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Non mi è mai piaciuta la definizione di “impegnato”.

Scrittore impegnato, libro impegnato,


cantautore impegnato, canzone impegnata. Ciò che significa, nell'uso comune, che un gesto artistico
ha una finalità politica deliberata. Di fatto, l'arte si mette in relazione prioritaria con la dimensione
politica, quasi fosse la sua ancella (come la filosofia rispetto alla teologia ai tempi della Scolastica).
Il gesto artistico, in questa accezione, viene perimetrato, ridotto a una sola dimensione, e reso
subalterno. Certo, questa è una visione a sua volta asfittica, si dirà – ed è vero: quando si parla di
impegno, si sta dicendo che il gesto artistico deve assumersi una responsabilità nei confronti del
mondo. Come l'essere umano deve farlo, sempre e in qualunque circostanza; e l'arte non è forse
l'espressione più alta (più concentrata, direi) dell'umano? Dunque le tocca la responsabilità più che
al resto. E su questo sono ben d'accordo. Ma non mi basta. E chiedo: è davvero necessario
assumersi programmaticamente quella responsabilità? E se essa ci fosse già, ipso facto? Se essa
coincidesse per natura, in quanto tale, con il gesto artistico? Che senso avrebbe allora quella
perimetrazione? Non andrebbe a coincidere con una prescrittività? Non si renderebbe subalterna a
una programmaticità? E una prescrittività non sarebbe limitante nei confronti della libertà del gesto
artistico? Non si rischia di decapitare tanti fiori che sfuggono a quella normatività?
Rewind. L'attributo di “impegnato” per un artista si inscrive – sempre facendo riferimento all'uso
del linguaggio, che è ciò che più importa – nella medesima famiglia linguistica di “intellettuale
organico”, “militante”, e via dicendo. Il che aveva senso, eccome, nella polemica gramsciana contro
l'intellettuale tradizionale, contro il mito della cultura disinteressata, dell'arte per l'arte, che vede
l'arte come un hortus conclusus negando la sua relazione col mondo, e con la vita, occultando così
la sua natura ideologica. Ma oggi, che le forme di produzione e di diffusione della cultura sono
radicalmente cambiate ha ancora senso, è ancora utile, usare questi concetti?
Il punto che mi produce il disagio maggiore nella prospettiva dell'impegno è la prescrittività che
non può non accompagnarsi ad essa. Gli esiti estremi di questa concezione stanno in Zdanov e nel
realismo socialista, quando i cento fiori che erano fioriti nel '17 (meravigliosa metafora di Mao, che
lui stesso ben si guardò dal rispettare) erano stati offerti in olocausto al socialismo in un solo paese.
Ma questo lo sappiamo, sono cose arcinote e non ci torneremo certo sopra. Mi limito solo a dire che
i dibattiti tra scuole, (che so, Pasolini o Calvino?), mi hanno sempre stuccato: perché io credo che ci
debbano essere sia Pasolini sia Calvino. Abbiamo bisogno di prospettive diverse, in ogni campo
artistico, finanche quando sono incompossibili.
Chi conosce l'identità di chi scrive queste parole, potrebbe a questo punto essere meravigliato, visto
che il sottoscritto ha cantato diversi anni con una band che si chiamava Les Anarchistes, ha scritto
molti libri che raccontavano fenomeni sociali, dall'immigrazione alle morti sul lavoro alla
rivoluzione curda. Posso rassicurare quello stupefatto lettore: sto scrivendo adesso un libro sulla
sofferenza psichica nell'epoca della società della prestazione, non mi sono rifugiato nel “privato”. E
mi capita spesso di cantare e raccontare i fenomeni sociali nelle canzoni, come ho fatto con una
canzone che si intitola “Tempo rubato” e racconta le forme contemporanee di sfruttamento del
lavoro. Quel che sto dicendo è questo: rifiuto il concetto di “impegno” perché si tratta di superare
quella contrapposizione tra arte impegnata e arte disinteressata.
Non esiste arte buona perché impegnata e arte cattiva perché disinteressata. Esiste arte buona perché
sa dischiudere mondi e capacità immaginative, e arte cattiva perché non sa immaginare nulla, ed è
solo un prodotto di consumo. Si possono dischiudere mondi cantando la lotta dei curdi o cantando il
candore della neve, le forme di sfruttamento del lavoro o l'evanescenza di un rapporto d'amore. A
fare la differenza è il linguaggio, nient'altro che il linguaggio, la sua potenza: che apre mondi. Dire
che a fare la differenza è il linguaggio non significa affatto che si tratti di arte per l'arte: perché il
linguaggio è per sua natura “il comune”. E' il trascendentale stesso del nostro essere umani. E' ciò
che ci precede, a cui apparteniamo e che non ci appartiene, è il mondo che abitiamo. Stare nel
linguaggio con la consapevolezza della natura comune del linguaggio, questa è la premessa per fare
arte buona. Dopodiché, occorre aver cura delle cose che col linguaggio si dicono. E come ci se ne
prende cura? Scartando dal comune (dal “luogo comune”) e innescando una prospettiva nuova, che
ci faccia vedere le cose in modo diverso.
Non c'è impegno, nella musica, perché impegnati lo siamo sempre, dalla nascita. Quando racconti
(in musica, o in scrittura), non fai altro che seguire il tuo sguardo che è chiamato da qualche parte.
Quando scrivi canzoni racconti sempre la forma della tua esistenza che è ad un tempo politica,
sentimentale, affettiva, immaginativa.... La canzone è un gesto che facciamo continuamente nei
confronti del mondo, ed è un gesto in cui precipita tutto il nostro essere, ogni volta. Non credo nelle
etichette, nelle perimetrazioni, ma nella creazione. Quando creo, racconto il mondo mio, il mio
modo di vedere e di creare il mio mondo, i miei affetti: ovvero, ciò che mi tocca. E mi toccano i
curdi, e mi tocca la mia compagna.

Tutto questo mi sembra risuonare con il dibattito recentemente fattosi più intenso su cosa sia la
“canzone d'autore”. Chi è l'autore? Che cosa è l'autorialità? Quando specifichiamo non stiamo
proponendo un'altra perimetrazione, che ha implicita anche una prescrittività? Non sarà meglio
parlare di canzone senza aggettivi? Ecco, così come si tratta di cantare le esperienze dell'umano,
allo stesso modo si tratta di avere di mira la potenza poetica della canzone. Il testo, anzitutto, la
potenza poetica della lingua. La sua capacità immaginativa, come si diceva prima. Che però non
può mai essere disgiunto, essendo appunto canzone e non poesia, dal ritmo, dall'armonia, dalla
melodia e dalla stessa performatività del corpo dell'autore. Per questo, giusto per fare un esempio in
merito, un Achille Lauro oggi per me è a pieno titolo un autore, nel momento in cui performa il
testo di una canzone come Rolls Royce. E' una poetica distantissima dalla mia, ma la riconosco
come poetica, che ha una sua potenza. Per fare un parallelo temporale: negli anni ottanta i Cccp non
erano considerati musica d'autore, c'era ancora una separazione nettissima tra il loro punk e i
cantautori. Eppure, quel Ferretti (ma anche quello Zamboni) non erano autori a pieno titolo? Non
raccontavano storie come era assai diffuso tra i cantautori, ma davano visioni, in cui c'era tutto un
mondo.

Mi rendo conto che non ho sin qui risposto alla domanda iniziale di questa indagine, se la musica
oggi offre ancora spazio all'impegno civile come ha fatto in passato. La risposta è semplice: no, non
offre quello spazio, perché quella nozione di impegno civile oggi ha perduto la sua specificità, e il
suo valore d'uso. E' un bene o un male? Non è né un bene né un male. E' una trasformazione. Se la
musica può sensibilizzare intorno a temi sociali e politici è perché la società è consapevole di sé in
quanto società, e i musicisti, essendo come tutti gli artisti antenne che captano i segnali che hanno
intorno e che li toccano, li restituiscono alla società amplificati. La questione centrale allora è: che
cosa mi tocca, in quanto umano prima ancora che come artista? Ciò che mi tocca è ciò che restituirò
nel momento in cui vado a creare un'opera. Questo però è anche ciò che mi permette di dire che non
è vero che i giovani sono così disimpegnati come si crede. Semplicemente hanno codici diversi da
quelli di un tempo, elaborano i segnali diversamente e creano opere che hanno poco da spartire col
passato. Ma davvero pensiamo che in Achille Lauro non si dia la rappresentazione e la
ripresentazione del mondo che c'è intorno? Poi, certo, restando in quell'ambito i testi di un
Murubutu hanno decisamente più potenza poetica. Ma non è questa la sede per fare valutazioni di
questo tipo. Basti ribadire questo, che una canzone è il precipitato di un'esistenza toccata da infiniti
affetti, e tanto più vale quanto più ci fa sentire toccati dalla molteplicità di questi affetti, offrendoci
uno sguardo nuovo sulle cose.

Nell'anno della pandemia ho scritto un libro che racconta, in maniera narrativa, letteraria, la vita di
Claudio Lolli, e i mondi da lui traversati. Raccogliendo i materiali per la narrazione lessi un
intervento di Claudio (intitolato Mollate le menate e menatene l'autore) in un libretto collettivo
edito da Savelli del '78, Ma non è una malattia. E ho trovato assai attuale quel che diceva: basta con
la canzone consolatoria, fatta di intimismo crepuscolare, e basta con la canzone impegnata, che
serve a rassicurare i funzionari di partito. E, come scrivendo un programma, già peraltro seguito in
Disoccupate le strade dai sogni, e che seguirà ancora di più in futuro, scriveva: “oggi «in canzone»
non si può tentare che qualcosa di assolutamente «inutile», o comunque perlomeno di innominabile:
l'unico modo per dire qualcosa è quello di non dirlo, perché quel «non-dirlo» solamente può
spingere a fondo il bottone del piacere, o, se vi fa piacere, della comprensione. Non spieghiamo più
niente: il potere è chiaro ed è «utile», ed ha anzi bisogno di gente che vada in giro a spiegare la sua
evidenza, la sua utilità. Lavoriamo (o lavorate se volete) ad una canzone assolutamente inutile”.

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