Sei sulla pagina 1di 26

Denis de Rougemont - L’amore e l’Occidente

Prefazione
Nel 1956 De Rougemont pubblica la versione revisionata de L’amore e l’Occidente dopo varie
esperienze che hanno messo a dura prova le sue tesi. Gli storici hanno criticato la sua insistenza nel
ritrovare relazioni tra catari e trovatori, molti teologi lo hanno accusato di confondere l’Agape con
l’Eros, altri dissero che cercava un senso esistenziale e riconduceva tutto a quello, ma a partire dal
1939 (anno della prima pubblicazione) nuove ricerche hanno rafforzato la sua ipotesi. A chi lo
critica per il senso che ha dovuto dar all’opera lui risponde che è stato necessario sgomberare il
terreno e accentuare i contrasti, e ciò non sempre ha permesso sfumare il quadro. Il vero soggetto
per l’autore è il necessario conflitto tra passione e matrimonio in Occidente, in quanto sua ricerca lo
porta a credere che tale conflitto non sia scemato e i sette anni passati in America lo confermano: il
mito della passione è ben lontano dall’aver esaurito i suoi effetti e se la nostra civiltà vuol
sopravvivere dovrà riconoscere che, a differenza di quel che si crede, il matrimonio richiede ben
altre basi che una piacevole febbre. Le vie di questa rivoluzione non sono ancora prevedibili e
l’ambizione dell’autore si limita a rendere consapevoli i lettori della presenza del mito e a metterli
in condizione di scoprirne e rintracciarne gli impulsi.

Libro I
Il mito di Tristano
1. Trionfo del romanzo e ciò ch’esso nasconde
“Una bella storia di amore e morte”. È così che Tristano di Bédier inizia e fu questo accordo tra
amore e morte a sancire il successo di questo romanzo, ma queste parole non descrivono
semplicemente le dinamiche dell’opera, bensì la coscienza occidentale.
Considerando l’arte che l’occidente ha prodotto, possiamo affermare che l’amore felice non ha
storia, la passione d’amore si, ma la passione è sofferenza, e questo dato ha pervaso non solo la
nostra cultura, ma anche la nostra vita, tanto che non vediamo la passione come sofferenza ma come
promessa di una vita più viva, alla quale aspiriamo ma in segreto, perché si tratta di una vita che ci
ferisce, non di una vita armoniosa, tanto che spesso nella nostra società passione e adulterio
(evasione dalla quotidianità) si confondono. A questo proposito, che ne sarebbe di tantissimi dei
nostri romanzi senza l’adulterio? Esse vivono della crisi del matrimonio (es. triangolo nel teatro
naturalista). Potrebbe trattarsi di una tentativo d’evasione rispetto alla realtà? Molti pensano che si
tratti di una conseguenza alla concezione cosiddetta “cristiana” del matrimonio, ma bisogna
chiedersi se non si tratti di una confezione dell’amore che ci rende insopportabile l‘idea di
matrimonio: l’Occidente ama ciò che distrugge almeno tanto quanto quello che garantisce la felicità
degli sposi. Che cosa ci dice questo della nostra storia?
2. Il mito
Il grande mito europeo dell’adulterio è quello costituito dal romanzo di Tristano e Isotta. Non
bisogna, innanzitutto, intendere il mito come sinonimo di irrealtà: in generale, esso è una storia
semplice ma che permette di afferrare immediatamente certi tipi di relazioni costanti, estraendole
dall’apparenza quotidiana. I miti designano regole di condotta di un gruppo, e spesso non hanno
autore: la loro origine deve risultare oscura come, in parte, il loro significato, costituendo
l’espressione anonima di realtà comuni (e qua sta la differenza con l’opera d’arte), ma il carattere
più profondo del mito è il potere che esso acquista, spesso senza che ce ne accorgiamo, sulla nostra
vita, cosa che, per quanto potente possa essere, l’opera d’arte non è in grado di fare.
Iniziamo dunque a trattare Tristano non come opera letteraria ma a partire dal mito che lo fonda,
come tipo delle relazioni tra uomo e donna nel gruppo costituito dall’élite della società cortese del
dodicesimo secolo e le cui leggi ancora oggi ci caratterizzano.
Non pochi aspetti di Tristano sono caratteristici del mito: l’autore originario è sconosciuto (le
successive cinque versioni sono rimaneggiamenti dell’archetipo sconosciuto), è presente l’elemento
sacro, che fa procedere l’azione secondo cerimonie e regole peculiari della cavalleria medievale e,
1
infine, la sua oscurità, che non riguarda tanto la sua forma espressiva quanto ciò che i suoi fatti
simboleggiano. Se fossero noti, non vi sarebbe bisogno del mito, ma solo di una morale: abbiamo
dunque bisogno del mito per esprimere il fatto oscuro e inconfessabile che la passione è legata alla
morte, e che porta dunque coloro che vi si abbandonano alla distruzione. Il mito esprime questa
realtà a soddisfazione delle esigenze del nostro istinto ma le occulta al tempo stesso, perché la
ragione potrebbe minacciarle.
Le regole della cavalleria del dodicesimo tredicesimo secolo hanno, nel mito di Tristano, il solo
compito di costituirsi in quanto ostacolo mitico e figure rituali di retorica. Senza di esse, la favola
non avrebbe potuto esplicare il suo contenuto antisociale, ovvero la passione, e quella di Tristano e
Isotta è esattamente inscritta nelle regole stesse della cavalleria.
Man mano che la cavalleria andrà scemando, la passione contenuta nel mito primitivo si diffonderà
nella vita quotidiana invadendo l’inconscio, giacché la sua confessione nella nostra società risulta
mascherata.
Il mito si costituì nel dodicesimo secolo, mentre le élite cercavano di operare un ordinamento
sociale e morale al fine di contenere gli impeti dell’istinto distruttore, ed è qui che la “crisi del
matrimonio” inizia ad emergere, costituendo inoltre la spiegazione del successo del romanzo di
Tristano, che poteva costituire un soddisfacimento simbolico.
D’ora in poi intenderemo il mito in senso più ampio, come quel tipo di relazioni e reazioni che esso
provoca, di conseguenza, il mito di Tristano e Isotta non sarà più solo il romanzo, bensì l’influenza
che esso ha esercitato fino ai giorni nostri, e più perde la sua forma primitiva più diventa pericoloso
in quanto difficile da riconoscere.
3. Attualità del mito; ragioni della nostra analisi
Non c’è bisogno di conoscerne i rifacimenti per capire quanto Tristano e Isotta sia presente nella
società occidentale contemporanea, basti pensare a romanzi e film di successo: il mito agisce
ovunque la passione è sognata come un ideale, non temuta come maligna, ovunque la sia fatalità è
invocata come desiderabile; vive in coloro i quali credono che l’amore sia un destino (il filtro di
Tristano) contro il quale l’uomo è impotente.
Il sacro del mito di Tristano sembra non emergere se si considera questo romanzo come “un’epopea
dell’adulterio”, ma questa colpa morale è ben di più: un’atmosfera tragica e appassionata che
oltrepassa la dicotomia bene e male, un dramma, un romanzo, e romanticismo viene proprio da qui.
Però, al giorno d’oggi si è giunti ad una tale democraticità del culto dell’amore-passione che esso ha
perso le sue virtù estetiche e il suo valore di tragedia spirituale, lasciando al suo posto una confusa e
diffusa sofferenza dal timbro commerciale. Per questo, il compito di questa ricerca è quello di
rendere noi occidentali sempre più coscienti delle illusioni sulle quali viviamo.
4. Il contenuto palese del romanzo di tristano
Tristano nasce nell’infelicità. Orfano, il re Marco di Cornovaglia, suo zio, lo accoglie nella sua
corte. Nella lotta contro il gigante Morholt, che sconfigge, riceve un colpo con la spada avvelenata,
e l’unica che può curarlo è la regina d’Irlanda, sorella del gigante ucciso, dunque Tristano non
confessa la sua identità: a curarlo sarà la figlia della regina, la principessa Isotta, questo è il prologo.
Anni dopo re Marco decide di sposare la donna alla quale appartiene il capello d’oro portatogli da
un uccello, e a cercarla sarà Tristano, che durante la ricerca si scontrerà con un drago che lo ferirà e
a curarlo sarà nuovamente Isotta, che scoprirà però che quell’uomo è l’uccisore di suo zio, e non lo
ucciderà solo perché vuole diventare regina. Tristano e la principessa si imbarcano verso le terre di
Marco, ma in alto mare la serva Bragania darà, per errore, loro da bere il “vino magico” destinato
agli sposi: il destino li travolge, si abbandonano al loro amore. La colpa è consumata, ma Tristano
resta legato alla missione ricevuta dal re: Isotta sposa re Marco ma non consuma il matrimonio
perché con l’inganno Bragania si sostituirà a lei la prima notte di nozze, espiando al colpa
dell’errore commesso. Alcuni baroni, però, scopriranno l’inganno, e Marco bandirà tristano il quale
riuscirà però a convincerlo della sua innocenza. Il nano Frocine, però, proverà l’adulterio e Isotta
sarà affidata a una schiera di lebbrosi e Tristano condannato a morte, ma riesce a fuggire, libera
Isotta e si addentrano nella foresta di Morrois, dove vivranno duramente per te anni. Un giorno,
Marco li sorprende addormentati, ma tristano aveva posato tra i due corpi la sua spada snudata.
2
Commosso dal gesto, che prende come segno di castità, Marco li risparmia. Trascorsi tre anni, però,
il filtro cessa di agire: Tristano si pente, Isotta rimpiange la corte. Marco accetta di accoglierla
nuovamente e Tristano la accompagna, ma gli chiede di rimanere per assicurarsi che Marco la tratti
bene e, in ultimo, dichiara che raggiungerà Tristano al primo segno. Isotta ottiene il “giudizio di
Dio” per provare la sua innocenza, e per un sotterfugio ci riesce. Credendo che Isotta non lo ami
più, Tristano sposa Isotta dalle bianche mani, senza consumare mai il matrimonio. Ferito a morte e
nuovamente avvelenato, Tristano fa chiamare la regina di Cornovaglia per curarlo: in segno di
speranza la sua nave issa una vela bianca ma, gelosa, Isotta dalle bianche mani gli comunica che la
vela è nera. Tristano muore, così come La bionda Isotta quando ne abbraccerà il corpo.
5. Enigmi
Gli equivoci e le contraddizioni non mancano. Per tutto il romanzo Tristano viene definito come il
cavaliere più forte: nulla può impedirgli di rapire Isotta, neanche il costume dell’epoca, nel quale
vige la legge del più forte, infatti, la dama è la posta in gioco nei tornei. Perché Tristano non si
avvale di tale diritto? Perché Tristano pone la spada tra i due corpi nel bosco, nonostante essi
abbiano effettivamente peccato e non prevedono che Marco li trovi? Perché Tristano restituisce la
regina a Marco (anche nelle versioni in cui il filtro continua ad agire)? Perché la regina colpevole
incolla il “giudizio di Dio”? Perché tante azioni così poco giustificabili, che presentano un modello
di cavalleria nel quale il cavaliere inganna il suo re e la dama è un’adultera, mentre i baroni, anche
se mossi dalla gelosia, sono comunque fedeli al re? Le giustificazioni sono molto deboli: Tristano in
punto cavaliere consegna al re Isotta anche se la ama, ma questi scrupoli appaiono superflui visto
che i due non terminano la relazione; se il filtro era destinato agli sposi, perché la sua durata era di
soli tre anni? Perché Tristano sposa Isotta dalle bianche mani senza consumare il matrimonio anche
se nessuno lo obbligava? Sembra che egli si metta in situazioni dalle quali l’unica via d’uscita è la
morte.
6. Cavalleria contro matrimonio
Definire Tristano come una storia sulla lotta tra amore e il dovere vuol dire ignorare la divergenza
che nel dodicesimo secolo si viene a creare fra la regola cavalleresca e i costumi feudali: la
cavalleria cortese, come l’avevano immaginata i primi autori, non era altro che un ideale, e un
ideale si distrugge proprio nel momento in cui tenta di farsi realtà perché qualsiasi tentativo di
realizzazione non potrà mai essere alla sua altezza. Il successo del romanzo, d’altronde, è dovuto
proprio al suo contrapporre la finzione dell’ideale alle tirannie della realtà.
In che cosa si distingue il romanzo dalla canzone di gesta che lo ha ispirato? Nel fatto che da alla
donna il ruolo che precedentemente spettava al sovrano: come il trovatore, il cavaliere si riconosce
in quanto vassallo di una dama, e dal suo rimanere vassallo di un signore nascono dei conflitti.
Si tratta dell’opposizione di due codici, la stessa opposizione che nel romanzo fa dei baroni che
accusano Tristano e Isotta di tradimento dei “felloni”, quando in realtà non stavano facendo altro
che difendere l’onore del loro signore. Soltanto la concezione cortese della fedeltà e del matrimonio
può dunque spigarci alcune contraddizioni di questo romanzo.
Secondo la tesi diffusa, l’amore cortese nacque come reazione all’anarchia dei costumi feudali, nei
quali il matrimonio non era che un affare che poteva essere facilmente sciolto gettando la colpa
sulla moglie: a questi abusi l’amor cortese oppone una fedeltà indipendente dal matrimonio legala e
fondata solo sull’amore, giungendo a dichiarare che quest’ultimo e il matrimonio non sono
compatibili. Ecco perché in Tristano fellonia e adulterio non sono solo scusati, bensì magnificati
come espressione di fedeltà alla legge superiore del donnoi (relazione di vassallaggio tra cavaliere e
dama) , ovvero dell’amor cortese. Questa fedeltà cortese, però, presenta aspetti curiosi: si oppone al
soddisfacimento dell’amore in quanto matrimonio, in quanto ciò che si converte in realtà cessa di
essere amore. Bevuto il filtro, il “diritto della passione” permetterebbe a Tristano di rapire Isotta, ma
la consegna invece a Marco proprio in virtù della regola dell’amor cortese che si oppone, appunto,
alla conversione della passione in realtà. Perché, dunque, si predilige ciò che intralcia la passione
impedendo la felicità degli amanti? Così vuole l’amor cortese, ma perché si preferisce proprio
questo tipo d’amore all’altro?
7. L’amore del romanzo
3
Le due leggi, cavalleria e morale feudale, sono osservate dall’autore solo nelle situazioni in cui
permettono al romanzo di riprendere slancio, costituendosi in quanto pretesti necessari alla
passione: nel romanzo di Tristano è la gratuità stessa degli ostacoli che può forse rivelare il vero
soggetto dell’opera, la natura della passione che mette in gioco.
Innanzitutto, in Tristano tutto è simbolo, e non secondo i modi della nostra vita, bensì del sogno: i
fatti sono proiezioni di un desiderio, che nel comportamento del cavaliere e della principessa si
manifesta come esigenza più profonda di quella della loro felicità. Nessuno degli ostacoli che essi
incontrano è insormontabile, tuttavia essi rinunciano ogni volta, e quando non ci sono affatto, li
inventano, come se provassero piacere nel soffrire, piacere che il lettore occidentale stesso prova nel
leggere di tali peripezie. Qual è, dunque, il vero soggetto della leggenda? La separazione degli
amanti in nome della passione, per amore dell’amore stesso che però li tormenta.
Iniziamo a riconoscere il senso segreto e inquietante del mito: il pericolo che esprime e nasconde
questa passione somigliante alla vertigine, che ci ha ormai avvolti. Nasciamo insieme al “delizioso
tormento”, e non possiamo far niente contro di lui se non cercare di resistere.
8. Amore dell’amore
Tristano e Isotta si amano davvero? Tutto porta a credere che, liberamente, essi non si sarebbero
mai scelti. Nelle due visite fatte all’eremita Ogrin, essi sembrano voler dimostrare di non essere
responsabili dell’accaduto visto che sostanzialmente non si amano, dunque non possono pentirsi di
aver peccato: come tutti i grandi amartisi sentono trasportati al di là del bene e del male, da
qualcosa di trascendentale e indicibile. Tristano e Isotta non si amano, ma amano l’amore e di
conseguenza agiscono come se avessero capito che tutto ciò che si oppone all’amore lo garantisce e
lo consacra fino all’abbattimento definitivo degli ostacoli, la morte.
La separazione degli amanti è cagionata dalla loro stessa passione a dall’amore che nutrono per lei e
non per il suo soddisfacimento, da qui tutti gli ostacoli che si creano, il crescendo romanzesco e
l’apoteosi mortale.
9. L’amore della morte
Abbiamo visto che in Tristano l’ostacolo è necessario alla passione, ma se ne fosse l’oggetto stesso?
Analizzando il romanzo, ci accorgiamo che sono presenti due tipi di ostacoli: quelli provenienti da
circostanze avverse esterne e quelli inventati da Tristano, il quale reagirà diversamente ai due tipi.
Quando gli ostacoli saranno esterni, Tristano li supererà senza problemi, affermando la vita, dando
prova della sua forza senza obbedire al costume feudale dei cavalieri. Ma quando nulla di estraneo
interviene a separare gli amanti, Tristano pone la spada snudata tra due corpi: nel momento in cui è
lui a creare l’ostacolo, esso risulterà insormontabile. L’ostacolo più grave è quello preferito sopra
ogni altro e che ingigantisce la passione, in quanto l volontà di separarsi risulta emozionalmente più
forte della passione stessa: quando il re trova i due separati dalla spada di Tristano, sostituisce a
quest’ultima la sua, uno scambio che è simbolo di un potere, di un ostacolo sociale che si sostituisce
a quello creato dagli amanti stessi; Tristano accetta la sfida, e agisce, ma ciò assume una valenza
simbolica: la passione è patimento passivo, un subire, dunque qualsiasi azione le impedisce di esser
totale, costituendo quello che non è altro che un ritardo della morte.
Una simile dialettica è quella che si costituisce tra i due matrimoni del romanzo: il matrimonio tra
Isotta e re Marco è l’ostacolo effettivo, il terzo senza il quale la passione tra Isotta e Tristano non
avrebbe quasi motivo di esistere; si tratta di un pretesto a portata di mano, senza il quale ai due non
resterebbe che sposarsi, ma questo è concepibile? No, perché sarebbe come negare la passione che è
per sua natura poco durevole, mentre indimenticabile è la scottatura che ne deriva e che gli amanti
intendono prolungare il più possibile. Quando Tristano sospira pensando alla sua Isotta, il fratello di
Isotta dalle bianche mani lo crede innamorato di sua sorella per via dell’omonimia e gliela offre in
sposa: Tristano avrebbe potuto spiegarsi, ma con la scusa dell’”onore” non lo fa e la sposa seppur
non consumeranno il matrimonio. La castità del cavaliere sposato corrisponde alla spada snudata: è
un ostacolo incrementato da Tristano che proprio per questo non può superarlo. È la vittoria della
passione sul desiderio, della morte sulla vita.

4
La preferenza accordata all’ostacolo voluto è dunque un progresso verso la morte volontaria, volta a
purificare Tristano: si riconduce ad una fatalità esteriore una fatalità che è in realtà intima, in quanto
morendo per amore si riscattano dal loro destino, ovvero il filtro.
Si ha un capovolgimento: l’ostacolo non è più al servizio della passione fatale perché ne è divenuto
lo scopo. Senza saperlo, gli amanti non hanno mai desiderato altro che la morte: è la volontà della
morte, la passione attiva della Notte, che dettava loro le sue fatali decisioni.
10. Il filtro
Ecco svelata la ragione determinante del mito, la necessità che lo ha creato.
Il reale significato della passione è talmente spaventoso da risultare inconfessabile e per questo è
necessario che venga mascherato dal linguaggio ingannatore dei simboli. La psicanalisi ci ha
insegnato che il desiderio represso emerge nel sogno ma sotto altre spoglie che la nostra coscienza
non è in grado di svelare: due esigenze contrastanti vengono contemporaneamente a soddisfarsi,
ovvero amore del rischio e istinto di prudenza. Chiedendo a qualcuno il perché di una sua bizzarra
inclinazione, egli risponderà di non essere responsabile di nulla.
Ma che strumenti simbolici aveva l’autore del romanzo primitivo per nascondere ciò che bisognava
esprimere? La magia e la retorica cavalleresca: la magia persuade senza dar ragioni e la retorica
cavalleresca è il mezzo per far passare per naturali le formule più oscure. Non solo, dunque,
garanzia di segreto, ma anche consenso incondizionato da parte del lettore del romanzo.
Le usanze della cavalleria costituiranno la cornice del romanzo, mentre la magia renderà accettabile
la violenza della passione senza scrupoli. Per liberare la vicenda da qualsiasi vincolo verso la realtà
umana, interviene dunque il filtro, oltretutto ingerito per errore: questo filtro è l’alibi della passione,
che permette agli amanti di dire “è più forte di me”. È una furberia infallibile perché sottratta ad
ogni giudizio.
Non vi sarebbe mito se Tristano e Isotta potessero dire, riconoscere quale sia il fine che li aspetta:
chi oserebbe mai ammettere di desiderare la morte? Per non essere costretto a farlo Tristano si
papale alla giustificazione a portata di mano, ovvero il veleno, nonostante il quale il suo agire
tradisce di essere stato lui a volere quel destino, ma il suo ignorare questa responsabilità è
necessario alla sua vita, che va costituendo uno slancio verso l’istante supremo, il perire in quanto
totale godimento.
11. L’amore vicendevole infelice
Passione vuol dire sofferenza, cosa subita: amare l’amore più che l’oggetto amoroso implica amare
e cercare la sofferenza, desiderare ciò che ci annienta, e questo l’Occidente non ha mai voluto
ammetterlo, dissimulando il suo gusto per la morte.
Ma perché l’uomo occidentale vuole subire questa passione? Proprio perché egli conosce e prova se
stesso sotto i colpi di minacce, sperimentando il limite.
Il successo del romanzo di Tristano dimostra che l’Occidente predilige l’infelicità: lo spirito sfida il
mondo in nome del raggiungimento di una “vita vera” che rimane però impossibile, esche
quell’altrove al quale si fa riferimento è la morte. A qualsiasi altro racconto prediligiamo quello
dell’amore impossibile perché ci piace bruciare, e l’amore che ci fa soffrire diventa così mezzo di
conoscenza. Accettiamo un lieto fine perché prima di esso soffriamo con gli amanti per via degli
ostacoli che essi devono affrontare: il desiderio, la nostalgia, l’assenza di una felicità che è assente
ci commuovono, non la sua presenza. L’amore felice non ha storia nella letteratura occidentale, e
non è considerato tale se non viene provato da entrambe le parti. In questo senso, Tristano è
l’archetipo dell’amore reciproco infelice. Ma tale reciprocità è falsa, in quanto in realtà è maschera
di un duplice narcisismo: in Wagner la passione diventa delle volte così eccessiva da stirare l’odio
tra i due, lacerati da forze contraddittorie che li gettano però nella medesima vertigine, quella che li
spingerà fino all’ostacolo assoluto che esalta la passione nel suo compiersi, appunto, la morte.
12. Una vecchia e grave melodia
Dall’analisi delle contraddizioni che emergono da una prima esplicitazione della trama di Tristano,
non possiamo ignorare la radicale condanna che esso costituisce per il matrimonio: la passione si
configura come ascesi, dunque rigetta la vita terrena, la cui forma dell’amore sembra coincidere col

5
matrimonio. Nel procedere dell’analisi, due sono le vie che è possibile intraprendere: una risale agli
orizzonti storici e religiosi del mito, l’altra risale dal mito ai giorni nostri.

Libro II
Le origini religiose del mito
1. L’”ostacolo” naturale e sacro
Noi occidentali pretendiamo di liberare lo spirito negandolo: ai fatti “spirituali” cerchiamo la
spiegazione più razionale possibile, perché il più basso ci sembra il più vero e cerchiamo di
affrancare lo spirito dalle illusioni spiritualiste.
L’ostacolo che alimenta il romanzo di Tristano è ciò che di più elementare alimenta il desiderio,
infatti, la cavalleria feudale vedeva la castità come un ostacolo intuitivo contro l’istinto stesso per
rendere i guerrieri più valorosi, ma nella vita stessa, non mira a nulla di superiore. La passione
d’amore si serve di corpi e l’ostacolo è, rispetto ad essi, un fattore estraneo.
In questo contesto, l’antichità non ha mai conosciuto una passione come quella di Tristano e Isotta
perché l’amore veniva considerato, appunto, una malattia, della quale gli innamorati non sono
dunque responsabili. Da dove nasce, quindi, questa glorificazione della passione che incontriamo
nel romanzo?
2. Eros, o il desiderio senza fine (Platonismo, druidismo, manicheismo)
In Fedro e nel Simposio Platone ci parla di un’ispirazione esterna, un richiamo che agisce dal fuori
e che definisce entusiasmo, un delirio che procede dalla divinità portando lo slancio verso Dio:
questo è l’amore platonico, via d’estasi che giunge all’origine di tutto ciò che esiste, lontano dalla
materia. L’Eros è il Desiderio totale che si rivolge all’estrema esigenza di Unità. La dialettica di
Eros introduce nella vita qualcosa di estraneo ai ritmi dell’attrazione sessuale: un desiderio non
estinguibile che rifiuta persino la realizzazione nel mondo pur di abbracciare il Tutto, un
superamento infinito e senza ritorno.
I Celti, credevano a una vita dopo la morte, simile a quella terrestre ma purificata, alla quale per
accedere era necessaria una tragica ed eroica morte, ecco perché i celti l’hanno sognata, desiderata.
Tale dualismo è evidente nella religione dei druidi, che vede la compresenza di dei luminosi, al
governo di ciò che è increato, e dei oscuri, che dominano la creazione visibile.
Questa divergenza che sussiste tra la vita materiale e quella ultraterrena non è l’unico punto di
contatto tra i Celti e Platone, infatti, agli occhi dei druidi la donna è un essere divino e profetico:
Eros prende le sembianze di una donna, simbolo di al di là che fa disprezzare le cose terrestri ma,
allo stesso tempo, ambiguo, perché richiamo del sesso.
Dal terzo secolo si diffonde, nel territorio che va dall’India alla Bretagna, una religione che
sincretica l’insieme dei miti del Giorno e della Notte com’erano stati elaborati in Persia e poi nelle
sette gnostiche e orfiche: la fede manicheista. Dapprima essa fu perseguita in quanto minaccia alla
società, infatti, le testimonianze rimanenti provengono dai suoi avversari, e in seguito essa assunse
forme diverse a seconda dei popoli che la accolsero. In merito alla fede manichea, due fatti sono
fondamentali per il nostro discorso: 1) il dogma fondamentale di tutte le sette manichee è la natura
divina o angelica dell’anima, prigioniera delle forme materiali create dalla notte. Lo slancio
dell’anima verso la Luce è costantemente ostacolato da Venere che vuole trattenere nell’oscura
materia l’amante in preda al luminoso desiderio: ecco la lotta fra amore sessuale e Amore, che
genera l’angoscia degli angeli precipitati in corpi troppo umani; 2) la struttura della fede manichea è
essenzialmente lirica: è dell’intima natura di questa fede il rifiutarsi a qualsiasi esposizione
razionalista, ma può solo realizzarsi in un’esperienza angosciata ed entusiasmante, d’ordine poetico.
Pensiamo infatti a Tristano che non può dire ma soltanto cantare.
Ogni concezione dualista e manicheista della vita vene nel corpo l’infelicità e nella morte il bene
ultimo, la reintegrazione nel luminoso indistinto.
Il fine dello spirito è dunque la fine della vita limitata: Eros, supremo Desiderio, esalta i desideri
solo per sacrificarli. È da qui che il nostro mito si stacca, ma da cosa è dipeso questo distacco?
3. Agapé, o l’amore cristiano

6
L’incarnazione del Verbo di Dio nel mondo (della Luce nelle Tenebre) è un evento inaudito che ci
libera dall’infelicità di vivere ed è il centro del Cristianesimo, definito dalla Scrittura come agapé.
L’incarnazione è un evento senza precedenti, in quanto negazione d’ogni specie di religione:
ognuna tende infatti a sublimare l’uomo condannandone la finitezza, mentre il Cristianesimo,
attraverso il dogma dell’Incarnazione, capovolge tale dialettica. La morte non è il termine, bensì la
condizione prima: non più la fuga dello spirito dal mondo, bensì il pieno assorbimento in esso e
l’inizio di una nuova vita. Il vero Dio si è fatto uomo e nella persona di Gesù Cristo le tenebre
hanno accolto la luce. Il Dio cristiano ci ha amati per primo proprio per via delle nostre limitazioni,
spingendosi a rivestirsene anche se senza peccare: l’Amore di Dio ha aperto una via radicalmente
nuova, quella della santificazione, opposta alla sublimazione che invece era solo fuga illusoria al di
là della concretezza della vita. Amare diviene un’azione positiva e non negazione: l’amore cristiano
è obbedienza nel presente perché obbedire a Dio vuol dire amarci gli uni con gli altri.
Amare il nemico vuol dire abbandono definitivo dell’egoismo, dal quale nasce il prossimo.
Da quell’istante tutti i rapporti umani mutano di senso, e simbolo dell’amore non è più la passione
ma il matrimonio di Cristo e della Chiesa che santifica l’amore che può essere ora davvero
reciproco in quanto basato sull’amore di Cristo per la sua Chiesa, perché egli ama l’altro com’è, e
non solo, si tratta anche di un amore felice, che nonostante il peccato può realizzarsi grazie alla
piena obbedienza. Il Cristianesimo è infelicità mortale solo per l’uomo separato da Dio, mentre per
colui che ne ha afferrato la salvezza l’infelicità non è che ricreante e addirittura felice sin da questa
vita.
4. Oriente e Occidente
Con Oriente si intende, in questo libro, una tendenza dello spirito umano che trova più pura
espressone in Asia: l’ascesi è ciò che eleva l’individuo verso il dio, portandolo ad una fusione totale
con esso; con occidentale intendiamo invece una tendenza proveniente comunque dall’Oriente ma
che in Occidente ha trionfato: stabilisce un abisso esistenziale tra Dio e l’uomo che dunque non
contempla alcuna fusione ma solo una comunione il cui modello è il matrimonio della Chiesa, col
suo Signore. Ciò presuppone un’illuminazione improvvisa, una discesa della grazia da Dio
all’uomo. Questi i due poli, ma ciò non toglie che esistano tendenze occidentali in Oriente e
viceversa.
L’Eros vuole l’unione, la fusione essenziale dell’individuo nel dio, che non contempla il prossimo,
al contrario dell’Agapé, che non cerca unione anche se, per ciò che la Buona Novella dice, è Dio a
cercare l’uomo, nonostante uno sia in cielo e l’altro in terra. Questa ricerca ha raggiunto il suor
risultato più alto con l’Incarnazione: riconciliato, l’uomo rimarrà tale ma non vivrà più solo per sé
ma amerà il Signore e il suo prossimo come se stesso. Non più fusione ma comunione che necessita
di due soggetti: l’uno e il suo prossimo. Nella Grecia di Platone l’amore umano coincideva col
piacere e la passione condannata come una malattia frenetica, mentre nell’Occidente del dodicesimo
secolo il matrimonio incorre nel disprezzo e la passione è glorificata proprio perché fa soffrire.
La spiegazione del mito sarebbe individuabile nel cerchio di tale contraddizione?
5. Reazione del cristianesimo nei costumi occidentali

7
Nonostante le persecuzioni di quella primitiva, a partire da Costantino la Chiesa trionfò e le sue
dottrine divennero appannaggio delle classi dominanti. Il matrimonio aveva per gli antichi un
significato limitato e utilitario che non negava il concubinato, mente il matrimonio cristiano in
quanto sacramento imponeva una fedeltà insopportabile per l’uomo naturale, ecco perché il
proliferare delle dottrine segrete in Occidente proprio nei secoli in cui esse furono condannate dal
cristianesimo ufficiale: l’amore-passione iniziò a sedurre le élite mal convertite e insofferenti al
matrimonio, assumendo forme esoteriche.
Per Platone l’Amore era legato alla Bellezza in quanto essenza intellettuale della perfezione
increata, ma l’Occidente ha dato origine ad un equivoco in merito, portando all’idea che l’amore
dipenda dipenda in primis dalla bellezza fisica, portandoci a seguire chimere in realtà irraggiungibili
senza considerare che è invece l’amore ad “abbellire” in un certo senso il soggetto amato, mentre la
bellezza “oggettiva” non è garanzia di nulla. Ma perché questo equivoco ha avuto così tanto
seguito? Perché esso trova nel cuore di ogni uomo un oscura complicità: già i Celti vedevano lo
slancio divino concretizzarsi nella Donna, ma Freud aggiunge che la “donna ideale” che ogni uomo
cerca non è che la memoria segreta della propria madre. Se le cause sono queste, si può giungere ad
una prima conclusione: l’amore-passione è apparso in Occidente come uno dei contraltari al
Cristianesimo ( e al relativo matrimonio) nelle anime in cui ancora viveva un paganesimo naturale o
ereditato. La data di nascita convenzionale dell’amore passione è, dunque, il dodicesimo secolo, ma
è necessario ora capire che questo fenomeno porta un nome: cortezia, o amor cortese.
6. L’amor cortese: trovatori e catari
La poesia europea deriva da quella dei trovatori del dodicesimo secolo, che esaltavano l’amore
infelice, perpetuamente insoddisfatto. L’Europa non ha mai conosciuto poesia più retorica, sia nelle
forme che nell’ispirazione, codificata nel sistema fisso delle leys d’amors, ma allo stesso tempo
stimolante, in quanto favorisce l’amore estraneo al matrimonio, concepito come unione di corpi
opposta all’Amor che è, invece, Eros supremo, unione luminosa al di là della contingenza, per
questo impone castità. L’Amore presuppone un rituale, il domnei o donnoi (vassallaggio amoroso):
il poeta ha conquistato la sua dama con il suo omaggio musicale e le giura eterna fedeltà come si fa
con un sovrano, in ginocchio: lei gli darà in pegno un anello d’oro, dunque, i due saranno legati per
sempre dalle leggi della cortezia, che sono il segreto, la pazienza e la misura. L’uomo è ora il
servente della donna. Si tratta di una figura della donna contraria a quella dei costumi tradizionali:
ella è al di sopra dell’uomo. Contestualmente, nasce una poesia a forme fisse, complicate e raffinate,
senza precedenti. Ma questa poesia non riflette la realtà e la società del tempo: la condizione della
donna non era affatto idilliaca, dunque, da dove aveva origine la concezione dell’amore dei
trovatori? È possibile che essa sia da ricercare nell’atmosfera religiosa, che comunque andava
determinando le forme sociali, del tempo?
Partiamo da un importante fatto: nel dodicesimo secolo in Provenza una potente eresia si stava
diffondendo e costituiva una seria minaccia per la Chiesa. Le sue origini sono da ricercarsi nei
“puri” o Catari, la cui dottrina ci è oscura perché l’Inquisizione ne distrusse i libri, ma sappiamo che
essa veniva definita anche “Chiesa d’Amore” e che centrale era il problema del Male in relazione a
come l’uomo lo sperimenta in questo mondo. Per i Catari il mondo è malvagio, dunque non può
essere opera di Dio che è solo amore: la creazione del mondo sarebbe stata terminata dall’Angelo
ribelle, che ha sedotto le anime mostrando loro una donna, imprigionandole così in corpi materiali a
loro estranei; da allora l’anima si trova separata dal suo spirito che rimane, invece, in cielo. Ma
Cristo è sceso in terra per ricondurre le anime al loro spirito senza, però, farsi realmente carne: la
grande eresia dei catari è dunque il rifiuto del dogma dell’Incarnazione, da qui anche il rifiuto del
battesimo d’acqua in favore di quello dello Spirito consolatore che li vede consacrarsi a Dio solo,
astenendosi da qualsiasi contatto anche se erano sposati. In questo contesto, però, alla donna
ingannatrice si oppone la figura di Maria, simbolo di pura luce salvatrice, Madre intatta
(immateriale) di Gesù. Essendo l’inferno prigione della materia, Lucifero può governarlo solo per il
tempo che l’”errore” dell’anima durerà: al termine quelle anime verranno salvate a Satana stesso
rientrerà nell’obbedienza dell’altissimo, al contrario dell’ortodossia cristiana che stabilisce la

8
condanna eterna del diavolo e dei peccatori, secondo un dualismo finale opposto all’idea di una
creazione unica e tutta divina.
Ecco il risultato fondamentale: la condanna della carne, che oggi si crede essere una caratteristica
cristiana, è in realtà d’origine manichea, dunque, eretica.
7. Eresia e poesia
Da un lato l’eresia catara e l’amor cortese si sviluppano simultaneamente nel tempo e nello spazio,
dunque qualche contatto risulta inevitabile, ma com’è potuto accadere vista la chiusura dei catari,
totalmente in opposizione alle figure liete e ribelli dei trovatori? Da questo enigma storico
dobbiamo spostarci al mistero di una passione propriamente religiosa, di una concezione mistica
dell’uomo che testimonia della vita stessa dell’anima, cercando di stabilire una realtà intermedia.
8. Obiezioni
Abbiamo finora appurato che:
1) la religione dei Catari è poco nota dunque è prematuro vedervi la fonte del lirismo cortese;
2) i trovatori non hanno mai dichiarato di seguire questa religione;
3) l’amore che essi esaltano non è che la sublimazione del desiderio sessuale;
4) non è chiaro come, dal confuso accostamento di dottrine manichee e neoplatoniche, sia potuta
nascere una retorica quale quella dei trovatori.
/
9. I mistici arabi
/
Nel dodicesimo secolo si assiste nella Linguadoca e nel Limosino a una delle più straordinarie
confluenze spirituali della storia: da un lato la corrente religiosa manichea, nata nell’Iran, mentre
dall’altro lato una retorica raffinata, precisa, ma non priva di simbolismo e ambiguità arriva in
dall’Irak in Francia, trovando una società che non aspettava altro che gli strumenti per dire quello
che non osava confessare nella lingua dei chierici e della parlata volgare. È da questo incontro che
la poesia cortese è nata. Così, tra le confluenze delle eresie dell’anima e quelle del desiderio
provenienti dal medesimo Oriente è nato il grande modello occidentale del linguaggio dell’amore
passione.
10. Sguardo d’insieme sul fenomeno cortese
Approfondiamo la problematica dell’amor cortese.
a) La rivoluzione psichica del dodicesimo secolo: un’eresia neo-manichea, quella dei Catari,
venuta dal Vicino Oriente arriva in Francia, contrastando il matrimonio ma fondando una
Chiesa d’Amore contrapposta alla Chiesa di Roma, ma anche il culto della donna idealizzata.
La Chiesa di Roma sentì dunque l’esigenza di diffondere una credenza opposta ma che
rispondesse alle stesse esigenze, partendo dunque dal culto della Vergine, rappresentata come
regina della quale il monaco è il cavaliere, una sorta di “conversione” ecclesiastica degli ordini
cavallereschi.
b) Edipo e gli dei: il complesso di Edipo descrive per Freud l’aggressività che il figlio prova per il
padre, e il conseguente senso di colpa, e l’interdizione rispetto alla madre che inibisce l’amore.
Ciò che riguarda la donna è “impuro”, e più la struttura sociale nella quale la famiglia cresce è
solida più questo complesso di sentimenti edipici è costrittivo, dunque, in una società in cui le
autorità si allentano anche l’impulso che alimenta il complesso lo farà in proporzione, dunque la
figura della donna si trova parzialmente libera da quell’interdizione carnale, elevandosi a
divinità ma rimanendo casta, costituendo dunque un tramite col dio luminoso dei catari e non
un allontanamento rispetto ad esso.
c) d) e) f) /
g) Invece di conclusioni definitive: l’amore cortese nasce nel dodicesimo secolo, in piena
rivoluzione della psiche occidentale; è nato dallo stesso moto che elevò il principio femminile
della catki, il culto della Donna, della Madre, della Vergine; partecipa di quell’epifania
dell’anima che rivela nell’uomo occidentale il ritorno di un Oriente simbolico, in rapporto con
l’eresia dei Catari e in opposizione alla concezione cristiana del matrimonio.

9
11. Dall’amor cortese al romanzo bretone
Nel romanzo bretone Lancelot, Tristan e in tutto il ciclo arturiano, scopriamo una trasposizione
romanzesca delle regole dell’amor cortese, il cui contatto con tali “leggende esotiche” diede vita al
romanzo cortese. Da questo fondo celto-iberico l’eresia cristiana dei “puri” ha attinto alcuni
elementi. Nei romanzi dei trovieri (dalla Francia settentrionale, mentre i trovatori venivano dalla
Provenza), forse di inferiore coscienza mistica rispetto a quelli dei trovatori, è stato introdotto un
tema fondamentale e nuovo, quello della colpa proveniente dall’amore fisico: le opere di Chrétien
de Troyes non sono soltanto poemi d’amore, bensì veri romanzi. Il peccato dal quale Lancelot e
Tristan muovono è quello contro l’amor cortese, che si concretezza nel possesso fisico di una donna
reale, dunque la “profanazione dell’amore” che necessita di una punizione la quale può essere
raccontata dalla forma del romanzo, la canzone non basta. Nel Tristan la colpa iniziale è riscattata
dalla lunga penitenza degli amanti, dunque, nel senso della mistica catara esso finisce bene.
12. Dai miti celtici al romanzo bretone
Tristan ci appare come il più squisitamente cortese dei romanzi bretoni, nel senso che la parte epica
è ridotta al minimo mentre lo sviluppo tragico della dottrina religiosa è fondamentale nel racconto.
Al tempo stesso, Tristan è il più bretone dei romanzi cortesi, in quanto vi sono incastonati elementi
religiosi di origine celtica (educazione e prove di Tristano), suggestioni diffusesi non
necessariamente per vie religiose ma attraverso il culto più profano degli eroi e delle loro prodezze.
L’amore celtico delle leggende è anzitutto sensuale, dunque la sua opposizione rispetto a quello
religioso lo porta a sublimarsi in simboli esoterici nel romanzo cortese, ma all’interno di
quest’ultimo troviamo un elemento assolutamente moderno, ovvero l’amore della sofferenza in
quanto ascesi, il “male amato dei trovatori”.
Un fondo celtico di leggende religiose, costumi della cavalleria feudale, apparenze dell’ortodossia
cristiana, la fantasia individuale dei poeti: questi, in definitiva, gli elementi attraverso i quali si
trasformò la dottrina eretica dell’Amore, maniche nello spirito. Da qui nacque il mito di Tristano.
13. Dal romanzo bretone a Wagner attraverso Gottfried
La prima ricreazione del mito fu opera di Gottfried da Strasburgo verso l’inizio del tredicesimo
secolo. Egli individuò l’importanza religiosa del mito dualista di Tristano, ovvero angoscia della
sensualità e orgoglio umanista che la controbilancia: angoscia perché l’istinto sessuale è sentito
come crudele destino, orgoglio perché questo patire è sentito come divinizzante.
Gottfried non limita a tre anni il funzionamento del filtro in quanto vi vede un segno del destino,
che appena ingerito pone i due amanti al di là di ogni morale, in una sfera che non può essere che
divina: il filtro lega così alla sessualità, legge della vita, ma costringe a superarla in una violazione
liberatrice al di là della soglia mortale, della distinzione tra i due (manicheismo).
Gottfried considera tre momenti come decisivi: -la blasfemia dell’episodio del giudizio col ferro
rovente; -sostituisce la foresta con una “grotta d’amore”; -il matrimonio tra Tristano e Isotta dalle
bianche mani viene consumato. Emerge così il catarismo latente dell’opera.
Le innovazioni di Gottfried prefigurano quelle che Wagner apporterà, facendo rivivere nella musica
il contenuto filosofico e religioso del poema di Gottfried.
14. Prime conclusioni
L’amore-passione glorificato dal mito fu una vera e propria religione nel dodicesimo secolo, data
della sua comparsa, e nello specifico un’eresia cristiana storicamente determinata. Di conseguenza:
la passione volgarizzata oggi da romanzi e cinema non è che il riflusso e l’invasione anarchica nelle
nostre vite di un’eresia spiritualista di cui s’è perduta la chiave; alle origini della nostra crisi del
matrimonio vi è niente meno che il conflitto di due tradizioni religiose, una decisione che
prendiamo quasi sempre inconsciamente.
Le nostre grandi letterature sono per buona parte laicizzazione del mito, del suo contenuto e della
sua forma. In Occidente, infine, la guerra ha conservato, per via della sua origine cavalleresca, un
parallelismo costante con l’evoluzione del mito.

10
Libro III
Passione e misticismo
1. Poniamoci il problema
Se partissimo dalla passione o dalla mistica per tentare di ricondurre l’una all’altra per individuarne
i rapporti, noteremmo che nessuna delle due, presa da sola, può spiegare l’altra, dunque,
consideriamo il problema come ce lo presenta il mito.
2. Tristano: un’avventura mistica
Il Roman de Tristan è, sotto molti aspetti, una “profanazione” della mistica cortese e delle sue fonti:
il carattere distintivo del romanzo è quello di basarsi su una colpa commessa contro le leggi
dell’amor cortese, dal momento che tutto il dramma deriva dall’adulterio consumato, ma non si
riduce a questo. L’infedeltà di Isotta è l’eresia, che per i “puri” è però una virtù mistica. La colpa
non sta nell’amore ma nel suo realizzarsi.
Facendo un parallelo generale fra il romanzo e l’avventura mistica, capiamo che l’inizio di tale
avventura è costituto dalla partenza per la ricerca del balsamo salutare da parte di Tristano; il fatale
errore del filtro bevuto non è, invece, altro che un alibi, in quanto gli amanti non vogliono ritenersi
responsabili di nulla essendo la loro passione inconfessabile non solo alla società ma anche a se
stessi: ecco l‘aspetto psicologico dell’avventura. Quello religioso sta, invece, nel fatto che questo
errore fatale costituisce l’elezione di un’Anima da parte del dio Amore. Per riscattare il sacrilegio, è
ora necessaria la penitenza, ovvero l’infelicità dei due amanti che non solo li riscatta ma libera
l’uomo dal fatto stesso di essere nato in questo mondo di tenebre, giungendo alla morte liberatrice e
dunque con un significato opposto a quello del sentimento cristiano. La passione, dunque, non
arricchisce la vita dell’individuo ma la denuda, gli “altri”, dunque il prossimo, cessano di essere
presenti, conta solo la propria coscienza: si è soli in compagnia di ciò che si ama.
Le sofferenze delle quali parliamo, però, non sono corporali o morali: l’anima patisce la separazione
proprio quando l’amore arde: Mai l’amore infiamma Tristano così follemente come quando è
lontano da Isotta. Abbiamo visto che la separazione degli amanti nel romanzo risponde ad una
necessità interna alla passione: Isotta non è solo la donna amata ma anche simbolo dell’Amore
luminoso, ecco perché più Tristano le è lontano e più la ama, di conseguenza, soffre di più. Ma
sappiamo che è proprio la sofferenza il vero scopo della voluta separazione: stiamo entrando nella
situazione mistica per l’altro estremo, dunque, più Tristano ama più si sente separato e respinto
dall’amore. In un solo passo del romanzo l’ortodossia trionfa, ovvero quando, svanito l’effetto del
filtro, i due si pentono, ma ciò verrà subito meno nel blasfemo episodio del giudizio del ferro
rovente, che inganna il re e inganna Dio.
Ripetiamolo: la questione verte sulla passione d’amore e non sull’amore puramente profano e
naturale, ed ecco secondo De Rougemont il vero principio dell’opposizione delle due mistiche.
L’ortodosso sfocia nel matrimonio spirituale di Dio con l’anima sin da questa vita, mentre l’eretico
spera in una fusione totale oltre al corpo che dunque non contemplava riscatto in questo mondo; da
ciò conseguiva che l’amor profano era assoluta infelicità, mentre per il cristiano l’amor divino è
un’infelicità che ricrea ma non nega quello profano che, anzi, santifica col matrimonio.
Glia manti del romanzo cercheranno dunque l’intensità della passione e non la sua felice
soddisfazione.
Il romanzo è immerso nell’atmosfera celtica dell’orgoglio cavalleresco: il desiderio di prodezza fa
da molla alle gesta di Tristano che ama la sensazione di potenza che il pericolo crea; da qui il
desiderio di sfiorare il rischio per se stesso, la passione della passione senza termine, la volontà
della morte definitiva: la prodezza era il segno materiale d’un processo di divinizzazione. Il
cristiano, dunque, non si illude pensando ad una morte trasfigurante in quanto accetta i limiti della
sua vocazione terrestre.
3. Trasposizioni curiose, ma inevitabili
Tutta la poesia occidentale prende le mosse dall’amore cortese e dal romanzo bretone che ne deriva
abusando, senza saperlo, di un linguaggio che era basato su una mistica ormai assente nel nostro
tempo, come già il mito romanzesco si era eretto sul fondo religioso celtico.

11
4. I mistici ortodossi e il linguaggio della passione
/
5. La retorica cortese nei mistici spagnoli
/
6. Nota sulla metafora
/
7. Liberazione finale dei mistici
/
8. Crepuscolo dell’amore passione
È il dogma dell’Incarnazione a distinguere radicalmente la mistica ortodossa da quella eretica, un
dogma che nell’uno e nell’altro caso da un significato differente alla parola amore. Gli eretici catari
contrappongono la Notte al Giorno, ma il secondo non si è rivestito del primo, non si è “fatto
carne”, perché il Giorno non deve avere intermediari. In questo contesto, però, i catari ignorano che
la Notte non è opera di un demiurgo malvagio, bensì la risposta del Giorno alla nostra ribellione,
ignorando così un Agapé che santifica la creatura. Da ciò la confusione tra Eros divinizzante ed
Eros prigioniero dell’istinto che riduceva ogni tipo di passione all’infelicità, ed ecco qui l’amore
impossibile che portava a patire una “tortura d’amore” che essi iniziarono ad amare in quanto tale.
In questo contesto, la donna diventa simbolo dell’impossibile unione con essa e la morte unico
modo per superassi e unirsi col trascendente: il superamento non è che esaltazione del narcisismo in
quanto non mira alla libertà dei sensi, bensì alla spasmodica intensità del sentimento.
La storia della passione d’amore è la storia del decadere del mito cortese nella vita ”profanata”, il
racconto dei tentativi sempre più disperati fatti dall’Eros per sostituire la trascendenza mistica con
un’intensità di commozione.

Libro IV
Il mito nella letteratura
1. D’una precisa influenza della letteratura sui costumi
È difficile verificare l’influenza delle arti sulla vita quotidiana di un’epoca, ma proprio grazie al
mito (la sua retorica, l’amor cortese) non si può dire lo stesso della letteratura, che è stata capace di
influenzare i costumi europei perché l’adozione di un certo linguaggio convenzionale portò
all’affiorare di sentimenti latenti in un momento in cui c’erano le adatte condizioni per esprimerli:
pochi uomini sarebbero innamorati se non avessero mai sentito parlare d’amore. Passione ed
espressione non sono separabili.
Dal momento in cui supera l’istinto, per diventar tale la passione deve raccontarsi, conservarsi: i
sentimenti provati dalle élite e, per imitazione, dalle masse, sono creazioni letterarie, ovvero si
servono di una retorica per prender coscienza; senza questa retorica tali sentimenti non
smetterebbero di esistere ma risulterebbero, a chi li prova, come inconfessabili stranezze. Bisogna,
invece, essere in grado di spiegare a se stessi e agli altri ciò che si sente. Ci accingiamo dunque a
descrivere la volgarizzazione del mito, la sua profanazione.
2. Le due rose
Circa 100 anni dopo la composizione del Tristano da parte di Béroul e Thomas, viene realizzato il
Romanzo della Rosa, e la Crociata degli Albigesi ha disperso gli ultimi trovatori; dal
quattordicesimo secolo gli eretici, sparpagliati in tutta Europa, hanno cessato di ricorrere a temi
letterari per esprimere la loro religione e iniziano a nascondersi, ma tale mutismo non ne arresterà il
progresso. La Chiesa d’Amore farà nascere innumerevoli sette segrete che ne custodiranno il culto
attraverso l’opposizione al rito trinitario, l’esaltazione della spiritualità, il rifiuto del sacramento del
matrimonio, il gusto della povertà e dell’ascesi, lo spirito egualitario: la loro concezione dell’amore
non era dunque mutata.
Dal quattordicesimo secolo la letteratura cortese s’era distaccata dalle sue radici mistiche fino a
ridursi ad una mera forma d’espressione, una retorica che tendeva ad idealizzare gli oggetti che
descriveva e alla quale conseguì una reazione “realista”: il Roman de la Rose testimonia questa
duplice tendenza. La Rosa di de Lorris, nella prima parte del romanzo detta cortese, è l’amore della
12
donna ideale, reale ma inaccessibile: l’ostacolo all’unione consiste nell’esigenza morale, non
religiosa, non un’ascesi ma un raffinamento dello spirito che renderà l’amante meritevole del dono.
Per de Meung, che porterà a termine il romanzo, la rosa non è altro, invece, che voluttà fisica. De
Lorris eserciterà il suo ascendente su Dante fino a Petrarca, mentre de Meung la trasmetterà alle
zone più basse della letteratura francese, con il razionalismo polemico che caratterizza la difesa
dell’uomo pagano rispetto al mito dell’amore infelice.
3. Sicilia, Italia, Beatrice e Simbolo
Nel 1200, alla corte palermitana di Federico II, nasce la Scuola Siciliana, che consapevolmente
rinnova il linguaggio simbolico dei trovatori, ma Dante e i suoi contemporanei, a differenza dei
trovatori, sono stati capaci di definire la loro arte, svelando il mistero dei trovatori, freddi quando
non celebrano la donna e ardenti di sincerità quando si esalta la Saggezza dell’amore. Ad essere
esaltato è dunque l’amore in quanto passione mistica, ma in questa prospettiva celeste è necessario
definire il ruolo dell’amore naturale: la donna diventa cuore spietato perché l’amore carnale non è
che un riflesso di quello divino.
4. Petrarca, o il retore convertito
Petrarca fu l’innamorato in maniera “superlativa”, in quanto animato da una passione inconfessabile
analoga a quella dei trovatori ma, questa volta, in senso pagano e non eretico. Siamo dunque agli
antipodi di Dante, in quanto il linguaggio dell’amore è ora quello del cuore umano, che esprime
sentimenti di rabbia e delusione per via di una speranza mal riposta nell’amore idealizzato, al quale
ci si può sottrarre solo attraverso uno spostamento d’oggetto della speranza, ovvero, la fede nel
perdono (conversione della speranza).
5. Un ideale a ritroso, la “gauloiserie”
Imporre uno stile alla vita delle passioni, è la segreta volontà che doveva dare origine al mito, ma ne
conseguì la confusione tra l’amore per Dio con quello per una cosa mortale, conducendo al tragico
conflitto tra corpo e anima. Ma se ad ispirare l’amor cortese fu la tendenza ascetica delle élite,
sempre nel dodicesimo secolo la tendenza realista della borghesia vi reagì, glorificando la voluttà
con gli stessi eccessi con i quali, sul versante opposto, i trovatori glorificavano la castità.
Il contrasto dell’anima e del corpo è la testimonianza di un conflitto che si pensava di poter
risolvere con il matrimonio cristiano.
I fabliaux sono i precursori del romanzo comico, che a sua volta ispirò il romanzo in costume: si
tratta quindi di una linea evolutiva che procede verso il reale e alla quale, parallelamente, si affianca
una verso il “prezioso” (reazioni vicendevoli). Ma la gauloiserie, in realtà, non fece altro che
avvalersi del medesimo grado di irrealismo delle epopee cortesi: come la cortesia, essa è una
finzione romantica. Per acquisire un valore culturale, il pensiero erotico deve passare per la
stilizzazione, rappresentando in maniera semplice la realtà complessa, mentre per la gauloiserie si
tratta sempre di un ideale, quello della lussuria questa volta, tanto da mettere in ridicolo anch’essa il
matrimonio, solo lo fa dal basso invece che dall’alto.
6. Continuazione della cavalleria, fino a Cervantes
L’influenza del romanzo bretone è stata attestata da centinaia di testi lungo il tredicesimo,
quattordicesimo e quindicesimo secolo, partendo dalle traduzioni fino ai rifacimenti, per non parlare
dell’importanza attribuitagli dagli autori, ad esempio, Dante lo considera il modello universale
d’ogni prosa narrativa.
7. Romeo e Giulietta - Milton
Roma non trionfa in Cornovaglia e Scozia, dove le tradizioni sono estremamente radicate
Se consideriamo il celeberrimo Romeo e Giulietta di Shakespeare, si tratta in fin dei conti di una
tragedia cortese e della più bella risurrezione del mito prima del Tristano di Wagner: la consolazione
della Morte, esemplificata dalla scena della morte dei due amanti, ha suggellato il solo matrimonio
al quale l’Eros avrebbe potuto aspirare.
I due poemi giovanili di Milton Allegro e Penseroso esprimo il conflitto tra Giorno e Notte e la
necessità di una scelta non ancora fatta: come i catari Milton credeva che il giusto desiderare fosse
quello intellettuale, atto a purgarci dal perverso desiderare, la sensualità, ma ciononostante notiamo

13
in Milton più razionalità (ad esempio il matrimonio viene considerato un rimedio contro
l’“incontinenza”).
8. L’Astrea: dalla mistica alla psicologia
Nel Seicento francese la mistica si degrada a pura psicologia e il romanzo diviene oggetto di una
letteratura raffinata. Soggetto del romanzo rimangono le contrarietà dell’amore, ma l’ostacolo non è
più la volontà di morte, bensì l’eroina stessa e i suoi pretesti, benché tutto finisca solitamente col
matrimonio, previsto sin dall’inizio ma ritardato dall’intreccio. È nel diciassettesimo secolo che
nasce l’happy ending: dal momento che è la società a manovrarlo, e non qualcosa di sovversivo ad
essa, il fine del romanzo non può essere che la felicità. L’adozione di “personaggi costanti”
conferisce alla dialettica dei sentimenti la sua miglior garanzia di precisione: a condurre il gioco
non è la vita, ma l’arte. E cosa vale il successo di questo puro sforzo letterario? Tutto si riduce alla
moralizzazione del piacere.
9. Corneille, o il mito combattuto
È nel teatro classico che la passione doveva prendersi la sua rivincita: ne La Place Royale, Alidoro
ama Angelica, ricambiato, ma sente che questo amore lo tiene troppo legato, dunque fa si che lei si
dia al suo amico Cleandro. Alidoro soffre, dunque, l’assenza di un ostacolo fra la sua troppo fedele
Angelica e se stesso, la medesima situazione nella quale Tristano e Isotta si ritrovarono dopo i tre
anni nella foresta. Ma non dimentichiamo che questa libertà che costituisce il prezzo del dono è una
delle esigenze fondamentali dell’amor cortese, un’esigenza polemica contro il matrimonio.
Alidoro e la troppo fedele Angelica si ritrovano, loro malgrado, nello stato di due coniugi, uno stato
dal quale l’eroe vuole evadere e non per amore della libertà, bensì della passione stessa. Ecco la
contraddizione: prima voleva la tranquillità, e adesso teme il matrimonio che potrebbe dargliela. Ma
davvero in questa situazione manca il mito? L’essenza del mito dell’amore infelice è una passione
inconfessabile: l’originalità di Corneille sta nell’aver combattuto e negato tale passione e il mito che
ne derivava per salvare, almeno, il principio della libertà, a differenza di quanto fece ne Il Cid, ma
senza sacrificargli gli effetti del fatale “filtro” (qui metaforico).
10. Racine, o il mito scatenato
La classica opposizione di Racine e Corneille al mito si riduce al fatto che il primo priva le sue
vittime di ogni responsabilità mentre il secondo lo considera come una tirannide; da ciò l’armonia
voluttuosa dell’uno e la tesa dialettica dell’altro: uno si abbandona, l’altro è trascinato benché tenti
di resistere. L’invitus invitam che costituisce il soggetto di Berenice è un’antica formula interpretata
da un moderno nella prospettiva cortese dell’amore reciproco infelice, e finisce per diventare la
formula stessa del nostro mito.
11. Fedra, o il mito “punito”
È con Fedra che Racine individua e rivela la natura del suo stesso desiderio. Se in Berenice il tema
della morte è “censurato” da una morale d’origine cristiana, in Fedra esso trova la sua rivincita. Non
solo l’ostacolo di Fedra, che dovrebbe essere il Tristano della situazione, è costituito dall’incesto,
qualcosa che il pubblico non potrà mai accettare, ma non c’è alcuna reciprocità con Ippolito: è la
legge del Giorno anche rende Ippolito insensibile all’amore di Fedra, benché sia solo la matrigna,
ma Racine aggira questo divieto in modo sottile, ovvero rendendo Ippolito innamorato di Arice, una
Fedra travestita. Racine attribuisce, inoltre, delle debolezze (che non ne compromettono la
grandezza d’animo) ad Ippolito, che lo rendono colpevole nei confronti di suo padre: la debolezza è
la passione che prova per Arice, figlia e sorella dei nemici mortali di suo padre. Alice è dunque
l’amore vietato dal padre. Inoltre, come il filtro per Tristano e Isotta, il Destino sarà un alibi per
coloro che amano, ma anche per l’autore stesso. Con Fedra, per la prima volta dopo l’apparizione
del mito il giorno terrestre trionfa sulla morte dell’amante, capovolgendo la dialettica di Tristano e
Romeo: le più piccole colpe vengono severamente punite, anche solo il pensiero; le debolezze
dell’amore vengono trattate come vere debolezze.
12. Eclissi del mito
Malgrado Racine e Corneille, la fine del Seicento vede una prima eclissi del mito nei costumi e
nella filosofia, a partire della sistemazione della società feudale da parte dello Stato-Re: il
matrimonio ridiventa l’istituzione di base, la cui misura è data dalla convenienza dei ceti e
14
dall’armonizzarsi della qualità: il sentimento delle due parti non è che un lusso molto raro. È da
questo Seicento razionale che i nostri costumi si scindono dalle credenze religiose: l’assoluto
cristiano viene rinnegato e saranno unicamente i meriti a rendere amabile un partito. Il barocco
classico imprigiona nell’artificio delle sue forme il sentimento, che viene ridotto a categorie
psicologiche nettamente distinte e dunque privato del dinamismo originale del mito.
Spinoza definisce l’amore come un sentimento di gioia accompagnato dall’idea di una causa
esteriore, un Dio col quale la nostra anima potrebbe identificarsi; Spinoza trascura, però, l’ostacolo.
In realtà le nostre passioni umane sono sempre legate a passioni contrarie: non esistono cause
isolate capaci di determinarci di per sé. Fra la gioia e la sua causa esteriore c’è sempre qualche
ostacolo, ed è da qui che deriva l’ardore della passione, e da ciò quella legge che vincola
indissolubilmente il desiderio d’unione totale a quello di morte liberatrice: proprio perché la
passione non può vivere senza il dolore, essa ci rende desiderabile la nostra perdita.
In questo contesto, abbattuto ogni ostacolo la passione non ha dove appigliarsi: nel Settecento ormai
più nulla, o quasi, è proibito, e del pudore si conserva quel che può servire per la retorica del
desiderio. Si tratta di un secolo troppo incivilito che sostituirà alla gauloiserie un’affettazione di
facilitò voluttuosa. La tentazione sensuale diviene una “menzogna ideale” che reagisce al cinismo
contro in mito, infatti, era pur necessari che un pò di idealismo e illusione amorosa restasse vivo.
Il mito, anche se nascosto, persisteva ancora.
13. Don Giovanni e De Sade
Anche se Don Giovanni non è un’invenzione settecentesca, egli incarna due caratteristiche di quel
secolo: malvagità e scelleratezza, antitesi delle virtù dell’amore cavalleresco, ovvero amore e
cortesia.
Il fascino che il personaggio del Don Giovanni esercitava sul pubblico femminile quanto su quello
maschile era dovuto alla sua natura contraddittoria: istinto e spirito, infedeltà e ricerca continua
dell’unica donna, giovinezza rinnovata ad ogni incontro e debolezza di chi non può possedere.
Consideriamo il Don Giovanni a teatro come riflesso capovolto di Tristano: la molteplicità del
primo non è che povertà, mentre nel possesso di un unico essere del secondo si concentra il mondo
intero. Tristano non ha più bisogno del mondo perché ama, mentre Don Giovanni, amato per
sempre, non può contraccambiare, da qui la sua angoscia e il suo correre senza pace.
La tattica di Don Giovanni è la violazione, il delitto per eccellenza nell’amor cortese, ma è il delitto
in sé che egli ama, dunque ha assolutamente bisogno che esso esista per provare il gusto mentre
Tristano, liberato dal gioco delle regole, trascende il mondo della Legge.
In conclusione, tutto si riduce a questa opposizione: Don Giovanni è il demone dell’immanenza
pura, prigioniero delle parvenze del mondo e della sensazione fallace, mentre Tristano è prigioniero
d’un al di là del giorno e della notte, martire di un rapimento che si muta in gioia pura con la morte,
che il Don Giovanni non fa invece che sfidare.
Comunque, in mezzo a tali raffinamenti voluttuosi, un bisogno dell’uomo resta ancora
insoddisfatto: quello di soffrire. Sarà De Sade ad esplicitare l’esistenza di questo oggetto, della
donna non più ideale ma strumento di piacere che chiude l’uomo in se stesso. È questo “oggetto”
che detiene il piacere, e il piacere è una fatalità, e come liberarsene se non con un eccesso? Il
marchese moltiplica con furore le invenzioni voluttuose del freddo razionalismo: dov’è il piacere, là
sarà la sofferenza, segno di riscatto. Si tratta di purificazione attraverso il male: invece di trascurare
l’oggetto, lo si distrugge attraverso delle torture che paradossalmente sono in grado di dare piacere.
Ma questa glorificazione del sesso da parte di De Sade è una profanazione costante e razionale della
morale profanata del diciottesimo secolo: è la via negativa di qualcuno che sfida l’amore spirituale a
mostrarsi uccidendo quello criminale, perché soltanto così potrebbe aver luogo la liberazione, come
già i trovatori sostenevano.
14. La nouvelle Héloïse
Contadino di Ginevra, Rousseau sfugge all’influenza cittadinesca del dongiovannismo: il suo
romanzo non è la rinascita del mito di Tristano ma in esso rivive lo stato d’animo egli “imitatori”
dei trovatori che secolarizzarono una dottrina che non conoscevano. L’Héloïse del dodicesimo
secolo evoca Isotta, Giulietta, e la Nouvelle Héloïse mostra la ricomparsa del mito, ma se nella
15
prima versione era la legge della cortesia ad imporre la castità, ora è il costume borghese costituire
l’ostacolo, ora è la società borghese, ma essi non sono che travestimenti diversi del medesimo mito.
La capitale differenza sta, però, nel fatto che Rousseau sfocia nel matrimonio, nel trionfo del mondo
santificato dal cristianesimo, laddove la leggenda glorificava la morte in quanto completo
scioglimento dei legami terrestri.
15. Il romanticismo tedesco
Partendo dalla Nouvelle Héloïse il Romanticismo si pone di raggiungere una mistica primitiva che
ignora ma di cui riscopre la sacrale e mortale virtù. La linea che va dal Tristano di Thomas,
passando per Petrarca fino a Racine, ci permette di vedere il mito che gradualmente si degrada fino
alla distruzione completa col Don Giovanni ma arriva il giorno in cui, però, Wagner innalza il mito
nella pienezza della sua statura e totale virulenza: solo la musica poteva dire l’indicibile, strappando
a Tristano il suo ultimo mistero.
Esaltazione della morte volontaria, amorosa e divinizzante: ecco il tema religioso più profondo della
nuova eresia costituita dal Romanticismo tedesco. Si tratta del desiderio di qualcosa di sconosciuto
che si rivela solo attraverso un bisogno, un malessere, un vuoto che cerca qualcosa che possa
colmarlo ma senza sapere dove trovarla. Rivivono così gli elementi sparsi per il mito che solo
Wagner oserà chiamare per nome ma realizzando una sintesi definitiva.
16. Interiorizzazione del mito
Il ritmo intimo del romanticismo tedesco è dato dal continuo alternarsi ed intrecciarsi di entusiasmo
e tristezza metafisica, la dialettica tra Giorno e Notte: lo slancio che elevava l’uomo verso il divino
non è ora altro che spinta verso la morte. Ecco qui il tragico dell’Ironia trascendentale, una passione
che frantuma tutti gli oggetti che le è dato desiderare e che dona al Romanticismo tedesco una sorta
di gaiezza, un movimento die estensione tra due spinte contraddittorie. È questo che manca al
romanticismo francese, che guadagna il lucidità ma non uscirà mai dalla sfera della psicologia
individuale. L’io non è mai trasceso, ricade disilluso nell’analisi della sua tristezza: Romanticismo
maturo, disingannato. Il gusto della morte, nei tedeschi, esalta il sapore di vivere, mentre il
Romanticismo francese è impoverito dal fatto che resta uno scettico sapiente e per questi
razionalisti, loro malgrado, l’amore non potrà rimanere a lungo la felicità ineffabile, ma piuttosto un
amore taciturno e sempre minacciato. Questa sostanziale mancanza di interesse per le forme
quotidiane della vita faciliterà il distaccarsi dello spirito, l’astratta purificazione del sentimento:
esseri e cose smetteranno di essere un vero ostacolo e il mito, impoverito delle sue forme esteriori,
diventerà ciò che era al suo inizio: una voluttuosa autodistruzione dell’io.
Anche la donna cessa di essere il simbolo insostituibile della nostalgia appassionata: nella dualità
dell’io che non può né affermarsi né annullarsi, né possedere né essere posseduto. Sapevamo che
Tristano non amava Isotta per se stessa, ma solo per amore dell’Amore, del quale la sua bellezza gli
offriva un’immagine, ma lui ingenuamente lo ignorava: ora l’uomo non può più nemmeno credere
all’immagine, in quanto ha capito che il dramma si svolge dentro di lui.
Comunque, sono rari i romantici francesi che attinsero a tale conoscenza audace ed essenziale: i più
ritorneranno alle illusioni dell’amore umano, rendendo pretesti il matrimonio e l’onore, il dovere
sociale, la virtù, gli scrupoli religiosi. Ecco la progressiva interiorizzazione progressiva del mito in
proporzione diretta all’impoverirsi e al dissolversi dell’ostacolo invocato sotto l’azione di una
critica scettica, mentre le morali e tutti gli elementi sacri si dissolvono nella vita sociale.
17. Stendhal, o il fallimento del sublime
Stendhal ci offre il miglior esempio per l’analisi della profanazione del mito: un uomo tormentato
dal bisogno della passione e che solo l’Ignoto potrebbe colmare. Amare appassionatamente,
null’altro sarebbe la vita. Ma questa passione, questo desiderio, sarebbero condannati dal generale
scetticismo: da qui nasce il bisogno in Stendhal di giustificare questo bisogno, e lo farà nel trattato
De l’Amour, nel quale affronta il tema dell’amore-passione non come un romanzo farebbe, bensì
attraverso una descrizione esatta “d’una specie di follia”.
La tesi del trattato comprende quattro tipi di amore: amore-passione, amore-inclinazione, amore
fisico e amore di vanità. Solo il primo trova grazia agli occhi dell’autore, e a dimostrarlo è la teoria
della cristallizzazione, per la quale l’amante scorge, di volta in volta, nell’amato nuove perfezioni,
16
che magari non possiede affatto: questo perché abbiamo bisogno di amare e non si può mare che la
bellezza, dunque, la cristallizzazione è il momento in cui si idealizza l’oggetto amato. Ma Ortega
sottolinea il fatto che questa celebre teoria vede l’amore appassionato come un semplice errore, una
malattia dello spirito che ci si rammarica di avere, che non ci permette die essere oggettivi ma ecco
la verità: noi amiamo il dolore, la felicità ci annoia un pò. È naturale? Stendhal non si pone la
questione, e spiega la passione come un errore favorevole al desiderio. Ma, come per Ortega, per De
Rougemont questa teoria è inesatta, in quanto i fatti dimostrano che esiste un tipo d’amore che,
lungi dall’ingannarsi, permette di scoprire nell’essere amato qualità reali ma fino quel momento
nascoste. Stendhal dimostra die essere vittima so un fenomeno spirituale che le sue credenze
materialiste non sono più in grado di giustificare, lasciando vedere l’inquietudine che emerge
quando un intelletto lucido si trova dinnanzi al mito.
18. Wagner, o il compimento
La passione è qualcosa di più dell’errore: è una decisione fondamentale dell’essere, una scelta a
favore della Morte nella misura in cui essa è liberazione da un mondo regolato dal male.
Componendo il suo Tristano, Wagner ne ha violato il tabù: vi ha detto tutto, sia per mezzo delle
parole che per mezzo della musica. Però, per accogliere il senso malefico di questo messaggio
bisognava negarlo, travestirlo in maniera tollerabile, dunque, secondo il buon senso, sublimando il
mistero della Notte in pieno Giorno. Ciò è stato possibile grazie alla frivolezza del pubblico capace
di non capire ciò che si canta: non credettero al messaggio, non potevano.
Il dramma esordisce con una monumentale vocazione delle forze che governano il mondo del
giorno: odio, orgoglio e violenza. Isotta vuole vendicare il torto subito avvelenando Tristano, ma la
suprema Minna ispira a Brangania l’errore che salverà l’Amore: a partire dalla sostituzione del
filtro, le leggi del giorno, l’odio, l’onore è la vendetta non hanno più potere sui loro cuori. Il giorno
non li potrà più riafferrare, solo la morte è l’unico possibile compimento del loro amore.
Nel secondo atto, superati gli ostacoli, c’è ancora il desiderio carnale che separa Tristano e Isotta, il
loro essere due che fa sentire la nostalgia di essere uno, nostalgia che la musica esprime in quanto
essa sola detiene il potere di armonizzare il lamento di due voce rendendole uno: il leitmotiv del
duetto d’amore è già quello della morte, perché la passione ha vinto.
Iniziazione, passione, adempimento mortale: questo i tre momenti mistici ai quali Wagner riduce i
tre atti del dramma, esponendo il profondo significato del mito mascherato da una folla di elementi
epici e pittoreschi.
La forma d’arte scelta da Wagner non manca di dar luogo a possibili equivoci: il dramma introduce
il tempo, la durata, nel mondo, ma solo la musica sarà capace di esprimere la dialettica
trascendentale, il carattere contraddittorio, contrappuntistico, della passione della Notte. La
definizione stessa della musica occidentale è il suggestivo armonizzassi dei contrarti: il
contrappunto, espressione di un dualismo doloroso e immanente alla condizione umana e che
svanisce solo con la morte fisica. Il dramma risolto in musica è l’opera: solo la musica può parlar in
maniera adeguata della tragedia.
Nel caso di Tristano, l’elemento plastico della messa in scena teatrale crea un ostacolo alla
comprensione diretta del mito, perché il loro realismo e la presenza del “giorno” contraddicono il
senso profondo dell’azione: chi guarda la scena rimane vittima delle sue forme, ma chiudendo gli
occhi il dramma trasmette esattamente ciò che vuole dire. Solo la luce dolorosa del terzo atto può
rappresentare visivamente il senso profondo dell’esilio degli smonti nell’estasi: questa luce violenta
e artificiale ci annuncia che il giorno muore, l’alba, oramai, non è che un crepuscolo.
Nell’opera il mito giunge al suo compimento: se da una parte ne è l’espressione totale, dall’altro ne
designa la morte.
19. Volgarizzazione del mito
Si ebbe la via poetica del mito, e poi quella romanzesca.
L’invasione del romanzo nelle nostre letterature adombra l’invasione fatta nelle nostre coscienze dal
contenuto totalmente profanato del mito, che cessa di esser tale nel momento in cui si trova privato
della sua cornice sacrale, volgarizzando e democratizzando il segreto che velava.

17
Il diritto alla passione dei romantici diviene vaga ossessione di lusso e avventure esotiche che i
romanzi bastano a soddisfare simbolicamente. La passione cortese non aveva altro scopo che
liberare lo spirito dai vincoli sensuali, ma perduro questo scopo la passione viene considerata una
malattia degradante. Il tentativo di normalizzazione borghese della passione fu il teatro da Dumas a
Bataille: la “commedia dei tre personaggi” non è che l’adattamento del mito di Tristano alla società
moderna; ad affrontarsi qui sono la morale conformista, che difende il matrimonio e il marito, e
quella del Romanticismo, che trionfa regolarmente, a favore dei diritti dell’amore e dell’amante
rispetto alla sposa. Questa volta l’alibi non si chiama filtro ma “fatalità della passione”.
Si tratta di letteratura borghese, e le sue conclusioni proprio anti-borghesi sono parte integrante
dell’ordine sociale stabilito: l’istinto di conservazione rende quest’ordine tollerante tollerante nei
confronti di ciò che pretende di rinnegare ma di cui, in realtà, esso vive. Ma sia chiaro: tutto ciò
avviene inconsapevolmente.
Questa ingenuità presente nella volontà di godere del mito senza pagarlo troppo caro è evidente nei
film sentimentali americani del dopoguerra: l’happy end stilizzato intrattiene un’intima relazione
con la decadenza del mito. Si tratta della sintesi ideale di due desideri contraddittori: da un lato
quello che tutto si risolva e dall’altro quello che ciò non succeda, desiderio romantico e desiderio
borghese; da qui la sicurezza derivante dall’happy ending, che libera il pubblico dalle sue segrete
contraddizioni, ma sempre a seguito di ostacoli senza i quali, altrimenti, non ci sarebbe romanzo,
non c’è narrazione da suggellare col bacio finale.
20. L’istinto glorificato
Con il Romanticismo non è più il sentimento che su idealizza, bensì l’istinto: si tratta di una
negazione dell’al di là il cui scopo non è quello di sopprimere gli dei ma impossessarsi del loro
potere divinizzando il “quaggiù”. Ideale dei nostri poeti è perdere la propria personalità morale
tuffandosi nel cosmico flusso dell’istinto, perché si crede in esso di trovare la parte autentica della
vita, ma in realtà non si fa altro che abbandonarsi al torrente dei rifiuti dell’antica cultura e dei suoi
miti disgregati. La verità è che nell’uomo di oggi non c’è più niente dell’autenticità primitiva,
dunque scendere al di sotto delle nostre morali non significa liberarci dei loro divieti, tornare al
reale, bensì smarrirsi. Non ci è dato ritrovare “l’autentico”.
21. La passione in tutti i campi
Il mito sacro dell’amore cortese nel dodicesimo secolo aveva avuto come funzione sociale quella di
ordinare e purificare le potenze anarchiche della passione. Era un’eresia ma pacifica e favorevole
all’equilibrio civilizzatore. Tuttavia, la società doveva perseguitarla, e fu Roma a farlo:
distruggendo materialmente questa religione, la Chiesa romana la costrinse a propagarsi sotto la
forma più ambigua e pericolosa.
Quando miti perdono il loro carattere esoterico e funzione sacra, si risolvono il letteratura. Meglio
di altri il mito cortese si prestava a questo processo dal momento che era riuscito a tradursi solo nei
termini dell’amore umano benché inteso in senso mistico, che svanito non lasciò altro che la
retorica, che poteva esprimere gli istinti naturali ma non senza deviarli verso qualcosa di sempre più
misterioso. Tuttavia, il classicismo cercò sempre di imporre una forma d’arte a queste potenze
oscure private della loro forma sacra (il Romanticismo fece questo).
L’Ottocento borghese vide diffondersi nella coscienza profana l’istinto della morte a lungo rimosso
dall’inconscio, ma all’indebolirsi dei quadri sociali il contenuto di quel mito inondò la nostra vita
quotidiana e i suoi diversi campi. La guerra ha spazzato via le ultime forme dell’amore e di questa
progressiva profanazione del mito, della sua conversione in retorica e della totale volgarizzazione
del suo contenuto, possiamo seguire le tappe in un campo apparentemente estraneo a quello finora
esplorato: si tratta del campo della guerra e dei suoi metodi in Occidente.

18
Libro V
Amore e guerra
1. Parallelismo delle forme
Dal desiderio alla morte attraverso la passione: ecco il percorso del romanticismo occidentale.
Passione vuol dire, però, sofferenza. Dato che la nostra nozione di amore si fonde a quella che
abbiamo della donna, essa si trova legata ad una sofferenza feconda che stimola, nel profondo della
coscienza occidentale, il gusto per la guerra. Il singolare rapporto fra una certa idea della donna e
una corrispondente idea della guerra in Occidente porta con sé profonde conseguenze per la morale,
l’educazione e la politica. De Rougemont si pone in questa sezione il proposito di rilevare un
parallelismo fra l’evoluzione del mito e l’evoluzione della guerra, senza far emergere né l’una né
l’altra.
2. Linguaggio guerriero dell’amore
Sin dall’antichità i poeti hanno usato metafore guerriere per descrivere gli effetti dell’amore
naturale: il dio dell’amore è un arciere e la donna viene conquistata dall’uomo, richiamando al
nesso tra l’istinto sessuale e dell’aggressività. A partire dal dodicesimo secolo, l’uso del lessico
bellico all’interno del linguaggio amoroso è stato così reiterato da diventare banale.
Amore e morte son congiunti dall’ascesi come dall’istinto son congiunti desiderio e guerra. A
spiegar tutto è la presenza, nel medioevo, di una regola effettivamente comune all’arte di amare e a
quella militare: la cavalleria.
3. La cavalleria, legge d’amore e della guerra
Dare uno stile all’amore risulta una necessità sociale, in quanto se i sentimenti non si lasciano
inquadrare è la barbarie: oltre la Chiesa, l’aristocrazia aveva il suo codice, quello della cortesia, che
ne regolava la condotta, anche se influì solo nelle apparenze, mentre trionfò in letteratura. L’azione
dell’ideale cavalleresco, il formalismo militare, non si fa sentire solo nelle regole di combattimento
individuale ma nella stessa condotta delle battaglie e persino nella politica: le necessità della
strategia sono sacrificate a quelle dell’estetica o dell’amor cortese.
Si rivela in questo contesto il particolare carattere illusorio dell’ideale cortese, in contrasto con la
dura realtà dell’epoca: esso rappresenta un polo d’attrazione per le aspirazioni rituali represse. È
una forma d’evasione romantica e, al tempo stesso, un freno agli istinti: il formalismo della guerra
si oppone alle violenze feudali come il culto della castità si oppone all’esaltazione erotica del
dodicesimo secolo. Nella coscienza medievale si formano due concezioni della vita, una pia e l’altra
sensuale: in genere si tengono in equilibrio, ma quando predomina l’una o l’altra, abbiamo il santo o
il peccatore.
4. I tornei o il mito in atto
La sintesi quasi perfetta tra istinti erotici e guerrieri è circoscritta nella lizza in cui si svolgono i
tornei, che rappresentano fisicamente il mito: la violenza viene qui velata simbolicamente e
religiosamente attraverso l’unione di due forme, quella della rappresentazione drammatica e quella
dello sport, che nel medioevo assumeva addirittura la funzione di dramma per la sua capacità di
coniugare violenza ed erotismo, mentre il teatro era ancora solo quello sacro. Amore e morte si
sposavano nei tornei in un paesaggio artificiale e simbolico di altissima malinconia, attingendo dai
romanzi del ciclo arturiano.
Ma la grande voga dei tornei non è che l’indice del declino della cavalleria, che inizia nel
Quattrocento a declinarsi solo nella letteratura e in giochi simbolici finché, con l’avvento
dell’artiglieria e con lei della meccanizzazione della guerra, non le sarà dato il colpo di grazia.
Comunque, le convenzioni della guerra e dell’amor cortese hanno lasciato sui costumi occidentali
un’impronta che si cancellerà solo nel ventesimo secolo, sarà infatti possibile considerare ogni
cambiamento nella tattica militare come relativo a un cambiamento nelle concezioni dell’amore, e
viceversa.
5. Condottieri e cannoni
L’arte della guerra incarnata dai condottieri dell’Italia del quindicesimo secolo esprimeva una
cultura mirabilmente umanizzata: essi erano prima di tutto diplomatici la cui tattica era
disorganizzare la compagine nemica, non uccidere innanzitutto, tanto che la vita dei vinti e dei
19
prigionieri veniva quasi sempre rispettata, come anche le proprietà delle città ribellate. Si tratta
dunque del contrario della militarizzazione: la guerra stessa si era civilizzata.
Come si concepita l’amore? I matrimoni venivano conclusi senza dramma, i fidanzamenti duravano
poco e le donne ricevevano la medesima e completa educazione degli uomini, rispetto ai quali erano
pari, a differenza della Germania e della Francia dell’epoca, occupando delle volte ragguardevoli
posizioni sociali. Questa paganizzazione della vita, soprattutto sessuale, portò alla mancanza di
motivi per condannare al vita stessa: il mito sembrò indebolirsi e con lui l’istinto di morte.
Su questa Italia felice, però, si abbatterono le truppe di Carlo VIII, che portò a profondi
cambiamenti geopolitici e a terribili uccisioni. L’Italia non ignorava di certo l’uso delle artiglierie
ma lo disprezzava, e mentre i suoi condottieri ricevevano uno stipendio e il loro servizio era dunque
arbitrario, l’esercito francese si presentava in quanto esercito nazionale che non poteva, per
ambizione o avarizia, mutare bandiera. Artiglieria e massacro dei civili: la guerra moderna nasceva
allora, preludio del farsi macchine degli uomini, neutralizzando qualsiasi passione guerriera.
6. La guerra classica
Lo scopo degli uomini di guerra di diciassettesimo e diciottesimo secolo sarà quello di salvare il
carattere umano della guerra, moltiplicandone le regole della tattica in modo che intelligenza e
valore rivestissero un ruolo primario. La cavalleria rappresentava uno sforzo per dare uno stile
all’istinto, da qui il formalismo dell’arte militare.
Ogi volta che nella guerra ricompare l’elemento del gioco se ne può dedurre che la società e la sua
cultura ricreano il mito della passione, restituendo una certa dose di anarchia ad un quadro ormai
dettagliatamente delineato.
Nella volontà di Luigi XIV e poi XV di fare meno vittime possibili durante una guerra emerge il
rifiuto di trovar belle le catastrofi: ecco come potremmo definire l’età classica. Certo, guerra e
passione restano mali inevitabili (e segretamente desiderati) ma la grandezza dell’uomo è quella di
limitarle, incanalarle e subordinarle alla diplomazia. L’amore stesso, del resto, sta diventando una
tattica: perde la sua aureola drammatica.
7. La guerra in merletti
Il Settecento è il secolo che meglio illustra il parallelo tra amore e guerra: a Tristano succede Don
Giovanni, alla passione mortale la voluttà, alla cavalleria sacra una diplomazia tortuosa tesa a
salvare la dolcezza del vivere.
Nelle leggende epiche e nel ciclo arturiano notiamo che la gloria del cavaliere è data dalle uccisioni
che egli compie, rivelando la passione dell’uomo medievale, quella del sangue. Nel diciottesimo
secolo, invece, a dare onore è l’arte di comportarsi saggiamente.
8. La guerra rivoluzionaria
Fra Rousseau e il romanticismo tedesco, dunque il primo riaffiorare del mito e il suo tempestoso
svolgersi, stanno la Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche: il ritorno, in seno alla guerra,
della passione catastrofica. Dal punto di vista della guerra, la Rivoluzione apportò uno scatenarsi
della passione prima sconosciuto e attorno al quale una nuova comunità si crea: la Nazione, che è il
trasporsi di una passione sul piano collettivo. Ogni passione presuppone due esseri e vuole che l’io
diventi più grande di tutto e che, segretamente, solo la morte possa esserci al di là di esso.
L’ardore nazionalista è un’autoesaltazione, un amore narcisista dell’io collettivo. Inoltre, il fatto che
il rapporto con l’altro emerga spesso in quanto odio e non amore, non fa che dimostrare che si tratta
solo di uno spostamento d’accento dall’amore-passione alla passione nazionale. Nel momento in cui
una nazione si trova alle soglie di una guerra, preferisce questo rischio di morte piuttosto che
abbandonare la sua passione: così la Nazione e la Guerra sono legate come l’Amore e la Morte.
9. La guerra nazionale
Inizialmente ad essere definita guerra nazionale era la lotta mirata all’indipendenza dei popoli (fine
Settecento); si intese poi come nazionale la guerra mirata alla conquista della nazionalità (seconda
metà Ottocento); infine, ad inizio Novecento, si ebbe quella mirata al raggiungimento di vantaggi
commerciali. La nazione che si invocava aveva perso il suo prestigio romantico, perché lo Stato
intraprendeva le guerre unicamente per motivi bancari, trascurando totalmente la passione (come i

20
matrimoni divennero meri contratti): la guerra del 1914 sarà uno dei più notevoli risultati del
misconoscimento del mito.
10. La guerra totale
Da Verdum, sembra che il parallelismo istituito dalla cavalleria tra le forme dell’amore e quelle
della guerra si sia rotto: l’intervento di una tecnica inumana, che mette in opera tutte le forze d’uno
Stato, cambiò la faccia della guerra. Dal momento in cui la guerra diventa “totale”, non più solo
militare, la distruzione delle residenze armate significa annientamento delle forze vive del nemico:
la guerra non è più una violazione, ma un assassinio dell’oggetto per impossessarsene.
La tecnica della morte a grande distanza non trova il suo equivalente in nessuna etica immaginabile
dell’amore: la guerra totale sfugge all’uomo e all’istinto, essa si rivolta contro la stessa passione da
cui è nata. È questo che è nuovo nella storia del mondo, non l’ingigantita portata dei massacri.
La collettivizzazione dei mezzi distruttivi ebbe come effetto di neutralizzare la passione bellicosa
dei combattenti, e la guerra totale comportò la distruzione di tutte le forme convenzionali della lotta,
rendendo la sconfitta di un paese non solo quasi unicamente simbolica ma concreta: non è più
possesso dell’oggetto conquistato ma un non-possesso visto che quell’oggetto viene distrutto; non
più istinto sessuale normale ma solo perversione della passione fatale che è il “complesso di
castrazione”.
11. La passione trasportata nella politica
La guerra fuoriesce dal campo chiuso cavalleresco e trova altri modi per tradursi in atto.
L’anarchia dei costumi (democrazia) da un lato e l’igiene autoritaria (totalitarismo) dall’altro
agiscono poco a poco nel medesimo senso: eludono il bisogno, ereditario o culturale, di passione.
Tra le due guerre le relazioni individuali dei sessi hanno cessato di essere il ruolo per eccellenza nel
quale si realizza la passione: la politica non fa che trasporre le passioni individuali al livello della
collettività, dunque, le volontà di potenza delle nazioni messe faccia a faccia non possono che
cozzare passionalmente costituendo l’una l’ostacolo per l’altra, al fine di raggiungere quel tacito
scopo che è la morte. Nessuno ha il coraggio di dire “voglio la guerra”, come nell’amore-passione
nessuno dirà “voglio la morte”, ma tutto ciò che viene fatto sembra rimandare a tale fine.
Ha luogo, dunque, un transfert dal privato al pubblico, ecco la novità dei nostri tempi che conduce
alla dissoluzione delle forme istituite dalla cavalleria: nonostante questo, però, fra il quadro
artificiale dei grandi Stati e la vita quotidiana degli uomini rimane ancora troppo margine, perché il
primo non può intrappolare la complessità dei secondi. Nulla è realmente deciso.

Lezione VI
Il mito contro il matrimonio
1. La crisi moderna del matrimonio
Nel medioevo due morali si affrontano: quella della società cristianizzata e quella della cortesia
esoterica, rispettivamente a favore e contro il matrimonio e, di conseguenza, contro e a favore
dell’adulterio. Lo stato contemporaneo di generale immoralità si spiega col confuso antagonismo di
due morali in seno alle quali noi viviamo, una ereditata dall’ortodossia religiosa ma che non si
appoggia più su una fede viva, e l’altra ereditata dall’eresia la cui espressione essenzialmente lirica
ci perviene del tutto profanata e snaturata: da una parte ciò che definiamo la morale borghese e
dall’altra quella passionale o romanzesca, due morali per essenza incompatibili che convivono negli
adolescenti della borghesia occidentale educati all’idea del matrimonio ma al tempo stesso tuffati in
un’atmosfera romantica alimentata dalle loro letture. In altri tempi il mito svolse una funzione
civilizzatrice, ordinando l’anarchia latente nelle categorie morali, ma proprio per questo il mito si è
abbassato insieme alle forme sociali nelle quali prese forma. Se oggi tentasse di ricomporsi non
troverebbe le resistenze necessarie a mascherarlo perché gli obblighi sui quali il matrimonio si
fondava si sono ormai allentati. Questi obblighi sono sacri, sociali e religiosi: i primi e i loro riti
hanno oggi perso quasi tutta la loro importanza, e ciò emerge nella mancanza di bisogno nelle
coppie di sposarsi in Chiesa; i secondi stanno passando in secondo piano e la fuga rappresentata dal
viaggio di nozze lascia emergere la volontà della coppia di vivere il loro amore in una sfera

21
prevalentemente privata; i terzi sembrano non fare più testo di conseguenza al crollo degli obblighi
sacri, tanto che anche l’adulterio sembra aver perso il suo carattere indecente.
In definitiva, non sussiste più un conflitto fra due morali distinte e ostili, dunque, non più mito.
2. Idea moderna di felicità
Non trovando più basi solide negli obblighi prima descritti, il matrimonio non può ora basarsi che
su determinazioni individuali, su un’idea individuale di felicità che è, o dovrebbe essere, uguale per
entrambi i coniugi. Ma questo ideale di felicità viene spesso confuso col benestare economico,
costituendo un modello difficilmente irraggiungibile che segna dunque in partenza l’infelicità della
coppia: nel lungo percorso di raggiungimento di questo ideale di felicità si spera nell’arrivo di una
breve e fugace passione che possa ravvivare la noiosa vita matrimoniale senza, però,
comprometterla. O noia rassegnata o passione: ecco il dilemma che l’idea moderna di felicità
introduce nelle nostre vite, causando inevitabilmente la rovina del matrimonio in quanto istituzione
sociale stabile per eccellenza.
3. “Amare è vivere!”
A partire dal dodicesimo eccolo, amare è diventato sinonimo di nobiltà d’animo, elevazione morale
al di sopra delle leggi: chi ama accede a una più alta umanità, tanto che i trovatori accedevano
socialmente al livello dell’aristocrazia. Oggi, la vincitrice di un concorso di bellezza ha più
probabilità di sposare qualcuno di ricco e socialmente importante: è una moderna di “adattamento”
che sancisce il primato dell’amore sull’ordine socialmente stabilito.
Che la passione profana sia un’assurdità ancora oggi tutti sono disposti a riconoscerlo, ma
nell’epoca di film e romanzi nessuno può più crederlo: il moderno atteso una passione che possa per
lui essere rivelatrice su se stesso o sulla vita in generale (ultimo sentore della mistica primitiva). La
passione è sempre avventura, il quid che cambierà la vita, l’orizzonte del possibile che si spalanca e
un destino che si arrende and desiderio: un’illusione di pienezza. Libero è l’uomo che possiede se
stesso ma, al contrario, l’uomo della passione cerca di essere posseduto, gettato fuori di sé
nell’estasi. A condurlo è la sua nostalgia che si configura come origine e meta. Il passionale è colui
che vuole trovare il suo tipo di donna e non amare che quella, corrispondente all’immagini della
madre: oggi un uomo che prende una cotta per una donna non corrispondente agli standard di
bellezza viene preso per nevrastenico, e l’influsso della bellezza standard di ogni epoca è duplice in
quanto essa definisce in precedenza l’oggetto della passione, categorizzandolo in uno schema fisso
ed escludendo il matrimonio se la sposa non vi si addice, dunque la libertà della passione dipende
dalle statistiche pubblicitarie, mentre l’uomo crede ancora di desiderare un tipo di donna che è solo
suo.
4. Sposare Isotta?
Supponiamo che l’uomo trovi un compromesso fra ciò che ama e ciò che il film lo persuade ad
amare: riconosce la donna dei suoi desideri, ma è sposata; se ella divorzia, potranno sposarsi ed
essere felici. Ma, una volta saziato, l’amante amerà ancora la sua Isotta quando l’avrà sposata?
Isotta è sempre oggetto di nostalgia, straniera, la donna-da-cui-si-è-separati per eccellenza:
possedendola la si perde. Ci si mette quindi all’opera per ravvivare la passione, creando un nuovo
ostacolo per poter desiderare nuovamente: solo il dolore ha il potere di rendere cosciente la
passione, ecco perché amiamo soffrire e far soffrire (spada snudata). Il marito non può ora
desiderare la donna che ormai è sua senza immaginarla come sua amante: entrambi sono vittime di
un mito il cui orizzonte mistico si è chiuso da tempo. Bisognava che Isotta fosse l’Impossibile
perché ogni amore possibile ci riporta questi vincoli, ci riconduce entro i limiti dello spazio e del
tempo al di fuori dei quali non vi sono “creature”, mentre il solo fine dell’amore non può essere che
il divino: Dio. Ma per colui tormentato dal mito del quale non conosce ancora il segreto, non esiste
alcuna passione se non quella del rinnovato tormento, ma se per Tristano l’infinito era l’eternità
senza ritorno, per il moderno non è altro che il perpetuo ritorno d’un ardore costantemente deluso.
Il mito descriveva una fatalità da cui le sue vittime non potevano liberarsi se non sfuggendo al
mondo finito ma per il moderno, anziché condurre alla morte, esso porta all’infedeltà, in quanto gli
ostacoli sociali cedono troppo presto. Il Tristano moderno scivola dunque verso il tipo opposto,

22
quello del Don Giovanni, l’uomo degli amori a catena che non conosce passioni inaccessibili perché
non desidera ciò che gli resiste.
In senso passionale, dunque, amare risulta il contrario di vivere perché il desiderio porta a volere
qualcosa che nel presente è assente: per tristano amare di amore-passione voleva dire vivere, perché
la vita che egli invoca coincide con la morte, ma oggi quest’ultima non è più trascendente, solo una
lenta consumazione. In questa luce, il successo di romanzi e film non testimonia altro che una
malattia dell’essere, che impone agli autori di operare degli stratagemmi per conservare la passione
ormai troppo debole per inventarsi ostacoli segreti. Ecco dunque arrivare la gelosia, che ci porta a
desiderare che l’essere amato ci sia infedele per poterlo nuovamente desiderare, semplicemente
perché le due parti sono incapaci di accettare l’altro nella sua realtà visto che prima di tutto
bisognerebbe accettare se stessi. Si è persa la sola cosa necessaria, la fedeltà: la definitiva
accettazione di un essere in sé, limitato, non funzionale all’autoesaltazione o alla contemplazione,
ma come esistenza incomparabile e autonoma, un’esigenza d’amore attivo.
Ecco a cosa conduce nella psiche dell’uomo contemporaneo la passione: essa distrugge l’idea stessa
di matrimonio, in un’epoca in cui si punta a fondare il matrimonio proprio su quei valori elaborati
da un’etica della passione. Per quanto confusa, dunque, l’impronta del mito è sempre lì, a
tormentare le coppie che non riescono d accettare la limitazione autoimposta attraverso il
matrimonio.
L’ambizione delle precedente analisi si riassume in questo: prendere coscienza della natura del
fenomeno.
5. Dall’anarchia all’eugenetica
L’anarchia portata dal mito e che permane comunque nel matrimonio costituisce una minaccia per
ogni ordine sociale, dunque questa istituzione sembra aver bisogno di essere “restaurata” e due
momenti sono adatti a descrivere tale tentativo: quello della Russia successiva alla rivoluzione e
quello della Germania nazista. Vent’anni dopo la rivoluzione bolscevica la dittatura operò un
“raddrizzamento dei costumi” a partire dalla restaurazione della base della società, ovvero al
famiglia, in modo da contrastare proprio la passione. Lo Stato agì attraverso una serie di leggi
contro aborto, divorzio e abbandono di bambini nati al di fuori del matrimonio. Queste rigide ed
improvvise restrizioni portarono, nel 1936, a fondare il matrimonio su basi strettamente utilitarie,
collettiviste ed eugenetiche. Le conseguenze di una certa libertà di costumi in Germania vide la
dittatura hitleriana porsi come primo compito quello di superare tale crisi: il bene della collettività
doveva essere l’unico scopo delle coppie, la donna venne privata della sua aureola romantica, venne
tipizzata nell’ideale di donna ariana e si istituì che i matrimoni dovessero avvenire solo in nome
dello Stato e secondo criteri eugenetici e statistici, indipendentemente da gusti individuali e
passioni. Se si considera lo stato attuale della gioventù e dei loro costumi, sicuramente sia gli intenti
staliniani che quelli hitleriani hanno fallito, anche se la tentazione totalitaria sussiste e potrebbe
riuscire solo nel momento in cui il bisogno artificiali di passione dovesse definitivamente venir
meno.
6. Senso della crisi
Nessun’altra civiltà ha dato tanta pubblicità quotidiana all’amore in quanto “romance” attraverso
schermo, giornali, canzoni e immagini come quella americana, e nessuno come lei ha tentato di far
coincidere matrimonio e amore basando il primo sul secondo.
Ma la caratteristica che costituisce il matrimonio è quella della durata, da qui un primo elemento di
crisi: l’amore è per definizione instabile, e il tasso di divori in America lo dimostra. Il romance vive
di ostacoli, brevi eccitamenti e separazioni, mentre il matrimonio è fatto di consuetudini e vicinanza
quotidiana, è dunque logico che si decida di divorziare per cercare un nuovo amore e, con lui, una
nuova promessa di felicità. In questo senso, negli USA il divorzio assume un carattere meno
disastroso di quello che ha invece in Europa, per via di uno spostamento d’accento: non più rottura
ma nuovo inizio.
Ma se si è nemici dei compromessi, sposarsi è contraddittorio. Ora divorziare è molto facile, ma
anche sposarsi lo è; il matrimonio, che si basava sulle convenzioni sociali e, dal punto di vista
dell’individuo, sul caso, offriva comunque possibilità che l’amore potesse nascere, ma la svolta
23
occidentale verso l’individualizzazione delle decisioni è irreversibile. Altro attore importante nella
crisi del matrimonio è l’emancipazione della donna ma, più in generale, è la complessiva
evoluzione della psiche moderna che porta gli uomini e le donne a pretendere di più dall’altro e dal
loro rapporto. Ma cosa dice, dunque, questa crisi su di noi? Che non bisogna ne cercare di
contrastarla né di ignorarla, ma è necessario ricercare un nuovo equilibrio nella coppia.

Libro VII
L’amore azione o della fedeltà
1. Necessità di un partito preso
La passione vede l’uomo commettere il torto più grave: la scelta della morte contro la vita, e non
per via di un errore, bensì per una decisione. Per evitare questo è necessario che l’uomo venga
ucciso in maniera diversa del modo che lui vorrebbe, e di sterilizzare la cultura dal culto della
passione se ne occuperà lo Stato. L’uomo non può forse riconoscere in maniera consapevole i propri
reconditi desideri, ma può almeno riconoscere le sue azioni e le loro conseguenze: ecco cosa de
Rougemont si propone di fare in questa sezione.
2. Critica del matrimonio
Se da un lato la ragione non sembra legittimare la passione, dall’altro neanche il matrimonio sembra
esserne sorretto: la famosa pace del focolare non esiste. Nel passaggio da stadio estetico a stadio
etico e, in ultimo, a stadio religioso, Kierkegaard condanna il matrimonio in quanto istituzione che
ci vincola al tempo laddove la fede richiede, invece, eternità. L’amore del peccatore per Dio è
essenzialmente infelice e questa passione cristiana è la sola verità, dalla quale tutti i doveri umani
non fanno che distoglierci. Il matrimonio limita dunque la nostra tensione alla perfezione: se non la
si può raggiungere, tanto vale ribellarsi contro la propria condizione di creatura. Ma divenendo
consapevoli della nostra limitatezza, allora si che si potrà cercare di raggiungere quell’equilibrio
nell’imperfezione che il matrimonio richiede anche se si tratta di uno sforzo arduo.
3. Il matrimonio come decisione
Sceglier una donna per tutta la vita significa scommettere, ma la morale borghese impone al giovane
di riflettere prima di prendere qualsiasi decisione, come se la futura felicità della coppia possa
essere in qualche modo valutata e predetta in modo razionale a partire dai presupposti del presente:
se questa concezione è sbagliata a livello logico, lo è ancor di più a livello morale, in quanto si
dissimula il carattere di scommessa che la scelta d’amore possiede, riducendo la decisione a un
“sapere”. La garanzia di un’unione non sta nelle premesse ma nell’accadimento irrazionale di una
decisione presa a dispetto di tutto e che fonda un’esistenza nuova non priva di rischi: sentimentale e
irrazionale non sono sinonimi! Quando un uomo dice “Ho scelto lei così com’è” implica che ha
scelto una donna per condividere la sua vita ed è questa la prova che la ama: solo una decisione del
genere, irrazionale ma non sentimentale, sobria ma non cinica, può dare inizio alla reale fedeltà, che
non è comunque garantita, ma almeno nasce da un seme spontaneo e non forzato.
4. Sulla fedeltà
Si falsa l’etica del matrimonio rendendo al fedeltà un problema visto che dovrebbe, invece, esserne
il fondamentale presupposto. Essa appare agli oppositori del matrimonio qualcosa di imposto,
contro natura, ma non sembra un ostacolo consistente visto che si cerca continuamente di aggirarlo:
si tratta di evadere da ogni impegno concreto, considerato come un’odiosa limitazione.
Al giorno d’oggi la fedeltà è, paradossalmente, non-conformista: nega la comune credenza del
potere rivelatore della spontaneità e si configura come una costruzione che plasma l’uomo, il quale
è in questo senso inteso come un’opera che si manifesta attraverso la sua graduale creazione della
quale la fedeltà è uno dei criteri. Persona, opera e fedeltà: tre parole non separabile. Che
presuppongono un’attitudine creatrice. Così la promessa della fedeltà introduce la possibilità di fare
un’opera e di innalzarsi sul piano ella persona. Ma siamo capaci di immaginare un raggiungimento
della grandezza che passi per qualcosa di non romantico e di non straordinario? La fedeltà, in
questo senso, si configura come una follia sobria e quotidiana che comunque mina la ragione
secondo una paziente applicazione.

24
Anche Tristano fu fedele, ogni passione lo è: quando egli affronta le prove d’iniziazione la fanciulla
che lo accoglie gli dice “Io sono te stesso!”, e questo perché la fedeltà nella passione si configura
come un narcisismo mistico e inconsapevole convinto, però, di essere vero amore per l’altro.
Tristano non ama Isotta ma l’amore stesso, al di là del quale l’unica liberazione è la morte: è alla
sua recondita passione e non ad Isotta che Tristano è fedele. Il mito si impadronisce dell’istinto di
morte e lo trasfigura assegnandogli uno scopo spirituale: distruggere se stessi e la propria felicità in
vista di uno dopo superiore, una fedeltà che consuma la vita ma anche la colpa, divinizzando l’io
purificato.
Ma se la fedeltà cortese non era vincolata al mondo terreno, il matrimonio lo è strutturalmente,
dunque questa fedeltà richiede un ritorno al reale, mentre per il cavaliere e la sua dama essa era pura
evasione. Nel matrimonio è all’altro che la fedeltà è innanzitutto votata, e l’altro viene accettato
così com’è, nella sua intima singolarità: la fedeltà nel matrimonio non può che essere azione, in
quanto mira al bene dell’essere amato e si fa di tutto per garantirlo, e questa azione di felicità che
passa per l’amato ritorna inevitabilmente sull’amante per il quale la gioia dell’altro è appunto gioia
anche per se stesso, ecco il duplice traguardo dell’amore-azione.
L’amore di Tristano e Isotta era l’angoscia di essere due, dunque se uno perisce l’altro smette di
soffrire, mentre l’amore del matrimonio è la fine dell’angoscia, l’accettazione dell’essere limitato e
l’alleanza tra i due, dove l’uno vuole il bene per l’altro e viceversa, ecco il miracolo del matrimonio.
5. Eros salvato da Agapé
L’amore cristiano, l’Agapé, è l’affermazione dell’essere in atto, al contrario dell’Eros pagano: è
stato il secondo a glorificare e idealizzare l’istinto di morte (“Io non voglio la morte del peccatore,
ma la sua vita.”. Agapé sa che la vita terrestre non merita di essere né adorata né uccisa, ma può
venire accettata nell’obbedienza, perché è qui che ci giochiamo la nostra sorte.
L’uomo naturale non poteva immaginarlo perché condannato a credere in Eros, ma l’uomo che
crede alla rivelazione dell’Agapé vede ad un tratto il cerchio aprirsi, perché ora può sperare
nell’altro. L’Eros non è più un dio ma neanche un demone, ritrovando il suo giusto posto
nell’economia provvisoria della Creazione e dell’umano.
Di Eros il pagano non poteva fare che un dio che diviene però il peggior nemico della vita, ma da
quando il Verbo si è fatto carne e ci ha parlato con parole umane abbiamo capito che l’uomo non
deve liberarsi da solo in quanto Dio lo ha amato per primo, e la salvezza non si trova più al di là
della vita ma si conquista in essa. In questo senso, cessiamo di divinizzare il desiderio in quanto
passaggio per una rivelazione superiore ed esso perderà il suo potere assoluto, e questo è la fedeltà
ad attestarlo. Il cristianesimo proclama inoltre la perfetta uguaglianza dei sessi, dunque l’uno non
può essere lo scopo dell’altro: affinché l’amore sia reciproco è necessario che ci sia uguaglianza tra
i due, che devono trattarsi a vicenda in quanto persona umana totale. Questa fedeltà verso una
donna porterà a considerare anche le altre donne in modo nuovo e sconosciuto nel mondo dell’Eros:
come persone, e non più come dei riflessi o degli oggetti.
Con l’accrescere della fedeltà l’influenza esercitata dal mito diminuisce in proporzione: essa si
salvaguarda da sola contro l’infedeltà semplicemente perché abitua a non separare più amore e
desiderio. L’amore selvaggio naturale si manifesta nell’atto del violare di chi non è in grado di
concepire la realtà della persona nella donna e spersonalizza le relazioni umane: per contro, l’uomo
che si domina non lo fa per mancanza di passione ma proprio perché ama e, in virtù di questo
amore, rifiuta di imporsi, rifiuta una violenza che nega e distrugge la passione, provando
innanzitutto che vuole il bene dell’altro. Si tratta di una rivoluzione: il matrimonio diventa ora
l’istituzione che disciplina la passione non più con la morale, ma con l’amore.
6. Paradossi dell’Occidente
La conoscenza del conflitto fra Eros e Agapé porta a smentire diversi luoghi comuni: innanzitutto
non è stato il cristianesimo a far nascere la passione, ma un’eresia orientale; l’amore-passione non è
l’amore ma piuttosto il sottoprodotto della religione manichea in complicità con le nostre vecchie
credenze. Il famoso dinamismo occidentale ha dunque due sorgenti diverse, ma questo dinamismo è
invertito in quanto legato tanto alla passione quanto alla guerra. Altro aspetto del dinamismo
occidentale è il nostro genio tecnico, un’attitudine che è in antitesi alla passione in quanto è
25
un’affermazione del valore delle cose create. Ciò ha portato ad un’ulteriore confusione in quanto si
è spesso pensato che la guerra e la sua crudeltà aumenti di pari passo con il progresso tecnico, ma
dalla Rivoluzione in poi la guerra diventa nazionale ed è la passione, traslata dall’individuo alla
collettività, a guidarla. Questa paradossale unione tra forze creatrici e forze di morte snaturerà tanto
la guerra quanto il genio tecnico in quanto la guerra meccanica spegne del tutto la passione,
elemento dal quale nacque. È chiaro che non è il cristianesimo il responsabile della catastrofe, ma lo
spirito manicheo. Dovremmo concludere che la passione sia la tentazione orientale dell’occidente?
Sicuramente, quella passione nata in oriente non trovò lì tanti ostacoli quanto nel vicino occidente, e
paradossalmente furono proprio questi ostacoli ad alimentarla: ma ciò che produce la vita produce
anche la morte, basta che un accento si sposti perché il dinamismo cambi di segno.
L’Occidente cristianizzato si distingue dall’Oriente per il suo potere di approfondire la conoscenza
dell’altro in quanto tale, nella sua singolarità: questo atteggiamento definisce le condizioni profondo
della fedeltà, della persona e del matrimonio, dunque, la rinculai alla Lione in funzione
dell’accettazione del diverso. Il cristiano prende il mondo com’è e non come potrebbe essere.
Se si dimentica questo fondamentale atteggiamento, ecco che l’istituzione matrimoniale va in crisi.
7. Al di là della tragedia
La conoscenza di questi pericoli, ci fa intravedere la possibilità di superarli: non si conoscono che i
problemi dei quali si intuisce una soluzione.
Un primo tema per questo superamento ci viene dal radicale atto compito da Kierkegaard che in
nome del passaggio allo stadio religioso lascia la sua fidanzata Regina. Questo “cavaliere della
fede” non ha nulla di sovrumano, ma ciononostante ha rinunciati a tutto con rassegnazione e in
seguito lo ha recuperato tutto ma in virtù dell’assurdo: il vertice della passione apre ad una vita
nuova ma non al di là di questa vita, bensì a partire dall’azione obbedienza che la vita e la fedeltà
terrene richiedono. Vivere, dunque, come tutti ma in virtù dell’assurdo: Kierkegaard non recuperò il
mondo finito ma solo la coscienza di averlo perduto: non smise mai i amare Regina e di dedicarle la
sua opera.
Il secondo tema lo troviamo nell’analogia tra la passione e la fede: la passione, nata dal desiderio
caduco di amore mistico, non può essere superata se non attraverso l’incontro con l’altro, che lo
porta a vedere non solo l’altro ma anche se stesso in quanto entità distinta che può però instaurare
un’alleanza e iniziare un vero dialogo con l’altro. La nostalgia viene colmata dalla presenza e
l’uomo può finalmente accettare se stesso e l’altro: ecco che il matrimonio è possibile. Ovviamente,
le persone unite in matrimonio non sono sante, tutti noi siamo sempre impegnati nel combattimento
fra la matura e la grazia, prima felici, poi infelici, ma l’orizzonte non è più lo stesso, perché la
fedeltà ci svela che dopo la tragedia c’è nuovamente la felicità, la quale trasforma il mondo.

26

Potrebbero piacerti anche