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“Le nostre camere facevano schifo. Mangiavamo le stesse cose tre volte al giorno.

Le docce non avevano l’acqua calda, neanche in inverno.


Fuori, le gang locali provavano a derubarci.
Ma la parte peggiore fu quando la signora delle pulizie smise di lavorare. Non c’è un modo carino per
raccontare questo, ma avete presente quando vai in bagno no? E fai la cacca? Ecco, in quel posto se
buttavi la carta nel gabinetto si sarebbe potuto intasare, quindi la buttavi nel cestino. Ma quando il
cestino non veniva svuotato per settimane...beh, avete capito no?!
Questa era il mio football camp a Guabiruba, in Brasile.
Vivevo a più di 100 miglia dalla mia famiglia.
Avevo tredici anni.
Cinquanta giocatori che dormivano in letti a castello allineati uno accanto all’altro. Prima che arrivassi
lì, avevo fatto dei provini con tre società di San Paolo, ma non ne passai neanche uno, quindi tornai
nella mia città, Imbituba, dove questo agente italiano mi invitò al camp che dirigeva. Diceva che i
giocatori che facevano bene lì, avevano una piccola possibilità di andare in Italia. Quale ragazzo non
vuole andare in Europa, no?!
Quando ero al camp già da un po’, iniziarono i problemi. Un giorno la signora delle pulizie se ne andò
perché non era stata pagata, quindi ci divisero in gruppi da cinque assegnando a ciascuno un giorno per
le pulizie. Ma un giorno uno dei gruppi non pulì. Quindi cosa successe il giorno dopo? Che anche il
secondo gruppo non pulì. Andò avanti così per settimane — e la sporcizia si accumulava. I bagni erano
la cosa peggiore. Dovevi trattenere il respiro.
Forse vi sorprenderà, ma vivere in quel modo, per me era diventata la normalità. Davvero. Ho imparato
che le persone possono adattarsi a qualsiasi situazione, anche le peggiori. È incredibile quello che riesci
a sopportare quando senti di non avere scelta.
Quando vuoi qualcosa talmente tanto che smettere sembra impossibile.
Quando avevo cinque anni, mio padre mi chiese cosa avrei voluto fare da grande. Gli dissi: “Il
calciatore”.
Lui mi disse: “Ma essere un calciatore non è solo quello che vedi in TV. Ti feriranno, ti deruberanno, ti
faranno piangere. Vorrai andare a casa. Vorrai mollare. Allora, cosa vuoi fare da grande?”
Gli dissi: “Il calciatore”.
Ero pronto a qualsiasi cosa. Ma qualche settimana dopo che la signora delle pulizie se ne era andata, mia
madre venne a trovarmi al camp. Andò al bagno. Quando tornò disse: “Prendi le tue cose. Andiamo a
casa”.
Gli dissi: “Mamma, non vengo”.
Lei rispose: “So che è il tuo sogno. Ma non lascio che mio figlio viva così”.
Le dissi che se mi avesse obbligato ad andare a casa e non sarei diventato un calciatore, le avrei dato la
colpa per il resto della mia vita.
Lei disse: “No, aspetta… per favore non dire così...”
Poi iniziò a piangere.
Le dissi: “Sono serio”.
Se ne andò in lacrime.
Quello è stato uno dei momenti più difficili della mia vita.
Dovete capire ciò che significava per lei. Lei non è una di quelle mamme che non sanno cosa sia il
calcio, No, amici miei. Lei è quella che mi ha donato tutto il talento che ho. So che mio padre si arrabbia
ogni volta che dico così, però, papà, sai che è così!! Lei proviene da una famiglia di calciatori e continua
a giocare ancora oggi. Quando avevo cinque anni, giocava a calcio con me sulla spiaggia vicino casa
nostra. Ci divertivamo e se io facevo un errore mi diceva: “Non mettere il piede così. Fai in questo
modo”.
Facevo come diceva e, Caramba, aveva ragione!
Le voleva solo il meglio per me, capite? Quindi il fatto che non tornassi a casa la faceva stare male. E
ho visto tanti giocatori di talento lasciare il camp. Hanno mollato.
Io sono stato due anni in quel posto.
E grazie a Dio, sono stato ripagato, perché quando avevo 15 anni ho firmato per il Verona. Mi misero in
un vecchio monastero. Eravamo sei giocatori in una stanza minuscola con tre letti a castello. Ero così
entusiasta.
In Italia!! Adesso tutto era possibile.
I primi tre mesi furono fantastici. Ma dopo iniziò a farsi pesante, perché non avevo idea di quando sarei
potuto tornare a casa. E vivevo con i 20 Euro che mi dava il mio agente, lo stesso che mi aveva invitato
al camp. Li spendevo sempre per le stesse cose. Cinque euro per telefonare alla mia famiglia in Brasile,
qualcuno in più per shampoo, deodorante e dentifricio. Durante il weekend poi, spendevo il resto in un
Internet caffè per parlare con gli amici e la famiglia su MSN.
Qualche volta, se volevo davvero qualcosa di diverso, andava nella piazza principale di Verona e
compravo un milkshake da McDonald’s. Costava un euro. Patatine? Hamburger? Scordatevelo! Gli
Happy Meal erano per i bambini ricchi. Poi mi sedevo su una scalinata all’angolo della piazza e…
guardavo la gente che andava e veniva. Guardavo gli uccelli e i turisti, mentre i miei pensieri vagavano.
Ecco come passavo i miei sabati pomeriggio.
Era un’esistenza solitaria, davvero. Ho passato un anno e mezzo così, vivendo per il calcio. Ma quando
avevo 17 anni e avevo iniziato ad allenarmi con la prima squadra del Verona, io e il mio agente abbiamo
litigato. Non mi va molto di parlarne, però è stato brutto. Stavo a pezzi.
Avevo sofferto per due anni in un lurido football camp in Brasile.
Avevo vissuto per 18 mesi in Italia con 20 euro a settimana.
E ora questo?
Ho chiamato mia madre piangendo: “Mamma ho finito. Questo è troppo per me. Mi manchi. Torno a
casa”. Nella mia testa ero già tornato ad Imbituba.
Ma lei disse: “La porta sarà chiusa”
E io: “Cosa?”
Lei disse: “Tu non torni a casa. Se ti presenti, non ti aprirò”.
Ero scioccato. Vi immaginate vostra madre che vi dice così??
Ho chiamato mio padre. Visto che erano separati, pensavo che sarei potuto andare a vivere con lui. Ma
lui mi disse che anche la sua porta era chiusa.
Poi i miei genitori si riunirono e mi chiamarono. Dissero qualcosa tipo: “Jorge, ti stai allenando con i
professionisti e vuoi mollare ora? Dopo tutto quello che hai sofferto? Non ha senso. Credici. Vai avanti.
Il tuo sogno diventerà realtà”.
Mia sorella maggiore più tardi mi disse, che mia madre dopo aver attaccato il telefono scoppiò a
piangere.
Grazie a Dio i miei genitori furono forti quando dovevano esserlo.
Fortunatamente, li ho ascoltati. Ho trovato un nuovo agente, João Santos, che è con me ancora oggi.
Devo anche ringraziare Rafael, che era il portiere della squadra e oggi per me è come un fratello.
Quando vivevo con 20 euro a settimana, mi portò a casa sua e mi comprò cibo e vestiti. João e Rafael
hanno avuto un ruolo importantissimo nel percorso che mi ha portato alla prima squadra del Verona nel
2011. Non dimenticherò mai quello che hanno fatto per me.
Quando sono passato al Napoli nel gennaio del 2014, mi sono trasferito in una città completamente
diversa. Conosciamo tutti come sono i napoletani no? Wow! Che passione! Trattano i giocatori come
dei. Non potevo andare al supermercato. Non potevo andare al parco. Nessuna possibilità. Per
nascondermi, dovevo mettermi un cappello per coprire gli occhi e una felpa con il cappuccio. Mio padre
diceva che sembravo un fuggitivo!
Una volta un amico mi venne a trovare per il weekend. Di solito giocavamo di domenica, ma quella
volta avevamo giocato di sabato quindi avevo confuso i giorni. L’ho portato in centro alle 5 di
pomeriggio e c’era un traffico incredibile. Dio! Caos totale. Macchine ovunque.
Pensavo tipo, affollato per essere lunedì eh? Forse è perché è l’ora di punta?
Per essere sicuro, chiesi a qualcuno che giorno era.
“Domenica”.
E io, “NOOOOOOOO!!!”
Mi sono girato verso il mio amico e gli ho detto: “Allacciati le cinture, perché adesso siamo nelle mani
di Dio”.
Abbiamo provato ad essere tattici. Io mi sono messo cappello e felpa e camminavo dietro a lui in una
strada pedonale stretta. Gli ho detto: “Continua a camminare, non fermarti”. Siamo arrivati a Piazza del
Plebiscito e ci siamo nascosti nel retro di un bar affollato. Aveva funzionato. Non mi aveva notato
nessuno.
Dopo un po’ pensavamo di uscire nello stesso modo. Ma appena siamo usciti dal bar indovinate chi mi
ha afferrato per chiedermi una foto? Il cameriere!!
Che casino! Eravamo fuori dal bar! Non voglio dire parolacce, ma cavolo! Sarebbe stato molto più
semplice fare la foto all’interno. Dissi tipo: “Bro, stai scherzando. Perché non me l’hai chiesta dentro?”
Lui disse: “Se l’avessi chiesta dentro avrei perso il lavoro”.
Io ero tipo, Però puoi lasciare il bar e non lo perdi?? Non ha senso!
Però, ancora una volta, Napoli raramente ha senso, no?! Ahahahaha.
Comunque, in quel momento eravamo in pericolo perché la piazza era piena di gente. Fino a quel
momento mi aveva visto solo il cameriere, ma quello era già passato. Quindi indovinate cosa è
successo? Il cameriere aveva il flash attivato. Spinge il bottone. SNAP! FLASH! La mia faccia si
illumina.
L’intera piazza si volta e grida: “JORGINHO!!!”
Io dico al mio amico: “Questa è una guerra”
Tutti hanno iniziato a gridare il mio nome. Tutti volevano una foto, anche quelli che non sapevano chi
fossi! Dicevano tipo: “FOTO! FOTO! HEY CHI È QUESTO? Giuro che per ogni passo ho fatto tre
foto. E non pensate che qualcuno chiedesse per favore o “Posso farmi una foto con te?” Strattonavano e
spingevano. Pensavo che non saremmo mai tornati a casa.
Fortunatamente, qualcuno mi ha salvato. Questo ragazzo enorme, che faceva parte di uno dei gruppi
organizzati dei tifosi del Napoli, è apparso e ha detto: “Hey, lasciatelo andare a casa!”. Mi ha trascinato
fuori dalla folla.
Gli ho detto: “Grazie mille”
E lui mi fa: “Si però adesso è il mio turno no? Ci facciamo una foto??”
Gli ho detto: “Bro, mi hai salvato, se vuoi ne facciamo 10!”
Napoli...è davvero folle. Ma ho amato la città. Ho amato i napoletani.
Dopo 4 anni e mezzo, è stato davvero difficile per me andare via.
Il mio inizio al Chelsea me l’ha fatta mancare ancora di più. Ci ricordiamo tutti cosa dicevano no?! Ero
troppo lento. Ero troppo fragile. Ero il figlio di Sarri. Mi sono così arrabbiato.
Mi hanno sottovalutato. Ho avuto un inizio turbolento in ogni club in cui sono stato. Ogni club. Quando
sono arrivato a Verona, non mi voleva nessuno. Mi hanno mandato in prestito in Lega Pro. Non mi
voleva nessuno neanche lì. Ma ho continuato a lavorare e mi sono guadagnato il rispetto. Sono tornato
al Verona e siamo stati promossi in Serie A. Ho avuto un anno difficile anche al Napoli, ma poi è
arrivato Sarri ed è cambiato tutto. La roba del Chelsea? Ho usato le critiche come benzina. Pensavo,
questa gente se ne pentirà.
Adesso sono seduto qui dopo aver vinto un’Europa League e una Champions League. Quindi, a tutti i
critici, voglio dire una cosa sola.
Grazie. Davvero, grazie a tutti.
La vittoria dell’Europa League è stata emozionante. Stavamo celebrando la vittoria in hotel di Baku con
le nostre famiglie e io ho perso le tracce di mia madre. Quando l’ho trovata, era da sola in un balcone da
cui si potevano vedere sia il mare che la città. Erano le cinque del mattino, il sole stava sorgendo e
abbiamo goduto di questa vista sensazionale.
Le dissi: “Mamma, stai piangendo?”
E lei rispose: “È solo gioia”
Poi ha iniziato a parlare di quanto fossi arrivato lontano, di quanto la mia famiglia fosse orgogliosa, di
quanto fosse incredibile che un ragazzo di Imbituba avesse ottenuto così tante cose. Lei è sempre
sentimentale. Quindi all’inizio pensavo, tipico di mamma. Ma quando ha finito stavo per crollare.
Ho detto: “Hey, non voglio iniziare a piangere anch’io. Torniamo indietro”.
Chiaramente aveva ragione. Quel che era successo era davvero incredibile.
Il giorno della finale di Champions League, non ho mangiato. Avevo troppa ansia. Ogni secondo
sembrava un’ora. È stato il giorno più lungo della mia vita.
Ma quando inizia la partita, devi solo pensare a quello che devi fare.
Poi Kai segna, l’arbitro fischia la fine e tu pensi, Che sta succedendo?
Non si può spiegare. Troppe emozioni tutte insieme. Sono scoppiato a piangere, proprio come mia
madre. Era troppo … troppo.
E non ho mai avuto davvero il tempo di comprenderlo, perché poi sono dovuto andare agli Europei.
Giocare per l’Italia è davvero speciale per me. Scegliere l’Italia è stato facile. L’Italia mi ha scelto per
giocare con loro nonostante fossi nato in un altro paese. Poi mio nonno era italiano e questo mi ha dato
la possibilità di giocare per l’Italia. Mi sento italiano. Ho passato metà della mia vita lì. Ogni giorno
amo di più questo paese.
E non dimenticherò mai che quando avevo bisogno, l’Italia mi ha aiutato.
Quindi come avrei potuto voltare le spalle quando l’Italia aveva bisogno di me?
Però voglio essere onesto: mi è dispiaciuto non esser stato convocato per le qualificazioni alla Coppa del
Mondo. Poi, quando ho avuto la possibilità di giocare, a novembre 2017, e abbiamo perso nel playoff
contro la Svezia è stata davvero dura. Ricordo Buffon che piangeva. Avrebbe meritato un addio
migliore di quello.
Fortunatamente ci siamo rialzati. E gran parte del merito è di Mancini. Alcuni allenatori obbligano i
calciatori ad adattarsi allo stile di gioco che preferiscono. Lui ha adattato il suo stile ai giocatori. Ha
visto che non eravamo molto fisici ma che eravamo in grado di controllare il gioco. Che potevamo
giocare. E devo dire che è finita bene…
Quando ho battuto il rigore in finale ero fiducioso. Ho il mio modo di batterli no? È una tecnica che ho
iniziato a usare quando giocavo in allenamento con Henrique ai tempi del Napoli. Ma Pickford mi aveva
studiato bene, complimenti a lui. Quando la palla non è entrata ho pensato, No, non è possibile … e poi
ho detto cose che non si possono ripetere.
È difficile descrivere come ci si sente quando si delude una nazione intera. Ho solo pregato che Gigio
mi salvasse. Per l’amor di Dio, dai.
Quando ha parato, mi sono sdraiato a terra. Non riuscivo a credere che eravamo Campioni d’Europa.
Chiaramente, visto che abbiamo vinto il mio errore non conta. Ma a essere onesti, non lo dimenticherò
mai. Sbagliare un rigore è brutto. Farlo in finale - una finale come quella - credetemi: chi dice di averlo
dimenticato sta mentendo.
Comunque, ero incredibilmente felice. Mia madre piangeva, ovviamente. La sensazione è stata simile a
ciò che ho provato dopo aver vinto la Champions League. Hai un sogno, chiaramente, ma non pensi mai
di poter arrivare così lontano. E quando ci riesci è surreale. Pensi da dove vieni e tutto quello che hai
dovuto sopportare.
Il football camp.
Il monastero.
Le telefonate con i genitori.
E adesso hai conquistato l’Europa? Due volte?
Surreale. Questa è l’unica parola con cui posso descriverlo.
Povero papà. Dopo la finale mi ha detto: “Jorge, non mi puoi fare questo. Devo andare da un
cardiologo”. Speravo che stesse scherzando.
Ovviamente sapevo che non sarei arrivato fin lì senza di lui e di mia madre. Probabilmente sarei tornato
a Imbituba a guardare le partite in TV. E voglio essere sicuro che capiate l’importanza dei miei genitori
e anche di gente come Rafael e João. Certo, questa è una storia che parla di un sogno inseguito fino in
fondo. Ma parla anche dell’importanza di avere le persone giuste al tuo fianco. Gente che ci tiene, che
vuole il meglio per te.
Puoi essere bravo quanto vuoi. Ma ve lo dico: nel calcio e nella vita. Non puoi raggiungere ciò da solo.
È impossibile.
Le settimane dopo gli Europei sono state magiche. Ho passato un po’ di tempo a Verona, dove non
andavo da tanto tempo e ho visitato il monastero. Sfortunatamente, erano tutti in vacanza, ma è stato
davvero emozionante vedere quella che era stata la mia casa 14 anni prima. Poi sono andato nella piazza
principale, sono entrato da McDonald’s e ho comprato un milkshake. Mi sono seduto sulle scale
all’angolo dove avevo passato tanti pomeriggi da ragazzo e ho solamente … guardato.
Poi ho chiuso gli occhi e sono tornato indietro nel tempo. Ed era come se potessi vedere me stesso
quindicenne seduto accanto a me. Nessuno lo notava. Nessuno sapeva della sua nostalgia di casa o delle
conversazioni che aveva con i genitori.
Era solo un ragazzo timido e magro che sorseggiava un milkshake da un euro.
Ma sapevo quali erano tutte le difficoltà a cui aveva resistito e quelle a cui stava per resistere. Quindi mi
sono avvicinato e ho sussurrato la stessa cosa che direi a ogni ragazzo che sta inseguendo un sogno.
Ho detto: “Non mollare”.
Qualsiasi cosa accada, non mollare”.

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-
- nasce a White Hall in Alabama. È il decimo di undici fratelli e già da piccolo fa i lavori più umili dopo
la scuola per poter aiutare la sua famiglia a tirare avanti
- la sua non è una vita facile e per fuggire dalle difficoltà e scaricare la rabbia si butta sulla palestra,
tanto che già da adolescente ha un fisico che i suoi coetanei possono solo sognare
- grazie ad una borsa di studio riesce a frequentare il college a Virginia Union, università nella seconda
divisione NCAA
- nel 1996 si dichiara eleggibile per il Draft ma nessuna delle 60 scelte conterrà il suo nome, perciò
quella stessa sera è di nuovo in palestra a scaricare la rabbia, stavolta urlando ad ogni ripetizione i nomi
di chi era stato scelto al suo posto
- sempre nel ‘96 viene chiamato da Boston per degli allenamenti: tagliato. Lo stesso con Reggio
Calabria: tagliato. Washington invece gli dà una possibilità reale, gioca 3 stagioni lì, 1 ad Orlando e poi
finalmente incontra il vero amore in quei Pistons allenati da Larry Brown
In sei anni a Detroit - all’interno di una squadra che sembrava costruita a sua immagine e somiglianza -
arriva la consacrazione tra i più grandi di sempre, mostrandosi al mondo intero come uno dei difensori
più forti che il gioco abbia mai avuto il piacere di ammirare:
- un titolo NBA nel 2004
- 4 volte difensore dell’anno [secondo della storia a riuscirci]
- 5 volte NBA All Defensive Team
- 5 volte All NBA
- 4 volte All Star
- 2 volte miglior rimbalzista NBA
- una volta miglior stoppatore della lega
Un palmares che alcuni di quel draft si sognano di notte, costruito in appena 6 stagioni giocate lì a
Detroit.
Da ieri notte è diventato il primo undrafted nella storia della NBA a diventare un membro della Hall of
Fame.
Due sere fa, alla vigilia della cerimonia, si è commosso durante un discorso autentico ed emozionante,
esattamente come lui:
“A tutti gli undrafted, andare a bussare ad una porta e scoprire che dietro non c’è il vostro nome è una
benedizione. Perché è lì che dovrete cercare in voi stessi la forza di andare avanti e la motivazione per
dimostrare agli altri quanto valete.”
Perciò non curatevi di essere la scelta di qualcun altro, siate la scelta di voi stessi. Lavorate duro per ciò
che volete ottenere e andate a prendere i vostri sogni in cielo, saltando - se necessario - come ha fatto
per una vita a rimbalzo l’unico ed inimitabile Big Ben.

Federico mi piace perché è diverso.


È uno che si danna l’anima.
Uno che mette la grinta al servizio della fantasia.
Che sputa il sangue su ogni pallone.
Mi piace perché non sei ferma mai.
Non concepisce il concetto di “palla persa”.
Lui va.
Come se dovesse salvare il mondo. Come se le sorti di una intera squadra fossero posate sulle sue
spalle.
Così larghe da sopportare qualche critica di troppo e allo stesso tempo così possenti da incanalare
le decine di complimenti ricevuti

In Australia ne hanno fatto un modo di dire, utilizzato ormai in ogni campo: “Doing a Bradbury”,
ovvero ottenere un successo insperato. Un successo per cui ci si era sì preparati e lavorato duro, ma
che a un certo punto sembrava irraggiungibile.
È ciò che è successo a Steven Bradbury, pattinatore di velocità, all’Olimpiade di Salt Lake City del
2002. Ma Bradbury non “era un mister nessuno” come in molti lo ricordano oggi.
Nel 1994 in Norvegia vince la medaglia di bronzo e a 21 anni è considerato un talento emergente.
Pochi mesi dopo, però, in una gara di coppa del mondo, a Montreal, si recide l’arteria femorale
dopo una terribile caduta, causata della lama del pattino di un avversario, l’italiano Mirko
Vuillermin. La ferita viene chiusa con oltre cento punti di sutura e lui per poco non muore
dissanguato.
Tutti pensano sia ormai finita la sua carriera di pattinatore.
Invece, dopo anni di riabilitazione, nel 2002 c’è. Vince bene la prima batteria, ai quarti però arriva
terzo dietro Apolo Ohno e Gagnon. Dovrebbe essere eliminato, ma Gagnon viene squalificato e
Bradbury ripescato. In semifinale si parte in 5.
Bradbury pattina veloce, ma non come i suoi avversari che, però, a uno a uno cadono tutti: Kim
Dong-Sung, Mathieu Turcotte, Lì Jaijun… tutti giù per terra. Bradbury, invece, pattina e rimane su.
L’ultimo avversario, Satoru Terao, viene squalificato. Così Steven si ritrova primo e partecipa, a
sorpresa, alla finale per l’oro.
Gli avversari sono di nuovo Turcotte, Ohno, Jaijun e il super favorito Ahn Hyun-Soo. Alla partenza,
i pronostici sono del tutto rispettati. Bradbury è in coda staccato. Se non che, all’ultimo giro,
proprio all’ultima curva, Jaijun prova a sorpassare Ohno ma scivola e colpisce l’avversario, che a
sua volta, trascina giù anche Ahn e Turcotte. C’è solo un pattinatore ancora in piedi, Steven
Bradbury, che termina il tracciato e vince il primo oro di categoria nella storia per l’Australia, tra lo
stupore generale.
Dopo la gara, come riportato nel libro “Goals: 98 storie+1” di Gianluca Vialli, dirà: “non ho vinto
perché ero il più veloce, e non ci ho messo un minuto e mezzo a vincere, come dice il cronometro.
Ci ho messo dieci anni di calvario”.
Questa è l’incredibile storia di Steven Bradbury: rialzarsi dopo un terribile incidente per continuare
ad inseguire il sogno di una vita, pur sapendo di non poterlo raggiungere mai.

“Il mio segreto non sono le gambe, è la voglia. In montagna uno pedala e
pedala, poi ad un certo punto ti manca il fiato, le gambe ti fanno male da
morire e dici: basta, la smetto, mi ritiro. Quello lì è il momento della voglia. La
voglia di dare un altro giro di pedale, e poi dopo una pigiata ne viene un’altra,
poi un’altra ancora, e ti tornano le forze. Ecco cos’è la voglia”
Gino Bartali
Il fatto è che non ho un grande talento. Ho dovuto
impegnarmi più di chiunque altro velista che conosco per
salire dal gradino più basso fino alla conquista del premio
più prestigioso: l’America’s Cup. Quindi lo scopo di scrivere questo libro
(50 nodi), verrà raggiunto se anche solo una persona che si trova in una
situazione difficile potrà dire: “Se ce l’ha fatta Jimmy Spithill, restando
coerente con se stesso e dando il massimo, allora posso farcela anche io”.
“Io non credo nella predestinazione. I risultati si ottengono solo con molto lavoro. Nella mia
carriera sportiva mi sono allenato 5-6 ore al giorno, tutti i giorni, per 365 giorni l'anno, tra gare e
allenamenti, per quasi 20 anni”
Al centro federale di Formia facevo 350 giorni di allenamento all'anno. Stavo lì pure a Natale e
Pasqua. Da solo. Vent’anni ad acqua minerale, nemmeno gassata.
Era una questione di rabbia, di voglia. A Barletta non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo
cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina
lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri.
Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel
tragitto, porto ancora i segni sulle mani. Papà veniva da una famiglia di undici figli, due si erano
fatte suore perché non c’era da mangiare a casa.
Quando ho iniziato a correre, i calzoncini me li cuciva lui. Oggi non mi entrano più, nemmeno al
braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora
crescere, sarebbero durate.
La tv non la tenevamo, si andava al circolo degli anziani, era su un
baldacchino, pagavamo 50 lire per vederla. Ecco perché la rabbia ce
l’avevo dentro”

In finale mi confinarono in ottava corsia, non ero contento, non potevo


controllare gli avversari. All'uscita della curva ero penultimo, Wells
indemoniato era tre metri avanti. Penso: non avrò altre occasioni. Dodici
anni di lavoro e di dolore per niente. Allora riparto, risento tutto, rientro in
gara, recupero, vinco, alzo le braccia e il ditino

“Perché la fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni”

Pietro Mennea, la ‘Freccia del Sud’

”Nell’inverno del ‘79, per prepararmi al meglio alle Olimpiadi di Mosca, decisi di allenarmi anche
il giorno di Natale.
Erano giornate particolarmente fredde. Quella mattina corsi una ventina di chilometri. Tornai a
casa, mi feci la doccia e mi sentii bene per quello che avevo fatto.
Più tardi nel pomeriggio, seduto dopo il classico pranzo, cominciai a sentirmi a disagio.
Iniziai a pensare: “Scommetto che Steve Ovett starà facendo la seconda sessione d’allenamento
della giornata”.
Così mi vestii e uscii a correre tra la neve e il gelo.
Non molto tempo fa, incontrando Steve, gli ho raccontato questa storia. Lui ha riso di gusto e mi ha
risposto: “Come? Ti sei allenato solo due volte quel Natale?”
Il racconto natalizio di Lord Sebastian Coe, leggendario mezzofondista britannico.

“Ho corso contro tanti individui che, probabilmente, avevano un talento fisico superiore al mio.
Sono stato in grado di superarli nell’intelligenza, di superarli nel pensiero, di superarli nella
preparazione”
Edwin Mos
Vengo da un paesino di 3000 anime dimenticato da Dio chiamato la Plota. Circa il 90% della
popolazione lavora infatti come manodopera nello stabilimento che produce acqua Lleida.
Negli anni ’80 le massime aspirazioni per un giovane erano quelle di diventare capo reparto o
contabile presso il reparto amministrativo della fabbrica.
La Domenica invece era il giorno in cui tutti si rilassavano. La mattina chiesa, e il pomeriggio Fultol
Club Barcelona. È stato in uno di quei pomeriggi che mi innamorai di quella squadra.
Ero sul divano con mio padre, e il Barcelona stava perdendo a Valencia per 2-1. Mi girai verso di lui
e gli dissi:
“Papà, da grande sarò un giocatore del Barcelona.”
Lui mi disse:
“È bello sognare, ma continua a studiare.”
Da quel giorno presi le parole di mio padre come una sfida. Non c’è stato momento che in cui ho
pensato ad altro. Provini su provini… dicevano che non ero bravo, infatti mi misero in porta.
Poi un giorno grazie ad una botta presa alla spalla, finii in mezzo al campo. Da lì non sono più
uscito.
Feci il provino per il Barca per 6 anni consecutivi. Dicevano sempre che non potevo giocare, e che
non valevo molto. Non ero bravo tecnicamente, e se volevo far colpo su qualche club, dovevo
crescere in muscolatura. Ero troppo sottile, e avevo poca forza nelle gambe.
Dopo quelle parole tornavo a casa ogni volta distrutto…
Un giorno però ci fu la svolta.
Cambiai radicalmente il mio modo di pensare. Lasciai la scuola calcio, e cominciai a correre tutti i
pomeriggi sulle colline della mia città, per far crescere la muscolatura nelle gambe.
Mi ponevo degli obbiettivi
. La prima volta 2 km, la settimana dopo 4 km, e così via, fino ad arrivare in cima. Quando vedevo
passare delle persone in macchina, cercavo di gareggiare con loro.
L’estate dopo ci riprovai… Avevo 16 anni.
Mi presero. Telefonai a casa, e rispose mio padre.
È stata l’unica volta che l’ho sentito piangere.”
Carles Puyol
Una storia da brividi.
Una storia che insegna tanto.
Tutti i più grandi campioni, prima di esserlo, hanno dato qualcosa.
Le scorciatoie, le raccomandazioni, il successo che “arriva per caso” sono tutte costruzioni dei
perdenti.
La fatica, il sacrificio, la dedizione invece sono il pane quotidiano di TUTTI i più grandi campioni.

“Al Giro del '56 sono caduto nella discesa di Volterra e


mi sono fratturato la clavicola. "Non puoi partire", mi
dice il medico. Io lo lascio parlare e faccio di testa mia:
metto la gomma piuma sul manubrio e corro la crono.
Poi supero gli Appennini. Ma provando la cronoscalata
di San Luca mi accorgo di non riuscire nemmeno a
stringere il manubrio dal dolore; allora il mio meccanico,
il grande Faliero Masi, decide di tagliare una camera
d'aria, me la lega al manubrio e io la tengo con i denti, per non forzare le braccia.
Il giorno dopo, nella Modena-Rapallo cado di nuovo e mi rompo anche l'omero. Svengo dal dolore.
Sono sulla lettiga quando riprendo coscienza e ordino a chi guida l'ambulanza di fermarsi. Mi butto
giù, inseguo il gruppo, lo riprendo e arrivo sul Bondone sotto una tormenta di neve.
Per questo gesto Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che seguivano il Giro, mi ribattezzarono
Fiorenzo il Magnifico”
Fiorenzo Magni

“Qualcuno dirà che ho fatto una vita monastica: mai un cinema, mai una discoteca. Ma a me stava
benissimo così. Era una bellissima vita di sacrifici”
Il 18 luglio 1990 Salvatore Antibo, la ‘Gazzella di Altofonte’, correva i 5000
metri in 13’05”59.

“Perseverai, resistetti. Soprattutto volli”

Il 20 luglio 1924 Ottavio Bottecchia divenne il primo italiano a vincere il


Tour de France.

In Francia lo chiamavano ‘Botesciá’, storpiandone la pronuncia, per gli


italiani era semplicemente il ‘Muratore del Friuli’, soprannome legato ai
duri trascorsi lavorativi.

In quella storica Grand Boucle indossò la maglia gialla ininterrottamente


dalla prima all’ultima tappa: nessun ciclista ci era riuscito prima del nativo
di San Martino di Colle Umberto.

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