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1.1. Introduzione
Un’organizzazione è un’istituzione o un ente costituito da uno o più soggetti associati per il
conseguimento dei loro obiettivi, all’interno del quale si sviluppa un processo produttivo di beni e servizi
destinati a soddisfare una domanda. Gli enti così definiti assumono la denominazione di aziende e sono
caratterizzati da:
1 la presenza di un processo di trasformazione di una serie di input in output;
2 una dimensione organizzativa, che può essere semplice o complessa;
3 la gestione basata sul principio di economicità, ossia della continua ricerca della massima efficacia
ed efficienza.
Le aziende di produzione nelle quali il perseguimento della redditività, ossia di un margine positivo tra costi
e ricavi, viene ad assumere una rilevanza primaria, vengono denominate imprese. Questa distinzione porta
ad una prima classificazione delle aziende:
1 aziende profit: le imprese, le quali hanno come obiettivo principale lo scopo di lucro;
2 aziende non profit: nelle quali assume maggiore rilevanza un obiettivo di ordine sociale o morale.
Una seconda classificazione può essere fatta in base alla natura del soggetto proprietario; possiamo quindi
distinguere:
1 aziende private: controllate da soggetti privati;
2 aziende pubbliche: controllate da enti pubblici (Stato, regione, comuni…);
3 aziende miste: nelle quali il controllo è condiviso da parte privata e da parte pubblica.
Generalmente il criterio mediante il quale si stabilisce se un’azienda è pubblica, privata o mista è quello del
possesso della maggioranza del capitale.
1.4. Gli assetti istituzionali delle imprese: i principali modelli nel contesto
internazionale
Da un punto di vista internazionale assume un rilievo particolare la globalizzazione del mercato dei
capitali, ossia quel fenomeno per cui il capitale diventa una risorsa sempre più fluida e mobile, libera di
muoversi nel contesto internazionale. Questa maggiore mobilità dei capitali produce principalmente due
effetti:
1 un’intensificazione della concorrenza fra imprese nei confronti della risorsa capitale (concorrenza che
coinvolge quindi tutte le imprese);
2 una maggiore specializzazione dei soggetti responsabili dell’allocazione del capitale.
In particolare l’impresa dovrà dimostrare al mercato finanziario la propria capacità di creare valore, infatti è
in base a questo che il mercato deciderà se apportarvi o meno il proprio capitale di rischio. In questo
contesto assume quindi un’importanza centrale la corporate governance, ossia il sistema di norme e
vincoli che regolano i rapporti tra azionisti e management e che cercano di tutelare gli interessi dei primi.
Infatti la capacità di un’impresa di generare valore discende proprio dal modello di governance adottato.
Lo sviluppo storico, le tradizioni culturali e politiche, i sistemi giuridici in materia di diritto societario hanno
contribuito a delineare i tratti specifici dei diversi modelli di governo che oggi contraddistinguono i vari
paesi del mondo. Vediamo ora i principali modelli, che sono quello anglosassone, quello tedesco e quello
giapponese.
Appendice
Il valore del capitale economico e i valori globali
di misurazione dell’efficienza aziendale
Seppure con i suoi limiti, il bilancio costituisce il supporto fondamentale per misurare le performance
aziendali. Ovviamente le informazioni in esso contenute devono essere rielaborate attraverso alcuni
interventi:
4 riclassificazione: riorganizzazione dei valori contenuti nello Stato Patrimoniale e nel Conto
Economico;
5 indici di bilancio: comparazione dei valori o degli aggregati ottenuti con la riclassificazione;
6 analisi dei flussi e costruzione del rendiconto finanziario: lettura finanziaria e monetaria dei
fenomeni aziendali avvenuti nell’esercizio.
Il valore della produzione rappresenta la valorizzazione del volume di attività produttiva. Se a questo valore
sottraiamo tutti i costi esterni, otteniamo il valore aggiunto. Se al valore aggiunto togliamo i costi interni
otteniamo il reddito operativo della gestione caratteristica. Prima di arrivare a questo risultato possiamo però
evidenziare un altro indicatore: togliendo al valore aggiunto i soli costi del personale otteniamo il margine
operativo lordo (MOL). Se il MOL è positivo significa che la gestione caratteristica ha generato capitale
circolante netto, se è negativo significa che lo ha distrutto.
I risultati delle gestioni complementari accessorie rappresentano il risultato netto ottenuto dall’investimento
di surplus monetari. Comprendono gli interessi attivi, i dividendi, i fitti attivi e tutti i costi relativi a queste
voci.
La gestione straordinaria comprende invece voci occasionali, quali plusvalenze e minusvalenze.
Si ricorda che:
SP CE
RF = RF
F.di amm.to ≥ Quote amm.to
F.do TFR ≥ Acc.to TFR
Utile/perdita d’esercizio = Utile/perdita d’esercizio
Esercizio
Di seguito si riporta l’esame della solidità, redditività e liquidità della Alfa S.p.A. sulla base della situazione
patrimoniale ed economica (relativa all’esercizio 1.1.2002 – 31.12.2002) riportata nelle tabelle n. §1 e n. §2 (i
valori sono espressi in euro).
Tabella n. 1 – Situazione patrimoniale
Attivo Passivo
Fabbricati 290.000,00 Debiti V/ fornitori 74.300,00
Impianti 60.000,00 Cambiali passive 4.900,00
Arredamento 18.000,00 Erario c/ ritenute 4.300,00
Attrezzature ufficio 27.000,00 Istituti previdenziali 5.900,00
Automezzi 45.000,00 Debiti vari 19.300,00
Avviamento 10.000,00 Fondo liquidazione personale 51.800,00
Crediti verso clienti 120.000,00 Fondo Imposte 50.550,00
Cambiali attive 57.000,00 Fondo rischi generici 6.000,00
Effetti allo sconto 3.000,00 Fondo svalutazione crediti 6.240,00
Effetti all'incasso 12.000,00 Mutui passivi a medio termine 40.000,00
Effetti insoluti 2.000,00 Fondo ammortamento fabbricati 46.600,00
Erario c/ IVA 5.660,00 Fondo ammortamento impianti 21.400,00
Crediti per cauzioni 6.000,00 Fondo ammortamento arredamento 18.000,00
Personale c/ contributi anticipati 660,00 Fondo ammortamento attrezzature 12.090,00
Cassa 2.140,00 Fondo ammortamento automezzi 34.000,00
C/C postale 9.800,00 Capitale sociale 400.000,00
Banche C/C attivo 12.900,00 Fondo riserva ordinario 38.774,00
Rimanenze Finali 270.000,00 Fondo rivalutazione monetaria 52.000,00
Avanzo utili 1.652,00
Utile/perdita 63.354,00
AC 494.920
= = 2,99
Indice di liquidità corrente = PC 165.250
Il secondo indicatore è il margine di tesoreria (ed il relativo indice di liquidità: indice di liquidità normale):
Margine di tesoreria = Disponibilità differite + Disponibilità liquide – Passivo corrente = = 200.080
+ 24.840 – 165.250 = 59.670
Disp.Differite + Disp.Liquide 200.080 + 24.840
= = 1,36
Indice di liquidità normale = Passivo.Corrente 165.250
L’ultimo indice di liquidità esaminato è l’indice di liquidità immediata:
Disp.Liquide 24.840
= = 15,03%
Indice di liquidità immediata = Passivo.Corrente 165.250 3. LA GESTIONE
STRATEGICA: LA STRATEGIA
3.1.1. Introduzione
Come già detto alla fine del capitolo 2, il valore potenziale del capitale economico è dato dalla somma del
valore odierno del capitale economico e del valore delle opportunità di crescita (v. p. 24). In particolare:
1. il valore odierno del capitale economico è determinato da:
1 tasso di capitalizzazione i;
2 reddito medio normale atteso R;
3 durate media n attribuibile a tale reddito;
2. la possibilità di creazione di nuovo valore è legata a tre variabili:
4 tasso di profitto (spread) dato dalla differenza ROE – i;
5 durata n del profitto stesso;
6 tasso potenziale di crescita degli utili annuali g.
La teoria di creazione del valore implica che la ricerca delle opportunità di sviluppo del capitale
economico sia continua e sistematica.
Questa ricerca può essere indagata con il ricorso al modello del pentagono: il modello in esame identifica
una sorta di percorso imprenditoriale virtuoso, costituito da cinque elementi il cui scopo primario è quello
di colmare il divario tra il valore economico aziendale, dato un indirizzo strategico, e il suo valore
massimizzante, raggiungibile al termine del percorso.
Il punto di vista del modello del pentagono non corrisponde a quello del management, bensì a quello del
conferente del capitale di rischio, quindi all’azionista.
CORPORATE
I livello In quale settore operare? S. di portafoglio
STRATEGY
BUSINESS
II livello Come competere? S. competitiva ASA
STRATEGY
La corporate strategy e la business strategy sono fortemente collegate tra di loro in quanto le decisioni riguardo al
settore in cui operare e al modo in cui competere sono ovviamente correlate. Le strategie funzionali
rappresentano invece l’elaborazione della business strategy a livello di singole funzioni operative
(produzione, ricerca e sviluppo, marketing…).
Nello schema che segue vediamo una rappresentazione delle tre strategie e dei loro collegamenti. Per alcuni
studiosi la corporate strategy può essere equiparata alla strategia di portafoglio, che ha il compito di analizzare
le aree strategiche d’affari (ASA) nelle quali è presente l’impresa al fine di individuare quelle da
implementare e quelle da eliminare. La corporate strategy, però, non si limita a questo tipo di analisi, anche se
la strategia di portafoglio rimane al suo interno la tematica più importante. Ad essa infatti si affiancano la
strategia economico-finanziaria, quella organizzativa e quella sociale.
La business strategy individua le diverse strategie competitive da attuare in funzione di ogni ASA, mentre le
strategie funzionali rendono possibile l’applicazione delle diverse strategie competitive in termini di
produzione, marketing e ricerca e sviluppo.
QUESTION
STAR
MARK
alto
tasso di sviluppo
del mercato
basso
alta bassa
quota di mercato relativa
Le ASA Star garantiscono una crescita elevata dell’impresa grazie alla consistente quota relativa di mercato
detenuta in un mercato in grande sviluppo; tuttavia assorbono anche ingenti risorse finanziarie.
Le Cash Cow generano ampi flussi di cassa positivi, dati dall’esperienza maturata nel settore, da un’alta
redditività e da una bassa propensione all’investimento in un mercato ormai stabile.
Le Question Mark assorbono risorse finanziarie perché, essendo posizionate in mercati altamente
competitivi e ad alto tasso di sviluppo, necessitano di ingenti investimenti. Di solito si cerca di spostare
queste ASA in un altro quadrante.
Le Dog producono risultati reddituali negativi ma assorbono anche poche risorse finanziarie a causa delle
ridotte necessità di investimento.
In generale nell’impresa il flusso arriva dalle Cash Cow e deve essere investito nelle altre ASA che rendono
di meno ma possono diventare più proficue. Per raggiungere un equilibrio finanziario generale, l’impresa
dovrebbe bilanciare le ASA che assorbono flussi di cassa con quelle che li creano. La matrice BCG, però,
può essere considerata valida solo nei settori di volume.
3.2.4. Processo di formulazione della strategia
I contributi al processo di formulazione della strategia, ossia le tappe che portano alla definizione di una
strategia, sono costituiti da tre diversi approcci.
La business policy
Per la business policy il processo di formulazione della strategia si fonda sulle seguenti analisi:
1 analisi della situazione esterna: per definire le opportunità e le minacce che derivano
dall’ambiente;
2 analisi della situazione interna: per definire i punti di forza e di debolezza dell’impresa.
Questa analisi viene anche chiamata SWOT, dall’acronimo delle quattro parole inglesi Strenght, Weakness,
Opportunities, Threats.
Learning by doing
Secondo quest’ottica la gestione strategica si configura come un’attività di tipo continuativo basata
sull’apprendimento col fare.
Le strategie reali di Mintzberg
La strategia di Mintzberg si pone a metà strada tra la business policy, che prevede un’attività totalmente
pianificata, e il processo learning by doing, che è all’opposto un modello bottom-up. Secondo Mintzberg, infatti,
la formazione della strategia avverrebbe seguendo due strade parallele: una di pianificazione e una
emergente.
La strategia deliberata non coincide con la strategia realizzata perché le azioni di ogni giorno ci portano a
modificare le scelte precedentemente prese per adattarle alle situazioni nuove o ai cambiamenti avvenuti.
La strategia intenzionale è la strategia che viene ideata; se non viene realizzata la situazione dell’impresa
rimane uguale.
3.3. Complessità del processo valutativo
Il capitale economico dell’impresa viene in genere determinato attraverso l’applicazione di formule ed
algoritmi che conducono ad una misurazione del valore; questa misurazione ha però dei limiti determinati:
1 dalla razionalità limitata del valutatore, il quale non ha a disposizione tutte le variabili di cui avrebbe
bisogno;
2 dalla crescente complessità dell’ambiente economico di riferimento, che è globale e non più locale.
Come conseguenza questi limiti portano all’introduzione del Giudizio Integrato di Valutazione (GIV),
ossia di un processo nel quale le formule di valutazione vanno inserite in un ampio quadro di informazioni
e di conoscenze, in parte non quantitative, che si collegano e si integrano vicendevolmente.
4.1. Introduzione
La strategia di business costituisce il fulcro dell’attività di gestione dell’impresa e molti dei concetti relativi a
questa strategia sono fondamentali anche per la comprensione delle questioni strategiche riferite al livello
corporate e a quello funzionale.
La business strategy, o strategia competitiva, è costituita dall’insieme delle scelte e delle azioni mediante le
quali l’impresa persegue la realizzazione, il consolidamento e la difesa di una posizione di vantaggio
nell’ambito concorrenziale in cui opera. Nel caso di imprese multibusiness andranno formulate tante
strategie competitive quante sono le aree strategiche d’affari nelle quali l’impresa compete.
La formulazione della strategia competitiva deve considerare:
1 l’ambiente esterno, del quale fanno parte quei fattori che definiscono il grado di attrattività del
campo d’azione in cui l’impresa ha scelto di operare;
2 l’ambiente interno, che comprende i fattori che determinano il vantaggio dell’impresa rispetto ai
rivali operanti nello stesso ambito competitivo.
Sistema politico-istituzionale
Sis
te
ma
soc
io-
de
mo
gra
fic
o
Sis
tem
a
soci
o-
de
mo
gra
fico
Sistema economico
Anche in questo modello, però, le variabili da tenere in considerazione sono numerose, quindi diventa
indispensabile distinguere tra le variabili che sono di vitale importanza e quelle che invece non lo sono.
In particolare il nucleo centrale dell’ambiente esterno è formato dalle relazioni dell’impresa con tre soggetti:
1 clienti: sono importanti perché il conseguimento della redditività richiede che l’impresa crei valore
per i propri clienti, le cui esigenze devono essere adeguatamente comprese;
2 fornitori: la creazione di valore per i clienti implica che l’impresa acquisti beni e servizi dai fornitori,
le cui dinamiche e caratteristiche vanno conosciute anche al fine di creare rapporti di collaborazione;
3 concorrenti: la capacità di generare redditi dipende dall’intensità della concorrenza fra le imprese che
competono per lo sfruttamento delle medesime opportunità; quindi è di vitale importanza
comprendere il gioco competitivo.
Il fatto che questi siano i più importanti fattori esterni non implica che gli altri (tendenze generali
dell’economia, dinamiche politiche, sociali…) non siano importanti.
Lo schema proposto rende possibile la misurazione della redditività media di un determinato ambito
competitivo, la quale è la risultante del condizionamento esercitato dalle cinque forze concorrenziali; infatti
queste forze possono influenzare alcune quantità economiche delle imprese operanti in un determinato
ambito competitivo.
Inoltre, il diverso atteggiarsi delle forze concorrenziali concorre a definire il grado di attrattività di un
determinato ambito competitivo, inteso come potenziale di redditività dell’ambito stesso. In particolare
esiste una relazione inversa tra le cinque forze e l’attrattività: maggiori sono le forze concorrenziali, minore
è l’attrattività del settore.
Nella concezione di Porter l’intensità di ciascuna forza è funzione di una serie di variabili strutturali, ossia
connesse alle caratteristiche tecniche, economiche e all’attività del settore, e da variabili comportamentali, come
la propensione di un settore verso una competizione più o meno aggressiva.
Vediamo ora le cinque forze concorrenziali e le componenti che le caratterizzano.
Nel grafico della curva di Lorenz va disegnata la linea di equidistribuzione, che corrisponde alla situazione in
cui tutte le imprese detengono la stessa quota della variabile misura nell’asse delle ascisse (ad esempio se la
variabile misura è la dimensione, tutte le imprese hanno la stessa dimensione). Quanto più la curva di
Lorenz si allontana dalla linea di equidistribuzione, tanto maggiore è la concentrazione; l’area (grigia)
compresa tra la curva e la linea viene denominata area di concentrazione. Quanto più la curva è “panciuta”,
come le curve grigie, tanto più il settore è concentrato.
Dalla curva di Lorenz si ricava l’indice di concentrazione o coefficiente di Gini, che corrisponde al rapporto tra
l’area di concentrazione e l’area totale sottostante la diagonale. Questo indice può assumere valori da 0 a 1.
Nonostante la concentrazione parziale e la concentrazione complessiva siano correlate, alcune decisioni
aziendali possono dare luogo a mutamenti di segno opposto nei due indici, ad esempio una fusione tra
imprese dello stesso settore.
Il tasso di crescita del settore
Settori caratterizzati da un basso tasso di crescita presentano generalmente una maggiore rivalità tra i
concorrenti, minori opportunità di redditività nel lungo periodo e pertanto una minore attrattività. Il
rallentamento del tasso di sviluppo si verifica con l’ingresso dei settori nella fase di maturità del loro ciclo di
vita.
La differenziazione del prodotto
Con l’espressione differenziazione del prodotto si fa riferimento alla capacità dell’impresa venditrice di
sviluppare un prodotto con caratteristiche di distinzione tali da renderlo nettamente preferibile ad altri
prodotti della concorrenza.
Nel caso in cui il prodotto non sia differenziabile si entra nella così detta sindrome da commodity, che sfocia
nella guerra dei prezzi. Anche per i beni non differenziabili, però, esiste sempre un’opportunità di
vantaggio competitivo: se non si può differenziare il bene in quanto tale si possono migliorare i servizi
accessori come l’assistenza, le condizioni di consegna ecc. Al contrario in quei settori in cui i prodotti sono
fortemente differenziati (come l’abbigliamento o i cosmetici), la concorrenza sui prezzi tende ad essere
debole anche in presenza di un grande numero di concorrenti.
Sovraccapacità produttiva e barriere all’uscita
L’intensità della competizione è influenzata anche dal rapporto esistente tra dimensione della domanda e
dimensione dell’offerta. Quando le imprese si trovano costrette a non sfruttare tutta la capacità produttiva
di cui si sono dotate, sopportandone quindi i costi fissi, sono prima o poi stimolate ad abbassare i prezzi,
vendendo talvolta sottocosto, e quindi generando una guerra dei prezzi.
La durata degli effetti negativi derivanti dalla sovraccapacità produttiva dipende dall’altezza delle barriere
all’uscita, ovvero dalla facilità con cui le imprese possono abbandonare il settore e indirizzare le proprie
risorse verso altre attività. Più precisamente le barriere all’uscita sono costituite dall’insieme dei fattori che
trattengono un’impresa all’interno di un settore anche se il tasso di redditività del capitale investito è
modesto o negativo. Questi fattori sono:
1 la priorità strategica assegnata al business: ad esempio si può dare priorità alla posizione detenuta in un
ambito competitivo anche a scapito della redditività;
2 la presenza di impianti altamente specializzati: quindi difficilmente convertibili o liquidabili;
3 l’esistenza di ostacoli politici e sociali: ad es. se parte del capitale appartiene alla sfera pubblica;
4 i costi fissi d’uscita: mantenimento della capacità produttiva per parti di ricambio, oneri derivanti da
contratti di assistenza…;
5 interrelazioni strategiche tra le unità di business.
Oltre alle oggettive barriere all’uscita esistono anche delle barriere emotive, le quali si manifestano quando
la compagine imprenditoriale è restia ad abbandonare un’area d’affari per motivi legati più alla sfera
emotiva (orgoglio, lealtà…) che a fattori oggettivi.
Un altro motivo per cui un’azienda può operare in un settore pur avendo una redditività negativa può
essere il disturbo alla concorrenza. Questa situazione si può verificare nel caso di concorrenti multipli (ossia
che si fronteggiano in più business) e si ha quando un’azienda, vittima di un forte attacco al proprio
business principale, può contrattaccare in un’area che non investe grande interesse in sé ma che è di vitale
importanza per il concorrente. Il disturbo alla concorrenza viene quindi utilizzato per mandare a un altro
concorrente segnali affinché si astenga da un’aggressività esagerata che potrebbe rivelarsi dannosa.
L’esistenza di barriere all’uscita molto elevate contribuisce in misura determinante alla diminuzione del
grado di attrattività del settore.
La struttura dei costi
Quando i costi fissi costituiscono la componente preminente dei costi delle imprese operanti in un
determinato ambito competitivo, le imprese possono essere orientate a perseguire strategie basate sulla
competitività dei prezzi per ampliare i volumi di produzione/vendita e ottimizzare così lo sfruttamento
della capacità produttiva di cui distpongono. La presenza di una rilevante incidenza dei costi fissi comporta
un’innalzamento della quantità di pareggio (volume di produzione al quale i costi eguagliano i ricavi); se
questo livello non viene raggiunto, la reazione più comune è quella di offrire ai clienti condizioni
estremamente favorevoli per sviluppare la domanda. Ma quando tutte le imprese cercano di espandere i
volumi di produzione e di vendita con riduzioni dei prezzi si determina una diminuzione generalizzata della
redditività.
I costi di riconversione
L’intensità della rivalità all’interno di un ambito competitivo è direttamente proporzionale alla facilità con
cui i soggetti di domanda possono passare da un fornitore all’altro per l’approvvigionamento di un dato
prodotto. Se questo passaggio non è così facile, le difficoltà che lo ostacolano sono denominate costi di
riconversione, e i fattori che li generano sono principalmente:
1 la complessità tecnologica del prodotto e delle sue caratteristiche funzionali;
2 l’offerta di una serie di servizi pre e post-vendita personalizzati;
3 la customizzazione del prodotto, ossia la sua progettazione in base alle esigenze del cliente;
4 l’intensità e l’ampiezza delle relazioni fornitore-cliente: la costruzione di relazioni di collaborazione
rende meno agevole il passaggio da un fornitore ad un altro;
5 il grado di limitabilità, trasferibilità e appropriabilità delle competenze tecnologiche di prodotto e di
processo di cui dispone l’impresa;
6 la leadership tecnologica riconosciuta dalla clientela all’impresa.
Elevate
Basse
Basse Elevate
Barriere all’uscita
La situazione ideale è quella caratterizzata da barriere all’entrata elevate e da barriere all’uscita ridotte:
l’entrata nel settore è scoraggiata e i concorrenti sono spinti ad abbandonare il mercato. Nella realtà è però
raro che queste condizioni si presentino contemporaneamente, perché i fattori che concorrono a rendere
elevate le barriere all’entrata fanno salire anche le barriere all’uscita.
La situazione peggiore è invece quella in cui le barriere all’entrata sono basse e quelle all’uscita elevate,
poiché l’entrata è agevole e costituisce una tentazione, mentre la riduzione della redditività rende difficile e
oneroso abbandonare il settore. Quindi la capacità produttiva inutilizzata è di solito alta e il tasso di
redditività basso.
Ampio
Ristretto
Diminuzione dei costi Differenziazione
Vantaggio competitivo
All’interno dello stesso settore possono coesistere tutte e quattro le strategie con combinazioni diverse da
settore a settore. In alcuni, la struttura stessa del settore o le strategie della concorrenza eliminano di fatto
la possibilità di porre in essere una o più strategie di base.
La leadership dei costi
Dispone di un vantaggio competitivo in termini di costi l’impresa che riesce ad operare a condizioni di
costo tali da permetterle di applicare prezzi inferiori a quelli della concorrenza. A meno che non siano in
grado di ridurre rapidamente i propri prezzi, oppure di aumentare il valore della propria offerta, i rivali
sono destinati a perdere terreno a vantaggio dell’impresa leader di costo, la quale otterrà dunque un
aumento delle vendite. Questo aumento si riflette in un incremento della produzione, che permette di
rafforzare ancora di più le economie di scala e quindi i vantaggi di costo: si crea quindi un circolo virtuoso a
favore del leader di costo.
La leadership di costo implica pertanto la capacità dell’impresa di gestirsi in modo tale da conferire ai
prodotti offerti un valore comparabile a quello medio dei concorrenti e, contemporaneamente, da
contenere il costo complessivo di tali prodotti significativamente e durevolmente al di sotto di quello
medio dei rivali.
Per completezza si ricorda che un’impresa può ottenere una redditività superiore alla media anche con
prezzi inferiori alla media del mercato: ciò accade se il divario di prezzo è più che compensato dal divario di
costo. Inoltre il vantaggio conseguente alla leadership di costo non si manifesta solo attraverso la riduzione
del prezzo: l’impresa infatti potrebbe decidere di mantenere il prezzo in linea col mercato, ma avrebbe una
redditività superiore a quella dei rivali perché i suoi costi sarebbero inferiori. In questo modo potrebbe
impiegare la maggiore redditività in ricerca, autofinanziamento, pagamento dei dividendi e così via.
Il vantaggio di costo può costituire una difesa efficace contro le forze concorrenziali per i seguenti motivi:
1 l’impresa può resistere meglio ad un’eventuale guerra dei prezzi e riuscire a conseguire una redditività
soddisfacente anche a un prezzo che per la concorrenza è il minimo applicabile;
2 i bassi costi difendono l’impresa dagli aumenti imposti dai fornitori;
3 i clienti hanno più difficoltà a far abbassare i prezzi al di sotto di quelli praticati dal diretto
concorrente;
4 i bassi costi rappresentano anche una forte barriera all’entrata e una protezione nei confronti dei
prodotti sostitutivi.
La differenziazione
Dispone di un vantaggio competitivo da differenziazione l’impresa che è in grado di realizzare un prodotto
con una o più caratteristiche di unicità alle quali il soggetto di domanda attribuisce un valore tale che accetta
di pagare per esse un premio di prezzo (premium price), ossia un prezzo superiore a quello praticato dagli altri
operatori non differenziati. Quindi maggiore è la differenziazione, minore è l’elasticità della domanda
rispetto al prezzo.
È ovvio che la differenziazione dà luogo ad un vantaggio competitivo solo se i costi che l’impresa deve
sostenere al fine di realizzare le caratteristiche di unicità risultano congruamente inferiori al valore che il
mercato dà a queste caratteristiche. Quindi l’impresa deve assicurarsi che il premium price ottenuto grazie
all’unicità percepita non sia inferiore ai maggiori costi sostenuti per ottenerla.
Il premium price che il mercato assegna alle caratteristiche differenziali dipende sia dal valore reale del bene,
sia dal valore percepito dall’acquirente. Se nel lungo periodo il divario tra i due valori tende ad azzerarsi, nel
breve periodo la gestione efficace dei segnali di valore può costituire una fonte ulteriore di vantaggi
competitivi.
Come nel vantaggio di costo, anche la differenziazione difende l’impresa dalle forze concorrenziali:
1 la differenziazione riduce la sostituibilità del prodotto, accresce la fedeltà della clientela, diminuisce la
sensibilità al prezzo e quindi migliora la redditività;
2 la redditività più elevata permette all’impresa di fronteggiare gli aumenti imposti dai fornitori;
3 la maggiore fedeltà della clientela ostacola l’ingresso di nuovi concorrenti;
4 l’unicità del prodotto e la fedeltà della clientela costituiscono una barriera nei confronti dei beni
sostitutivi.
La focalizzazione
Con la strategia della focalizzazione l’impresa cerca il vantaggio competitivo concentrando gli sforzi su una
porzione della domanda complessiva. In questo modo si mettono a fuoco politiche e servizi atti a
soddisfare nel modo migliore le esigenze della clientela in quel dato segmento.
Dato che in ogni settore esistono diversi segmenti sui quali si può attuare una strategia di focalizzazione, è
possibile la contemporanea presenza di più concorrenti focalizzati. L’idoneità di un segmento allo sviluppo
di strategie di focalizzazione è funzione delle seguenti condizioni:
1 il segmento deve avere delle caratteristiche in termini di esigenze della clientela o di comportamento
dei costi tali per cui le imprese che hanno adottato strategie orientate a operare in un ambito
competitivo ampio hanno registrato, in quel segmento, o una limitata efficacia nel soddisfare i
bisogni della clientela o un eccessivo livello dei prezzi;
2 il segmento deve avere una dimensione sufficiente a giustificare gli investimenti realizzati e i costi
sostenuti per operarvi;
3 il segmento deve essere strutturalmente attrattivo, nel senso che deve presentare una conformazione
favorevole sotto il profilo delle forze concorrenziali.
Il successo ottenuto tramite la focalizzazione può essere minacciato da imprese che perseguono strategie di
differenziazione o di vantaggio di costo su ambiti più ampi, oltre che da comportamenti imitativi posti in
essere da altri operatori del settore.
Compatibilità tra leadership dei costi e differenziazione
Porter afferma che la leadership di costo e la differenziazione sono due strategie competitive
reciprocamente incompatibili, nel senso che è difficile che un’impresa sia in grado di coniugarli insieme con
efficacia ed efficienza. Infatti normalmente l’uno esclude l’altro e il tentativo di perseguirli
contemporaneamente finisce per lasciare l’impresa in una posizione ambigua e quindi insoddisfacente dal
punto di vista economico. In altre parole prima o poi giunge il momento di scegliere tra una delle due
strategie.
Nella realtà, però, non mancano imprese che hanno conseguito il successo grazie alla felice combinazione
delle due strategie (ad es. Benetton). Questo risultato è raggiunto mediante la logica della produzione
modulare, la quale consente di spostare nelle fasi a valle del processo produttivo la fase di
differenziazione, mentre nelle fasi a monte vengono realizzate economie di scala che permettono un
vantaggio di costo.
Un altro modo per conciliare le due strategie è costituito dall’automazione flessibile. Questa logica
consente di ridurre la dimensione media dei lotti di produzione senza pregiudicare il rispetto dei vincoli di
efficienza; in questo modo risulta possibile soddisfare a costi contenuti la varietà di esigenze della domanda.
Oltre all’innovazione nelle tecnologie di produzione, la compatibilità tra differenziazione e vantaggio di
costo può essere realizzata anche adottando nuove filosofie manageriali, in particolare quelle che
comportano una profonda riconfigurazione dei processi di divisione del lavoro tra imprese.
In conclusione, la costruzione del vantaggio competitivo richiede che l’impresa operi sia sul fronte dei
costi, sia su quello della differenziazione.
Alto
Basso
Basso Alto
Grado di specificità degli
investimenti del forntitore
Le relazioni di partnership strategica devono essere utilizzate in particolare per i cosiddetti acquisti strategici,
ossia quei prodotti che rivestono elevata importanza per l’impresa acquirente e per i quali il mercato di
fornitura è complesso e ad alto rischio.
Le relazioni con i clienti
Le sinergie a valle sono ottenibili attraverso collegamenti strutturali con i clienti intermedi e finali. I
distributori possono essere veicolo di acquisizione e trasmissione delle informazioni relative al mercato e
agli acquirenti finali dell’impresa, oltre ad essere importanti per quanto riguarda il servizio post-vendita e la
programmazione della produzione.
La ricerca di relazioni collaborative con i clienti costituisce un’importante fonte di esperienza, conoscenza e
competenza. Queste relazioni assumono ancora maggiore rilievo nei mercati emergenti, nei quali la
collaborazione con i clienti “innovatori” può consentire all’impresa sia una maggiore conoscenza delle
tendenze evolutive dei bisogni, sia il coinvolgimento dei clienti stessi nelle fasi di definizione del prodotto e
del suo sviluppo.
5. LA GESTIONE STRATEGICA A LIVELLO DI CORPORATE
5.1. Introduzione
Le strategie a livello di corporate, ossia a livello aziendale, vengono perseguite dalle imprese che intendono
espandersi e svilupparsi e si sostanziano nella decisione di fare ingresso in nuovi ambiti competitivi, nella
selezione degli stessi, nell’allocazione delle risorse fra i medesimi e nella gestione delle interdipendenze che
essi presentano.
Quindi lo scopo della corporate strategy è quello di ottenere la migliore combinazione possibile dei vari
business tale da permettere uno sfruttamento ottimale delle sinergie che ne scaturiscono.
Un’impresa che opera in più business viene detta impresa multibusiness; l’obiettivo principale che spinge
un’impresa ad operare in più business è quello di ottenere un risultato complessivo migliore rispetto alla
somma dei risultati che potrebbero essere conseguiti nei singoli ambiti competitivi. Infatti l’impresa
multibusiness ha il vantaggio di poter creare sinergie tra i diversi business, ma ha anche il difetto di cadere
nella rigidità.
5.3. La diversificazione
La diversificazione è una strategia per cui l’impresa sceglie di suddividere i propri sforzi operando con un
portafoglio di business tra loro più o meno collegati. La diversificazione consente di dilatare la gamma di
prodotti offerti e di operare in ambiti concorrenziali distinti, con rivali differenti per dimensione e tipologia
o con gli stessi concorrenti, anch’essi diversificati.
È importante non confondere la diversificazione con la differenziazione. Infatti la differenziazione (v. p.
64) è una strategia di business che modifica il grado di sostituibilità dei prodotti offerti, rendendoli unici
rispetto a quelli dei concorrenti. La diversificazione, invece, non riguarda i prodotti, bensì i business, cioè gli
ambiti in cui l’impresa vuole inserirsi.
Dove:
1 m è il numero di business con dimensioni maggiori in cui l’azienda è presente;
2 Qi è la quota di domanda del business i-esimo in cui opera l’impresa.
Un altro indice al quale si può ricorrere è l’indice di Hirschman-Herfindhal così calcolato:
n
H = ∑ Qi2
i =1
Dove n è il numero totale di business in portafoglio. Questo indice, a differenza del precedente, considera
tutte le aree del portafoglio aziendale e attribuisce un peso proporzionalmente inferiore ai business con
quote inferiori (è questo infatti l’effetto dell’elevamento al quadrato).
Infine può essere utilizzato anche l’indice di Gini, con modalità simili a quelle viste per il calcolo della
concentrazione di un settore (v. p. 49).
∑VA i
Iv = i
n
∑F i
i per un settore
Questo indice presenta però delle lacune.
6.1. Introduzione
La creazione del valore implica la capacità dell’impresa di acquisire un vantaggio competitivo duraturo e
difendibile. Questo vantaggio deve essere ricercato nei confronti dei concorrenti, ma è la domanda che,
con le proprie scelte, sancisce il successo o l’insuccesso delle strategie aziendali. Quindi è fondamentale per
l’impresa conoscere approfonditamente la domanda, in modo da proporle un’offerta migliore di quella
proposta dai concorrenti.
In quest’ambito assume un ruolo importante il marketing, al quale compete la responsabilità di sviluppare
le relazioni con il mercato, progettando un’offerta che dia valore al cliente.
Alto
Basso
Basso Alto
Sforzo
I prodotti convenience sono quelli per il cui l’acquisto il consumatore dedica le minori risorse e sopporta i
minori rischi: si tratta di beni di scarso valore unitario e di acquisto frequente come i prodotti alimentari.
I prodotti preference sono quelli per cui il consumatore percepisce un grado di coinvolgimento maggiore
rispetto ai precedenti, pur dedicando all’acquisto risorse minime. Fanno parte di questa categoria i prodotti
di largo consumo dotati di marca, come le marche dei prodotti alimentari.
I beni shopping sono quelli per i quali i consumatori sono disposti a dedicare molto tempo e denaro alla
ricerca di informazioni e al confronto fra alternative; si tratta di acquisti inerenti l’abbigliamento,
l’automobile, il computer…
I beni speciality sono quelli a cui i consumatori associano caratteristiche di unicità e irripetibilità e per i quali
sono disposti a dedicare molte più risorse monetarie e più tempo.
6.5.2. La politica dei prezzi
Le decisioni relative ai prezzi di vendita assumono un ruolo importante e complesso nell’ambito delle
politiche di marketing. Il prezzo, infatti, incide sulla domanda e quindi sulle quantità vendute e sui profitti.
Nel fissare il prezzo di un prodotto, l’impresa deve rispettare due tipi di coerenza:
1 una coerenza interna connessa alla necessità di stabilire il prezzo del prodotto rispettando i vincoli di
costo e di redditività;
2 una coerenza esterna relativa alla necessità di determinare il prezzo tenendo conto della capacità
d’acquisto della domanda e del prezzo dei prodotti concorrenti.
La definizione della politica dei prezzi impone che siano presi in considerazione tre elementi: i costi, la
domanda e la concorrenza.
I costi
L’analisi dei costi è il punto di partenza per l’elaborazione della politica dei prezzi. Infatti la prima
preoccupazione dell’impresa è quella di determinare un livello di prezzo compatibile con i costi sostenuti.
Ciò significa che il prezzo di vendita (P) deve essere in grado di coprire i costi diretti (CD), coprire i costi
fissi di struttura (CF) e possibilmente generare un margine di profitto (MP), come espresso dalla formula:
CDunit + CFunit
Punit =
1 − MP
Come si può vedere, questo metodo di individuazione del prezzo non considera minimamente né la
domanda, né la concorrenza.
La domanda
La determinazione del prezzo non può però essere basata soltanto su considerazioni di costo. In
un’impresa orientata al cliente il punto di riferimento essenziale dev’essere invece il prezzo accettabile dalla
domanda. Tale prezzo può essere definito attraverso l’analisi della sensibilità della domanda rispetto al
prezzo, facendo quindi ricorso al concetto di elasticità della domanda, ossia della variazione percentuale
della quantità domandata di un bene rispetto a una variazione percentuale del prezzo del medesimo bene.
Normalmente l’elasticità della domanda rispetto al prezzo è negativa, ossia all’aumentare del prezzo
diminuisce la domanda. Alcuni beni, come i prodotti insostituibili (benzina…) hanno un’elasticità prossima
allo zero. Altri infine hanno un’elasticità positiva: all’aumen-tare del prezzo aumenta anche la domanda; è
questo il caso di alcuni beni di lusso.
Occorre infine ricordare che la valutazione del consumatore non è mai una valutazione rigida, in quanto il
valore attribuito da un consumatore al prodotto è dato dal rapporto tra i benefici percepiti e i sacrifici sostenuti,
intendendo con questi ultimi non solo il prezzo ma anche il tempo che si dedica all’acquisto.
La concorrenza
L’impresa prima di decidere il prezzo dei propri prodotti deve:
1 svolgere un’analisi delle politiche dei prezzi e delle caratteristiche dei prodotti dei concorrenti;
2 confrontare le politiche dei concorrenti con quelle che intende adottare.
In generale un’impresa può essere price taker o price maker, svolgendo cioè un ruolo passivo o attivo nella
fissazione dei prezzi. Il grado di libertà nella fissazione dei prezzi è direttamente proporzionale al grado di
controllo dell’impresa sul mercato di riferimento. A tal proposito si distinguono quattro tipologie di
mercato:
1 concorrenza perfetta: ogni impresa è price taker;
2 monopolio: l’unica impresa esistente è price maker con il massimo grado di libertà nella fissazione del
prezzo;
3 oligopolio: in questo mercato le imprese tendono a spostare la concorrenza su variabili diverse dal
prezzo;
4 concorrenza monopolistica: il livello di prezzo dipende dalla capacità dell’impresa di differenziare i
prodotti; in ogni caso le imprese sono meno sensibili al prezzo rispetto all’oligopolio.
7.1. Introduzione
I due aspetti fondamentali delle politiche produttive e logistiche sono:
1 i criteri con cui è organizzata un’unità produttiva;
2 la sua gestione.
Come abbiamo visto, il valore dell’impresa dipende dalla capacità della stessa di godere di un solido e
duraturo vantaggio competitivo. Questo vantaggio competitivo può essere conseguito mediante le strategie
di leadership di costo, di differenziazione e di focalizzazione. Quindi risulta evidente come le decisioni
riguardanti le politiche produttive siano volte a mettere a disposizione dell’impresa la struttura tecnico-
produttiva ritenuta più adatta a porre in essere la strategia competitiva prescelta.
Le decisioni riguardanti le politiche produttive sono difficilmente reversibili nel breve periodo, quindi
incidono in misura consistente sulla rigidità della struttura aziendale e quindi sul rischio associato
all’impresa stessa.
Anche le decisioni riguardanti la politica logistica devono essere coerenti con la strategia seguita e hanno un
notevole impatto sulla possibilità di conseguire risultati economici soddisfacenti. La logistica, inoltre, incide
significativamente sul valore dell’impresa per via del suo ruolo di coordinamento con le altre funzioni
aziendali.
Job-shop. È caratterizzato da: estrema flessibilità produttiva, bassa efficienza, forte eterogeneità nel tipo di
operazioni che vi si possono eseguire (es: cucina).
Reparti. In questo caso si ha una disposizione degli impianti che si concentra per specializzazione, in modo
tale che in una particolare area dello stabilimento si esegue solo una determinata fase produttiva (es:
laboratori di pasticceria).
Linee spezzate. È un’organizzazione concettualmente analoga a quella per reparti; l’elemento distintivo
riguarda il fatto che in alcuni passaggi del processo non si concentrano solo risorse destinate ad eseguire
unicamente una singola fase, bensì vi si colloca il linea un gruppo di impianti organizzati in sequenza.
Ognuno di questi impianti costituisce una stazione di lavoro della linea e tutta la linea di impianti realizza
un sottoinsieme di prodotto finito (es: cucina di un ristorante).
Linee di montaggio. Le singole stazioni operative si susseguono nel rispetto puntiglioso della sequenza
prevista dal ciclo di lavorazione di un prodotto specifico (es: fast food).
Le diverse tipologie di organizzazione determinano prodotti qualitativamente diversi, diversi investimenti
ecc. Vediamo ora tutti questi elementi in relazione ad ogni modello.
7.3.6. Il management
Il job-shop richiede al management professionalità molto diverse da quelle che fanno il successo di un
responsabile di linea. La ragione di questa differenza risiede ancora una volta nell’importanza dei requisiti di
flessibilità. Un job-shop opera in logica di problem solving, quindi il suo management deve essere a stretto
contatto con i clienti, perché solo in questo modo può comprenderne appieno le esigenze e soddisfarle
correttamente e tempestivamente.
Nella produzione in linea, le esigenze di contatto produzione/cliente sono molto ridotte mentre diventa
fondamentale la capacità di sfruttare gli impianti con la massima efficienza: il manager di linea sarà quindi
un tecnico esperto nella gestione della tecnologia produttiva, in grado di raggiungere gli obiettivi che
caratterizzano l’impresa, pur nel rispetto della minimizzazione dei costi.
7.4. La logistica
La logistica si occupa delle attività e delle decisioni attinenti alla gestione dei flussi fisici e dei correlati flussi
informativi che partono dall’acquisizione di materie prime e componenti, attraversano i processi di impiego
nelle attività di produzione e si concludono con la distribuzione del prodotto finito agli utilizzatori finali.
Essa consiste quindi nel coordinare e convogliare il flusso fisico e il collegato flusso informativo in
ingresso delle risorse e in uscita dei beni e servizi.
Il compito fondamentale che viene svolto dalla logistica è quello di assicurare la disponibilità dei
materiali/prodotti nel tempo, nello spazio e nei volumi richiesti.
7.4.1. Logistica e coordinamento interfunzionale e interaziendale
La logistica svolge un ruolo di coordinamento con tutte le altre funzioni aziendali, in particolare con il
marketing, la produzione e la finanza. In questo senso risulta evidente l’importanza delle logistica come
potenziale mediatore tra le funzioni aziendali e come strumento di coesione al fine di rendere gli obiettivi
delle diverse aree coerenti tra loro.
Il ruolo di coordinamento della logistica non si esaurisce nell’integrazione interfunzionale all’interno
dell’impresa, ma si estende anche all’integrazione dei flussi con gli interlocutori esterni, soprattutto quelli
posti a monte e a valle all’interno della stessa catena del valore. Questi interlocutori sono i fornitori di
materiali e di servizi logistici dei quali l’impresa si avvale nell’ambito delle proprie scelte di
esternalizzazione.
Il crescente peso dei processi di deverticalizzazione produttiva e di esternalizzazione porta a sottolineare
l’importanza del ruolo di coordinamento interaziendale della funzione logistica e a comprendere come la
necessità di tale coordinamento influisca notevolmente nella valutazione dell’impatto delle differenti scelte
logistiche. Anche in questo caso la logistica crea un rapporto di dipendenza reciproca con i partner esterni
improntato al perseguimento di uno sviluppo comune.
La capacità del management di integrare e coordinare non solo le attività interne, ma anche quelle esterne, è
enfatizzata da Porter, il quale mette in evidenza come il sistema del valore si componga di una catena del
valore esterna alla singola impresa, la cui competitività è funzione dell’efficienza e dell’efficacia di ciascun
partner.
8.1. Introduzione
Ogni impresa sopravvive e si sviluppa se è in grado non solo di creare flussi finanziari autogenerati dalla
gestione corrente maggiori dei deflussi monetari alla stessa collegati, ma anche se essa è capace di trattenere
ed accrescere le risorse finanziarie che il mercato le ha affidato: risorse di capitale e di indebitamento.
Compito dell’impresa deve essere allora quello di porre in essere una politica dei propri investimenti capace
di sostenere i finanziamenti assunti.
INVESTIMENTI FINANZIAMENTI
Investimenti
a breve
Finanziamenti
a rapido rigiro
Come si vede dallo schema, l’equilibrio finanziario comporta la necessità che i capitali permanenti devono
avere un volume tale da coprire non solo tutti gli investimenti duraturi, ma anche quella parte di capitali
circolanti durevolmente investiti nella struttura aziendale non coperti da analoghi finanziamenti, che pur
essendo a rapido rigiro, rimangono durevolmente vincolati alla struttura finanziaria d’azienda.
Inoltre, una struttura finanziaria equilibrata consente anche di poter utilizzare i finanziamenti aggiuntivi
derivanti dai flussi monetari della gestione corrente sia per autofinanziare parte dello sviluppo, sia per
remunerare gli azionisti con adeguati dividendi, sia per attrarre ulteriori mezzi finanziari con il vincolo del
debito. Tutti questi elementi sono atti a sviluppare ulteriormente i propri investimenti, innestando, così,
quel circolo virtuoso necessario allo sviluppo.
L’analisi della struttura finanziaria può essere effettuata anche attraverso una rielaborazione scalare dei dati
riclassificati; il prospetto scalare più utilizzato è il seguente:
+ Capitale Proprio + Capitale Netto
= Capitale Circolante
Nel caso in cui venga usato il capitale proprio si devono sottrarre le immobilizzazioni tecniche e finanziarie
lorde; nel caso in cui si usi il capitale netto anche le immobilizzazioni sottratte saranno nette.
I finanziamenti a medio e lungo termine saranno considerati al netto delle loro quote scadenti entro l’anno,
quote che faranno parte dei finanziamenti a breve.
Il fondo di rotazione ciclica netto, se positivo indicherà che i capitali permanenti non solo finanziano gli
investimenti duraturi ma anche parte del capitale circolante; la struttura finanziaria è quindi equilibrata. Se è
negativo significa che i capitali permanenti sono insufficienti a finanziare gli investimenti duraturi, che quindi
sono finanziati in parte da risorse finanziarie a breve e rapido rigiro; in questo caso la struttura finanziaria
non è equilibrata.
Utile d’esercizio
9.1. Introduzione
In un’impresa in cui il sistema di obiettivi sia focalizzato sulla creazione di valore economico il tema della
misurazione del valore assume un ruolo centrale.
Tradizionalmente la dottrina italiana si è sempre riferita al “valore del capitale economico”; tuttavia
l’incremento delle transazioni aventi ad oggetto aziende o rami d’azienda ha indirizzato l’interesse degli
studiosi verso l’individuazione di metodologie di determinazione dei valori di acquisizione/cessione. Si è
così assistito al proliferare di studi e contributi che hanno affrontato il tema della stima dei probabili prezzi
di mercato, vale a dire la stima del valore in presenza di reali o presunte transazioni.
Questo orientamento era già utilizzato nel mondo anglosassone, nel quale il concetto di valore di capitale
economico riveste minore importanza rispetto al fair market value, il quale rappresenta il valore che in
condizioni normali un potenziale acquirente può esprimere con riferimento ad una determinata impresa. Il
fair market value è quindi un valore più vicino ad un prezzo probabile di quanto lo sia il valore del capitale
economico.
In questo modo, la scuola italiana in tema di valutazione ha progressivamente affinato la propria analisi
fino ad affermarsi come una delle più articolate ed approfondite scuole del panorama internazionale.
9.2.4. L’impresa valuta se stessa. Gli indicatori della dinamica del valore
L’idea che l’impresa debba periodicamente valutare se stessa nasce dal convincimento che la creazione di
valore rappresenti l’effettivo obiettivo dell’impresa e, quindi, che la dinamica del valore sia l’unica efficace
misura sintetica della sua performance di periodo. Infatti i risultati contabili non sono in grado di esprimere
in modo adeguato la performance di periodo dell’impresa in quanto:
1 la loro determinazione è fortemente influenzata e condizionata da regole e convenzioni, come ad
esempio il principio di prudenza;
2 la loro determinazione è anche influenzata dalle politiche di bilancio, le quali si possono tradurre nel
perseguimento di differenti obiettivi, come la riduzione dell’imponibile fiscale al fine di pagare meno
tasse;
3 è trascurata la dinamica dei beni immateriali;
4 i risultati contabili sono orientati al passato;
5 è del tutto trascurata la modificazione del profilo rischio dell’impresa.
Un indicatore che intende superare i limiti sopra esposti è il risultato economico integrato. Il REI è un
indicatore di performance che si fonda:
1 sulla normalizzazione del risultato contabile di periodo;
2 sull’integrazione del risultato normalizzato con la dinamica dei beni immateriali nonché con altre
dinamiche di valori non contabilizzati.
La formula del REI è la seguente:
REI = RN + ∆P + ∆BI
Dove RN indica il reddito normalizzato, ∆P rappresenta la variazione delle plus-minusvalenze
contabilmente inespresse e ∆BI indica la variazione del valore dei beni immateriali fra l’inizio e la fine del
periodo.
Ai fini dell’applicazione pratica del REI è importante la possibilità di misurare periodicamente e con
sufficiente grado di attendibilità la dinamica del valore dei beni immateriali.
Se il REI rappresenta un indicatore di performance economica, esso tuttavia non rappresenta un indicatore
di creazione/distruzione di valore in quanto trascura il costo del capitale proprio investito nell’impresa. Al
fine di ovviare a tale limite si può utilizzare il REIR, ossia il risultato economico integrato residuale
così formulato:
REIR = REI − i ⋅ K
Dove i è il tasso di rendimento espressivo del rischio e K è il capitale netto rettificato.
Un altro indicatore di creazione/distruzione di valore è l’EVA o economic value added così calcolato:
EVA = NOPAT − WACC ⋅ I
Dove NOPAT è il reddito operativo normalizzato, ossia l’utile operativo al netto delle tasse, il WACC è il
costo medio ponderato del capitale investito nell’impresa e I è il capitale investito.
L’applicazione di questa formula comporta tre ordini di problemi: la determinazione dei redditi futuri,
l’individuazione del tasso di attualizzazione e la scelta dell’orizzonte temporale. Di centrale importanza
sono soprattutto l’orizzonte temporale e i redditi.
Per quanto riguarda l’orizzonte temporale, il limite minimo è di cinque anni e quello massimo è l’infinito.
Di solito si preferisce la durata illimitata, dato che l’impresa è un istituto atto a durare nel tempo; dal punto
di vista applicativo, però, è molto difficile stimare con precisione i redditi e i tassi che si avranno fra un
numero infinito di anni. Inoltre più ci si allontana da oggi, più i valori attualizzati assumono meno peso nel
calcolo del valore odierno dell’impresa.
Le decisioni prese con riferimento al tempo e ai redditi sono importanti in quanto possono portare a
modificazioni della formula generale. In particolare possiamo individuare tre varianti.
1. Il metodo di attualizzazione dei redditi attesi anno per anno: secondo questo metodo il valore dell’impresa è
determinato dalla sommatoria dei redditi futuri che la stessa è in grado di garantire, opportunamente
attualizzati:
n
Ri
W =∑
i =1 (1 + i )i
Questa formula è in grado di esprimere compiutamente e puntualmente la distribuzione temporale dei
redditi futuri; presenta però notevoli inconvenienti nella sua applicazione, perché è impossibile fare
stime di reddito futuro certe e fondate. Per superare questa difficoltà si può ricorrere ad un variante di
questo metodo, che prevede l’utilizzo di redditi puntuali fino al momento in cui gli stessi sono
prevedibili con sufficiente grado di attendibilità (anno m); successivamente si fa ricorso a una
configurazione di reddito medio, ipotizzando quindi che il risultato rimanga costante fino all’anno n:
m n
Ri R
W =∑ + ∑
i =1 (1 + i ) i =m (1 + i )i
i
La stima di ic fa invece sorgere maggiori difficoltà. Normalmente viene determinato utilizzando il Capital
Asset Pricing Model (CAPM) secondo la formula:
ic = r + β ⋅ (rm − r )
Dove r è il solito tasso risk free, rm è il rendimento del mercato azionario e il coefficiente β misura il
rischio della specifica azienda, espresso dalla volatilità del suo rendimento rispetto a quello dell’intero
mercato. La differenza rm − r rappresenta il premio per il rischio.
Più dettagliatamente, il rischio connesso all’investimento in un’impresa può essere scomposto in due
tipologie: il rischio specifico e il rischio sistematico. Il rischio specifico è connesso allo svolgimento dell’attività
di una determinata impresa e quindi ai suoi risultati competitivi, mentre il rischio sistematico si collega a
fenomeni di carattere macro-economico.
Gli investitori possono ridurre il rischio specifico del proprio portafoglio di attività mediante la
diversificazione degli investimenti. Il rischio sistematico, invece, non è diversificabile, quindi non può
essere ridotto.
Il rischio sistematico connesso ad un’impresa viene misurato dal coefficiente Beta. Al crescere della
sensibilità di una certa impresa al rischio sistematico aumenterà il coefficiente Beta. In particolare, dato che
il Beta di mercato è sempre uguale a 1, se l’impresa presenta un Beta > 1 allora il titolo è più rischioso della
media del mercato, e viene detto aggressivo; se invece il Beta < 1 il titolo è meno rischioso e viene detto
difensivo.
Nei Paesi caratterizzati da mercati azionari sviluppati i Beta sono oggetto di pubblicazione da parte di
operatori specializzati. Quindi per le società quotate i Beta sono facilmente disponibili; per quello non
quotate si fa di solito riferimento ai Beta di aziende similari.
Nel caso in cui venga fatto riferimento al solo capitale proprio la formula del costo dei capitali diventa:
i = r + β ⋅ (rm − r )
Dove CF è il flusso di cassa annuale previsto. Dal punto di vista applicativo, date le difficoltà connesse ad
una previsione dei flussi di cassa in un orizzonte temporale infinito, viene tradizionalmente assunto un
orizzonte previsivo limitato, al termine del quale si identifica un ultimo, ipotetico flusso, rappresentato dal
V
valore finale dell’impresa f . La formula diventa pertanto la seguente:
n
CFt Vf
W =∑ +
t =1 (1 + i )
t
(1 + i )n
All’interno della logica finanziaria si possono inoltre riscontrare due approcci che implicano scelte
metodologiche diverse: la valutazione del capitale dell’azienda o equity valuation e la valutazione
dell’investimento complessivo aziendale o firm valuation.
Equity valuation
Questo approccio si fonda sull’attualizzazione dei flussi di cassa netti di oneri finanziari, i quali vengono
scontati a un tasso di attualizzazione che è pari al costo del capitale proprio. Questo approccio è, per certi
versi, affine a quello utilizzato nei metodi reddituali, trattandosi di un flusso di risultato netto disponibile
per gli azionisti. Il flusso di cassa netto complessivo può essere così determinato:
+ Fatturato
– Costi operativi
= Reddito operativo
– Oneri finanziari
= Utile ante imposte
– Imposte
= Utile netto
+ Ammortamenti
= Flusso di capitale circolante
± Impieghi di capitale circolante
± Investimenti fissi
± Accensione/Rimborsi debiti
= Flusso di cassa complessivo
Firm valuation
Il secondo metodo prevede invece l’attualizzazione di flussi di cassa operativi, lordi di oneri finanziari o
unlevered, i quali vengono attualizzati al costo medio ponderato del capitale WACC. In questo caso si tiene
conto degli effetti della gestione finanziaria esclusivamente nella determinazione del tasso di attualizzazione
e non nei flussi di cassa:
+ Fatturato
– Costi operativi
= Reddito operativo
– Imposte (sul reddito operativo)
= Reddito operativo al netto delle imposte
+ Ammortamenti
= Flusso di capitale circolante
± Impieghi di capitale circolante
± Investimenti fissi
= Flusso di cassa lordo di oneri finanziari
I due approcci si differenziano per i risultati a cui pervengono. Mentre, infatti, il primo approccio (levered)
perviene direttamente al valore del capitale potenziale dell’impresa, nel caso del metodo unlevered la
sommatoria dei flussi di cassa annuali attualizzati e del valore finale attualizzato determina il valore
dell’attività dell’impresa, ossia dell’investimento globale nell’impresa stessa I, dal quale, per pervenire al
valore del suo capitale potenziale occorre detrarre l’importo dei debiti attualizzati, quindi:
W =I −D
+ Fatturato
– Costo del venduto
= EBIT
– Ammortamenti
= EBITDA
– Imposte
+ Accantonamenti
± Variazioni di capitale circolante operativo
± Variazioni di capitale fisso operativo
= Free cash flow
2. la durata dell’orizzonte di previsione analitica n: non esiste un orizzonte previsivo fisso; di solito ci si spinge
nelle previsioni fino a quando i dati così individuati sono attendibili;
3. il tasso di attualizzazione dei flussi finanziari: questo tasso coincide con il WACC;
V
4. il valore finale f : la definizione del valore finale costituisce il modo per tenere conto di tutti i flussi
annuali non prevedibili, cioè dei flussi successivi alla soglia di prevedibilità analitica. Per la sua
determinazione si possono utilizzare i seguenti metodi:
1 modello della crescita costante del flusso di cassa, che prevede l’accertamento del free cash flow
CF
Vf =
sostenibile in perpetuo a partire dall’ultimo anno della previsione analitica: WACC − g ,
dove g è il fattore di crescita sostenibile in perpetuo;
NOPLATn+1
Vf =
2 modello del reddito atteso in perpetuo: WACC − g ;
3 modello dei multipli in uscita, che richiede l’individuazione di un prezzo probabile Pn dell’impresa
riferibile alla fine del periodo di valutazione analitica dei flussi. I moltiplicatori utilizzati per
questo modello sono il P/E, l’EBIT, l’EBITDA;
5. il valore attuale dei debiti finanziari D: si tratta di tutti i debiti finanziari onerosi, per i quali la generazione di
interessi passivi sia addizionata nel calcolo dell’EBIT e perciò del flusso di cassa. In tali debiti è
compreso anche il TFR.
+ Capitale sociale
+ Riserve di capitale
+ Riserve di utili
+ Fondi accantonamenti con finalità prudenziali
± Utili netti (perdite) di esercizi precedenti
± Utile netto (perdita) d’esercizio
+ Accantonamenti
= Patrimonio netto contabile
Una volta determinato il patrimonio netto contabile è opportuno accertare se a comporre tale valore
contribuiscano o meno beni estranei alla gestione caratteristica. Questi sono beni non pertinenti all’attività
gestionale tipica, la cui eventuale cessione da parte dell’impresa non danneggerebbe in alcun modo la
normale operatività e capacità di reddito dell’azienda stessa. La distinzione tra beni appartenenti all’impresa
e beni estranei (v. anche § 9.3.2) ha un duplice significato:
1 nei metodi patrimoniali i beni individuati come estranei devono essere valutati separatamente dal
complesso aziendale;
2 nei metodi basati sui flussi i flussi attesi dell’impresa non devono tenere conto dei proventi e degli
oneri originati da tali beni.
In entrambi i casi il valore di realizzo dei beni estranei deve essere sommato al valore di capitale economico
riferito alle aree di attività caratteristica dell’azienda.
I dati contabili devono essere controllati dall’esperto chiamato a fare la stima. Dato che la contabilità
aziendale è la base informativa fondamentale per i metodi patrimoniali, è evidente che tale base deve essere
tenuta secondo corretti principi, a pena di vanificare l’esattezza di ogni ulteriore elaborazione e, quindi,
anche delle valutazioni. Quindi, in assenza di certificazioni, gli elementi attivi e passivi del patrimonio
devono essere attentamente esaminati per verificare la loro corrispondenza a corretti principi contabili.
b) Riespressione a valori correnti degli elementi attivi e passivi di patrimonio con
l’evidenziazione di plusvalenze o minusvalenze
Nel metodo patrimoniale un ruolo centrale è rivestito dalla riespressione a valori correnti dei vari elementi
patrimoniali che costituiscono l’impresa. A tal fine si procede al confronto analitico fra il valore corrente, di
mercato o di stima, di ciascuna attività e passività con il valore di carico contabile. Dal confronto possono
emergere una serie di plus o minusvalenze che, sommate algebricamente al patrimonio netto contabile,
determinano il valore del patrimonio netto rettificato K.
È bene chiarire che il valore contabile deve essere assunto al netto di ogni posta rettificativa dello stesso,
quindi, ad esempio, il valore contabile di un impianto deve essere considerato al netto del relativo fondo
ammortamento.
Per quanto riguarda il valore corrente è consigliabile fare ricorso ad esperti con esperienza e professionalità
appropriate al caso. Vediamo ora in particolare alcune voci che si possono trovare in un bilancio e il modo
in cui devono essere trattate.
Le immobilizzazioni materiali
La categoria delle immobilizzazioni materiali comprende sia cespiti per i quali esiste un attivo mercato
dell’usato, sia altri per i quali non esiste alcun mercato cui poter far riferimento. Nel primo caso la stima
avviene sulla base del criterio del prezzo corrente desunto dal mercato. Nel secondo caso è necessario
adottare criteri alternativi, tra i quali il criterio di ricostruzione ex novo o il criterio di sostituzione.
Il criterio del costo di ricostruzione ex novo viene utilizzato quando la ricostruzione del bene in uso rappresenta il
modo più economico per sostituirlo; può tuttavia accadere che tale soluzione non sia possibile. Viene allora
adottato il criterio del costo di sostituzione, che rappresenta il costo necessario per costruire o acquistare un bene
basato su tecnologie e materiali correnti, perfettamente in grado di sostituire il bene in uso possedendone
analoghe capacità e la stessa utilità.
Per la valutazione di un determinato immobilizzo, esso deve essere opportunamente rettificato in modo da
tenere in considerazione sia il deperimento fisico, sia l’obsolescenza.
Problemi particolari si hanno con i beni oggetto di contratti di leasing. In questo caso i beni non sono
iscritti in bilancio, ma non possono per questo essere esclusi dal processo valutativo: occorre pertanto
procedere alla stima del valore corrente dei beni in esame. Questo valore va poi raffrontato al valore attuale
complessivo delle rate a scadere e del prezzo finale di riscatto previsti dal contratto.
Le rimanenze
Nelle rimanenze sono comprese attività diverse che richiedono criteri valutativi appropriati. Nel caso delle
materie prime, queste vanno valutate a valore corrente, quindi al prezzo espresso dalla borsa, se quotate, o al
prezzo di più recente acquisto. I semilavorati vanno valutati in base al costo di produzione, tenuto conto
dello stato di avanzamento della lavorazione. I prodotti finiti vanno distinti in prodotti di normale e agevole
vendita e prodotti fuori listino o obsoleti. I primi devono essere valutati al prezzo medio di vendita o in
base al costo di produzione, i secondi vanno invece valutati al prezzo di probabile realizzo, sempre che
siano ancora vendibili.
I crediti
La stima dei crediti si ispira al criterio generale del probabile valore di realizzo, tenuto conto delle effettive
possibilità di recupero dei crediti stessi. A tal fine è necessario procedere alla valutazione della congruità del
relativo fondo svalutazione: infatti questo fondo può sottostimare o sovrastimare l’effettiva possibilità di
realizzo dei crediti.
Ai fini della verifica della congruità di cui si discute è opportuno procedere al calcolo di percentuali
fortetarie di abbattimento dei crediti non contenziosi o dubbi; ciò in quanto statisticamente anche i crediti
recuperabili sono potenzialmente all’origine di perdite.
Particolare attenzione deve inoltre essere riservata all’esame dei crediti verso società controllate/collegate,
quando queste ultime versino in situazioni di difficoltà economico-finanziaria.
Infine, per quanto riguarda i crediti in valuta estera, essi devono essere convertiti in valuta nazionale:
1 in base al cambio corrente;
2 in base ai cambi di un periodo più ampio, in casi di notevole volatilità dei cambi.
I titoli obbligazionari
Occorre distinguere i titoli obbligazionari a seconda che siano a reddito fisso o variabile. Le obbligazioni a
reddito variabile non pongono problemi valutativi in quanto l’indicizza-zione si adegua sempre ai rendimenti
medi di mercato. Per quanto riguarda la valutazione dei titoli a reddito fisso, invece, occorre innanzitutto
distinguere tra titoli quotati e titoli non quotati. Per i primi si fa di solito riferimento ai prezzi di un periodo
recente; per i secondi si assume spesso il valore nominale o il costo quando i tassi di rendimento sono
sostanzialmente in linea con i tassi correnti di mercato. Un metodo più immediato, ma non sempre
applicabile, consiste nel valutare i titoli non quotati con riferimento ai prezzi correnti di titoli similari
quotati. È indispensabile però che tali titoli siano omogenei per tasso di rendimento e piano di rimborso
del prestito.
Le partecipazioni societarie
La stima delle partecipazioni esige l’applicazione di procedimenti diversi, a seconda:
1 della loro consistenza: partecipazioni di controllo o no;
2 che abbiamo o meno prezzi di mercato: partecipazioni in società quotate o non quotate;
3 del ramo operativo a cui appartengono.
Per quanto riguarda le società controllate, la scelta preliminare è tra la valutazione autonoma o la valutazione
congiunta con la capogruppo, utilizzando lo strumento del bilancio consolidato. Nel caso di stima separata
si fa ricorso ai consueti criteri di valutazione analitica, quindi per ciascuna partecipazione si ha un problema
di valutazione del capitale economico mediante l’applicazione del metodo appropriato.
Per quanto riguarda le società non controllate si possono distinguere tre situazioni:
1 partecipazioni non di rilievo e quotate: per la valutazione di queste partecipazioni si fa riferimento ai
prezzi di mercato;
2 partecipazioni non di rilievo e non quotate: per queste si fa riferimento al capitale netto contabile;
3 partecipazioni di rilievo quotate e non quotate: in questo caso è opportuno verificare se esistono concrete
possibilità di applicare procedimenti analitici di stima del capitale economico; se non è possibile si fa
riferimento a eventuali prezzi o a moltiplicatori di mercato.
c) Eventuale attualizzazione di crediti e debiti differiti senza interessi o con interessi non in linea
col mercato
Un’altra tipologia di rettifiche da apportare al capitale netto contabile si ricollega alla possibile presenza di
crediti e/o debiti caratterizzati da tassi d’interesse non in linea con il mercato, come ad esempio crediti e
debiti infruttiferi, ossia con interessi pari a zero.
Questi crediti e debiti non possono essere valutati al nominale, ma dovranno essere attualizzati secondo i
tassi di mercato o in base al costo medio del denaro ed in proporzione al tempo di probabile differimento
dell’effettivo incasso.
In particolare i debiti aventi un tasso inferiore a quello di mercato dovranno subire una riduzione nel loro
valore nominale corrispondente al valore attuale dei minori oneri finanziari, quindi si avrà una plusvalenza.
Viceversa, per i debiti con tassi d’interesse più alti di quelli di mercato si dovrà calcolare il valore attuale del
maggior carico di oneri finanziari, ottenendo quindi una minusvalenza.
Data la mutevolezza nel tempo dei tassi d’interesse le rettifiche in parola dovrebbero essere attuate con
particolari cautele.
d) Determinazione degli eventuali oneri fiscali gravanti sul saldo positivo tra plus e
minusvalenze e calcolo del capitale netto rettificato
Le plus e minusvalenze rilevate rispetto ai valori contabili vengono determinate ai fini della valutazione del
capitale economico di un’impresa; si tratta quindi di rettifiche figurative, che non sono realizzate in
concreto né sono rilevabili contabilmente. Si pone quindi il problema se occorra calcolare le conseguenze
fiscali derivanti da tali rettifiche e, in particolare, determinare i carichi fiscali cui sottoporre le eventuali
plusvalenze.
Sull’opportunità o meno di tenere conto degli oneri fiscali afferenti alle plusvalenze nette non esiste
unanimità di pareri in dottrina. La migliore dottrina suggerisce di applicare aliquote oscillanti tra il 20% e il
30%.
La scelta dell’aliquota fiscale dipende soprattutto dalle tipologie di beni a cui le plusvalenze si riferiscono e
dalla presumibile durata della loro permanenza all’interno del patrimonio dell’impresa. Tale aliquota
dovrebbe infatti essere inversamente correlata al periodo di permanenza.
Una volta determinata, l’aliquota percentuale espressiva dei carichi fiscali potenziali non deve essere
applicata alle sole plusvalenze, bensì alla somma algebrica di plusvalenze e minusvalenze.
Dove il valore del bene immateriale BI risulta pari al prodotto tra il costo di riproduzione C r , calcolato per
via analitica o mediante indici, per il rapporto più sopra specificato.
Questo metodo, se dal punto di vista concettuale appare maggiormente fondato rispetto a quello dei costi
storici, presenta il limite di un’elevata soggettività nelle scelte.
Per quanto riguarda l’approccio economico, il metodo dei risultati differenziali dà rilievo ai benefici
offerti da alcuni beni immateriali, quantificandoli ed attualizzandone i risultati. In particolare occorre
prevedere i maggiori redditi futuri offerti dal bene immateriale oggetto di valutazione e calcolarne il valore
attuale, in riferimento alla sua prevedibile durata e sulla base di un tasso appropriato.
È quindi necessario porre a confronto due situazioni: una reale in presenza del bene immateriale e una
ipotetica in assenza di tale bene, individuando i redditi differenziali.
Dal punto di vista teorico, il metodo dei risultati differenziali appare certamente ineccepibile. Tuttavia esso
risulta difficilmente traducibile in applicazioni pratiche, infatti spesso è impossibile individuare e misurare
in modo preciso e completo le conseguenze procurate alle variabili aziendali da un certo accadimento.
Inoltre questo metodo implica frequentemente l’assunzione di ipotesi semplificatrici nella determinazione
dei redditi in parola, quindi il grado di certezza e di attendibilità della stima viene in parte pregiudicato.
Infine, il metodo del costo della perdita consiste nella stima del danno che dovrebbe essere sopportato
dall’impresa qualora la disponibilità dei beni immateriali oggetto di stima venisse meno. Anche in tale
ipotesi si tratta di attualizzare le perdite stimate, per un periodo corrispondente al tempo necessario per il
ripristino della situazione di equilibrio e di normalità.
Questo metodo, a ben vedere, è una variante del metodo dei risultati differenziali, del quale condivide
quindi pregi e difetti.
I metodi di mercato di stima dei beni immateriali
I metodi di mercato di stima del valore dei beni immateriali sono caratterizzati dal ricorso a parametri
espressi dal mercato, desunti dall’osservazione del comportamento tenuto in casi analoghi o da transazioni
intervenute in tempi recenti.
Questi metodi non hanno validità definitiva, ma sono utilizzabili dal valutatore solo nel momento della
stima a causa della mutevolezza delle condizioni di mercato. Di conseguenza si possono applicare solo
quando è certo che i parametri desunti dal mercato rimarranno stabili per un adeguato lasso di tempo. È
inoltre necessario verificare che i dati espressi dal mercato siano sufficientemente rappresentativi e non si
riferiscano a negoziazioni isolate.
Nell’ambito dell’approccio di mercato troviamo due metodologie:
1 il criterio dei tassi di royalty comparabili;
2 il criterio dei moltiplicatori.
Il criterio dei tassi di royalty comparabili è tipicamente applicato alla stima di marchi e brevetti,
assumendo che il loro valore dipenda dalle royalties che i terzi sarebbero disposti a corrispondere per
ottenere l’uso del bene immateriale. Queste royalties sono stimate per via di comparazione con casi
omogenei, tipicamente sotto forma di parametri, e devono essere attualizzate:
n
r ⋅ S i − Ci
BI = ∑
i =1 (1 + i )i
Dove r indica il tasso di royalty, S i rappresenta le vendite attese fino alla vita residua del bene e Ci è il
costo di conservazione del bene immateriale.
Secondo il criterio dei moltiplicatori, il valore dei beni immateriali può essere determinato mediante
formule basate sull’applicazione di parametri dedotti dal mercato alle grandezze contabili ritenute
significative. Queste formule e parametri non sono fondati su costruzioni logiche e dimostrabili, ma si
basano sull’osservazione del comportamento tenuto dagli operatori in transazioni intervenute sul mercato
in tempi più o meno recenti.
Tipici esempi di beni immateriali usualmente valutati mediante l’utilizzo di questo criterio sono il valore
della raccolta negli istituti bancari e il valore del portafoglio premi nelle compagnie di assicurazione.
Per quanto riguarda la valutazione della raccolta nelle banche, secondo questo criterio si utilizza la seguente
formula:
Valore raccolta = BI = C1 ⋅ Dd + C 2 ⋅ Di
Dove:
1 Dd è la raccolta diretta;
2 Di è la raccolta indiretta;
Viene usualmente esclusa dal calcolo la raccolta interbancaria. I coefficienti C1 e C 2 sono determinati
facendo riferimento alle percentuali applicate in occasione di negoziazioni intervenute in periodi più o
meno recenti.
Per quanto riguarda la valutazione del portafoglio premi delle imprese assicurative, innanzitutto occorre ricordare che
il portafoglio premi è il risultato della capacità dell’impresa assicurativa di raccogliere in modo stabile e
continuativo una determinata massa di premi sul mercato. La valorizzazione del portafoglio viene condotta
applicando una serie di coefficienti moltiplicativi differenziati in base al ramo assicurativo. La formula
generale è:
BI = ∑ Pi ⋅ ci
1
1−
an¬i′ =
(1 + i′)n
Ricordando che i′ , gli altri parametri della formula sono:
i ′ : tasso di attualizzazione del sovra/sotto-reddito;
i ′′ : tasso di rendimento normale per il tipo di attività svolta dall’impresa;
n : numero degli anni previsti (dato che si tratta di attualizzazione limitata);
2 metodo dell’attualizzazione illimitata del sovra/sotto-reddito medio: con questo metodo il valore dell’impresa è
dato da:
W =K+
(R − i′′ ⋅ K )
i′
La formula indica che il valore dell’impresa è dato dalla somma del valore patrimoniale K e il valore
attuale di una rendita perpetua costituita dal sovra-reddito medio.
3 metodo dell’attualizzazione del sovra/sotto-reddito di alcuni esercizi futuri: questo metodo si lega
concettualmente al metodo reddituale di attualizzazione dei redditi anno per anno, del quale
condivide pregi e difetti. Questo metodo consiste perciò nell’attualizzazione, per un definito periodo
di tempo, dei valori anno per anno:
W =K+
(R1 − i′′ ⋅ K ) + (R2 − i ′′ ⋅ K ) + ... + (Rk − i′′ ⋅ K )
(1 + i ′)1 (1 + i ′)2 (1 + i′)k
9.6.1. I parametri delle formule
Devono ora essere esaminati con maggiore dettaglio i parametri che compaiono nelle formule appena viste.
Il valore patrimoniale K viene ottenuto con il metodo patrimoniale semplice o complesso.
Il reddito medio normale atteso R viene determinato con l’analisi reddituale. K e R devono essere coerenti tra
di loro.
L’orizzonte temporale n rappresenta il tempo per il quale si presume perduri il sovra/sotto-reddito e al
termine del quale si registra il riavvicinamento a risultati in linea con la media di mercato. Il valore scelto
varia generalmente tra i 5 e i 10 anni.
Per quanto riguarda i tassi di attualizzazione i ′ e i ′′ , questi parametri sono di fondamentale importanza e la
loro determinazione richiede alcuni approfondimenti.
Il tasso i ′′ rappresenta il saggio di rendimento giudicato soddisfacente, nei limiti della norma, tenuto conto
del grado di rischio che l’impresa incontra. Si tratta quindi del tasso di mercato per impieghi similari in
termini di rischio e di durata dell’investimento.
Il tasso i ′ , invece, definisce il tasso di attualizzazione del sovra-reddito. I criteri per la sua determinazione
non sono accettati univocamente. Secondo una prima opinione il tasso deve essere considerato come puro
compenso finanziario legato al trascorrere del tempo, quindi del tutto svincolato dal rischio. Si fa quindi
corrispondere i ′ a r , ossia al tasso risk free. Una seconda opinione sostiene invece che il tasso i ′ debba
tenere conto anche del rischio di cessazione del sovra-reddito e non del solo compenso finanziario per il
trascorrere del tempo. Si tratterebbe quindi di un tasso particolarmente elevato.
10. LA DIFFUSIONE DEL VALORE
10.1. Dal valore del capitale economico al valore di mercato del capitale
La finalità di autogenerazione dell’impresa richiede la continua produzione di valore; questo valore deve
quindi essere creato e misurato. Tuttavia l’impresa deve preoccuparsi anche della diffusione del valore creato,
ovvero che tale valore venga effettivamente percepito dai suoi interlocutori. Esiste infatti un valore
intrinseco e un valore percepito, che dipende da come gli elementi patrimoniali, reddituali e finanziari
vengono comunicati al mercato.
Non è infatti sufficiente creare valore, ma bisogna anche trasferire il valore creato sui prezzi di mercato del
capitale. È opportuno fare alcune distinzioni sulle varie accezioni che si possono dare al valore del capitale;
si può infatti distinguere tra:
4 valore borsistico Wm : fa riferimento alle negoziazioni di piccole partite di titoli, cioè di quote minoritarie
che non incidono sul controllo della società;
W
5 valore negoziato di quote di controllo mm : si riferisce alle quote o partecipazioni di controllo delle società;
W
6 valore limite di acquisizione a : è un valore che può essere diverso e ben superiore rispetto al valore del
capitale economico W ; ciò avviene quando l’acquirente ritiene di poter trarre dall’acquisizione una
serie di vantaggi specifici dati soprattutto dalla creazione di sinergie.
Diversamente da quanto accade per i valori del capitale economico W , le altre tre formulazioni sono
strettamente legate ai rapporti tra domanda e offerta e risentono delle forze contrattuali presenti nelle
specifiche negoziazioni.
I rapporti fra il valore del capitale economico e i valori di mercato del capitale sono esprimibili attraverso
degli indicatori. Il primo indicatore è il coefficiente di valutazione del mercato ed è pari a:
Wm
r=
W
Questo coefficiente è tendenzialmente inferiore all’unità ed è instabile perché:
1 il mercato non riesce a cogliere le variazioni di W ;
2 i prezzi di mercato sono soggetti al gioco della domanda e dell’offerta che variano per fatti estranei
alla singola impresa;
3 il mercato manifesta una propria dinamica che influenza l’andamento generale dei corsi azionari;
4 le imprese e il mercato finanziario italiano presentano condizioni strutturali tipiche.
Un secondo indicatore è il coefficiente di valutazione del mercato di controllo:
Wmm
r′ =
W
W
Questo indice è meno instabile e più prevedibile rispetto al primo. Infatti l’andamento di mm è più legato
al valore di W rispetto a quanto non lo sia Wm , in quanto chi acquista il controllo di un’impresa tiene
conto dei contenuti patrimoniali, economici e finanziari maggiormente rispetto ad un trader.
Il fatto che le variazioni del valore del capitale economico si trasferiscano sul valore di mercato delle azioni
è importante per diversi motivi e per diversi soggetti. Innanzitutto è importante per l’azionista risparmiatore,
che vede in tal modo accrescere il valore di mercato delle proprie azioni in termini di prezzo
immediatamente realizzabile (capital gain). È inoltre importante per l’impresa stessa, perché le consente di
ottimizzare il costo della raccolta di nuovo capitale con emissioni azionarie a prezzi adeguati. Infine la
diffusione del valore è importante anche per l’opinione pubblica perché fornisce indicazioni sui possibili
sviluppo futuri dell’impresa stessa.
Poste tali premesse, risulta evidente che l’impresa, al fine di ridurre il divario tra Wm e W e fra Wmm e W ,
può attivarsi per aiutare il mercato a cogliere i fattori determinanti l’evoluzione di W . Le vie per realizzare
tale intento sono due:
1 la via della comunicazione, che consiste nel far conoscere al mercato le realizzazioni e i programmi in
tema di creazione del valore con le forme e gli strumenti più idonei;
2 l’intervento diretto sul mercato da parte degli amministratori e dei manager, volto a difendere i prezzi
azionari e a far sì che gli scostamenti fra il valore del capitale economico e i prezzi di mercato non
siano eccessivi e immotivati.