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RIVISTA TRIMESTRALE

ISSN 2724-1963

ALDO FRANCESCHINI

MASSIME D’ESPERIENZA: I RISCHI


DI ABUSO NELL’UTILIZZO DI UN
INELIMINABILE STRUMENTO
CONOSCITIVO (INEDITO)
POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - AUT. N° MIPA/LO-NO/011/2021 - PERIODICO ROC

1
ANNO 2 | GENNAIO-MARZO 2021
sommario

Editoriali pag.
Giustizialismo, garantismo e impunitismo
di FRANCESCO PETRELLI .............................................................................................. 1

Prospettive
Recensione de “l’imputato”, di Gaia Caneschi, Giuffré Francis Lefebvre,
Milano, 2021
di CONCETTO DANIELE GALATI .................................................................................. 7
Gli attacchi alla funzione difensiva nella giurisprudenza della corte europea
dei diritti dell’uomo: il caso Azerbaigian ed il valore della solidarietà
nell’avvocatura
di FEDERICO CAPPELLETTI ........................................................................................... 21

Corte costituzionale
Waiting for godot
di PIETRO INSOLEA e STELLA ROMANO ...................................................................... 45
Il rumore sordo e prolungato della battaglia
di MARCELLO FATTORE .............................................................................................. 75

Diritto penale
La storia del diritto penale “giurisprudenziale”
di ADELMO MANNA ................................................................................................... 107
Il nuovo reato di abuso d’ufficio e la discrezionalità amministrativa
di GAETANO VICICONTE .............................................................................................. 116

Diritto processuale
Massime d’esperienza: i rischi di abuso nell’utilizzo di un ineliminabile
strumento conoscitivo (inedito)
di ALDO FRANCESCHINI............................................................................................... 125
Come il mugnaio di sans-souci alla infinita ricerca di giustizia
di MARIO GRIFFO ...................................................................................................... 150
II SOMMARIO

Dirtto penitenziario
C’è chi non butta la chiave? Sulla funzione sociale della difesa, tra costitu-
zione, legalità e rieducazione per un ripensamento corale sull’attualità
del 41-bis e dei regimi ostativi
di VERONICA MANCA ................................................................................................. 171

Europa
Oss. Europa - Giurisprudenza Corte EDU 1-2021 ......................................... 199
Oss. Europa - Corte di Giustizia UE 1-2021.................................................... 205

Giurisprudenza
Sezioni Unite penali .............................................................................................. 213

Legislazione
Recenti sviluppi legislativi e giurisprudenziali in materia di mandato di
arresto europeo
di ANDREAVENEGONI ................................................................................................. 243

Il mondo delle idee


L’impersonalità della sentenza
di IACOPO BENEVIERI .................................................................................................. 265
diritto processuale

MASSIME D’ESPERIENZA: I RISCHI DI ABUSO


NELL’UTILIZZO DI UN INELIMINABILE
STRUMENTO CONOSCITIVO
EMPIRICAL GENERALIZATIONS: RISKS OF
ABUSE IN JUDICIAL USE OF AN
INDISPENSABLE COGNITIVE TOOL
di ALDO FRANCESCHINI *

Cass. pen., Sez. V, 14 settembre 2020 (dep. 14 ottobre 2020), n. 28559, Pres.
Pezzullo - Est. e Rel. Riccardi - P.M. Cennicola (diff.)

Prova - Prova indiziaria - Sospetto - Differenze - Criteri di valutazione -


Massime d’esperienza - Sindacato di legittimità.
(Artt. 192 co. 2 c.p.p., 116 disp. att. c.p.p.).
In tema di valutazione della prova indiziaria, è in contrasto con le regole
dettate dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. porre a fondamento dell’af-
fermazione di responsabilità un unico indizio, rappresentato dalla geo-
localizzazione dell’utenza mobile dell’imputato nei pressi del locus commissi
delicti, in assenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti.
In tema di c.d. massime di esperienza, la commissione, da parte del
soggetto imputato di furto, di un precedente reato di furto eseguito tempo
addietro con le stesse modalità operative non può essere ritenuto un vero e
proprio indizio, ma una mera congettura, nella sua dimensione più debole di
sospetto, insuscettibile di per sé di corroborare la prova logica necessaria ad
un’affermazione di responsabilità.
(massime a cura dell’Autore)

(*) Avvocato del Foro di Napoli, Dottore di ricerca in Sistema penale


integrato e processo Università di Napoli “Federico II”.

Diritto di Difesa - 1/2021


126 DIRITTO PROCESSUALE

Prova indiziaria e massime d’esperienza esercitano da sempre grande fascino per gli
studiosi della materia. Presentano inoltre una enorme importanza pratica, di cui, però,
gli attori del processo spesso si mostrano poco consapevoli. La sentenza giudica un
caso emblematico e consente così un utile riepilogo di alcuni principi importanti in
materia di valutazione della prova indiziaria. È l’occasione per proporre una lettura
dei criteri dettati dall’art. 192 co. 2 c.p.p. non del tutto aderente a quella tradizionale.
Ma è soprattutto l’occasione per far emergere una serie di problematiche specifica-
mente connesse all’uso giudiziario del sapere esperenziale, dal controllo sulle ‘false’
massime d’esperienza nel corso del giudizio di primo grado alla successiva verifica sul
loro utilizzo nelle fasi impugnatorie.

Circumstantial evidence and empirical generalizations always exercise great appeal on


experts in the field. They also are of great importance in practice, but actors in the
process are often not entirely aware of that. This decision is about an embelmatic case
and so it allows an useful summary of some important principles regarding evaluation
of circumstatial evidence. This is an opportunity to propose an interpretation of the
criteria laid down in the Article 192 Code of Criminal Procedure not entirely in
accordance with the traditional approach. But above all this is the occasion to bring
out issues specifically related to judicial use of experiential knowledge, from check on
‘false’ empirical generalizations during the first instance trial to subsequent verification
in the appeal.

SOMMARIO: 1. Le c.d. massime d’esperienza: un tema dal fascino irresistibile. - 2. La


vicenda giudiziaria e le decisioni di merito. - 3. L’epilogo in Cassazione e i ‘grandi’
temi trattati. - 4. La valutazione della prova indiziaria. - 5. L’uso del sapere
esperenziale. - 5.1. Il controllo sulle massime d’esperienza. - 5.2. I poteri del giudice
di legittimità. - 6. Conclusioni (e buoni propositi).

1. Le c.d. massime d’esperienza: un tema dal fascino irre-


sistibile. — La sentenza in commento — che possiamo subito
battezzare “sentenza Tanase” — affronta in modo sintetico, ma
molto chiaro, diversi temi di grande rilievo sul terreno del c.d.
ragionamento probatorio: differenza tra indizio e sospetto,
valutazione della prova indiziaria, massime d’esperienza.
L’ultimo argomento menzionato in questa piccola preview
è forse il più suggestivo, capace di esercitare, sui cultori della
materia processuale (1), un fascino poderoso (2).

(1) Non solo per i penalisti, ma anche per i civilisti. Tra questi ultimi, per tutti,
M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Giuffrè, Milano, 1992, passim, in particolare
p. 194, 245, 308.
(2) M. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette « massime d’esperienza », in
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D’altra parte, la panoramica offerta poc’anzi evoca que-


stioni di rilevante impatto pratico (di cui, tuttavia, i protagonisti
tecnici del processo spesso non si mostrano pienamente con-
sapevoli). Possiamo forse dire, fornendo una piccola anticipa-
zione, che proprio l’analisi critica condotta sull’utilizzo delle
massime d’esperienza impiegate dal giudice del merito rappre-
senti il punto nevralgico della decisione che si annota.
Insomma, ingredienti che rendono forte il rischio di essere
sopraffatti dall’istintivo desiderio di divagare e trattare questi
affascinanti temi funditus, così rischiando, però, di tradire la
finalità e il profilo del presente contributo.
L’antidoto più efficace per non indulgere in questa suaden-
te ‘tentazione’ è restare saldamente ancorato alla disamina
della sentenza che si annota, sperando che, con l’incedere del
lavoro, l’impulso lentamente sfumi. Mi concederò solo qualche
riflessione cursoria nella seconda parte del contributo, nell’ot-
tica di offrire alcuni spunti di approfondimento. Soprattutto
per quanto riguarda le massime di esperienza, saranno solo
schizzi di un ragionamento complessivo che richiederà senz’al-
tro maggiori spazio e accuratezza.

2. La vicenda giudiziaria e le decisioni di merito. — Il


ricorrente era stato condannato dal Tribunale meneghino per
due ipotesi di furto pluriaggravato di materiale elettronico
(macchine fotografiche, videocamere, telefoni cellulari et simi-
lia) commessi all’interno di centri commerciali siti, rispettiva-
mente, in Casale Monferrato e nella limitrofa Villanova Mon-
ferrato, nonché per due episodi di tentato furto sempre con il

Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 188, sottolinea la « ricchezza di prospettive offerte dal
tema delle massime d’esperienza nel processo penale ». Per la verità negli ultimi
anni il tema sembra aver perso l’appeal di un tempo e il dibattito scientifico si è un
po’ sopito. Si segnala, tra i lavori più recenti, l’approfondito studio di R. PALAVERA,
Scienza e senso comune nel diritto penale. Il ricorso problematico a massime di
esperienza circa la ricostruzione della fattispecie tipica, Edizioni ETS, Pisa, 2017, e, da
ultimo, F. FALATO, I saperi del giudice. A proposito dell’uso della scienza privata nel
processo penale, Satura editrice, Napoli, 2020.
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medesimo target: centri commerciali, uno di Sesto San Giovan-


ni e l’altro di Parona.
Le due imputazioni di furto erano caratterizzate da una
modalità esecutiva particolare, rilevante per apprezzare i profili
esaminati in questa sede. L’autore aveva infatti realizzato le
condotte predatorie impiegando un’autovettura precedente-
mente rubata, adoperata come ‘ariete’ per accedere all’interno
dei locali e perpetrare i furti.
La Corte distrettuale aveva confermato l’affermazione di
responsabilità del ricorrente, limitandosi a ritoccare solo il
trattamento sanzionatorio, che veniva rideterminato in quello
finale di due anni nove mesi e quattro giorni (oltre pena
pecuniaria) grazie al riconoscimento della diminuente per il
rito abbreviato.
Limitando il focus ai due episodi di furto consumato (3),
dalla lettura dei motivi di ricorso — di cui l’Estensore dà
efficacemente conto in ossequio a quanto previsto dall’art. 173
co. 1 disp. att. c.p.p. —, si desume che, con riferimento a quello
consumato nel centro commerciale di Casale Monferrato, ele-
mento chiave era risultata l’impronta palmare (di cui il ricor-
rente aveva contestato l’inutilizzabilità patologica (4)) rilevata
nel corso degli accertamenti condotti sulla scena del reato e poi
processata dal RIS (cfr. § 2.1).
Per quanto riguarda, invece, il furto nel negozio di Villa-
nova Monferrato, l’affermazione di responsabilità riposava
sull’aggancio, da parte dell’utenza mobile in uso all’imputato,
delle celle ubicate in paesi limitrofi al predetto comune. Secon-
do il ricorrente, che aveva al riguardo denunciato violazione di

(3) Un terzo motivo di ricorso riguardava i due episodi di tentato furto ed era
incentrato sul mancato riconoscimento della continuazione rispetto ad altra senten-
za di condanna. Trattandosi di questione del tutto inconferente rispetto ai temi qui
affrontati, mi asterrò dalla disamina delle parti della sentenza che lo affrontano (§
2.3 e 3), limitandomi a dare conto della decisione della Corte sul punto (infra sub 3).
(4) La difesa aveva censurato, in particolare, l’incertezza sulla provenienza
della traccia, in quanto non sarebbe stata raggiunta la prova in ordine alla superficie
su cui essa era stata rilevata, né sulla precisa ubicazione.
ALDO FRANCESCHINI 129

legge processuale e vizio di motivazione (5), l’aggancio delle


celle costituirebbe « una prova indiretta, indiziaria, insufficien-
te, ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., a fondare
un’affermazione di responsabilità » (cfr. § 2.2). A tale riguardo
la difesa aveva contestato anche che la commissione di un
precedente reato di furto connotato dallo stesso modus ope-
randi (sfondamento con ‘ariete’) potesse costituire elemento
indiziario in senso tecnico (ibidem).

3. L’epilogo in Cassazione e i ‘grandi’ temi trattati. —


Svelo subito l’esito del giudizio di legittimità. La Corte dichiara
inammissibili il motivo di ricorso afferente il furto commesso in
Casale Monferrato (quello dell’impronta palmare, per inten-
derci) (6) e quello avente ad oggetto i tentati furti: il primo, per
manifesta infondatezza e genericità; il secondo, per violazione
dell’art. 606 co. 3 c.p.p., in quanto questione non dedotta con i
motivi di appello.
La Corte annulla con rinvio, invece, la sentenza del giudice
distrettuale nella parte relativa all’episodio di furto commesso
in Villanova, ritenendo che il mero indizio rappresentato dal

(5) A proposito del motivo ‘promiscuo’, è importante richiamare l’attenzione


su alcune recenti pronunce dalla Suprema Corte che censurano tale modalità
redazionale. Si veda, in tal senso, Cass. pen., Sez. II, 19 giugno 2019, n. 42052, n.m.
sul punto, in Rass. Pen., 2019, n. 4, p. 104-106, con scheda illustrativa a cura di A.
FRANCESCHINI, L’inammissibilità del ricorso per cassazione per inosservanza dei criteri
“protocollari”. In particolare nella sentenza si legge che « in tema di ricorso per
cassazione, i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione e quelli aventi ad
oggetto l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale sono, per espressa
previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, ed in quanto tali, non suscettibili di
sovrapporsi e cumularsi in riferimento a un medesimo segmento dello sviluppo
argomentativo che sorregge la decisione impugnata. A loro volta i vizi della
motivazione si pongono in rapporto di alternatività o di reciproca esclusione ».
(6) La Corte liquida velocemente la doglianza in quanto essa non avrebbe
investito il verbale del rilievo dell’impronta redatto dai Carabinieri (ossia l’atto
concernente la propedeutica fase del rilievo dell’impronta), bensì l’elaborato del
RIS, attinente, però, alla diversa e successiva fase dell’accertamento di riferibilità
personale dell’impronta. D’altra parte il provvedimento impugnato, rispondendo
alla medesima censura già proposta in sede di appello, aveva chiarito che il luogo di
effettuazione dei rilievi coincideva con quello di consumazione del furto.
130 DIRITTO PROCESSUALE

c.d. aggancio delle celle sia ex se insufficiente a suffragare


l’affermazione di responsabilità penale.
Per giungere a tale epilogo, il Giudice di legittimità, come
si anticipava in apertura, procede ad analizzare alcuni profili
concettuali che meritano di essere partitamente analizzati e che
possono essere organizzati nei seguenti termini: 1) differenza
tra sospetto e indizio; 2) criteri di valutazione della prova
indiziaria; 3) massime d’esperienza; 4) poteri di controllo sul-
l’utilizzo delle massime.

4. La valutazione della prova indiziaria. — Il primo tema


affrontato è quello della prova indiziaria. Con riferimento ad
esso la Corte anzitutto ribadisce la distinzione concettuale tra
‘sospetto’ e ‘indizio’. Si legge così che il primo termine include,
nel suo spettro semantico, due entità: la congettura, caratteriz-
zata da una dimensione squisitamente soggettiva, e l’indizio
debole o equivoco, suscettibile cioè di « assecondare distinte ed
alternative ipotesi, anche contrapposte, nella spiegazione dei
fatti oggetto di prova » (cfr. § 4, p. 5-6). L’indizio (7), invece,
consiste nell’elemento probatorio estratto all’esito di un ragio-
namento inferenziale, condotto applicando regole scientifiche
o massime di esperienza (ibidem) (8).

(7) Le c.d. funzioni induttive, per usare la celebre formula di Cordero (Pro-
cedura penale, VIII ed., Giuffrè, Milano, 2006, p. 586 ss.), o le prove critico-
indiziarie, per seguire quella proposta da Ferrua. Sul tema la letteratura è pratica-
mente sterminata. In questa sede, non potendo darne conto, mi limito a segnalare
due opere che si caratterizzano per l’originalità dell’impostazione: F.M. IACOVIELLO,
La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Giuffrè,
Milano, 1997, p. 198 ss., e P. FERRUA, La prova nel processo penale. Volume I.
Struttura e procedimento, II ed., Giappichelli, Torino, 2017, p. 66 ss.
(8) In ordine al discrimen tra sospetto e indizio la sentenza Tanase cita la
recente Cass. pen., Sez. V, 17 gennaio 2020, n. 17231, Mazza, in CED Cass. n.
279168. Sul tema appare utile soggiungere solo il richiamo ad un dato normativo
emblematico che la sentenza in commento, però, non evoca esplicitamente. Il
riferimento è all’art. 116 disp. att. c.p.p., rubricato « Indagini sulla morte di una
persona per la quale sorge sospetto di reato ». Si tratta dell’unico articolo, almeno
nell’ordito codicistico, che ospita il lemma “sospetto”. Ebbene, proprio la lettura dei
due commi di cui esso si compone certifica la distinzione anche normativa tra
sospetto e indizio: in caso di morte di una persona, il mero « sospetto di reato »
ALDO FRANCESCHINI 131

Proprio sulla base della descritta distinzione, la Corte di


cassazione, in cauda (cfr. § 4, p. 7), scolora a mera congettura/
sospetto l’altra circostanza considerata indiziante dai giudici di
merito con riferimento all’episodio di Villanova, ossia il coin-
volgimento dell’imputato in un furto commesso un anno prima
con le stesse modalità. Su questo profilo si ritornerà più innanzi
(infra, § 5.2).
In un secondo step, il Giudice di legittimità declina i cano-
nici criteri di valutazione (9) della prova indiziaria previsti
dall’art. 192 co. 2 c.p.p. (10), ricordando che gli indizi devono
essere: 1) gravi, « cioè in grado di esprimere elevata probabilità
di derivazione dal fatto noto di quello ignoto »; 2) precisi, « cioè
non equivoci » (id est, al netto di prospettabili sfumature,
univoci); 3) concordanti, « cioè convergenti verso l’identico
risultato ».
La Corte evidenzia pure la struttura per così dire ‘bifasica’
del ragionamento probatorio di tipo indiziario: un primo mo-
mento, dedicato alla valutazione nucleare di ciascun indizio; un
secondo momento, destinato alla valutazione ‘olistica’ del com-
pendio probatorio, che potrebbe dissipare l’ambiguità del sin-
golo elemento (secondo il modello della c.d. convergenza del
molteplice (11)).

giustifica la scelta del pubblico ministero di procedere all’autopsia sul cadavere


(comma 1); per ordinare il disseppellimento di quest’ultimo è invece necessario che
vi siano gravi « indizi di reato » (comma 2).
(9) Per un’approfondita disamina sulla distinzione tra i criteri di valutazione
e le regole di esclusione della prova, si veda M. DANIELE, Regole di esclusione e regole
di valutazione della prova, Giappichelli, Torino, 2009, passim.
(10) P. FERRUA, La prova nel processo penale, cit., p. 192, il quale segnala gli
« effetti negativi che può sortire l’incursione legislativa nel settore della valutazione
delle prove », stigmatizzando, tra l’altro, « i fiumi d’inchiostro versati per chiarire il
senso di quei pochi commi », tra cui, appunto, i requisiti della ‘gravità’, ‘precisione’
e ‘concordanza’.
(11) In argomento, si vedano, tra gli altri, P. TONINI, C. CONTI, Il diritto delle
prove penali, Giuffrè, Milano, 2012, p. 91 ss.; C. CONTI, La verità processuale nell’era
“post-Franzese”: rappresentazione mediatiche e scienza del dubbio, in C. CONTI,
Processo mediatico e processo penale. Per un’analisi dei casi più discussi da Cogne a
Garlasco, Giuffrè, Milano, 2016, p. 21 ss.; C. NAIMOLI, Principio di falsificazione tra
prova indiziaria e prova scientifica. Riflessioni sul caso Garlasco e M. Kercher, Pacini
132 DIRITTO PROCESSUALE

A proposito dei criteri di valutazione della prova indiziaria,


vale la pena svolgere una breve digressione per offrire un
piccolo spunto critico. L’enunciazione poc’anzi trascritta ripro-
pone l’impostazione pressoché uniforme della giurisprudenza
di legittimità (12), coincidente con quella tradizionale proposta
dalla dottrina maggioritaria (13). Sennonché, da tempo alcuni
studiosi segnalano il rischio che, in questo modello esplicativo,
i due concetti della ‘gravità’ e della ‘precisione’ finiscano per
essere indistinguibili per sostanziale sovrapposizione o per
assorbimento (14). Dire che l’indizio per essere ‘grave’ deve
esprimere il risultato probatorio con « elevata probabilità »

Giuridica, Pisa, 2017, p. 58 ss. Per un differente modello (parimenti bifasico),


imperniato sulla distinzione tra regole di valutazione della prova e regole di giudizio,
si veda O. MAZZA, Il ragionevole dubbio nella teoria della decisione, in Criminalia,
2012, p. 363 ss. (anche infra nota n. 38).
(12) Ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 10 dicembre 2013 (dep. 30 gennaio 2014),
n. 4663, Larotondo, in CED Cass. n. 258721, secondo cui « Gli indizi devono
corrispondere a dati di fatto certi — e, pertanto, non consistenti in mere ipotesi,
congetture o giudizi di verosimiglianza — e devono, ex art. 192, comma secondo,
cod. proc. pen. essere gravi — cioè in grado di esprimere elevata probabilità di
derivazione dal fatto noto di quello ignoto — precisi — cioè non equivoci — e
concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato. Requisiti tutti che devono
rivestire il carattere della concorrenza, nel senso che in mancanza anche di uno solo
di essi gli indizi non possono assurgere al rango di prova idonea a fondare la
responsabilità penale. Inoltre, il procedimento della loro valutazione si articola in
due distinti momenti: il primo diretto ad accertare il maggiore o minore livello di
gravità e di precisione di ciascuno di essi, isolatamente considerato, il secondo
costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolvere la relativa ambiguità.
Il giudice di legittimità deve verificare l’esatta applicazione dei criteri legali dettati
dall’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. e la corretta applicazione delle regole
della logica nell’interpretazione dei risultati probatori ». Si tratta di una sentenza
interessante anche per l’altra massima da essa estratta, secondo cui « In tema di
prove, l’alibi non verificato o ‘fallito’ è irrilevante sul piano probatorio, con la
conseguenza che è manifestamente illogica l’inclusione nel compendio indiziario del
fallimento dell’alibi dell’imputato ». Principio molto pertinente al tema delle mas-
sime d’esperienza, sul quale ultimo si offrirà qualche spunto infra § 5.
(13) P. TONINI, La prova penale, IV ed., Cedam, Padova, 2000, p. 40, secondo
cui « La gravità degli indizi attiene al grado di convincimento: è ‘grave’ l’indizio che
è resistente alle obiezioni e che, pertanto, ha una elevata persuasività [...] Gli indizi
sono ‘precisi’ quando non sono suscettibili di altre diverse interpretazioni ».
(14) E. FASSONE, (voce) Indizio, in Enc. dir., 1997, p. 637; F.M. IACOVIELLO, La
motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, cit., p. 206-207.
ALDO FRANCESCHINI 133

equivale a predicarne un connotato addirittura meno pregnan-


te rispetto alla sua univocità (15), in cui consisterebbe la ‘pre-
cisione’.
Ragionando con approccio integrato ai diversi requisiti
indicati nella fattispecie processuale di cui all’art. 192 co. 2
c.p.p., una soluzione complessivamente più coerente sembre-
rebbe essere quella di considerare la ‘gravità’ in termini di
prossimità dell’indizio rispetto al thema probandum principa-
le (16). In questa prospettiva assume rilievo determinante la
distinzione tra fatti principali e fatti secondari (17) o, secondo
una diversa impostazione nomenclatoria, tra proposizioni da
provare finali e intermedie (18). Questa distinzione si apprezza
particolarmente nei processi in cui i temi probatori sviluppati
dalle parti si articolano in vere e proprie « sequenze probato-
rie » (19): si arriva all’accertamento conclusivo del fatto di reato
passando da una o più prove che si pongono progressivamente
come premessa di quella successiva. Nella prospettiva a cui si

(15) Inoltre, l’univocità evoca un criterio relazionale di tipo deduttivo, in


termini di certezza. Anche da questo punto di vista l’utilizzo di questo termine
appare fuorviante in tema di prova indiziaria.
(16) F.M. IACOVIELLO, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in
Cassazione, cit., p. 206, pur senza prospettare in questi termini la ‘gravità, ricorda
che « Non senza ragione i pratici distinguevano — sotto il profilo della gravità — gli
indizi come prossimi o remoti rispetto al fatto da provare ».
(17) M. TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, Giuffrè, Milano, 1992, p. 97 ss.,
chiarisce che alcuni fatti « vengono definiti “principali”, [...], allo scopo di sottoli-
neare la funzione giuridica di quelle circostanze che sono indicate nella protasi della
norma applicabile, e che quindi rappresentano la condizione o il presupposto per il
verificarsi degli effetti giuridici previsti dalla norma ». Invece, « i fatti che usualmen-
te si chiamano “secondari” [...] si distinguono dai fatti principali in quanto non
ricevono alcuna qualificazione giuridica. Essi acquistano significato nel processo
soltanto in quanto se ne possa trarre qualche argomento introno alla verità o falsità
di un enunciato vertente su un fatto principale ». L’Autore ammonisce però che « la
distinzione tra fatti principali e fatti secondari non è sempre chiarissima, e comunque
rappresenta solo un aspetto di un problema assai complesso ».
(18) P. FERRUA, La prova nel processo penale, cit., p. 81 ss., il quale distingue tra
diverse proposizioni da provare, finali e intermedie; a sua volta, quelle finali, vanno
sceverate in principali e incidentali: la proposizione principale finale è rappresentata
dalla colpevolezza o meno dell’imputato.
(19) P. FERRUA, La prova nel processo penale, cit., p. 76.
134 DIRITTO PROCESSUALE

vuole aderire, la gravità dell’indizio andrebbe dunque graduata


a seconda della sua prossimità al thema probandum principale,
ossia alla colpevolezza o meno rispetto all’ipotesi di reato
descritta nell’imputazione (20).
In definitiva, in questo modello, si finisce per agganciare a
parametri diversificati i due requisiti connotativi dell’indizio,
ampliando così la gamma di precetti connotativi espressa dal-
l’art. 192 co. 2 c.p.p.: mentre quello della ‘gravità’ avrebbe
come punto di riferimento l’oggetto della prova, quello della
‘precisione’ afferirebbe all’affidabilità del meccanismo inferen-
ziale, misurabile in termini di specificità, ossia di insuscettibilità
di diversa interpretazione del dato indiziante.
In tale prospettiva, la locuzione “prova di un fatto” conte-
nuta nell’art. 192 co. 2 c.p.p. andrebbe letta, dal punto di vista
strettamente esegetico, come prova specifica del ‘fatto di reato’
e non come prova generica di qualsiasi fatto rilevante ai sensi
dell’art 187 c.p.p. Così, filtrando il fenomeno indiziario nel
prisma della ‘gravità’, il senso della disposizione sarebbe quello
di inibire la validazione dell’ipotesi accusatoria sulla base di
prove indiziarie che non attingano al nucleo del fatto contesta-
to, nei suoi elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice.
Inoltre, la scelta di correlare i tipizzati requisiti di valuta-
zione della prova indiziaria al fatto principale, spiegherebbe
meglio la costruzione sintattica degli stessi operata nel corpo
dell’art. 192 co. 2 c.p.p., la quale ultima effettivamente sembra
presupporre implicitamente la loro pluralità. Necessaria plura-
lità che, rispetto ai fatti secondari, potrebbe costituire un pre-
supposto ingiustificato (21). Ben inteso, ciò non significherebbe

(20) Secondo P. FERRUA, La prova nel processo penale, cit., p. 188, « Con ‘gravi’
si qualifica il legame che deve sussistere tra le premesse probatorie e la proposizione
da provare », mentre « con ‘precisi’ si allude alla circostanza che siano ben deter-
minati nei loro contorni ».
(21) A titolo esemplificativo, si pensi, per restare aderenti al caso giudiziario
qui oggetto di commento, al dato indiziante rappresentato dall’aggancio dell’utenza
mobile in uso all’imputato alle celle telefoniche corrispondenti all’area geografica in
cui è stato commesso il reato. Da tale circostanza si può desumere, senza necessità
di ulteriori convergenti elementi probatori (quindi, sulla base di un unico indizio), la
ALDO FRANCESCHINI 135

aprire ad una valutazione lassista degli indizi su proposizioni


intermedie: essa resterebbe comunque soggetta al controllo di
logicità e di rispetto della regola decisoria del ragionevole
dubbio enunciata nell’art. 533 co. 1 c.p.p.
D’altro canto, optare per una lettura restrittiva del lemma
‘fatto’ nell’art. 192 co. 2 c.p.p. troverebbe giustificazione siste-
matica nel fatto che il principio informatore in subiecta materia
è quello del libero convincimento (22); pertanto, le regole di
valutazione che ne restringono l’operatività devono ragione-
volmente soggiacere a interpretazione restrittiva.
Seguendo questo approccio, la griglia tracciata dall’art. 192
co. 2 c.p.p. si porrebbe come cintura di protezione dell’accer-
tamento non solo dalla prova indiziaria debole (perché fondata
su un criterio inferenziale ambiguo), ma anche da un compen-
dio probatorio ‘remoto’ (perché incapace di condurre imme-
diatamente al fatto principale). Ed è questo, d’altra parte, un
terreno su cui la prudenza dovrebbe essere la stella polare,
tenuto anche conto della stretta connessione (23) con il princi-
pio costituzionale della presunzione di non colpevolezza (24)

presenza dell’imputato in tale area, sulla base della massima d’esperienza secondo
cui il possessore di un dispositivo mobile lo porta sempre con sé.
(22) Sul tema restano sempre fondamentali gli studi di M. NOBILI, Il principio
del libero convincimento del giudice, Giuffrè, Milano, 1974.
(23) Per un brillante studio sulle interferenze tra i due princìpi, si veda G.
CARLIZZI, Libero convincimento e ragionevole dubbio nel processo penale. Storia
prassi teoria, Bonomo Editore, Bologna, 2018.
(24) Principio del cui ‘rafforzamento’ oggi si discute in vista del recepimento
— per la verità, fuori tempo massimo — della direttiva UE n. 343/2016 del 9 marzo
2016, che riguarda, è bene rammentarlo, non solo il suo versante di regola di
trattamento (forse maggiormente valorizzato nell’attuale dibattito politico e pub-
blico per i frutti avvelenati che il fenomeno patologico del processo mediatico è
suscettivo di generare), ma anche la sua dimensione di regola di giudizio. Con
riguardo a tale ultimo profilo si veda in particolare il considerando n. 22, ove si
afferma, in tema di onere della prova della colpevolezza, che « le presunzioni di fatto
o di diritto riguardanti la responsabilità dell’indagato o dell’imputato [...] dovreb-
bero essere confinate entro limiti ragionevoli, tenendo conto dell’importanza degli
interessi in gioco e preservando i diritti della difesa, e i mezzi impiegati dovrebbero
essere ragionevolmente proporzionati allo scopo legittimo perseguito. Le presun-
zioni dovrebbero essere confutabili e, in ogni caso, si dovrebbe farvi ricorso solo nel
rispetto del diritto della difesa ».
136 DIRITTO PROCESSUALE

(rectius, della non presunzione di colpevolezza (25)) nella sua


dimensione fondativa della regola di giudizio in materia pena-
le (26).
Questa impostazione concettuale relativa al requisito della
‘gravità’ sembra condivisa da una sentenza di legittimità pra-
ticamente coeva a quella che si annota. In essa si legge infatti
che la gravità dell’indizio sarebbe « espressa dalla sua rilevante
capacità dimostrativa in ragione della sua immediata pertinen-
za al thema probandum », mentre la specificità risiederebbe
nella « univocità e insuscettibilità di diversa interpretazione
altrettanto o più verosimile » (27). Questa sentenza presenta

(25) Sulla lettura del principio sancito dall’art. 27 co. II Cost. in termini di
‘negazione passiva’, si vedano le acute osservazioni di P. FERRUA, La prova nel
processo penale, cit., p. 56 ss., secondo cui l’espressione va letta in termini di
agnosticismo, in altre parole con essa si predicherebbe « l’astensione dal giudizio di
colpevolezza ». Molto interessanti le considerazioni espresse sulla scorta di un’ana-
lisi comparata tra l’espressione usata dalla Costituzione e quella, diversa, impiegata
dalla CEDU (art. 6 co. 2). Secondo l’Autore, la regola dettata dalla Costituzione
sarebbe più pregnante avuto riguardo al momento successivo alla pronuncia della
condanna non definitiva; in questo caso « la finzione sta nel non presumere quella
colpevolezza che in via logica sarebbe corretto affermare perché espressa in una
valida sentenza ».
(26) Sui distinti profili del principio di non colpevolezza si vedano L. FERRAJOLI,
Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 2000, p. 561 ss., E.
MARZADURI, Considerazioni sul significato dell’art. 27, comma 2, Cost: regola di
trattamento e regola di giudizio, in F.R. DINACCI (a cura di), Processo penale e
Costituzione, Giuffrè, Milano, 2010, p. 314 ss., O. MAZZA, La presunzione d’innocen-
za messa alla prova, in Dir. pen. cont., 9 aprile 2019.
(27) Cass. pen., Sez. V, 15 settembre 2020, n. 29877, Stuflesser, § 3.3.1, p. 12.
Già in un passaggio precedente della sentenza si legge, a proposito dei requisiti di
valutazione della prova indiziaria, che per ‘gravità’ si intende « la capacità dimo-
strativa vale a dire la pertinenza del dato rispetto al thema probandum ». Sulla base
di queste coordinate concettuali ed esegetiche, la Corte affronta il tema centrale
della vicenda giudiziaria (relativa alla falsificazione di due testamenti olografi),
rappresentato dalla c.d. teoria del cui prodest. Ed è proprio questo il punto oggetto
di massimazione nei termini seguenti: « In tema di valutazione della prova indiziaria,
l’interesse alla commissione del reato rappresenta un elemento indiziario utile ove
risponda ai requisiti di certezza, gravità e precisione, ma richiede la convergenza di
ulteriori indizi che, valutati prima singolarmente e poi globalmente, ne comportino
la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Fattispecie relativa alla falsi-
ficazione di due testamenti olografi in cui la Corte ha ritenuto che il solo elemento
dell’interesse dell’imputato, designato erede unico e universale, non è sufficiente per
ALDO FRANCESCHINI 137

particolare interesse anche per ulteriori affermazioni di princi-


pio rese sullo stesso tema: 1) la necessità che « ciascuna circo-
stanza di fatto assumibile come indizio de(bba) essere conno-
tata, in primo luogo, dal requisito, non espressamente richia-
mato ma fondante, della ‘certezza’ » (28) (più avanti definito
efficacemente un « »pre-requisito »); 2) la necessità, postulata
dall’art. 192 co. 2 c.p.p., « che gli indizi siano plurimi (almeno
due) » (29).
Ebbene, proprio nella sentenza Tanese, nonostante l’impo-
stazione concettuale qui criticata, sembra che la decisione di
cassare il provvedimento di merito fondi sulla scarsa ‘gravità’
— nel senso di mancanza di ‘immediata pertinenza’ rispetto al
fatto principale — dell’unico indizio a carico. L’aggancio del-
l’utenza mobile in uso all’imputato alle celle limitrofe alla
scena del crimine non costituisce un dato probatorio prossimo
al fatto criminoso in contestazione (furto). Semmai, il dato
indiziante (localizzazione del cellulare del soggetto) consente
di inferire il fatto secondario (o proposizione intermedia) che
l’imputato, in determinate circostanze di tempo, si trovasse in
una zona vicina al locus commissi delicti. Ciò in base alla
massima d’esperienza secondo cui il proprietario di un dispo-
sitivo mobile generalmente lo porta sempre con sé. Ma siamo
lontani dalla inferenza degli elementi costitutivi della fattispe-
cie incriminatrice, cioè dalla prova del fatto principale (o
proposizione finale principale).

5. L’uso del sapere esperenziale. — Per operare un rac-

ricondurre allo stesso l’operazione di falsificazione) ». In senso conforme si veda


Cass. pen., Sez. IV, 24 marzo 1993, n. 2967, in CED Cass. n. 193406. Un’ultima
annotazione: sebbene in tutto il corpo della sentenza l’espressione non venga mai
utilizzata, è chiaro che il criterio dell’interesse sia impiegato come massima d’espe-
rienza (o presunta tale), sulle quali ci si soffermerà infra, § 5.
(28) Cfr. Cass. pen., Sez. V, 15 settembre 2020, n. 29877, cit., § 3.2.2, p. 10. Sul
legame tra il requisito implicito della certezza e il criterio della ‘precisione’ si veda
C. NAIMOLI, Principio di falsificazione tra prova indiziaria e prova scientifica. Rifles-
sioni sul caso Garlasco e M. Kercher, cit., 2017, p. 55.
(29) Cfr. Cass. pen., Sez. V, 15 settembre 2020, n. 29877, cit., § 3.3.2, p. 13.
138 DIRITTO PROCESSUALE

cordo — o un link, come si esprimerebbe un nativo digitale —


con gli argomenti sfogliati nel paragrafo precedente, è interes-
sante rilevare che, secondo parte autorevole della dottrina, i
cauti criteri di valutazione dettati dall’art. 192 co. 2 c.p.p.
avrebbero come loro bersaglio proprio le massime di esperien-
za (30). Ed eccoci approdati al secondo ‘grande’ tema che
affiora dalla lettura della sentenza Tanase: l’utilizzo giudiziario
del sapere esperenziale. Gli aspetti di interesse che vengono
coltivati nel provvedimento che si annota sono almeno due
(infra § 5.1, 5.2). Ma procediamo con ordine.
Preliminarmente, sotto un profilo definitorio (31), la Corte
si limita a recepire la formula sintetica di largo impiego nella
giurisprudenza di legittimità, secondo cui esse consistono in
« giudizi ipotetici a contenuto generale, indipendenti dal caso
concreto, fondati su ripetute esperienze » (cfr. § 4, p. 6). Si
tratta, in altre parole, di « regole desunte dall’id quod plerum-
que accidit, consolidate e affidabili, riconosciute come tali da
chiunque e generalmente accettate » (32).

(30) P. FERRUA, La prova nel processo penale, cit., p. 187, secondo cui bisogne-
rebbe ritenere che « con ‘indizi’ l’art. 192 c.p.p. non abbia inteso alludere a tutte le
prove che abbiamo classificato come critico-indiziarie, ma soltanto ad una parte di
esse: più precisamente a quelle che non si fondano su una legge scientifica (come le
fotografie, le impronte digitali, il DNA, ecc.), ma su una massima tratta dall’espe-
rienza corrente ».
(31) Non è certo questa la sede per dare conto delle problematiche di tipo
definitorio. Per la dottrina maggioritaria resta fondamentale la definizione dello
Stein, secondo cui le massime d’esperienza sono « giudizi ipotetici di contenuto
generale, indipendenti dal caso concreto da decidersi nel processo e dalle singole
circostanze, conquistati con l’esperienza ma autonomi nei confronti dei singoli casi,
dalla cui osservazione sono dedotti e oltre ai quali devono valere per nuovi casi » (F.
STEIN, Das private Wissen des Richters: Untersuchungen zum Beweisrecht beider
Prozesse, Leipzig, 1893, p. 21). Vale però la pena ricordare, per la sua immediatezza
esplicativa, la definizione proposta da G. CANZIO, Prova scientifica, ragionamento
probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. proc.,
2003, p. 1193 ss., secondo cui le massime formano « l’enciclopedia o il repertorio di
conoscenze dell’uomo medio, che il senso comune offre al giudice come strumento
conoscitivo per la valutazione del fenomeno probatorio in un determinato contesto
storico e culturale ».
(32) Formula estratta da Cass. pen., Sez. IV, 19 novembre 2015 (dep. 2016), n.
12478, in CED Cass. n. 267811-15. Si tratta della sentenza nota come “Grandi
ALDO FRANCESCHINI 139

Ciò posto, va subito richiamata l’attenzione su un dato


empirico di grande importanza, del quale — come si segnalava
in apertura — i protagonisti del processo sembrano non avere
sempre piena consapevolezza. Le c.d. massime d’esperienza
hanno un orizzonte operativo sterminato (33). Inoltre gli ambiti
d’impiego sono estremamente eterogenei, afferendo molteplici
oggetti di prova: dall’elemento psicologico del reato alla c.d.
causalità psichica, dalla valutazione di credibilità del dichiaran-
te ai giudizi predittivi (ergo, materia cautelare, misure di sicu-
rezza, misure di prevenzione, etc.); questi solo per dare un’i-
dea.
Sembra opportuno chiarire anche un altro aspetto di carat-
tere generale. Sebbene la prassi offra un repertorio in cui
prevalgono senz’altro le regole d’esperienza ‘accusatorie’, esse
ben possono suffragare ipotesi ricostruttive di segno liberato-
rio. In questa prospettiva, non si può escludere l’interesse della
difesa dell’imputato a proporre al giudice l’utilizzo di una
massima ed è dunque importante che si sappia padroneggiare
questo strumento conoscitivo anche in funzione ‘costruttiva’ (e
non solo ‘confutativa’).
I problemi connessi all’utilizzo delle massime d’esperienza
sono enormi, anche perché costituiscono una tecnica epistemo-
logica che si presta a facili abusi (34). In questa sede, tuttavia,
non può andarsi oltre una panoramica sinottica, seguendo uno

rischi”, avente ad oggetto la responsabilità dei componenti della Commissione


Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi per la morte e il
ferimento di numerose persone in occasione del terremoto di L’Aquila del 6 aprile
2009, che dedica grande attenzione al tema delle massime d’esperienza (infra nel
testo e in nota n. 37).
(33) M. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette « massime d’esperienza », cit.,
p. 185, 193, sembra restringere la classe delle massime d’esperienza, sostanzialmente
riducendole alle leggi scientifiche ed escludendo dalle prime « le leggi sul compor-
tamento umano », che in realtà sono « criteri tendenziali di comportamento ».
Secondo l’Autore « la verità sul comportamento dell’uomo non si può scoprire una
volta per tutte » (p. 186). A proposito della lettura del pensiero del Maestro
bolognese su questo aspetto, negli stessi termini qui prospettati si esprime R.
PALAVERA, Scienza e senso comune nel diritto penale, cit., p. 33-34.
(34) M. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette « massime d’esperienza », cit.,
140 DIRITTO PROCESSUALE

stringato ordine di esposizione parametrato sulle fasi in cui si


articola il complesso meccanismo funzionale all’applicazione di
una regola esperenziale.
Il primo aspetto riguarda senza dubbio la ricognizione delle
massime d’esperienza da applicare. In questa prospettiva la
difficoltà si annida nell’operazione selettiva delle massime c.d.
vere al fine di sceverarle da quelle c.d. false. Qui il rischio è
anzitutto che le ‘massime’ si prestino « a coprire, con una
inconsistente patina di irrefutabilità, decisioni nate altrimen-
ti » (35). Per dirla in modo più diretto, esse possono diventare
strumento per « far trionfare l’intimo convincimento del giudi-
ce » (36). Oppure, più semplicemente, può accadere che il giu-
dice elevi arbitrariamente a massima d’esperienza quella che
rappresenta solo una condotta umana plausibile o tendenziale.
Per quanto riguarda il secondo passaggio, ossia l’applica-
zione al caso concreto della massima selezionata, è fondamen-
tale il richiamo ad un noto arresto della giurisprudenza di
legittimità del 2015, che contiene un’analisi funditus dell’utiliz-
zazione giudiziaria delle massime e che vale la pena citare
testualmente. In effetti, secondo uno dei principi di diritto
enucleati da tale sentenza « le massime di esperienza — al pari
delle leggi scientifiche di tipo probabilistico (e dunque di ogni
forma di ‘sapere incerto’) — possono essere utilizzate allo
scopo di alimentare la concretezza di un’ipotesi causale, secon-
do il procedimento logico dell’abduzione. Alla posizione (in
termini congetturali) di tale ipotesi deve peraltro necessaria-

p. 182, avverte che « La nozione di “massime” [...] può essere, nella vita pratica,
strumento di abuso ».
(35) M. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette « massime d’esperienza », cit.,
p. 182, secondo cui ciò accade quando « con la speciosa terminologia di “regole”, si
sia mascherato un elemento di valutazione, nato invece, esclusivamente, dal caso
concreto ». In ogni caso, secondo l’Autore « la battaglia contro simile “malgoverno”
non intacca la nozione in sé di regole d’esperienza ».
(36) M. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette « massime d’esperienza »,
ibidem. Sul punto le parole del Maestro bolognese sono davvero icastiche: « Il
giudice “sapeva” che l’imputato era colpevole, ma non lo sapeva nelle forme del
processo e del diritto. Come far risultare quel convincimento in base al quale egli
riteneva di dover rendere giustizia? ».
ALDO FRANCESCHINI 141

mente far seguito, ai fini dell’affermazione concreta della rela-


zione causale, il rigoroso e puntuale riscontro critico fornito
dalle evidenze probatorie e dalle contingenze del caso concreto
(secondo il procedimento logico dell’induzione), suscettibili di
convalidare o falsificare l’ipotesi originaria e, contestualmente,
di escludere o meno la plausibilità di ogni altro decorso causale
alternativo, al di là di ogni ragionevole dubbio » (37).
Si tratta, in altre parole, di applicare lo schema cognitivo
della c.d. induzione eliminatoria (38) per verificare la corretta
applicazione della massima nel caso di specie e, in ultima
analisi, la sua tenuta rispetto alle evidenze acquisite nel pro-
cesso. È il protocollo accertativo tratteggiato nelle celebri
sentenze Franzese del 2002 (39) e Cozzini del 2010 (40).

5.1. Il controllo sulle massime d’esperienza. — Per un


corretto impiego delle massime d’esperienza non bisognerebbe
mai dimenticare che esse costituiscono una particolare classe

(37) Molto utile richiamare un passaggio nevralgico della motivazione, ove si


chiarisce che « il rapporto tra la generalizzazione del senso comune (sapere espe-
renziale) e il fatto concreto non è dunque quello sillogistico formale tra premessa
maggiore e conseguenza dedotta, bensì quello che (in coerenza al modello ipotetico-
deduttivo) pone in tensione dialogica elementi congetturali razionalmente fondati
sul sapere esperenziale e fatti concreti, in un circolo di reciproca conferma e
concreta corroborazione, tra induzione e abduzione » (cfr. § 17, p. 84).
(38) Sul concetto di induzione eliminatoria come metodo di accertamento
nell’ambito del processo penale, si veda O. MAZZA, Il ragionevole dubbio nella teoria
della decisione, cit., p. 357 ss., in particolare p. 366 ss.; ID., Tradimenti di un codice.
La Procedura penale a trent’anni dalla grande riforma, Giappichelli, Torino, 2020, p.
26 ss. Parla di induzione eliminativa G. CARLIZZI, Errore giudiziario e logica del
giudice nel processo penale, in L. LUPÀRIA DONATI (a cura di), L’errore giudiziario,
Giuffrè, Milano, 2020, p. 139 ss. L’Autore nel saggio illustra in modo analitico un
modello molto strutturato di ragionamento probatorio, che ha senz’altro il merito di
fornire dettagliate « istruzioni operative » per il giudice. Con specifico riferimento
alla valutazione delle massime d’esperienza, si veda C. CONTI, Ragionevole dubbio e
“scienza delle prove”: la peculiarità dell’esperienza italiana rispetto ai sistemi di
common law, in Arch. Pen. Web, 2012, n. 2, p. 12 ss., che offre una ricca bibliografia
sulla c.d. inference to the best explanation, da intendersi quale « scelta della migliore
ipotesi ricostruttiva tra quelle compatibili con i dati probatori » (p. 14).
(39) Cass. pen., S.U., 11 luglio 2002, n. 30328, in CED Cass. n. 222138-39.
(40) Cass. pen., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, in CED Cass. n.
248943-44.
142 DIRITTO PROCESSUALE

dei criteri di inferenza richiamati nell’art. 192 co. 1 c.p.p. (41), di


cui il giudice deve dare compiutamente conto in motivazio-
ne (42).
Ebbene, proprio perché le massime d’esperienza costitui-
scono un criterio inferenziale particolarmente delicato e sensi-
bile, occorre esercitare sul loro utilizzo un controllo efficace e
penetrante; e affinché ciò sia possibile, la precondizione è che
l’uso delle massime avvenga all’insegna della trasparenza.
Sovente accade invece che il giudice ‘occulti’, per così dire,
il criterio che lo ha guidato nella valutazione della prova: egli
decide in base a quella che ritiene una massima d’esperienza;
ma consapevole della sua fallacia, la omette nella motivazione,
la quale viene poi infarcita di vacue formule di stile (43). Ab-
biamo in questo modo una regola inferenziale ‘sotto traccia’,
dissimulata da una motivazione apparente.
Un primo livello di controllo dovrebbe essere svolto nel
giudizio di primo grado. Qui il parallelo con le leggi scientifiche
fa però affiorare differenze importanti nel rispettivo governo.
Molto spesso per queste ultime vi è occasione di effettivo

(41) Cfr. Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di


procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati mino-
renni e delle norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo
processo penale e a quello a carico degli imputati minorenni, in G.U. 24 ottobre 1988
n. 250, Suppl. Ordinario n. 93, dove, a proposito dei criteri di valutazione che il
giudice deve indicare in motivazione, si opera un riferimento esplicito ed esclusivo
proprio alle massime d’esperienza (p. 139-140 dello stampato generato dal sito
http://www.gazzettaufficiale.it).
(42) Secondo M. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette « massime d’espe-
rienza », cit., p. 182, le massime d’esperienza, « costituendo il tessuto connettivo —
per così dire — della decisione in fatto del giudice, possono servire ad ottemperare
al dovere di motivare i provvedimenti giurisdizionali e quindi a consentire il
controllo della fondatezza del ragionamento del giudice ». Di qui la « specifica
funzione giuridico-politica » delle massime, al di là di quella « gnoseologica ».
(43) Ad esempio il giudice muove dall’assunto che un pubblico ufficiale non
affermerebbe mai circostanze false, in ragione del suo ruolo; non potendo enunciare
un principio del genere, egli suffraga la valutazione di attendibilità della testimo-
nianza del pubblico ufficiale con meri stilemi motivazionali (intrinseca coerenza,
precisione, assenza di motivi di rancore/astio nei confronti dell’imputato, etc.). Un
altro esempio potrebbe essere quello in tema di esame dell’imputato, nel caso in cui
il giudice parta dall’(intimo) assunto che questi menta sempre.
ALDO FRANCESCHINI 143

confronto (e di possibile ‘falsificazione’): le leggi scientifiche di


copertura trovano infatti un loro naturale punto di emersione
nell’ambito degli accertamenti di natura tecnica (consulenza o
perizia). Probabilmente questo è un deficit congenito delle
massime, amplificato dal diffuso convincimento che esse, per
definizione, non abbiano bisogno di prova. Assunto controver-
tibile (44). Ma anche a prescindere dal profilo dogmatico, per-
ché mai dovrebbe negarsi spazio, ad esempio, ad una prova
falsificatoria di una presunta massima? E d’altra parte non è
tecnicamente inattuabile un contraddittorio poietico (45) sulle
massime. Nella prassi giudiziaria, ad esempio, sia pure in rare
occasioni si è fatto ricorso al mezzo di prova dell’esperimento
giudiziario (46). Potrebbe poi immaginarsi il contributo esperto

(44) Critico rispetto a questo assunto già M. NOBILI, Nuove polemiche sulle
cosiddette « massime d’esperienza », cit., p. 190, secondo cui è discutibile « l’affer-
mazione che le “massime” non abbisognino di prova, ereditata dal vecchio notoria
non egent probatione ». In un passaggio molto significativo rispetto a questo tema, si
legge: « Ammesso, infatti, che il vero fondamento e la vera caratteristica delle
massime risieda esclusivamente nella generalità e certezza di una regola, si potrà ben
discutere proprio di tale qualità [...] Ciò è frutto in special modo dell’incessante
ricambio delle regole d’esperienza, il quale non consente che si possa pacificamente
affermare che le « massime » non abbisognano mai di prova » (p. 145-146).
(45) L’efficace espressione è utilizzata da O. MAZZA, Il garantismo al tempo del
giusto processo, Giuffrè, Milano, 2011, p. 8, 16, 18; si veda anche C. CESARI, Il
principio del contraddittorio: virtù e limiti, in D. NEGRI, L. ZILETTI (a cura di), Nei limiti
della Costituzione. Il codice repubblicano e il processo penale contemporaneo,
Cedam, Padova, 2020, p. 153 ss.
(46) Ne dà conto C. NAIMOLI, Principio di falsificazione tra prova indiziaria e
prova scientifica, cit., p. 14, a proposito del caso dell’omicidio Scazzi. Nel passare in
rassegna le prove indiziarie raccolte in quel processo, si ricorda il dato congiunto
rappresentato dal percorso compiuto da Stasi nell’abitazione della vittima e l’assen-
za sulle suole delle scarpe di tracce ematiche. Secondo l’impostazione accusatoria,
questo rappresentava un indizio a carico, perché avrebbe reso inverosimile la
versione dell’imputato, che affermava di aver compiuto un dato percorso ma di non
essersi sporcato le scarpe di sangue. L’Autrice segnala come nel corso del processo
fu « sottoposta a verificazione per mezzo di un esperimento giudiziale la massima di
esperienza secondo cui l’uomo, per giungere da un punto all’altro, sceglie sempre il
percorso più breve, chiedendo a soggetti sperimentatori di passare da un punto ad
altro di una stanza con il pavimento macchiato di sangue. Il risultato è stato che tutti
i soggetti hanno cercato di evitare le macchie di sangue ». Si sofferma ad analizzare
il valore di tale specifico indizio anche P. TONINI, La Cassazione accoglie i criteri
144 DIRITTO PROCESSUALE

di sociologi o psicologi, che abbiano condotto specifiche ricer-


che nel campo di riferimento.
E qui può essere interessante ragionare sul tema anche alla
luce della latitudine del contraddittorio dopo Drassich (47). La
verità, tuttavia, è che pure con riferimento alla qualificazione
giuridica, la giurisprudenza interna non ha colto l’indissolubile
legame di tale aspetto con il contraddittorio probatorio, offren-
do del principio una lettura asfittica, ricevendo, infine, un
(deludente) avallo dalla Corte di Strasburgo (48).
Nella maggiore parte dei casi, comunque, il controllo sulle
massime si può esperire solo nei gradi di impugnazione, dopo
che il giudice di merito abbia svelato, nel tessuto motivaziona-
le, la regola d’esperienza concretamente impiegata (49).
Proprio rispetto alla prospettiva impugnatoria, è allora
cruciale che le massime non siano occulte, ma dichiarate, così
come pretende il combinato disposto degli artt. 192 co. 1 e 546
co. 1 lett. e) c.p.p. Direi di più: le massime dovrebbero essere
identificate ed esplicate dal giudice; dovrebbero, cioè, essere
oggetto di esplicita qualificazione ed enunciazione. Sempre.

Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime di esperienza, in
Dir. pen. proc., 2011, n. 11, p. 1347. Per un attento studio della vicenda processuale,
si vedano anche E. SAVIO, E. STEFANINI, Il caso Garlasco, in C. CONTI (a cura di),
Processo mediatico e processo penale. Per un’analisi approfondita dei casi più
discussi da Cogne a Garlasco, Giuffrè, Milano, 2016, p. 53 ss.
(47) Sembra valorizzare l’aspetto F. MORELLI, I limiti dell’annullamento senza
rinvio e della contestuale decisione sul merito nel giudizio di legittimità, in Cass. pen.,
2019, p. 2123 ss.
(48) Cass. pen., Sez. II, 15 maggio 2013, n. 37413, in CED Cass. n. 256651-53.
Sul punto si vedano le osservazioni critiche di C. SANTORIELLO, Il « Caso Drassich »
ancora in cerca di soluzione: la S.C. sorda alle censure di Strasburgo, in Arch. Pen.,
2013, n. 3, e di S. QUATTROCOLO, La « vicenda Drassich » si ripropone come crocevia di
questioni irrisolte, in Dir. pen. cont., 2013, n. 4, p. 167 ss. L’epilogo della vicenda
giudiziaria, come noto, si è poi avuto con la sentenza C.E.D.U., 22 febbraio 2018, che
ha respinto il secondo ricorso proposto nell’interesse di Drassich, su cui si può
leggere F. ZACCHÉ, Brevi osservazioni su Drassch (n. 2) e diritto alla prova, in Dir.
pen. cont., 2018, n. 3, p. 298 ss.
(49) In sede di gravame di merito, il sindacato potrebbe essere valorizzato
anche in termini di rinnovazione parziale dell’istruzione probatoria ai sensi dell’art.
603 c.p.p.
ALDO FRANCESCHINI 145

5.2. I poteri del giudice di legittimità. — Problemi specifici


si pongono poi con riferimento al giudizio di legittimità (50).
Primo. Il giudice di legittimità può/deve esercitare un sin-
dacato sulla selezione della massima (o delle massime) utiliz-
zata(e) dai giudici di merito?
Su questo tema la sentenza Tanese afferma che « il con-
trollo della Cassazione sui vizi della motivazione della sentenza
impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle
massime di esperienza, [...], può però avere ad oggetto la
verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congettu-
re, consistenti in ipotesi non fondate sull’id quod plerumque
accidit, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una
pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima
plausibilità » (§ 4, p. 6).
La prima parte della formula — ove si esclude il « sindacato
sulla scelta delle massime » — può apparire ambigua, ma non
vi è dubbio che la Corte debba anzitutto valutare se quella
scelta dal giudice di merito sia una ‘vera’ regola d’esperien-
za (51) e, in seconda battuta — anche se questo aspetto è
trascurato nell’enunciazione di principio proposta dalla senten-
za —, sondare la validità di essa rispetto al caso di specie, alla
luce di un controllo falsificatorio condotto sulla scorta delle
emergenze processuali, ovviamente nei limiti del vizio di mo-
tivazione.
E in effetti, come si è già dato conto (supra, § 4), nella

(50) Su questi aspetti si vedano, in particolare, F.M. IACOVIELLO, La Cassazione


penale. Fatto, diritto e motivazione, Giuffrè, Milano, 2013, p. 316 ss., 458 ss., C.
IASEVOLI, La Cassazione penale: ‘giudice dei diritti’. Tra chiusura al fatto e vincolo del
precedente, E.S.I., Napoli, 2018, p. 213 ss.
(51) E per la verità, la Corte di cassazione spesso censura proprio la indivi-
duazione della massima di esperienza, ritenendo che quella utilizzata dal giudice di
merito in realtà non sia tale. Il repertorio è davvero molto ricco. Qui c’è spazio per
ricordarne solo uno, particolarmente emblematico del malgoverno delle massime da
parte dei giudici del merito. Il riferimento è a Cass. pen., Sez. VI, 13 febbraio 2007,
n. 16532, in CED Cass. n. 237145-01, secondo cui « non è assolutamente da ritenere
“massima di esperienza” conforme al principio di “saggezza popolare” del “tentar
non nuoce” che un avvocato solleciti “generalmente” i pubblici dipendenti per
ottenere notizie coperte dal segreto d’ufficio ».
146 DIRITTO PROCESSUALE

sentenza Tanese il Giudice di legittimità censura in modo


tranchant la motivazione della sentenza di secondo grado nella
parte in cui considera indiziante la circostanza che l’imputato
avesse commesso, circa un anno prima, un furto con la stessa
modalità operativa (sfondamento della vetrina utilizzando
un’autovettura come ‘ariete’). Qui il fallace presupposto, non
esplicitato dal giudice del merito, è che sussista una regola
d’esperienza in virtù della quale l’autore di una condotta
criminosa ripetuta adoperi sempre lo stesso modus operan-
di (52).
Si tratta, come stigmatizza la Suprema Corte, di un elemen-
to di mero sospetto e certo non di un indizio.
Secondo. Quali sono i limiti del sindacato di legittimità
sull’utilizzo delle massime? Ferma restando la necessità che il
controllo sia rigoroso e penetrante, la Corte di cassazione non
dovrebbe mai esercitare un potere sostitutivo, nel senso di
porre, quale criterio inferenziale, una massima d’esperienza
diversa da quella selezionata dal giudice di merito e traendo
dalla ‘nuova’ regola conclusioni in grado di ribaltare la deci-
sione impugnata (53). A tale proposito la partita si gioca sul-
l’exitus del giudizio di legittimità: in questi casi, per evitare che
la Cassazione travalichi i confini delle sue attribuzioni istituzio-

(52) Premesso l’assunto, del tutto condivisibile, secondo cui la rilevanza degli
aspetti criminologicamente significativi dovrebbero restare confinati all’ambito delle
indagini, va in ogni caso rimarcata la differenza tra modus operandi e signature,
segnalando come il primo rappresenti « quanto il soggetto compie per mettere in
atto il crimine » e precisando che si tratta di un profilo « dinamico », che « può
modificarsi nei successivi delitti » (cfr. M. PICOZZI, A. ZAPPALÀ, Criminal profiling.
Dall’analisi della scienza del delitto al profilo psicologico del criminale, McGraw-Hill,
Milano, 2002, p. 2). In ordine al modus operandi si veda B.F. CARILLO, U. FORNARI, La
scena del crimine vista con gli occhi della criminologia, in D. CURTOTTI, L. SARAVO (a
cura di), Manuale delle investigazioni sulla scena del crimine. Norme, tecniche,
scienze, Giappichelli, Torini, 2013, p. 796.
(53) In tal senso si veda anche la Relazione di accompagnamento al codice del
1988, ove si legge che il sindacato esercitato dalla Corte di cassazione « non può
spingersi oltre la soglia della manifesta illogicità, cioè non può giustificare la
sostituzione dei criteri e delle massime di esperienza adottati dai giudici di merito
con quelli prescelti invece dalla cassazione » (cfr. Relazione cit., p. 319).
ALDO FRANCESCHINI 147

nali, dovrebbe sempre coincidere con un annullamento con


rinvio per nuovo giudizio ai sensi dell’art. 623 c.p.p.
Purtroppo, l’analisi della prassi giudiziaria in materia di
governo delle massime d’esperienza consegna un quadro non
proprio confortante. Il pendolo oscilla tra una sottovalutazione
del compito di vagliare il corretto utilizzo delle massime (liqui-
dando le doglianze come questioni di merito) all’eccesso op-
posto, di plateale invadenza di campo (54).
La sentenza Tanese si colloca in una zona virtuosa anche
perché, dopo aver scovato una ‘falsa’ massima all’esito di un
rigoroso controllo, dimostra equilibrata capacità di self-re-
straint, atteso che la Corte si limita ad annullare con rinvio per
nuovo giudizio (il cui esito, per la verità, non sembra difficile da
preconizzare).

6. Conclusioni (e buoni propositi). — La sentenza Tanase

(54) Di questo metro applicativo appare emblematica la recente Cass. pen.,


Sez. IV, 15 novembre 2018, n. 53455, in CED Cass. n. 274500, relativa ad un’impu-
tazione di omicidio colposo elevata a carico di alcuni carabinieri per il decesso di un
uomo nei cui confronti erano intervenuti, immobilizzandolo a terra in posizione
prona e con le mani dietro la schiena. La Suprema Corte ha annullato senza rinvio
la sentenza di condanna (una doppia conforme) assolvendo gli imputati con la
formula perché il fatto non costituisce reato. In particolare, secondo la Corte, i
giudici del merito avrebbero omesso di considerare che l’evento in concreto non era
prevedibile, per non avere le forze dell’ordine quelle specifiche competenze che gli
avrebbero consentito di prospettarsi le conseguenze dannose verificatesi e che solo
il sapere scientifico entrato nel processo, attraverso approfondite perizie mediche,
aveva poi reso note. In realtà, la Corte, da un lato effettua un sindacato negativo
sulla principale massima d’esperienza applicata dai giudici del merito (sarebbe
« fuorviante » l’affermazione secondo la quale « in una posizione prona, stesi al
suolo ed ammanettati, si respira peggio »), dall’altro procede alla fase rescissoria del
giudizio, proponendo una diversa ricostruzione del fatto secondo nuove e sostitutive
massime d’esperienza, tra cui: il silenzio improvviso da parte della vittima poteva
spiegarsi con il fatto che l’imputato « avesse deciso di cessare ogni resistenza »
oppure che stesse « fingendo di essersi acquietato, per poter poi reagire nuovamente
una volta che si fossero allentati i controlli » (cfr. § 14); la frase « sto morendo »,
pronunciata dalla vittima, poteva essere addebitata al delirio eccitatorio provocato-
gli dalla cocaina (ibidem). Per una severa analisi critica della pronuncia, soprattutto
con riferimento al disinvolto uso del potere di annullamento senza rinvio da parte
della Corte, si veda F. MORELLI, I limiti dell’annullamento senza rinvio e della
contestuale decisione sul merito nel giudizio di legittimità, cit., p. 2123 ss.
148 DIRITTO PROCESSUALE

si fa apprezzare per almeno tre ragioni. In primo luogo offre


un’utile panoramica ‘sinottica’ di consolidati arresti su alcuni
topoi della prova indiziaria: distinzione dal sospetto; requisiti di
valutazione; ragionamento indiziario; massime d’esperienza.
In secondo luogo dimostra appropriato rigore nel setaccia-
re il ragionamento indiziario posto dai giudici di merito a base
dell’affermazione di responsabilità e nell’individuare i bugs che
ne svelano la debolezza.
Last but not least, perimetra con altrettanta severità l’am-
bito dei suoi poteri, evitando così di sostituirsi al giudice di
merito nella valutazione degli elementi probatori.
Bisogna riconoscere che non sempre il metodo è questo.
Veniamo ai propositi. Il tema della prova indiziaria costi-
tuisce un aspetto cruciale del ragionamento giudiziario (55),
rispetto al quale il dibattito deve continuare ad essere inces-
santemente alimentato, soprattutto con riferimento al versante
giurisprudenziale. Al di là delle enunciazioni di principio, gli
appigli davvero saldi, dal punto di vista operativo, sembrano
ancora pochi.
E poi ci sono le massime d’esperienza, che costituiscono —
inutile negarlo — un ineliminabile strumento conoscitivo per il
giudice penale (56). Due prospettive di studio appaiono allora
di grande rilievo e meriterebbero di essere sviluppate.

(55) Per riflettere sul ragionamento giudiziario, da una prospettiva non giuri-
dica, si vedano G. CEVOLANI, V. CRUPI, Come ragionano i giudici: razionalità, euristiche
e illusioni cognitive, in Criminalia, 2017, p. 181 ss., ove, tra le altre cose, si analizzano
i risultati di alcune ricerche effettuate su campioni di giudici in diversi paesi.
Secondo i dati raccolti anche in questo settore risulta dominante l’impiego di sistemi
decisionali di tipo intuitivo a scapito di quelli di tipo deliberativo.
(56) M. NOBILI, Nuove polemiche sulle cosiddette « massime d’esperienza », cit.,
secondo cui le massime d’esperienza, « nei limiti in cui siano correttamente utiliz-
zabili », non possono venire « espulse dal novero degli strumenti processuali, quali
inutili anticaglie » (p. 160); nelle conclusioni, in modo ancora più perentorio, il
Maestro bolognese afferma che « l’utilizzazione di criteri e di regole extranormative
è strumento indispensabile del vaglio probatorio e del giudizio processuale » (p.
190). O. MAZZA, Il ragionevole dubbio nella teoria della decisione, in Criminalia, 2012,
p. 370, ribadisce « il ruolo centrale e ineliminabile delle massime d’esperienza nel
ragionamento probatorio ». In tal senso, per la giurisprudenza, Cass. pen., Sez. IV,
19 novembre 2015 (dep. 2016), n. 12478, cit. (cfr. § 16, p. 80).
ALDO FRANCESCHINI 149

In primo luogo sarebbe utile impegnarsi in una ricognizio-


ne (e correlata analisi) delle massime di esperienza disseminate
nel panorama giurisprudenziale; ciò non tanto nella prospettiva
— scientificamente sterile — di costruire un repertorio delle
massime (57), quanto piuttosto nel tentativo di raffinare i profili
definitori e dunque perfezionare la costruzione del paradigma
di ‘massima’.
La seconda prospettiva di studio potrebbe essere quella di
approfondire gli spazi di contraddittorio, argomentativo e pro-
batorio, coltivabili sul terreno delle massime d’esperienza.
Dunque... to be continued.

(57) È una delle necessità segnalate da M. NOBILI, Nuove polemiche sulle


cosiddette « massime d’esperienza », cit., p. 184, secondo cui una « capillare ricerca
giurisprudenziale » sarebbe « della massima importanza ». In tale prospettiva è già
di grande interesse la panoramica offerta da F.M. IACOVIELLO, La motivazione della
sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, cit., p. 183 ss.

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