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Etsi Deus non daretur: Vivere come se Dio non esistesse

Pubblicato da Alexander Cabezas in Teologia · 10 Ottobre 2016


Tags: Teologia, Spiritualità, Fede, Dio, Bonhoeffer

L’espressione viene attribuita al teologo e pastore, Dietrich Bonhoeffer (1906-1945). Tuttavia, il vero autore
è il giurista, scrittore, poeta e teologo olandese, Hugo Grozio, che la avrebbe pronunciata tre secoli prima.
Ovviamente, Bonhoeffer la riprende e la contestualizza dal punto di vista della realtà della sua prigionia:
nella cella numero 92, di due metri quadrati per tre, nel carcere di Tegel a Berlino, Germania.

“Vivere come se Dio non esistesse...”. La frase a prima vista potrebbe suonare come una provocazione
paradossale, una speculazione che fa appello alla vacuità teologica. Oppure, potrebbe interpretarsi come
l’ultimo grido di un teista che ha consumato la sua riserva di fede, che si è arreso davanti all’abbandono, al
disinganno, alla delusione e che diventa un a-teista nel riconoscere che Dio è un concetto, una invenzione
dell’umanità, inutile da sostenere. Perciò, l’espressione e il suo contenuto richiedono un’analisi per trovare la
loro importanza per noi di questo secolo.

Per questo uomo, che allora aveva 39 anni, tale dichiarazione è una chiamata a considerare l’essere umano
nella sua relazione con Dio e con la cristologia. Il suo lascito, o testamento teologico, espresso in appena
una cinquantina di pagine di lettere che fece uscire di contrabbando dalla prigione – in seguito si sarebbero
pubblicate come Resistenza e Resa – ha a che fare con questa misteriosa azione divina che in troppe
occasioni è per noi inintelligibile. E’ l’analogia con un Dio che si nasconde, che tace e che decide, pur
consapevole dei nostri bisogni, di rimanere in silenzio. E’ il Dio che si manifesta nella sua non manifestazione
e che lascia senza soluzione ciò che è insolubile. In sintesi: lasciare che Dio sia Dio.
Questo smontaggio teologico non proviene da un pensatore che medita nella comodità della sua scrivania e
in un ambiente relativamente tranquillo. E’ la convinzione di un discepolo di Gesù che rischia dalla sua
esperienza limite e come prigioniero condannato a morte.
Feldmann (2007), uno dei suoi biografi, nel suo libro Avremmo dovuto gridare, afferma che la teologia di
Bonhoeffer si erge dalle tenebre e cresce nella notte. E’ il “dialogo ostinato e pieno di fede con un Dio che si
nasconde mentre, in apparenza, l’unico in ascolto è il Diavolo e la morte è in agguato dietro la porta della
cella” (pag. 233).
Forse per questo, Bonhoeffer faceva appello alla radicalità: “Il silenzio di Dio è diventato un’esperienza
imbarazzante per la maggioranza dei cristiani. Avere fede sembra una cosa rischiosa, difficile e perfino
impossibile”. Più avanti avrebbe detto: “Non può esserci fede senza rischio”.
Perché non sopportiamo il cosiddetto silenzio di Dio? Perché no può coesistere la fede senza il rischio?
La risposta sembra semplice ma in realtà è complessa. Siamo alle prese con schemi che si sono incaricati di
offrirci un Dio amorfo, molto distante da quello raffigurato dalla Bibbia.
Ci siamo assunti l’incarico di fabbricarci un dio a nostra immagine e somiglianza che si sottomette alle nostre
esigenze e pretese. Niente di più vicino a un dio tappabuchi – un’altra metafora usata da Bonhoeffer -, che si
arrende davanti ai nostri altari consumisti; perciò onoriamo questo salvatore più come un mago che come
Dio. E’ ovvio che nelle fila sempre abbonderanno compratori di questo prodotto che chiamano dio.
Ci sbagliamo credendo di avere la franchigia o il monopolio di Dio e pensando che egli benedica tutte le
nostre incursioni. Crederanno forse gli israeliti che Dio combatte per loro negli attuali attentati contro una
piccola striscia di terra chiamata Gaza? O forse i più estremisti di Hamas (Movimento Islamico di Resistenza)
staranno pensando che hanno la benedizione da parte di Dio per tendere agguati ai loro avversari?
La cosa certa è che la fede in Dio e con Dio è una relazione che non possiamo manipolare a nostro
piacimento e convenienza. “Eccediamo quando parliamo di Dio come se lo avessimo in ogni momento a
nostra disposizione e come se facessimo parte del suo consiglio” (Feldmann, 245).
D’altro canto, ci conformiamo di più con il Dio che rifiuta il dolore, la solitudine e la sofferenza, quando
sicuramente lo accetta, se ne fa carico e lo soffre nell’abbandono sperimentato nella sua croce (Mt. 8:17,
27:46). La cosa più paradossale è che a partire dalla sua emarginazione troviamo la nostra riconciliazione e
liberazione.
Su questa stessa linea, sei anni prima di essere accusato dal regime nazista, Bonhoeffer scrisse alcune righe
mentre era a New York: “Poiché Dio si è fatto uomo povero, miserabile, sconosciuto e fallito, e siccome da
allora in poi non ha voluto essere trovato se non nella povertà e nella croce, proprio per questo non
possiamo ignorare l’uomo e il mondo, proprio per questo amiamo i nostri fratelli” (Feldmann, pag. 235).
Ci spaventano queste pause silenziose divine perché chiediamo giuste risposte, ma se non arrivano
troveremo sempre il responsabile per la nostra mancanza di fede e, esentiamo Dio che forse è davvero chi si
è astenuto dall’agire. In questo modo, limitiamo la nostra concezione di Dio e perdiamo l’opportunità di
vivere con le sue conseguenze, collocando la fede come uno stile di vita e non solo come speculazione
religiosa.
La fede è un rischio perché non ci garantisce la nostra sicurezza e ancor meno la soluzione di tutti i
ragionamenti umani. Dobbiamo ricordare che la sequela di Gesù si esercita nella realtà della vita
approfittando dei benefici del mondo, così come delle sue tribolazioni.
Il profeta Abacuc fu testimone del vivere come se Dio non esistesse. Davanti al panorama desolato e
appassito esclamò dal più profondo: “ma io mi rallegrerò nel Signore, esulterò nel Dio della mia salvezza.”
(Abacuc 3:18). Anche Sadrac, Mesac e Abed-Nego riconobbero cosa era una vita con e senza Dio (Daniele
3:18 c). Tuttavia, Dio aveva un piano preparato per loro e quindi li liberò. In caso contrario questi giovani
avrebbero allungato la lista dei martiri che menziona la Bibbia.
E che dire di Bonhoeffer che, durante circa due anni di prigione fino alla sua morte, ha vissuto con Dio e
senza Dio fino all’ultimo respiro?
Eberhard Bethge, amico del martire, nella sua biografia riferisce le parole dell’ultimo testimone
dell’esecuzione della sentenza. Si tratta di un medico del campo, la cui opinione non era sicuramente
parziale. In quei momenti Bonhoeffer era per lui una vittima anonima che affrontava la forca. Dieci anni
dopo avrebbe scritto: “…nei miei quasi cinquant’anni di attività professionale come medico non ho mai visto
nessuno morire con una consacrazione così completa a Dio” (Bethge 1970. 1246).
La morte di Dietrich Bonhoeffer è l’evidenza di un uomo che si abbandona non a un destino incerto, ma alle
mani di Dio e alla sua sovranità, con grazia, consacrazione, amore e convinzione.
Nonostante possiamo essere o non essere d’accordo con la teologia bonhoefferiana, la sua riflessione incute
rispetto, perché è il pensiero di un uomo che scolpì la sua fede sia nelle più luminose albe dei suoi giorni,
che nelle notti più profonde dalla sua vita.
“Questa è la fine; per me l’inizio della vita…” Furono le ultime parole di questo martire

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