che l’intelletto
non può capire, o forse io non so intendere in queste visioni che non sono immaginarie, ma che devono
avere qualche cosa di immaginativo; siccome però le facoltà sono in rapimento, in seguito non
sapranno più ricostruire l’immagine come il Signore la rappresenta a loro nel momento in cui vuole
che la godino [sic]ccxci […] Perché ormai vivo fuori dal mondo e in piccola e santa compagnia, contemplo
il mondo dall’alto e ben poco mi importa ormai che parlino e che sappino […] E [il Signore] mi ha
donato il sogno nella vita perché quasi sempre mi appare che sto sognando ciò che vedo: né gioia né
pena, per quanto grandi, non vedo in me. Se qualcuna me le procura passano così brevemente che io
me ne meraviglio, e lasciano la sensazione come di cosa sognata. E questa è l’assoluta verità perché,
anche se in seguito avessi voluto rallegrarmi di quella gioia o affliggermi di quella pena, non potevo
farlo se non come sarebbe stato possibile a una persona avveduta provare pena o gloria di un sogno
che sognò ccxcii.

Le levitazioni

In molte vite di santi, in occidente come in oriente, si accenna spesso alle loro levitazioni
corporee. Ovviamente la cosa, contravvenendo a tutte le leggi fisiche, è vista come
manifestazione miracolosa, e continua a passare di bocca in bocca. Anche ai giorni nostri, in
occidente come in oriente, tutti vi accennano senza mai approfondire la questione. Vari passi
nella Vida hanno sicuramente contribuito alla creazione del mito delle levitazioni –
sollevamenti del corpo da terra durante i momenti di estasi – di Teresa d’Avila. E’ sufficiente
una lettura un po’ attenta e spassionata per comprendere che Teresa non parla mai di reali
levitazioni corporee.
Teresa è onesta, non lavora di fantasia. Parla delle esperienze che ha vissuto, e spesso è la
prima a stupirsi. Teresa, nella descrizione di un suo “rapimento”, dice che oltre alla perdita del
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controllo sul suo stato d’animo e sulla capacità di ragionare, sentiva qualche volta anche il
corpo quasi sollevarsi. Scrive che era molto agitata nel vedere il suo corpo sollevarsi, però
ammette che forse era lo spirito che lo trascinava, cioè che si era realizzato una sorta di
distacco tra la parte spirituale e la parte più fisica della sua persona. Credo che qui siamo nel
campo di quelli che comunemente, e in senso lato, si definiscono “viaggi extracorporei”,
esperienze che avvengono in condizioni emotive particolari; a volte durante il sonno e sono
allora accomunabili ai sogni. Personalmente ho avuto una esperienza di questo tipo, e devo
dire che la cosa – vedere il proprio corpo dall’esterno - con la cosapevolezza di essere svegli, o
almeno così si crede, è molto sconcertante.
In un altro passo Teresa dice che “sembrava che l’anima volesse uscire dal corpo”, e anche “il
mio spirito fu tanto rapito, da parermi che fosse completamente fuori del corpo”.

… qualche volta riuscivo ad oppormi rimanendo però come se fossi stata fatta a pezzi e come chi abbia
combattuto contro un forte gigante rimanevo spossata; altre volte non potevo far nulla perché mi si
portava via l’anima e quasi sempre la testa con lei, senza che io potessi trattenerla, qualche altra volta
anche tutto il corpo fin quasi ad essere sollevato dal suolo […] Ed anche confesso che suscitò in me
gran timore, che al principio fu grandissimo, vedere sollevarsi un corpo da terra, anche se è lo spirito
che lo trascina dietro a sé con grande soavità ; se non si fa resistenza, non si perdono i sensi, almeno io
ero in me in modo da poter capire che ero sollevata ccxciii.
… il più delle volte e con maggiore frequenza vi è questa pena della quale ora parlerò […] non credo di
esagerare perché quella pena, anche se è l’anima che la sente, sembra essere unita al corpo; pare che
entrambi partecipino ad essa, ma non con quell’estremo abbandono […] molte volte sopraggiunge
invece un tal desiderio che io non so da dove venga e per questo desiderio che penetra improvviso in
tutta l’anima, essa comincia ad affaticarsi tanto da elevarsi molto al di sopra di se stessa e di tutto il
creato, mentre Dio la rende tanto lontana da tutte le cose […] vorrebbe solo morire in quella solitudine
[…] crescono il desiderio e l’estrema solitudine nei quali l’anima si vede con una pena sottile e
penetrante […] “Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto” [Salmo 101,8. Teresa, scarsa in
latino, cita a memoria: “Vigilavi ed fatus sun sicud passer solitarius yn tecto”, ndr.]. Questo versetto
appare in me in modo tale da sembrarmi di vederlo e mi consolo al vedere che anche altre persone
abbiano sentito una solitudine così estrema, tanto più persone come quelle. Così sembra che l’anima
non stia in sé, ma sopra la parte che la copre o sul tetto di essa e di tutto il creato perché mi sembra che
stia ancor più in alto della parte superiore dell’animaccxciv.
… mi assalì un gran trasporto, senza che io ne capissi la causa; sembrava che l’anima volesse uscire dal
corpo perché non stava più in sé ccxcv.
… Dopo poco tempo, il mio spirito fu tanto rapito, da parermi che fosse completamente fuori del
corpo; per lo meno non si capiva più che viveva in esso. Vidi l’Umanità santissima con gloria
maggiormente intensa di quanto l’avessi mai vista […] passarono alcuni giorni senza che potessi
tornare in meccxcvi.

L’amore all’ombra del Carmelo

Una realtà onnipresente ma tenuta nascosta, ignorata, travisata. Tutto era apparentemente
chiaro, le regole erano precise. I limiti erano quelli della santità . Ma la santità , se è vera, non ne
ha. Nel “grafico” di suo pugno che rappresenta il Monte Carmelo e la strada per arrivarci,
Giovanni ha riassunto, con una infinità di note a margine tutte aggrovigliate, la sua visione del
percorso che porta al conseguimento dell’unione spirituale con la divinità . Le parole finali,
che sanciscono il raggiungimento della vetta, collocano il contemplativo di successo fuori dal
mondo: Ya por aquì no ay camino por q para el Justo no ay ley el pa sì se es ley (Qui non c’è più
cammino, perché non c’è legge per il Giusto, egli è la sua legge). Frase sorprendente, anche se
riferita ad una realtà , quella del favoloso “matrimonio spirituale”, che “realtà ” non è più ,
essendo essa ormai dentro una dimensione diversa. Una dimensione ben lontana dalla vita
normale le cui regole lì non valgono più . Non quelle fisiche, e nemmeno quelle morali. Va bene
290
che questa specie di Shangrilà è sempre solo cercata, ma porsi un obiettivo simile richiede
comunque una personalità particolare, al livello di quella irrealtà .
Scopriamo così che anche nel monastero la natura umana ha le sue esigenze, fatto salvo che
il peccato mortale dei religiosi si identifica con il rapporto sessuale, e che per loro il
matrimonio, pur ammissibile per i non religiosi, è solo fornitore di lessico per simbolismi e
allegorie, anche le più brucianti. L’amore, che è agapè, carità , aiuto reciproco, ma sempre
poggia sul riconoscimento, l’attenzione, il trasporto verso qualcuno, vi trova il suo spazio, i
suoi difensori e teorizzatori, suscita slanci che, per il fatto di essere controllati e nascosti, non
sono certo meno problematici e sconvolgenti di quelli che possono essere vissuti liberamente
e pienamente fuori da quelle mura.
Teresa, schietta e sofferente, sarà un fiume in piena. Vuole amare. Se non può amare un
uomo, allora vuole amare Dio. Si perde sulle mani di Gesù , sulla bocca. Mani e bocca che
desidera, tanto da vederli, bellissimi, nei suoi momenti di folle dissociazione. Giovanni, “uomo
in esilio dal proprio sesso” come qualcuno ha voluto definirlo ccxcvii, è più freddo e distaccato.
Giovanni si scopre molto meno, direi che non si mostra affatto nei lunghi commenti elaborati a
ridosso delle opere poetiche. Giovanni possiamo scorgerlo, nella sua vera umanità , solo nelle
lettere, e sicuramente anche lì solo in minima parte. Non parla mai di sé, ma per lui parla il suo
comportamento. Si è nascosto tutta la vita dietro la grata di un confessionale, e nessuno ha
visto i suoi rossori. La sua vita è trascorsa adempiendo a doveri di “galanteria” religiosa. Per
affrontare certi problemi, e anche lui aveva tanto da dire, si è dovuto improvvisare poeta,
assumere vesti femminili, e gettarsi nella scia del Cantico dei cantici. Ma anche lui ha voluto la
sua parte di batticuori, le gioie dell’incontro, i riconoscimenti. Sempre al limite del consentito,
sfidando un mormorio di fondo che alla fine si è fatto tempesta. Così amavano.

Molte pagine di Teresa ci mostrano quanto contassero, anche per questi mistici d’elezione, i
sentimenti e gli affetti. Ne discutevano, nel chiuso dei loro ostelli, con toni anche molto sinceri
e liberi che potrebbero meravigliare tanti “moderni” campioni ed estimatori dell’approccio
amoroso. Le pagine seguenti, ricche di umanità , sono tratte dal suo Cammino di perfezione,
un’opera a carattere prevalentemente pedagogico ad uso delle novizie:

Non pensate, amiche e sorelle mie, che siano molte le cose che vi raccomanderò . Piaccia infatti al
Signore che osserviamo quelle che i nostri santi Padri hanno ordinato e adempiuto nella Regola e nelle
Costituzioni che, viste insieme, costituiscono un codice di virtù . Mi limiterò a parlarvi solo di tre cose
inerenti alle stesse Costituzioni, essendo molto importante intendere l’obbligo rigoroso di osservarle
per avere la pace interna ed esterna, che il Signore ci ha tanto raccomandato: la prima è l’amore
reciproco; la seconda, il distacco da tutte le creature, la terza, la vera umiltà […] Quanto alla prima, cioè
avere un grande amore [reciproco], essa è di grandissima importanza, perché non vi è nulla di così
gravoso che non si sopporti facilmente fra coloro che si amano, e occorrerebbe che fosse cosa ben
ardua se riuscisse gravosa. Se questo comandamento fosse osservato nel modo come si deve, credo che
aiuterebbe molto a fare osservare anche gli altri, ma ora per troppo zelo, ora per poco, non si arriva
mai a osservarlo in modo perfetto […] E credo che questo difetto si riscontri nelle donne ancor più che
negli uomini; esso reca evidentissimi danni a una comunità , perché ne segue che le religiose non si
amino tutte ugualmente, che si soffra per il torto subito da una di essa, che si desideri di avere
qualcosa da regalarle, che si cerchi il momento per parlarle, e molte volte per dirle che la si ama, più
che per parlarle dell’amore che si nutre per Dio. E’ raro, infatti, che queste grandi amicizie siano rivolte
ad aiutarsi vicendevolmente ad amare di più il Signore […] Si vede subito quando, invece, l’amore è
rivolto al servizio [di Dio], perché l’affetto non è guidato dalla passione, ma cerca un aiuto per vincere
altre passioni.
Vorrei che nei grandi monasteri vi fossero molte amicizie di questo genere. Al monastero di San
Giuseppe, ove non siamo e non dobbiamo essere più di tredici, tutte devono sentirsi amiche, tutte
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devono amarsi, volersi bene e aiutarsi reciprocamente. Per sante che siano, si guardino, per amor di
Dio, da queste amicizie particolare, le quali di solito anche tra fratelli sono un veleno - se no, osservino
la storia di Giuseppe! Io non vedo in esse alcun vantaggio, se riguardano parenti meno prossimi, peggio
ancora: una vera peste. Credetemi, sorelle, che, anche se questo vi sembra esagerato, include un’alta
perfezione e una gran pace, ed evita molte occasioni pericolose a quelle che non sono ben salde nella
virtù . Se l’affetto inclina più verso una che verso un’altra (né potrà essere altrimenti, trattandosi di un
sentimento naturale, che molte volte ci porta ad amare la più imperfetta, se particolarmente dotata di
innate attrattive), teniamo a freno il nostro sentimento per non lasciarci dominare da quell’affetto.
Amiamo le virtù e le qualità interiorti, sforzandoci sempre attentamente di non badare alle qualità
esteriori.
Non permettiamo mai, sorelle, che il nostro cuore sia schiavo di alcuno, se non si tratta di colui che l’ha
riscattato con il suo sangue; guardate che, altrimenti, senza sapere come, vi troverete in un tale intrico
da non poterne uscire. Oh, Dio mio, le puerilità che nascono da queste amicizie particolari non si
contano! E, per evitare che tante debolezze di donne vengano risapute e forse imparate da quelle che
non le conoscono, non voglio parlarne dettagliatamente. Cero, però , mi spaventava talvolta il rilevarle
(giacché per bontà di Dio in questi casi non mi sono mai lasciata irretire molto e, può darsi per caso,
perché mi trovavo invischiata in cose peggiori). Ma, come ho detto, tante volte ho visto cose simili e
temo che serpeggino nella maggioranza dei monasteri. Io l’ho osservato in alcuni e so che per la vera e
perfetta vita religiosa sono una pessima cosa e nella priora saranno una vera peste. Con questo è detto
tutto.
Nell’arginare queste parzialità, occorre molta cura fin dal momento in cui comincia a manifestarsi
[l’amicizia], bisogna agire con abilità e amore più che con rigore. Un rimedio eccellente a tal fine è non
stare insieme né parlarsi, se non nelle ore stabilite, secondo l’usanza che ora seguiamo, rispettando le
nostre Costituzioni che prescrivono di non stare insieme, ma di rimanere ognuna nella propria cella. Il
monastero di San Giuseppe sia, quindi, esente da avere un luogo di lavoro comune, perché, pur
essendo questa una lodevole usanza, si osserva meglio il silenzio quando ognuna sta per conto proprio,
e ci si abitua alla solitudine, ottima disposizione per l’orazione.
Vorrei ora parlare un po’, secondo la mia elementare capacità, di come debba essere questo amore
reciproco, in cosa consista l’amore virtuoso - quello che io desidero vedere regnare qui - e da quali
segni riconosceremo di possedere questa virtù ccxcviii

Teresa e i confessori

Mi propongo ora di parlare di due specie di amore: uno puramente spirituale, perché la sensitività o la
tenerezza della natura umana non vengono toccate in esso e l’altro, anch’esso spirituale, ma unito alla
nostra sensitività e debolezza. E’ un fatto che ci interessa molto, perché sono due modi di amarci in cui
non si inserisce nessuna passione umana, la quale creerebbe soltanto disordine in questa unione. Se
pratichiamo con moderazione e discrezione l’amore di cui ho parlato, esso risulta assai meritorio in
tutto, poiché ciò che ci sembra essere sensitività si trasforma in virtù . Senonché, le due componenti si
presentano talvolta frammischiate tanto che non si riesce a individuarle, come capita soprattutto nei
confronti di un confessore. Infatti le persone dedite all’orazione, se lo vedono santo e capace di
comprendere il loro modo di procedere, si attaccano a lui con molto amore.
Qui il demonio scatena molti scrupoli rendendo l’anima inquieta. E’ proprio ciò che egli vuole.
Soprattutto quando il confessore la conduce verso una maggiore perfezione, il maligno la turba fino a
fargliela abbandonare. E non smette di torturarla con quella tentazione, né con un confessore né con
un altro. Ciò che si può fare è non occupare il pensiero per sapere se si ama o meno. Se tali persone
amano il confessore, lo amino pure, poiché, se nutriamo amore verso chi procura qualche bene al
nostro corpo, perché non amare chi s’impegna e lavora per farcelo all’anima? Perché non dovremmo
amarlo? Io credo che veramente si progredisca molto se si nutre amore verso il confessore, se egli è
santo e spirituale e se vedo che egli fa molto per far progredire la mia anima. La nostra debolezza è tale
che questo, talvolta, ci aiuta a fare cose grandi nel servizio di Dio. Se [il confessore] non è così come ho
detto, allora c’è pericolo. Un confessore che non è tale potrebbe essere causa di gravi danni per il fatto
che egli capisca di essere benvoluto e, nelle case di stretta clausura, più che nelle altre. Siccome è
difficile capire quale sia quello davvero buono, occorre grande e accurata attenzione. Sarà meglio

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ancora se egli non sospetta di essere benvoluto e che non glielo dicano. Il demonio subentra con tale
arte da non offrire scappatoie, sicché chi va a confessarsi ritiene di avere solo quello di cui confessarsi
e si sente obbligato a manifestarlo. Vorrei, quindi, che si convincessero che non è nulla e di non
badarci. Ascoltino questo consiglio: se si accorgono che tutti i colloqui con il confessore servono per far
progredire l’anima e se non vedono in lui alcuna vanità (e di ciò si rende subito conto chi non vuol
lasciarsi abbindolare) e se egli è timorato di Dio, non si preoccupino di sentire qualche tentazione di
affetto per lui, perché non appena il demonio si sarà stancato smetterà d’intervenire. Ma, se si rendono
conto che il confessore trova qualche vaga compiacenza in ciò che gli dicono, siano in tutto sospettose
e non si abbandonino a lunghe conversazioni con lui, sia sull’orazione che su Dio. Si limitino, piuttosto,
a confessarsi stringatamente e a concludere. meglio ancora sarebbe dire alla madre [priora] che la
propria anima non si trova bene con lui e che si vorrebbe cambiare confessore. Sarebbe questa la
soluzione migliore se ci fosse la disponibilità – e spero in Dio che ci sia – e così fare tutto il possibile
per non trattare più con lui, anche se si sentisse morire. Badate che tale raccomandazione è molto
importante, perché [la vanità in un confessore] è cosa assai pericolosa, un inferno e una rovina per
tutta la comunità […]
Il Signore, nella sua immensa bontà , non faccia mai provare ad alcuna di voi in questa casa il tormento
di vedersi oppressa anima e corpo; peggio, poi, se la priora va perfettamente d’accordo con il
confessore perché, in tal caso, non si osa dire nulla né a lui di lei, né a lei di lui. Allora si potrà anche
andar soggetti alla tentazione di omettere di confessare peccati molto gravi, nel timore di non stare più
in pace. Oh, Dio mio, che danno può fare qui il demonio e quanto caro costano alle monache tali
costrizioni e falsi punti d’onore! Credono che per il fatto di non avere più d’un confessore ci guadagni
molto la disciplina religiosa e l’onore del monastero, e il demonio dispone per questa via di
accalappiare le anime, quando non vi riesce per altre vie. Se le poverette chiedono un altro confessore,
sembra subito di sconvolgere la disciplina religiosa; se poi non appartiene allo stesso ordine,
quand’anche fosse un san Girolamo, pare subito che facciano un affronto all’Ordine intero […] Non
dev’esserci, peraltro, nessun vicario che abbia la libertà di entrrare e uscire a suo piacere dal
monastero né che l’abbia alcun confessoreccxcix.

Teresa e l’amore spirituale

Mi sono allontanata molto dall’argomento, ma ciò che ho detto è talmente importante che io, per
averlo detto, non ho perso tempo. Sorelle mie, torniamo ora all’amore puramente spirituale. Non so se
ho chiara consapevolezza di quel che dico, ma a me, almeno, sembra che non sia necessario parlarne a
lungo, perché sono pochi ad averlo. Coloro ai quali il Signore lo avrà concesso, gliene rendano lode,
perché a lui veramente dobbiamo la lode, perché è di un’altissima perfezione, per cui si può pensare
che ne trarremo qualche vantaggio. Parliamone un po’.
Forse, sorelle, vi sembrerà temerario che io vi trattenga su questo argomento, e direte che queste cose
voi le sapete già tutte. Piaccia al Signore che sia così, che voi le sappiate nel modo dovuto e che le
abbiate impresse nell’intimo del vostro cuore, tanto da non lasciarvele mai sfuggire un istante. Se
dunque, lo sapete, riconoscerete che non mento nel dire che chi perviene a questo grado possiede
l’amore. Le persone che Dio fa giungere fin qui sono anime generose, anime splendide; non si
compiacciono di amare cosa così miserevole come questi nostri corpi, per belli che siano, per molte
attrattive che abbiano, anche se dilettino la vista e siano motivo per lodarne il Creatore. Ma fermarsi in
questo, no. Dico fermarsi nel senso che abbiano ad amarli a causa di queste sole qualità . Sembrerebbe
loro di avere cara una cosa senza alcun valore e di amare un’ombra: si vergognerebbero di se stesse e
non avrebbero più il coraggio, senza sentirsi in preda a gran confusione, di dire a Dio che l’amano.
Mi direte che tali esseri non sapranno amare. Non si affezionano forse soltanto a ciò che vedono?
Invece, amano qualcosa di molto più grande e con maggiore passione e con autentico e fruttuoso
amore. Il loro amore è, dunque, vero, mentre le altre basse affezioni ne hanno usurpato il nome.
La verità è che esse amano ciò che vedono e si affezionano a ciò che odono; ma le cose che vedono sono
stabili. Se, dunque, amano un amico, vanno al di là del corpo: volgono gli occhi sull’anima e guardano
se in essa vi è qualcosa da amare. Se non c’è, ma vedono un qualche inizio o disposizione tale da far
pensare che, scavando, troveranno oro in questa miniera, se nutrono amore per essa, la fatica non è
loro di peso: non esiterebbero ad affrontare nessuna difficoltà di fronte alla quale venissero a trovarsi,

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per il bene di quell’anima perché desiderano amarla e sanno perfettamente che ciò è impossibile se
non possiede beni spirituali e non ama molto Dio. E dico che è impossibile, per quanto muoia d’amore
per loro, faccia per esse tutto quello che può e abbia in sé riuniti tutti i doni di natura: eppure la
volontà non sarà né forte né durevole, perché ormai ha la saggezza, e sa e conosce per esperienza il
vero valore di tutto, e non si lasceranno ingannare. Vedono che non sono fatte per vivere insieme, che
è impossibile continuare ad amarsi reciprocamente, perché è un amore che finirà con la vita, se l’altra
persona non osserva la legge di Dio, se si capisce che non lo ama, e che dovranno andare in parti
diverse.
Le anime alle quali Dio ha ormai comunicato la vera conoscenza non stimano quest’amore, che ha la
sua durata solo nella vita presente, più di quel che vale, e nemmeno quanto vale, perché per coloro ai
quali piace godere delle cose del mondo, piaceri, delizie, onori, ricchezze, avrà qualche valore il fatto
che uno sia ricco o possa offrire passatempi e distrazioni. Ma chi, invece, ha messo tutto ciò sotto i
piedi, farà poco o nessun conto di tale amore. Queste anime, quindi – se ne amano un’altra – riversano
il loro amore nell’adoperarsi con passione a renderla degna d’essere amata dal Signore, perché
altrimenti, come ho detto, sanno di doverla abbandonare. E’, il loro, un amore che costa caro, perché
non tralasciano di far nulla per il profitto di chi amano; sarebbero pronte a sacrificare mille volte la
vita per un minimo vantaggio dell’altra anima.
E’ straordinario vedere quanto sia appassionato questo amore ccc[nota del curatore: Per i teologi e
censori di quei tempi, preoccupati dalle serpeggianti idee del quietismo con falsi fenomeni mistici – di
cui Magdalena de la Cruz forniva un chiaro esempio - il discorso sull’amore puro e spirituale costituiva
un argomento assai provocatorio. Ciò spiega perché Teresa, dopo la revisione dell’intero capitolo, si sia
vista costretta a eliminare ancora due pagine], quante lacrime costi, quante penitenze e preghiere,
quante [sollecitudini] nel raccomandare la persona amata a tutti coloro che si pensa possano giovarle.
E’ una preoccupazione continua e un tormento assillante. Quando poi, nonostante sia parso di notare
un miglioramento, la si vede tornare indietro, sembra che non si possa godere più di alcuna gioia in
questa vita; non si mangia né si dorme se non con questa preoccupazione, nel timore continuo che
l’anima tanto amata si perda e ci si debba separare per sempre da essa (della morte temporale non si
fa alcun caso), perché non ci si vuole attaccare a qualcosa che in un soffio sfugge di tra le mani senza
che si possa trattenerla. Il suo amore – come ho detto – è senza ombra di interessi personali, l’unica
sua aspirazione e il solo desiderio sono vedere quell’anima ricca di beni celesti; infine, è un amore che
somiglia sempre più a quello portatoci da Cristo, perciò merita il nome di amore, e non quei disastrosi
e insignificanti amoruzzi della terra; e non mi riferisco a quelli cattivi. Da questi ci liberi Dio.
[I cattivi amori] sono un vero inferno, e non dobbiamo mai stancarci di dirne male, perché non si può
esprimere adeguatamente neppure il più piccolo dei danni che arrecano. Noi non dobbiamo, sorelle,
neanche pronunziarne il nome e ancor meno pensarvi; né pensare che esistono in questo mondo, né
prestare orecchio sia che se ne parli per scherzo o sul serio, né consentire che davanti a noi si svolgano
conversazioni o racconti di tal genere di affezioni. Non servono a nulla di buono e anche solo udirne
parlare può essere dannoso. Le affezioni a cui mi riferisco sono quelle lecite, quelle che, come ho detto,
abbiamo l’una verso l’altra, o per i parenti o per le amiche. Tutto l’amore consiste nel temere che la
persona amata muoia […] L’altro amore è ben diverso […] questo amore è disinteressato come quello
che ebbe per noi Cristo. Coloro che amano così sono di grande utilità, perché prendono per sé tutte le
sofferenze e lasciano che gli altri ne traggano vantaggio […] Incuranti di tutto il mondo e, addirittura,
del fatto se servono o meno Dio – perché intenti solo a servirlo loro, non possono farlo nei confronti
dei loro amici – nulla sfugge ai loro occhi. O anime felici che sono da loro amate! Fortunato il giorno in
cui si sono conosciute! O Signore mio, non mi fareste la grazia di trovarne molte che mi amano così?
Certo, Signore, io preferirei questo all’essere amata da tutti i re e signori del mondo; e, a ben ragione,
perché ci procurano in tutti i modi possibili, di giungere a dominare lo stesso mondo e ad assoggettare
a noi tutte le creature che esistono in esso. Sorelle, quando conoscerete una persona simile, la madre si
premuri, con tutta la sollecitudine possibile, di farla parlare con voi. E amatela quanto desiderate. Ce
ne saranno pocheccci.

Queste pagine sono state scritte da Teresa negli anni 1566-67. Il ritratto del religioso ideale
fatto da lei è l’espressione del suo desiderio e della sua intelligenza. Nel 1568 conoscerà

294
Giovanni di Santo Matias, non ancora Giovanni della Croce. Fu perché ha creduto di vedere in
lui quei caratteri che gli ha aperto con entusiasmo le porte del monastero.

L’amore difficile

Nel suo Cammino di perfezione, libro che mira a introdurre le sorelle alla vita spirituale
attraverso l’esercizio della virtù e della preghiera, Teresa parla come una madre, forte della
sua esperienza. Consapevole delle difficoltà che delle giovani donne debbono affrontare nella
nuova vita che le attende cerca di mettere in luce gli aspetti positivi della loro situazione ed
elogia il Carmelo con queste parole:

Il tenore di vita che qui intendiamo condurre non è solo da monache, ma da eremite, pertanto
dobbiamo distaccarci da ogni cosa creata […] la prova che sono indirizzate per quel cammino è
l’appagamento e l’allegria di cui sono pervase al pensiero che non devono più occuparsi delle cose del
mondo […] se qualcuna è incline alle cose del mondo e vede di non realizzare alcun progresso, se ne
vada via da qui […] Non si lamenti di me, che ho dato qui inizio a tal genere di vita, perché non manco
di avvertirla. Questa casa è un paradiso, se ce ne può essere uno sulla terra. Per chi trova il suo
appagamento solo nel contentare Dio e non bada al proprio piacere, tale vita è assai felice. Chi desidera
qualcosa di più , siccome non potrà averla, perderà tuttocccii.

Descrive i vantaggi dell’ avere scelto di consegnare il proprio cuore a Dio, e denigra l’amore
terreno. Lo Sposo divino, non tradirà , non deluderà . Per dare maggiore forza alle sue
argomentazioni agita lo spauracchio dell’inferno, con toni racapriccianti. Nell’attesa di vedere
realizzato l’incontro con lo Sposo celeste, in cielo, meglio starsene al sicuro nel monastero e
contentarsi della fantasia e delle gioie che sapranno ricavarsi dall’orazione. “Tutto è falso
quaggiù …”

Non si può nascondere, quando si ama un ragazzo o una ragazzina; anzi, quanto più si cerca di
nasconderlo, tanto più esso si manifesta (e si tratta di amare soltanto un verme che non merita
neppure il nome di amore, fondato com’è sul nulla, e mi ripugna portare questo paragone). Ed è
possibile, forse, nascondere un amore così forte, come quello di Dio, che poggia su un fondamento così
solido, qual è l’elevatezza di chi amiamo e l’avere tanti motivi per amare? In fin dei conti solo questo è
amore e merita tal nome, mentre le vanità del mondo ne hanno solo il nome. Oh, Dio mio, che gran
differenza dev’esserci fra l’uno e l’altro di questi amori per l’anima che ne ha fatto esperienza! [...]
Questo amore, oltre tutto, ha anche il vantaggio nei confronti degli amori di quaggiù che, amando il
nostro Sposo, siamo sicure che egli a sua volta ci ama tanto. Considerate, a questo punto, figlie mie, il
guadagno che tale amore porta con sé, e la perdita di non averlo, essendo noi allora alla mercè del
tentatore. In mani così crudeli, così nemiche di ogni bene e così amiche di ogni male.
Che sarà della povera anima che, appena uscita da tali dolori e da tali angosce quali sono quelli della
morte, cade subito in quegli artigli? A quale orribile riposo va incontro! Come cadrà nell’inferno fatta a
pezzi! Che moltitudine di serpenti d’ogni specie! Che luogo spaventevole! Che disgraziato soggiorno!
[…] Non ricerchiamo gli agi mondani, figlie; stiamo bene qui, non si tratta che di passare una notte in
un cattivo albergo. Lodiano Dio e cerchiamo sempre di supplicarlo di tenere per mano noi stesse e tutti
i peccatori, e non ci faccia cadere in queste occulte tentazioni [...] tutto è falso quaggiù , fin dal
fondamento […] mi dispiace di non parlarvi un po’ dell’amore mondano, avendolo conosciuto bene –
per i miei peccati – e avrei desiderato farlo conoscere anche a voi per liberarvene per sempre ccciii.

L’amore divino di Teresa. A volte anche una bella litigata con Lui può servire a ridare
speranza e a fare chiarezza:

… per aver visto Cristo, mi rimase impressa la sua gran bellezza e l’ho ancora; ed anche se per ottenere
questo mi sarebbe bastata una sola volta, il Signore mi ha fatto invece questa grazia molte volte. Ne
derivò un grandissimo vantaggio e fu questo: io avevo un grandissimo difetto dal quale derivarono
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gravi danni ed era questo: quando cominciavo a capire che una persona mi voleva bene, se mi era
simpatica, mi affezionavo tanto a lei che legavo la mia memoria nel pensarla (non con l’intenzione di
offendere Dio, ma mi rallegravo di vederla, di pensare a lei, ed alle cose buone che vedevo che
possedeva); era una cosa tanto dannosa da condurre la mia anima quasi alla perdizione; dopo che vidi
la grande bellezza del Signore, non scorgevo nessuno a suo confronto che mi sembrasse bello o mi
occupasse la memoria perché fissando gli occhi nella contemplazione dell’immagine che ho racchiusa
nell’anima mi sono liberata da quel pericolo. Da allora tutto ciò che vedo mi pare ributtante a
confronto delle perfezioni e delle grazie che vedevo in questo Signore. Non vi è sapienza, né dono di
qualsiasi genere che io stimi qualcosa in confronto a ciò che significa udire una sola parola detta da
quelle divine labbra, e tanto più udirne molte […] Questo mi accadde con qualche confessore perché
amo sempre molto coloro che guidano la mia anima (siccome li considero veramente i vicari di Dio, mi
sembra che particolarmente in loro ripongo il mio affetto) e siccome ero sicura di me, dimostravo loro
la mia predilezione; essi da uomini timorati e servi di Dio, temevano che in qualche modo mi attaccassi
troppo a loro e li amassi anche se santamente, e che ciò fosse un ostacolo per me, e mi trattavano quasi
sgarbatamente. Questo avvenne dopo che mi sottomisi completamente alla loro volontà , perché prima
non nutrivo per essi questo amore. Ridevo dentro di me nel vedere come si ingannavano e, anche se
non sempre dicevo chiaramente quanto poco mi importava di qualcuno come veramente sentivo in
me, li rassicuravo, ed essi frequentandomi di più venivano a conoscere ciò che dovevo al Signore;
questi sospetti che avevano di me sempre li nutrirono al principio ccciv.
Da poco tempo mi è accaduto di stare otto giorni quasi fuori di me, né potevo più conoscere ciò che
dovevo a Dio né ricordare le sue grazie mentre avevo l’anima attonita ed assorta in non so che cosa, né
sapevo come lo fossi; non lo ero in cattivi pensieri, ma i buoni ero così incapace di averli che ridevo di
me stessa e godevo nel vedere la bassezza di un’anima quando Dio non opera in essa […] anche se essa
mette legna sul fuoco, e fa quel poco che può da parte sua, non è possibile far ardere il fuoco dell’amor
di Dio […] Credo che sia meglio arrendersi completamente dinanzi al fatto che nulla può da sola ed
occuparsi di altre cose – come ho detto - meritorie perché forse il Signore le toglie l’orazione affinché si
occupi di esse e conosca per esperienza quanto poco può fare da sola.
E’ certo che oggi io mi sono confortata nel Signore, ho avuto il coraggio di lamemtarmi con la Divina
maestà e gli ho detto: “Come, mio Dio, non basta che mi teniate in questa misera vita e che per amor
vostro io sopporti e voglia vivere dove tutto ostacola il vostro amore, ma debba anche mangiare,
dormire, discutere e trattare con tutti perché tutto sopporto per amor vostro? Ben sapete, mio Signore,
che è un tormento grandissimo per me quando in quei pochissimi brevi attimi che mi restano per Voi
vi nascondete da me. Come questo può essere compatibile con la vostra misericordia? Come può
sopportarlo l’amore che avete per me? Credi Signore, che se mi fosse possibile nascondere me stessa a
Voi, come Voi a me, penso e credo che per l’amore che mi portate non lo sopportereste. Ma Voi siete
sempre con me e sempre mi vedete, non è tollerabile questo, mio Signore; vi supplico di considerare
che si fa un torto a chi tanto vi ama”cccv.

A volte Teresa dà prova di molto buon senso, e certi suoi giudizi sul mondo e sulle persone
sono prova di una sincerità ed equanimità credo rari a trovarsi in quegli ambienti:

Se l’anima comincia ad abbattersi, fa una cosa cattiva nei confronti di ciò che è buono. A volte, poi,
finisce col cadere negli scrupoli, ed eccola allora inutile a sé e agli altri […] Da qui, ancora nasce un
altro errore, che è quello di giudicare gli altri: siccome non seguono la nostra stessa strada, e forse con
maggiore santità di noi, per giovare al prossimo trattano con libertà e senza tante soggezioni, subito ci
sembrano imperfette. Se manifestano una santa allegria ci sembreranno dissolute, specialmente se si
tratta di gente come voi, che non siete istruite e non sapete come si può trattare con il prossimo senza
peccare […] credere che tutti quelli che non procedono come voi, con le vostre soggezioni, non seguano
la strada giusta, è una pessima cosacccvi.

Il passo seguente sembrerebbe l’autoritratto di una donna stanca e sfiduciata, anche se


Teresa ha ancora molti anni davanti a sé, e molte battaglie ancora da compiere. Si dice delusa
della vita e chiede esplicitamente la fine della commedia:

296
Mi vedo impastata di fragilità, di tiepidezza, di poca mortificazione e di tante altre miserie: constato
che mi sta bene chiedere al Signore un rimedio. Voi, figlie, chiedetelo come vi sembra opportuno. Io,
però , non ne trovo alcuno in questa vita, perciò domando al Signore di liberarmi da tutto il male per
sempre. Che bene troviamo in questa vita, sorelle, quando ci manca tanto bene e noi ne restiamo
lontane? Liberatemi signore da quest’ombra di morte! Liberatemi da tante sofferenze, liberatemi da
tanti dolori, liberatemi da tante incostanze, liberatemi da tanti obblighi di cortesia che per forza
dobbiamo osservare vivendo quaggiù , liberatemi da tante, tantissime cose che mi stancano e mi
annoiano […] Ormai non si può più vivere quaggiù cccvii.

La follia amorosa di Teresa d’Avila

Sul dolore e la confusione sofferti dall’anima innamorata di Gesù , e sull’alienazione di


questa situazione, si veda quanto aveva scritto Teresa in un suo libro di meditazioni sul
Cantico dei cantici – i tre passi provengono dal I e dal III capitolo - prendendo spunto dal verso
iniziale: “Mi baci col bacio della sua bocca”. Teresa vi ha lavorato dal 1566 al 1574, ma il libro
fu distrutto dal suo direttore spirituale perché giudicato sconveniente. Solo due copie furono
salvate.

Mi baci col bacio della sua bocca. Oh, che parole queste, mio Signore e mio Dio, per essere dette da un
verme al suo creatore! Siate voi benedetto, Signore, che ci istruite in tanti modi! Ma chi oserà , mio Re,
dirle, se voi non gliene date licenza? Sono parole che riempiono di stupore, e pertanto stupirà il fatto
che io osi porle in bocca di qualcuno… Dio mio! Ma che cosa ci fa meravigliare? La realtà non è forse
più ammirabile? Non ci accostiamo forse al Santissimo Sacramento? Mi sono, infatti, domandata se qui
la sposa non chieda questa grazia che Gesù ci ha concesso dopo. Ho pensato anche se ella chiedesse
quella strettissima unione che Dio ha attuato col farsi uomo: quell’amicizia che Egli strinse con il
genere umano perché è evidente che il bacio è un segno di pace e di grande amicizia fra due persone. Il
Signore ci aiuti a capire quante specie di pace vi siano! […]
Mio Signore, se il bacio significa pace e amicizia, perché le anime non dovrebbero chiedervi di
accordarla loro? Quale preghiera migliore possiamo rivolgervi se non quella che io faccio ora, Mio
Signore, di darmi quella pace con il bacio della vostra bocca? […]
Signore del cielo e della terra! E’ possibile che anche stando in questa vita mortale si possa godere di
voi con una così eccezionale intimità ? E che lo Spirito Santo lo dica tanto apertamente con le parole del
Cantico che noi non vogliamo capire? Di quali doni favorite le anime in questi Cantici! Quali premure,
quali tenerezze! Una sola di tali parole dovrebbe bastare a farci struggere d’amore per voi. Siate
benedetto, Signore, giacché non sarà mai per causa vostra se subiremo delle perdite. Per quante vie,
con quanti mezzi e in quanti modi ci dimostrerete il vostro amore! Con tribolazioni, con una così dura
morte, con tormenti, soffrendo ogni giorno ingiurie e perdonandole. E non solo con questo, ma con
quelle parole che voi rivolgete nel Cantico all’anima a cui insegnate a ripeterle a voi, parole che
feriscono profondamente chi vi ama che io non so come si possano sopportare, se voi non intervenite
col vostro aiuto a rendere tollerabili a chi le sente, non come meritano di essere sentite, ma in
conformità della nostra debole naturacccviii.

Teresa si mostra sconcertata, non riesce ad accettare che lo Spirito possa essersi espresso in
quel modo. Quel riferimento ai baci della bocca! L’amore verso Cristo è parola corrente presso
le monache: non è Lui lo Sposo a cui tutte sono consacrate? Come pensare però che da Lui si
possa godere di “una così eccezionale intimità ”? Sarebbe forse possibile? E lecito? Avere
Teresa da Gesù la pace, che sempre le manca, “con il bacio della sua bocca”? Dice che la natura
delle monache è debole, e il richiamo di quelle parole, anche se andrebbero dottamente
reinterpretate, è intollerabile e le spinge alla follia.
Totale il ribaltamento della realtà operato da Teresa, che toglie ogni valore alla vita terrena.
Ne consegue la stupefacente elevazione dell’amore per Cristo, lo Sposo, a esperienza reale,
capace di sostituire, con piena soddisfazione, l’amore umano. Come per Giovanni, anche per
Teresa il successo sulla via dell’orazione non dipende dalla volontà del soggetto, neppure dai
297
suoi meriti, e tanto meno dalla sua capacità e predisposizione ad interagire con la sua realtà
psichica, ma dall’intervento divino: “Il Signore in vent’anni non dà la contemplazione che ad
altri concede in uno”cccix. Pur riconoscendo di non meritarle, rivendica con forza la realtà delle
sue esperienze mistico-visionarie: “Molti sbagliano volendo conoscere le cose spirituali senza
averle provate. Non dico che chi non avesse esperienza delle cose dello spirito, se è un dotto,
non potrà guidare chi la possiede, ma deve intendersi come una guida per le cose esteriori ed
interiori che sono conformi al cammino naturale delle cose per opera dell’intelletto; nelle cose
soprannaturali stia attento di essere conforme alla Sacra Scrittura. Per il resto non si uccida,
né pensi di capire ciò che non capisce, né soffochi gli istinti perché, in quanto a ciò un altro
potente maestro lo guida, né egli è senza superiore”cccx.
Ebbe un’anima appassionata e bisognosa di affetto. Non potendo esprimersi
compiutamente nel concreto dei rapporti umani, sublima nella fede e nel lavoro religioso la
carica affettiva non soddisfatta e la preserva, la valorizza, costruendo un suo personale
rapporto con la divinità . Favorita in ciò dalla sua grande capacità di annullarsi e aprirsi al suo
mondo ideale, e da facoltà oniriche che sembrano estendersi anche alla veglia. La sua
ingenuità di fondo è confermata dal carattere delle sue visioni.
Teresa crea un rapporto personale con Gesù , di cui riesce a vedere l’umanità , assieme alla
potenza divina. Gli parla, lui le parla. Ci litiga. Accarezza con gli occhi il suo viso e il suo corpo.

In alcuni libri scritti intorno all’orazione […] si ammonisce di allontanare da sé qualsiasi


immaginazione corporea e di raccogliersi invece nella contemplazione della divinità, perché dicono
che se anche si tratta dell’umanità di Cristo essa ostacola e impedisce la più perfetta contemplazione di
quelli che sono giunti già tanto innanzi […] Qualche volta questo sembra giusto anche a me; ma
allontanarsi completamente da Cristo e pensare che questo corpo divino possa far parte delle nostre
miserie e di tutto ciò che è creato, non lo posso sopportare cccxi […] Vissi così quasi due mesi facendo
tutto il possibile per resistere ai doni e alle grazie di Dio cccxii […] Dopo vidi quanto poco importava
perché quanto più cercavo di distrarmi, più il Signore mi ricopriva di quella soavità e gloria che mi
sembrava che mi attorniassero tutta tanto da non poter sfuggire ad esse da nessuna parte; e così era
[…] Cominciai di nuovo ad affezionarmi alla Santissima Umanità […] Mentre un giorno mi ero posta in
orazione […] mi assalì un rapimento così improvviso da farmi andare quasi fuori di me […] Fu la prima
volta che il Signore mi concesse questa grazia del rapimento. Intesi queste parole: “Non voglio ormai
che tu abbia queste conversazioni con gli uomini, ma con gli angeli” cccxiii […] Mentre un giorno ero in
orazione, il Signore volle mostrarmi le sole mani di tale grandissima bellezza che io non saprei come
magnificarle. Provai un gran timore […] Dopo pochi giorni vidi anche quel divino volto che, mi sembra,
mi lasciò completamente assorta. Non potevo capire perché il Signore si mostrasse così, a poco a poco,
se dopo doveva farmi la grazia di vederlo completamente, ma alla fine compresi che la Divina Maestà
mi stava concedendoi le grazie secondo la debolezza della mia natura cccxiv.

Le gioie della meditazione, i “diletti”, la avvolgono sempre con suo grande trasporto. Devono
avere un forte sapore erotico ma lei le interpreta come sante perché le crede di origine divina.
Arriva a sentire una penetrazione nelle viscere (il Serafino). Saltuari, ma significativi, i dubbi
legati alla possibilità di influssi demoniaci, che Teresa collega esplicitamente al verificarsi di
sensazioni non propriamente “caste e pure”:

… se un’anima non vorrà lasciarsi ingannare, mi pare che il demonio non la ingannerà , tanto più se
agirà con umiltà e semplicemente. Chi ha avuto vera visione di Dio, l’avvertirà quasi subito perché la
visione creata dal demonio, pur cominciando con soddisfazioni e godimenti, l’anima la rifiuta. E
secondo il mio giudizio, anche questo godimento deve essere differente perché non si presenta come
un amore casto e puro; molto presto fa intendere di chi esso sia cccxv.

Dubbi le vengono instillati da direttori spirituali votati allo scetticismo. Teresa però esclude
recisamente la possibilità che certi eventi possano essere “immaginari”:
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Ciò non ha alcun fondamento perché solo la bellezza e il candore di una mano superano qualsiasi
immaginazione. E’ impossibile, senza averne un ricordo, senza averlo mai pensato, vedere
all’improvviso presenti cose che neppure in gran tempo potrebbero essere composte
dall’immaginazione perché esse sono assai superiori a ciò che possiamo comprendere cccxvi […] come
potremmo riprodurre con tutta la nostra arte l’Umanità di Cristo componendo con la nostra
immaginazione la sua grande bellezza? cccxvii […] Quando vedevo che Egli mi stava parlando, io guardavo
quella grande bellezza e la soavità con la quale pronunciava quelle parole con quella bellissima e
divina bocca, e mentre altre volte si esprimeva con rigore, desideravo estremamente capire di qual
colore e di che grandezza fossero i suoi occhi, per saperlo ripetere; ma mai ho meritato di vederli
perché quando tento di riuscirvi mi scompare completamente la visione cccxviii […] Quasi sempre il
Signore mi appariva nella gloria della Resurrezione ed anche nell’ostia. Qualche volta però per darmi
forza, se mi trovavo in tribolazioni, mi mostrava le piaghe, altre volte lo vedevo sulla croce o nell’orto
[…] ma sempre con la carne glorificata. Ho sofferto molti affronti e molte pene per aver detto questo e
molti timori e molte persecuzioni. Ad alcune persone pareva così certo che fossi indemoniata da voler
farmi gli esorcismicccxix.

Continuo negli anni il rapporto diretto con Dio. Dialoghi, trasporti amorosi, perdite di
coscienza:

Egli mi rassicurava e mi insegnava, come fa ancora adesso, che cosa dovevo dire a quelli che mi
comandavano […] Mi vedevo morire dal desiderio di vedere Dio e non sapevo dove potevo cercare
questa vita se non nella morte. Mi assalivano trasporti così grandi di questo amore che, anche se si
potevano sopportare più di quelli di cui ho già detto altra volta, né erano di tanto valore, io non sapevo
che cosa fare; più nulla infatti mi dava soddisfazione, né ero più in me perché realmente mi sembrava
che mi strappassero l’animacccxx.
Spesso il Signore mi dice queste parole, dimostrandomi grande amore: “Ormai sei mia ed Io sono tuo”.
Le parole che io ho l’abitudine di dire e, secondo il mio giudizio, pronuncio con grande sincerità sono:
“Che cosa m’importa, Signore, di me, se non ho Voi?”. Queste parole e questi favori fanno sorgere in me
una grandissima confusionecccxxi.

Ha anche delle premonizioni. Vede le anime che lasciano il corpo dei defunti. Onesta la
descrizione di episodi che per gli altri assumeranno carattere miracoloso come le ipotizzate
levitazioni. Teresa, che pure dice di avere sofferto tantissimo, vuole che quello che la tocca
possa diventare accessibile anche alle altre suore. In fondo è questa la principale ragione della
sua strenua lotta per una riforma del Carmelo che metta la pratica dell’orazione al primo
posto. Anima schietta, psiche disturbata e frammentabile, facilmente influenzata dagli stati
emotivi. In fondo le sue esperienze, lasciandone fuori i possibili risvolti patologici, sono in
gran parte quelle tipiche di tanti mistici di ogni orizzonte culturale, ovviamente vissute da lei
secondo propri canoni interpretativi di matrice cristiana.

Giovanni della Croce e le (pie) donne

Dopo le considerazioni dettagliate di Teresa sull’amore spirituale e i sorprendenti racconti


sulla sua vicinanza “intima” col Figlio di Dio, uno sguardo agli intriganti legami di Giovanni.
Sul peso delle presenze femminili nella vita di Giovanni della Croce, anche visto quanto hanno
negativamente pesato nell’ultimo anno di vita, si impone uno sguardo più preciso. Si potrebbe
facilmente generalizzare e dire che Giovanni prediligeva le donne e la loro compagnia. Ne era
sicuramente affascinato, amava occuparsi dei loro problemi personali e spirituali, e si sentiva
anche apprezzato, cercato, e credo che quando fosse in intimità con loro - e questo poteva
avvenire sempre nella confessione – godesse molto in cuor suo di quella “santa” complicità .

299
Abbiamo visto quanto Teresa apprezzasse l’incontro delle anime, e come non avesse
problemi a definire “amore” il rapporto fra la monaca e il suo direttore spirituale, quando si
può estrinsecare nella fiducia reciproca. Tale rapporto incrementa la spiritualità e, mettendo
al primo posto la vita ultraterrena, enfatizza gli aspetti legati alla vocazione, allo sposalizio
con Cristo, al sacrificio cosciente della propria sessualità che si però ad un godimento “altro”,
ma ugualmente elevato.
Giovanni era un uomo che poteva affascinare. Dotato di grande carisma, dolce, disponibile,
capace di affrontare viaggi faticosi per incontrare le sue figlie in Cristo, pronto ad andare
incontro a tutte le richieste, generoso nella corrispondenza epistolare, nel dono dei testi delle
sue poesie, nell’affidare a “bigliettini” i suoi consigli personalizzati. Un padre, un fratello
maggiore, sicuramente sempre un amico che poteva suscitare anche gelosie e attaccamenti
eccessivi. Un “ometto” che riempiva il grigiore e il vuoto di tante clausure non sempre
accettate in piena consapevolezza.
Alcuni stralci presi dalle sue lettere cccxxii danno un’idea del tipo di rapporti intessuti da
Giovanni con le carmelitas. A Maria de Soto in Baeza: “Mi hanno ora fatto priore di questa casa
di Granada […] Dio volesse che lei e le sue sorelle abitassero qui per poterle io contentare in
qualche modo! [...] Non tema di ricorrere al padre fra Giovanni, anche se molto affaticato”. Alla
Madre Anna di S. Alberto, priora di Caravaca: “Fino a quando, figlia, crederà di dover
camminare sorretta dalle braccia altrui? Desidero ormai di vederla in possesso di una grande
nudità e distacco dalle creature in maniera che tutto l’inferno non riesca a disturbarla. Quanto
sono inopportune le lacrime che ella sparge in questi giorni!”; “Vorrei che mi spedisse il
libriccino contenente le Strofe della Sposa; credo che ormai suor Madre di Dio lo abbia
copiato”. Ripetuti gli inviti al silenzio rivolti alle carmelitane di Beas: “Gesù sia nelle loro
anime, figlie mie. Vedendomi così muto, credono forse che io le perda di vista e che non pensi
come esse possano molto facilmente divenire sante, e possano camminare speditamente con
molta gioia e con grande sicurezza nel gaudio dell’amato Sposo? Ebbene, io verrò costì e
vedranno che non le ho dimenticate […] chi cerca gusto in qualche cosa, non si mantiene vuoto
affinché Dio lo riempia del suo ineffabile diletto e perciò come va a Dio, così se ne ritorna,
perché avendo le mani ingombre, non può ricevere ciò che Dio gli dà . Dio ci liberi da impacci
così cattivi che impediscono libertà tanto dolci e gustose“; “La loro lettera mi ha molto
consolato […] è già stato detto o scritto assai […] non v’è rimedio migliore che quello di tacere
e lavorare in silenzio e di chiudere i sensi con la pratica e l’inclinazione alla solitudine e al
distacco da ogni creatura e da ogni avvenimento, anche se il mondo dovesse sprofondare […] è
impossibile camminare con profitto, se non si procede operando e soffrendo virtuosamente,
tutto avvolto nel silenzio. Tenete per certo, o figlie, che l’anima la quale facilmente parla o
conversa, sta poco raccolta in Dio. Infatti, quando lo è, da una forza interiore ella è portata a
tacere e a fuggire qualsiasi conversazione […] La maggiore necessità che abbiamo è quella di
tacere con l’appetito e con la lingua dinanzi a questo Dio, il cui linguaggio, che Egli solo ode, è
l’amore silenzioso”. Alla Madre Leonora Battista, in Beas: “Mi faccia sapere se è certa la sua
partenza per Madrid e se viene la Madre Priora. Mi raccomando molto alle mie figlie
Maddalena, Anna e a tutte le altre, che non mi danno la possibilità di scrivere loro”.
Da tutto il carosello di questi rapporti emergono due particolari figure che, non
appartenendo al mondo dei monasteri, devono avere significato per Giovanni qualcosa di
diverso, uno spazio di maggiore libertà e di più soddisfacente sincerità . Figure femminili che
hanno vissuto a latere, fedeli, appassionate del suo insegnamento, ma anche scopertamente
desiderose della sua presenza. Bisognose di lui, della sua voce, potevano avvicinarlo con
maggiore libertà , senza grate a dividerli. Alcune lettere documentano anche questi rapporti.
Juana de Pedraza era presente alla fondazione di Baeza, poi visse a Granada. Giovanni ebbe
con lei una corrispondenza molto intensa. Vestirà un giorno l’abito religioso e condurrà vita

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monacale nella sua stessa casa. Juana si lamenta del silenzio di Giovanni e del vuoto spirituale
in cui la lascia. Giovanni la consola e le chiede di scriverle delle lettere più lunghe:

Gesù sia nell’anima sua […] ho ricevuto tutte le sue lettere, e ho sentito tutte le sue sofferenze, i suoi
mali e la sua solitudine […] Le ho già detto che non vi è ragione perché [lacuna] ma, faccia ciò che le
viene comandato e, se le viene impedito, obbedisca o mi avvisi, ché Dio provvederà al meglio. Egli si
prende cura delle cose di coloro che lo amano […] Riguardo all’anima, il mezzo migliore per essere
sicura è quello di non avere nessun attacco a niente, né alcun appetito per nessuna cosa: conviene che
lo abbia veramente e totalmente per chi la dirige, perché fare altrimenti vorrebbe dire non volere la
guida. Quando ne basta una, ed è buona, tutte le altre o non fanno al caso o disturbano […] Oh! grande
Dio e Signore di amore, quanta ricchezza ponete in colui che non ama né gusta che voi […] facendogli
in ciò gustare e amare ciò che l’anima desidera di voi […] Ma, poiché conviene che non ci manchi
[disegno di una croce] come al nostro Amato fino alla morte di amore, Egli ordina le nostre passioni
nell’amore di ciò che desideriamo di più , affinchè facciamo sacrifici maggiori e acquistiamo un
maggior valore. Ma tutto ciò dura poco, si riduce tutto fino ad alzare il coltello, poi Isacco rimane vivo
[…] Figlia mia, in questa povertà v’è bisogno di pazienza […] Ancora non so quando dovrò partire, sto
bene anche se l’anima è molto imperfetta. Raccomandatemi a Dio e dia le lettere a fr. Giovanni o alle
monache più spesso, quando è possibile, e se non fossero tanto brevi, sarebbe meglio” cccxxiii.

Dieci mesi dopo, ottobre 1589, i toni sono diversi. Giovanni sembra un po’ seccato:

Non ci mancherebbe altro ora che io la dimenticassi! Pensi un po’ come si può dimenticare ciò che si ha
nell’anima come è lei! Ma, capisco, che camminando ella nelle tenebre e nella povertà spirituale,
suppone che tutto e tutti le manchino […] Ma non le manca proprio niente perché non ha, né conosce,
né potrà trovare cose di cui preoccuparsi: i suoi dubbi sono tutti senza alcun fondamento […] chi non
presume di sé e non va in cerca dei propri gusti in Dio o nelle creature, e non fa la propria volontà in
questa o quella cosa, certamente non trova ostacoli né cosa da trattare. Ella cammina bene; perciò non
si preoccupi e stia allegra. Chi è lei per avere cura di sé? Andrebbe a finir bene! Non è stata mai meglio
di ora, perché mai è stata così umile e sottomessa, mai ha fatto tanto poco conto di sé e di tutte le cose
del mondo […] Che cerca dunque? Quale ideale ha della vita e in qual modo crede di poterla attuare qui
in terra? Che pensa che sia il servire a Dio, se non astenersi da ogni male, osservare i suoi
comandamenti e attendere alle cose divine meglio che possiamo? Quando vi è questo, che necessità vi
è di tante altre fantasticherie e lumi e gusti, umani o divini, in cui per solito non mancano inciampi e
pericoli per l’anima, la quale nei suoi modi di intendere e nei suoi appetiti si inganna e si stordisce, ed è
tratta in errore dalle sue stesse potenze? […] Si rallegri dunque e si affidi a Dio, che le ha dato segni
onde conoscere che può fidarsi e molto bene, e anzi deve farlo, altrimenti non c’è da meravigliarsi se il
Signore si disgusterà con lei vedendola camminare sì scioccamente mentre egli la guida per la via che
più le conviene avendola posta in un luogo tanto sicuro […] Si comunichi secondo il solito e, quanto a
confessarsi, lo faccia quando avesse qualche mancanza manifesta: fuori di ciò , non c’è bisogno che ella
manifesti le sue cose: qualora avesse qualche cosa di speciale, me lo scriverà . Mi scriva presto e più
spesso, poiché potrà farlo per mezzo di Donna Anna, e quando costei non potesse, per mezzo delle
monache […] Sono stato un po’ malato, ma ora sono guaritocccxxiv.

Nata a Segovia, discendente dalla famiglia aristocratica dei Mercado, Donna Anna aveva
sposato Juan de Peñ alosa, da cui aveva avuto una figlia, Mariana. Qundo resta vedova, e perde
anche la figlia dell’età di sette anni, va a vivere a Granada presso il fratello Don Luis, anche lui
vedovo, e la nipote Ines. Quando Giovanni arriva a Granada con il gruppo delle monache per
la fondazione del nuovo monastero, non essendo più disponibile la casa, lei accoglie tutti nel
suo palazzo. Nasce così una tenera amicizia che durerà tutta la vita. Anche Don Luis avrà
rapporti eccellenti con Giovanni. Finirà col farsi prete e diventerà cardinale.

Nel periodo di ospitalità presso la nobildonna, una sorella è testimone di una scena singolare. Donna
Anna è inginocchiata ai piedi del suo confessore. Con le lacrime, chiede a Giovanni ciò che gli resta su

301
questa terra e che può donare a lei senza sottrarlo all’amore di Dio. Volto altrove e con gli occhi chiusi,
Giovanni ripete: “Niente, niente fino a lasciarci la vita, e il resto per Cristo” cccxxv.

A Donna Anna Giovanni della Croce dedicherà quattro strofe sull’intima unione dell’anima
con Dio, culmine del processo contemplativo. La Llama de amor viva, testo complesso,
caratterizzato da allegorie e simbolismi che a volte assumono più il carattere di doppi sensi
assai intriganti. Dovrà poi sottostare alla richiesta di Donna Anna che non vorrà essere da
meno di Madre Anna di Gesù e ne pretenderà anche il commento:

Ho provato un po’ di esitazione, nobile e devota Signora, a commentare queste quattro strofe che
Vostra Signoria mi ha richiesto poiché, trattandosi di un argomento così intimo e spirituale,
ordinariamente non si può trovare un linguaggio adeguato ad esso (infatti ciò che è spirituale eccede il
senso). Con difficoltà quindi si può dire qualcosa intorno alla sostanza dello spirito giacché chi non
possiede spirito interiore, male può parlare di esso. Poiché io ne ho così poco, ho differito la cosa fino a
questo momento; ma ora mi sembra che il Signore mi abbia aperto un poco l’intelligenza e infuso un
certo fervore (deve essere per il desiderio di V.S., volendo forse che vengano spiegate per lei quelle
strofe che per lei sono state composte) e ho preso coraggio… cccxxvi

O fiamma d’amor viva,


che soave ferisci
dell’alma mia nel più profondo centro!
Poiché non sei più schiva,
se vuoi, ormai finisci;
rompi la tela a questo dolce incontro!
O cauterio soave!
O deliziosa piaga!
O blanda mano! o tocco delicato,
che sa di vita eterna,
e ogni debito paga!
Morte in vita, uccidendo, hai tu cambiato!

O lampade di fuoco,
nel cui vivo splendore
gli antri profondi dell’umano senso,
che era oscuro e cieco,
con mirabil valore
al lor Diletto dan luce e calore!

Quanto dolce e amoroso


ti svegli sul mio seno,
dove solo e in segreto tu dimori!
Nel tuo spirar gustoso,
di bene e gloria pieno,
come teneramente mi innamori!

Come negare che il verso finale abbia tutti i caratteri di un billet doux, scritto mirando alla
soddisfazione intima di chi lo riceve? E quanto contenta deve essere stata Anna a riceverlo!
302
Restano due lettere di Giovanni ad Anna del Mercado y Peñ alosa, scritte entrambe nel 1591,
l’anno della morte. Giovanni è confinato nel piccolo convento della Peñ uela, mentre è in pieno
sviluppo la campagna diffamatoria scatenata contro di lui da Diego Evangelista:

Gesù sia nell’anima sua. Anche se per mezzo di Baeza ho già descritto il mio viaggio, mi sono rallegrato
che in questi giorni siano passati due servi di Don Francesco per scrivere queste righe, il cui recapito
sarà più sicuro. In quella lettera dicevo che mi ero voluto fermare in questo deserto de la Peñ uela, sei
leghe prima di Baeza, dove mi trovo da circa nove giorni. Grazie a Dio mi ci trovo molto bene, poiché la
vastità del deserto aiuta molto l’anima e il corpo, anche se l’anima è molto povera. Il Signore deve
volere che anche l’anima abbia il suo deserto spirituale. Sono contento che avvenga come a lui piace
[…] Non so quanto mi durerà […] io intanto mi trovo bene senza saper nulla e la pratica del deserto è
mirabile. Stamani siamo già tornati da cogliere i nostri ceci e così tutte le mattine. Un altro giorno li
batteremo. E’ bello maneggiare queste creature mute, meglio che essere maneggiati da quelle vive […]
Si curi dell’anima, ma non confessi gli scrupoli, i primi moti e le avvertenze delle cose quando l’anima
non ci si vuole fermare. Si preoccupi anche della salute fisica e faccia l’orazione quando la può
farecccxxvii.

Gesù sia nel suo cuore, figlia. Ho ricevuto qui, a La Peñ uela, il plico di lettere recapitato dal servo […]
Domani parto per Ubeda per curarmi di alcune febbriciattole che, a mio parere, hanno bisogno
dell’aiuto della medicina perché mi tormentano da otto giorni. Vado, ma con l’intenzione di ritornare
qui quanto prima, perché in questa solitudine mi trovo tanto bene […] Mi sono rallegrato molto nel
sentire che il signor Don Luis è già sacerdote di Dio […] anche se fossi di memoria labile, non potrei
non rammentarmi di lui, essendo il suo ricordo sì congiunto a quello di sua sorella, di cui non mi
dimentico mai […] Ora non ho altro da scrivere e cesso anche per causa della febbre, benchè vorrei
dilungarmicccxxviii.

Interessanti alcune affermazioni di pugno di Giovanni, tutte riconducibili all’ultimo anno di


vita, che mostrano un cambiamento di tono, un forte calo di entusiasmo, un atteggiamento
incerto e dubbioso a proposito di se stesso, e che si accompagnano a flebili tentativi di
autodifesa.
Così scriveva a Madre Anna di Gesù , alla quale aveva dedicato il commento al suo Cantico
spirituale - sua coetanea e “sorella in Cristo” e grande amica anche di Teresa - che gli aveva
espresso il suo dispiacere perché non era stato rieletto Superiore: “… le cose che ci
dispiacciono, per quanto buone e opportune, sembrano cattive e avverse, ma nel caso
presente si vede bene che la cosa non è così né per me né per nessun altro. Nei miei riguardi è
molto vantaggiosa, perché essendo libero dal governo delle anime, col divino favore posso a
mio piacimento godere la pace, la solitudine e il dolce frutto dell’oblio di me stesso e di tutte le
creature. Anche per gli altri poi è bene che io sia tenuto in disparte, perché così essi andranno
immuni da quegli errori che avrebbero fatto a cagione della mia miseria. Figlia, la prego di
chiedere al Signore che continui a farmi ad ogni costo questa grazia, perché temo ancora che
mi facciano venire a Segovia e non mi lascino perciò libero del tutto […] Ma che io venga o
rimanga, dovunque mi trovi e comunque stia, non la dimenticherò ”cccxxix. Anna di Gesù era
destinata a una luminosa carriera nell’ordine carmelitano e porterà la riforma teresiana in
Francia e nelle Fiandre.
L’atteggiamento nei confronti delle “sue” donne sembra mutare con il crescere dell’offensiva
di Diego Evangelista. Giovanni raccomanda la cautela nelle confessioni, cosa che del resto
aveva sempre fatto anche con le monache. Ossessivo, come sempre, l’invito al silenzio. Alla
fine della sua vicenda umana Giovanni si esprime con toni diversi, si dichiara dubbioso anche
sulla correttezza del suo agire. Mostra del pentimento. Nei confronti di Juana de Pedraza si
mostra anche freddo e scostante, la scoraggia, la allontana da sé. Giovanni è sempre stato
sincero, ha seguito i suoi impulsi, tanto parlare d’amore deve avergli confuso le idee. Il
sentimento che coltivava, generico, entusiasta, aperto a tutte, lo portava a giustificarlo e
303
considerarlo come propedeutico all’amore divino, una via terrena che apriva la porta verso lo
Sposo vero, quello celeste?
Era stato così anche per Rū zbehā n Baqlī, e per gli altri mistici dell’amore. Giovanni non ha
sicuramente mai concupito alcuna femmina, forse non ne era nemmeno capace. In questo
senso i versi della Noche oscura potrebbero essere esplicativi del suo stato d’animo. Era solo il
bisogno d’affetto a spingerlo a circondarsi di tante “femmine”. Le donne gli piacevano, ne
aveva bisogno. Un amore da prete il suo, che stuzzicava e si ritirava, una finzione continua, un
gioco? Teresa lo aveva giocato per anni prima di decidersi a lasciarlo, per percorrere la strada
apertamente border line delle visioni e dell’estasi.
In fondo anche Giovanni, che fu per anni un mistico soprattutto “di testa”, seguì lo stesso
percorso. Abbandonò l’idea della Certosa, che pure gli sarebbe stata tanto congeniale, quando
conobbe Teresa e il mondo dei monasteri. Vi si barcamenò per anni, rispondendo a fatica ai
tanti impegni che gli venivano richiesti da superiori indaffarati e ambiziosi. Negli ultimi anni,
dopo Granada, mostra di prediligere il silenzio, la preghiera solitaria nelle grotte, gli
atteggiamenti da eremita. Capisce che tanta passione per l’universo delle donne lo aveva
spolpato, lasciandolo inutilmente stremato e solo?
Capisce che quello di cui aveva veramente bisogno era il “suo” Sposo, uno sposo per sé, e
realizza che per averlo non aveva bisogno di nessuno. Doveva solo potere pensare a se stesso,
ritornare a se stesso. Non era problema di scrivere lunghi e defatiganti commenti ai versi
semplici del suo cuore bambino. Giovanni a un certo punto cerca disperatamente una via
d’uscita. Tutto si era dimostrato fittizio, fasullo. Aveva messo in piedi una giostra di rapporti
dai piedi di argilla. Ora le monache distruggevano i suoi ritratti, bruciavano i suoi biglietti.
Aveva folleggiato, ingenuamente, fin troppo.
Qualche altro frammento porta ulteriore luce sugli ultimi mesi di Giovanni. Alla Madre
Maria dell’Incarnazione, in Segovia: “… Di ciò che riguarda la mia persona, figlia mia, non si
prenda pena, poiché io non me ne prendo affatto. Quello che invece grandemente mi addolora
è che se ne dia la colpa a chi non l’ha, poiché certe cose non sono opera degli uomini, ma di
Dio, il quale sapendo quello che è conveniente per noi, dispone tutto a nostro bene. Non pensi
altro, se non che tutto è disposto da Dio. E dove non v’ è amore, metta amore e ne ricaverà
amore”. Gli stessi toni confusamente autoassolutorii nella lettera alla madre Anna di S.
Alberto: “Figlia mia, avrà certamente saputo dei molti travagli a cui siamo sottoposti. Dio li
permette per la gloria dei suoi eletti. Nel silenzio e nella speranza sarà la nostra forza…”. Il
finale si colora di toni molto amari. Lettera al Padre Giovanni di S. Anna: “Figlio, non si
addolori di ciò , poiché l’abito non me lo possono togliere che per incorreggibilità o
disobbedienza, mentre io sono prontissimo a emendarmi in tutto ciò in cui avessi mancato e a
sottostare a qualunque penitenza che mi sarà imposta”. Lettera al P. Antonio di Gesù ,
provinciale di Andalusia, suo primo priore a Duruelo: “… Padre: non vengo a fare la mia
volontà , né a scegliermi la casa. Vostra reverenza veda dove debba andare, e ivi andrò …”.
Lettera al padre Giovanni Evangelista, carmelitano Scalzo di Malaga (frammento, da Cant. 1,5):
“… Filii matris meae pugnaverunt contra me”.
Al momento della morte lascia capire che quello che lo aveva appassionato era stato solo
l’amore sincero, senza finzioni, del Cantico dei cantici. Ma questo tornare alle origini non era
in fondo ribadire i due corni del suo dilemma insolubile, vivere solo per il Dio del cielo – cosa
che aveva potuto fare solo in parte - , ma cercarlo già qui in terra, magari in un paio di occhi
neri, sapendo però che le due cose erano incompatibili? Se deve essere notte, che sia oscura. Ci
voleva più coraggio. Giovanni ha voluto l’una cosa e l’altra, e fu deluso da entrambe.

Mahdia, 12 giugno 2015


304
Note

305
i

IL CANTICO DEI CANTICI

Gianfranco Ravasi, Il Cantico dei cantici, EDB, Bologna 1992.


ii
Le informazioni contenute in questa rassegna provengono dall’opera di Ravasi. Mi
assumo la responsabilità del loro
succinto recepimento e non ritengo opportuno, vista la natura del mio lavoro,
procedere all’identificazione dei testi
di riferimento, che sono tutti facilmente rintracciabili nel libro di Ravasi.
iii
Guido Ceronetti, Il Cantico dei cantici, Adelphi, Milano 1975.
iv
Versione a cura della C.E.I. ripresa da La Bibbia a cura dei Gesuiti di “La Civiltà
Cattolica”, Roma e di San Fedele,
Milano (3° edizione).
v
Martin Buber, Confessioni estatiche, Adelphi, Milano 2010, p. 94 sgg.
vi
Ravasi, op. cit., p. 671.
vii
Buber, p. 173-174.
viii
Ravasi, op. cit., p. 808.
ix
Pietro Citati, Quelle cacciatrici di Dio, articolo de “La Repubblica” del 10.2.1989. In
Ravasi, p. 745.
x
Ravasi, op. cit., p. 770.
xi
Ivi, p. 128.
xii
Ivi, p. 131.
xiii
Ivi, p. 624.
xiv
Ivi, p. 127.
xv
Ivi, p. 661.
xvi
Ivi, p. 75.
xvii
Ivi, p. 76.
xviii
Ivi, p. 120.
xix
Ivi, p. 41.
xx
Ivi, p. 42.
xxi
Ivi, p. 133.
xxii
Ivi, p. 625.
xxiii
Ivi, p. 803.
xxiv
Ivi, p. 103.
xxv
Ivi, p. 119.
xxvi
Ivi, p. 662.
xxvii
Ivi, p. 42.
xxviii
Ivi, p. 683.
xxix
Ivi, p. 708.
xxx
Ivi, p. 711.
xxxi
Ceronetti, op. cit., p. 81.

IBN ARABI
xxxii
S.A.Q. Husaini, Ibn al ‘Arabī, the great muslim mystic and thinker, Muhammad
Ashraf Lahore, 1931, p. 2
xxxiii
Idem.
xxxiv
Ivi, p. 4-5.
xxxv
Ibn ‘Arabī, Kitāb al-futūhāt al-makkīyya, (d’ora in poi Futūhāt). In H. Corbin,
L’immaginazione creatrice, le radici del sufismo, Laterza, Bari 2005, p. 38-39.
xxxvi
J. Chevalier, I Sufi, mistici dell’islam, Xenia Milano, 1995, p. 15.
xxxvii
H. Corbin, op. cit., p. 43.
xxxviii
Ibn ‘Arabī, L‘interprete delle passioni, a cura di Roberto Rossi testa e Gianni De
Martino, Urra-Apogeo srl, Milano
2008, p. 14-15. Dalla prefazione all’edizione inglese di A. Nicholson.
xxxix
Ivi, p. 16.
xl
Dall’opera di R. H. Nicholson “The Tarjumān al-ashwāq, a collection of mystical odes
by Muhyʼddin al ‘Arabī, London
1911, p, 10 sgg. In H. Corbin, op. cit., p. 123 sgg.
xli
H. Corbin, op. cit., p. 122,124.
xlii
Ivi, p. 125.
xliii
Ivi, p. 127.
xliv
In L’Epistola del perdono-Il viaggio nell’aldilà di Abū l-ʽAlā Al-Maʽarrī, Ed. Einaudi,
traduzione di Martino Diez, 2011.
xlv
Ibn ‘Arabī, Fusūs al-hikam. In H. Corbin, op. cit., n. 54, p. 272.
xlvi
H. Corbin, op. cit., n. 65, p. 273.
xlvii
Ibn ‘Arabī, Fusūs… In H. Corbin, op. cit., n. 26, p. 265.
xlviii
Cfr. H. Corbin, op. cit., n. 78, p. 276.
xlix
Cfr. H. Corbin, op. cit., p. 111.
l
Ibn ‘Arabī, Futūhat, in H. Corbin, op. cit., n. 10, p. 299.
li
Cfr. Suzuki, Essai sur le buddisme zen, 1958.
lii
Cfr. H. Corbin, op. cit., p. 166.
liii
Ivi, p. 56.
liv
Ivi, n. 34, p. 267
lv
Ivi, n. 35, p. 267.
lvi
Ivi, p.164.
lvii
Dal commento di Kā shā nī ai Fusūs, in H. Corbin, op. cit., n. 59, p. 294.
lviii
H. Corbin, op. cit., p. 153.
lix
Ibn ‘Arabī, Tarjumān…, in H. Corbin, op. cit., p. 122.
lx
Cfr. H. Corbin, op. cit., p. 122.
lxi
H. Corbin, op. cit., p. 47.
lxii
Ivi, p. 133.
lxiii
Ivi, p. 135.
lxiv
Ibn ‘Arabī, Futūhāt, in H. Corbin, op. cit., n. 18, p. 284.
lxv
Cfr. H. Corbin, op. cit., n. 24, p. 285.
lxvi
Gianni De Martino, L’eccedenza mistica, prefazione a L’interprete delle passioni a cura
di Roberto Rossi Testa e
Gianni De Martino, Urra-Apogeo srl, 2008, p. XVI.
lxvii
Ivi, n. 25, p. XVII.
lxviii
H. Corbin, op. cit., p. 144.
lxix
Dal commento di R. A. Nicholson a Jalā loddīn Rū mī, Mathnawī, in H. Corbin, op. cit., n.
48, p. 290.
lxx
Rū zbehā n Baqlī Shīrā zī, Le Jasmin des fidéles d’amour, a cura di Henry Corbin,
Verdier, 1991, p. 181. Traduzione
mia.
lxxi
Cfr. M. Azizullah, Glimpses of the hadith, pubblicato dall’autore, Karachi, 1965, p. 39.
L’Imam Shafi’i (fondatore
dell’omonima scuola giuridica): “It is stated that in his childhood he saw the Holy
Prophet in his dream vho put his
saliva into his mouth”.
lxxii
Rū zbehā n, op. cit.,p. 188. Traduzione mia.
lxxiii
Ivi, p. 234
lxxiv
Ivi, dal prologo di H. Corbin. p. 37 sgg.
lxxv
Ivi, p. 46 sgg.
lxxvi
Ivi, p. 65.
lxxvii
H. Corbin, op. cit., p. 97.
lxxviii
Ivi, p. 63-64.
lxxix
Ivi, n. 10, p. 260. Riferimento al pensiero del filosofo contemporaneo Etienne
Souriau.
lxxx
Ivi, p. 84.
lxxxi
Corano vii,172 e xxxiii,72.
lxxxii
Ibn ‘Arabī, Futūhāt, in H. Corbin, op. cit., n. 13, p. 321.
lxxxiii
Corbin, op. cit., n. 15-23, p. 322-326.
lxxxiv
Rū zbehā n Baqlī, Le jasmine des fidèles d’amour, p. 133. Traduzione mia.

RUMI
lxxxv
Abu Yazid Tayfur Bistā mī (800-874) è chiamato il “maggiore” o Bayazid. E’
considerato l’iniziatore del sufismo iraniano. La sua biografia rimane quasi
sconosciuta. sembra avere insegnato diritto musulmano prima di dedicarsi
completamente alla preghiera contemplativa. Con tutta probabilità non scrisse nulla. I
suoi discepoli raccolsero alcune sue sentenze, ma organizzarono una scuola soltanto
un secolo dopo la sua morte. Su di lui fiorirono minumerosissime leggende. Fu di una
volontà implacabile contro se stesso, di una luciditò tagliente. Il mistico deve
purificarsi, liberarsi non soltanto di ogni sporcizia, ma di tutto ciò che potrebbe
costituire il suo sé. La creatura si deve annullare di fronte al suo Creatore. Diceva
ancora, tanto si sentiva annullato in se stesso e invaso da Dio: “Io sono il vostro Signore
supremo! Io sono il Trono di Dio! Lode a Me! Lode a Me! Che la Mia gloria sia grande!”.
Ma era costernato e confuso, quando, ritornato in sé, gli venivano riferite le sue parole.
Venne bandito dalla sua città natale più di una volta. Diceva di aver compiuto un
viaggio celeste (mi’rāj) simile a quello del Profeta. (Vedi Jean Chevalier, Le Soufisme,
Presses Universitaires de France, Paris, 1991)
lxxxvi
Versi tratti dal ghazal n. 2, facente parte della selezione di cinquanta ghazal
operata da Alessandro Bausani, alla quale mi sono costantemente rifatto per quanto
riguarda il Divān Shams-i Tabrīz. (Rumi, poesie mistiche, a cura di Alessandro Bausani,
Rizzoli Milano, 1993).
lxxxvii
Vedere William Chittick, Me and Rumi: l’autobiografia di Shams-e Tabrīzi, Fons
Vitae, 2004).
lxxxviii
William Chittick, op. cit. p. 742-743.
lxxxix
Vedi alla nota Ixxxvi.
xc
Alessandro Bausani, op.cit. introduzione, p. 34.
xci
E. H. Whinfield, Masnavī i Ma’navī – The Spiritual Couplets, Trü bner & Co, London
1887.
xcii
E. H. Whinfield, op. cit., introduzione, p. XVI. Traduzione mia.
xciii
E. H. Whinfield, op. cit., introduzione, p. XVI.
xciv
E. H. Whinfield, op. cit., introduzione, p. XV.
xcv
Ivi, p. XVI-XVIII.
xcvi
A. Bausani, op. cit., p. 27 (Introduzione al Divān).
xcvii
R. Nicholson, The Mathnawī of Jaālalu’d-Din Rümī, Leiden, 1925-1937, 8 voll. 3°
volume, 1360-61 (in A. Bausani, op. cit., introduzione, p. 23)
xcviii
Ivi, III, 1367-73. (in. Bausaani, op. cit., p. 23).
xcix
Ibn al-Arabī, al-Futühāt al-Makkiyya, ed. Uthmā n Yahyā , Cairo.
c
Ivi, 1,207, (in Bausani, op. cit., p. 24).
ci
A. Bausani, op. cit.. p. 24.
cii
R. Nicholson, op. cit., I, 598 sgg.
ciii
Ivi, I, 635-637.
civ
A. Bausani, op. cit., p. 24-25.
cv
R. Nicholson, op. cit., I, 937-39; 1074-77.
cvi
Ivi, II, 2942-43.
cvii
Ivi, V, 3637 sgg.
cviii
Ivi, I, 718-24.
cix
Tahar Ben Helal, Pensèe et être dans la philosophie moderne et contemporaine (essai
sur trois tendances), Latrach Editions, Tunis 2014. Traduzione mia.
cx
Ivi, p. 85 (cfr. Wittgenstein, Tractatus, Gallimard, 1961, 4.116)..
cxi
Ivi, p. 90 (cfr. R. Carnap, La science et la mètaphisique devant l’analyse logique du
language, Hermann et Co, Paris, 1934, pp. 36-37).
cxii
Ivi, pp. 138-140 (cfr. M. Heidegger, Essais et conferences, Gallimard, Paris 1958, pp.
151-153).
cxiii
Ivi, pp. 102-103.
cxiv
Ivi, p. 140-141.
cxv
M. Heidegger, op. cit., p. 159.
cxvi
La Fātiha è la Sura Aprente del Corano. Molto breve, solo sette versi, in forma di
preghiera.
cxvii
Ben Helal, op. cit., p. 215.
cxviii
Ivi, p. 145.
cxix
Ivi, p. 177 (cfr. Merleau-Ponty, Sens et Non-Sens, Editions Nage!, Paris.1948, p.168).
cxx
Ivi, p.177.
cxxi
Rū zbehā n Baqlī, Le jasmin des fidèles d’amour, Verdier 1991. Tradotto in francese da
Henry Corbin. La traduzione dei brani selezionati è mia.
cxxii
Ivi, p. 48.
cxxiii
Ivi, p. 59.
cxxiv
Ivi, p. 188.
cxxv
Ivi, p. 234.
cxxvi
H. Corbin, L’immaginazione creatrice, VEDERE p. 63
cxxvii
Ivi, p. 88.
cxxviii
Ivi, p. 97.
cxxix
Ivi, p. 240.
cxxx
J. Chevalier, op. cit., p. 101.
cxxxi
F. Lewis, Rumi…, p. 323. Traduzione mia.
cxxxii
Ivi, p. 324.
cxxxiii
Hujwiri, Kashf al-mahjub, traduzione ridotta di R. A. Nicholson, Gibb Memorial
volume, XVII, Leyden-London 1911, p. 416. (Cfr. Talat Sait Halman/Metin And,
Mevlana Celaleddin Rumi and the Whirling Dervishes, Dost Yayinlari, Istambul 1992, pp.
82-83). Traduzione dall’inglese mia.
cxxxiv
Si tratta di forme, senza senso, della radice araba trilittera f-ʽ-l che servono a
indicare mnemonicamente i vari piedi della metrica tradizionale.
cxxxv
Whinfield, op. cit., p. XXXI.

DANTE
cxxxvi
Cv I I 14-18
cxxxvii
Cv I III 4-6
cxxxviii
Cv I I 18
cxxxix
Cv I II 15-17
cxl
Cv II XII 1-8
cxli
Cv II XV 10-12
cxlii
Dante Alighieri, Convivio. Prefazione, note e commenti di Piero Cudini. Garzanti, 1995.
cxliii
Cv II XII 8-10
cxliv
Piero Cudini, op. cit. , p. 130-131.
cxlv
Dante Alighieri, Le Rime, introduzione, note e commenti di Piero0 Cudini, Garzanti,
1992, n. 29.
cxlvi
Cv III III 15
cxlvii
Cv III XV 15
cxlviii
Cv III XI 13
cxlix
Cv III XIII 10
cl
Cv III XIV 2
cli
Piero Cudini, op. cit., p. 215.
clii
Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Bietti Milano, 1953, Vol. I, p.
52-63.
cliii
Gianfranco Contini, Letteratura Italiana delle origini, Sansoni, Milano 1996, p. 303
cliv
Idem, p. 305
clv
Idem, p. 336
clvi
Idem, p. 362
clvii
DVE II VI 4
clviii
Antonio Banfi, Studi per Dante, Milano 1935, p. 102
clix
Cv IV II 9-10
clx
Cv II XII 10
clxi
Dante Alighieri, Le rime, introduzione, note e commenti di Piero Cudini, Garzanti,
1992, n. 23, p. 103.
clxii
Cv II II 1-2
clxiii
Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, a cura di Vittore Branca.
Mondadiori, Milano 1974. Dal sito
web: Biblioteca dei Classici Italiani di Giuseppe Bonghi.
clxiv
Boccaccio, op. cit.
clxv
Dante Alighieri, Le rime, introduzione, note e commenti di Piero Cudini, Garzanti,
1992.
clxvi
Boccacio, op. cit.
clxvii
Piero Cudini, op. cit., p. XIX.
clxviii
Marco Vitruvio Pollione (80 a.c. circa-15 a.c. circa), architetto e scrittore romano.
Epoca augustea. Ha progettato e costruito la Basilica di Fano. La sua opera è
anteriore al grande rinnovamento dell’architettura romana (laterizio,
grandi cupole). Il suo trattato De architectura in 10 libri è l’unico trattato di
architettura romana giunto integro.
Petrarca ne aveva una copia annotata. Anche Boccaccio lo possedeva. Riscoperto
nel XV secolo (Ghiberti, Alberti,
Francesco di Giorgio Martini, Raffaello), diventa uno dei fondamenti teorici
dell’architettura fino al XIX sec. Vitruvio
ha evidenziato le “misure” dell’uomo ideale, ma non ha mai parlato di inserimenti in
figure geometriche. La cosa
nel XV secolo doveva essere “nell’aria” perché Leonardo (ma non solo lui) la
concretizza nel famoso disegno
dell’ “uomo vitruviano”. Petrarca e Boccaccio conoscevano Vitruvio. Sicuramente
anche Dante. Allora il problema
di un rapporto fra forma umana e figura geometrica (a simbolizzare l’incarnazione
di Cristo), da lui inserito nella
visione divina che chiude la Commedia, sarebbe una sua intuizione, e non di
Vitruvio, e ad essa Leonardo potrebbe
essersi ispirato.
[…] dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta della nostra effige:
perché ‘l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’ indova;
ma non eran da ciò le proprie penne […]

HAFEZ
clxix
Hafizonlove.com
clxx
Divān-e-Ḥāfeẓ a cura di P. N. Khā nlari, 3° ed., 2 voll., Tehran 1996.
clxxi
Ḥ ā feẓ, Ottanta canzoni, a cura di Stefano Pellò , Giulio Einaudi Editore, Torino 2008
(trattasi della scelta antologica compiuta sulla versione italiana integrale dei ghazal di
Hafez pubblicata a cura di di Stefano Pellò e di Gianroberto Scarcia per i tipi
dell’editore milanese Ariele (Hafez, Canzoniere, 2005); le traduzioni sono basate
sull’edizione del Divān a cura di Parviz Nā tel Khā nlari (1996), dalla quale sono stati
tratti i testi originali). La numerazione dei ghazal corrisponde all’edizione persiana di
riferimento.
clxxii
Rū zbehā n Baqlī Shīrā zī, La jasmin des fidèles d’amour, traduzione dal persiano di
Henry Corbin, Verdier, 1991, pp. 119-121. La traduzione dal francese è mia.
clxxiii
H. Corbin, L’immaginazioine creatrice, le radici del Sufismo, Laterza, Bari 2005, pp.
110-111.
clxxiv
Cfr. in Stefano Pellò , introduzione, p. XVI, a Hafez, Ottanta canzoni, op. cit.
clxxv
S. Pellò , Introduzione, op. cit., p. XIII.
clxxvi
Zipoli, 2003, p. 249, cfr. in Pellò , Introduzione, op. cit., p. XIII.
clxxvii
S. Pellò , Ivi, p. XIV.
clxxviii
Ivi, p. XV.
clxxix
Shaikh Nagn ad-Din Razī, detto Dā ye, L’osservatorio dei servi di Dio, 1223, in Omar
Khayyā m, Quartine, traduzione di A. Bausani, introduzione, p. XV, Einaudi Torino,
1956.
clxxx
Omar Khayyā m, Quartine, traduzione di A. Bausani, Einaudi Torino, 1956.
clxxxi
Ibidem, nota Bausani a p. 3 dell’introduzione.
clxxxii
Ruzbehā n, op. cit., i numeri fanno riferimento ai paragrafi.
clxxxiii
Poesia dell’Islàm, a cura di Gianroberto Scarcia, Sellerio Editore, Palermo 2004, p.
148.
clxxxiv
Farid ad-Din ʽAṭṭā r, Il poema celeste, Fabbri editore Milano, 1999.
clxxxv
Jean Chevalier, I Sufi, mistici dell’Islàm, Xenia Milano, 1995, p. 53.
clxxxvi
Poesia dell’Islàm, op. cit., p. 110.
clxxxvii
Saʽdi, The Golestan, trad. Richard Francis Burton (1821-1890), Iran Chamber
Society, www. iranchamber.com; esaminato anche il testo di James Ross, Londra 1890.
Mia la traduzione dall’inglese.
clxxxviii
Poesia dell’Islà m, op. cit., p. 212.
clxxxix
Ivi, p. 219.
cxc
Ivi, p. 223.
cxci
Ivi, p. 267.
cxcii
Ivi, p.276.
cxciii
Ralph Waldo Emerson, in R. Nicholson, Sufismo e mistica islamica, Libritalia, 1997, p.
128.
cxciv
Il Poema celeste, op. cit., Introduzione p. 11.
cxcv
Cfr. in R. Nicholson, op. cit., p. 127.
cxcvi
S. Pellò , Introduzione, op. cit., p. XVII.
cxcvii
E. G. Browne, A literary history of Persia, vol. III, London, Cambridge University
Press, 1920, p. 209-300. ī
cxcviii
Helmut Ritter, “Philologika XV: Farīduddin ʽAttār. III.7. Der Dīwān”, in Oriens 12,
1959, pp. 1-88.:
cxcix
R. Nicholson, op. cit., p. 123.
cc
Hafez, Canzoniere, a cura di S. Pellò e G. Scarcia, Edizioni Ariele, Milano 2005.
cci
S. Pellò , op. cit., introduzione, p. XXVII.
ccii
A. Schimmel, A two colored brocade: the imagery of Persian poetry. Chapel Hill: The
University of North Caroline press, 1992, p. 3.
cciii
A. Schimmel, The genius of Shiraz: Saʽdi and Hafez. In Yarshater E. (Ed) Persian
literature. Albany: Bibliotheca Persica, 1988..
cciv
G. M. Wichens, Hafiz, The encyclopedia of Islam, vol. III. Leiden: E.J. Brill. 1965.
ccv
Khan, I, The Sufi message of Inayat Khan, Vol. X, London, Barrie and Jenkins, 1964.
ccvi
Meher Baba, The everything and the nothing, Beacon Hill: Meher House Publications.
1989.
ccvii
Jā ḥ eẓ (776-869), il principale prosatore arabo del IX secolo.t
ccviii
Helmut Ritter, Das Meer der Seele, 1955-The ocean of the soul, Men, the world and
God in the Stories of Farid al-din ʽAṭṭār, Leiden, 2003.
ccix
Zā ngi Bukhari, Nuzhat al-āseqin.
ccx
Nell’elaborazione di questo capitolo ho fatto ricorso alla voce “Omosessualità nella
letteratura persiana” della “Enciclopedia Iranica online”.
ccxi
S. Pellò , op. cit., introduzione, pp. XXII-XXIII.
ccxii
Hans Heinrich Schaeder (1938:121) in S. Pellò , op. cit., introduzione, p. XXIII.
ccxiii
S. Pellò , op. cit., intrpoduzioone, p. XXIII..
ccxiv
“Il contenuto vive e si muove nel cervello dell’artista e diventa forma, la quale è
perciò il contenuto esso medesimo in quanto è arte” (nota 3 in: Ida De Michelis: Un
seminario desanctisiano, Sezione prima: Paradigmi. “Fede nel contenuto, senso della
forma”. Sul Web). Per De Sanctis il contenuto è cosa, materia, realtà , vita; è formato
storicamente, ha precise coordinate spazio-temporali. “De Sanctis rappresenta la felice
sintesi di una visione e di uno schema storico con una critica appassionatamente tesa a
scoprire il mondo di un poeta” (Renè Wellek, Grandezza del De Sanctis, in Tedeschi
Muscetta, Per leggere De Sanctis, Bonacci, Roma 1983, p. 274-76). “E’ solo la
concretezza, la specificità viva e vitale del contenuto, la sua appartenenza ad una ben
definita situazione, storica e psicologica, a dare al poeta la vera fonte della poesia e al
critico lo strumento per ripercorrerne e comprenderne la genesi” (Ida De Michelis, a
commento di Wellek, p. 13). De Sanctis dice: “La situazione è per me il punto capitale”
(nota 8: F. De Sanctis: Lo Stile, in La giovinezza, Einaudi, Torino 1961, p. 158).
ccxv
“Am i a sinner or a saint/which one shall it be? Hafiz holds the secret of this own
mystery”da The SongsofHafiz.Com, Hafiz; the interpreter of Mysteries.

GIOVANNI DELLA CROCE


ccxvi
Dagli “Insegnamenti spirituali” raccolti dal P. Eliseo dei Martiri, discepolo di S.
Giovanni della Croce. In: S. Giovanni della Croce, Opere, Edizioni OCD, Roma 2009, p.
1147.
ccxvii
Notte oscura, in S. Giovanni della Croce, Opere, p. 346-347.
ccxviii
Per la biografia ho fatto particolare riferimento alle notizie date da Elisabeth
Reynaud, Giovanni della Croce, riformatore, mistico e poeta di Dio, Edizioni Paoline,
Milano 2002.
ccxix
E. Reynaud, op. cit., p. 86.
ccxx
Ivi, p. 107-108.
ccxxi
Ivi, p. 120-121.
ccxxii
Ivi, p. 136.
ccxxiii
Ivi, p. 170.
ccxxiv
Ivi, p. 202.
ccxxv
Ivi, p. 207.
ccxxvi
Ivi, p. 209.
ccxxvii
Ivi, p. 212.
ccxxviii
Ivi, p. 216-217.
ccxxix
Ivi, p. 217.
ccxxx
Opere, op. cit., Lettere, p. 1134.
ccxxxi
E. Reynaud, op. cit., p. 226.
ccxxxii
Ivi, p. 226.
ccxxxiii
Ivi, p. 228.
ccxxxiv
Opere, op. cit., Lettere, p. 1139.
ccxxxv
E. Reynaud, op. cit., p. 236.
ccxxxvi
Opere, Lettere, N. 13, p. 1119.
ccxxxvii
Opere, Fiamma viva d’amore B, p. 801-802.
ccxxxviii
Opere, Notte oscura, p. 396-398.
ccxxxix
Opere, Notte oscura, p. 445.
ccxl
Ivi, p. 462.
ccxli
Ivi, p. 469.
ccxlii
Opere, Cantico spirituale B, p. 626.
ccxliii
Ivi, p. 646.
ccxliv
Ivi, p. 713.
ccxlv
Ivi, p. 657.
ccxlvi
Opere, Fiamma viva d’amore B, p. 738.
ccxlvii
Ivi, p. 738.
ccxlviii
Ivi, p. 739.
ccxlix
Ivi, p. 766.
ccl
Ivi, p. 736.
ccli
Ivi, p. 752-754.
cclii
Ibn ‘Arabī, Fusūs al-hikam. In H. Corbin, L’immaginazione creatrice, le radici del
sufismo, Laterza, Bari 2005, nota 54, p. 272.
ccliii
Ivi, p. 818-819.
ccliv
M. Vannini, Interrogativi sulla notte, in Alias, XIX, 13/5/2006, p. 23.
cclv
Andrea Celli, suo commento sul WEB al libro di Miguel Asìn Palacios, Un precursor
hispano musulman de S. Juan de la Cruz, nota 36.
cclvi
Il libro è stato tradotto in italiano da Andrea Celli, e pubblicato sul WEB in
appendice al suo commento introduttivo.
cclvii
Opere, prologo al Cantico spirituale B, p. 489-490.
cclviii
Ivi, p. 506.
cclix
Gianfranco Ravasi, Il Cantico dei cantici, EDB, Bologna 1992.
cclx
Opere, Notte oscura, cap. 4, p. 361-364.
cclxi
Opere, Salita del monte Carmelo, p. 89-90.
cclxii
Ivi, p. 103.
cclxiii
Opere, Fiamma viva d’amore B, p.766.
cclxiv
Opere, Cantico spirituale B, p. 713.
cclxv
Opere, Fiamma viva d’amore B, 759-761.
cclxvi
Opere, Notte oscura, p. 429.
cclxvii
Opere, Insegnamento 25, p. 1156.
cclxviii
Opere, Cantico spirituale B, p. 605.
cclxix
S. Teresa d’Avila, Il libro della sua vita, UTET, Torino 1954, p. 139.
cclxx
Ivi, p. 171-172.
cclxxi
Ivi, p. 282-283.
cclxxii
Ivi, p. 184-185.
cclxxiii
Jou Tsung Hwa, Il Tao della meditazione, la via dell’illuminazione,Ubaldini editore,
Roma 1990, p. 122.
cclxxiv
Ivi, p. 97.
cclxxv
Ivi, p. 100.
cclxxvi
Ivi, p. 134.
cclxxvii
Huai Chin Nan, Tao e longevità, la trasformazione di mente e corpo, Ubaldini Editore,
Roma 1986, p. 95.
cclxxviii
Ivi, p. 20.
cclxxix
Lu Kuan Yu, Lo Yoga del Tao, alchimia e immortalità, Edizioni mediterranee, Roma
1985, p. 130.
cclxxx
Ivi, p. 2.
cclxxxi
Gopi Krishna, Kundalini, l’energia evolutiva dell’uomo, Ubaldini Editore, Roma 1971,
p. 160.
cclxxxii
Jou Tsung Hwa, Il Tao della meditazione, la via dell’illuminazione, Ubaldini editore,
Roma 1990, p. 127.
cclxxxiii
Huai Chin Nan, op. cit., p. 40.
cclxxxiv
S. Teresa d’Avila, Il libro della…, p. 80-81.
cclxxxv
Ivi, p. 389.
cclxxxvi
Ivi, p. 276-277.
cclxxxvii
Ivi, p. 297-302.
cclxxxviii
Ivi, p. 312-315.
cclxxxix
Ivi, p. 407-408.
ccxc
Opere, Notte oscura, p. 402.
ccxci
S. Teresa d’Avila, Il libro della…, p. 415-416.
ccxcii
Ivi, p. 421.
ccxciii
Ivi, p. 186-187.
ccxciv
Ivi, p. 188-189.
ccxcv
Ivi, p. 385.
ccxcvi
Ivi, p. 388.
ccxcvii
Angelo Morino, introduzione a : Giovanni della Croce, La notte oscura, Sellerio
editore, Palermo 1995, p. 11.
ccxcviii
Teresa d’Avila, Cammino di perfezione, Edizioni Paoline, Milano 2001, p. 47-50.
ccxcix
Ivi, p. 50-56.
ccc
Ivi, nota a p. 60.
ccci
Ivi, p. 57-62.
cccii
Ivi, p. 82-83.
ccciii
Ivi, p. 189-190.
ccciv
S. Teresa d’Avila, Il libro della…, p. 374-375.
cccv
Ivi, p. 376-378.
cccvi
Cammino di perfezione, op. cit., 193-194.
cccvii
Ivi, p. 195-196.
cccviii
Gianfranco Ravasi, Il cantico dei cantici, EDB, Bologna 1992, p. 762.
cccix
S. Teresa d’Avila, Il libro della…, p. 341.
cccx
Ibidem.
cccxi
Ivi, p. 207-208.
cccxii
Ivi, p. 230.
cccxiii
Ivi, p. 230-233.
cccxiv
Ivi, p. 264.
cccxv
Ivi, p. 270.
cccxvi
Ivi, p. 271.
cccxvii
Ivi, p. 275.
cccxviii
Ivi, p. 276.
cccxix
Ivi, p. 276-277.
cccxx
Ivi, p. 279.
cccxxi
Ivi, p. 407.
cccxxii
Opere, Lettere, p. 1107.
cccxxiii
Ivi, p. 1116.
cccxxiv
Ivi, p. 1128.
cccxxv
E. Reynaud, op. cit., p. 183.
cccxxvi
Opere, Fiamma viva d’amore B, prologo, p. 727.
cccxxvii
Ivi, p. 1136.
cccxxviii
Ivi, p. 1137.
cccxxix
Ivi, p. 1134

_______________

INDICE

INTRODUZIONE …………………………………………………………………………………………… p. 3
IL CANTICO DEI CANTICI………………………………………………………………………………. p. 9

IBN ‘ARABÍ…………………………………………………………………………………………………… p. 45

RUMI…………………………………………………………………………………………………………… p. 97

DANTE………………………………………………………………………………………………………… p. 135

HAFEZ…………………………………………………………………………………………………………. p. 189

GIOVANNI DELLA CROCE……………………………………………………………………………. p. 243

note …………………………………………………………………………………………………………… p. 299

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