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- nasce a White Hall in Alabama. È il decimo di undici fratelli e già da piccolo fa i lavori più umili dopo
la scuola per poter aiutare la sua famiglia a tirare avanti
- la sua non è una vita facile e per fuggire dalle difficoltà e scaricare la rabbia si butta sulla palestra,
tanto che già da adolescente ha un fisico che i suoi coetanei possono solo sognare
- grazie ad una borsa di studio riesce a frequentare il college a Virginia Union, università nella seconda
divisione NCAA
- nel 1996 si dichiara eleggibile per il Draft ma nessuna delle 60 scelte conterrà il suo nome, perciò
quella stessa sera è di nuovo in palestra a scaricare la rabbia, stavolta urlando ad ogni ripetizione i nomi
di chi era stato scelto al suo posto
- sempre nel ‘96 viene chiamato da Boston per degli allenamenti: tagliato. Lo stesso con Reggio
Calabria: tagliato. Washington invece gli dà una possibilità reale, gioca 3 stagioni lì, 1 ad Orlando e poi
finalmente incontra il vero amore in quei Pistons allenati da Larry Brown
In sei anni a Detroit - all’interno di una squadra che sembrava costruita a sua immagine e somiglianza -
arriva la consacrazione tra i più grandi di sempre, mostrandosi al mondo intero come uno dei difensori
più forti che il gioco abbia mai avuto il piacere di ammirare:
- un titolo NBA nel 2004
- 4 volte difensore dell’anno [secondo della storia a riuscirci]
- 5 volte NBA All Defensive Team
- 5 volte All NBA
- 4 volte All Star
- 2 volte miglior rimbalzista NBA
- una volta miglior stoppatore della lega
Un palmares che alcuni di quel draft si sognano di notte, costruito in appena 6 stagioni giocate lì a
Detroit.
Da ieri notte è diventato il primo undrafted nella storia della NBA a diventare un membro della Hall of
Fame.
Due sere fa, alla vigilia della cerimonia, si è commosso durante un discorso autentico ed emozionante,
esattamente come lui:
“A tutti gli undrafted, andare a bussare ad una porta e scoprire che dietro non c’è il vostro nome è una
benedizione. Perché è lì che dovrete cercare in voi stessi la forza di andare avanti e la motivazione per
dimostrare agli altri quanto valete.”
Perciò non curatevi di essere la scelta di qualcun altro, siate la scelta di voi stessi. Lavorate duro per ciò
che volete ottenere e andate a prendere i vostri sogni in cielo, saltando - se necessario - come ha fatto
per una vita a rimbalzo l’unico ed inimitabile Big Ben.
In Australia ne hanno fatto un modo di dire, utilizzato ormai in ogni campo: “Doing a Bradbury”,
ovvero ottenere un successo insperato. Un successo per cui ci si era sì preparati e lavorato duro, ma
che a un certo punto sembrava irraggiungibile.
È ciò che è successo a Steven Bradbury, pattinatore di velocità, all’Olimpiade di Salt Lake City del
2002. Ma Bradbury non “era un mister nessuno” come in molti lo ricordano oggi.
Nel 1994 in Norvegia vince la medaglia di bronzo e a 21 anni è considerato un talento emergente.
Pochi mesi dopo, però, in una gara di coppa del mondo, a Montreal, si recide l’arteria femorale
dopo una terribile caduta, causata della lama del pattino di un avversario, l’italiano Mirko
Vuillermin. La ferita viene chiusa con oltre cento punti di sutura e lui per poco non muore
dissanguato.
Tutti pensano sia ormai finita la sua carriera di pattinatore.
Invece, dopo anni di riabilitazione, nel 2002 c’è. Vince bene la prima batteria, ai quarti però arriva
terzo dietro Apolo Ohno e Gagnon. Dovrebbe essere eliminato, ma Gagnon viene squalificato e
Bradbury ripescato. In semifinale si parte in 5.
Bradbury pattina veloce, ma non come i suoi avversari che, però, a uno a uno cadono tutti: Kim
Dong-Sung, Mathieu Turcotte, Lì Jaijun… tutti giù per terra. Bradbury, invece, pattina e rimane su.
L’ultimo avversario, Satoru Terao, viene squalificato. Così Steven si ritrova primo e partecipa, a
sorpresa, alla finale per l’oro.
Gli avversari sono di nuovo Turcotte, Ohno, Jaijun e il super favorito Ahn Hyun-Soo. Alla partenza,
i pronostici sono del tutto rispettati. Bradbury è in coda staccato. Se non che, all’ultimo giro,
proprio all’ultima curva, Jaijun prova a sorpassare Ohno ma scivola e colpisce l’avversario, che a
sua volta, trascina giù anche Ahn e Turcotte. C’è solo un pattinatore ancora in piedi, Steven
Bradbury, che termina il tracciato e vince il primo oro di categoria nella storia per l’Australia, tra lo
stupore generale.
Dopo la gara, come riportato nel libro “Goals: 98 storie+1” di Gianluca Vialli, dirà: “non ho vinto
perché ero il più veloce, e non ci ho messo un minuto e mezzo a vincere, come dice il cronometro.
Ci ho messo dieci anni di calvario”.
Questa è l’incredibile storia di Steven Bradbury: rialzarsi dopo un terribile incidente per continuare
ad inseguire il sogno di una vita, pur sapendo di non poterlo raggiungere mai.
“Il mio segreto non sono le gambe, è la voglia. In montagna uno pedala e
pedala, poi ad un certo punto ti manca il fiato, le gambe ti fanno male da
morire e dici: basta, la smetto, mi ritiro. Quello lì è il momento della voglia. La
voglia di dare un altro giro di pedale, e poi dopo una pigiata ne viene un’altra,
poi un’altra ancora, e ti tornano le forze. Ecco cos’è la voglia”
Gino Bartali
Il fatto è che non ho un grande talento. Ho dovuto
impegnarmi più di chiunque altro velista che conosco per
salire dal gradino più basso fino alla conquista del premio
più prestigioso: l’America’s Cup. Quindi lo scopo di scrivere questo libro
(50 nodi), verrà raggiunto se anche solo una persona che si trova in una
situazione difficile potrà dire: “Se ce l’ha fatta Jimmy Spithill, restando
coerente con se stesso e dando il massimo, allora posso farcela anche io”.
“Io non credo nella predestinazione. I risultati si ottengono solo con molto lavoro. Nella mia
carriera sportiva mi sono allenato 5-6 ore al giorno, tutti i giorni, per 365 giorni l'anno, tra gare e
allenamenti, per quasi 20 anni”
Al centro federale di Formia facevo 350 giorni di allenamento all'anno. Stavo lì pure a Natale e
Pasqua. Da solo. Vent’anni ad acqua minerale, nemmeno gassata.
Era una questione di rabbia, di voglia. A Barletta non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo
cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina
lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri.
Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel
tragitto, porto ancora i segni sulle mani. Papà veniva da una famiglia di undici figli, due si erano
fatte suore perché non c’era da mangiare a casa.
Quando ho iniziato a correre, i calzoncini me li cuciva lui. Oggi non mi entrano più, nemmeno al
braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora
crescere, sarebbero durate.
La tv non la tenevamo, si andava al circolo degli anziani, era su un
baldacchino, pagavamo 50 lire per vederla. Ecco perché la rabbia ce
l’avevo dentro”
”Nell’inverno del ‘79, per prepararmi al meglio alle Olimpiadi di Mosca, decisi di allenarmi anche
il giorno di Natale.
Erano giornate particolarmente fredde. Quella mattina corsi una ventina di chilometri. Tornai a
casa, mi feci la doccia e mi sentii bene per quello che avevo fatto.
Più tardi nel pomeriggio, seduto dopo il classico pranzo, cominciai a sentirmi a disagio.
Iniziai a pensare: “Scommetto che Steve Ovett starà facendo la seconda sessione d’allenamento
della giornata”.
Così mi vestii e uscii a correre tra la neve e il gelo.
Non molto tempo fa, incontrando Steve, gli ho raccontato questa storia. Lui ha riso di gusto e mi ha
risposto: “Come? Ti sei allenato solo due volte quel Natale?”
Il racconto natalizio di Lord Sebastian Coe, leggendario mezzofondista britannico.
“Ho corso contro tanti individui che, probabilmente, avevano un talento fisico superiore al mio.
Sono stato in grado di superarli nell’intelligenza, di superarli nel pensiero, di superarli nella
preparazione”
Edwin Mos
Vengo da un paesino di 3000 anime dimenticato da Dio chiamato la Plota. Circa il 90% della
popolazione lavora infatti come manodopera nello stabilimento che produce acqua Lleida.
Negli anni ’80 le massime aspirazioni per un giovane erano quelle di diventare capo reparto o
contabile presso il reparto amministrativo della fabbrica.
La Domenica invece era il giorno in cui tutti si rilassavano. La mattina chiesa, e il pomeriggio Fultol
Club Barcelona. È stato in uno di quei pomeriggi che mi innamorai di quella squadra.
Ero sul divano con mio padre, e il Barcelona stava perdendo a Valencia per 2-1. Mi girai verso di lui
e gli dissi:
“Papà, da grande sarò un giocatore del Barcelona.”
Lui mi disse:
“È bello sognare, ma continua a studiare.”
Da quel giorno presi le parole di mio padre come una sfida. Non c’è stato momento che in cui ho
pensato ad altro. Provini su provini… dicevano che non ero bravo, infatti mi misero in porta.
Poi un giorno grazie ad una botta presa alla spalla, finii in mezzo al campo. Da lì non sono più
uscito.
Feci il provino per il Barca per 6 anni consecutivi. Dicevano sempre che non potevo giocare, e che
non valevo molto. Non ero bravo tecnicamente, e se volevo far colpo su qualche club, dovevo
crescere in muscolatura. Ero troppo sottile, e avevo poca forza nelle gambe.
Dopo quelle parole tornavo a casa ogni volta distrutto…
Un giorno però ci fu la svolta.
Cambiai radicalmente il mio modo di pensare. Lasciai la scuola calcio, e cominciai a correre tutti i
pomeriggi sulle colline della mia città, per far crescere la muscolatura nelle gambe.
Mi ponevo degli obbiettivi
. La prima volta 2 km, la settimana dopo 4 km, e così via, fino ad arrivare in cima. Quando vedevo
passare delle persone in macchina, cercavo di gareggiare con loro.
L’estate dopo ci riprovai… Avevo 16 anni.
Mi presero. Telefonai a casa, e rispose mio padre.
È stata l’unica volta che l’ho sentito piangere.”
Carles Puyol
Una storia da brividi.
Una storia che insegna tanto.
Tutti i più grandi campioni, prima di esserlo, hanno dato qualcosa.
Le scorciatoie, le raccomandazioni, il successo che “arriva per caso” sono tutte costruzioni dei
perdenti.
La fatica, il sacrificio, la dedizione invece sono il pane quotidiano di TUTTI i più grandi campioni.
“Qualcuno dirà che ho fatto una vita monastica: mai un cinema, mai una discoteca. Ma a me stava
benissimo così. Era una bellissima vita di sacrifici”
Il 18 luglio 1990 Salvatore Antibo, la ‘Gazzella di Altofonte’, correva i 5000
metri in 13’05”59.