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Viviamo in un'epoca in cui l'assolutismo del capitale, la logica totalitaria della “razionalità

tecnologica” e le esigenze del sistema di produzione spingono con forza per colonizzare ogni
ambito ancora non direttamente asservito ai principi operativi di quel mondo. L'epoca in cui
viviamo è segnata dal tentativo di integrare sotto l'operatività scientifica del capitalismo globale la
sfera politica e quella economica, facendo diventare la prima pura amministrazione (policy),
subordinata alle leggi del marketing ed elevando la seconda a sommo regolatore delle relazioni
sociali, ridotte così, nella loro essenza qualitativa, alla pura natura di rapporti sociali di produzione.
E' nel mondo del lavoro che gli effetti di questo processo si fanno più evidenti.
Il lavoro torna violentemente ad essere merce generale ed astratta, fattore di produzione misurabile,
controllabile, e per questo identico a tutti gli altri fattori di produzione. Una merce scambiabile in
egual misura con le altre. Il lavoro come diritto e quindi come fatto qualitativo si contrappone alla
funzionalità della produzione, negando l'aspetto indistinto ed astratto della merce forza lavoro. Per
questo lo sforzo della politica, intesa ora come braccio normativo del capitale, è stato ed è tuttora
quello di spogliare da ogni connotazione extra-economica il lavoro. Per fare ciò occorre che la forza
lavoro sia formalmente separata dalla persona del lavoratore, ma nello stesso tempo occorre che la
coscienza di questa separazione non pervenga allo stesso, la qual cosa si ottiene separando il
lavoratore dalla classe dei lavoratori, affinché questo non possa collegare la sua condizione
individuale con una condizione sociale, quella di una classe. Il processo è contraddittorio: se da una
parte il lavoro come merce ha bisogno di tornare ad essere valore astratto e generale, identico alle
altre merci e per questo misurabile, occorre dall'altro eliminare la consapevolezza della natura
sociale del valore così prodotto, natura tanto estesa da assumere oggi carattere compiutamente
globale. La portata della coscienza di classe, la consapevolezza della natura sociale della
produzione, raggiunge oggi un potenziale che travalica i confini nazionali. L'atomizzazione sociale,
l'ideologica negazione del carattere di classe della società, è a maggior ragione strumento necessario
per mascherare l'appropriazione privata di merci prodotte socialmente da “lavoro generale astratto”
e per impedire il sorgere di nuove coscienze di classe rischiosamente collidenti con l'organizzazione
capitalistica della società.
L'alienazione così generata deve necessariamente trovare forme di compensazione in un sistema
capace di legittimarsi tramite una sempre più vincolante razionalità tecnologica capace di sviluppare
forme di dominio auto-rafforzantesi. Il feedback positivo sarebbe generato da un processo che
legherebbe la condizione stessa del soddisfacimento dei bisogni alla natura tecnologico-efficiente
del sistema di produzione, sistema le cui logiche vengono espanse ad ogni ambito sociale.
L'innovazione tecnologica assicurerebbe così un maggiore soddisfacimento dei bisogni, a patto però
che la catena della produzione non sia turbata da inefficienze, ma sia anzi razionale e scientifica. La
divisione del lavoro assume un aspetto indiscutibile tanto più sembra esser legato a fattori oggettivi,
algebrici, esatti. Questa “Ragione totale” su base tecnologica limita fortemente l'autonomia dei
bisogni, delle rivendicazioni, assumendo entro i suoi confini ogni sviluppo e realizzazione sociale.
Mettere in discussione questo assetto sposta la critica su un piano illogico, irrazionale e privo di
legittimità.
L'aspetto della calcolabilità ha un potere fortemente reificante: il gesto lavorativo è integrato in un
complesso sistema di creazione del valore dove ogni aspetto pare essere soggetto ad un controllo
totale. L'atto lavorativo perde dunque i suoi connotati umani per divenire parte ben definita del
valore del prodotto finito. Questa integrazione aliena il gesto lavorativo rendendo la persona fisica
un semplice supporto grazie al quale la forza lavoro si attualizza e opera. Il padrone sembra sapere
tutto della forza lavoro del lavoratore: quanta ne bisogna utilizzare, come utilizzarla, a che fine,
quanto valore contribuisce a generare... Il lavoratore, da parte sua, perde il controllo dei suoi gesti,
alienandosi dalla razionalità presunta degli stessi all'interno di un sistema complessivo che gli
sfugge e che lo domina.

L'università azienda
L'università non è rimasta indenne da questo processo, subendo un attacco di chiara matrice
privatistica ed aziendalista. La ragione molto pratica del mondo privato si insinua in quello del
sapere universitario in maniera esplicita e dirompente. Innanzitutto diventa un luogo comune il fatto
per cui o gli studi sono direttamente e strettamente collegati con lo sbocco sul mercato lavorativo
oppure questi sono privi di significato. Ed ecco che la natura dell'istruzione si distacca da ogni
intento non utilitaristico per abbracciare una logica funzionale ed operativa, asservita ad esigenze di
breve o medio termine. Una logica del tutto estranea, s'intende.
Andando più nello specifico, ciò che segna uno stravolgimento epocale nel funzionamento degli
atenei italiani è la riforma degli organi di governance degli stessi. Innanzitutto il rettore diviene un
manager con ampi poteri, tra cui quello di disegnare a suo piacimento la composizione dell'organo
decisionale per eccellenza, il Consiglio di amministrazione. Ed ancora, il fatto che un organo di
natura tecnica venga innalzato al ruolo di strumento primo di governo degli atenei segna la ratio
principale del disegno di Gelmini e Tremonti: l'università non deve più sottostare ad un
funzionamento assembleare e rappresentativo delle varie categorie che operano nell'università. Al
contrario le decisioni devono essere di natura tecnica e operativa e per questo devono essere prese
rapidamente senza abbandonarsi ad un fastidioso dilungamento democratico (seppur finora
imperfetto). Una della massime istituzioni sociali viene dunque legata a logiche fondate sui costi e
benefici, sul calcolo e il tornaconto economico, sul funzionamento sulla base di parametri di
bilancio. Niente a che vedere con fattori qualitativi, con questioni legate al sapere come forma di
emancipazione sociale, di istruzione alla cittadinanza, come luogo di crescita collettiva. Un ulteriore
elemento che salta all'occhio è l'apertura delle porte delle università a soggetti esterni, in poche
parole a chi si fa portatore di finanziamenti. Alle stesse logiche viene ancorato il fondo per il merito,
vincolato ad erogazioni di natura privata e legate a specifici utilizzi privati.
Tutto il resto non è che un corollario, un adattamento dell'università alla nuova conformazione
sociale: l'aspetto altamente selettivo ed escludente degli studi superiori, da cui i tagli alle borse di
studio, i gradini fortemente gerarchici tra i vari ruoli di docenza, la precarizzazione della categoria
dei ricercatori (la logica del contenimento dei costi del lavoro fatta legge), i tagli ai fondi pubblici
per una sempre più forte dipendenza da quelli privati, il conseguente aumento delle tasse come
ulteriore elemento di selezione classista.
Per concludere, l'università viene rimodellata secondo quelle che sono le esigenze e il
funzionamento del mercato, privata di spazi di confronto democratico, spogliata da ogni elemento
qualitativo che possa connettersi con la sua natura pubblica.

L'accordo separato di Mirafiori


Il mondo del lavoro riscopre lo stesso fenomeno di subordinazione al mercato e al capitale.
L'accordo separato del 23 dicembre 2010 risponde ad una precisa volontà di ristrutturazione in
senso reazionario dei rapporti sindacali, industriali e sociali.
Una cosa che spicca, leggendo il testo dell'accordo separato, è la sua apparente neutralità. Non è
Marchionne che impone ai lavoratori tre pause da 10 minuti, non è il volere umano, fallimentare e
parziale, che opera. Sono invece le soluzioni tecniche adottate nell'impianto (“Le soluzioni
ergonomiche migliorative sulle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento
continuo...”) che “consentono” una tale regolazione dei tempi di lavoro. La tecnologia, indiscutibile
e suprema madre dei bisogni (nel senso che permette di generarli e allo stesso tempo di soddisfarli),
non tollera un minuto in più di pausa. Ed ecco allora che i diritti diventano materia inconsistente di
fronte alla solidità e alla razionalità scientifica delle esigenze della produzione, le quali pare che si
auto-generino, non che dipendano dalla volontà umana.
Ritorniamo nello specifico. La pausa mensa è spostata a fine turno. Il lavoratore non è un uomo,
questo il concetto sotteso, per cui non importa se otto ore di lavoro (quando non di più) lo
affaticano. C'è il tempo per lavorare e quello per mangiare, il secondo non deve intralciare il primo.
La stessa cosa vale per la malattia, come per gli straordinari. La disumanizzazione dei lavoratori
procede di pari passo con l'accettazione indiscussa della supremazia degli interessi del capitale e
delle sue esigenze operative. Il ricatto è l'arma con la quale si pone l'individuo di fronte al dato di
fatto: o sottostai alla ragione tecnologica oppure vai a casa senza un lavoro.
Anche in questo caso la spietatezza di tutto ciò ha ricadute pesantissime sulla rappresentanza
democratica degli interessi nel luogo di lavoro. La produzione non ammette critiche né
rallentamenti: i sindacati che non sono in linea non potranno partecipare alle elezioni dei delegati.
Insomma, si viene a negare una conquista importantissima e fondamentale come la democrazia e
l'organizzazione operaia nei luoghi di lavoro. La mistificazione ipocrita della parità dei rapporti di
forza tra padrone e lavoratore cerca con arroganza di rilegittimarsi (un esempio è l'arbitrato e il
ritorno alla contrattazione individuale) per lasciare libero il campo al libero dispiegarsi della forza
del mercato.

Ho cercato dunque di dimostrare come nei due più significativi ambiti di vita sociale (fabbrica e
università) sia in atto una logica riconducibile alle esigenze e all'operatività del mercato, di un
mercato che fa della ragione tecnologia il suo invincibile perno ideologico. La privazione di spazi di
democrazia non funzionali alla produzione è la conseguenza di questa egemonia del capitale. Si
tratta di capire che la questione non è ideale, ma dipende dai rapporti di forza. L'ideologia liberista
ha vinto perché ha conquistato la forza per imporsi, frammentando il mercato del lavoro e il tessuto
sociale, operando a livello globale e regionale. Occorre ricostituire i rapporti di forza, unendo i
diversi settori sociali coinvolti negativamente nell'offensiva ventennale del capitale globalizzato.
Occorre farlo, ad esempio, ricompattandosi su temi forti come quelli dei beni comuni,
dall'università, all'acqua fino al lavoro. Occorre infine riconquistare spazi di contropotere
democratico dove questi sono stati sradicati per contrapporre la ragione democratica e collettiva a
quella tecnologica di mercato.

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