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Tutti i romanzi e le novelle
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Ebook2,869 pages44 hours

Tutti i romanzi e le novelle

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About this ebook

Tutti i romanzi:

- I Malavoglia,

- Mastro-don Gesualdo,

- Sulle lagune,

- Una peccatrice,

- Storia di una capinera,

- Eva,

- Tigre reale,

- Eros,

- Il marito di Elena,

- Dal tuo al mio

- Tutte le novelle
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateAug 19, 2019
ISBN9788831635868
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    Tutti i romanzi e le novelle - Giovanni Verga

    INDICE

    Giovanni Verga

    Biografia

    Il luogo

    La data

    Gli studi e la prima formazione

    Le prime esperienze a Catania

    Gli anni fiorentini

    Il ventennio a Milano

    Il ritorno a Catania

    La crisi creativa

    Gli ultimi anni

    L’adesione al colonialismo e al nazionalismo

    Riconoscimenti pubblici e morte

    La poetica e le idee

    Opere

    Romanzi

    Novelle

    Trasposizioni teatrali

    Bibliografia

    Biografie

    Studi sull’opera

    TUTTI I ROMANZI

    Sulle lagune

    Prologo

    Capitolo primo. Al Caffè Nuovo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto.

    Capitolo sesto

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono.

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo.

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo.

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo.

    Capitolo ventesimo

    Una peccatrice

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Storia di una capinera

    Eva

    Tigre reale

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Eros

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentatreesimo

    Capitolo trentacinquesimo

    Capitolo trentaseiesimo

    Capitolo trentasettesimo

    Capitolo trentottesimo

    Capitolo trentanovesimo

    Capitolo quarantesimo

    Capitolo quarantunesimo

    Capitolo quarantaduesimo

    Capitolo quarantatreesimo

    Capitolo quarantaquattresimo

    Capitolo quarantacinquesimo

    Capitolo quarantaseiesimo

    Capitolo quarantasettesimo

    Capitolo quarantottesimo

    Capitolo quarantanovesimo

    Capitolo cinquantesimo

    I MALAVOGLIA

    Prefazione di Giovanni Verga

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Il marito di Elena

    I.

    II.

    III.

    IV.

    V.

    VI.

    VII.

    VIII.

    IX.

    X.

    XI.

    XII.

    XIII.

    XV.

    XVI.

    MASTRO-DON GESUALDO

    Parte prima

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Parte seconda

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Parte terza

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Parte quarta

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Dal tuo al mio

    TUTTE LE NOVELLE

    Nedda

    Primavera e altri racconti

    Primavera

    La coda del diavolo

    X

    Certi argomenti

    Le storie del castello di Trezza

    Vita dei campi

    Fantasticheria

    Jeli il pastore

    Rosso Malpelo

    Cavalleria rusticana

    La Lupa

    L’amante di Gramigna

    Guerra di Santi

    Pentolaccia

    Novelle rusticane

    Il Reverendo

    Cos ‘è il Re

    Don Licciu Papa

    Il Mistero

    Malaria

    Gli orfani

    La Roba

    Storia dell ‘asino di S. Giuseppe

    Pane nero

    I galantuomini

    Libertà

    Di là del mare

    Per le vie

    Il bastione di Manforte

    In piazza della Scala

    Al veglione

    Il canarino del N. 15

    Amore senza benda

    Semplice storia

    L’osteria dei «Buoni Amici»

    Gelosia

    Camerati

    Via Crucis

    Conforti

    L’ultima giornata

    Drammi intimi

    La Barberina di Marcantonio

    Tentazione!

    La chiave d’oro

    Vagabondaggio

    Vagabondaggio

    Il maestro dei ragazzi

    Un processo

    La festa dei morti

    Artisti da strapazzo

    Il segno d’amore

    L’agonia di un villaggio

    …e chi vive si dà pace

    Il bell’Armando

    Nanni Volpe

    Quelli del colèra

    Lacrymae rerum

    I ricordi del capitano d’Arce

    I ricordi del capitano d’Arce

    Giuramenti di marinaio

    Commedia da salotto

    Né mai, né sempre!

    Carmen

    Prima e poi

    Ciò ch ‘è in fondo al bicchiere

    Dramma intimo

    Ultima visita

    Bollettino sanitario

    Don Candeloro e C.i

    Don Candeloro e C.i

    Le marionette parlanti

    Paggio Fernando

    La serata della diva

    Il tramonto di Venere

    Papa Sisto

    Epopea spicciola

    L’Opera del Divino Amore

    Il peccato di donna Santa

    La vocazione di suor Agnese

    Gli innamorati

    Fra le scene della vita

    Novelle sparse

    Un’altra inondazione

    Casamicciola

    I dintorni di Milano

    Il come, il quando ed il perché

    Nella stalla

    Passato!

    Mondo piccino

    «Il Carnevale fallo con chi vuoi; Pasqua e Natale falli con i tuoi»

    Olocausto

    La caccia al lupo

    «Nel carrozzone dei profughi»

    Frammento per «Messina!»

    Una capanna e il tuo cuore

    Note

    Giovanni Verga

    Tutti i romanzi e le novelle 

     Il presente ebook è composto di testi di pubblico dominio.

    L’ebook in sé, però, in quanto oggetto digitale specifico,

    dotato di una propria impaginazione, formattazione, copertina

    ed eventuali contenuti aggiuntivi peculiari 

    (come note e testi introduttivi), 

    è soggetto a copyright. 

    Immagine di copertina: Designed by Freepik  (href="http://www.freepik.com)

    Elaborazione grafica: GDM, 2019. 

    Giovanni Verga

    Biografia

    Giovanni Carmelo Verga (Vizzini, 2 settembre 1840 – Catania, 27 gennaio 1922) è stato uno scrittore e drammaturgo italiano, considerato il maggior esponente della corrente letteraria del verismo.

     Giovanni Verga viene registrato all’anagrafe di Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri; vista la natura dell’atto di registrazione e diversi elementi, sia la data sia il luogo di nascita non sono universalmente accettati. Il padre, Giovanni Battista Catalano, era di Vizzini, dove la famiglia Verga - di lontane ascendenze spagnole, visto che erano giunti in Sicilia col nome di Vegas nel 1282 circa[2] - aveva delle proprietà e discendeva dal ramo cadetto della famiglia alla quale appartenevano anche i baroni di Fontanabianca; la madre si chiamava Caterina Di Mauro e apparteneva ad una famiglia borghese di Catania. Il nonno di Giovanni, come testimonia il De Roberto[3] in un articolo raccolto, insieme a molti altri, in un volume a cura di Carmelo Musumarra, era stato carbonaro e, nel 1812, eletto deputato per Vizzini al primo Parlamento Siciliano.[4] Verga aveva due fratelli, Mario e Pietro.[2]

    Il luogo 

    Rappresenta da sempre motivo di acceso dibattito la questione riguardante l’esatto luogo di nascita di Giovanni Verga, nonché la data dell’evento; benché gran parte dei testi lo collochino a Catania, basandosi sul contenuto dell’atto di nascita, esistono fondate argomentazioni sulla base delle quali è possibile ritenere che essa sia avvenuta nei pressi di Vizzini.

    La seconda tesi, secondo cui Verga sarebbe nato in un podere di campagna, di proprietà dello zio don Salvatore, in contrada Tièpidi (una zona di campagna a pochi chilometri dal centro abitato di Vizzini, citata dall’autore verista nei suoi scritti col nome di Tebidi o Tèpidi), poggia su diverse constatazioni. La prima riguarda l’epidemia di colera che nell’estate del 1840 si era abbattuta su Catania, e che avrebbe spinto la famiglia Verga (già abituata ad abbandonare l’afosa Catania d’estate per la frescura collinare di Vizzini) a scegliere il piccolo centro del Calatino per proteggere sia la madre sia il nascituro da ogni potenziale rischio. Nato prematuro, di sette mesi, il piccolo sarebbe poi stato riportato nel capoluogo, dove il padre, Giovanni Battista Verga (originario di Vizzini ma residente nel capoluogo), registrò il figlio come nato a Catania, nell’abitazione di via Sant’Anna. Il documento aveva riporta infatti il numero 284 ter, prova del fatto che si tratta di un atto famiglia. È probabile, inoltre, che Giovanni Battista Verga avrebbe scelto Catania anche per compiacere la moglie Caterina Di Mauro (o Mauro), catanese, ed anche per comodità, visto che la futura eventuale richiesta di certificazioni avrebbe necessitato un viaggio nella distante Vizzini.

    La terza constatazione è relativa a un’annotazione apposta sull’occhiello di una copia della prima edizione delle Novelle Rusticane, che Verga regalò all’amico scrittore Luigi Capuana. Si legge:

    Sebbene secondo Corrado Di Blasi, curatore della biblioteca Capuana, la nota esatta sarebbe

    l’uso del termine villani dimostrerebbe, comunque, come Verga fosse a conoscenza di essere nato in un piccolo paese di provincia (come Capuana), a Vizzini o quasi, appunto in una contrada di campagna, e pertanto villano.

    Infine lo stesso Verga, in molte delle sue missive a diversi interlocutori, si dimostra schivo nell’affrontare l’argomento, segno che, effettivamente, anche in lui esiste la consapevolezza che Catania come luogo di nascita è una dichiarazione più che dubbia. Non è da trascurare, inoltre, che molti amici personali dell’epoca, come lo scienziato geologo Ippolito Cafici, il chirurgo don. Gesualdo Costa, il prof. comm. Luigi La Rocca e l’avv. Giovanni Selvaggi, sostenevano, per conoscenza diretta, che Verga fosse nato nelle campagne di Vizzini.

    La data

    Sull’esatta data di nascita l’incertezza è altrettanto ampia, ma si pensa che sia il 2 settembre del 1840. L’atto di nascita[5] riporta la data del 2 settembre 1840. Il 1º marzo 1915, Verga scrive tuttavia in una sua missiva a Benedetto Croce quanto segue[6]:

    L‘8 settembre è in realtà la data di battesimo, mentre quella di nascita è probabilmente antecedente e potrebbe risalire alla fine di agosto, se non addirittura il 29, giorno in cui a Vizzini si festeggia San Giovanni. Il trasferimento da Vizzini a Catania giustificherebbe, dunque, il ritardo nella registrazione e la posticipazione della data.

    Gli studi e la prima formazione

    Verga, compiuti gli studi primari presso la scuola di Francesco Carrara, venne inviato, per gli studi secondari, alla scuola di don Antonino Abate, scrittore, fervente patriota e repubblicano, dal quale assorbì il gusto letterario romantico ed il patriottismo. Abate faceva leggere ai suoi allievi le opere di Dante, Petrarca, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Vincenzo Monti, Manzoni e pagine dell’Estetica di Hegel; inoltre proponeva anche il romanzo storico-patriottico I tre dell’assedio di Torino (scritto nel 1847) del poeta catanese Domenico Castorina, che era lontano parente di Verga e che a quei tempi era considerato dai contemporanei il miglior poeta e scrittore catanese della prima metà dell’Ottocento.[7]

    Nel 1854, a causa di un’epidemia di colera, la famiglia si rifugiò nella campagna di Tèbidi e vi ritornerà nel 1855 per lo stesso motivo. I ricordi di questo periodo, legati alle sue prime esperienze adolescenziali e alla campagna, ispireranno molte delle sue novelle, come Cavalleria rusticana e Jeli il pastore, oltre al romanzo Mastro-don Gesualdo. A soli 18 anni, tra il 1856 ed il 1857, Verga scrisse il suo primo romanzo d’ispirazione risorgimentale Amore e patria rimasto inedito. Il romanzo infatti ottenne giudizio positivo da parte di Abate, ma venne considerato immaturo dall’insegnante di latino, don Mario Torrisi, che lo convinse a non pubblicarlo. Iscrittosi nel 1858 alla facoltà di legge all’Università di Catania, non dimostrò però grande interesse per le materie giuridiche e nel 1861 abbandonò i corsi, preferendo dedicarsi all’attività letteraria e al giornalismo politico. Con il denaro datogli dal padre per concludere gli studi, il giovane pubblicò a sue spese il romanzo I carbonari della montagna (1861- 1862), un romanzo storico che si ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat. La sua fu dunque una formazione irregolare che, come scrive Guido Baldi,[8] … segna inconfondibilmente la sua fisionomia di scrittore, che si discosta dalla tradizione di scrittori letteratissimi e di profonda cultura umanistica che caratterizza la nostra letteratura, anche quella moderna: i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni, più che i classici italiani e latini sono gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità, ai limiti con la letteratura di consumo, come Alexandre Dumas padre (I tre moschettieri) e figlio (La signora delle camelie), Sue (I misteri di Parigi), Feuillet (Il romanzo di un giovane povero). Oltre a questo genere di romanzi egli prediligeva i romanzi storici italiani, soprattutto quelli a carattere fortemente romantico, come quelli di Guerrazzi la cui influenza si coglie anche nel suo terzo romanzo, pubblicato nel 1863, dapprima a puntate sulle appendici della rivista fiorentina La nuova Europa, intitolato Sulle lagune, nel periodo in cui, ottenuta ormai l’Italia l’indipendenza, Venezia è ancora sotto la potenza austriaca. Il romanzo narra la vicenda sentimentale di un ufficiale austriaco con una giovane veneziana in uno stile severo e privo di retorica. Entrambi innamorati della vita finiranno per morire insieme. Verga lavorò in questo periodo frequentemente anche ad Acitrezza ed Acicastello.

    Le prime esperienze a Catania

    In Sicilia si verificò un periodo di violente sommosse popolari per l’abolizione del dazio sul macinato e, soprattutto nella provincia catanese, si assistette alla reazione dei contadini che, esasperati, arrivarono ad uccidere e a saccheggiare le terre. Sarà Nino Bixio che, con la forza, riuscirà a riportare l’ordine. Nella novella Libertà, il Verga rivive con forza drammatica una di queste rivolte, quella di Bronte.

    Con l’arrivo di Garibaldi a Catania venne istituita la Guardia Nazionale e Verga, nel 1860, si arruolò in essa prestando servizio per circa quattro anni ma, non avendo inclinazioni per la disciplina militare, se ne liberò con un versamento di 3.100 lire[10] alla Tesoreria Provinciale. Nel frattempo, insieme a Nicolò Niceforo, conosciuto con lo pseudonimo di Emilio Del Cerro, fondò il settimanale Roma degli Italiani, che si basava su un programma anti-regionale, e lo diresse per tre mesi oltre a collaborare alla rivista L’Italia contemporanea. Il settimanale passerà in seguito sotto la direzione di Antonino Abate.

    Nel 1862, Verga e Niceforo ritentano l’esperienza con la rivista letteraria L’Italia contemporanea sulla quale il Verga pubblica la sua prima novella verista, Casa da thè. La rivista però ha breve durata e, dopo il primo numero, viene assimilata da Enrico Montazio alla rivista fiorentina Italia, veglie letterarie.

    Anche il giornale l’Indipendente, fondato e diretto da Verga sempre nel ‘62, venne, dopo dieci numeri, lasciato alla direzione dell’Abate. In quello stesso anno Verga pubblicò sulla Nuova Europa le prime due puntate del romanzo Sulle lagune che verranno sospese per un anno e infine riprese dall’inizio e terminate il 15 marzo 1863 dopo 22 puntate.

    Gli anni fiorentini

    Nel 1865 si recò per la prima volta, a malincuore, lasciando la provincia, a Firenze e vi rimase dal 13 gennaio fino al 14 maggio. In questo periodo scrisse una commedia, che è stata pubblicata solo nel 1982, dal titolo I nuovi tartufi, che venne inviata, sotto forma anonima, al Concorso Drammatico bandito dalla Società d’incoraggiamento all’arte teatrale ma senza successo e il romanzo Una peccatrice.

    Firenze era a quei tempi la capitale del Regno e rappresentava il punto d’incontro degli intellettuali italiani e il giovane Verga avrà modo di conoscere, in questo primo breve periodo, Luigi Capuana, allora critico della Nazione, i pittori Michele Rapisardi e Antonino Gandolfo, il maestro Giuseppe Perrotta e il poeta Mario Rapisardi.

    A Firenze ritornerà nell’aprile 1869 dopo che la nuova epidemia di colera diffusasi nel 1867 l’aveva costretto, insieme alla famiglia, a trovare rifugio dapprima nelle proprietà di Sant’Agata li Battiati e poi a Trecastagni.

    A Firenze, dove rimarrà fino al 1871, decise quindi di stabilirsi avendo compreso che la sua cultura provinciale era troppo restrittiva e che gli impediva di realizzarsi come scrittore.

    Nel 1866 l’editore torinese Negro gli aveva intanto pubblicato Una peccatrice, un romanzo di carattere autobiografico e fortemente melodrammatico, che narra la vicenda di un piccolo borghese catanese, Pietro Brosio, che, pur avendo ottenuto la ricchezza e il successo, ed essere riuscito a conquistare la donna dei suoi sogni, Narcisa, ritornerà alla sua mediocrità dopo che Narcisa, impazzita per amore, si toglierà la vita.

    Gli anni fiorentini saranno fondamentali per la formazione del giovane scrittore che avrà modo di conoscere artisti, musicisti, letterati e uomini politici oltre che frequentare i salotti più conosciuti del momento.

    Con una lettera di presentazione di Mario Rapisardi si introdusse facilmente in casa dello scrittore e patriota Francesco Dall’Ongaro dove incontra Giovanni Prati, Aleardo Aleardi, Andrea Maffei e Arnaldo Fusinato.

    Introdotto dal Dall’Ongaro presso i salotti culturali di Ludmilla Assing e delle signore Swanzberg, madre e figlia entrambe pittrici, conobbe Vittorio Imbriani e altri letterati. Iniziò quindi a condurre una vita mondana frequentando il Caffè Doney, dove conosce letterati e attori, il Caffè Michelangelo luogo d’incontro dei pittori macchiaioli più noti dell’epoca e recandosi spesso alla sera a teatro.

    Risale a questo periodo la stesura del romanzo epistolare Storia di una capinera che apparve nel 1870 sul giornale di moda Il Corriere delle Dame e che l’anno seguente verrà pubblicato, per interessamento del Dall’Ongaro, dalla tipografia Lampugnani di Milano. La prefazione al romanzo venne scritta dal Dall’Ongaro che riportava la lettera da lui scritta a Caterina Percoto per presentarle il libro. Il romanzo ebbe un gran successo e Verga incominciò ad ottenere i suoi primi guadagni.

    Il ventennio a Milano

    Il 20 novembre 1872 Verga si trasferì a Milano dove si fermerà, pur con diversi e lunghi ritorni a Catania, fino al 1893. Lo presenteranno l’amico Capuana con una lettera per il romanziere Salvatore Farina direttore della Rivista minima e il Dall’Ongaro con una al pittore e scrittore Tullo Massarani.

    A Milano frequenterà in modo assiduo il salotto Maffei dove conosce i maggiori rappresentanti del secondo romanticismo lombardo e si incontra con l’ambiente degli scapigliati, legando soprattutto con Arrigo Boito, Emilio Praga e Luigi Gualdo.

    Frequentando i ristoranti, come il Cova e il Savini, ritrovo di scrittori e artisti, conosce Gerolamo Rovetta, Giuseppe Giacosa, Emilio Treves e il Felice Cameroni con il quale intreccerà una fitta corrispondenza epistolare molto interessante sia per le opinioni sul verismo e sul naturalismo espresse, sia per i giudizi dati sulla narrativa contemporanea, da Zola a Flaubert, a D’Annunzio. Conoscerà inoltre il De Roberto con il quale sarà amico per tutta la vita.

    Gli anni milanesi saranno ricchi di esperienze e favoriranno la nuova poetica dello scrittore. Risalgono a questi anni Eva (1873), Nedda (1874), Eros e Tigre reale (1875). Sono opere che si iscrivono nella poetica tardoromantica del primo Verga, ad eccezione di Nedda, anticipo verista, corrente di cui lo scrittore catanese sarà il massimo esponente dalle novelle di Vita dei campi in poi.

    Lo scrittore intanto si era avvicinato ad autori nuovi per tematiche e forme, come Zola, Flaubert, Balzac, Maupassant, Daudet, Bourget, e aveva iniziato un abbozzo del romanzo I Malavoglia.

    Nel 1877 verrà pubblicata dall’editore Brigola una raccolta di novelle, Primavera e altri racconti, che erano precedentemente apparsi sulle riviste Illustrazione italiana e Strenna italiana, che presentano stile e soggetto diversi dai precedenti scritti.

    Nel 1878 apparve sulla rivista Il Fanfulla la novella Rosso Malpelo e nel frattempo egli iniziò a scrivere Fantasticheria. Lo stesso anno morì sua madre.[2]

    Risale a questi anni il progetto, annunciato in una lettera del 21 aprile all’amico Salvatore Paolo Verdura,[11] di scrivere un ciclo di cinque romanzi, Padron ‘Ntoni, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa delle Gargantas, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso, che in origine avrebbero dovuto essere titolati la Marea per poi essere cambiati in I vinti, che, nell’intenzione del Verga, dovevano rappresentare ogni strato sociale, da quello più umile a quello più aristocratico e sarà questo l’inizio della più felice e fervida stagione narrativa dello scrittore catanese.[12]

    Il 5 dicembre  1878 Verga ritornò a Catania in seguito alla morte della madre e farà seguito un lungo periodo di depressione. In luglio lasciò Catania e, dopo essere stato a Firenze ritornò a Milano dove ricomincerà, con maggior fervore, a scrivere. Nell’agosto 1879 uscirà Fantasticherie sul Fanfulla della domenica e, nello stesso anno, scriverà Jeli il pastore oltre a pubblicare, su diverse riviste, alcune novelle di Vita dei campi che vedrà la luce presso l’editore  Treves nel 1880.

    Nel 1881 apparve sul numero di gennaio della Nuova Antologia l’episodio tratto da I Malavoglia che narra della tempesta con il titolo Poveri pescatori e, nello stesso anno, verrà pubblicato da Treves il romanzo che sarà però accolto molto freddamente dalla critica come confesserà il Verga stesso all’amico Capuana in una lettera dell‘11 aprile da Milano: "I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo. Tranne Boito e Gualdo, che ne hanno detto bene, molti, Treves il primo, me ne hanno detto male".[13]

    Nel 1882, oppresso da bisogni economici, pubblicò presso l’editore Treves il romanzo Il marito di Elena dove verranno ripresi i temi erotico-mondani della prima maniera anche se con una più accurata indagine psicologica.

    Risale a questo periodo la stesura delle future "Novelle rusticane" che verranno pubblicate man mano su alcune riviste.

    Durante la primavera lo scrittore si recò a Parigi dove incontrerà lo scrittore svizzero di lingua francese Louis Edouard Rod, conosciuto l’anno precedente, che nel 1887 pubblicherà I Malavoglia nella traduzione francese. Dopo Parigi compì un altro viaggio a Médan per vedere Zola e a giugno si recò a Londra. Alla fine dell’anno, ma con data 1883, pubblicò la raccolta di dodici novelle con il titolo Novelle rusticane dove si fa predominante il tema della roba. Lavorava intanto intensamente ai racconti Per le vie, iniziati l’anno precedente, che saranno pubblicati sul Fanfulla della domenica, nella Domenica letteraria e sulla Cronaca bizantina e da Treves nello stesso anno.

    Il 1884 sarà caratterizzato dall’esordio teatrale dello scrittore che, adattando la novella omonima apparsa in Vita dei campi, mise in scena Cavalleria rusticana che verrà rappresentata il 14 gennaio 1884 dalla compagnia di Cesare Rossi al Teatro Carignano di Torino e avrà come attori Eleonora Duse nella parte di Santuzza e Flavio Andò nella parte di Turiddu. Il dramma, come già aveva intuito il Giacosa che aveva seguito il lavoro del Verga, ottenne un grande successo.

    Confortato da ciò, Verga preparò un’altra commedia adattando una novella di Per le vie, Il canarino del n. 15, e il 16 maggio 1885, con il titolo In portineria, essa venne rappresentata a Milano al Teatro Manzoni, senza però ottenere il successo di quella precedente.

    Il ritorno a Catania

    Afflitto da una grave crisi psicologica dovuta alle preoccupazioni di carattere finanziario e dal fatto che non riusciva a portare avanti come voleva il Ciclo dei Vinti, decise di ritornare in Sicilia. Nel 1887 uscì, presso l’editore Barbèra di Firenze, la raccolta Vagabondaggio.

    Gli anni tra l‘86 e l‘87 li trascorse lavorando, ampliandole, alle novelle pubblicate dal 1884 in poi per la raccolta Vagabondaggio che uscirà nel 1887 presso l’editore Barbèra.

    Nel 1890 soggiornò per un periodo di alcuni mesi a Roma e all’inizio dell’estate ritornò in Sicilia e, tranne alcuni soggiorni a Roma, vi rimase fino al novembre del 1890. Terminata nel frattempo la prima stesura del romanzo Mastro-don Gesualdo, esso venne pubblicato a puntate sulla rivista La Nuova Antologia.

    Durante il 1889 si dedicò completamente alla revisione del Mastro-don Gesualdo che venne dato alle stampe, da Treves, a fine anno ottenendo una buona accoglienza sia dal pubblico sia dalla critica.

    Lo scrittore, rincuorato dal buon successo del romanzo, progettò di continuare il Ciclo dei Vinti con La duchessa di Leyra e L’Onorevole Scipioni mentre continuò la pubblicazione delle novelle che faranno poi parte delle due ultime raccolte.

    L‘8 aprile 1890, al Teatro Costanzi di Roma, venne intanto messa in scena Mala Pasqua tratta dalla novella dello scrittore che però non ottenne un gran successo. Solo un mese dopo venne rappresentata, nello stesso teatro, l’opera Cavalleria rusticana musicata da Pietro Mascagni riscuotendo grande applauso di pubblico e di critica.

    L’opera continuò ad essere rappresentata con sempre maggior successo e il Verga chiese al musicista e all’editore, come da accordi pattuiti, la parte di guadagno per i diritti d’autore. Gli verrà offerta una modesta cifra, 1.000 lire che il Verga non volle accettare. Rivoltosi alla Società degli Autori, che si dimostrò solidale con lo scrittore, egli sarà però costretto ad agire attraverso vie legali. Ha inizio così nel 1891 una complessa vicenda giudiziaria che sembra concludersi, il 22 gennaio 1893, allorché Verga accetta, una tantum, la somma di lire 143.000 come compensazione finale.[14]

    Nel 1891 erano intanto usciti presso l’editore Treves I ricordi del capitano d’Arce e nel 1894 Don Candeloro e C.i.

    Nel 1893 lo scrittore si trasferì definitivamente a Catania dove rimase, a parte qualche breve viaggio a Milano e a Roma, fino alla morte. Sebbene continuasse a scrivere, si dedicò anche alla fotografia.

    La crisi creativa

    Ebbe inizio tuttavia la sua crisi creativa, che gli impedì di proseguire sulla strada del Verismo, per riaccostarsi allo stile post-romantico.[15] Non smise mai, tuttavia, di tentare il completamento del Ciclo dei Vinti: nel 1895 iniziò minuziose indagini di costume che affermava necessarie per il terzo romanzo dei Cicli dei vinti, La duchessa di Leyra, che però non terminò mai (ci rimangono solamente il primo capitolo e un frammento del secondo), a causa della difficoltà di mantenere la poetica dell’impersonalità verso le classi agiate che disprezza, e che aveva già descritto efficacemente nei romanzi milanesi.[15]

    Da alcuni anni lo scrittore aveva intanto intrapreso una relazione con la pianista Dina Castellazzi, contessa di Sordevolo che durò tutta la vita, anche se la riluttanza del Verga al matrimonio ridusse la relazione amorosa ad un’affettuosa amicizia. Un’altra relazione sentimentale conosciuta fu con la contessa milanese Paolina Greppi Lester, che durò dal 1878 al 1905. La Greppi è l’amica del Verga che compare, in forma romanzata, come interlocutrice in Fantasticheria, la novella che racconta il soggiorno della coppia ad Aci Trezza, e che è considerata il preludio a I Malavoglia.[16]

    Presso Treves, vennero pubblicati nel 1896 i drammi La Lupa, In portineria, Cavalleria rusticana, tutti ricavati da novelle. La Lupa venne rappresentata con successo sulle scene del Teatro Gerbino di Torino e a metà dell’anno lo scrittore ricominciò a lavorare a La duchessa di Leyra.

    Gli ultimi anni

    Sulla rivista di Catania Le Grazie, il 1º gennaio 1897, venne pubblicata la novella intitolata La caccia al lupo e l’editore Treves pubblicò una nuova versione di Vita dei campi, con le illustrazioni di Arnaldo Ferraguti che presentava notevoli cambiamenti se confrontata all’edizione del 1880.

    L’adesione al colonialismo e al nazionalismo

    Nel 1896, lo scrittore, che non era mai stato un progressista, ma comunque di idee liberali, approvò la repressione delle proteste sindacali dei Fasci siciliani attuata dal governo di Francesco Crispi, segno della sua involuzione politica, e del suo distacco totale dalle idee politiche dei naturalisti francesi come Émile Zola. Essi infatti credevano nel socialismo, mentre il pessimismo verghiano lo porta a negare ogni riscatto degli umili che si distaccano dalla tradizione, verso cui prova comunque simpatia, e nei suoi ultimi anni Verga adottò idee conservatrici, anche se continuava comunque a provare disgusto verso le classi ricche.[15] Egli giustificò anche la sanguinosa repressione dei moti di Milano ad opera di Fiorenzo Bava-Beccaris, esprimendo anche una certa insofferenza verso la democrazia parlamentare, e appoggiò il colonialismo italiano.[17] Queste posizioni furono dovute anche ad alcune leggi economiche che avevano, a suo dire, danneggiato la produzione dei suoi agrumeti, e, durante la vecchiaia, la sua chiusura contro il resto del mondo e la sua riservatezza aumentarono sempre di più.[17] Nonostante questo, mantiene comunque una certa benevolenza per le classi umili. Sembra intanto proseguire assiduamente la stesura de La duchessa di Leyra, come si apprende da una lettera scritta all’amico Edouard Rod nel 1898, notizia confermata da La Nuova Antologia che ne annuncia la prossima pubblicazione.[18]

    Nel 1901 furono rappresentati i bozzetti La caccia al lupo e La caccia alla volpe al teatro Manzoni di Milano e gli stessi saranno pubblicati nel 1902dall’editore Treves.

    Alla morte del fratello Pietro, avvenuta nel 1903, il Verga ebbe in affido i nipoti, Giovanni Verga Patriarca, Caterina e Marco, che poi adottòfacendone i suoi figli adottivi.[2]

    Nel novembre dello stesso anno venne rappresentato, sempre al teatro Manzoni, il dramma Dal tuo al mio che uscirà solamente nel 1905 a puntate su La Nuova Antologia e vedrà le stampe, ancora da Treves, nel 1906.

    Lontano ormai dalla scena letteraria, il Verga rallentò notevolmente la sua attività di scrittore per dedicarsi in modo assiduo alla cura delle sue terre anche se, come abbiamo notizia da una lettera all’amico Rod del 1º gennaio 1907, egli continuava a lavorare a La duchessa di Leyra del quale vedrà la luce un solo capitolo pubblicato postumo in La Letteratura a cura del De Roberto il 1º giugno 1922. Al De Roberto lo scrittore affidò, tra il 1912 e il 1914, la sceneggiatura cinematografica di alcune delle sue opere ed egli stesso provvedette alla riduzione della Storia di una capinera e della La caccia al lupo allo scopo di farne una versione per il teatro. Nel 1915, alla prima guerra mondiale, prese posizione a fianco degli interventisti, entrando a far parte dell’Associazione Nazionalista Italiana, a fianco di Enrico Corradini e Gabriele D’Annunzio, del quale apprezzava l’azione politica. Nel dopoguerra si avvicinò al movimento fascista, mostrando simpatia per la figura politica in ascesa di Benito Mussolini, anche se non si iscrisse mai ai Fasci di combattimento.[17]

    Riconoscimenti pubblici e morte

    La sua ultima novella, intitolata Una capanna e il tuo cuore, risale al 1919 e fu pubblicata anch’essa postuma, il 12 febbraio 1922 sull’Illustrazione italiana, mentre nel 1920 verrà pubblicata una edizione riveduta delle Novelle rusticane a Roma sulla rivista La Voce.

    Nel luglio di quell’anno, per gli ottanta anni dello scrittore, si tennero a Catania le onoranze presso il Teatro Massimo Vincenzo Bellini alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce e il discorso ufficiale fu tenuto da Luigi Pirandello. Sempre in quell’anno Verga ricevette, a Roma, la nomina di senatore del Regno, per decisione del re Vittorio Emanuele III. Furono tra le poche apparizioni pubbliche dello scrittore dopo il ritiro a Catania.

    Il 24 gennaio 1922, colto da ictus, non riprese conoscenza e il 27 gennaio morì per emorragia cerebrale a Catania nella casa di via Sant’Anna, assistito dai nipoti e dall’amico De Roberto[19], e dopo aver ricevuto l’estrema unzione, richiesta dai familiari nonostante durante tutta la vita fosse stato dichiaratamente scettico, se non ateo e materialista, posizione che emerge da molti scritti e che contrasta con le sue idee moderate.[20] Il patrimonio di Verga passò, in maggioranza, al nipote primogenito Giovanni Verga Patriarca.[21]

    Giovanni Verga riposa oggi nel viale degli uomini illustri del cimitero monumentale di Catania.[22]

    La poetica e le idee

    L’ideologia che sta alla base della sua letteratura migliore è una personale ripresa della scientificità, dell’impersonalità e del positivismo dei naturalisti, declinati in senso pessimistico, senza alcuna speranza di miglioramento sociale. Forte è l’influsso di alcune teorie dell’epoca, come quella del darwinismo sociale. Agli umili delle sue novelle e romanzi è negata quasi ogni speranza, sia provvidenziale rifacendosi allo stile del Manzoni, sia laica e sociale di ispirazione Zoliana. Verga nega che una vera felicità sia presente o raggiungibile anche da parte degli appartenenti alle classi ricche, data la rappresentazione che egli ne fa sia nei romanzi non veristi, sia in alcune parti del Ciclo dei Vinti e delle novelle. Solo alcuni valori, come la famiglia, il proprio ambiente ed il lavoro (concetto dell’ostrica) possono dare un po’ di serenità.[23]

    Opere

     Romanzi

    Amore e Patria (1856-1857) [inedito di 672 ff. ms. parzialmente riportati in Lina Perroni, Studi verghiani, II, Ricordi di D’Artagnan. La prima giovinezza di Giovanni Verga e due suoi romanzi sconosciuti: Amore e patria; I carbonari della montagna, Palermo, Ed. del sud, 1929].

    I carbonari della montagna, 4 volumi, Catania, Galatola, 1861-1862.

    Sulle lagune, in La Nuova Europa, 5 e 9 agosto 1862-13 gennaio e 15 marzo 1863.

    Una peccatrice, Torino, Negro, 1866.

    Storia di una capinera, Milano, Lampugnani, 1871.

    Eva, Milano, Treves, 1873.

    Eros, Milano, Brigola, 1875.

    Tigre reale, Milano, Brigola, 1875.

    I Malavoglia, Milano, Treves, 1881.

    Il marito di Elena, Milano, Treves, 1882

    Mastro-don Gesualdo, Milano, Treves, 1889.

    Dal tuo al mio, Milano, Treves, 1906.

    La duchessa di Leyra, incompiuto in Federico De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, Firenze, Le Monnier, 1964.

    Novelle

    Casa da thè (novella), 1862.

    Nedda. Bozzetto siciliano, Milano, Brigola, 1874.

    Primavera; La coda del diavolo; X; Certi argomenti; Le storie del castello di Trezza; Nedda, Milano, Brigola, 1877.

    Rosso Malpelo, in Fanfulla, 2-5 agosto 1878.

    Vita dei campi. Nuove novelle, Milano, Treves, 1880. [Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La Lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di Santi, Pentolaccia]

    Un’altra inondazione, in Roma-Reggio, numero speciale del Corriere dei Comuni, Roma, Tipografia elzeviriana dell’Officina Statistica, 1880.

    La roba, in Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti, 26 dicembre 1880.

    Casamicciola, in Don Chisciotte, n. 8, 3 aprile 1881.

    I dintorni di Milano, in Milano 1881, Milano, Ottino, 1881.

    Il come, il quando ed il perché, in appendice alla seconda edizione di Vita dei campi, Milano, Treves, 1881.

    Pane nero, Catania, Giannotta, 1882.

    Libertà, in Domenica letteraria, 12 marzo 1882.

    Novelle rusticane, Torino, Casanova, 1883. [Il Reverendo, Cos’è il Re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani, La roba, Storia dell’asino di S. Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là del mare]

    Per le vie, Milano, Treves, 1883. [Il bastione di Monforte, In piazza della Scala, Al veglione, Il canarino del N. 15, Amore senza benda, Semplice storia, L’osteria dei «Buoni Amici», Gelosia, Camerati, Via Crucis, Conforti, L’ultima giornata]

    Nella stalla, in Arcadia della carità. Strenna internazionale a beneficio degli inondati, Lonigo, Tipo-litografia ed. Luigi Pasini, 1883.

    Drammi intimi, Roma, Sommaruga, 1884. [Drammi intimi, frammento 2, «Nel carrozzone dei profughi» (frammento 3), frammento IV, Un’altra inondazione, - Il Carnevale fallo con chi vuoi; - Natale e Pasqua falli con i tuoi. -, Ultima visita]

    Mondo piccino, in Nuova Antologia, 1º ottobre 1884.

    Vagabondaggio, Firenze, Barbera, 1887. [Vagabondaggio, Il maestro dei ragazzi, Un processo, La festa dei morti, Artisti da strapazzo, Il segno d’amore, L’agonia d’un villaggio, …e chi vive si dà pace, Il bell’Armando, Nanni Volpe, Quelli del colèra, Lacrymae rerum]

    I ricordi del capitano d’Arce, Milano, Treves, 1891. [I ricordi del capitano d’Arce, Giuramenti di marinaio, Commedia da salotto, Né mai, né sempre!, Carmen, Prima e poi, Ciò ch’è in fondo al bicchiere, Dramma intimo, Ultima visita, Bollettino sanitario (Corrispondenza in 4ª pagina)]

    Don Candeloro e C.i, Milano, Treves, 1894. [Don Candeloro e C.i, Le marionette parlanti, Paggio Fernando, La serata della diva, Il tramonto di Venere, Papa Sisto, Epopea spicciola, L’opera del Divino Amore, Il peccato di donna Santa, La vocazione di suor Agnese, Gli innamorati, Fra le scene della vita]

    Una capanna e il tuo cuore, in Illustrazione italiana, 12 febbraio 1922.

    Tutte le novelle, 2 voll., Milano, A. Mondadori, 1940-1942.

    Trasposizioni teatrali

    I nuovi tartufi (1865-1866)

    Rose caduche (1867)

    L’onore I (1869)

    L’onore II

    Cavalleria rusticana (1884)

    In portineria (1885)

    La lupa (1886)

    Dopo (1886)

    Mastro-don Gesualdo (1889)

    Cavalleria rusticana (1896)

    La caccia al lupo (1901)

    La caccia alla volpe (1901)

    Dal tuo al mio (1903)

    Versioni cinematografiche

    Chavalerie rustique (1910) di Victorin Jasset (o secondo altri storici Emile Chautard o ancora Raymond Agnel).

    Cavalleria rusticana (1916) di Ugo Falena.

    Cavalleria rusticana (1916) di Ubaldo Maria Del Colle.

    Tigre reale (1916) diretto da Piero Fosco (Giovanni Pastrone).

    La storia di una capinera (1917) di Giuseppe Sterni.

    Caccia al lupo (1917) di Giuseppe Sterni.

    Una peccatrice (1918) di Giulio Antamoro.

    Eva (1919) di Ivo Illuminati.

    Il marito di Elena (1921) di Riccardo Cassano

    Cavalleria rusticana (1924) di Mario Gargiulo.

    Cavalleria rusticana (1939) di Amleto Palermi.

    La storia di una capinera (1943) di Gennaro Righelli.

    La terra trema (1948) diretto da Luchino Visconti, ispirato a I Malavoglia.

    La lupa (1953) di Alberto Lattuada.

    Cavalleria rusticana (1953) di Carmine Gallone.

    L’amante di Gramigna (1968) di Carlo Lizzani.

    Bronte - Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato 1972 diretto da Florestano Vancini, tratto dalla novella di Giovanni Verga intitolata Libertà.

    Cavalleria rusticana (1981) di Franco Zeffirelli, film-opera.

    Storia di una capinera (1993) di Franco Zeffirelli con Vanessa Redgrave, ispirato al romanzo omonimo.

    La lupa (1996) diretto da Gabriele Lavia con Monica Guerritore, Michele Placido e Raoul Bova, ispirato alla novella omonima.

    Rosso malpelo (2007) di Pasquale Scimeca.[24]

    Bibliografia

    Biografie

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    Vossler Karl, Letteratura italiana contemporanea, Napoli, Ricciardi, 1916

    TUTTI I ROMANZI

    Sulle lagune

    Prologo

    È una delle belle e dolci sere che possiede Venezia.

    Le acque della laguna s’increspano agli ultimi raggi del sole; sulla limpida trasparenza cerulea di quei canali, ove la brezza reca i profumi del lido, scivolano un gran numero di gondole.

    Ai giardini pubblici, sul lido, è una festa solenne e commovente, è una nobile dimostrazione patriottica, che si è fatta sotto il cannone dei forti, per festeggiare la notizia dell’entrata di Garibaldi in Napoli. Moltissime signore, il fiore della società veneziana, che l’emigrazione ha ancora lasciato in quella città, si mischiano al più basso popolo nella comune esultanza; molti sono anche ornati d’insegne tricolori.

    Quest’ammirabile manifestazione popolare, nella quale anche il sesso più debole e pauroso protestava altamente le aspirazioni nazionali del paese, avea messo il diavolo addosso alla polizia, che dal suo canto avea chiesto man forte dal comando militare.

    In conseguenza di ciò, appena la folla usciva dai giardini, numerose pattuglie di poliziotti e di soldati, postati all’ingresso e per tutta la strada Èugenia, irruppero con ingiurie e minacce sui pacifici cittadini che si avviavano alla riva degli Schiavoni, o a raggiungere le gondole ai traghetti.

    Tra gli uffiziali che comandavano il distaccamento di fanteria posto agli ordini della polizia, si notava un giovanotto di alta statura, biondo e piuttosto bello, il quale, malgrado che i suoi compagni si sfogassero con atti villani e indegni, e fin con battiture, sulla folla di uomini e donne, e malgrado la sua aria impettita ed arrogante che lo dimostrava cresciuto sotto l’uniforme bianca, pure si contentava di osservare tutto con la sciabola sotto l’ascella, mordendosi di tanto in tanto la punta di un baffo, e sorridendo di un suo sorriso ironico allo spettacolo ributtante di quella scena brutale.

    Soltanto, tratto tratto, la sua pelle si coloriva, e a masticarsi i peli metteva soverchio sforzo… e allora il suo sorriso ironico diventava amaro e quasi minaccioso.

    Un osservatore, se ve ne potevano essere in quel momento, avrebbe esitato a giudicare se quel riso fosse di scherno o di rabbia.

    Del resto egli contentavasi di gettare qualche volta un’occhiata tranquilla e soddisfatta al di sopra della sua spalla sulle file dei soldati che gli stavano schierati di dietro, coll’arma al piede e godendosi il triste spettacolo colla stupida passività che caratterizza il croato austriaco aspettando di fare altrettanto alla lor volta.

    Tutte le signore che recavano nastri e insegne nazionali erano insultate dagli sgherri della polizia, e qualcheduna anche notata nel taccuino dei commissarj; gli uomini erano percossi e strapazzati prima di esser tratti in arresto.

    La folla non era ancor tutta uscita dai giardini, poiché, viste le prove arrabbiate della polizia, esitava ad incontrare quel furore brutale.

    Animo, via! sbarazzateci di quella canaglia! urlò inferocito un commissario all’uffiziale che dava ormai nell’occhio colla sua inazione. Per Cristo! bisogna non aver più sangue nelle vene per soffrir tanto!

    - In avanti! sciabolatemi quei miserabili! gli gridò un capitano volgendosi a lui indispettito.

    Allora il sottotenente si mosse; ordinò, con voce abbastanza calma e colla lenta misura di un uffiziale tedesco, alla sua gente di mettersi in fila, e s’incamminò verso il cancello.

    In quel punto ne usciva una giovinetta, pallida, come spaventata da quella scena, ma ritrovando nel suo patriottismo tanto coraggio da avanzarsi con dignità e fermezza; i suoi occhi si incontrarono con quelli dell’uffiziale, che si fermò a fissarla, come per ammirazione a quella calma o a tutt’altro…

    - Cospettone! per l’anima del gran maresciallo! non vedete quel mazzo di fiori che quella sguaiata si reca sul petto come un segnale, sig. De Keller? gli gridò il capitano; strappateglielo, da bravo!… il posto è buono, mi pare… ma spicciatevi!

    Allora una viva fiamma sembrò comunicarsi dalle guance della giovane, che abbassò gli occhi, a quelle dell’ufficiale. Egli, un momento innanzi esitante, incrocicchiò le braccia con la sciabola sul petto, come determinato a non muoversi.

    Il capitano arrivava esasperato, con due poliziotti ai fianchi.

    - Non avete inteso i miei ordini? gli disse bruscamente.

    - Li ho intesi, mio capitano; è che per l’onore del nostro uniforme io vorrei non averli uditi.

    - Che vuol dire, signore?…

    - No! questa è viltà; io non lo farò mai, capitano!…

    - Andate agli arresti, signor poltrone!

    Il sottotenente, pallido come uno spettro, come dominando con uno sforzo supremo un impeto feroce, spezzò la sua sciabola sul lastrico.

    Capitolo primo. Al Caffè Nuovo

    Alziamo la tela in una domenica 10 febbraio, 1861, verso sera. E Venezia che vi presentiamo.

    - Venezia, gondola di odalisca, dolcemente cullata su queste rive incantate dell’Adriatico, profumata e superba, che accoglie tutto un fremito di voluttà, un molle sogno d’amore nella limpida trasparenza della sua laguna. No, noi non vi possiamo parlare di Venezia coi suoi centocinquantamila abitanti che il carnevale in altri tempi agiterebbe da un capo all’altro delle sue rive, dei suoi ponti, delle sue selizade, dei suoi canali; colle sue gondole leggiere scorrenti sul suo mare turchino che riflette le ombre immense dei suoi palazzi di marmo, rischiarate vivamente dalle fiaccole delle maschere o inargentate da un puro raggio di luna; mentre i profumi del lido e i suoni delle musiche vi fanno oscillare i loro atomi inebrianti in un voluttuoso miscuglio. - Noi vi parliamo di Venezia sempre bella, su cuiv però sventola allegramente lo stendardo austriaco…

    È carnevale, l’avete veduto; non più lo splendido carnevale di Venezia, ma l’orgia del tedesco che impreca perché le belle veneziane non corrono nelle sue braccia per fare gli onori di casa ai suoi saturnali, mentre forse il bastone o la carcere fa giustizia del patriottismo dei fratelli e dei mariti.

    Due giovanotti, sbarcati un momento innanzi sul Molo, dopo aver attraversato, tenendosi sotto il braccio, la Piazzetta e la Piazza di S. Marco, si indirizzavano verso i portici delle Procurative Vecchie, e si fermavano all’ingresso del Caffè Nuovo.

    Noi li seguiremo, poiché tutte le fila del nostro racconto si aggruppano attorno a questi due personaggi che presentiamo al lettore.

    L’uno di essi, giovanotto elegante di quasi trent’anni, sembra essere uno dei fortunati dandy nelle buone grazie dei rari frequentatori del caffè degli Specchi in abito borghese, che l’emigrazione ha ridotto a pochissimi, poiché il resto della folla che ingombra le altre sale è composta esclusivamente di militari della guarnigione. Appena la sua mano si era posata sul bottone della vetrata, ed era stato scoperto in mezzo ai torrenti di luce e ai globi di fumo che si contrastavano l’atmosfera delle sale, che un’esclamazione quasi generale, da solleticare le orecchie più difficili, era venuta a felicitare il nuovo arrivato:

    - To’! Collini l’eremita d’Oderzo!

    L’arrabbiato campagnuolo!

    - Hai un bel colorito, Collini. Diavolo! ti ripudio.

    - Come hai fatto a prendere quella tinta, mio Gitano? Ci rechi qualche conquista della campagna?

    - Ohe! ti tiri dietro qualche Margherita da Oderzo?

    Il giovine, seguito dal suo compagno, si avanzò, sorridendo e salutando a diritta e a sinistra in modo che allontanava le spiegazioni sino all’angolo più remoto; ciò che indicava non esser disposto per quella sera a mischiarsi allo schiamazzo degli oziosi in guanti gialli che ingombravano la sala.

    Appena si badò all’altro giovane che lo seguiva.

    Forse l’esteriore di quest’ultimo avea meno da attrarre l’attenzione dei privilegiati del caffè.

    Un distinto scrittore ha detto, che lo stile è l’uomo, un altro che il vestito è il carattere. - Noi siamo con l’uno e con l’altro, meno le solite eccezioni.

    Abbiamo fatta questa tirata per aver diritto ad osservare il nostro personaggio dalla forma del cappello alla punta degli stivali, e farvi risultare l’indispensabile carattere dall’inventario del suo abbigliamento.

    Il nostro giovane veste completamente di nero, quantunque il taglio ir reprensibile dei suoi abiti non dia campo alla più lieve critica che avrebbe potuto attrarre il colore. Reca il cappello sugli occhi, giustificando il principio che assegna tali abitudini ai caratteri cupi o semplicemente poco espansivi.

    Il taglio del suo corpo è alto e spigliato, i suoi lineamenti hanno un insieme di grazia che piace, egli può passare anche per bello; però la maschia precisione dei suoi lineamenti, dai baffi e capelli biondissimi, di quel biondo smorto particolare alle razze germaniche, dalla pelle bianca e morbida, quantunque leggermente dorata dal sole, formata ad una fredda alterezza, quasi dura, sebbene i suoi grandi occhi turchini non manchino di dolcezza; i suoi movimenti ritengono l’impronta di quella rigidità, diremmo impacciata, particolare ai militari. Egli difatti nell’entrare avea gettato un’occhiata sospettosa verso le altre sale, ove gli uffiziali facevano il diavolo a quattro.

    I due giovani sedettero in un angolo ad un tavolino ritirato, e il compagno di Collini, appena seduto, si lasciò cadere la testa fra le mani inguantate di nero.

    - Cospetto! Stefano, che cos’hai dunque?… Pensa che vi son venti amici che ci guardano, e di là una folla di uffiziali.

    Il giovane alzò la faccia alquanto pallida, dove si leggeva una grave preoccupazione. L’altro fece segno al garzone e ordinò gelati.

    Il suo compagno scosse la testa negativamente.

    - Ebbene, che cosa vuoi dunque?

    - Non lo so;… quello che vuoi;… preferisco non prender cosa alcuna - rispose il giovane con un accento tedesco molto pronunciato.

    - Come ti piace. Ma sai che mi son messo in vera apprensione sul tuo conto!… Tu, l’allegro rompicollo, ti ritrovo tutt’altro. Giunto ieri dalla Lombardia, ricevo alla stazione il tuo biglietto che fissava quest’appuntamento e in cui accennavi ad aver qualche cosa di grave a comunicarmi, mentre in sei mesi che son lontano non ho ricevuto che tre lettere da te, e ciò nei primi quattro mesi che fui a Milano.

    - E vero; rispose Stefano collo stesso accento cupo.

    - Diavolo!… sarebbe mai che sul confine… abbiano scoperto!… esclamò Collini sempre a voce più bassa.

    - Niente di ciò; aspettiamo il cameriere, onde non essere più interrotti, e saprai tutto.

    - Aspetto.

    - Bisogna che incominci dal principio, riprese il giovane, appena fu partito il garzone, ritrovando un istante il suo buon umore da giovanotto di lieta vita, ma ricadendo tosto nella sua cupa tristezza; la mia famiglia conta molti martiri per la causa ungherese… Mio padre fu giustiziato dopo Arad, la giornata che mieté tante nobili teste; io avevo allora quattordici anni, eppure non volevo essere uno dei satelliti dell’Austria, e studiai il disegno a Pesth, invece di darmi al mestiere delle armi, come mio padre. Venne la coscrizione, ed io fui soldato; ero uffiziale al 1858 nell’esercito del Lombardo-Veneto; in quel tempo diedi la mia dimissione da capitano e passai il confine; fui a Torino, la libera terra che sola allora in Italia accoglieva gli esuli di tutte le schiave nazioni; ivi seguitai a studiare la pittura per occuparmi, mentre rumoreggiavano le notizie di una prossima guerra con l’Austria. Combattei poscia nell’esercito sardo la campagna del 59, e fatto prigioniero a S. Martino, degradato, fui costretto di nuovo a vestire l’esecrata divisa e a servire forzatamente nelle compagnie di disciplina.

    - Parla un po’ più basso, mio caro, rischiamo di correre qualche malanno senza alcun utile.

    - Legato per forza a quei carnefici della mia e della tua patria, seguitò l’ungherese, io mi unii a te e a tutti i generosi giovani veneziani che cospirano per scacciare i loro oppressori; ma io potei giovar poco alla vostra causa, sospetto presso i miei uffiziali e presso la maggior parte dei tuoi concittadini che veggono soltanto in me un uffiziale austriaco… Ebbene!… ciò forma il mio inferno…

    - Stefano…

    - No, non spero più, amico mio… Ho tanto sperato, che alfine sono stanco!

    - Coraggio, Stefano! tu sai le notizie che corrono; tu devi saperle, devi indovinarle almeno dagli ordini crudelmente sospettosi dei tuoi stessi superiori. Il generoso programma e l’eroica iniziativa di Garibaldi hanno rianimato i nostri dalla sfiducia in cui li avea gettati la pace di Villafranca.

    - Oh, Collini, vedi!… spesso mi domando se son più degno della vostra fiducia… io che ancora indosso quella divisa… che voi, poveri oppressi, detestate al pari di noi, noi i quali figuriamo vostri oppressori; che forse è in grazia di questo vestito da borghese che indosso in permesso pel Carnevale, che io non soffro l’umiliazione di vedermi lasciato solo in questa sala del caffè al pari dei miei colleghi!

    - Che dici? tu!… tu che hai tanto sofferto e tanto pericolato per unirti a noi, tu figlio di un patriotta ungherese giustiziato dopo Arad!

    - Basta, mio caro Collini; ascolta intanto: io ho bisogno, sì, ora più che mai ho bisogno di te, di un amico.

    Collini stese semplicemente la mano a Stefano.

    Questi la strinse con emozione, e allora solo si vide il vivo splendore dei suoi occhi, quasi fosco fin allora, inumidirsi di una più mite espressione.

    - Grazie! lo so, mio caro, tu… tu almeno mi ami, tu non mi disprezzi, come gli altri forse… Sentimi, io ho sofferto, io soffro in un modo strano per me, fin da quando partisti per le province libere d’Italia, prima ancora…

    - Tu!

    - Sì; quasi otto mesi addietro, in una delle dimostrazioni fatte per le vittorie di Garibaldi nel napoletano, il mio distaccamento fu messo una volta a disposizione della polizia. Io, quand’anche il rigore della disciplina avesse potuto lasciarmi una scelta, non poteva rifiutarmi senza destare i più gravi sospetti sul mio conto. Ai giardini pubblici si arrestarono alcune persone; vi furono insulti, percosse…

    - A questo proposito mi ricordo che in quel giorno, essendo la mia famiglia a Venezia per qualche giorno, mia sorella, essendosi trovata a quella passeggiata, fu minacciata di arresto, e dovemmo pagare la multa per liberarnela.

    - Fra la folla vi erano moltissime signore; io vi conobbi una giovinetta…

    - Ah, ecco il buono! interruppe Collini ridendo.

    - No; ecco il male, devi dire; poiché io, per non aver voluto insultare villanamente quella ragazza, fui posto agli arresti per tre mesi.

    - M’immagino di già il resto.

    - Non è tanto facile; quella fanciulla io non la potei dimenticare: era un angelo di bellezza, Collini…

    - Eh! che ti dicevo dunque?…

    - Ma io non la vidi più da quel giorno.

    - Diavolo! esclamò Collini sorpreso.

    - Ora senti, non finisce ancor là, seguitò Stefano; io andavo spesso, come mi avevi raccomandato, all’Albergo della Gran Brettagna, per concertarmi con quegli amici del Piemonte che mi recarono la tua lettera. Spesso, intrattenendomi con essi alle finestre dell’Albergo, avevo osservato con curiosa attenzione la scura e severa fisonomia del palazzo che ci stava dirimpetto sul Canal Grande… Sono artista, lo sai; mi chiamate anche un po’ romanzesco, romanzesco però come un personaggio di Kock, voi dite… Che vuoi? A quel palazzo io legai involontariamente una idea di mistero che eccitava al più alto grado il mio interesse, per non dire la mia curiosità… Domandai se fosse abitato, mi si rispose di sì, ma non potei conoscerne di più.

    Alla finestra di fronte a quella, dove io mi affacciavo, era un magnifico vaso di rose dei tropici che la dolce temperatura della laguna manteneva sempre vegete e rigogliose; quei fiori freschi e soavi facevano il più triste contrapposto sulla facciata quasi tetra del casamento, dietro quella finestra sempre chiusa.

    Io amai quei poveri fiori abbandonati.

    Avevo uno strano presentimento che quel mistero mi appartenesse, o che piuttosto fosse destinato a svilupparsi in qualche episodio del mio avvenire.

    Spesso ero dai nostri amici, mai potei vedere aperta alcuna delle numerose finestre di quella casa. Finalmente, una mattina, vidi schiudere la persiana di quella ove stavano i fiori, e dietro le griglie potei vedere le ricche tende di seta che cadevano per tutta l’altezza della finestra. Un braccio sporse da quelle tende e annaffiò il vaso dei fiori con un piccolo boccale di porcellana dorata.

    In quel momento tutto il mistero che faceva battere sì pazzamente il mio cuore, era concentrato in quel braccio…

    Son pittore, amico mio, son poeta, son quello che vuoi; ma fossi stato egualmente il più stupido dei nostri croati, sarei rimasto incantato dal disegno squisito di quel braccio e di quella mano, sebbene alquanto gracili, colla lor pelle sì candida e trasparente che in alcuni punti si colorava di vaghe sfumature turchiniccie.

    Quel braccio era di una donna, intendi!… di una donna che doveva esser bella, un angelo di bellezza… quella cute riteneva ancora la freschezza quasi rigida della verginità…

    La finestra fu rinchiusa; io restai là, coll’occhio ardente e il petto anelante, a fissare ancora quelle persiane verdi.

    Capitolo secondo

    L’indomani fui presto all’Albergo della Gran Brettagna. Aspettai sino a tardi inutilmente; gli amici cominciavano a ridere di me.

    Il giorno dopo trovai la finestra aperta e i miei amici che ridevano battendo le mani. Sorrisi con loro e corsi al davanzale.

    Poco dopo la tenda fu sollevata, una lieve figura di donna si disegnò indecisamente nella penombra.

    Quella figura si curvò sul vaso per odorarne i fiori.

    Amico mio, no!… il mio istinto di artista, di poeta, di rompicollo anche, se lo vuoi, il mio istinto non mi aveva ingannato: giammai ricci di capelli più neri, di un riflesso azzurrognolo, hanno incorniciato una fronte più pura, ingenua, un viso di un ovale più perfetto, di un disegno più incantevole; giammai occhi più belli, occhi turchini come la trasparenza di questo bel cielo della vostra Italia hanno brillato di una luce più potente, hanno avuto un’espressione più mesta e più ideale; giammai labbra più vellutate hanno fatto battere il cuore dell’uomo e tremare convulsivamente le sue per posarvisi in un bacio…

    Oh, Collini! non mi dire come al solito, ch’è la mia abitudine, che fa presto ad infiammarmi per un’ora della prima che passa; sono avvezzo alla vita da caserma, ho veduto molte bellezze in tutto il loro splendore abbagliarmi coi loro tesori di voluttà… eppure giammai, giammai ho provato quello che in quel momento provai di casto, d’immenso, di arcanamente voluttuoso, nel palpito strano, insensato, lo confesso, con cui batteva il mio

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