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Riassunto: “Difficoltà e disturbi dell’apprendimento”

Valido per “I DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO” (Cornoldi)

CAPITOLO 1: “Definizione, criteri e classificazioni”(vedi slide con materiale


aggiuntivo rispetto al riassunto)
1. Dalle difficoltà di apprendimento ai disturbi specifici
In tutto il mondo, moltissime famiglie sono coinvolte, prima o dopo, nelle problematiche
scolastiche dei propri figli. Sull'altro fronte, gli insegnanti si lamentano delle difficoltà di
apprendimento manifestate dai loro allievi. Non c'è nessuna sorpresa se un insegnante, con
25 alunni in classe, ne indica un gruppetto di 7-8 come incerto o assolutamente deficitario
negli apprendimenti. Molte sono le ragioni per cui uno studente può fallire a scuola e molti
sono i profili sottostanti. I profili fondamentali, che potrebbero sottostare a una difficoltà
scolastica importante sono i seguenti.
1. Condizione di handicap (mentale, sensoriale visivo, sensoriale uditivo, multiplo)
(1,2%).
2. Disturbo specifico di apprendimento (4%).
3. Disturbi specifici collegati: disturbo di attenzione e/o iperattività (DDAI) e altre
problematiche evolutive severe (autismo ad alto funzionamento, disturbi del
comportamento, problematiche emotive gravi, ecc.) (4%).
4. Svantaggio socioculturale grave (condizioni di deprivazione precoce,
appartenenza a gruppi svantaggiati e/o stranieri).
5. Difficoltà scolastiche in altre aree scolastiche rilevanti, quali la lingua straniera,
aspetti avanzati dell'apprendimento matematico, le abilità trasversali di studio, ecc.
Questo libro è interessato principalmente alla seconda categoria, e cioè quella del disturbo
specifico di apprendimento, ma toccherà tematiche rilevanti anche per le altre categorie, e
questo per una serie di ragioni, per il fatto che:
a) non sempre i confini fra una categoria e l'altra sono evidenti (es. funzionamento
cognitivo limite);
b) due problematiche possono essere compresenti, senza la possibilità di stabilire in
modo inequivocabile che l'una è la conseguenza dell'altra (es. disturbo d’attenzione)
c) procedure diagnostiche e strategie di intervento possono essere simili
indipendentemente dal fatto che le eziologie sono differenti (es. disturbi specifici della
comprensione e dell'handicap uditivo.

2. La caratterizzazione del disturbo specifico di apprendimento (OSA) e il documento


«Consensus»
La definizione presentata da Hammill [1990], sulla base dell'intesa a cui erano giunte
numerose associazioni di ricerca e intervento nel campo dei disturbi d'apprendimento,
sosteneva che:
- Learning disability (L.D.) si riferisce ad un gruppo eterogeneo di disturbi manifestati
da significative difficoltà nell'acquisizione e nell'uso di abilità di ascolto, espressione
orale, lettura, ragionamento e matematica, presumibilmente dovuti a disfunzioni del
sistema nervoso centrale. Possono coesistere con la L.D. problemi nei
comportamenti di autoregolazione, nella percezione sociale e nell'interazione
sociale, ma non costituiscono di per sé una L.D.

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- Le learning disabilities possono verificarsi in concomitanza con altri fattori di
handicap o con influenze estrinseche (culturali, d'istruzione, ecc.) ma non sono il
risultato di quelle condizioni o influenze.
In sintesi, la categoria verrebbe a raccogliere una gamma diversificata di problematiche
nello sviluppo cognitivo e nell'apprendimento scolastico, non imputabili a fattori di handicap
mentale grave e definibili in base al mancato raggiungimento di criteri attesi di rispetto alle
potenzialità generali del soggetto. Aspetti specifici della definizione qui riportata potrebbero
però essere oggetto di discussione, come per esempio l'inclusione dei disturbi specifici del
linguaggio all'interno delle L.D.
Per quanto concerne il contesto italiano dal gennaio 2007 sono disponibili le
Raccomandazioni per la pratica clinica sui disturbi specifici dell'apprendimento
(DSA) elaborate con il metodo della Consensus conference dai rappresentanti delle
principali organizzazioni dei professionisti che si occupano di questi disturbi (psicologi,
logopedisti, neuropsichiatri infantili, pediatri, ecc.).
Nelle Raccomandazioni si ribadisce che la principale caratteristica di definizione di questa
«categoria nosografica» è quella della «specificità», con riferimento al fatto che il disturbo
interessa uno specifico dominio di abilità in modo significativo ma circoscritto, lasciando
intatto il funzionamento intellettivo generale. In questo senso, il principale criterio
necessario per stabilire la diagnosi di disturbo specifico dell'apprendimento è quello della
«discrepanza» tra abilità nel dominio specifico interessato (deficitaria in rapporto alle
attese per l'età e/o la classe frequentata) e l'intelligenza generale (adeguata per l'età
cronologica).
Dal riconoscimento del criterio della «discrepanza» vengono fatte derivare alcune
fondamentali implicazioni sul piano diagnostico:
1. necessità di usare test standardizzati, sia per misurare l'intelligenza generale, che
l'abilità specifica;
2. necessità di escludere la presenza di altre condizioni che potrebbero influenzare i
risultati di questi test, come:
a) menomazioni sensoriali e neurologiche gravi disturbi significativi della sfera
emotiva;
b) situazioni ambientali di svantaggio socioculturale che possono interferire con
un'adeguata istruzione. A questo proposito particolare cautela andrà posta in
presenza di situazioni etnicoculturali particolari, derivanti da immigrazione o
adozione, nel senso di considerare attentamente il rischio:
- sia dei falsi positivi (soggetti a cui viene diagnosticato un DSA meglio spiegabile con
la condizione etnicoculturale)
- sia dei falsi negativi (soggetti ai quali, in virtù della loro condizione etnicoculturale,
non viene diagnosticato un DsA).
Anche se esistono alcune difformità su come applicare il criterio della «discrepanza», la
Consensus ha rilevato un sostanziale accordo sul fatto che:
1. la compromissione dell'abilità specifica deve essere significativa: prestazione
inferiore a —2ds dai valori normativi attesi per l'età o la classe frequentata;
2. il livello intellettivo deve essere nei limiti di norma: un QI non inferiore a —1ds
(equivalente di solito a un valore di 85) rispetto ai valori medi attesi per l'età.
Altre caratteristiche critiche dei DSA descritte nel documento della Consensus sono:
a) il carattere «evolutivo» di questi disturbi;

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b) la diversa espressività del disturbo nelle diverse fasi evolutive dell'abilità in questione;
c) la quasi costante associazione ad altri disturbi (comorbilità); fatto questo che
determina la marcata eterogeneità dei profili funzionali e di espressività con cui i
DSA si manifestano e che comporta significative ricadute sul versante dell'indagine
diagnostica;
d) il carattere neurobiologico delle anomalie processuali che caratterizzano i DSA;
interagiscono attivamente nella determinazione della comparsa del disturbo, con i
fattori ambientali;
e) il fatto che il disturbo specifico deve comportare un impatto significativo e negativo
per l'adattamento scolastico e/o per le attività della vita quotidiana.
Viene inoltre riconosciuta la possibile esistenza di un disturbo di apprendimento (non
categorizzabile come specifico) in presenza di altre patologie o anomalie, sensoriali,
neurologiche, cognitive e psicopatologiche, che normalmente costituiscono criteri di
esclusione, quando l'entità del deficit settoriale è tale che non può essere spiegata solo sulla
base di queste patologie. Tra i punti più significativi delle Raccomandazioni, bisogna
sottolineare i seguenti:
• la precisa definizione di dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia;
• la specificazione del livello di discrepanza rispetto ai dati normativi da utilizzare
nella valutazione psicometrica per soddisfare i criteri di inclusione considerando
sempre sia il parametro correttezza che quello di velocità;
• la raccomandazione a fare riferimento a strumenti con adeguate norme di
riferimento e proprietà psicometriche, con un richiamo a considerare sempre l'errore
standard di misura;
• l'indicazione di un QI inferiore a 85 come condizione di esclusione;
• l'invito a porre attenzione anche alle condizioni in cui non sono soddisfatti tutti i
criteri di esclusione, per esempio presenza di problemi neurologici o sensoriali
(disturbi non specifici), per capire se il problema di apprendimento sia realmente
compatibile con questa condizione;
• l'assunzione di comorbilità ( o comorbidità) come semplice co-occorrenza di disturbi
• la raccomandazione di non fare diagnosi prima di due anni di regolare
scolarizzazione per quanto riguarda dislessia e disortografia e di tre anni per quella
di discalculia;
• la raccomandazione di concludere ogni valutazione con un referto scritto;
• l'indicazione di precise condizioni di rischio rilevabili alla fine della prima
elementare da tenere sotto controllo anche con interventi di supporto
all'apprendimento;
• l'indicazione precisa delle caratteristiche di un progetto riabilitativo e la
specificazione delle differenze tra riabilitazione e abilitazione.
Tra i punti delle Raccomandazioni vi sono il problema di un migliore riconoscimento del
disturbo di co-prensione del testo, come disturbo indipendente dalla dislessia e con
importanti relazioni con la comprensione da ascolto e di altre rilevanti problematiche di
apprendimento. Inoltre, andrà fatto un ulteriore sforzo per precisare e rendere comparabili i
criteri e le procedure di valutazione. Ad esempio, per quanto riguarda la lettura il documento
precisa solo che possono essere utilizzate prove per valutare il riconoscimento dei singoli
grafemi, la lettura di un brano, di parole isolate e di non parole, rendendo problematico il
confronto se valutatori diversi usano prove diverse.

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3. Lo sviluppo della ricerca nel campo
Secondo Doris, il primo caso descritto di DSA sarebbe contenuto in un lavoro di Filostrato,
il quale ci parla delle difficoltà nella lettura incontrate dal figlio di Erode il Sofista. Per aiutarlo
il padre avrebbe associato le ventiquattro lettere dell'alfabeto a ventiquattro schiavi,
rendendo quindi le lettere più facilmente discriminabili. Doris osserva che questa soluzione
costituisce un'esemplificazione di una pedagogia della lettura dominante fino al 1700 e che
insisteva sull'associazione ripetuta suono-lettera come metodo buono per tutti.
I fattori sottostanti a difficoltà e disturbi specifici di apprendimento ci sono sempre stati.
Rispetto al passato, c'è oggi tuttavia la grande differenza rappresentata dal passaggio per
cui la «scuola per pochi» è diventata la «scuola per tutti». Per molto tempo varie categorie
di soggetti bisognosi di un intervento educativo particolare sono state unificate.
Una vera e propria sistematica pedagogia speciale si sarebbe chiaramente delineata solo
neI secolo scorso in Francia. Le proposte educative di Itard e Seguin sono tuttora note e
oggetto di considerazione e hanno certamente conseguenze non solo sui soggetti con
ritardo mentale grave, ma anche sui casi con disturbi dell'apprendimento. Del resto, il
ragazzo selvaggio di Itard potrebbe oggi essere variamente oggetto di approcci diagnostici
differenziati: il metodo «fisiologico» di Seguin e in seguito la filosofia d'intervento sensoriale
montessoriana o l'ortopedagogia di Binet sembrano aver ispirato non solo la pedagogia del
ritardato mentale, ma anche l'intervento su soggetti con svantaggio socioculturale o con
disturbi sensomotori.
Il ruolo delle istituzioni italiane, soprattutto religiose, nell'educazione speciale è oggi meno
conosciuto di quanto meriterebbe. Ad esempio, pochi ricordano Provolo che ha fornito
interessanti spunti per l'educazione dei sordomuti e ha raggiunto risultati concreti
significativi, come è testimoniato da un'esibizione canora dei ragazzi sordi dell'istituto di
Verona di fronte all'incredulo imperatore d'Austria. Altri religiosi come ad esempio
Cottolengo e Bosco si caratterizzarono per l'impegno e le proposte educative per soggetti
in difficoltà.
Zavalloni fa nascere la pedagogia speciale italiana nel 1896 e ne associa i primi
fondamentali sviluppi all'opera di De Sanctis, Montesano e Montessori.
- De Sanctis si occupò non solo di ritardo mentale grave, ma anche di bambini con
ritardo lieve, disturbi specifici di apprendimento, svantaggio socioculturale, e
insistette per progetti educativi individualizzati mirati alle caratteristiche dei singoli
casi.
- L'esigenza di un lavoro educativo competente e specializzato era già sentita agli
albori del secolo, al punto che nel 1900 Montesano aveva dato il via alla prima scuola
magistrale ortofrenica. Dieci anni dopo, a Roma, venivano previste classi elementari
specifiche per soggetti con disturbi di apprendimento.
- Nel frattempo, Montessori, dopo una collaborazione con la scuola ortofrenica
romana, aveva promosso un esteso programma di educazione di bambini con
difficoltà di apprendimento, portando alcuni idioti ricoverati in manicomio a leggere e
a scrivere. Nel 1904, la Montessori aveva pubblicato un lavoro intitolato L'influenza
delle condizioni di famiglia sul livello intellettuale degli scolari, e nel 1907 aveva
potuto realizzare in maniera organica alcune sue idee dando vita a Roma ad
un’iniziativa per bambini di povere condizioni chiamata Casa dei bambini. Ben presto
il suo contributo avrebbe assunto risonanza internazionale.

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Le prime puntuali descrizioni di dislessie specifiche risalgono all’ambiente medico
britannico di fine del secolo scorso, con riferimento sia all’adulto sia ad un ragazzo di
quattordici anni.
Dal punto di vista riabilitativo l'accento veniva posto sugli aspetti costitutivi dell'attività di
leggere, così come è avvenuto a partire dal 1980. Con gli anni '40 del XX secolo si è invece
osservato un progressivo spostamento dell'attenzione diagnostica e riabilitativa sulle
«abilità di base» anche in relazione ad una caratterizzazione dei disturbi
dell'apprendimento all'interno della sindrome di «disfunzione cerebrale minima». In
particolare, Strauss e Lehtinen avevano descritto soggetti in età evolutiva che presentavano
disturbi percettivi e concettuali, impulsività, distraibilità e labilità emotiva. Tali casi avevano
notevoli elementi di analogia con patologie per le quali era noto un danno cerebrale e
pertanto si ipotizzò che anch'essi presentassero un danno cerebrale, definito «minimo».
A partire da Strauss si svilupparono approcci di diagnosi-trattamento che insistevano prima
sull'esame di abilità soprattutto percettive e motorie e poi linguistiche, come fattori di
per se stessi critici, e sottostanti alle difficoltà di lettura, scrittura, calcolo, comportamento,
manifestate dai soggetti.
Il dibattito sulla valutazione e l'intervento si associò anche a quello relativo alla delimitazione
del campo e alla stessa terminologia da usare. Negli Stati Uniti, le espressioni di dislessia,
disgrafia, discalculia, ecc. erano state affiancate da numerose altre.
Secondo Hammill la prima definizione che faccia esplicito riferimento al termine di learning
disability fu proposta da Kirk nel 1962 in due suoi lavori.
A livello pubblico, la prima definizione importante di DSA veniva invece data nel report
annuale del gennaio 1968 del National Advisory Committee on Handicapped Children. Nello
stesso anno nasceva la rivista scientifica più importante del settore cioè il «Journal of
Learning Disabilities».
Il contesto italiano, precedente al 1980, di fronte ai disturbi dell'apprendimento non tenne
conto inizialmente dei risultati dei paesi di lingua inglese, ma ugualmente si caratterizzò per
un interesse per le abilità di base, subendo soprattutto l'influenza di studiosi francesi. Nel
1951, Zazzo aveva curato un numero monografico della rivista «Enfance» sulla dislessia,
le sue cause, i principi riabilitativi. Negli anni successivi, uscivano vari contributi significativi
del campo, fra cui vanno ricordate ampie opere sulla scrittura, sulla diagnosi e sul linguaggio
scritto e orale. In Italia, l'ambito legislativo ha avuto ritardi e ondeggiamenti, ma ricerca e
pubblicazioni teoriche e pratiche sono state attive sin dagli anni '70. Editori fortemente
impegnati nel campo furono Armando, le Organizzazioni Speciali, Omega, e in seguito, Il
Cerro e la Erickson. Un momento particolarmente delicato nella organizzazione delle nostre
istituzioni educative fu costituito dalla creazione e dall'immediato fallimento di «classi
speciali», per l'handicap, e di «classi differenziali» ove avrebbero di fatto dovuto trovar posto
anche i bambini con disturbi specifici. La nuova scuola media unificata aveva infatti previsto
(legge 1962) l'istituzione di classi speciali di «aggiornamento» per «alunni bisognosi di
particolari cure per frequentare con profitto» la scuola media e «classi differenziali per alunni
disadattati scolastici». Poi, le classi speciali furono eliminate e gli alunni con handicap furono
inseriti nelle classi normali.
In Italia erano state nel frattempo create figure apposite di insegnanti di sostegno per il
soggetto con difficoltà inserito e venivano quindi trasformate le vecchie Scuole ortofreniche
cui erano affiancate nuove Scuole biennali per la formazione di insegnanti specializzati, che
in seguito sarebbero state sostituite da altri percorsi presso le università.

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Una ripresa più sistematica del campo dei disturbi dell'apprendimento avvenne in Italia
attorno al 1980, quando vari gruppi si impegnarono nella ricerca di base e nella
predisposizione di strumenti. Venne anche affrontato il problema di tradurre l'espressione
«learning disability» e si optò per disturbo (specifico) di apprendimento (DSA). Veniva
osservato che la scelta di riferirsi, in generale, al problema anziché al soggetto sembrava
opportuna perché evitava il pericolo di una patologizzazione del bambino e che il termine
più appropriato era quello di «disturbo». Infatti, termini come «difficoltà» o «disabilità»
avrebbero costituito possibile fonte di confusione, dal momento che sono riferiti anche ad
altre categorie di soggetti, mentre la parola «disordine» sembrava implicare una teoria del
funzionamento mentale non sufficientemente dimostrata.
Con l'ultimo decennio del XX secolo, il campo dei disturbi dell'apprendimento ha visto in
Italia una crescita esponenziale, con l'istituzione di numerosi corsi e percorsi universitari,
anche post-laurea, nella forma di corsi di perfezionamento o master e lo sviluppo di una
ricca e significativa ricerca e di una massiccia pubblicazione di strumenti. La nascita di
un’associazione di operatori formati e ricercatori (AIRIPA) e di una che raccoglie anche le
famiglie e che si è dimostrata capace di una notevole forza di pressione anche politica (AID)
ha dato ulteriore vigore al campo. In particolare, soprattutto per merito dell'AID, è sempre
più cresciuto il riconoscimento pubblico dell'esistenza del DSA e si è cominciato ad
accogliere l'idea di provvedimenti dispensativi (il DSA può essere esentato da certi compiti)
o compensativi (il DSA può utilizzare una procedura che gli permetta di sopperire ad una
sua difficoltà).

4. I criteri e i problemi misurativi associati


Le Raccomandazioni per la pratica clinica sui DSA fissano come criterio per la diagnosi di
disturbo uno scostamento di almeno 2 deviazioni standard o la prestazione al di sotto del
quinto percentile, in assenza di deficit intellettivo (il QI deve essere almeno di 85). Questo
principio, che è quello più largamente usato anche nel resto del mondo, è legato
principalmente alla constatazione di una deviazione rispetto agli altri soggetti appartenenti
al proprio gruppo. Non si tratta tuttavia dell'unico principio utilizzabile per definire un valore
(cut-off) al di la del quale si considera il problema rilevante. Vediamo i principi
fondamentali utilizzati nel campo:
1. Deviazione rispetto al proprio gruppo di riferimento (cfr. Consensus) ove il
gruppo di riferimento, per i problemi di apprendimento, viene di solito considerato
quello dei bambini che hanno usufruito di simili stimolazioni educative e quindi il
gruppo di bambini della propria classe (mentre nei test di abilità il gruppo di
riferimento è solitamente quello dei coetanei).
2. Ritardo rispetto alla propria fascia scolastica: ad esempio, viene in questo modo
identificato come DSA, un bambino che presenta un livello di apprendimento
comparabile a quello di bambini di una fascia scolastica inferiore di 18 (scuola
elementare) o 24 mesi (scuola media e media superiore) rispetto alla propria e che
non rientra nei criteri di esclusione; la comparabilità può essere semplicemente
definita nei termini di prestazione pari o inferiore alla media riscontrabile nella classe
inferiore o con riferimento ad una deviazione anche relativamente alla classe
inferiore.
3. Discrepanza fra un punteggio di abilità intellettiva e un punteggio di
apprendimento. Quest'ultimo criterio è spesso criticato per il riferimento diretto
all'uso dei test di intelligenza. Al di là dell'opportunità di sottoporre i bambini a test di

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intelligenza, esiste una serie di riflessioni teoriche e metodologiche che impongono
cautela per l'uso dei criteri di discrepanza. Una posizione particolarmente decisa e
radicale è stata assunta nel 1986 dal Comitato scientifico del Council for Learning
Disabilities, che ha messo a fuoco otto ragioni fondamentali per cui le misure di
discrepanza non dovrebbero essere utilizzate. Il comitato dichiarava di assumere tale
posizione perché:
a) le formule di discrepanza tendono a focalizzarsi su un singolo aspetto dei disturbi
dell'apprendimento (ad esempio, lettura, matematica), escludendo altri tipi di
disturbi;
b) non sono disponibili strumenti di valutazione tecnicamente adeguati e appropriati
per tutte le fasce scolastiche e per tutte le aree di prestazione (ad esempio,
mancano per bambini prescolari e per adulti);
c) le formule di discrepanza possono portare a inaccurate conclusioni quando sono
basate su strumenti di valutazione che mancano di adeguata validità o
attendibilità;
d) molti soggetti con disturbi dell'apprendimento hanno la tendenza ad ottenere
punteggi esageratamente bassi a test di intelligenza;
e) molti soggetti con scarso successo scolastico ottengono significative discrepanze
fra intelligenza e profitto per ragioni che non hanno a che fare coi disturbi
dell'apprendimento;
f) l'uso delle formule di discrepanza crea spesso un falso senso di oggettività e
precisione;
g) nella pratica, le formule di discrepanza vengono a costituire il solo primario
elemento per determinare il diritto di un soggetto a fruire di servizi per disturbi
dell'apprendimento;
h) benché promosse per aumentare l'accuratezza delle decisioni, le formule di
discrepanza rappresentano spesso un tentativo semplicistico per ridurre le
percentuali di incidenza dei disturbi dell'apprendimento.
Di fatto, le formule che si basano sulla discrepanza intelligenza-apprendimento ignorano tre
fondamentali problemi di ordine teorico, metodologico e operativo.
- Dal punto di vista teorico presuppongono chiare definizioni di intelligenza e
apprendimento e la loro completa indipendenza. In realtà i vari test di intelligenza
utilizzati in questo ambito (non misurano esattamente la stessa cosa. Inoltre, alcuni
di essi fanno riferimento chiaramente a componenti in cui l'apprendimento gioca un
ruolo fondamentale. A loro volta, vari aspetti dell'apprendimento (per esempio la
velocità, la comprensione, il ragionamento matematico) rimandano a strutture
intellettive più o meno centrali.
- Infine, dal punto di vista metodologico, il significato della differenza fra due punteggi
dipende dall'attendibilità dei due test, dall'ampiezza delle loro deviazioni standard,
dal grado di correlazione fra i due test e dalle differenze fra i due gruppi di
standardizzazione. Una particolare difficoltà riguarda infine il reale significato di una
prestazione bassa. Per esempio, il ragazzo di 15 anni che legge come uno di 13 con
un ritmo di poco meno di cinque sillabe al secondo rientrerebbe nella fascia del DSA
secondo tutti e tre i criteri indicati, ma non sembra avere un bisogno educativo
particolare.

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- Una valutazione delle esigenze educative suggerirebbe pertanto di identificare i DSA
in base al reale bisogno che essi presentano, così come era stato suggerito dal
tentativo di formulare dei «criteri soddisfacenti di prestazione» posti per ciascuna
fascia scolastica. Tali criteri possono essere identificati in base ad una somma di
valutazioni rappresentate dalle attese del mondo educativo rispetto ai livelli che un
allievo dovrebbe raggiungere, dalle tipiche prestazioni riscontrate per la sua fascia
scolastica, dalle difficoltà evidenziate nella storia successiva del caso quando il
criterio non era stato raggiunto. Gli autori del libro distinguono fra quattro diversi livelli
di prestazione: a) ottimale
b) sufficiente rispetto al criterio
c) di richiesta di attenzione
d) di richiesta di intervento immediato.
I due ultimi livelli dovrebbero implicare un riferimento a gradi diversi di severità del
problema e scelte operative caratterizzate da una minore o maggiore urgenza.

5. Dati epidemiologici
L'Oms ha proposto di distinguere fra:
- minorazione → quali il danno organico
- disability: sua conseguenza funzionale
- handicap: svantaggio della persona in relazione alla sua minorazione e disability.
Relativamente all'incidenza dei DSA, per l'Italia ci sono state alcune ricerche pionieristiche
che hanno esaminato il problema soffermandosi soprattutto sul caso del disturbo di lettura.
Tutte queste indagini risentivano tuttavia del criterio utilizzato. Usando la medesima
procedura per gli USA, gli autori concludevano che la dislessia ha una maggiore prevalenza
negli Stati Uniti, che in entrambi i paesi i problemi sono fortemente associati con disturbi del
linguaggio e, con maggiore frequenza negli Usa, con problemi percettivo-motori e che esiste
una maggiore dissociazione fra componente della decodifica e componente della
comprensione fra i bambini italiani. Per quanto riguarda in particolare l'incidenza della
dislessia, gli autori si erano basati fondamentalmente su un principio di deviazione (criteri 1
e 2) e discrepanza (criterio 3), ottenendo su bambini di quinta elementare due misure di
intelligenza e cioè di intelligenza verbale e di intelligenza di performance, e una misura di
lettura. Gli autori definirono tre possibili criteri per l'identificazione di un soggetto dislessico,
ciascuno dei quali richiedeva che la prestazione in lettura fosse molto bassa e il QI all'interno
della norma. Le percentuali di «dislessici» rintracciati in questi modi erano rispettivamente
8% per l'Italia e 12% per gli USA (criterio 1), 3,6% e 7,3% (criterio 2), 3,6% e4,5% (criterio
3).
Tenendo conto delle specificità linguistiche, culturali, sociali ed educative del nostro paese
sono comunque di particolare interesse i dati che cercano di operare confronti fra la
situazione italiana e quella di altre nazioni del mondo. Questo è possibile in base ai ai dati
dei progetti IEA e PISA che hanno messo a confronto, con le medesime prove, bambini e
giovani di diversi paesi del mondo, riscontrando che le prestazioni medie degli studenti
italiani in compiti di comprensione del testo e di matematica sono abbastanza alte per le
scuole elementari e decisamente basse per le scuole medie e medie superiori.
(pagina 22-23 ricerche e dati su percentuale di DSA in Italia)

6. Il ruolo dei «fattori di esclusione» e il caso degli studenti stranieri

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L’indagine epidemiologica richiede che vengano vengano applicati i fattori di rappresentati
dallo svantaggio socio-culturale, dall’handicap sensoriale o mentale (ritardo), dalla carenza
di istruzione e dai disturbi emotivi.
In primo luogo, questi fattori appaiono spesso legati al disturbo di apprendimento per cui
diventa ddiscutibile scinderli e problematico definire quale sia primario.
In secondo luogo, qualunque sia il problema a monte, risulta evidente che soggetti che
presentino problemi di apprendimento hanno bisogno comunque di essere aiutati a
superare le loro difficoltà e non è affatto chiaro se il fattore primario, una di volta identificato
dovrebbe portare necessariamente a una scelta differenziata di intervento.
Fra i fattori di esclusione vengono innanzitutto considerati gli «handicap» classici come
quelli sensoriali, motori e «mentali»  la cosa risulta opportuna in linea di principio per il
fatto che evidente è il rapporto di causa-effetto (ad esempio fra un ritardo mentale grave e
una difficoltà manifestata a scuola). È indubbio tuttavia che i confini fra le varie
problematiche non sono sempre chiari come si penserebbe. Inoltre, all'interno di
problematiche presentate da queste fasce di handicap, si possono trovare delle specificità
(ad esempio, come considerare un ipovedente che incontra specifiche difficoltà di calcolo a
fronte di altri soggetti con medesimo deficit sensoriale ma senza problemi di calcolo? O un
motuleso molto intelligente che tuttavia ha problemi di lettura?). l fattore dello svantaggio
socioculturale è particolarmente attivo nei disturbi dell'apprendimento, come è dimostrato
da varie indagini specificamente riferite all'ambiente italiano. Le ricerche IARLD e quelle
legate alla standardizzazione di prove d'apprendimento hanno costantemente messo in luce
come bambini con genitori con basso livello di istruzione abbiano livelli di prestazione
nettamente inferiori. All'interno della categoria «svantaggio socioculturale», vari elementi
potenzialmente contribuiscono alla nascita di un problema o alla sua identificazione: la
deprivazione sensoriale e affettiva precoce (il caso di molti bambini adottati), la povertà di
stimoli intellettuali, la carenza di condizioni ambientali, la povertà linguistica, la differenza
culturale e linguistica, la mancanza di sollecitazioni e di attenzione all'apprendimento, la
mancanza di aiuto a casa, la mancanza di sussidi e opportunità necessarie, il cattivo
rapporto della famiglia con la scuola, un particolare atteggiamento della famiglia nei
confronti del problema e di una sua eventuale identificazione etc. È evidente che questi
fattori hanno effetti diversi.
Un'esemplificazione drammatica di queste problematiche è rappresentata dagli studenti
stranieri. Un bambino straniero potrebbe addirittura beneficiare di elementi favorevoli, come
una maggiore capacita attentiva dovuta all'impegno cognitivo richiesto in un eventuale
bilinguismo, una maggiore sensibilità alle proprietà sensoriali e fonologiche degli stimoli,
una particolare valorizzazione del successo scolastico, il desiderio di riscatto presente
spesso nelle minoranze. Nei fatti, tuttavia, i fattori tipici citati per lo svantaggio socioculturale
sono tutti presenti in gran parte dei bambini stranieri, con effetti notevoli sulle difficoltà di
apprendimento. A questo proposito una ricerca offre una comparazione tra i tassi di
promozione degli allievi stranieri e quelli degli allievi italiani, nei diversi ordini di scuola e
nelle diverse realtà territoriali (figura pagina 25). Il divario fra i tassi di promozione degli
allievi stranieri e di quelli italiani è —3.22 punti percentuali nella scuola primaria, —6,86
nella secondaria di I grado, —12,31 nella secondaria di Il grado, in cui più di un alunno
straniero su quattro non consegue la promozione (gli allievi italiani raggiungono un tasso di
promozione del 99,41% nella scuola primaria e del 95,86% nella secondaria di I grado. È
evidente che gli esiti sono molto diversi a seconda delle condizioni sociali e culturali da cui
il bambino proviene.

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[ricerca pagina 25-26-27]

7. Classificazione dei disturbi di apprendimento


Nei primi apprendimenti hanno particolare rilevanza i problemi manifestati nelle abilità
strumentali fondamentali di lettura, scrittura e calcolo e, per questa ragione, i sistemi di
classificazione standard si sono focalizzati su tali fondamentali e imprescindibili aspetti.
Tuttavia, questo sistema di classificazione non tiene conto del fatto che più avanti il focus
dell'insegnamento si sposta su apprendimenti più complessi della comprensione del
testo, dell'apprendimento della lingua straniera, del ragionamento matematico e della
acquisizione dei concetti e quindi è a essi che va rivolta la maggiore attenzione.
L'evidenziazione di questi problemi non ha carattere assoluto, ma nasce dalle richieste della
società. Se è vero che, negli ultimi secoli, la nostra società ha mostrato di attribuire
particolare peso all'apprendimento di lettura, scrittura e calcolo, era giusto che essa
rivolgesse attenzione ai casi che non riuscivano a raggiungere quegli apprendimenti. Il
rapido mutamento tecnologico e l'autorizzazione a usare mezzi compensativi (lettori
automatici, calcolatrici, ecc.) ci porta a pensare che nel futuro il ruolo di queste abilità verrà
ridimensionato e certamente emergeranno altri apprendimenti fondamentali per i quali
determinati fattori sottostanti potranno provocare specifiche difficoltà.
In base a queste considerazioni si può pertanto ritenere che il termine «disturbo
dell'apprendimento» sia un'espressione-ombrello che raccoglie una gamma di
problematiche persistenti nello sviluppo cognitivo e nell'apprendimento scolastico, non
imputabili primariamente a fattori emotivi, sociali, educativi o handicap gravi, e definibili in
base al mancato raggiungimento di taluni obiettivi di apprendimento che all'interno del
contesto in cui il bambino vive sono considerati essenziali.
La classificazione dei disturbi di apprendimento può essere quindi semplicemente basata
sull'elenco di tali obiettivi. Uno sforzo classificatorio può sembrare inutile e tedioso, ma in
realtà viene incontro ad esigenze non solo della ricerca e della semplificazione delle
procedure diagnostiche e prognostiche, ma anche di chiarificazione concettuale. Per
Fletcher e Morris, una classificazione nel campo dei disturbi dell'apprendimento può
basarsi su tre criteri e cioè su quello
- della prestazione
scolastica -
sull'analisi dei
processi -
sull'esame dello
sviluppo.
Le classificazioni ad alta pregnanza teorica hanno tuttavia il difetto di far riferimento a precisi
modelli per i quali il consenso generale non è affatto garantito e neanche duraturo e per
questo motivo si è dato maggior peso alle classificazioni basate sulla identificazione delle
prestazioni deficitarie.
In ambito psichiatrico un impegno classificatorio e’ stato sempre ampiamente presente.
Può essere interessante analizzare il conosciutissimo, e ormai di largo uso anche in Europa,
manuale degli psichiatri nordamericani, DSM-IV, e il gemello di questo e cioè l'ICD-10. Un
confronto fra le tabelle ci può permettere di evidenziare talune differenze cospicue che pure
riguardano elaborazioni provenienti tutte dall'ambito psichiatrico. Va osservato che pure il
DSM e l’ICD sono oggetto di costante revisione. Tuttavia, essi sono popolari proprio perché

10
garantiscono almeno alcuni elementi minimali di linguaggio comune. Nella tabella
presentiamo la classificazione di DSM e ICD, indicando il tipo, il codice di identificazione
all'interno dei due manuali, gli aspetti fondamentali relativi alla fisionomia che il disturbo può
assumere, alle manifestazioni associate, all'età di insorgenza, al decorso, alla prevalenza,
ai legami con patologie presenti in ambito familiare, alle patologie con cui esso potrebbe
essere confuso («diagnosi differenziale»).
Di fatto possiamo distinguere tre tipi fondamentali legati all'apprendimento scolastico
(calcolo, scrittura, lettura), tre tipi legati al linguaggio (articolazione, espressione, ricezione
e — inoltre — i disturbi dell'eloquio) e il disturbo di sviluppo della coordinazione motoria.
Si può osservare che, se sommassimo assieme le incidenze delle varie patologie, avremmo
per la fascia della scuola elementare una preoccupante percentuale. Tuttavia, al di là
dell'impressione che certe percentuali siano eccessive, va tenuto presente come molti
problemi si presentino associati, o in concomitanza o in successione. Ad esempio, il
problema di decodifica nella lettura è spesso associato al problema di scrittura e quello di
comprensione del linguaggio parlato al problema di lettura per il versante della
comprensione.

DSM IV

ICD-10 (versione del 2007)

11
Un'analisi qualitativa anche intuitiva delle difficoltà d'apprendimento più diffuse rivela
l'estrema semplificazione operata dal DSM-IV che comunque può costituire un punto di
partenza per esaminare le caratteristiche più evidenti nei disturbi dell'apprendimento. Gli
autori del libro, tuttavia, associano a questi sistemi standard di classificazione un loro
sistema che tiene conto, della natura delle operazioni richieste dall'apprendimento
interessato, ovvero del grado di controllo cognitivo e della minore o maggiore relazione
con le strutture centrali dell'intelligenza e della distinzione fra i contenuti
d'informazione che devono essere elaborati. I
In base al MODELLO A CONO DELL’INTELLIGENZA [Cornoldi 2007], gli apprendimenti
sono sostenuti dalle varie componenti della memoria di lavoro e possono essere distinti
- sul piano dei contenuti definito dalle orizzontalità, fra quelli che implicano
prevalentemente abilità linguistiche di lettura e di scrittura, matematiche e visuo-
spaziali
- sul piano del controllo fra quelli che implicano processi a basso controllo e
maggiormente automatizzabili, quali decodifica, ortografia e calcolo e visualizzazione
e quelli che implicano processi a maggiore controllo, quali comprensione del testo,
espressione scritta, soluzione di problemi e elaborazione attiva di immagini

12
Il sistema di classificazione
proposto, da Cornoldi, basato
sui processi, attribuisce una
particolare importanza ai
disturbi nei processi visuo-
spaziali che implicano difficoltà
di apprendimento anche nelle
aree classiche di lettura,
scrittura e matematica, quando
però sia richiesta
l'elaborazione di informazione
visuospaziale. Questi problemi
sembrano legati anche a
difficoltà del disegno e, più in
generale, a difficoltà incluse nel
disturbo di coordinazione
motoria, ovvero nelle aprassie e disprassie.
I bambini disprassici vengono generalmente descritti per difficoltà
particolarmente gravi nella realizzazione di sequenze motorie coordinate (come battere le
mani e poi batterle sulle ginocchia) e nelle attività grafiche (disgrafia grave, insufficienza
nel disegno dell'omino, ecc.).

Altri modelli di funzionamento cognitivo specifico o generale si sono focalizzati su


componenti indipendenti o semi-indipendenti considerati critici per tale funzionamento (per
approfondirli pagina 33).

8. La valutazione delle funzioni cognitive


L'attenzione ai problemi relativi agli apprendimenti scolastici veri e propri può portare a
trascurare la considerazione di problemi di sviluppo cognitivo e neuro-psicologico che
compaiono ben prima della scolarizzazione, e poi sono associati o anche parzialmente
indipendenti dai problemi di apprendimento. In effetti, i disturbi di apprendimento possono
essere associati ad una gravidanza difficile della mamma, ad una nascita prematura, ad un
ritardo neuromotorio emergente già durante il primo anno di vita, a tratti temperamentali
precoci e soprattutto a disturbi del linguaggio. Lo sviluppo della lateralizzazione, il cui
rapporto con i DSA è sempre stato oggetto di discussione, si delinea sui 3-4 anni e si
stabilizza a 5-7 anni: a questa età ci sarebbe ancora un 20% di bambini non chiaramente
lateralizzati determinando una delle più comuni ragioni di consultazione dell'esperto da
parte delle famiglie. Comuni problemi neuropsicologici segnalati tradizionalmente per i
disturbi dell'apprendimento riguardano il coordinamento visuo-motorio, l'organizzazione
spazio-temporale, lo sviluppo del pensiero la memoria e l'attenzione.
Per esempio, Frostig aveva differenziato e proposito procedure di valutazione di cinque tipi
di abilità e di disturbo percettivo e cioè la coordinazione visuo-motoria, la percezione della
costanza della forma, della figura sullo sfondo, delle posizioni nello spazio e delle relazioni
spaziali.
Cornoldi assumeva che distinti deficit di memoria potessero essere evidenziati in base alle
seguenti dicotomie: verbale vs. non verbale, rievocazione vs. riconoscimento, sequenziale

13
vs simultaneo, episodico vs. semantico, di breve vs. di lungo termine, semplice vs.
complesso.
Il classico modello di Kirk e Kirk si basava sul riconoscimento delle seguenti abilità:
ricezione uditiva, ricezione visiva, associazione uditiva, associazione visiva, espressione
verbale, espressione manuale, completamento grammaticale, completamento visivo,
memoria sequenziale uditiva, memoria
sequenziale visiva, completamento uditivo e fusione di suoni. I diffusi profili intraindividuali,
ottenuti con questo e altri test ed evidenzianti punti deboli e forti specifici alle varie aree e
diversi per ogni soggetto costituivano riprova dell'esistenza di tipologie differenti. Essi inoltre
suggerivano l'ipotesi che il DSA si caratterizzi, rispetto al ritardo mentale e allo sviluppo
tipico, per una maggiore presenza di squilibri fra componenti neuropsicologiche forti e
deboli.
Sei aspetti che sono oggetto di particolare interesse e hanno avuto notevole influenza anche
sulla ricerca italiana riguardano:
1) le funzioni esecutive  il concetto di «funzioni esecutive» si riferisce ad una serie
di processi altamente controllati e attentivi riconducibili prevalentemente all'attività
delle aree prefrontali del cervello. Avendo come principale elemento di identificazione
il correlato neurale, queste funzioni non nascono dalla riflessione su un unico e ben
precisato meccanismo cognitivo, ma sono abbastanza eterogenee. Tuttavia, il loro
rapporto con i disturbi evolutivi, inclusi i DSA, è ampiamente documentato. Fra essi
sembrano assumere particolare importanza quelli di soluzione di problemi e
pianificazione, quelli di categorizzazione e di flessibilità nell'uso delle regole, quelli di
fluenza. È comune che i processi più attivi di attenzione, memoria di lavoro e
metacognizione siano ricondotti all'ampio capitolo dei processi esecutivi.
2) l'attenzione  anche i processi attentivi sembrano rivestire un'importante parte nei
DSA e in disturbi connessi, anche se paradossalmente possono interessare in misura
meno specifica quei disturbi che sono associati al loro nome e cioè i DDAI (Disturbo
da Deficit dell'Attenzione ed Iperattività). L'ambito dell'attenzione si sta rivelando
sempre più ampio e quindi può includere differenti aspetti rilevanti per la
psicopatologia dello sviluppo e in particolare l'orientamento dell'attenzione,
l'attenzione selettiva, il mantenimento dell'attenzione, la focalizzazione e
concentrazione, lo spostamento efficiente dell'attenzione, l'attenzione condivisa.
3) la memoria di lavoro  la memoria di lavoro è stata variamente concettualizzata:
per Baddeley è un sistema utilizzato in una varietà di compiti della vita quotidiana
che richiedono il mantenimento temporaneo delle informazioni. Il cosiddetto «loop
articolatorio», che è il sottosistema linguistico e articolatorio, è ad esempio impegnato
nella lettura, nel calcolo, nella produzione linguistica per cui deficit di questa
componente provocano disturbi di apprendimento in lettura e linguaggio. La memoria
di lavoro visuo-spaziale appare critica nei disturbi visuospaziali e gioca un importante
ruolo negli apprendimenti matematici. Infine, i processi attivi di memoria lavoro sono
presenti nei disturbi degli apprendimenti controllati.
4) la consapevolezza fonologica  il riferimento alla memoria di lavoro fonologica ha
alcune relazioni con l'idea che il successo di lettura è largamente influenzato dalla
cosiddetta «consapevolezza fonologica» intesa fondamentalmente come
«comprensione della struttura linguistica interna delle parole».
5) la metacognizione  un aspetto che ha assunto notevole rilevanza è costituito dal
ruolo esercitato dalle strategie e dalla metacognizione nel soggetto con disturbi di

14
apprendimento. Numerose osservazioni fanno pensare che molti bambini con
disturbi di apprendimento posseggano conoscenze inadeguate della natura dei
processi richiesti, operino un insufficiente controllo sulle attività cognitive e non
conoscano le strategie richieste. Questi problemi si farebbero sentire in modo
particolare in apprendimenti complessi (come la comprensione, la soluzione di
problemi, ecc.), nello studio, nell'adattamento a situazioni nuove o che richiedono
modifiche nell'approccio al compito, nell'atteggiamento emotivo di fronte
all'apprendimento e di fronte all'intervento. Le difficoltà di studio, talora in
associazione con altre problematiche d'apprendimento possono presentare delle
specificità proprio in relazione con deficit metacognitivi.
6) la velocità di elaborazione  È infine indubbio che lo sviluppo cognitivo e buona
parte degli apprendimenti si basano sull'esecuzione veloce di una varietà di processi
che si susseguono e/o si integrano. L'assunzione che l'efficienza nell'esecuzione di
tutti questi processi sia basata su un unico meccanismo (ipotesi globale) si oppone
all'idea largamente diffusa per cui ciascun processo presenta in un individuo una sua
specifica efficienza e velocità di esecuzione (ipotesi specifica al compito). La
relazione trovata nella velocità fra diversi compiti sarebbe dovuta alle somiglianze
esistenti fra di essi e quindi alla possibilità di trasferire un'abilità specifica da un
compito all'altro. Tuttavia, alcuni hanno proposto a soggetti di diversa età compiti
basati sul tempo di reazione estremamente diversi richiedenti rispettivamente una
risposta diversificata in base e differenze nello stimolo, il confronto fra lettere, la
rotazione mentale di immagini e il ragionamento astratto, osservando collinearità
nelle variazioni dei tempi, in relazione all'età. Al di là dell'effettiva esistenza di un
unico meccanismo sottostante, è indubbio che la velocità di elaborazione influisce
sull'efficienza di molti apprendimenti.

9. Teorie dell'intelligenza e della differenziazione psicologica. ll modello a cono


precedentemente presentato offre uno schema che ha un diretto rapporto con lo studio dei
DSA e permette di affrontare il delicato problema del rapporto fra intelligenza e
apprendimento. Esso ci dice che gli apprendimenti fanno parte dell'intelligenza, ma ne
costituiscono componenti a diverso livello di centralità. Lo studio delle psicopatologie
cognitive evolutive illustra come le teorie unitarie dell'intelligenza siano deboli, ma anche le
teorie multiple incontrino difficoltà. Al di là dei problemi che le singole teorie possono
incontrare, va riconosciuto a talune di esse un contributo significativo per la comprensione
dei disturbi cognitivi evolutivi. Ad esempio, la teoria piagetiana ha trovato numerose
applicazioni per la comprensione del ritardo mentale e dell'apprendimento matematico.
Un altro celebre teorico dell'intelligenza, Sternberg, ha fornito spunti utili per la
classificazione dei DSA. La sua teoria delle «componenti» si riferisce alle relazioni fra
intelligenza e il mondo interno o mentale di un individuo e specifica tre tipi di componenti:
- metacomponenti  riguardano il funzionamento di un sistema esecutivo centrale di
pianificazione e diversificano dai soggetti normali quelli con ritardo mentale o grande
talento generalizzato;
- componenti di prestazione sono utilizzate nella esecuzione di varie strategie
richieste nell'azione concreta specifica e si organizzano in fasi di soluzione del
compito: esse sono deficitarie nel ritardo mentale e, per quanto riguarda i disturbi
dell'apprendimento, sono deficitarie in quelle che sono di «classe», ovvero che sono
comuni a classi di compiti, ma non attraverso domini multipli di conoscenza: ad

15
esempio i disturbi nella matematica potrebbero sorgere da difficoltà di esecuzione di
componenti di prestazione relative ad abilità algebriche o geometriche;
- componenti di acquisizione di conoscenza  sono processi usati nell’acquisire
nuove conoscenze- presentano notevole variabilità nei soggetti con disturbi
dell'apprendimento, soprattutto per il fatto che tali soggetti possono presentare
variabili livelli di conoscenza dei domini specifici.
Un modello di funzionamento mentale, che ha avuto grande influenza in ambito
neuropsicologico ed è stato applicato in Italia anche al campo dell'apprendimento, è quello
modulare teorizzato da Fodor in base al quale si assume, oltre ad un sistema centrale non
modulare, l'esistenza di sistemi cognitivi di elaborazione dell’input, chiamati moduli, fra loro
perfettamente indipendenti. Si caratterizzano per il fatto di interessare un singolo dominio
cognitivo, di essere predeterminati geneticamente, di avere una ben precisa struttura
neurologica, di non essere il risultato della composizione di abilità più semplici, di essere
autonomi, di dare avvio automatico e completo all’elaborazione dell'informazione che li
riguarda, di avere uscite poco profonde, di avere specifiche caratteristiche evolutive, di non
consentire all’informazione elaborativa contatti con altri sistemi. Il modello modulare si è
prestato molto bene a descrivere disturbi altamente specifici di lettura, ortografia e calcolo.
L'obiettivo dell'indagine neuropsicologica è stato quello di identificare i moduli non
funzionanti, ovvero le dissociazioni fra sistemi integri e sistemi deficitari. Una teoria
modulare è messa in crisi da molte assunzioni nel campo dei disturbi dell’apprendimento,
basate sull'evidenziazione di rapporti e contributi fra abilità diverse. Ad esempio, esistono
numerose evidenze di una relazione fra lettura e scrittura o fra i cosiddetti precursori
dell'apprendimento e gli apprendimenti successivi.

10. L'evoluzione longitudinale dei disturbi: dai fattori di rischio precoci ai profili
nell'adolescente e nell'adulto
Classificazioni e analisi dei disturbi dell'apprendimento tengono insufficientemente conto di
variazioni importanti che insorgono nell'arco della vita. È noto, ad esempio, che molti casi
diagnosticati a 4-6 anni per disturbo specifico di linguaggio poi possono trasformarsi in
disturbi di lettura, che la correlazione fra varie abilità scolastiche e fra esse e una misura di
efficienza intellettiva generale aumentano con l'età, che i disturbi visuo-spaziali possono
portare in adolescenza a disturbi emotivo-relazionali. Un interesse esteso allo sviluppo dei
disturbi lungo tutto l'arco di vita ha la conseguenza di offrire elementi prognostici e di portare
maggiore attenzione sui disturbi di apprendimento in adolescenza o anche in età adulta,
laddove tradizionalmente ci si era soprattutto occupati di studenti della scuola dell'obbligo.
Al contempo, l'analisi di bambini molto piccoli permette di seguire profili prescolastici a
rischio e, grazie all'identificazione precoce, mettere in atto programmi di prevenzione.

10.1. Disturbi di apprendimento in adolescenza


Se consideriamo quello che succede alla fine della scuola media inferiore, possiamo
osservare come gli strascichi di severi DSA si possano fare ancora sentire e possano
entrare in interazione con le problematiche tipiche dell'adolescenza oltre che con le
aumentate richieste della scuola. L'indagine guidata da Rutter e altri, sulla popolazione
dell'isola di Wight in Inghilterra, ha avuto particolare risonanza. Gli studiosi esaminarono,
nel 1964-65, bambini di 9-10 anni classificati in «lettori ritardati», «lettori specificamente
ritardati» e «normali». I soggetti furono esaminati quando aveano 14-15 anni. I due gruppi
con problemi di lettura presentavano ancora gravi problemi nella loro maggioranza, con una

16
media dell'età di lettura corrispondente a 9 anni, abilità di scrittura ancora inferiore e
problemi anche in matematica.
Se non ci si limita a considerare i casi più puri di DSA, ma di fa riferimento a una definizione
allargata di DSA, le caratteristiche stesse dell’adolescenza fanno pensare che i problemi
tendano ad accentuarsi. L'incidenza e la classificazione dei disturbi adolescenziali risultano
influenzate dal tipo di Servizio che vi viene a contatto e dai suoi criteri di classificazione.
L'adolescente con disturbi di apprendimento è stato descritto come un soggetto che
apprende passivamente e per il quale l'approccio metacognitivo e l'insegnamento di
strategie attive sono particolarmente utili. Dal punto di vista dell'apprendimento scolastico,
a casi di ritardi gravissimi nell'acquisizione di abilità strumentali si associano problemi legati
alle richieste tipiche delle scuole medie-superiori, quali la comprensione di testi complessi,
l'espressione scritta, il metodo di studio, il ragionamento matematico, la capacità di
concentrazione e organizzazione del proprio lavoro intellettuale. Dal punto di vista
comportamentale ed emotivo, abbiamo numerose analisi che evidenziano l'interazione di
questa sfera con quella cognitiva  es. i DSA e la sindrome non verbale hanno notevole
predisposizione al suicidio. Il DSA può essere portato a situazioni problematiche gravi, per
gli elementi associati relativi all'insuccesso, al conflitto e all'esclusione. In effetti, un'altra
conseguenza psicopatologica associata frequentemente ai disturbi di apprendimento
nell'adolescenza è costituita dalla devianza sociale  es. molti giovani incarcerati
presentano disturbi di apprendimento
 è opinione diffusa che la probabilità di delinquenza minorile è più che raddoppiata nei
soggetti con disturbi di apprendimento  molti DSA presentano minore abilità nel vedere i
problemi morali dal punto di vista della comunità, generali difficoltà nella comunicazione e
nella comprensione delle esigenze dell’interlocutore, maggiore propensione a seguire inviti
di coetanei a commettere atti antisociali, minore capacità di autocontrollo e di gestire le
conseguenze dell'azione criminosa commessa, deficit linguistico. L'insuccesso scolastico
più ancora che un vero e proprio DSA appare, nella storia di molti giovani delinquenti, il
primo passo verso una catena di eventi che precipitano verso la criminalità. L'insuccesso
appare legato a fattori quali esperienze di rifiuto o di critica, lo sviluppo di una autoimmagine
negativa e di un atteggiamento critico verso la scuola e le istituzioni, un aumento della
frustrazione, bocciature ed eliminazioni dalla carriera scolastica. Tale interazione di fattori
pare plausibilmente concorrere a provocare comportamenti devianti, anche se il ruolo
specifico di ciascuno di essi non è sempre univoco e chiaramente definibile. Va aggiunto
che, in molti casi, non è l'insuccesso per se stesso a produrre devianza, ma il profilo
psicologico sottostante, causa al tempo stesso di insuccesso scolastico e di comportamenti
problematici  es. caratteristiche quali lo scarso autocontrollo emotivo e la mancanza di
iniziativa, riscontrate all'età di tre-quattro anni, siano in grado di predire la tendenza a
prendere droghe o alcolici all'età di 14 anni. Va aggiunto che, per molti di questi ragazzi,
lasciare la scuola e trovare un lavoro potrebbe costituire un modo di uscire dal loop perverso
in cui sono entrati.

10.2. Disturbi di apprendimento in età adulta


Se facciamo partire l'età adulta dal momento in cui il giovane entra all'università, possiamo
constatare come, a livello di studi universitari, sempre più frequenti sono i giovani che
riportano di avere avuto un disturbo di lettura o attenzione. Molte università anche in Italia
hanno previsto servizi d'aiuto per studenti in difficoltà, compresi i DSA e spesso gruppi di
studenti si sono organizzati per ottenere facilitazioni. Celebre fu, negli USA, il processo che

17
vide contrapposti gli organi di gestione e gli studenti DSA della Boston University sulla
possibilità di essere esonerati dagli esami di matematica e lingua straniera

10.3. La prognosi nei disturbi dell'apprendimento e gli esiti in età adulta


Molti testi riportano valutazioni prognostiche indicative e generalmente offrono indicazioni
piuttosto pessimistiche, non solo per la persistenza del problema primario, ma anche per la
comparsa associata di altri problemi emotivi, sociali e economici.
In generale chi ha avuto DSA ha un lavoro meno remunerato, ma non presenta un minor
grado di soddisfazione sul lavoro o di benessere psichico. È interessante osservare che i
riscontri possono essere simili in nazioni differenti per legislazione e aperture sociali: alcuni
ricercatori, studiando alcune decine di adulti canadesi e statunitensi con DSA, hanno
riscontrato esiti di carriera simil e sostanzialmente soddisfacenti, anche se si è rilevata una
scarsa propensione a sfruttare eventuali facilitazioni di legge. Vi sono inoltre casi di DSA
che, lungo tutto l'arco di vita sono proceduti in maniera soddisfacente. Werner ha
identificato 5 cluster protettivi rappresentati da:
1) capacità relazionali resilienza e atteggiamento positivo di fronte alla vita;
2) auto-attribuzioni appropriate e realismo;
3) presenza di genitori adeguati;
4) presenza di un adulto di riferimento che abbia guidato e consigliato il giovane 5)
puntuali opportunità nei momenti di transizione.

10.4. L'identificazione precoce di rischio di DSA e l'intervento preventivo


Quando si cominciò a riscontrare che bambini con DSA presentavano tipicamente problemi
percettivi, fonologici, linguistici, concettuali e comportamentali ben radicati, venne naturale
riflettere sulla possibilità di riconoscerli prima dell’inizio della scuola primaria e di intervenire
su di essi per prevenire possibili problmatiche scolastiche. La storia del settore si è dunque
caratterizzata molto presto per progetti ambiziosi di identificazione e intervento precoce.
Per quanto concerne la possibilità di identificazione precoce, la ricerca Badian offre
un'esemplificazione dei possibili esiti a lungo termine. Badian ha riesaminato, dopo otto anni
di scolarizzazione (in corrispondenza della nostra terza media), 116 bambini che erano stati
identificati «a rischio», in asilo mediante una batteria di test, osservando come le previsioni
avessero correttamente messo a fuoco i problemi del 75% dei ragazzi. Analizzando i 12
casi con maggior problemi, Badian osservò che le caratteristiche che maggiormente
differenziavano questo gruppetto da altri studenti «a rischio» risultati poi senza problemi,
riguardavano la storia della nascita, la presenza di disturbi di apprendimento in
famiglia, lo status socioeconomico e il ritardo linguistico. Le metanalisi confermano
che problemi linguistici (in modo particolare nella comprensione orale e nella
consapevolezza fonologica) sono fra i migliori predittori dei disturbi di lettura e scrittura, che
inadeguate rappresentazioni della quantità predicono il disturbo di calcolo e problemi del
temperamento sono associati alla comparsa di DDAI (deficit di attenzione e iperattività).
A livello nazionale sono state svolte alcune ricerche, ma con un orizzonte temporale più
ristretto, limitato ad un massimo di due anni. In una di esse, Cornoldi e Pra Baldi hanno
visto come semplici questionari osservativi compilati da insegnanti hanno una capacità
predittiva comparabile a quella di test individuali. Essi hanno pertanto suggerito di iniziare
le procedure di screening con un questionario osservativo e quindi procedere ad una
valutazione approfondita mediante test cognitivi individuali dei soli bambini con punteggi

18
bassi al questionario. Una critica alle procedure di identificazione precoce è stata avanzata
da Gijsel, Bosman e Verhoeven che, in una ricerca svolta su 462 bambini di scuole per
l’infanzia olandese, hanno trovato modesta capacità predittiva di tutti gli indicatori più
ragionevoli, compresa la presenza di disturbi di linguaggio e di familiarità. L'indice che si
dimostrava maggiormente correlato con la successiva prestazione in lettura riguardava un
effettivo apprendimento lessicale iniziale, e cioè il riconoscimento delle lettere.

11. Metodologia della valutazione iniziale e degli esiti dei trattamenti


La gamma di strumenti a disposizione dell'operatore italiano si sta sempre più arricchendo,
offrendo la possibilità di una valutazione più articolata e approfondita, ma col rischio diffuso
che l'eccesso di procedure porti ad un'inflazione valutativa nei confronti dei bambini e ad
una difficoltà di confrontare valutazioni differenti. Gli strumenti principali sono pubblicati da
case specializzate soprattutt da organizzazioni Speciali e Erickson. In generale gli strumenti
disponibili sono stati oggetto di standardizzazione, ma circolano tranquillamente anche
strumenti privi di un riscontro psicometrico. Inoltre, anche per gli strumenti standardizzati,
quasi mai i requisiti psicometrici ottimali raccomandati a livello internazionale sono
soddisfatti. Evidenziamo qui alcuni dei problemi principali di tali strumenti e delle
conseguenti cautele da prendere.
1. Le standardizzazioni italiane avvengono senza un sostegno economico adeguato e
quindi si basano sulla collaborazione di laureandi e sulla buona volontà di volontari
con modalità eterogenee di somministrazione; un particolare problema è
rappresentato dalle somministrazioni a tappeto che producono prestazioni
tipicamente basse, con la conseguenza che qualsiasi bambino valutato in condizioni
ottimali rischia di essere sopravvalutato nel confronto coi dati normativi; un'altra
possibile conseguenza è che i campioni di standardizzazione siano piccoli, obsoleti,
non rappresentativi o raggruppati in fasce d'età molto estese.
2. Per molti test le norme fornite riguardano un campione di standardizzazione
straniero.
3. Per test altamente specifici che esaminano singole funzioni è facile che le proprietà
psicometriche siano molto deboli (per esempio l'attendibilità test sia inferiore a 0,5).
4
4. Alcuni specifici test o subtest, per facilitare la somministrazione, contengono un
numero molto limitato di item e/o possono portare ad una gamma limitata di
punteggi, per cui appare imprudente usare i normali indici psicometrici
5. Tradizionalmente i test di apprendimento si differenziano in distribuzione dai test
cognitivoneuropsicologici: i primi hanno una distribuzione a «J» e i secondi a
campana. La distribuzione a «J» è basata sul fatto che normalmente ci si attende
che molti bambini conseguano un certo obiettivo di apprendimento con la
conseguenza che molti casi si avvicinano ai punteggi massimi della distribuzione.
L'alternativa di rendere la prova maggiormente discriminante per diversificare i
bambini competenti tradirebbe questa finalità della valutazione degli apprendimenti
e rischierebbe di falsare la prova mettendo in difficoltà il bambino con item che non
sono alla sua portata. La conseguenza della distribuzione a «J» è che le scale ordinali
sono preferibili a quelle a intervalli e che la deviazione standard, qualora usata, risulta
contratta.

19
6. La debolezza degli strumenti rende meno affidabile la valutazione di efficacia degli
interventi, perché una variazione potrebbe essere imputata a effetti casuali delle
oscillazioni dei punteggi, misconoscendo effettivi sostanziali riscontri

12. Riabilitazione e abilitazione


Un buon contributo, per favorire una condivisione di significati di termini ambigui quali
«riabilitazione» e «abilitazione» ed una prassi clinica, viene ancora una volta fornito dalle
recenti Raccomandazioni per la pratica clinica dei DSA. Viene ripreso integralmente
quanto riportato dalle Linee guida del Ministero della sanità per le attività di riabilitazione:
«La RIABILITAZIONE è un processo di soluzione dei problemi e di educazione nel corso
del quale si porta una persona a raggiungere il miglior livello di vita possibile sul piano fisico,
funzionale, sociale ed emozionale, con la minor restrizione possibile delle scelte operative».
La riabilitazione è in relazione col disturbo e si pone come obiettivi:
a) la promozione dello sviluppo di una competenza non comparsa, rallentata o atipica;
b) il recupero di una competenza funzionale che per ragioni patologiche è andata
perduta;
c) la possibilità di reperire formule facilitanti e/o alternative.
Al contrarlo, l’ABILITAZIONE ha a che fare con lo sviluppo tipico ed è l'insieme degli
interventi volti a favorire l'acquisizione e il normale sviluppo e potenziamento di una
funzione; essa viene comunque riferita anche ai disturbi di apprendimento con la previsione
di interventi sia di carattere clinico che pedagogico. Sulla scelta e la realizzazione degli
interventi (ri)abilitativi il documento Consensus ribadisce che:
• il trattamento si deve basare su un modello chiaro e su evidenze scientifiche;
• un trattamento è efficace se migliora l'evoluzione del processo più della sua
evoluzione naturale attesa;
• il trattamento va regolato sulla base dell'effettiva efficacia dimostrabile;
• il trattamento deve essere erogato quanto più precocemente possibile tenendo conto
del profilo scaturito dalla diagnosi.
Il programma (ri)abilitativo definisce le aree di intervento specifiche, gli obiettivi, i tempi e le
modalità di erogazione degli interventi, gli operatori coinvolti e la verifica degli interventi, in
particolare:
1. definisce le modalità della presa in carico da parte della struttura riabilitativa;
2. definisce gli interventi specifici durante il periodo di presa in carico;
3. individua e include gli obiettivi da raggiungere previsti nel programma e li aggiorna
nel tempo;
4. definisce modalità e tempi di erogazione delle singole prestazioni previste negli stessi
interventi;
5. definisce le misure di esito appropriate per la valutazione degli interventi, l'esito
atteso in base a tali misure e il tempo di verifica del raggiungimento di un dato esito;
6. individua i singoli operatori coinvolti negli interventi e ne definisce il relativo impegno,
nel rispetto delle relative responsabilità’ professionali
7. prevede una puntuale verifica periodica con eventuali aggiornamenti durante il
periodo di presa in carico
8. va interrotto quando il suo effetto non sposta la prognosi naturale del disturbo.
Se queste raccomandazioni diventassero prassi comune in tutti i servizi pubblici e privati
che si occupano di interventi per migliorare l’espressività dei diversi disturbi

20
dell'apprendimento e le loro conseguenze, si raggiungerebbero degli standard sicuramente
elevati di qualità che permetterebbero inoltre di raccogliere dati comparativi sui risultati
ottenuti, unico modo per rendere sempre più efficaci ed efficienti gli interventi erogati.
Purtroppo, una serie di problemi contestuali e metodologici rende difficile realizzare in
maniera adeguata queste aspirazioni. In particolare la ricerca sulla efficacia dei programmi
(ri)abilitativi nei DSA incontra intoppi difficilmente superabili, quali la difficoltà a costituire
gruppi omogenei, la sostanziale impossibilità di avere gruppi di controllo, i tipico «rumore»
presente e la difficoltà a monitorare quanto avviene nelle sessioni abilitative, la presenza di
variabili rilevanti ma difficilmente controllabili, l'importanza pratica di affiancare alla
procedura sotto esame elementi di contorno e sostegno. Non deve stupire quindi che la
ricerca abilitativa possa contare su una quantità di dati scientifici estremamente più bassa
di quanto accada per la ricerca di base e sia accreditata su riviste di minore prestigio. Molti
materiali e programmi di lavoro, che godono in Italia di buona reputazione, sono privi di
qualsiasi evidenza empirica della loro utilità. In assenza di riscontri sicuri, bisogna
accontentarsi di indici di credibilità e di prove parziali.
Nell'ambito educativo esiste una gamma svariatissima di soluzioni didattiche che ancora
non sono state oggetto di interesse dei settori riabilitativi. Una delle ragioni di questa
sfasatura è costituita dal fatto che quelle proposte, oltre essere poco conosciute, non si
basano su modelli di funzionamento o su analisi de. disturbo, né presentano osservazioni
empiriche che siano attendibili, confrontabili e replicabili. Una riflessione sulle tecniche
d'intervento richiederebbe anche alcune considerazioni preliminari relative al rapporto fra
psicoterapia e intervento riabilitativo.
L’ambito educativo implica delle specificità di cui inevitabilmente la sperimentazione di
laboratorio non può tenere conto, quali:
a) le limitazioni amministrative nella selezione dei casi
b) la manipolazione contemporanea di più variabili quando il trattamento è di gruppo,
c) confusione fra gli effetti della classe e del trattamento
d) attriti e fedeltà della tecnica quando non è possibile seguire fino in fondo il ruolo
esercitato dagli insegnanti.
Inoltre, per interventi che non dichiarano esplicitamente di manipolare variabili emotive, non
è possibile escludere che esse siano in realtà in gioco. In conclusione, le ricerche ben
controllate richiedono la manipolazione di una o poche variabili e il rigoroso controllo degli
eventi che si verificano durante il trattamento e il periodo che precede la valutazione dei
risultati. Le ricerche di laboratorio sulle tecniche di intervento dimostrano generalmente che
la variabile manipolata ha presumibilmente un rapporto significativo con il disturbo e la
capacità di modifica dello stato di cose, ma non costituiscono un esempio di intervento
completo. Va aggiunto che le metanalisi sui training si basano generalmente sulle ricerche
pubblicate e queste risentono evidentemente di dati teorici ed empirici di varia natura che
non sempre offrono un quadro totalmente fedele della situazione.
Queste sono alcune delle caratteristiche generalmente associate alle tecniche prive di
sostanziale fondamento:
• appaiono prive di una chiara e logica connessione con il problema che devono
trattare
• non sono in relazione con teorie scientifiche accreditate
• non offrono prove scientifiche della loro efficacia
• si presentano come eccessivamente efficaci

21
• dichiarano di curare un'ampia gamma di diverse malattie
• si presentano con un'enfasi scarsamente scientifica, usando espressioni come
«completo», «immediato», «stupefacente», «esclusivo».
Le quotidiane difficili storie di rapporti con genitori che non vogliono riconoscere il problema
del figlio o lo vogliono interamente annullato dimostrano tuttavia che questi rischi saranno
sempre presenti e non del tutto contrastabili.

13. L'oggetto del trattamento riabilitativo


La logica più diffusa nell'intervento, sui DSA e’ quella del training centrato su deficit, che,
benche centrato inizialmente sulle abilità di base, si adatta anche a modelli funzionali,
perché suggerisce di promuovere l'acquisizione del meccanismo deficitario. La logica può
apparire contraddittoria dal momento che, se si assume che il meccanismo venga svolto da
un certo sistema neurologico e questo sistema è leso, non è chiaro come il soggetto possa
in poche sessioni di trattamento svilupparlo. Il training può abilitare il bambino nell'uso del
meccanismo promuovendo processi meno consueti, ma funzionalmente equivalenti.
Un'altra considerazione prioritaria nella programmazione dell'intervento è legata
all'importanza attribuita ai fattori individuali, da un lato, e a quelli ambientali e interattivi,
dall'altro. Il setting (ri)abilitativo è spesso strettamente individuale e rischia da un lato di
non riconoscere il ruolo di fattori ambientali, dall'altro di non utilizzare potenti variabili di
carattere sociale e soprattutto interattivo. Queste sono alcune delle ragioni per cui il
coinvolgimento di realtà esterne, la creazione di occasioni di apprendimento sociale e
collaborativo possono portare ad ottimi risultati.

13..1 Interventi sulla prestazione


In un certo senso, gli interventi sulla prestazione cercano di migliorare o rafforzare la
didattica per l'insegnamento della competenza deficitaria, in base ad un principio di «di più
della stessa cosa». Questo può avvenire sia aumentando il numero di ripetizioni dello stesso
comportamento, sia cercando soluzioni didattiche complementari. Se un bambino per
esempio, presenta difficoltà di lettura, può essere esercitato in misura intensiva e tenendo
conto di certi aspetti della didattica della lettura trascurati nell'insegnamento scolastico a lui
rivolto. Ripetizioni private individuali o presso centri pomeridiani vengono frequentemente
incontro a questa esigenza. Anche gli insegnanti, in collaborazione con i genitori, possono
identificare momenti di lavoro individualizzato o prevedere moderate quantità di lavoro
ad hoc per casa. Due autori hanno esaminato lo stile utilizzato nell'assegnazione di compiti
per casa a bambini con disturbi dell'apprendimento osservando diverse lacune e
pervenendo ad alcune raccomandazioni generali che consistono:
• nel dare istruzioni estremamente accurate sul lavoro richiesto e sulle modalità
attraverso cui avere degli aiuti
• nel controllare la loro comprensione delle istruzioni favorendo le domande
• nell'individuare alcuni studenti che controllino le istruzioni
• nel far iniziare ai ragazzi i compiti a scuola sotto la supervisione dell'insegnante.
Molte tecniche di ispirazione comportamentista si fondano sulla formulazione di obiettivi di
prestazione che spesso si identificano con gli apprendimenti mancati e studiano le strategie
più adeguate per raggiungerli.

13.2. Intervento sulle componenti della prestazione

22
Le tecniche comportamentali includono spesso la raccomandazione di svolgere una task
analysis (analisi del compito) relativa all'abilità deficitaria. Soprattutto se tale analisi è
sorretta da una conoscenza approfondita della natura del fenomeno, essa crea le condizioni
per un intervento differenziato e graduale che ha elementi di relazione con un training
centrato sulle componenti delle abilità (prestazioni) deficitarie. Questo tipo di intervento non
si limita ad esercitare la prestazione deficitaria, ma si propone di promuovere gli elementi
che la costituiscono. Questi elementi possono essere identificati sia attraverso un'analisi
non-psicologica delle operazioni e competenze che costituiscono una determinata abilità
(ad esempio, per fare un'addizione scritta bisogna riconoscere il valore della posizione di
un numero, saper allineare, conoscere il risultato di addizioni elementari, etc.), oppure
attraverso un'analisi psicologica.
Rispetto ad un intervento direttamente rivolto alla prestazione, questo tipo di intervento ha i
vantaggi di operare in base a criteri più fini, con la sicurezza di giocare su tutte le variabili
più semplici implicate, e di consentire interventi mirati laddove si trovi opportuno lavorare
solo su una o su poche componenti dell'abilità complessiva. Controindicazioni risiedono nel
fatto che esso mette meno direttamente in gioco la competenza implicata nella vita di tutti i
giorni e rischia di operare arbitrarie scomposizioni. Per queste ragioni, alcuni sostenitori
dell'intervento intervento sulle componenti, generali o specifiche che esse siano,
raccomandano di non limitarsi a questo tipo di lavoro, ma di integrarlo con l'esercizio sulla
prestazione.

13.3. Intervento sulle abilità generali


Nella storia della riabilitazione dei disturbi dell'apprendimento, si è assistito ad un grande
sviluppo di programmi centrati sulle abilità generali. Chiamiamo questo approccio intervento
sulle abilità generali piuttosto che è training sul processo per evitare confusioni con
l'intervento precedente o quello sul controllo strategico. Questa logica di intervento si è
basata sulla considerazione che:
a) bambini con disturbi di apprendimento scolastico presentano deficit in abilità di base
quali percezione visiva, uditiva, organizzazione spazio temporale, memoria,
linguaggio, pensiero, e psicomotricità
b) queste abilità di base sono implicate negli apprendimenti scolastici.
Se ne è dedotto che, se il bambino non impara, questo è dovuto ai suoi deficit nelle abilità
di base e dunque bisogna rimediare a tali deficit. Questo ragionamento ha però diverse
debolezze tali da non giustificare la stretta assunzione di causalità fra deficit nelle abilità di
base e problema di apprendimento scolastico e soprattutto non ha offerto prove sufficienti
che, per eliminare la difficoltà scolastica, la via ottimale è quella di prendere il problema
dalle radici, con un esteso intervento sulle remote basi cognitive della difficoltà. Questi
programmi non sono inutili per la promozione di abilità visuo-motorie, ma non si giustificano
se rivolti alla soluzione di difficoltà di lettura, scrittura e calcolo. Più specificamente, i
programmi sulle abilità psicomotorie hanno avuto largo seguito in Italia, costituendo una
delle ragioni di sviluppo di una professionalità non molto chiaramente definita di
«psicomotricista». La sottolineatura dell'utilità Di programmi psicomotori fu ancorata ad
esperienze cliniche episodiche ma non a ricerche sistematiche. Data la loro maggiore
relazione con molti apprendimenti scolastici, i programmi centrati sulla promozione di abilità
linguistiche hanno potenzialmente maggiore fondamento. Vi sono altri programmi sulle
abilità di base che hanno avuto meno seguito, anche se fondati sulla ricerca di base
cognitiva e neuropsicologica e con alcune interessanti evidenze di successo. Essi si sono

23
focalizzati su processi in parte differenti, come il ragionamento, la memoria di lavoro,
l'attenzione, la percezione uditiva.

13.4. Interventi strategici e metacognitivi


Quando si parla di training strategici si devono distinguere alcuni programmi classici e alcuni
programmi prevalentemente cognitivisti che sono più strettamente in relazione con la
ricerca di base e su cui ci soffermeremo. In questo contesto è stato sottolineato come i
disturbi di apprendimento possano essere dovuti alla mancanza tanto di automatismi
quanto di una corretta utilizzazione di tali automatismi e di una loro integrazione
strategica nei comportamenti finalizzati semplici e soprattutto altamente controllati.
L'intervento strategico viene applicato vuoi alle abilità che ancora non si sono
automatizzate, vuoi ai contesti che richiedono modifiche di automatismi, vuoi ad abilità
complesse in cui gli automatismi devono essere integrati, come ad esempio accade per la
comprensione nella lettura e la soluzione di problemi. Alcuni autori mettono l'accento sul
fatto che i soggetti con disturbo di apprendimento presentano soprattutto limiti di riflessione
sui processi, altri sulle difficoltà di controllo dell'attività cognitiva, altri ancora sulle scarse
conoscenza e utilizzazione di strategie specifiche volte a gestire le singole competenze in
difficoltà. Nei programmi ispirati a queste analisi è comunque sempre presente la
preoccupazione di rendere consapevole il bambino sul funzionamento della sua mente
e su natura e obiettivi del trattamento. Per quanto concerne la conoscenza metacognitiva,
varie evidenze ne hanno messo in luce la relazione coi bambini con disturbi
dell'apprendimento e l'utilità di intervento. Per quanto concerne il controllo dei propri
processi abbiamo pure varie evidenze che ne dimostrano carenze in soggetti con disturbi di
apprendimento e effetti benefici di trattamento.
Per quanto infine riguarda l'insegnamento delle strategie, si assiste ad una varietà di
proposte che compaiono nelle riviste specializzate nel contesto di più ampi programmi. Un
programma influente fu quello chiamato dell'«insegnamento reciproco» che si
caratterizzava per una serie di proposte di strategie per la comprensione nella lettura e per
una organizzazione didattica articolata in cui anche i compagni del bambino con problemi
entrano in gioco offrendo una specie di tutoring.

13.5. Materiali e media


Non possiamo esaminare il problema relativo a materiali, strumenti, sussidi di vario genere
che sono stati predisposti per i soggetti con disturbi dell'apprendimento. Esistono libri
costruiti con attenzione particolare, schedari, giochi esercii programmi informatizzati, ecc.
che costituiscono un prezioso bagaglio di opportunita’ che possono evitare al riabilitatore il
rischio dell'improvvisazione e il problema della costruzione faticosa di materiali ad hoc. Un
aiuto può avvenire dalla multimedialità. Ad esempio, la comunicazione non verbale può
integrare la comunicazione linguistica, la comprensione del messaggio visivo può integrare
la comprensione del messaggio scritto. Un medium privilegiato è rappresentato dal
computer e questo per una serie di ragioni che spiegano i motivi di un crescente interesse
per l'uso riabilitativo del computer. Molti ragazzi con disturbi di apprendimento mostrano di
gradire maggiormente e di non sentire come «scolastiche» le attività svolte al computer. Il
materiale per l'intervento, cartaceo, informatico, o altro, può avere diverso spessore
«scientifico» e può essere distinto nelle seguenti categorie:
1) didattico: studiato da più o meno bravi didatti e volto a favorire il normale
apprendimento;

24
2) didattico individualizzato: mirato a studenti con particolari difficoltà;
3) psicopedagogico: basato sugli studi scientifici sul processo d'apprendimento in gioco;
4) «scientificamente costruito e testato»: basato su studi scientifici e verificato
attraverso indagini che ne documentano l'efficacia.
Un difetto del materiale prodotto da molte case editrici è che tutto questo materiale è
messo assieme (senza una diversificazione) e c'è una prevalenza di materiale di tipo 1. I
materiali dovrebbero essere diversificati.

25
CAPITOLO 3: DISLESSIA E DISTURBI DELLA SCRITTURA

In questo capitolo
esaminiamo il caso più
emblematico di disturbo
specifico
dell'apprendimento (DSA)
e cioè quello del
disturbo specifico
nell'apprendimento
della decodifica di
lettura (lettura
decifrativa), conosciuto in tutto il mondo col termine «dislessia». La dislessia è
largamente conosciuta sia per la sua diffusione, sia per la sua potenziale alta specificità. In
effetti sono abbastanza frequenti i casi in cui sono totalmente rispettati i fattori di
inclusione: il bambino è intelligente, di buone condizioni socioculturali, senza problemi
emotivi rilevanti, ha fruito di un normale insegnamento, eppure presenta, sin dalla prima
elementare, una sorprendente difficoltà nell'apprendimento della lettura che permane
anche dopo che sono stati avviati sforzi notevoli per aiutarlo.
Un altro elemento che colpisce nella dislessia è la familiarità del disturbo, ovvero la sua
comparsa anche in un genitore, o un parente, o un fratello. La dislessia è stata pertanto
studiata dal punto di vista sia biologico, sia cognitivo che educativo.
Per quanto i manuali
diagnostici DSM-IV e ICD-10
menzionino separatamente i
disturbi di lettura e scrittura, noi li
affronteremo assieme perché
l'apprendimento della
decodifica e della competenza
ortografica risultano strettamente
legati. Nel testo useremo
prevalentemente l'espressione di
«competenza ortografica» invece della più semplice «ortografia». Il bambino
disortografico non è semplicemente lo studente che non conosce le regole, ma è lo
studente che ha delle difficoltà processuali sottostanti, per esempio fatica ad analizzare la
composizione fonologica delle parole e a passare da un codice fonetico ad uno grafemico.
L'abilità ortografica è stata oggetto di frequenti analisi anche in Italia soprattutto in ambito
didattico, con una distinzione fra una fase di acquisizione delle regole fonologiche
fondamentali e una fase di acquisizione delle strutture ortografiche che richiedono piu
grafemi per rappresentare un fonema (come i gruppi “ch, gh, gl…”). Nei saggi contenuti in
un lavoro di Frith emerge frequente l'idea che l'abilità ortografica non è solo una questione
di memoria ma e’ un processo linguistico complesso, ad es, legato all'astrazione di
regolarità presenti a livello fonetico e alle loro connessioni con l'uso della loro
rappresentazione ortografica. Nell'esaminare il caso della scrittura, considereremo anche
gli altri due fondamentali disturbi della scrittura e cioè i problemi del grafismo e problemi
dell'espressione scritta che invece sono sostanzialmente indipendenti dalla disortografia.

26
Con la presentazione ufficiale delle Raccomandazioni per la pratica clinica sui DSA della
Consensus conference del 2007, finalmente in Italia si è fatto un passo in avanti per
definire con maggiore precisione a quali manifestazioni cliniche ci si riferisce quando si
parla di dislessia, disortografia e disgrafia.
• per dislessia si deve intendere solo uno specifico disturbo nell'automatizzazione
(velocità) e nella correttezza della lettura;
• per disortografia solo uno specifico disturbo nella correttezza della scrittura (intesa
come processo di trascrizione tra fonologia e rappresentazione grafemica della
parola, da distinguere dalla correttezza morfosintattica)
• per disgrafia una specifica difficoltà nella realizzazione manuale dei grafemi e quindi
nel grafismo (di cui la calligrafia rappresenta un'esemplificazione emblematica).
Questa distinzione all'interno della scrittura, rappresenta un passo in avanti anche rispetto
al termine «dysgraphia», utilizzato nella letteratura internazionale, che a volte viene usato
per descrivere entrambi questi aspetti della scrittura.

Dislessia Evolutiva (slide)


• ICD-10 (OMS, 2016): disturbo specifico di lettura; codice F81,0
• ICD-11 (OMS, 2018): disturbo evolutivo dell’apprendimento con difficoltà nella
lettura; codice 6A03,0
• Consensus Conference (ISS, 2011)  disturbo specifico nella decodifica, ossia
nell’automatizzazione (velocità) e correttezza (numero errori) della lettura
La comprensione del testo in Italia non rientra tra i criteri per una diagnosi di dislessia, ma
è comunque considerata un parametro essenziale per un inquadramento funzionale del
disturbo

1. Problemi aperti nella valutazione di dislessia e disortografia


Se il problema di definire con precisione a cosa si riferiscono dislessia, disortografia, ecc.,
dovrebbe essere superato, rimane aperto il problema di come misurare questi disturbi da
un punto di vista psicometrico, vale a dire quali strumenti usare e quali parametri
considerare per integrare la valutazione clinica. Per valutazione clinica intendiamo
l'accertamento dell'impatto che le difficoltà in lettura e in ortografia hanno nella vita di tutti i
giorni con particolare attenzione non solo alle problematiche presenti nello studio e nella
riuscita scolastica, ma anche alle possibili ripercussioni sul piano emotivo e relazionale (per
esempio nella costruzione dell'immagine di sé, nell'acquisizione di un'adeguata autostima
nelle proprie risorse, ecc.). Tornando alle questioni aperte per quanto riguarda la
valutazione psicometrica, non essendo definite dalla Consensus conference né le prove da
utilizzare, né quanti e quali dovrebbero essere i parametri che devono ricadere nella fascia
critica, è subito evidente il rischio di arrivare a decisioni diagnostiche contrastanti. Risulta
chiaro che, se due clinici usano strumenti diversi scegliendo per esempio tra lettura di un
brano, liste di parole o di non parole, oppure tra scrittura spontanea, dettato di un brano, di
parole e di non parole e inoltre usano diversi parametri per definire la fascia critica, può
accadere che giungano a valutazioni diverse. Un problema aperto (capitolo 1) è il
riferimento a misure normative diverse, come ad esempio sillabe al secondo, secondi per
sillaba, tempi totali di esecuzione, medie e deviazioni standard o percentili. Per le prove di
apprendimento l'uso di scale ordinali o di fasce di prestazione appare più prudente
rispetto all'uso di media e deviazione standard. Alcuni autori hanno osservato come le

27
difficoltà di valutazione possano essere risolte solo facendo riferimento a comuni strumenti
di valutazione e alle loro misure di standardizzazione. Le prove da utilizzare in sede di
accertamento delle condizioni di inclusione nei criteri diagnostici del disturbo dovrebbero
essere il più possibile simili alla prestazione richiesta nella vita di tutti i giorni e allo stesso
tempo «neutre» rispetto ai diversi modelli teorici che cercano di qualificarne le
caratteristiche. In questa prospettiva:
- la verifica della competenza nella lettura dovrebbe prevedere una prova di lettura di
un brano e di liste di parole;
- la valutazione della scrittura, dovrebbe considerare una prova di produzione del
testo, una prova di dettato di parole e una prova di velocità di produzione di grafemi.
Tipi di prove:
a) Per la lettura di brani, ci riferiamo alle Prove di lettura MT nelle loro ultime
standardizzazioni;
b) per la lettura di liste di parole alla Batteria per la valutazione della dislessia e
disortografia evolutiva.
c) Come prove di produzione di un testo ci riferiamo alle prove di descrizione e
narrazione contenute nella Batteria per la valutazione della scrittura e della
competenza ortografica nella scuola dell'obbligo che comprende anche quelle di
velocità di produzione di grafemi.
d) Per la prova di dettato di parole ci riferiamo a quella contenuta nella Batteria per la
valutazione della dislessia e disortografia evolutiva.
Inoltre, in merito alla scelta dei criteri psicometrici da considerare allo scopo di stabilire se
la prestazione è indicativa di una condizione di rilevanza clinica (criterio di inclusione del
disturbo), è ragionevole la proposta che, in entrambe le prove di lettura, ci sia almeno un
parametro (velocità o accuratezza) che rientri nella fascia critica.
Anche per quanto riguarda l'ortografia, il numero di errori dovrebbe essere uguale o inferiore
al 5° percentile in entrambe le prove utilizzate.
Per la velocità di produzione di grafemi, si propone come criterio di inclusione una
prestazione uguale o inferiore alle due deviazioni standard in almeno due delle tre prove
previste. Se invece la prestazione di lettura rientra nella fascia critica solo in una prova
(per esempio test di lettura di parole), il problema ha una portata più ridotta ed è dunque
opportuno prestare attenzione alle strategie compensative che il bambino ha sviluppato e
che gli permettono di utilizzare la lettura in modo sufficiente. Analogamente si può
procedere per l'ortografia e la velocità di produzione di grafemi.

LE PROVE MT
Le prove MT Sono prove di tipo individuale, il bambino legge ad alta voce la storia stampata
su un cartoncino mentre l’esaminatore ha a disposizione una scheda con il numero di sillabe
(accanto alla storia) e sul retro una griglia per la raccolta dei dati Ci si deve munire di
cronometro per registrare il tempo di lettura Ci si deve accertare che l’alunno non sia
particolarmente agitato di fronte al compito Modalità di somministrazione «Ora dovrai
leggere ad alta voce il brano che hai qui davanti, voglio vedere se sai leggere bene.
Guarderò col cronometro il tempo che impieghi, ma comunque non ti preoccupare troppo di
andare veloce. A me interessa che tu legga meglio che puoi, cioè facendo meno errori
possibile e leggendo in modo piano e scorrevole, in pratica devi leggere come fai
solitamente quando ti impegni»

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Compiti dell’esaminatore:
− Leggere ad alta voce il titolo
− Indicare con il dito il punto iniziale del brano
− NON intervenire per segnalare l’errore di lettura
− Indicare con il dito il salto di una riga o il ritorno su una riga già letta
− Leggere la parola seguente se il bambino si arresta per più di 5 secondi su una parola
− Sospendere la prova se entro 4 minuti non è stata terminata la lettura
− Segnare il tempo e gli errori
Siglatura degli errori
Non si considera errore la pronuncia di una parola che può essere attribuita all’uso dialettale
o a disturbo di articolazione. L’insegnante segna l’errore sulla parola nel testo, se non fa in
tempo può utilizzare i seguenti simboli:
• ^ = aggiunta
• / = spostamento
• -= Inesatta lettura (sostituzione)
• 5’’ = pausa > 5 secondi
• II = grossa esitazione
• () = omissione
Attribuzione dei punteggi
Punteggio di correttezza 1 punto per i seguenti errori:
− Inesatta lettura di sillaba
− Omissione di sillaba, parola o riga
− Aggiunta di sillaba, parola e rilettura di riga
− Pausa > 5 secondi

½ punto:
− Spostamento di accento
− Grossa esitazione
− Autocorrezione per errore grave

− Errori che non cambiano il significato della frase Errori ripetuti sulla stessa parola
vengono contati una sola volta Classificazione degli errori
Grossa esitazione = si «ingarbuglia» pur non interrompendo la lettura producendo varie
forme scorrette (per esempio «Salmo..Salon…Sa.lo.mo.. Salomone»), introduce
l’intercalare «Ehmm» > 5 secondi o allunga la lettera iniziale/centrale/finale > 5 secondi;
Errori con parole connesse = errori che riguardano due o più parole connesse (si penalizza
una sola volta)
Mantenimento del significato del testo = errori che non cambiano il significato del testo (per
es. «anziano re» per «vecchio re») oppure non lo cambiano in modo sostanziale (per es.,
«aveva un uomo» invece di «amava un uomo»)
Errori marginali = cambiamenti marginali di testo che non vanno penalizzati (per es. «sono
disposti» invece di «son disposti»)
(esempi nelle slide)

29
2. Modelli interpretativi
Una volta definiti i criteri di inclusione si apre la fase di definizione delle caratteristiche
del disturbo. Poiché le ricerche e le prospettive in questo settore sono moltissime, si
presenteranno solo quelle che possono avere un'immediata ricaduta pratica sia per gestire
al meglio le conseguenze di questo disturbo, sia per cercare di migliorare il livello iniziale
tramite interventi riabilitativi specifici. Date inoltre le note differenze tra sistemi ortografici
con diverso grado di regolarità tra ortografia e fonologia, abbiamo scelto di privilegiare quelle
condotte in Italia con le relative ipotesi interpretative.

MODELLI INTERPRETATIVI E PROFILI COGNITIVI


1) Deficit di tipo cognitivo
• Deficit fonologico
• Ipotesi del deficit visivo
• Ipotesi del doppio deficit (fonologico e denominazione)
• Ipotesi delle due vie
2) Intelligenza, memoria di lavoro e «binding »

2.1. Ipotesi del doppio deficit


L'ipotesi che il locus del disturbo possa essere distinto in un deficit nella componente
fonologica e un'inefficienza nel recupero rapido di informazioni fonologiche e quindi di

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denominazione veloce ha una lunga storia. Quello che sembra emergere da questi contributi
è che, per le ortografie maggiormente regolari, la costruzione delle relazioni tra ortografia e
fonologia è un obiettivo non particolarmente problematico che al massimo può essere
acquisito un po' in ritardo. Apprendere la conversione tra grafema e fonema, quindi non
rappresenterebbe un serio ostacolo al raggiungimento del livello quasi normale di
correttezza sia per la lettura sia per la scrittura. Il vero ostacolo sarebbe rappresentato dalla
fluenza, derivante, sembra, da un rallentamento nei processi di recupero dalla memoria
a lungo termine delle informazioni rilevanti (in particolare di sillabe, morfemi, affissi e
suffissi della parola) e lessicali. Le ricerche dimostrano che la correttezza nella lettura di
un brano possa raggiungere livelli di completa normalità per la maggior parte dei bambini
con diagnosi di dislessia, mentre la velocità possa essere migliorata, ma solo in pochi casi
normalizzarsi.
- Doppio deficit
• componente fonologica • processi inefficienti di recupero veloce di informazioni
verbali (rapid naming o denominazione rapida)

2.2. Ipotesi delle due vie


Questo è il modello sicuramente più studiato all'interno della neuropsicologia cognitiva che
deriva dagli studi sulla dislessia acquisita dei primi anni 80. Il modello sostiene che la lettura
può avvenire normalmente tramite due vie:
- una fonologica (che si basa su regole di trasformazione del testo scritto in
corrispondenti fonemici)
- una diretta che porta al riconoscimento immediato della parola scritta.
In alcuni disturbi di lettura sarebbe compromessa la via fonologica (dislessia fonologica,
dislessia lettera-per-lettera), in altri la via diretta (dislessia superficiale) e in altri ancora
(dislessia profonda, iperlessia) l'accesso al significato. Da questi elementi è chiaro quindi
che per valutare l'efficienza dei due modi di leggere una parola, sono necessarie prove ad
hoc, come per esempio, liste di non parole che valutino l'efficienza della cosiddetta via
fonologica o indiretta e liste di parole che permettano di rilevare l'eventuale sensibilità alla
frequenza d'uso delle parole o il riconoscimento di parole omofone, ma non omografe
(parole cioè che si pronunciano allo stesso modo pur essendo formate da grafemi diversi
per esempio /cuore/quore/ o da grafemi disposti diversamente, per esempio /l'ago/lago/).
Prove di questo tipo sono
disponibili nella Batteria per
la valutazione della
dislessia e disortografia
evolutiva. Il modello a due
vie è tuttora molto utilizzato
anche se oggetto di molte
contestazioni per il fatto che la
classificazione del tipo di
dislessia cambierebbe a
seconda dei metodi utilizzati,
del riferimento normativo (età
cronologica vs. età di lettura)
e i parametri (accuratezza vs. velocità).

31
Per la lingua italiana, sempre come conseguenza dell'alta regolarità tra ortografia e
fonologia, alcuni studiosi hanno sostenuto che il disturbo di lettura sia conseguenza di un
arresto o di un marcato rallentamento nell'acquisizione della fase lessicale, la fase cioè
che permette di riconoscere una parola intera senza necessità di operare delle
trasformazioni intermedie tra ortografia e fonologia usando singoli grafemi, sillabe o
morfemi. Tuttavia, se si considera anche il parametro velocità e non solo quello della
correttezza, rimane da spiegare perché i bambini con dislessia siano sempre più lenti
rispetto ai normolettori e la loro velocità aumenti quasi regolarmente rispetto al numero di
grafemi presenti nella parola da leggere. Inoltre, altri ricercatori trovano che anche i
bambini con dislessia siano sensibili alla frequenza d'uso delle parole e al contesto dei
grafemi, dimostrando quindi che anche loro utilizzano la via lessicale.
Per quanto riguarda la disortografia, senza dubbio meno studiata della dislessia, il modello
a due vie sembra comunque abbastanza solido per spiegare l'evoluzione degli errori sia
nello sviluppo tipico che in presenza di un disturbo La valutazione dell'efficienza delle due
vie per scrivere in modo corretto ortograficamente può essere effettuata utilizzando la prova
di dettato di parole e di frasi con omofone contenute nella Batteria per la valutazione della
dislessia e disortografia evolutiva.
Sintesi:
- via fonologica  dislessia fonologia o dislessia lettera-per-lettera
- via diretta  dislessia superficiale

2.3. Problemi visivi?


La possibilità che la dislessia sia anche conseguenza di un qualche problema visivo ha una
lunga storia spesso costellata da aspre battaglie tra coloro che sostengono o
ridimensionano la componente percettiva del disturbo e quella attentava. In particolare, in
questi ultimi anni, l'accento è stato messo sul deficit (o scarsa efficienza) del sistema
magnocelullare o transiente utilizzato nei processi di decodifica delle lettere o parole, di
quella parte cioè del sistema visivo che permetterebbe di rilevare movimenti e rapidi
cambiamenti nella periferia del campo visivo. Nella lettura questo sistema permetterebbe di
dirigere i movimenti oculari verso la parola o una sua parte, la quale deve essere
successivamente messa a fuoco per essere riconosciuta e associata alle sue
corrispondenze fonologiche. Anche in Italia, alcuni ricercatori si sono occupati di questo
problema. Tuttavia, in una serie numerose ricerche, si e’ dimostrata l'esistenza di un
problema di spostamento rapido dell'attenzione spaziale, sia visiva che uditiva in bambini
con dislessia. Spinelli e colleghi hanno osservato che circa il 30% dei ragazzi dislessici da
loro esaminati riportava una difficoltà particolare quando alcune delle parole e delle non
parole da identificare erano presentate mescolate ad altre (per esempio «gesto» in
«maestrogestocugini»). Una percentuale un po’ inferiore, il 23%, ma sempre rilevante,
dimostrava questo effetto anche se doveva identificare dei simboli astratti. Questo risultato
è riconducibile al fenomeno definito come effetto «crowding» o «affollamento» della lettura.
- Ipotesi del deficit visivo  danno a carico del sistema visivo magnocellulare
- Ipotesi del deficit di attenzione visuo-spaziale (effetto crowding o effetto affollamento)
- Ipotesi del deficit dello span di attenzione visiva

3. L'analisi dell'apprendimento della lettura

32
Un'utile euristica per esaminare un disturbo evolutivo è quella di tenere conto del processo
tipico di sviluppo della competenza. Infatti, spesso i disturbi si configurano come ritardi e
quindi il problema del bambino risiede nel fatto che, rispetto ai coetanei, egli è in una fase
precedente e la soluzione può consistere nel promuovere lo sviluppo delle fasi
immediatamente successive a quelle a cui il bambino si è fermato. Anche quando il
disturbo non è interpretabile nei termini di ritardo, può essere comunque utile il riferimento
alle tappe dell'apprendimento
normale, per identificare in quali
tappe l'apprendimento è stato
lacunoso e capire quanto queste
lacune rendono ragione del
problema. Per quanto concerne
l'apprendimento della lettura e
dell'ortografia, molte analisi si
sono soffermate sugli
antecedenti precoci, che
favoriscono lo sviluppo di
competenze sottostanti a livello
non solo cognitivo, ma anche
metacognitivo e motivazionale.
Per esempio, l'esposizione frequente del bambino a narrazioni o a libri
sviluppa tanto un interesse per i contenuti tipici dei testi quanto una consapevolezza
delle specificità e delle regolarità dei caratteri scritti rispetto ad altri segni grafici.
Altri precursori dell'apprendimento della lettura e della scrittura sono rappresentati
dall'elaborazione fonologica, dalla memoria fonologica, dallo sviluppo del lessico, dalla
capacità di analizzare i segni grafici tipici dei grafemi, dall'elaborazione visiva di segni
affollati, dalle prime operazioni di integrazione di suoni linguistici e segni grafici. Il modello
a due vie è stato integrato con modelli di apprendimento come quello di Uta Frith
semplificato nella figura di prima. Secondo questo modello, la fase centrale e per certi versi
cruciale nell'apprendimento della lettura è quella definita alfabetica. In questa fase, il
bambino acquisisce, ma soprattutto automatizza, il riconoscimento di parti della parola
scritta sempre più ampie. Inizialmente il lettore si basa su ogni singolo grafema, ma quasi
contemporaneamente inizia la fase alfabetica, in cui egli fa riferimento a gruppi di lettere
corrispondenti alle sillabe, ai prefissi e suffissi, ai morfemi. L'individuazione e la
sottolineatura dell'importanza della fase alfabetica hanno ottenuto una mole di conferme da
parte di moltissimi autori tanto da rappresentare un dato estremamente solido, pronto sia
per rivedere le pratiche didattiche di insegnamento che per l'analisi dei disturbi di
apprendimento della lettura e della scrittura. Meno completa è invece la conoscenza dello
sviluppo della fase lessicale e della sua relazione con lo sviluppo di quella precedente. I
dati che stanno emergendo per la lingua inglese indicano che i bambini apprendono
gradualmente il rapporto tra rappresentazione fonologica e ortografica a differenti livelli,
singole lettere, gruppi grafemi corrispondenti a componenti subsillabiche e sillabiche,
morfemiche, fino a formare un'associazione specifica a livello di parola intera. In breve essi
acquisiscono una molteplicità di connessioni di cui quelle a livello sublessicale (lettere,
sillabe, ecc.) servono per il riconoscimento di parole nuove o comunque non ancora
riconosciute a livello intero, mentre quelle a livello lessicale servono per il riconoscimento di
parole irregolari e quelle già divenute familiari.

33
Un schematico adattamento del
modello assume che le tre fasi
descritte non siano indipendenti e
successive ma evolvano in parallelo e
in relazione, con ritmi tuttavia diversi.
La ricerca evolutiva ha però
evidenziato la semplificazione
presente nei modelli neuropsicologici
e ha messo in luce una serie di
importanti passaggi che portano
all'acquisizione di lettura e scrittura. La
descrizione qualitativa delle tappe di
apprendimento della lettura può
essere integrata con un'analisi
quantitativa di come esso avviene. Per le lingue «trasparenti» come l'italiano ove
sostanzialmente si legge come è scritto, il parametro fondamentale di valutazione della
lettura è rappresentato dalla rapidità con cui il bambino legge, mentre in lingue non
trasparenti come per esempio l’inglese, la capacità di evitare errori assume altrettanta, se
non maggiore importanza.

4. Sintesi delle procedure diagnostiche di inclusione

34
Nei casi in cui occorre stabilire dei
criteri di inclusione (come accade
soprattutto nei servizi pubblici),
piuttosto che semplicemente limitarsi a
rilevare l'entità e la qualità del problema
(come, in linea di principio sarebbe più
sensato fare), la tabella sintetizza
possibili procedure diagnostiche e
criteri per l'inclusione nella categoria
dei disturbi della lettura e della scrittura
e per eventuali approfondimenti.

35
«Binding» cross-modale di memoria di lavoro

= correlazione tra l’abilità di apprendere associazioni arbitrarie tra figure e suoni e l’abilità di
lettura, entrambe deficitarie nella dislessia.

36
Ruolo della comorbilità
È un dato ricorrente che la condizione di dislessia sia spesso associata a quella di
disortografia e queste, a loro volta, lo siano rispetto ad esempio ad una condizione di
discalculia o altri disturbi evolutivi, come ad esempio un disturbo da deficit di attenzione-
iperattività o disturbi del comportamento o dell'umore. Per ora, la posizione più
prudente sembra essere quella adottata dalle Raccomandazioni per la pratica clinica sui
DSA della Consensus conference, cioè quella di considerare la compresenza di disturbi
come co-occorrenze senza sbilanciarsi nelle ipotesi su un fattore eziopatogenetico comune.
Un sostegno a questa posizione prudente deriva dal fatto che a tutt'oggi non si sono
identificate caratteristiche chiaramente diverse della dislessia o della disortografia sia
quando sono associate tra loro, sia quando si presentano isolate, sia quando si manifestano
in associazione con altri disturbi specifici dello sviluppo. In particolare, durante la raccolta di
dati anamnestici, spesso viene data notevole importanza alla presenza nella storia del
bambino di un pregresso disturbo specifico di linguaggio (DSL) e ad una eventuale
familiarità del problema. La ricerca ha raccolto una importante mole di dati in grado di
indicare che questi fattori (familiarità e DSL) rappresentano delle condizioni di rischio per
l'eventuale comparsa di un disturbo specifico di lettura o di ortografia. Occorre tenere
presente che la ricerca di indicatori di rischio per i DSA,

5. Trattamento della dislessia


Per quanto la possibilità di individuare precocemente il rischio di disturbi di lettura e quindi
intervenire preventivamente sia costantemente messa in discussione, esistono valide
motivazioni teoriche, empiriche e pratiche per valorizzare gli sforzi in tale direzione. Ormai
esiste una solida letteratura che indica, come migliori predittori del successo in lettura e
scrittura, le abilità più prossime alla lettura e all'ortografia. Quando si parla di abilità prossime
ci si riferisce a quelle competenze che più si avvicinano al compito della lettura e della
scrittura. In particolare, in fase prescolare s'intendono le abilità metafonologiche di analisi
e sintesi fonologica e il riconoscimento o la scrittura di singoli grafemi. Questi dati sono
abbastanza coerenti sia per l'italiano sia per l'inglese, con una documentata efficacia degli
interventi per potenziare queste abilità che sarebbero, se stimolate adeguatamente, in grado
di ridurre il rischio di disturbo di lettura o scrittura.

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Per quanto concerne il trattamento vero e proprio di dislessia e disortografia, gli operatori
italiani hanno a disposizione una quantità immensa di materiali e proposte per il trattamento
di dislessia e disortografia, che vanno da suggerimenti, a proposte didattiche, a materiali
psicopedagogici e infine a procedure specifiche controllate sperimentalmente. Inoltre,
pratica e attività aspecifiche possono facilitare il bambino. Il riferimento alla pratica ricorda
come il dislessico tende, per problemi motivazionali e di scarsa competenza, a leggere
meno dei suoi coetanei e questo riduce la sua probabilità di memorizzare le forme scritte.
Tutte le vie seguite per aumentare la quantità di materiale letto (stimoli accattivanti, giochi,
contenuti di particolare interesse, ecc.) sono in questo senso benefiche. Attività aspecifiche
possono essere considerate tutte quelle attività che non hanno a che fare con la specifica
difficoltà del bambino, ma comunque mettono in gioco processi implicati nella lettura. In
questo contesto gli aspetti emotivo-motivazionali sono centrali. Infatti, poiché il bambino
manterrà qualche difficoltà di lettura, è importante che comunque non gli si faccia pesare
troppo il suo problema. L'insegnante dovrà sempre ricordare che un bambino dislessico può
raggiungere qualsiasi traguardo intellettuale. Se il dislessico non raggiunge mete alla sua
portata la colpa è di chi non ha saputo metterlo nelle condizioni ottimali. L'insistenza sulla
lettura di lunghi testi spesso ad alta voce o sulla scrittura, può mettere in difficoltà il
dislessico; queste richieste possono essere sostituite con brani più brevi, attività di
visualizzazione o pratiche, ascolto di lezioni senza ridurre l'impegno della richiesta, ma
cambiandone semplicemente la modalità. Le raccomandazioni fornite alle Scuole da parte
del Ministero della pubblica istruzione sono di considerare l'eventuale ricorso a misure
compensative e dispensative.

Attività aspecifiche che possono meditare l'apprendimento della lettura


• Familiarizzare il bambino col mondo dei libri, con visite in libreria, biblioteca,
esposizioni di testi
• Offrire con l'esempio l'idea del piacere associato alla lettura
• Prevedere a scuola momenti specificamente dedicati alla lettura personale
• Leggere al bambino facendo in modo che egli possa seguire ove si sta leggendo
• Evitare che attività scolastiche di lettura siano necessariamente legate
all'assegnazione di compiti associati
• Prevedere scambi di comunicazione scritta
• Far leggere al bambino testi noti o testi scritti da lui stesso
• Registrare la lettura e farla riascoltare avendo sotto gli occhi il brano letto
• Far leggere al computer
• Far leggere testi di particolare interesse, libri-gioco o altro
• Fare giochi che prevedono composizione e scomposizione di parole (per esempio
Sciarade, Scarabeo, ecc.)
• Fare attività e giochi che prevedono ricerca visiva rapida (per esempio il ritrovamento
di un nome in un testo, in una carta geografica, ecc.)
• Mobilitare la riflessione sui processi, il significato e l'importanza dell'attività di lettura
• Indurre nel bambino la convinzione di avere in sé i mezzi per migliorarsi
• Ricorso a misure compensative e dispensative.

Abbiamo sottolineato più volte l'importanza di considerare le differenze dei sistemi


ortografici quando si utilizzano i dati provenienti dalla ricerca scientifica per definire e

38
valutare la condizione di dislessia e di disortografia. La stessa raccomandazione vale anche
quando ci si riferisce agli esiti di trattamenti per stabilire il miglioramento della correttezza e
della velocità della lettura e della scrittura. Per quanto riguarda la condizione di dislessia,
negli ultimi sei-sette anni si sono raccolte importanti informazioni che ci permettono di
comprendere meglio quali dovrebbero essere le caratteristiche dei trattamenti più efficaci e
quali risultati si possono attendere a seconda dell'età cronologica e quella di lettura. Inoltre,
grazie ad una serie di studi comparativi si sono iniziati a raccogliere anche i primi dati di
efficienza, una misura che permette di confrontare i risultati ottenuti rispetto al tempo e alle
ore di erogazione del trattamento, un parametro importante data la generale carenza di
risorse disponibili per gestire la domanda di intervento. Sembra che i trattamenti più efficaci
siano quelli che inizialmente puntano a raggiungere la massima correttezza senza
enfatizzare la velocità, proponendo subito dopo esercizi per l’automatizzazione del
riconoscimento di sillabe e parole meglio se utilizzando brani mediante software ad hoc.

Dagli esiti di questi trattamenti sono emersi dati interessanti che cerchiamo di riassumere
nei seguenti punti:
1) il fattore età cronologica non è un fattore penalizzante per il trattamento e quindi si
possono ottenere importanti cambiamenti anche quando si frequenta la scuola
media;
2) si è potuto osservare che con una media di trattamenti di 7-8 ore al mese, è possibile
ottenere cambiamenti clinicamente significativi, nell'ordine di 0,3-0,5 sillabe al
secondo, anche in soli due mesi;
3) a parità di ore al mese di trattamento, si possono ottenere cambiamenti equivalenti
sia seguendo un trattamento ambulatoriale che domiciliare;
4) si possono ottenere miglioramenti nella velocità di lettura sostanzialmente della
stessa entità, ripetendo il ciclo di trattamento due o anche tre volte;
5) la maggior parte dei bambini trattati può raggiungere un livello normale di
accuratezza (ma non in rapidità) nella lettura di un brano;
6) l'utilizzo di brani (piuttosto che parole o non parole) come materiale per le
esercitazioni al computer, oltre che essere sicuramente più simile alla lettura su carta,
è sufficiente per ottenere cambiamenti clinicamente significativi;
7) è possibile ottenere cambiamenti clinicamente significativi per quasi tutti i bambini
indipendentemente dalla presenza di comorbilità con altri disturbi dell'apprendimento
o con disturbi dell'attenzione;
8) non si evidenziano fattori predittivi soddisfacenti dei miglioramenti osservati tra i dati
iniziali e l'esito dei trattamenti;
9) si riscontrano ampie differenze individuali in risposta a tutti i tipi di trattamento.
Questi dati sembrano piuttosto incoraggianti. Indicherebbero infatti che raggiungere la
«normalizzazione» nella correttezza in lettura sia un traguardo possibile per la maggior
parte dei soggetti. Diversamente, lo stesso obiettivo nella velocità in lettura sembra piuttosto
difficile da raggiungere; ciononostante, si può ipotizzare che un livello appena sufficiente
per acquisire una discreta autonomia nello studio (stimabile attorno a 2,5-3 sillabe al
secondo) può essere raggiunto con una serie di cicli di trattamento con le caratteristiche di
quelli più efficaci, della durata di due-tre mesi. In questo ambito, anche dal punto di vista
metodologico, si sono fatti diversi passi in avanti che desideriamo richiamare. Innanzitutto,

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per misurare i cambiamenti si utilizzano quasi regolarmente prove (lettura di brano e di liste
di parole e non parole) e criteri di selezione comuni.
Ancora, i cambiamenti avvenuti dopo intervento riabilitativo non vengono solo analizzati
attraverso confronti statistici per verificare l'ipotesi nulla sulle prestazioni valutate prima e
dopo il trattamento, ma soprattutto anche come cambiamenti clinici effettivamente rilevanti.
In questo caso si utilizza ad esempio una misura del cambiamento del dato grezzo rispetto
a quanto atteso confrontandolo con quello atteso dall'evoluzione cosiddetta naturale della
prestazione, vale a dire col cambiamento stimato senza la presenza di interventi specialistici
prolungati.
Un passo ulteriore dovrebbe essere fatto per interpretare ancora meglio i cambiamenti in
termini clinici vale a dire per stabilire se c'è stato un miglioramento reale della condizione
iniziale.

6. Trattamenti della scrittura: competenza ortografica, disgrafica e il caso dell’espressione


scritta

1 La competenza ortografica della scrittura


La capacità di codificare la parola pensata o ascoltata nella corrispondente forma scritta,
seguendo le regole e le convenzioni caratteristiche della propria lingua di appartenenza

40
2 La competenza grafomotoria della scrittura

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Comprende tutte quelle abilità che consentono al soggetto di riprodurre i singoli segni grafici.
Riguarda i processi motori periferici implicati nella scrittura:
a) selezione dell’allografo
b) programmazione di dimensione, velocità e spaziatura degli allografi
c) regolazione muscolare

3 La capacità di espressione scritta


Può essere definita come la capacità di scrivere in modo autonomo i testi che siano adeguati
rispetto a diversi contesti e scopi. La costruzione di un testo implica vari processi:
a) cognitivi (attenzione, memoria, pianificazione)
b) metacognitivi (strategie, piani di scrittura, revisione e controllo del testo)
c) linguistici (conoscenza lessicale, morfosintattica, delle diverse tipologie del testo)
d) sociali (destinatario del testo, scopo per cui si scrive).

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DISORTOGRAFIA
Per il trattamento della condizione di disortografia, purtroppo a tutt'oggi non ci sono dati
raccolti in modo sistematico in Italia, e pochi sono anche gli studi condotti all'estero. In attesa
di ulteriori studi sistematici sugli esiti di trattamenti condotti in Italia, il suggerimento è di
migliorare i processi sottostanti la corretta produzione di parole regolari e irregolari.
Nel caso di parole regolari, i processi sono quelli dell'analisi fonologica e dell'associazione
con i corrispondenti grafemi e, più avanti nel percorso di apprendimento del bambino, quelli
relativi a gruppi ortografici particolari (eh, gh, gn, gl, se) e quelli relativi alla padronanza nella
scrittura di raggruppamenti di lettere.
Nel caso di parole irregolari, per esempio quelle che richiedono l'uso della «q» invece che
della «c» o l'uso dell'«h» nel verbo avere, può funzionare un misto di memorizzazione delle
eccezioni associato all'apprendimento di regole. Es. per distinguere quando usare l'«h» può
essere funzionale riconoscere il verbo “avere” dalla preposizione. Infine, per l'uso corretto
delle cosiddette «doppie», sembrerebbe più utile un training sulla discriminazione uditiva
del cambiamento della sonorità della parola aggiungendo o togliendo una delle due
consonanti, magari associato anche al cambio di significato che ne consegue (per esempio
pala/palla), piuttosto che un training di memorizzazione lessicale che risulterebbe troppo
impegnativo a causa dell'elevato numero di parole con queste caratteristiche presenti nella
nostra lingua. Il lavoro a questi livelli sarà aiutato dall'analisi degli errori di scrittura prevalenti
nel bambino
Tressoldi e Cornoldi hanno distinto tre tipi di errore che sono evolutivamente successivi:
1) fonologici (la produzione scritta non corrisponde all'enunciato sonoro)
2) non fonologici (c'è corrispondenza, come non solo nel caso delle lettere «h» e «q»,
ma anche nel caso delle parole separate o congiunte erroneamente, per esempio
l'aradio, cera una volta, in tanto)
3) «fonetici» (errato uso di doppie e accenti).
Ci sono anche proposte molto più analitiche di classificazione degli errori che si rivelano
particolarmente utili, quando si ravvisa che il bambino presenta con particolare frequenza
proprio quell'errore, per esempio la confusione fra due fonemi simili, la difficoltà con un
particolare gruppo irregolare, ecc.
Attività che specificamente riguardano la scrittura sono basate sull'uso di programmi di
videoscrittura che includano il correttore (non automatico) e di software in cui il bambino
può sentire pronunciare quello che ha scritto.

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Facendo riferimento al Modello a due vie può essere ricondotta a un deficit a carico di una
o entrambe le vie, con conseguenti diverse espressioni del disturbo in termini di tipologia di
errori commessi e di gravità

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Prove di valutazione della competenza ortografica
• Dettato di brano
• Dettato di parole
• Dettato di non parole
• Dettato di frasi con parole omofone non omografe
• Prova di copia
• Denominazione scritta di figure
• Prova di espressione scritta

6.2. Velocità di scrittura


Non sono ancora disponibili studi di efficacia condotti in Italia per verificare la possibilità di
migliorare la velocità di scrittura e pochi sono i contributi presenti nella letteratura con alunni
di lingua inglese. Alcuni autori hanno proposto ad alunni di prima elementare un training
combinato di scrittura di singoli grafemi secondo un modello di insegnamento di gruppi di
lettere che condividevano gli stessi movimenti per la loro realizzazione, seguito da un
training di copiatura ripetuta di una frase, allo scopo di aumentare il numero di grafemi
prodotti in un certo periodo di tempo, ottenendo un aumento della velocità sia sotto dettatura
che nella scrittura spontanea. Tuttavia, non sono disponibili dati sugli effetti di questo o altri
tipi di training in condizioni di marcato rallentamento della velocità di scrittura in alunni di età
superiore. È comunque presumibile che un intervento sulla competenza ortografica abbia
effetti benefici indiretti sulla velocità, di scrittura, nella misura in cui essa non riguarda il
semplice grafismo, ma interessa la capacità di scrivere parole di senso compiuto.

DISGRAFIA
Se è abbastanza semplice accorgersi di un serio disturbo nel grafismo, mancano invece in
Italia, dei sistemi di classificazione agili in grado di rilevarne le manifestazioni all'interno di
livelli diversi di gravità e le caratteristiche di espressività clinica. Un sistema provvisorio per
parlare di vero e proprio disturbo, basato su un giudizio criteriale, è quello della leggibilità
del grafema. Per tale criterio, se una persona che non ha mai visto quel tipo di scrittura
riesce a decodificare correttamente e senza fatica quanto scritto, allora la realizzazione
grafica può essere considerata sufficiente. Al contrario, se si fa fatica nel riconoscere quanto
scritto, il criterio di inclusione è presente. Altri aspetti importanti del grafismo riguardano la
gestione dello spazio del foglio, il rispetto delle distanze fra lettere e parole, ecc. Si noti
che, all'interno delle prassie della scrittura, possiamo includere non solo la qualità del
prodotto grafico, ma anche l'efficienza (espressa in rapidità) con cui il bambino perviene ad
esso. Questo aspetto, che ha sicuramente delle sovrapposizioni con la competenza

45
ortografica appare importante perché descrive il grado di automatizzazione della scrittura
e la capacità del bambino di stare al passo con le normali richieste dell'insegnante.

Per quanto riguarda la disgrafia, le ricerche dimostrano che, insegnando adeguati pattern
motori ad alunni di prima elementari ad esempio indicando con delle frecce l'ordine e la
direzione dei movimenti da eseguire, si possono ottenere dei significativi cambiamenti.

46
Rimane da dimostrare cosa si può ottenere in condizioni di severa disgrafia con alunni che
hanno alle spalle qualche anno di scolarizzazione e quindi hanno già automatizzato gli
schemi motori per la scrittura dei grafemi.

ESPRESSIONE SCRITTA

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Questi problemi si presentano sotto varie forme e in associazione con altre difficoltà. Per
esempio, il bambino che, sia pur privo di impaccio sociale, fatica a costruire un discorso
orale organizzato quasi sicuramente ripropone le stesse difficoltà alla richiesta di costruire
un testo. All'interno della Batteria per la valutazione della scrittura e della ortografia
sono comprese delle prove dalla prima alla quinta elementare per valutare l'espressione
scritta suggerendo una struttura narrativa e una descrittiva e una semplice guida per
valutarne, su una scala a quattro punti, la qualità per i quattro parametri fondamentali:
1) del lessico
2) dell'adeguatezza comunicativa
3) della struttura
4) della grammatica-sintassi.
Ci sono molte prove del fatto che le abilità di espressione scritta possono essere migliorate
utilizzando aiuti esterni che riducono il carico cognitivo e potenziando le strategie
metacognitive e motivazionali. Un esempio di training è quello messo a punto dal gruppo di
Graham denominato Self-Regulated Strategy Development. In sintesi questo programma
prevede:
1. sviluppo e attivazione delle conoscenze possedute;
2. discussione di strategie proposte;
3. modellamento cognitivo di ogni strategia;
4. memorizzazione della strategia; 5. supporto collaborativo della strategia;
6. richiesta di prestazione indipendente.
Il programma lavora su quattro strategie di base per l'autoregolazione sviluppate assieme
alle strategie di scrittura: definizione dell'obiettivo, autoistruzioni, automonitoraggio e
autorinforzo. In Italia, oltre a molte proposte specifiche, è disponibile un programma ad
ampio respiro centrato sullo sviluppo di strategie di controllo e autoregolazione a cura di
Cisotto miranti a facilitare le fasi di pianificazione, trascrizione e revisione oltre che la
motivazione alla scrittura e l'autoconoscenza delle proprie capacità e credenze sulla
scrittura.

7. Conclusione
Per quanto riguarda lo stato attuale della definizione e della valutazione della condizione di
dislessia, disortografia e disgrafia, possiamo affermare che la situazione italiana è da
considerarsi tra le migliori in Europa, nonostante alcuni problemi ancora aperti, tra cui la

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necessità di perfezionare l'accordo tra clinici e ricercatori sulla scelta di quali strumenti
utilizzare per i criteri di inclusione. Ci sentiamo di esprimere lo stesso giudizio positivo
rispetto allo stato delle evidenze disponibili sugli esiti di trattamenti riabilitativi per migliorare
la correttezza e la velocità di lettura in bambini con dislessia.
Molto resta da fare per quanto riguarda gli esiti di interventi riabilitativi per il recupero della
disortografia, della velocità di scrittura e della disgrafia.

CAPITOLO 4: “DISTURBI DEL CALCOLO”


Disturbo eterogeneo
- abilità di numero e calcolo
- sotto-profili distinti in termini di competenze matematiche e di abilità dominio-generali
connesse
Definizione funzionale: non esiste accordo generale sull’uso dei due termini
- mancanza di spiegazioni chiare relative allo sviluppo delle difficoltà matematiche
- assenza di criteri condivisi in fase diagnostica
Perché fare i calcoli può essere per tutti, ma soprattutto per certi bambin così difficile? Oggi
in Italia a scuola vengono segnalati circa 5 bambini per classe (25 alunni circa) come
bambini con difficoltà di calcolo, ma il 90% circa delle segnalazioni è costituito in realtà da
casi di generale difficoltà di apprendimento, ma non di disturbo specifico del calcolo. Gli uni
e gli altri possono presentare taluni elementi in comune e abbisognare talvolta di aiuti simili,
ma costituiscono tipologie del tutto differenti. Il disagio in matematica riguarda talvolta in
maniera indifferenziata i suoi vari aspetti, che pure implicano processi cognitivi molto
eterogenei e apparentemente poco accomunabili. L'inclusione di essi in una unica categoria
nasce dal fatto che molti studenti presentano tali forme di disagio generalizzato e ha trovato
riconoscimenti anche in consolidate categorizzazioni come quelle dei manuali diagnostici
DSM-IV e ICD-10 che mettevano assieme tutte le forme di apprendimento matematico.
Tuttavia, l'ultima versione dell'ICD limita il disturbo del calcolo ai suoi aspetti specifici,
escludendo quelli legati ad altre problematiche.
Perché è possibile riscontrare con una certa frequenza forme di disagio generalizzato? Ci
sono varie ragioni di ciò e alcune di esse sembrano risiedere in atteggiamenti emotivi-
motivazionali degli studenti, caratterizzati da ansia, resistenza al ragionamento
matematico, timore di sbagliare. Altre ragioni possono essere dovute al fatto che i diversi
aspetti dell'apprendimento matematico si intersecano (per esempio la rappresentazione
della quantità è sottesa a tutte le aree della matematica); soluzione di problemi e geometria
richiedono normalmente operazioni di calcolo, il calcolo richiede a sua volta la
comprensione dell'operazione, ecc. Pur con queste considerazioni, si deve riconoscere che
l'area matematica si articola in differenti aspetti in gran parte indipendenti e questi risultano
dissociabili anche nell'ambito dei disturbi. Una distinzione fondamentale di cui si tiene conto
in questo volume è quella relativa al trattamento del numero diversificato dalla soluzione di
problemi. In questo capitolo ci occuperemo dei disturbi nel trattamento del numero (per il
quale useremo l'espressione di «disturbo del calcolo» o «discalculia»), mentre un altro
capitolo del volume è specificamente dedicato ai disturbi della soluzione di problemi (cap.
7). Cominciamo con una breve illustrazione dello sviluppo delle competenze
matematiche elementari, perché riteniamo che i disturbi legati all'ambito del calcolo

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abbiano a che fare con le competenze elementari legate alla rappresentazione numerica
(talvolta si è parlato di intelligenza numerica).

1. Le premesse innate dell'intelligenza numerica


Nel panorama scientifico l'ipotesi di Piaget, secondo cui il concetto di numerosità non viene
acquisito prima dei 6-7 anni poiché subordinato allo sviluppo delle capacità tipiche del
pensiero operatorio (conservazione della quantità, classificazione e seriazione), ha avuto
un'estrema influenza ed è stata spesso accolta in maniera troppo rigida. Oggi la più recente
ricerca psicologica ha dimostrato come la capacità di comprendere il mondo in termini
numerici sia INNATA.
Uno studio pionieristico che ha portato elementi a favore della tesi innatista dell'intelligenza
numerica è stato condotto da Starkey e Cooper. Essi misero in luce, utilizzando la tecnica
dell'abituazionedisabituazione, come bambini di soli 4-6 mesi reagissero alla numerosità.
La tecnica utilizzata nell'indagine è basata sul fatto che i bambini guardano più a lungo gli
stimoli nuovi, perché l'osservare a lungo uno stesso stimolo causa abituazione, che si
traduce nel bambino in termini di perdita di interesse. La misura dei tempi di fissazione
(quanto un bambino guarda un oggetto) consente di valutare l'interesse del neonato: quanto
meno l'attenzione è fissa su un oggetto, tanto più il bambino dimostra di ricordarlo e di
considerarlo meno interessante.
Nel 1983 Antell e Keating, due psicologi americani, hanno analizzato questa stessa tecnica
con neonati da 1 a 12 giorni di vita. Nell'esperimento ad ogni bambino venivano presentati,
alternativamente, due cartoncini bianchi con due punti neri uguali, più o meno distanziati, in
modo da indurne abituazione. Successivamente veniva presentato loro un terzo cartoncino,
disabituante, con tre punti neri allineati. I tempi di osservazione, rilevati in entrambe le fasi,
si dimostrarono chiaramente superiori nella fase di disabituazione. I ricercatori, per ovviare
ad eventuali critiche, proposero anche la sequenza sperimentale inversa, in modo da
verificare che i risultati ottenuti non fossero dovuti ad una preferenza dei bambini per
immagini con un maggior numero di elementi. Tuttavia, anche in questo secondo
esperimento, Antell e Keating registrarono tempi più lunghi di osservazione nella
presentazione dello stimolo disabituante (cartoncino con soli due punti neri). Essenziale, in
questo tipo di studi, è però la definizione dell'aspetto di novità al quale il bambino reagisce.
Si tratta davvero della numerosità oppure il bambino percepisce altre caratteristiche degli
oggetti presentati? In effetti l'interpretazione del significato di questi dati è ancora oggetto di
discussione, ma — secondo un'opinione diffusa — essi sarebbero prova di una primitiva
rappresentazione della quantità.
In questa direzione vanno, per esempio, i risultati ottenuti da Starkey, Spelke e Gelman
con bambini di età leggermente superiore (6-7 mesi), dove in sostituzione ai puntini neri
venivano presentate ai bambini figure di oggetti comuni come una chiave, un pettine, ecc.,
così che ogni cartoncino risultasse «nuovo» per le immagini, ma uguale per numerosità.
Anche il cartoncino disabituante conteneva figure diverse; ma inoltre veniva modificata la
numerosità degli oggetti. In questo modo, se si fossero rilevati tempi di osservazione più
lunghi dopo la presentazione del cartoncino con tre elementi, ciò non sarebbe più stato
imputabile alla novità, dal momento che ogni cartoncino era nuovo, bensì si sarebbe potuto
concludere che i bambini avessero categorizzato mentalmente le figure in termini di
numerosità. Il risultato fu che i bambini osservavano significativamente più a lungo il
cartoncino disabituante con tre figure. I bambini, come gli adulti, sembrano dunque
possedere un particolare processo di percezionevisiva, chiamato subitizing o

50
immediatizzazione, che permette loro di ricavare la numerosità di un insieme in modo
immediato, senza cioè attivare particolari abilità di conta. Possedere il concetto di
numerosità implica però qualcosa di più rispetto alla sola capacità di decidere se due insiemi
hanno o no la stessa numerosità; implica cioè il saper compiere operazioni sulle
numerosità e avere quindi delle aspettative aritmetiche. Anche questa competenza
sembra essere molto primitiva. Karen Wynn [1992] ha eseguito un esperimento significativo
per verificare se bambini di 5-6 mesi erano in grado di compiere semplici operazioni di tipo
additivo (1 + 1) e sottrattivo (2-1). Nell'esperimento la ricercatrice mostrava ai bambini un
pupazzo che veniva poi nascosto da uno schermo. Successivamente, sempre davanti ai
bambini, veniva aggiunto al primo un secondo pupazzo. Infine, lo schermo veniva sollevato
mostrando o due pupazzi (1+1=2  situazione in linea con le aspettative aritmetiche; 1+1=1
 situazione contrastante con le aspettative). Si è riscontrato che i bambini guardavano più
a lungo la seconda situazione. Gli stessi risultati si sono ottenuti nell'esperimento sottrattivo
dove inizialmente venivano posti dietro allo schermo due pupazzi e successivamente se ne
toglieva uno. Anche qui, i tempi di osservazione misurati risultavano nettamente superiori
nella situazione che deludeva le aspettative dei bambini (2 —1 = 2) rispetto a quella attesa
(2-1=1).
Slide  sistemi di rappresentazione delle quantità = competenze numeriche preverbali che
permettono a neonati e bambini molto piccoli di discriminare tra due numerosità; legate allo
sviluppo /esperienza e al loro rapporto

2. Contare e calcolare

51
Contare è il primo collegamento tra le capacità
innate del bambino e le acquisizioni matematiche
più avanzate messe a disposizione dalla cultura.
Imparare a contare può essere anche difficile se
pensiamo che impegna i bambini dai due anni fino a
circa sei. Ma come giungono i bambini a
padroneggiare tale abilità? Secondo Gelman e
Gallistel l'acquisizione del conteggio verbale si basa
sulla similarità di strutture tra i processi di conteggio
preverbali e quelli verbali. I processi preverbali
rendono, infatti, intelligibili i meccanismi di conteggio
verbale e, di conseguenza, ne
p
ermettono l'apprendimento. Nell'interazione competenza non verbale-ambiente si sviluppa
quindi l'abilità di conteggio verbale. I principi che guidano questo processo sono:
1. il principio della corrispondenza uno a uno: ogni parola-numero deve essere
collegata ad uno, e uno solo, degli oggetti da contare e viceversa;
2. il principio dell'ordine stabile: le parole-numero di cui necessitiamo per contare un
certo insieme di oggetti devono essere ordinate secondo una sequenza fissa e
immutabile;
3. il principio della cardinalità: l'ultima parola-numero pronunciata in un conteggio
designa la numerosità dell'insieme;
4. il principio dell'astrazione: in un compito di conteggio ciò che risulta rilevante negli
oggetti è solo il fatto di costituire delle entità distinte che possono quindi essere
numerate. Ciò significa che i principi di conteggio possono essere applicati a qualsiasi
collezione di elementi purché discreti;
5. il principio dell'irrilevanza dell’ordine: il conteggio può essere fatto iniziare da
qualsiasi elemento senza in questo modo influenzare il risultato.
Vari studi sono stati condotti nell'ambito del conteggio: a due anni, quando ancora non è
acquisita la sequenza verbale delle parole-numero, i bambini dimostrano di possedere la
corrispondenza biunivoca, verificabile ad esempio chiedendo di nominare (o indicare) le
persone presenti in una stanza o anche solamente osservandoli distribuire un oggetto a
ogni persona. Per quanto concerne il principio della cardinalità, l’ultimo a essere acquisito,

52
si è visto che i bambini già a 3 anni e mezzo, rispondono alla domanda «Quanti sono?» con
l'ultima parola-numero pronunciata. Tuttavia, spesso, tale comportamento non denota la
padronanza del principio bensì un'abilità del soggetto di imitare il comportamento degli adulti
che tendono ad enfatizzare l'ultima parola-numero della serie per definire la numerosità
dell’insieme. A volte i bambini possono contare una collezione di oggetti, soddisfare il
principio della cardinalità ma, alla richiesta di consegnare una quantità ben definita di
oggetti, limitarsi ad afferrarne una manciata a caso. Questi bambini sono definiti grabbers
(«arraffoni») e vengono contrapposti ai counters («contatori»), bambini solitamente di
qualche mese più grandi, che contano, a voce alta o internamente, considerando gli oggetti
uno ad uno. Il principio della cardinalità richiede al bambino la conoscenza del significato
di contare, ossia la consapevolezza che attraverso l'attività di conteggio si arriva a
determinare la numerosità di un insieme, risultando così molto più complesso. Come
risulta da un'indagine italiana compiuta da Lucangeli nel 1999 si possono evidenziare
cinque fasi d'acquisizione dell'abilità di conteggio che risentono ampiamente delle
esperienze cui il bambino è esposto:
1. la sequenza dei numeri è usata come stringa di parole («uno, due, sette, quattro,
cinque, tre, venti»);
2. le parole-numero vengono usate in sequenza unidirezionale in avanti a partire
dall'uno («uno, due, tre, quattro, cinque...»);
3. la sequenza è producibile a partire da un numero qualsiasi della serie. Sono presenti
le relazioni numeriche «prima di», «dopo di» («vicino al cinque c'è il sei...»);
4. le parole-numero della sequenza sono trattate come entità distinte che non devono
più ricorrere ad elementi concreti di corrispondenza biunivoca («quattro è più di
tre...»);
5. la sequenza è usata come catena bidirezionale sulla quale e attraverso la quale
operare in modi diversi («quattro, cinque, ... venti, diciannove, diciotto...»).
La posizione di Wynn sottolinea come, inizialmente, il contare può presentarsi come
un'attività priva di significato dalla quale i bambini ricavano solo alcune proprietà dei numeri.
Dopo aver compreso che le parole-numero si riferiscono ad insiemi di elementi e non ad
elementi singoli, i bambini impiegano un altro anno circa per apprendere che il sistema di
conteggio rappresenta la numerosità. Lo sforzo che essi devono compiere sta proprio nel
mettere in relazione due sistemi simbolici diversi, ossia le rappresentazioni interne di
numerosità e le posizioni che le parole-numero occupano nella lista. Questa operazione
risulta sicuramente complessa ed è quindi logico aspettarsi che impegni il bambino per un
lungo periodo prima di poterla considerare acquisita.

3. Lo sviluppo delle capacità di calcolo e i modelli neuropsicologici


Per capacità di calcolo si intende l'insieme dei processi che consentono di operare sui
numeri tramite operazioni aritmetiche. Alcune fasi precoci del calcolo possono essere
apprese anche dal bambino piccolo, in relazione alla percezione della quantità, delle
possibilità combinatorie associate alla quantità, e allo sviluppo delle abilità di conteggio.
Tuttavia, nell’apprendimento delle procedure vere e proprie di calcolo, le prime informazioni
elaborate sono i segni delle operazioni, necessarie per stabilire la natura dell'operazione
per accedere ai fatti aritmetici, qualora l'operazione lo consenta. I fatti aritmetici, chiamati

53
anche operazioni base, sono dei problemi elementari (ad esempio, tabelline, addizioni
semplici) i cui risultati sono archiviati nella memoria a lungo termine, dalla quale possono
essere direttamente richiamati senza ricorrere a particolari procedure di calcolo. In questo
caso si può parlare di conoscenza dichiarativa poiché le informazioni (i risultati delle
operazioni) sono già noti. Quando invece non è possibile recuperare il risultato dalla
memoria, il soggetto deve utilizzare un'altra componente del sistema di calcolo, ossia deve
ricorrere alla conoscenza delle procedure, generiche e specifiche, del calcolo.
Nell'esecuzione di un compito aritmetico dunque possono agire due tipi di strategie: quelle
basate sul recupero mnemonico e quelle basate sui processi procedurali. Dal punto di
vista evolutivo, ipotizzare l'utilizzo di regole procedurali è cognitivamente più economico che
non ipotizzare la memorizzazione di tutte le singole operazioni base: le regole procedurali
sono infatti apprese velocemente, facilmente generalizzabili e possono essere applicate sia
ad operazioni semplici che complesse. Seguendo tale ipotesi alcuni effetti d'interferenza fra
le operazioni potrebbero essere dovuti ad una confusione nell'utilizzo delle regole
procedurali.
Nei loro primi lavori, Siegler e Mitchell, osservando e videoregistrando il comportamento di
un gruppo di bambini di cinque anni durante l'esecuzione di semplici compiti aritmetici,
hanno evidenziato la presenza di diverse strategie di calcolo: il conteggio con le dita
esplicito o mentale, il conteggio verbale a voce alta. Per spiegare come vengano scelte le
varie strategie da applicare, Siegler e Mitchell hanno introdotto il concetto di «livello di
fiducia». Tale livello definisce la soglia al di sotto della quale il bambino percepisce
l'insicurezza della propria risposta. In tal caso, esso non sarà portato a scegliere la strategia
più evoluta, identificabile nel recupero del risultato dalla memoria, bensì una delle altre due.
Importanti analisi sulle strategie possono essere anche fatte relativamente al calcolo a
mente. Nello studio di addizioni di due cifre, un autore ha osservato l'utilizzo di due differenti
strategie:
• la prima, definita 1010, consiste nella scomposizione in decine e unità di entrambi gli
addendi che vengono ricomposti in un secondo momento, cioè dopo aver svolto
l'operazione richiesta (per esempio: 43 +25 = (40+20) + (3 +5)).
• la seconda strategia, definita «N 10», a differenza prima, scompone in decine e unità
solo il secondo addendo che viene poi sommato o sottratto al primo (per esempio,
52 +27 = (52 +20) +7).
Secondo i risultati della ricerca, la strategia N 10 risulta essere la più evoluta, oltre che la
più efficace, e dunque quella maggiormente utilizzata dai soggetti più esperti; la strategia
1010 è risultata invece tipica di soggetti con difficoltà di apprendi in ambito matematico.
Una distinzione fondamentale al riguardo va fatta però tra le procedure utilizzabili
rispettivamente nel caso del calcolo a mente e nel caso del calcolo scritto: nel calcolo a
mente la conoscenza procedurale consente di operare scomposizioni sui numeri per
ottenere operazioni intermedie più semplici, mentre nel calcolo scritto essa «ordina» la
forma grafica della specifica operazione, l'incolonnamento dei numeri, la direzione
spazio/temporale delle azioni. Dunque, mentre il calcolo a mente utilizza ed esercita
prevalentemente le strategie costruttive, il calcolo scritto utilizza ed esercita soprattutto
l'applicazione di procedure più o meno automatizzate. Nel panorama degli studi che hanno
tentato di spiegare la sinergia tra cognizione numerica e abilità di calcolo due sono i
modelli, elaborati in ambito neuro-psicologico, che hanno assunto maggior importanza e,
per questa ragione, verranno illustrati:

54
1) il modello modulare di McCloskey, Caramazza e Basili
[1985] 2) il modello del triplo codice di Dehaene [1992].
L'importanza dei due modelli consiste nel fatto che essi hanno ancorato l'articolazione del
sistema cognitivo alle strutture neurologiche implicate, dando impulso ad un settore di
indagine in notevole crescita.
1) McCloskey e colleghi studiando pazienti neurologici adulti che manifestavano dei
disturbi selettivi nell'elaborazione numerica, sono arrivati a proporre un modello in cui
l'architettura della cognizione numerica è organizzata in tre moduli funzionalmente distinti
collegati tra loro, indirettamente, tramite astratta di quantità:
a) il sistema di comprensione dei numeri  trasforma la struttura superficiale dei numeri
(espressi, a seconda dei casi, in codice verbale o in codice arabico) in una
rappresentazione astratta di quantità.
b) il sistema di calcolo  assume questa rappresentazione e la «manipola» attraverso
tre componenti: i segni delle operazioni, i «fatti aritmetici» o operazioni base e le
procedure del calcolo.
c) il sistema di produzione numerica  traduce infine le rappresentazioni interne in
output, cioè in risposte numeriche.

Come si può vedere in figura,


ognuno dei tre moduli è costituito
da più componenti. Nei sistemi di
comprensione e produzione vi
sono dei meccanismi in grado di
elaborare due codici: quello
verbale (sia fonologico che
grafemico) e quello arabico.
Un'ulteriore distinzione all'interno
dei processi di comprensione e
produzione dei numeri riguarda il
tipo di elaborazione (lessicale o
sintattica) a cui può essere
sottoposto il numerale. Mentre
l'elaborazione lessicale concerne
l'elaborazione delle singole cifre o
parole contenute nel numerale al
fine di ricavarne il nome, quella
sintattica riguarda invece
l'elaborazione dei rapporti tra le cifre o le parole che lo compongono per ricavarne il corretto
ordine di grandezza. Anche il sistema di calcolo contiene più componenti:
i segni delle operazioni, espressi sia in codice arabico (+ — x :) che verbale (più, meno,
per, diviso), i «fatti aritmetici», ossia le operazioni elementari i cui risultati sono presenti nella
memoria a lungo termine (es. la «tabellina» 3 x 3; le addizioni semplici 3 +2, ecc.) e le
procedure di calcolo.
Riassumendo, dunque, il modello di McCloskey, Caramazza e Basii propone un'architettura
modulare della cognizione numerica a in cui sono presenti delle componenti di elaborazione
distinte e autonome le une dalle altre, tanto che si possono rilevare compromissioni a carico
di una sola di esse. Inoltre, i processi di calcolo non operano mai direttamente sui numerali,

55
ma operano esclusivamente sulla rappresentazione astratta della quantità interna, oltre ad
essere l'unico formato di codifica utilizzabile per la comunicazione interna, è anche il fulcro
dell'intero sistema poiché direttamente collegata con tutti e tre i moduli.
2) Un modello alternativo è quello elaborato da
Dehaene Tale modello poggia su due premesse
fondamentali:
1. i numeri possono essere rappresentati mentalmente in tre diversi formati:
• verbale uditivo /quattro/
• arabico visivo /4/
• come grandezza analogica;
2. ogni codice numerico specifico possiede i propri processi di input output.

Osservando lo schema
possiamo evidenziare come
l'autore distingua tre gruppi
autonomi di abilità
numeriche caratterizzate
ciascuna dall'utilizzo di un
particolare formato numerico.
Secondo il modello di
Dehaene, ogni gruppo risulta
specializzato in determinate
abilità:
1) il gruppo basato sulle
notazioni numeriche verbali
(codice verbale), sfruttando i
sistemi di elaborazione
possiede abilità legate alla conta e al recupero dei fatti aritmetici
e più generali del linguaggio parlato e scritto
2) il gruppo basato sulle notazioni in cifre (codice arabico)
è invece specifico per la risoluzione di operazioni con numeri a
più cifre e per il giudizio di parità.
3) Infine, il gruppo che opera con le grandezze analogiche
è in grado di effettuare confronti tra quantità, stime e calcolo
approssimativo, abilità queste che fanno riferimento alle
competenze numeriche preverbali.
Una sostanziale novità introdotta da questo modello fa riferimento alla capacità del nostro
sistema numerico di manipolare i numeri e di svolgere i vari compiti aritmetici utilizzando la
via asemantica, cioè senza la necessità di elaborare una rappresentazione della quantità.

56
Terzo modello (si trova nelle slide)
Modelli neuropsicologici: modello
delle Relazioni di Le Fevre e colleghi
− Modello evolutivo dello sviluppo delle
competenze matematiche (4,5-7,5 anni)
− Interazioni tra competenze dominio
specifiche (prerequisiti del calcolo) e
dominio generali
(processi cognitivi)

4. La discalculia evolutiva: definizione e tentativi di classificazione

Consensus Conference DSA 2009; Legge n.170/2010; Raccomandazioni cliniche sui DSA
2011; Documento AIRIPA-AID 2012:
• Non utilizzare criteri di classificazione troppo rigidi facendo riferimento a sottotipi più
o meno precisi
• Descrivere i profili funzionali
• Prestazioni molto inferiori alla media (discrepanza rispetto alla propria fascia
scolastica) in prove matematiche standardizzate
• Indici quantitativi: cadute significative nei parametri di velocità e accuratezza
• Analisi qualitativa degli errori commessi
• Diagnosi: completamento del terzo anno di scuola primaria
• Età prescolare: identificazione precoce del rischio di insorgenza del disturbo e
progettazione di interventi
Alla complessità di ipotesi fin qui descritte relativamente alle competenze di cognizione
numerica e di calcolo, corrisponde una complessità di ipotesi inerenti ai disturbi cognitivi
che da tali meccanismi dipendono. Il DSM-IV e l'ICD-10 riportano così i sintomi delle
difficoltà nell'elaborazione del numero:
• incapacità di comprendere i concetti di base di particolari operazioni;
• mancanza di comprensione dei termini o dei segni matematici;
• mancato riconoscimento dei simboli numerici;

57
• difficoltà ad attuare le manipolazioni aritmetiche standard;
• difficoltà nel comprendere quali numeri sono pertinenti al problema aritmetico che si
sta considerando;
• difficoltà ad allineare correttamente i numeri o a inserire decimali o simboli durante i
calcoli;
• scorretta organizzazione spaziale dei calcoli;
• incapacità ad apprendere in modo soddisfacente le «tabelline» della moltiplicazione.

Tuttavia, sotto un'unica classificazione delle caratteristiche del disturbo sono presentate
difficoltà che interessano aspetti molto differenti.
La Consensus conference italiana ha riconosciuto due profili distinti di discalculia.
- Il primo profilo risulta caratterizzato da debolezza nella strutturazione cognitiva delle
componenti di cognizione numerica (cioè negli aspetti basali dell'intelligenza
numerica, quali: subitizing, meccanismi di quantificazione, comparazione, seriazione,
strategie di calcolo mentale);
- il secondo fa invece specifico riferimento alle procedure esecutive (lettura, scrittura e
messa in colonna dei numeri) e al calcolo.

Il primo tipo , su cui ci soffermeremo, è da


intendersi come una sorta di «cecità ai numeri»,
ossia come l'incapaci tà per il soggetto di
comprendere le numerosità e di manipolarle . A
sostenere l'esistenza di questo tipo di discalculia
è, in particolar modo, Butterworth, il quale ha
ipotizzato l'esistenza di un «cervello
matematico», una struttura innata specializzata nel categorizzare il mondo in termini di
numerosità. Tale struttura fornisce al bambino un nucleo base di capacità numeriche (ad
esempio la capacità di riconoscere numericamente piccoli insiemi di oggetti), mentre è poi
l'insegnamento che fornisce gli strumenti culturali per ampliare le facoltà del modulo
numerico. In questa maniera è possibile spiegare come vi siano persone particolarmente
abili con i numeri mentre ve ne siano altre che incontrano grosse difficoltà  questo modulo
numerico si attiva automaticamente: non possiamo guardare il mondo senza ricavare la

58
numerosità di ciò che vediamo. Tuttavia, affermare che nasciamo predisposti all'intelligenza
numerica implica anche riconoscere che, per qualche motivo, possiamo nascerne
sprovvisti, così come vi sono persone che nascono cieche ai colori. Per questo motivo alcuni
bambini discalculici incontrano difficoltà anche nell'eseguire compiti molto semplici, come
counting, il confronto di quantità, il subitizing. A conferma di questa ipotesi vi sono vari dati
di ricerca. Le difficoltà in questi meccanismi basali non permettono poi di acquisire le abilità
matematiche superiori.
Il secondo profilo di discalculia riconosciuto dalla Consensus conference si riferisce invece
in modo specifico alle difficoltà nell'acquisizione delle procedure e degli algoritmi del
calcolo ed è stato oggetto di analisi approfondita di chi più specificamente si è occupato di
difficoltà matematiche scolastiche, anche in bambini e ragazzi più grandi.
Per esempio, Temple ha presentato tre casi che evidenziano possibili tipologie diverse
di discalculia, con difficoltà o nel sistema di elaborazione dei numeri o in quello del calcolo.
Il primo di essi, un ragazzo di undici anni che manifestava un disturbo specifico nella
matematica e riusciva invece bene nelle altre materie scolastiche, è stato caratterizzato
dalla Temple come dislessia per le cifre: il ragazzo aveva infatti capacità di lettura nella
norma, ma in presenza di numeri la sua performance diminuiva nettamente. Nella lettura di
numeri arabi, gli errori individuati solitamente riguardavano una cifra del numero.
Gli altri due ragazzi descritti dalla Tempie presentavano invece disturbi nel sistema di
elaborazione del calcolo, rispettivamente nelle procedure di calcolo e nei fatti aritmetici.
Nei vari test fatti, il primo di essi risultava abile in compiti di elaborazione e comprensione di
numeri e quantità e manifestava invece difficoltà nelle procedure utilizzate per risolvere le
operazioni. Il secondo ragazzo aveva invece buone competenze procedurali per addizioni
e sottrazioni, ma procedimenti lunghi e laboriosi in compiti di moltiplicazioni.
Un altro approccio all'identificazione di tipi diversi di disturbo può partire dal riconoscimento
di abilità differenti nella popolazione normale.

5. Errori nel sistema del calcolo relative ali automatizzazione, alla conoscenza
numerica e al calcolo scritto.
Particolare importanza è stata assegnata all’analisi degli errori commessi dai bambini. Il tipo
di pratica che si è valorizzata è quella che individua il tipo di intervento da effettuare in base
agli specifici errori commessi dal bambino. In questo modo è possibile intervenire in maniera
mirata a potenziare i meccanismi carenti. Seguendo l'idea che il sistema del calcolo è
indipendente da quello di comprensione e da quello di produzione dei numeri, gli errori
potrebbero essere analizzati con attenzione a tutti e tre i sistemi, individuando il peso delle
difficoltà lessicali, sintattiche e semantiche, ma può anche essere più fruttuoso partire dagli
errori che i bambini compiono effettivamente con maggiore frequenza.
Una classificazione ragionevole è la seguente:
a) errori nel recupero di fatti aritmetici;
b) errori nel mantenimento e nel recupero delle procedure;
c) errori nell'applicazione delle procedure;
d) difficoltà visuo-spaziali.

5.1. Errori nel recupero di fatti aritmetici


Il sistema dei numeri è rappresentato, nella memoria a lungo termine, come una fitta rete di
informazioni. Questa rete può essere pensata i come una sorta di tabella a doppia entrata

59
in cui le cifre da 0 a 9 costituiscono «nodi genitori», ossia i bordi orizzontale e verticale della
tabella. Nel momento in cui viene presentato un determinato compito, i nodi genitori
interessati si attivano, fino ad arrivare ad attivare il nodo di intersezione tra i due, che
costituisce, per esempio, il risultato di operazioni elementari. In questa operazione possono
essere attivati anche i nodi contigui, quelli cioè che contengono risposte molto vicine a
quella cercata, ma scorrette. Già alcuni autori avevano verificato una certa «confusione» tra
operazioni diverse (addizione e moltiplicazione) nel recupero di alcuni fatti aritmetici (ad
esempio, 3 +3 = 9). Si è osservato che, ogni volta che il soggetto produce una risposta
numerica, sia essa corretta o errata, questa si è registrata nella memoria creando
un'associazione tra l'operazione proposta e il risultato e aumentandone così le probabilità
di comparsa. Questo ha ovviamente conseguenze positive per le risposte corrette, ma ha
pericolose implicazioni per le scorrette.

5.2. Errori nel mantenimento e nel recupero di procedure e strategie


Questa tipologia molto variegata di errori si manifesta quando le procedure che facilitano il
calcolo non sono ancora ben padroneggiate dal bambino. Per esempio, i bambini che si
trovano al di sotto del «livello di fiducia», tornano ad utilizzare procedure più semplici ed
immature. Svenson e Broquist [1975] hanno rilevato come la non completa padronanza di
procedure simili possa causare episodi di confusione, ad esempio: N x0=0 e N+0=N
possono diventare N x 0= N.
Per quanto riguarda il calcolo mentale,
Hitch [1978] osserva come le difficoltà
nel calcolo siano imputabili all'incapacità
del soggetto di mantenere in memoria di
lavoro le scomposizioni degli addendi, i
risultati parziali e qualsiasi altra tecnica
facilitante applicata. Per l'intervento,
Seron e Deloche [1987] propongono l'analisi qualitativa degli errori commessi dai bambini
in modo da
intervenire in maniera mirata sul problema. Ad esempio, se un bambino dimostra delle
difficoltà a carico della memoria di lavoro, dovranno essere proposti degli interventi che
cerchino di limitarne il sovraccarico. In un compito di calcolo mentale si potrà quindi
permettere al bambino di utilizzare dei supporti e si potranno definire degli step graduali per
la risoluzione.

5.3. Errori nelle applicazioni delle procedure


Questi errori si riferiscono a tutti i casi in cui, il bambino, nell'esecuzione di calcoli di
differente complessità, entra in difficoltà. Badian [1983] e Brown e Burton [1978] hanno
riscontrato questi errori:
• errori nello stabilire le prime cose da fare per
affrontare le operazioni (incolonnamento o
meno, posizioni dei numeri, ecc.);
• errori nel mantenere una procedura fino al
termine dell'operazione. In questo caso si
possono riscontrare errori come: 506-228=388
in cui la procedura viene applicata
correttamente, ma non viene reiterata;

60
• errori nell'applicazione delle regole di prestito e riporto. Questi
errori possono essere dovuti ad una mancata comprensione della
procedura che causa errori del tipo: 75 —58 = 20 poiché 5 —
8 = 0 e 7 —5 =2, oppure possono derivare da un apprendimento non ancora consolidato;
• errori dovuti al passaggio ad una nuova operazione. Questa tipologia di errori è
dovuta al fatto che il bambino mantiene una certa continuità di ragionamento per cui
applica le stesse procedure anche per operazioni diverse. Per esempio, date due
operazioni di cui la prima è un'addizione e la seconda una sottrazione, il bambino
applica costantemente la procedura additiva;
• errori dovuti a una mancanza di progettazione e di verifica. Questo errore si verifica
quando i bambini iniziano immediatamente la risoluzione di un'operazione senza
dedicare del tempo per analizzare il calcolo che si trovano ad affrontare. In questo
modo non riescono a «vedere» eventuali difficoltà o vie di risoluzione più semplici.
Inoltre, una volta ottenuto il risultato, esso viene accettato aprioristicamente, senza
verificarne l'adeguatezza.

5.4. Errori dovuti alle difficoltà visuospaziali


Le abilità visuospaziali hanno un ruolo notevole nel sistema di calcolo  problema percettivo
e/o spaziale può influire su vari processi del calcolo, e in particolare sull'uso di
rappresentazioni analogiche, sul riconoscimento dei segni operatori e sull'organizzazione
spaziaie dell'operazione: nell'incolonnamento, nella direzione procedurale (destra, sinistra,
dall'alto verso il basso), nelle procedure di prestito e di riporto.

6. Gli strumenti di valutazione


Distingueremo prove che esaminano la prestazione secondo modalità tipiche della scuola
e prove che offrono informazioni diagnostiche più specifiche. A tal proposito distingueremo
tra:
1. prove oggettive di valutazione del livello di prestazione
2. prove di analisi dell'eventuale disturbo del calcolo  questa seconda tipologia di
prove si distingue a propria volta in prove di primo livello e in prove di secondo livello.
Le prove di primo livello permettono di effettuare uno screening di base capace di
individuare eventuali difficoltà nel calcolo: le prove di secondo livello sono invece prove
diagnostiche per la discalculia evolutiva.

6.1. Prove oggettive di valutazione del livello di prestazione


In ambito italiano, esistono diverse prove di valutazione che possono rispondere alla
domanda: qual è il livello di prestazione nell'abilità di calcolo del bambino?
Uno strumento è costituito dalle prove «Emme +» di Soresi e Corcione. Per ogni classe,
dalla prima alla quinta elementare, vengono proposte alcune prove che coprono buona
parte dei contenuti oggetto d'istruzione secondo i programmi ministeriali. L'intera batteria
richiede conoscenze e abilità diverse dal solo calcolo aritmetico, come la soluzione di
problemi, logica, statistica, geometria.
Una batteria analoga è quella del Nucleo di ricerca in didattica della matematica
dell'Università di Pavia  anche questo strumento prevede prove diverse dalla prima
elementare alla terza media, divise in tre sezioni: aritmetica, geometria e logica. Nella
sezione aritmetica però vengono richieste non solo prestazioni di calcolo aritmetico, ma

61
anche soluzioni di problemi e conoscenze relative agli argomenti di matematica trattati nelle
diverse classi come frazioni, potenze, equivalenze, ecc. Infine le prove MT-avanzate
consentono di avere alcune informazioni di base sugli apprendimenti matematici nel biennio
delle scuole medie superiori, in base alla tassonomia delle abilità matematiche utilizzata
anche dai progetti internazionali di valutazione degli apprendimenti.
All'interno di progetti di valutazione delle abilità di base o delle attitudini, si possono trovare
strumenti che prendono in considerazione anche l'abilità numerica. Uno strumento classico
era, per esempio, la prova di abilità numerica della Batteria PAIA proponibile dalla seconda
elementare alla terza media. Nelle batterie VATA, per la scuola elementare e media,
derivate dalle precedenti batterie Q1, è presente una sezione specifica di valutazione delle
abilità aritmetiche che comprende sia prove di calcolo che di soluzione di problemi. Mentre
gli strumenti fin qui descritti possono servire per un accertamento complessivo di una
eventuale difficoltà nell'apprendimento in matematica, con la batteria di Valutazione delle
abilità matematiche di Rossi e Malaguti è possibile misurare l'efficienza in diverse
sottoabilità oltre a quella del calcolo aritmetico orale e scritto. Sono inoltre previste prove di
soluzione di problemi, di geometria e di logica. Qualunque sia la prova scelta dall'insegnante
o dall'operatore ciò che è fondamentale specificare è che i risultati che si ricavano servono
ad interpretare il livello prestazionale raggiunto ma non consentono chiari profili
diagnostici di eventuali meccanismi d'apprendimento deficitari. Per questa ragione, nella
valutazione del bambino con disturbo di apprendimento, si preferisce fare riferimento ad
altre prove costruite specificamente a tale scopo.

6.2. Prove di I livello


Le prove BIN
(Batteria
intelligenza
numerica)
forniscono un quadro
dei primi
apprendimenti
matematici dei
bambini a sviluppo tipico
(relativamente alla fascia d'età 4-
6 anni) e possono servire come strumento diagnostico anche per bambini più grandi che
però ancora non hanno solidamente raggiunto tali prime tappe. L'elenco degli aspetti valutati
dalle prove offre l'occasione di riconoscere alcune importanti acquisizioni precoci, utili come
riferimento anche per i progetti di individuazione di bambini a rischio di insuccesso in
matematica e di prevenzione.
Slide  Valutazione delle abilità di calcolo in età prescolare  il test BIN è suddiviso in 11
prove e valuta quattro importanti precursori delle abilità di calcolo
− Processi semantici e della «comprensione quantitativa»
− Processi di conteggio
− Processi lessicali
− Processi presintattici

62
La prova AC-MT (abilità calcolo) per le scuole elementari (AC-MT 6-10) e per le scuole
medie (AC-MT 11-14), consente l'accertamento del livello di apprendimento del calcolo e
delle eventuali difficoltà nella routine valutativa presso i Servizi.

AC-MT 6-11 Test di valutazione delle abilità di calcolo e di soluzione di problemi


aritmetici La versione AC-MT 6-10 per la scuola elementare ha prove distinte per le diverse
classi della scuola elementare (due per la prima elementare) in modo che gli item siano
adatti al livello cognitivo dei bambini che frequentano le classi e ai contenuti di
apprendimenti propri di quella classe. In particolare il test, ad ogni fascia scolare
considerata, è costituito da due parti:
1. una prima parte «carta matita», che può essere somministrata in modo collettivo a
più bambini contemporaneamente;
2. una «parte individuale» da somministrare singolarmente a ciascun bambino.
Le prove della parte «carta matita» (tempo di somministrazione 25-30 minuti) sono
contenute in un fascicolo e, nella versione per le scuole elementari, sono: operazioni scritte
(addizioni e sottrazioni per tutte le classi, moltiplicazioni e divisioni per la terza, quarta e
quinta), confronto di grandezza fra numeri, trasformazione in cifre (per tutte le classi a
eccezione della prima intermedia), ordinamento di numerosità dal minore al maggiore,
ordina. mento di numerosità dal maggiore al minore.
La seconda parte è somministrata in modo individuale dall'esaminatore e la sua durata è di
circa 10 minuti. Essa include altre cinque prove in cui, oltre alla correttezza, si misura anche
il tempo impiegato per la soluzione degli esercizi proposti. Le prove sono distinte in: calcolo
a mente, calcolo scritto, enumerazione, dettato di numeri, recupero di fatti numerici. Questa
seconda parte consente un'analisi più approfondita di particolari componenti coinvolte nelle
abilità di calcolo, soprattutto di quelle legate all'automatizzazione (misurazione di velocità)
e all'analisi di strategie e procedure. La parte individuale valuta infatti tempo e accuratezza
di calcolo scritto, calcolo a mente e numerazione, accuratezza nella scrittura di numeri sotto
dettato, conoscenza dei fatti numerici.
Si compone di 3 diverse parti, somministrate agli alunni con modalità differenti:

A. CARTA e MATITA
• È composta da 5 prove da somministrare a tutti i componenti della classe
contemporaneamente, disposti come nelle verifiche scolastiche
• L’insegnante illustra in modo semplice le parti che la compongono, specificando che
non porterà ad alcun voto, ma potrà dare indicazioni su eventuali difficoltà e quindi
stimolare un miglioramento
• Non è un test a tempo

63
• Prima di passare ad ogni esercizio successivo bisogna attendere che almeno il 90%
degli alunni abbia terminato, precisando di non girare foglio fino a quando non lo si
esplicita.
Le prove di cui è composta:
1. ESEGUI LE SEGUENTI OPERAZIONI 8 operazioni da svolgere in colonna (2
addizioni, 2 sottrazioni, 2 moltiplicazioni, 2 divisioni). Si assegna un punto per ogni
risultato corretto (punteggio massimo=8)
2. GIUDIZIO DI NUMEROSITA’ svolgere insieme l’esempio, poi chiedere di cerchiare
per ogni coppia di numeri quello più grande. Si assegna un punto per ogni risultato
corretto (punteggio massimo=6)
3. TRASFORMAZIONE IN CIFRE dopo aver svolto insieme l’esempio, si chiede di
ricomporre il numero prestando attenzione alla categoria posizionale delle cifre. Si
assegna un punto per ogni risposta corretta (punteggio massimo=6)
4. ORDINAMENTO DI SERIE dal minore al maggiore dal maggiore al minore. Entrambe
prevedono un esempio da svolgere insieme, dopo gli alunni devono ordinare, prima
in ordine crescente poi in ordine decrescente, 5 serie composte da 4 numeri. Si
assegna un punto per ciascuna serie eseguita correttamente (punteggio massimo=5)

B. INDIVIDUALE  Alcune prove sono a tempo, viene somministrata individualmente in un


ambiente tranquillo. Si compone di:
1. CALCOLO A MENTE richiede di svolgere 6 operazioni mentalmente, il più
velocemente possibile (3 addizioni e 3 sottrazioni). Si misura il tempo dopo aver letto
ciascuna operazione, la quale può essere riletta una sola volta e prevede un tempo
massimo di 30’’ per essere svolta. Superato tale tempo, si assegna punteggio pari a
zero in caso di mancata risposta e si attribuiscono 30’’. Si assegna un punto per
ciascun errore (punteggio massimo=6)
2. CALCOLO SCRITTO prevede 2 operazioni da svolgersi in colonna, misurando il
tempo di esecuzione di ciascuna, partendo dal termine della dettatura. Il tempo
massimo per ogni operazione è di 60’’, e valgono gli stessi principi di assegnazione
punteggi e tempi del calcolo a mente. Vengono conteggiati gli errori, moltiplicando
per 3 ciascun errore commesso (punteggio massimo=6)
3. ENUMERAZIONE si richiede di contare ad alta voce e il più velocemente possibile,
indietro, da 100 a 50. Si misura il tempo a partire da quando l’alunno inizia a contare.
Si considera un errore ogni volta che la sequenza numerica viene interrotta,
indipendentemente da quanti numeri vengono saltati (ad es. 100, 99, 97, 96… oppure
100,99,95,94…). Si calcolano, dunque, il tempo e gli errori commessi.
4. DETTATO DI NUMERI l’alunno deve scrivere 8 numeri sotto dettatura, ripetendo
ciascun numero per una sola volta, se richiesto, altrimenti, se ripetuto due volte o più,
l’item si considera errato. Non prevede la misurazione del tempo impiegato. Si
assegna un punto per ciascun errore commesso (punteggio massimo=8)
5. RECUPERO DI FATTI NUMERICI vengono lette 12 operazioni aritmetiche, di cui
l’alunno deve fornire il risultato, entro 5 secondi per ciascuna, altrimenti si assegna
errore. Le operazioni potranno essere ripetute non più di una volta ciascuna. Il
punteggio è dato dalla somma degli errori commessi (punteggio massimo=12).

C. PROBLEMI ARITMETICI

64
PUNTEGGI COMPLESSIVI
Il calcolo dei punteggi complessivi è suddiviso in 4 aree:
− Operazioni Scritte in classe: è la somma delle operazioni in colonna svolte
correttamente
− Conoscenza Numerica: è la somma dei punteggi ottenuti alle altre 4 prove carta e
matita collettive
− Accuratezza: consiste nella somma totale del numero di errori compiuti nella parte
individuale
− Tempo Totale: è la somma dei tempi ottenuti nelle prove individuali
Per valutare poi, se la prestazione dell’alunno è nella norma o deficitaria, in ciascuna delle
4 aree di valutazione, è necessario fare riferimento alla tabella che riporta i valori normativi.
Le prestazioni saranno classificate come:
• OTTIMALE (superiore alla norma
• SUFFICIENTE (nella norma)
• RICHIESTA D’ ATTENZIONE (richiede attenzione didattica)
• RICHIESTA D’ INTERVENTO IMMEDIATO

La versione AC-MT 11-14


è la versione del test utilizzabile per la scuola media e presenta una fisionomia molto simile
alla versione per le scuole elementari. Anche in questo caso lo strumento può essere
utilizzato sia all'interno della scuola, per l'accertamento delle competenze di base, sia nei
Servizi, nella routine valutativa. Il test comprende prove diverse per le tre classi della scuola
media. Rispetto alla versione AC-MT per le elementari, alcune prove sono state mantenute
(calcolo scritto, giudizio di numerosità e trasformazione in cifre), mentre altre sono state
eliminate (ordinamento di serie) e ne sono state introdotte di nuove. Queste ultime
rispondono all'esigenza di adattare lo strumento sia ai contenuti di tipo scolastico propri
della scuola media, sia a un diverso livello cognitivo dei ragazzi delle medie rispetto alle
elementari. In particolare, la prova delle espressioni aritmetiche fornisce informazioni non
solo sulle abilità del ragazzo con le quattro operazioni, ma anche su come varia la sua
prestazione se queste operazioni sono combinate insieme fra loro, come accade nelle
tipiche «espressioni» proposte nelle scuole medie. La prova di completamento della serie
non va a indagare direttamente le abilità di calcolo ma le capacità del ragazzo di compiere
ragionamenti logici sulle proprietà di serie dei numeri. Un'altra prova introdotta riguarda il
calcolo approssimativo, abilità che viene esaminata attraverso un compito in cui al
ragazzo vengono presentate delle operazioni con la richiesta di scegliere rapidamente quale
potrebbe essere il risultato corretto fra tre alternative. Infine, la prova di fatti, procedure e
principi indaga la conoscenza e il livello di automatizzazione delle procedure e dei principi
basilari dell'aritmetica. L'inclusione di queste prove nasce dal riscontro che i ragazzi
possono incontrare difficoltà più o meno specifiche in tutti questi aspetti. Inoltre, l'inclusione
di prove non direttamente legate all'uso del calcolo tiene conto del fatto che, anche in
presenza di situazioni «dispensative», il ragazzo che non sa minimamente muoversi nel
mondo dei numeri incontrerà comunque delle difficoltà. Per esempio, l'incapacità di stimare
quale può essere il risultato ragionevole di un'operazione ha la conseguenza che il ragazzo
che ha sbagliato a digitare un tasto della calcolatrice non si accorge che il risultato ottenuto
è poco probabile.

65
6.3 Prove di il livello
Nel formulare una diagnosi più approfondita può essere utile fare riferimento ad un modello
del calcolo cognitivo e neuropsicologico. Attualmente in Italia sono a disposizione due
strumenti: 1) la batteria ABCA
Il test ABCA è una prova diagnostica per la discalculia evolutiva che permette di valutare le
competenze delle principali componenti di elaborazione cognitiva del sistema dei numeri e
del calcolo. Le prove del test sono simili a quelle previste dall'AC-MT, con l'aggiunta di
alcune altre, e sono le stesse per tutte le fasce scolastiche (terza-quinta elementare) con il
vantaggio di consentire un confronto fra classi sui punteggi grezzi e lo svantaggio che
possono risultare troppo facili o troppo difficili rispettivamente per i bambini grandi e quelli
piccoli. L'ABCA è direttamente ispirato dal modello neuropsicologico adulto di McCloskey,
con alcuni adattamenti per l'età evolutiva. L'ABCA permette di valutare lo stato
dell'accuratezza e della velocità di cinque abilità sottostanti la comprensione del valore
quantitativo dei numeri e dei simboli aritmetici (denominazione e uso dei simboli
aritmetici; ordinamento di numeri dal più piccolo al più grande e viceversa; inserimento di
simboli di maggiore, minore e uguale; confronto visivo e uditivo di quantità; identificazione
del valore posizionale) e sei abilità sottostanti la produzione di numeri (enumerazione
all'indietro; dettato di numeri; tabelline; conteggio di insiemi; incolonnamento; recupero di
combinazioni tra numeri). La batteria comprende inoltre prove di calcolo scritto, di calcolo a
mente e di approfondimento. Le prove di comprensione esaminano la conoscenza del
valore quantitativo dei numeri e del significato dei segni. In questa sezione si presta
attenzione agli errori lessicali, semantici e sintattici. Infatti, attraverso la rappresentazione
semantica o concettuale vengono identificati tutti gli elementi che costituiscono il numero,
specificando per ciascuno di essi le informazioni relative alle quantità e all'ordine di
grandezza. Le prove di produzione permettono di ottenere informazioni sul funzionamento
del sistema di produzione dei numeri, che può essere influenzato dalla modalità di
presentazione dello stimolo (visiva o uditiva), dalla modalità di produzione della risposta
(scritta o verbale), dal codice in cui lo stimolo viene presentato (arabico, grafemico o
fonologico) e dal codice in cui la risposta viene prodotta (arabica o fonologica).

2) la Batteria per la valutazione della discalculia evolutiva BDE


La Batteria BDE per la valutazione della discalculia evolutiva di Biancardi e Nicoletti [2004]
si ispira al modello teorico di Dehaene [1992] e fa riferimento a due macrocomponenti
definite rispettivamente «Sistema del calcolo» e «Sistema dei numeri». In quest'ultima
componente rientrano abilità che richiedono sia una conoscenza del valore quantitativo dei
numeri sia abilità di transcodifica e conteggio. A differenza del modello sottostante la
batteria ABCA, nel «sistema del calcolo» vengono incluse anche prove che richiedono
l'utilizzo di fatti o combinazioni numeriche.
La batteria è rivolta a bambini delle classi scolastiche dalla terza elementare alla terza
media, di cui raggruppa i punteggi in tre fattori definiti dagli autori transcodifica, conteggio e
rapidità. In particolare la componente transcodifica raggruppa la correttezza di tutte le
variabili a eccezione di quelle del conteggio.

7. Il trattamento delle difficoltà di calcolo


Se il dibattito inerente alle difficoltà di calcolo, alle cause e ai sistemi di valutazione della
discalculia evolutiva è di per sé molto articolato e complesso, anche quello inerente alle

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strategie di intervento non ha ancora trovato linee guida condivise dai ricercatori. Gran parte
delle esperienze di trattamento, descritte in letteratura sono più dei suggerimenti sul cosa
fare, una volta completata la diagnosi, che delle linee guida ispirate ai modelli di
funzionamento o all'analisi dei processi cognitivi del calcolo. I contributi qui presentati si
riferiscono a due categorie:
1. esperienze per un recupero specifico;
2. programmi di potenziamento delle abilità di cognizione numerica.

7.1. Esperienze per un recupero specifico


Le ricerche sull'intervento che trovano spazio nelle riviste scientifiche riguardano
prevalentemente situazioni estremamente controllate, ma anche molto specifiche. Tra le
proposte relative all'insegnamento delle procedure di calcolo, va menzionata l'applicazione
di principi dell'insegnamento diretto, ad ispirazione comportamentale, che comprende
dimostrazione, guida esplicita, modellamento, autoverbalizzazioni, rinforzo, come ad
esempio accade nel programma per l'insegnamento della procedura della divisione di
Rivera e Smith [1988]. (Proposte ad ispirazione cognitiva cercano invece di mettere
maggiormente l'accento sulle rappresentazioni e sui processi implicati nel calcolo.) Una
tecnica che sembra utile per favorire l'apprendimento delle tabelline, è quella del Constant
Time Delay (CTD) che in pratica consiste nel proporre al soggetto una tabellina (per
esempio 7 x 3) fornendo inizialmente subito la risposta. Successivamente, la stessa
tabellina viene riproposta e, se il bambino non risponde in modo autonomo entro 4 secondi,
viene riproposta di nuovo. Come si può capire, questa tecnica costituisce una delle tante
varianti possibili di un apprendimento di tipo associativo, che sfrutta il vantaggio della
ripetizione sistematica ai fini dell'automatizzazione della risposta, ma non tiene conto del
passaggio rappresentato dalla comprensione del fatto. Per superare questo problema,
alcuni autori, nel programma Memocalcolo, suggeriscono di prevedere due fasi per
l'acquisizione dei fatti aritmetici (= tabelline) e cioè una prima in cui il bambino capisce il
fatto e il suo risultato e lo memorizza scegliendo la strategia per lui più propizia e una
seconda in cui il fatto viene memorizzato. Per facilitare la comprensione del valore
quantitativo rappresentato dai numeri viene suggerita la linea dei numeri, ovvero una
rappresentazione della successione dei numeri associata alla quantità corrispondente.
Per quanto riguarda la comprensione e il calcolo con i numeri razionali, Moss a Case
presentano i risultati di un curriculum ispirato ad un'analisi cognitiva di queste conoscenze.
In breve si passa da esperienze concrete e rappresentazione grafica di cosa significa metà
o 50%, un quarto o 25%, ecc. alla scrittura di quantità corrispondenti ad interi più una loro
parte (es. metri 2,75).
Per quanto riguarda le frazioni, un buon suggerimento viene dal lavoro di Baroody e Hume
che insistono sull'importanza di favorire la comprensione semantica prima di richiedere
l'esercitazione sugli algoritmi di calcolo. A questo fine essi suggeriscono l'utilizzo di diversi
tipi di rappresentazione grafica e concreta dei rapporti tra intero e sue parti che
comprendano la comprensione dell'intero, di quando si hanno a disposizione delle parti,
della divisione dell'intero in parti uguali, l'introduzione del formalismo, il confronto di frazioni,
il calcolo con frazioni.

7.2. Programmi di potenziamento delle abilità di cognizione numerica


Oltre alle esperienze per un recupero specifico, esistono proposte di insegnamento di
curricoli o di strategie per favorire l'apprendimento del calcolo aritmetico nel suo complesso

67
dai quali però è possibile trarre anche suggerimenti per interventi più specifici. Esempi
significativi sono:
1) ll curriculum della Resnick è composto da otto moduli ognuno dei
quali suddiviso in più fasi ordinate tra loro. I moduli comprendono l'insegnamento
del contare e della corrispondenza biunivoca, la lettura e il confronto quantitativo
tra numeri, il confronto tra insiemi e la loro rappresentazione in numeri, la seriazione
di insiemi, l'addizione e la sottrazione di numeri e la soluzione di semplici equazioni
che richiedono addizione e sottrazione.
2) Le proposte di Lloyd e Keller applicano le fasi della buona lezione di
«istruzione diretta» che comprendono: riassunto dell'attività precedente, definizione
degli obiettivi, pratica suddivisa in semplici fasi concatenate, istruzioni esplicite,
tempo sufficiente di pratica, molte domande agli studenti durante la pratica, guida
esterna durante le fasi iniziali, feedback sistematico.
3) Pressley insiste delle strategie. In sintesi: insegnare dello strategie
specifiche in modo esplicito e guidato; insegnare strategie generali di impiego
sforzo e dell'auto-monitoraggio; arricchire le conoscenze di base del calcolo;
praticare ogni strategia in modo coordinato.
Per quanto concerne il panorama italiano (ci sono anche nelle slide!), ci limitiamo a
presentare: a) Il programma Memocalcolo
è sostanzialmente finalizzato all'insegnamento dei «fatti aritmetici» (cioè a quei risultati di
operazioni che il bambino dovrebbe conoscere senza bisogno di calcolarli ogni volta), ma
sollecita anche alcune funzioni matematiche che hanno un rapporto con i fatti, quali i principi
di base e il calcolo mentale. Il programma si articola infatti nelle seguenti parti: principi di
calcolo, strategie per automatizzare fatti additivi e sottrattivi, fatti pitagorici e sottrazioni, fatti
moltiplicativi, dai fatti al calcolo, giochi con i numeri, attività di consolidamento. Il principio
ispiratore del programma è che il bambino deve sia capire, sia automatizzare il fatto e quindi
occorrono processi iniziali attentivi e successivi processi associativi ripetuti con costanza e
sistematicità. I risultati di alcune ricerche svolte con il programma testimoniano della sua
efficacia.
b) Un programma più ampio, che si propone sia il potenziamento che il recupero delle
abilità numeriche e del calcolo, è quello proposto da Lucangeli, Poli e Molin 
denominato “Intelligenza numerica”.
Il programma si presenta come un percorso didattico al di fuori degli schemi tradizionali.
Non persegue quelle conoscenze che sono alla base del curricolo matematica, né implica
uno sviluppo sistematico dei concetti matematici come ci si potrebbe aspettare da un
percorso che vuole sviluppare il sapere disciplinare matematico, ma si focalizza sulle
modalità cognitive di elaborazione del sistema numerico. L'intero progetto si articola in
quattro volumi:
1. L'Intelligenza numerica: abilità cognitive e metacognitive implicate nella costruzione
della conoscenza numerica dai 3 ai 6 anni (scuola dell'infanzia);
2. L'Intelligenza numerica: abilità cognitive e metacognitive implicate nella costruzione
della conoscenza numerica dai 6 agli 8 anni (I ciclo scuola elementare);
3. L'Intelligenza numerica: abilità cognitive e metacognitive implicate nella II costruzione
della conoscenza numerica dagli 8 agli 11 anni (II ciclo scuola elementare);
4. Strumenti di analisi ed intervento per la discalculia evolutiva.

68
Ogni unità didattica è costruita in modo da suggerire all'operatore quali processi di
apprendimento essa stimola e quali obiettivi di apprendimento vuole perseguire. In questo
modo l'operatore stesso è facilitato ad utilizzare consapevolmente strategie didattiche affini
alle abilità specifiche di apprendimento, e dunque particolarmente efficaci.

8. La prassi clinica nel disturbo del calcolo


Il percorso diagnostico valutativo del bambino con disturbo del calcolo è normalmente
complicato dal fatto che il problema non si presenta isolato, ma in associazione con altre
difficoltà (principalmente di lettura, di attenzione, di funzionamento cognitivo limite). La
valutazione standard dell'apprendimento del calcolo va sicuramente associata con una
valutazione di base della lettura strumentale, con l'aggiunta di eventuali riscontri relativi a
comprensione del testo scritto, problem-solving, scrittura, comportamenti attentivi in classe,
livello intellettivo generale.
Per l'approfondimento della difficoltà di calcolo si può cominciare con la parte carta-matita
dell'AC-MT oppure passare direttamente, nel caso dei bambini più piccoli, alle BIN e, negli
altri, all'ABCA o alla BDE. In taluni casi molto specifici questo percorso dovrebbe portare ad
individuare le aree problematiche e gli obiettivi dell'intervento. Tuttavia, è probabile che si
debba procedere con ulteriori approfondimenti relativi tanto agli apprendimenti, quanto alle
funzioni di base  per esempio potrebbero essere valutati, a seconda dei casi la memoria
di lavoro fonologica, l'attenzione, la memoria di lavoro visuo-spaziale, processi esecutivi,
ecc. Per quanto concerne l'intervento, nella categoria delle esperienze di recupero di
specifiche abilità di calcolo sembra esserci da un lato enfasi per lo sviluppo della
comprensione semantica di quantità e della corrispondente rappresentazione formale e
dall'altro una ricerca di automatizzazione nel recupero e nell'utilizzo di conoscenze
numeriche con lo scopo di rendere meno oneroso in termini cognitivi lo svolgimento dei
calcoli. Questa suddivisione è in rapporto col modello del calcolo presentato più sopra e,
per ragioni diverse, con l'ispirazione delle batterie ACMT e BDE (ove si distinguono
accuratezza e velocità) e della batteria ABCA (nella quale si distinguono gli aspetti di
comprensione da quelli di produzione).
- La comprensione richiede rappresentazioni semantiche sul significato di simboli e
numeri.
- Nella produzione invece si richiedono processi di recupero di combinazioni e
sequenze di numeri oltre che alla loro identificazione e scrittura.
Questa suddivisione ha una importante ricaduta sulle metodologie di trattamento.
- Nel caso si debbano promuovere le conoscenze semantiche è chiaro che si dovranno
scegliere materiali e procedure che facilitino l'accesso ai significati e alla loro
rappresentazione mentale.
- Nel caso delle abilità di produzione, invece, l'enfasi andrà sulla memorizzazione e
l'automatizzazione del recupero.
Considerando le caratteristiche cognitive dei soggetti, si saprà quanto è possibile ottenere
con un training strutturato. C'è da aspettarsi ad esempio che con bambini che presentano
difficoltà cognitive legate alla comprensione, spesso associate con un basso QI o marcate
difficoltà di rappresentazione mentale, si debba procedere per far acquisire una stabile
rappresentazione mentale delle quantità e quindi per molto tempo sia necessario ricorrere
a rappresentazioni esterne grafiche o concrete. Al contrario, per i bambini che manifestano
difficoltà nei processi di produzione/automatizzazione. sarà necessario pensare a training
di memorizzazione sistematica. Alla luce della diagnosi di secondo livello, queste indicazioni

69
possono realizzarsi in modo più mirato se si parte da un profilo delle sottoabilità. Avendo a
disposizione lo stato di efficienza di diverse sotto-abilità, sarà possibile scegliere delle
esercitazioni mirate al potenziamento di quelle deficitarie evitando di esercitare l'alunno in
quelle che risultassero a livelli sufficienti. Il primo obiettivo sarà quello dell'accuratezza,
seguito da quello della velocità. Per quest'ultimo parametro, esistono ancora poche
evidenze sul grado di modificabilità e quindi occorre procedere con molta cautela nel
training, soprattutto in ambito scolastico, che per forza di cose dovrebbe essere ripetitivo e
continuativo, ma senza appesantire l’apprendi mento dell'alunno. L'insegnamento infine di
strategie, sia generali che specifiche, risulterà fondamentale per assicurare il livello
massimo o di autonomia operativa nell'applicazione e nel controllo delle conoscenze e delle
abilità acquisite.

ANSIA PER LA MATEMATICA


(MA)  slide = sensazione di tensione, paura della matematica
- Studenti con livelli più alti di MA = prestazioni più scadenti in compiti matematici
rispetto ai compagni che mostrano livelli più bassi o alcun livello di MA
- Conseguenze gravi
• a breve termine sulla prestazione scolastica
• a lungo termine influenzando la scelta della carriera, il tipo di occupazione, la
crescita professionale in età adulta
- Presenza di un effetto di genere = le ragazze riportano livelli più alti di MA rispetto ai
ragazzi

CAPITOLO 5: “DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO NON VERBALE


(VISUOSPAZIALE)”
1. Introduzione al disturbo dell'apprendimento non verbale (visuospaziale)
(Danv) Slide:
Disturbo dell’apprendimento non verbale
 Nonverbal Learning Disability (NLD)  difficoltà in compiti di natura visuospaziale
associate a prestazioni sufficienti in gran parte delle prove di natura verbale
 Tentativo (ancora in corso) di riconoscere il disturbo nei manuali diagnostici
internazionali  Consensus Conference internazionale promossa dal NVLD group e
dalla Columbia University di New York (USA)
 Disturbo dello sviluppo delle abilità visuospaziali  Developmental visuospatial
disorder =
Termine più appropriato proposto dalla Consensus Conference internazionale

70
Comorbidità

Disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD)

Il disturbo dell'apprendimento non verbale (DANV) si caratterizza per cadute specifiche


in compiti di natura non verbale, associate a prestazioni sufficienti in compiti
verbali. Negli ultimi anni si è assistito a un crescente interesse nei confronti di questo
disturbo nonostante esso non sia ancora stato inserito all'interno dei principali manuali
diagnostici, quali il DSM-IV-TR e l'ICD-10, né sia stato preso in considerazione nella
Consensus conference. Se, infatti, fino ai primi anni '90 tale problematica era
praticamente ignorata dalla gran parte dei neuropsicologi evolutivi, attualmente la mole
di ricerche sull’argomento, ne hanno indubbiamente incrementato la conoscenza. I
disturbi non verbali, inizialmente, vennero contrapposti a quelli di natura verbale, come
ad esempio la dislessia: se quest'ultima era associata a disfunzioni dell'emisfero sinistro,
il disturbo non verbale veniva, invece, attribuito a un malfunzionamento dell'emisfero
destro, tanto che, per alcuni anni, i termini «disturbo evolutivo dell'emisfero destro» e
«disturbo non verbale» vennero utilizzati come sinonimi. Nel 1995, Nichelli e Venneri
descrissero il caso di A.E., un ragazzo di 22 anni con un disturbo evolutivo dell'emisfero
destro. Il ragazzo, segnalato per problemi di orientamento spaziale, fin da piccolo aveva
mostrato difficoltà di apprendimento e di interazione con i pari: era descritto, infatti, come
un bambino solitario, poco propenso a relazionarsi con i ragazzini della sua età. Nelle
materie scolastiche, dopo gli iniziali problemi nell'apprendimento della lettura e della
scrittura, dovuti a una lentezza nel comprendere la differenza tra alcune lettere e tra

71
destra e sinistra, A.E. aveva sviluppato scarse competenze principalmente nell'area del
calcolo e del disegno tecnico.
La valutazione delle potenzialità cognitive aveva rivelato un QI verbale di 95, e un QI di
performance di 57. All'esame PET era risultata evidente una riduzione del metabolismo
cerebrale destro. Nel caso di A.E. si ritrovano molte manifestazioni cliniche comuni a quelle
descritte da Rourke nella sindrome non verbale. Rourke, lo studioso che per primo ha
approfondito lo studio della sindrome non verbale  la sindrome non verbale sarebbe più
grave in quei casi in cui le fibre che consentono il passaggio di informazioni entro e tra i due
emisferi cerebrali sono danneggiate oppure non si sono sviluppate in modo adeguato.
Secondo Rourke esiste, quindi, una serie di disturbi neurologici e/o sindromi evolutive nelle
quali i sintomi della sindrome non verbale sono presenti in misura maggiore o minore.
Ad un primo livello e ad un secondo livello, si collocano quei disturbi nei quali sono evidenti
tutti o gran parte dei sintomi tipici della sindrome non verbale, a un terzo livello sono collocati
i disturbi entro i quali un certo numero di bambini presenta sintomi simili a quelli della
sindrome non verbale e, infine, al quarto livello sono inseriti i disturbi la cui somiglianza con
la sindrome non verbale non è certa (la tabella riporta alcuni dei disturbi menzionati da
Rourke).

2. La sindrome non verbale descritta da Rourke


A partire dal 1989, Rourke ha proposto un
modello che non solo descrive risorse e
deficit della sindrome non verbale, ma si
propone anche di spiegare le
manifestazioni cliniche sulla base di
relazioni causaeffetto. All'interno del
modello suddetto, pertanto, i deficit
primari sono considerati la causa dei
deficit secondari, i quali, a loro volta, sono
la causa dei deficit terziari e così via. La
tabella riporta una rappresentazione
grafica del modello. Le caratteristiche
tipiche dei bambini con sindrome non
verbale sarebbero così riassumibili.
• Deficit e risorse primarie: si
osservano deficit nella percezione tattile
bilaterale, più marcati nella parte sinistra
del corpo. Anche le difficoltà di
coordinazione psicomotoria bilaterale
sono spesso più marcate nella parte
sinistra. Le capacità
Psicomotorie semplici e i deficit di
percezione tattile tendono a stabilizzarsi
con la crescita, al contrario delle abilità
psicomotorie complesse che, soprattutto
in contesti nuovi, tendono a peggiorare.
La percezione uditiva è preservata.

72
• Deficit e risorse secondarie: si manifestano con scarsa
capacità di organizzazione visuospaziale, estrema difficoltà
nell'adattarsi a situazioni nuove e/o complesse, con la
tendenza ad adottare comportamenti meccanici, ripetitivi e
inappropriati. La discriminazione visiva, soprattutto con
materiale verbalizzabile, tende a migliorare, ma le abilità di
memoria visuo-spaziale risultano deficitarie soprattutto in contesti nuovi mentre sono
adeguate le capacità di attenzione uditiva e verbale.
• Deficit e risorse terziarie: comprendono difficoltà nella
risoluzione di problemi nella formazione di concetti di natura
visuo-spaziale. È estremamente ridotta la capacità di
falsificare le ipotesi e di trarre beneficio da feedback positivi
o negativi situazioni nuove, così come risulta seriamente
compromessa l'abilità di stabilire delle relazioni causa-
effetto. Si osservano anche distorsioni
nella capacità di stimare lo scorrere del
tempo durante le attività quotidiane,
comportamento che può non essere
immediatamente visibile, ma che emerge
chiaramente se espressamente valutato.
L'abilità di memoria uditiva e verbale
meccanica è ben sviluppata. Al contrario,
la memoria di materiale complesso di
natura verbale può risultare deficitaria, a
causa di una scarsa comprensione
iniziale delle informazioni presentate.
• Deficit e risorse verbali: anche
nell'area verbale si osservano dei
problemi seppur limitati a verbosità,
scarsa prosodia e difficoltà d'uso
pragmatico del linguaggio. Le abilità di
ricezione e ripetizione verbale e le
competenze fonologiche sono
preservate.
• Deficit e risorse a livello scolastico:
nell'ambito scolastico, la sindrome si
manifesta con difficoltà in aritmetica,
anche per apprendimenti di natura
meccanica. Le capacità di lettura,
inizialmente deficitarie, migliorano nel
secondo ciclo della scuola primaria,
mentre la capacità di comprensione del
testo può continuare ad essere
compromessa.
• Deficit e risorse a livello socioemotivo: Rourke ha assegnato
molta importanza all'area socioemotiva, in cui si manifestano
marcati problemi nella percezione, nel giudizio e

73
nell'interazione sociale. Durante il periodo prescolare il
bambino può apparire «iperattivo». Tuttavia, con l'avanzare
dell'età, c'è una forte tendenza al ritiro e all'isolamento
sociale, con alto rischio di sviluppo di disturbi psichiatrici di
natura internalizzata nel corso dell'adolescenza.
Rourke ha anche proposto una serie di test da utilizzare per la valutazione delle
problematiche incontrate da bambini con sindrome non verbale, ordinati in funzione del
livello a cui sono collocati i deficit da lui descritti (vedi tabella). Più di recente il gruppo di
ricerca di Rourke ha stabilito una serie di criteri per la diagnosi di bambini con sindrome
non verbale. Tali criteri cambiano in funzione dell'età in cui è richiesta la consultazione.
Nella fascia di età tra i sei e gli otto anni viene
effettuata una diagnosi di sindrome non
verbale quando il bambino a) ottiene
prestazioni inferiori alla media in compiti
riferibili alla memoria visuo-spaziale,
b) consegue prestazioni scarse in
almeno due dei seguenti subtest della WISC:
disegno con i cubi,
ricostruzione di oggetti e cifrario;
c) ottiene le prestazioni migliori in
almeno due dei seguenti subtest della Wisc:
informazioni, somiglianze e vocabolario.

Per i ragazzi dai nove ai quindici anni, oltre


ai tre punti suddetti, Rourke individua altri due criteri:
a) prestazioni al di sotto della media in compiti di
percezione tattile complessa che valutano la presenza di agnosia delle dita,
b) migliori prestazioni in compiti di lettura strumentale rispetto a
quelle ottenute in compiti di aritmetica. Questi criteri sono
considerati da Rourke e colleghi necessari e sufficienti per una
diagnosi certa della sindrome non verbale a diverse fasce d'età.
Tuttavia, gli autori individuano altre abilità deficitarie che possano confermare la presenza
del disturbo.
Tra queste ricordiamo: difficoltà nella psicomotricità complessa, nella coordinazione oculo-
manuale, nel problem-solving e una discrepanza almeno 10 punti tra QI verbale e QI di
performance, che però, si manifesta solo nel 27% dei casi.

3. Limiti del modello di sindrome non verbale proposto da Rourke


L'approccio di Rourke è indubbiamente il più completo, e forse l'unico esistente nella
letteratura scientifica attuale. Attraverso esso è possibile crearsi un'idea di quali sono i
sintomi più frequenti in bambini affetti da sindrome non verbale a tutti i livelli di analisi,
partendo da processi di base quali la percezione e l'attenzione, fino ad arrivare al profitto
scolastico e alle abilità sociali. Tuttavia, esso soffre di alcune limitazioni che riguardano sia
il modello, sia la categoria diagnostica.
(1) In particolare, Rourke sostiene che le risorse e i deficit primari siano la causa di quelli
secondari, che sono, a loro volta, alla base di quelli successivi, ma le ricerche volte

74
a dimostrare tale rapporto causale sono scarse e lacunose. A sostegno della
relazione causa-effetto tra le componenti del suo modello, Rourke cita una ricerca
in cui si dimostra che i deficit percettivi, tattili e di coordinazione psicomotoria in
bambini con sindrome non verbale tendono peggiorare con l'età, al contrario di
quanto accade per le risorse primarie (verbali) che tendono a restare stabili o
migliorare. Tuttavia, questi risultati non sono sufficienti a sostenere l'esistenza di una
relazione causale tra i diversi livelli descritti nel modello.
(2) Un altro limite è legato alla mancanza di un'analisi dei processi considerati deficitari
in bambini con disturbo non verbale. Le ricerche svolte da Rourke non hanno
approfondito quali siano i principali problemi di percezione visiva incontrati da
bambini con sindrome non verbale, quali processi attentavi siano più carenti (per
esempio attenzione sostenuta, selettiva, divisa, ecc.), o quali componenti mnestiche
risultino maggiormente danneggiate.
(3) Lo stesso si può dire per gli apprendimenti: è vero che spesso i bambini con sindrome
non verbale cadono nelle materie scolastiche che implicano abilità visuospaziali,
quali ad esempio il calcolo, le scienze, il disegno, ma nessuno studio sistematico del
gruppo di Rourke ha approfondito in quali compiti essi ottengano le prestazioni
peggiori.
(4) Uso del termine «sindrome non verbale» per riferirsi a qualsiaisi sindrome con
discrepanza verbale-non verbale
(5) Questo secondo problema è in relazione con la vaghezza di una caratterizzazione
della sindrome trasversale a molti tipi differenti di problematiche, solo alcuni dei quali
rientrano nella categoria dei disturbi specifici dell'apprendimento. Per tale ragione,
Cornoldi ha proposto di isolare il caso del disturbo specifico di apprendimento,
identificando una meglio definita categoria diagnostica rappresentata da bambini o
ragazzi che rientrano nei criteri di inclusione (disturbo specifico severo in uno o più
apprendimenti scolastici) e di esclusione (presenza di handicap, svantaggio
socioculturale, ritardo mentale) dei DSA, ma che presentano una fisionomia ben
definita, rappresentata da aree linguistiche relativamente preservate e aree
visuospaziali deficitarie.

Scarso accordo tra gli studiosi sul modello di Rouke

75
Ricerca contemporanea: criteri più precisi  Criteri diagnostici Nonverbal Learning
Disabilities Cornoldi, Mammarella e Fine, 2016

1) Criterio A
Presenza di un deficit persistente in una o più misure di intelligenza o ragionamento non-
verbale (per es. in misure di ragionamento percettivo, intelligenza visuo-spaziale, etc.) in
presenza di intelligenza verbale in norma o sopra la media 2) Criterio B
Cadute sostanziali – allo stato attuale o nella storia del bambino – nell’elaborazione visuo-
spaziale, dimostrate da difficoltà in almeno due delle seguenti aree:
• difficoltà in prove di percezione visiva (es. analisi e riconoscimento di gestalt)
• difficoltà nella riproduzione su copia o nel ricordo di disegni (es. figure geometriche,
figure complesse, prove visuo-costruttive)
• difficoltà nel ricordare temporaneamente informazioni visuo-spaziali (es. bassi
punteggi in prove di MBT o MdL visuo-spaziale) 3) Criterio C
Presenza di indici clinici e/o psicometrici di debolezze nelle seguenti aree – allo stato attuale
o nella storia del bambino – in almeno una delle seguenti aree frequentemente associate al
NLD:
• difficoltà fino-motorie (es. nell’uso coordinato delle mani, nella scrittura, nell’uso di
zip, bottoni, lacci)
• difficoltà nell’apprendimento del calcolo (es. scrittura di numeri speculari,
incolonnamento, errori di prestito/riporto) o in altre materie che coinvolgono le abilità
visuospaziali (es. geometria, comprensione di testi spaziali, interpretazione di grafici
o tabelle) in presenza di un’adeguata decodifica della lettura 4) Criterio D
Alcuni sintomi possono essere visibili prima dei 7 anni sebbene possano non manifestarsi
completamente fino al momento in cui le richieste scolastiche non eccedano le capacità del
bambino, o essere mascherati dalla presenza di buone strategie verbali 5) Criterio E
Ci sono evidenze che mostrano un’interferenza dei sintomi sulla qualità del funzionamento
sociale, scolastico o nella vita del bambino 6) Criterio F
Le difficoltà non sono spiegate dalla presenza di un disturbo dello spettro autistico (ASD) o
di un disturbo della coordinazione motoria (DCD). La diagnosi di NLD può essere fatta in
presenza di alcuni sintomi tipici del ASD o DCD, ma se sono soddisfatti i criteri diagnostici
non si applica la diagnosi di NLD. Se il profilo NLD è conseguenza di una DI, disabilità
sensoriale, o una sindrome genetica, non si applica la diagnosi di NLD. Tuttavia, in tutti
questi casi si può far riferimento al fatto che il bambino presenta alcuni sintomi tipici del
profilo difficoltà nelle interazioni sociali (es. linguaggio verboso, difficoltà di comprensione
della comunicazione non verbale)

4. Il Danv: criteri per la sua identificazione e diagnosi differenziale


Non esistono ancora criteri standardizzati per la diagnosi del disturbo dell'apprendimento
non verbale (visuospaziale-DANV); di recente alcuni studiosi esaminando bambini con
profilo di disturbo non verbale e hanno osservato, in primo luogo, che la tendenza a utilizzare
questa diagnosi cambiava a seconda della formazione dell'operatore, in secondo luogo, che
taluni criteri venivano maggiormente utilizzati. Ecco per ordine decrescente di importanza i
criteri maggiormente utilizzati:
• discrepanza QI verbale vs. QI performance;
• organizzazione visiva;

76
• memoria visiva;
• abilità percettive;
• percezione di Gestalt;
• abilità grafomotorie;
• problem-solving;
• ragionamento non verbale;
• motricità;
• concetti matematici.
In Italia il nostro gruppo ha lavorato (e lavora) sul DANV da una quindicina di anni e ha
individuato un insieme di criteri diagnostici, per l'individuazione del disturbo sottolineando le
difficoltà visuospaziali implicate (e per questa ragione ha proposto di parlare dí «disturbo
visuospaziale dell'apprendimento») che comprendono:
1. Difficoltà cognitive specifiche di natura visuospaziale che si manifestano con:
a) discrepanza tra intelligenza verbale e intelligenza spaziale (almeno di 15 punti),
identificabile mediante la somministrazione di batterie che fanno specifico riferimento
a tali abilità o con subtest di batterie esistenti (WISH: disegno con i cubi, ricostruzione
di oggetti, contrapposti a vocabolario e informazioni);
b) difficoltà in prove cognitive neuropsicologiche di natura visuospaziale e, in
particolare, in compiti di memoria di lavoro visuospaziale (MLVS).
2. Profilo di apprendimenti scolastici con cadute nell'area della matematica o in altre
discipline che sottendono il coinvolgimento di abilità visuospaziali e grafomotorie,
quali geometria, disegno, lettura di tabelle e grafici nelle materie di studio, scienze,
comprensione di testi che implicano una rappresentazione spaziale.
3. Assenza di fattori di esclusione per i disturbi specifici dell'apprendimento
condizioni di handicap, ritardo cognitivo, o fattori esterni come inadeguato
insegnamento o carenze nell'ambiente socioculturale.
Il DANV è considerato, quindi, alla stregua degli altri disturbi specifici dell'apprendimento 
il NLD non presenta necessariamente un DSA, ma probabilmente una comorbidità. Alla
base della sua diagnosi vi è l'identificazione di un problema a carico degli apprendimenti
che richiedono l'elaborazione di informazioni visive e spaziali, con un profilo cognitivo
caratterizzato da una discrepanza tra abilità verbali preservate, e non verbali, danneggiate.
Questo approccio neuropsicologico rivolge maggiore attenzione all'analisi dei processi
cognitivi, pur non negando la complessità del disturbo non verbale e le sue ripercussioni a
livello sociale e personale. A differenza di altri disturbi dell'apprendimento, infatti, il DANV
crea difficoltà non solo a carico dei sistemi cognitivi quali l'attenzione e la memoria
visuospaziale, ma talora anche problemi nelle relazioni sociali tanto che diventano sempre
più frequenti: l'isolamento sociale e gli aspetti depressivi.
Un altro aspetto da non sottovalutare, nell'identificazione dei disturbi dell'apprendimento in
generale, e del DANV, in particolare, riguarda la diagnosi differenziale, che costituisce un
elemento critico per questo disturbo, vista l'assenza di un'etichetta diagnostica riconosciuta
a livello nazionale e internazionale. C'è da dire, innanzitutto, che raramente i bambini con
DANV giungono ai servizi per una valutazione delle abilità visuospaziali. Nella gran parte
dei casi vengono segnalati, oltre che per difficoltà di apprendimento della lettura e della
scrittura (fino a 7-8 anni) e in matematica, anche per difficoltà psicomotorie, o per problemi
di attenzione o di natura emotivo-sociale. Detto questo, i principali disturbi con cui il DANV
può essere confuso (o comunque avere delle sovrapposizioni e/o comorbilità) sono il

77
disturbo di sviluppo di coordinazione motoria, la disprassia evolutiva, la disgrafia, la
discalculia evolutiva, il disturbo di attenzione e iperattività e la sindrome di Asperger.
Quest'ultima fu individuata nel 1944 da Hans Asperger, che descrisse una particolare forma
di autismo caratterizzata da problemi nell'interazione sociale e nel linguaggio non verbale,
associati a verbosità del linguaggio e interessi circoscritti. Recentemente numerosi studi
hanno sottolineato la forte somiglianza e la necessità di stabilire delle regole per la diagnosi
differenziale tra sindrome di Asperger e disturbo dell'apprendimento non verbale. Alcuni
studiosi individuano una quasi totale sovrapposizione tra DANV e sindrome di Asperger
sostenendo che, sebbene il DANV possa presentarsi senza complicanze o coesistere, con
altre patologie, è consigliata una diagnosi primaria di sindrome di Asperger. Di diversa
opinione sono, altri autori che ritengono che, la sindrome di Asperger, nonostante manifesti
gli stessi deficit neuropsicologici del DANV, si caratterizzi anche per la presenza di alcuni
tratti tipici dell'autismo, quali l'assenza di relazioni e di adattamento sociale, comportamenti
ripetitivi e interessi ridotti. In accordo con questi autori, il gruppo di ricerca di Cornoldi ritiene
che sia possibile una diagnosi differenziale e che il vero DANV si caratterizzi principalmente
per un disturbo dell'apprendimento a base visuospaziale e, solo come possibile
associazione, con problematiche socio-emotive che non raggiungono la gravità osservata
nella sindrome di Asperger e possono avere caratteristiche (per esempio timidezza, ansia
sociale, dipendenza dall'adulto, tendenza alla depressione) che non si rintracciano
tipicamente nei profili autistici ad alto funzionamento.

5. Lo stato dell'arte sul DANV in relazione a memoria e comprensione linguistica


Lo studio delle caratteristiche del DANV è piuttosto recente. Pertanto, nella letteratura
internazionale è più facile trovare ricerche a carattere esplorativo che indagano aspetti
generici o che offrono una visione d'insieme sulle manifestazioni comportamentali e i sintomi
più frequenti del disturbo. Sono meno frequenti, e spesso di recentissima pubblicazione, gli
studi che abbiano affrontato l'analisi di processi specifici. Di seguito faremo riferimento
proprio a tali ricerche e ne proporremo una sintesi centrata sulla relazione tra DANV e
memoria visuospaziale e tra DANV e comprensione del testo e del linguaggio.
La memoria di lavoro visuospaziale (MLVS) è una funzione cognitiva che consente il
mantenimento e l'elaborazione di materiale visivo e spaziale. Secondo il modello di Cornoldi
e Vecchi (cfr. cap. 1) i compiti di memoria di lavoro possono essere classificati come passivi,
quando richiedono una semplice memorizzazione delle informazioni, o come attivi, quando
è implicato un maggiore livello di elaborazione, controllo e trasformazione degli stimoli. Ogni
compito può situarsi all'interno di un continuum, ai cui estremi si posizionano i compiti
passivi, da una parte, e quelli attivi, dall'altra. Poiché non è possibile definire un compito
come esclusivamente attivo o passivo, ogni processo rappresenterà un certo livello lungo il
continuum del controllo. Il grado di attività definisce il continuum verticale del modello di
memoria di lavoro suddetto, mentre la specificità e la natura del materiale, ovvero degli
stimoli presentati durante i compiti di memoria (verbali, visivi, spaziali, ecc.) definiscono il
continuum orizzontale.
I primi studi sulla relazione tra MLVS e DANV hanno indagato le prestazioni di bambini con
e senza difficoltà visuospaziali in compiti di MLVS attivi e passivi. Sono stati esaminati
bambini con diagnosi di DANV o caratterizzati per bassa intelligenza visuospaziale
associata a difficoltà scolastiche.
Cornoldi, Dalla Vecchia e Tressoldi hanno rilevato prestazioni inferiori da parte di bambini
con difficoltà visuospaziali nelle seguenti prove: ricordo di percorsi in matrici di diverse

78
dimensioni, ricordo di posizioni e identità di oggetti all'interno di matrici e ricostruzione di
figure mediante compiti di puzzle. In un'altra ricerca, Cornoldi e Guglielmo si sono soffermati
sulle difficoltà di visualizzazione (immaginazione) di questi bambini. Infine, Cornoldi e
colleghi hanno evidenziato problemi diffusi di MLVS, in associazione anche con qualche
problema di memoria sequenziale uditiva. Ci soffermeremo ora su alcune indagini che
hanno messo a fuoco specifici aspetti del funzionamento neuropsicologico di bambini con
DANV. In particolare, la capacità di inibire informazioni irrilevanti di natura visuospaziale è
risultata carente in questo gruppo di soggetti. Il compito presentato è il seguente: vengono
mostrate serie di 3 o 4 matrici (scacchiere) 4x4. Per ogni matrice l'esaminatore indica tre
posizioni. Il bambino deve ricordare l’ultima posizione di ogni matrice e
contemporaneamente svolgere un compito secondario che consiste, ad esempio, nel
battere un colpo sul tavolo ogni volta che l'esaminatore indica determinate celle della
matrice. Il compito di memoria consiste nel ricordare le ultime posizioni indicate nelle matrici,
mentre il compito secondario, che richiede di battere un colpo sul tavolo, dirige l'attenzione
del bambino verso alcune informazioni che sono irrilevanti (le celle in corrispondenza delle
quali il bambino deve eseguire questa operazione), in quanto non devono essere poi
ricordate. I bambini con difficoltà visuospaziali commettono solitamente più errori di
intrusione (cioè ricordano le informazioni irrilevanti che non dovrebbero essere ricordate)
rispetto a un gruppo di controllo, a dimostrazione della loro maggiore difficoltà di inibire
quelle informazioni che non sono rilevanti ai fini di una corretta esecuzione del compito.
Un ulteriore dato importante è stato ottenuto in uno studio su casi singoli nel quale Cornoldi
e altri hanno dimostrato l'esistenza di una doppia dissociazione tra compiti attivi e passivi in
bambini con DANV. Nello specifico, E.N. un bambino di 9 anni, falliva principalmente in
compiti di MLVS passivi, mentre C.I., una bimba di 13 anni, cadeva in test di MLVS attivi e
di sottrazione di immagini mentali. La presenza di una doppia dissociazione tra prove attive
e passive va a sostegno dell'ipotesi che le due tipologie di compiti sottendono processi
differenti e che all'interno del gruppo DANV si possano trovare profili differenti di disturbo.
Negli ultimi anni, oltre alla distinzione attivo-passivo, ci si è interessati all'analisi delle sotto-
componenti della MLVS entro il continuum orizzontale. All'interno di questo continuum,
Cornoldi distingue tra compiti presentati secondo un formato visivo, nei quali gli stimoli si
differenziano per forma, colore o tessitura, compiti spaziali sequenziali, nei quali l'ordine
di presentazione degli item riveste un ruolo cruciale e compiti spaziali-simultanei, dove è
la configurazione globale degli stimoli a essere rilevante. Mammarella e Cornoldi, in un'altra
ricerca, hanno osservato un pattern di risposta particolare in bambini con DANV nel test dei
blocchi di Corsi che richiede di riprodurre nell'ordine indicato, o in quello inverso, una seri
cubetti disposti casualmente su un piano. I risultati di questa ricerca hanno rivelato una
differenza sostanziale, rispetto ai bambini appartenenti al gruppo di controllo  mentre i
bambini del gruppo di controllo non mostravano alcuna differenza tra il ricordo in avanti e
all'indietro nel test di Corsi, i bambini con DANV ottenevano prestazioni di poco inferiori a
quelle dei bambini a sviluppo nella versione in avanti, mentre cadevano pesantemente in
quella all'indietro. Tale risultato dimostra che le due versioni del test implicano processi
differenti o inducono l’utilizzo di strategie alternative nella soluzione del compito. Nello
specifico, il ricordo dei cubetti nell'ordine di presentazione (avanti) favorirebbe l'utilizzo di
una strategia spaziale-sequenziale, mentre il ricordo nell'ordine inverso (indietro)
coinvolgerebbe l'utilizzo di una strategia spaziale-simultanea, che consiste nel crearsi una
configurazione globale della posizione dei cubetti.

79
Analizziamo il rapporto tra DANV e comprensione del linguaggio.
Le ricerche svolte da Rourke hanno ampiamente dimostrato che i bambini con DANV
possiedono migliori abilità verbali rispetto a quelle non verbali. Durante i primi anni di
scolarizzazione, tuttavia, possono verificarsi problemi di acquisizione della lettura
strumentale dovuti a un'incapacità nel riconoscere lettere visivamente simili come per
esempio «b, d», oppure «p, q», errori che si presentano di solito, anche durante
l’acquisizione della scrittura. A partire dai nove anni i problemi i lettura strumentale tendono
a risolversi mentre possono permanere difficoltà di comprensione e nell'uso pragmatico del
linguaggio. In sintesi Rourke sostiene che la forma linguistica dei soggetti DANV è
preservata, tanto da definire questi bambini verbosi, il contenuto è lievemente deficitario,
mentre è colpito l'uso funzionale del linguaggio. È da rilevare, inoltre, che i processi di natura
visuo-spaziale possono essere implicati anche nella comprensione del testo. Una delle
poche ricerche che hanno tentato di approfondire questo aspetto ha analizzato se bambini
con difficoltà visuospaziali manifestino problemi nel comprendere e riprodurre testi che
descrivono relazioni spaziali tra gli oggetti. Il materiale impiegato era la Prova di
comprensione spaziale proposta da Cornoldi, che prevede la presentazione di brevi
descrizioni. Dopo la lettura di un breve brano, veniva richiesto al bambino di riprodurre
graficamente il testo oppure di riposizionare, su un disegno già predisposto, le figure degli
oggetti nominati nel brano. I risultati hanno indicato un'effettiva disparità tra bambini con
difficoltà visuospaziali e gruppo di controllo, confermando la previsione secondo la quale
bambini con DANV ottengono prestazioni inferiori in compiti di comprensione di testi che
richiedono la rappresentazione di rapporti spaziali tra oggetti. In un altro studio, sono stati
analizzati i deficit linguistici dei soggetti con difficoltà visuospaziali. I partecipanti della
ricerca erano distinti in tre gruppi: i
- il primo era costituito da bambini con DANV
- il secondo da bambini con difficoltà verbali
- il terzo da bambini senza disturbi d'apprendimento.
I tre gruppi furono sottoposti a una serie di compiti:
a) un test utilizzato per verificare la comprensione dei soggetti del linguaggio spaziale
ed emozionale di base;
b) un compito somministrato per valutare le differenze tra i soggetti nell'abilità di
effettuare inferenze spaziali e non spaziali (prova SIT);
c) una prova che permetteva di analizzare la capacità di effettuare inferenze che
coinvolgono stati emotivi;
d) un ultimo compito teso alla valutazione della capacità di effettuare una serie di
inferenze, partendo da un insieme limitato di informazioni.
I risultati non hanno evidenziato e differenze significative tra il gruppo DANV e quello con
difficoltà linguistiche, mostrando simili difficoltà nella capacità di svolgere inferenze, mentre
entrambi gruppi si differenziavano da quello di controllo. Tuttavia, risultati ottenuti con la
prova SIT hanno rilevato prestazioni peggiori del gruppo DANV con le inferenze che
richiedono l'interpretazione di relazioni spaziali e, solo in questo gruppo di bambini, è stata
osservata una relazione significativa tra inferenze di tipo spaziale e inferenze di tipo
emotivo, a sostegno di una base comune tra processi spaziali ed emotivi, attribuita al
coinvolgimento dell'emisfero destro.
In una ricerca alcuni studiosi hanno esaminato la capacità di comprensione orale e di
ricordo di brano. Le prestazioni dei bambini con DANV non risultavano significativamente

80
migliori di quelle dei bambini del gruppo con difficoltà linguistiche, mentre entrambi
ottenevano risultati peggiori rispetto al gruppo di controllo. Nella capacità di comprensione
orale i bambini DANV ottenevano punteggi peggiori di quelli ottenuti dal gruppo di controllo
nelle inferenze, ma non nelle domande relative a eventi raccontati nei brani (che non
richiedevano alcuna inferenza); per quanto riguarda il ricordo del brano, essi non si
differenziavano dai controlli per fluenza, numero di autocorrezioni, ripetizioni di parole o
numero di pause, mentre erano diversi per il numero di parole usate e per la quantità di frasi
di senso compiuto (con soggetto, verbo e predicato) emesse.

6. Le abilità sociali in bambini con disturbo dell'apprendimento non verbale


Secondo Rourke le difficoltà psicosociali manifestate da bambini con DANV sono il
risultato della relazione causale tra risorse e deficit a livello primario, secondario e terziario.
In particolare, le difficoltà di giudizio sociale sono attribuite ai problemi di ragionamento e di
formazione di concetti astratti. Allo stesso modo, la scarsa capacità di riconoscere
emozioni, stati d'animo altrui e linguaggio non verbale sarebbero il risultato delle basse
prestazioni ottenute in compiti di organizzazione di stimoli visivi e spaziali.
La mancanza di intonazione nel linguaggio di questi bambini, insieme alla verbosità
linguistica, inoltre, fa sì che essi ottengano frequentemente feedback negativi da parte
dell'ascoltatore con conseguenti esperienze di difficoltà di adattamento sociale.
Infine, l'avversione nei confronti delle novità rende difficile ai bambini DANV la possibilità
di crearsi gruppi di amici all'interno di nuovi contesti sociali.
È da aggiungere che i bambini con DANV sono spesso derisi dai pari per la loro goffaggine
e la scarsa capacità di coordinazione motoria.
Queste esperienze negative favoriscono la tendenza all'isolamento sociale e allo sviluppo
di tratti depressivi. Non sorprende che con l'adolescenza si riscontri in questo gruppo di
soggetti un'alta frequenza di comportamenti suicidari.
Petti e colleghi hanno approfondito in modo sistematico l'analisi delle capacità di
riconoscimento e comprensione sociale in bambini con DANV. Lo strumento da loro
utilizzato comprendeva alcuni subtest del DANVA 2 che misura la capacità di interpretare
messaggi non verbali associati a quattro emozioni di base (felicità, tristezza, paura e rabbia).
− Il primo subtest richiede di associare delle posture del corpo alle quattro emozioni
fondamentali − il secondo rappresenta dei gesti che devono essere abbinati alle
emozioni corrispondenti
− il terzo raffigura espressioni del volto di adulti e bambini che veicolano emozioni a
diversa intensità
− il quarto subtest richiede il riconoscimento delle emozioni attraverso la tonalità della
voce. In quest'ultima prova una voce ripete sempre la stessa frase: «Ora esco da
questa stanza, tornerò più tardi» ma richiamando emozioni diverse a varie intensità.
I risultati hanno dimostrato che il gruppo di bambini con DANV era meno accurato
nell'abbinare le emozioni ai gesti e alle espressioni del volto di soggetti adulti, rispetto a un
gruppo con difficoltà linguistiche e a un gruppo di controllo. Lo scarso riconoscimento delle
espressioni di volti degli adulti (rispetto ai volti di altri bambini) può essere imputato anche
alla minore familiarità con questo tipo di stimoli, dal momento che i bambini con DANV
hanno difficoltà in tutti i compiti che introducono materiali nuovi. Un altro dato interessante
dello studio ha riguardato le difficoltà di riconoscimento di emozioni a bassa intensità da
parte del gruppo con DANV. Purtroppo per questi bambini, nella vita di tutti i giorni le

81
emozioni a bassa intensità sono quelle che più caratterizzano la gran parte dei discorsi e
degli scambi comunicativi tra gli individui.

7. Guida per la valutazione del disturbo dell'apprendimento non verbale


(visuospaziale) Per effettuare una diagnosi di DANV è necessario accertarsi che il profilo
sia corrispondente a quello del disturbo in questione. Pertanto il clinico è tenuto non solo a
ricercare durante il colloquio anamnestico con la famiglia la presenza di alcuni sintomi,
ma anche ad approfondire la consultazione mediante la somministrazione di alcuni test al
bambino. Di seguito sono riportati alcuni passi che possono guidare la diagnosi del DANV.
In particolare, a una diagnosi di primo livello, volta all'individuazione del disturbo, debba
seguire una valutazione di secondo livello, allo scopo di approfondire i punti di forza e di
debolezza del bambino. Il processo diagnostico dovrebbe, pertanto, comprendere una
valutazione delle potenzialità cognitive, dello stato degli apprendimenti e un
approfondimento delle competenze considerate specifiche del disturbo (in questo caso,
quindi, delle abilità visuospaziali).
Per quanto riguarda le potenzialità cognitive un caso clinico con ipotetico DANV dovrebbe
presentare una discrepanza di almeno 15 punti tra intelligenza verbale e intelligenza
visuospaziale a favore della componente verbale.
Può essere utile, ad esempio, un'analisi dei singoli subtest della WISC, con particolare
attenzione a quelli più discriminativi, ovvero il disegno con i cubi e la ricostruzione di oggetti
(dove il bambino dovrebbe incontrare difficoltà) e il vocabolario, le somiglianze e le
informazioni (dove il bambino dovrebbe cavarsela meglio).
Per quanto riguarda lo stato degli apprendimenti, occorre verificare se effettivamente
esistono delle difficoltà. Gli apprendimenti strumentali di base non sono per se stessi
visuospaziali (lo sarebbe il disegno, ma normalmente esso non è oggetto di valutazione
standardizzata), ma possono mettere in gioco abilità visuospaziali, e quindi una difficoltà di
apprendimento può essere meglio compresa attraverso una si qualitativa della prestazione.
È tuttavia possibile richiedere la collaborazione insegnanti o di altre figure significative che
interagiscono con il bambino nella compilazione di questionari basati sull'osservazione di
prestazioni scolastiche che implicano l'uso di abilità visuospaziali (vedi tabella qui sotto)

82
Nella valutazione è utile indagare le
abilità strumentali della lettura e di
comprensione del testo. Ricordiamo
che il profilo tipico di DANV prevede
una lettura strumentale carente in fase
iniziale, nove anni, mentre le difficoltà di
comprensione, soprattutto legate ad
aspetti inferenziali, possono
permanere. Le abilita’ di calcolo
possono essere valutate mediante test
che analizzano diversi aspetti quali, ad
esemplo, il calcolo orale, scritto, la
capacità di ordinare le cifre dalla più
grande alla più piccola e viceversa, e la
conoscenza dei fatti numerici. Gli errori
tipici riscontrati da bambini con DANV
si osservano, nei primi anni della scuola
elementare, nella scrittura e nella
lettura dei numeri: sono frequenti la
scrittura di numeri speculari o l'errato
riconoscimento di numeri visivamente
simili (es. 2 e 5).
Altri errori di natura visuospaziale possono essere legati a difficoltà nel riconoscimento dei
segni delle
operazioni (per esempio
+, X) e
nell'incolonnamento.
Durante il
processo di
scolarizzazione possono
riscontrarsi difficoltà nel
seguire la direzione
procedurale delle
operazioni, nell'uso del
prestito e del riporto e
nella scrittura dei segni di
parentesi durante il
calcolo di
semplici espressioni, o nelle operazioni e nella scrittura delle frazioni e dei numeri
decimali. Anche la valutazione delle prassie della scrittura può essere utile ai fini della
diagnosi di casi con DANV. La scrittura dei bambini con disturbo non verbale si
caratterizza per il mancato rispetto dei margini nel foglio, per collassamenti o
sovrapposizioni di lettere o parole, per l'inversione di singole lettere e per la grandezza
irregolare di esse, per la difficoltà ad apprendere i caratteri de scrittura e, in particolare,
l'uso del corsivo.

83
Apprendimenti scolastici nei bambini con NLD
a) Aritmetica
− Allineamento, incolonnamento
− Errori nella lettura di numeri, nel segno delle
operazioni
− Errori
procedurali
− Errori

visuospaziali b) Geometria
− Difficoltà nel riconoscere le figure
− Difficoltà nel ricordare le regole
− Scarsa capacità di lavorare con figure astratte e loro caratteristiche (base, altezza,
diagonale..)

c) Scienze
− Difficoltà nello stabilire relazioni spazio-
temporali, causa-effetto
− Scarsa comprensione di grafici
e tabelle − Scarso adattamento ai
dati della realtà

d) Disegno e Scrittura
− Scarsa rappresentazione di rapporti spaziali
− Disegno povero, scarsa capacità di copia e
di riproduzione a memoria
− Scarsa abilità nell’uso di strumenti (riga, squadra)
− Il disegno in genere appare povero e sembra rimandare ad uno stadio evolutivo non adeguato
rispetto all’età
− Difficoltà grafo-motorie nella scrittura
− Incapacità di ordinare azioni in funzione di obiettivi

e) Comprensione del testo


− Se il testo include relazioni spaziali, descrizioni, rapporti tra oggetti
− Incapacità di integrare figura e testo
− Difficoltà a costruire e lavorare su immagini mentali che includono rapporti spaziali
f) Geografia ed Orientamento
− Difficoltà nell’uso di mappe, nella riproduzione di percorsi, nella comprensione di
simboli e schemi
− Incapacità di elaborazione di informazioni visuo-spaziali

84
Il bambino (9 anni) doveva collocare le immagini degli oggetti sulla
base della seguente descrizione: nella piazza c'è una fontana al centro,
una statua in un angolo, un arco vicino alla statua, e tra l'arco e la
fontana ci sono una macchina e un cane.

8. La valutazione delle competenze visuospaziali


L'analisi delle competenze visuospaziali deve essere condotta a diversi livelli. Possono
essere valutate le capacità prassiche dei bambini con presunto DANV mediante alcune
prove contenute nella Batteria di valutazione neuropsicologica (B 5-11).
Le abilità visuocostruttive possono essere indagate mediante il test VMI e la Figura
complessa di Rey [Rey 1967].
Entrambe le prove richiedono al bambino di riprodurre delle forme grafiche; la figura
complessa di Rey implica anche la memorizzazione del disegno oltre alla sua riproduzione.
Solitamente le prestazioni di bambini con DANV in questi test sono molto basse. Un discorso
a parte merita la misura della memoria visuospaziale (MLVS), il cui ruolo appare critico
nel DANV. Attualmente esistono delle prove in letteratura che consentono una valutazione
approfondita di questa componente della memoria. Ad esempio, dalla batteria TEMA
possono essere utilizzati i subtest sul riconoscimento di volti e quello sulla memoria visiva
astratta.
Il primo, in particolare, consente anche un'analisi qualitativa degli stimoli dal momento che
l'espressione del volto nella figura target (da riconoscere) può essere diversa da quella dello
stesso volto presente tra i distrattoci. Mediante questo test è possibile valutare non solo la
prestazione relativa al riconoscimento dei volti ma anche la capacità di riconoscere volti che
esprimono emozioni differenti. Per quanto riguarda la MLVS, un autore sostiene che i test
maggiormente utilizzati per la sua misurazione sono due: il test di Corsi, che valuta la
memoria spaziale, e il Visual Pattern Test (VPT) che misura la memoria visiva.
Il test di Corsi è composto, nella sua forma classica, di 9
cubetti disposti in maniera irregolare su un piano. Il
compito del partecipante consiste nel riprodurre l'esatto
ordine di presentazione e matrici (o l'ordine inverso) dei
cubetti indicati dall’esaminatore. Il VPT comprende delle
matrici irregolari di varia dimensione con metà celle
colorate di nero: il compito consiste nel ricordare l’esatta
posizione delle caselle nere all’interno di una matrice
identica ma priva di celle colorate. Entrambi i compiti
sono autodeterminanti, ovvero la prova viene interrotta in seguito all'esecuzione di due errori
su tre, e permettono una misura dello span spaziale e visivo.
Il gruppo di ricerca coordinato da Vicari ha predisposto due test per valutare la memoria di
lavoro spaziale e visiva.
− Il compito spaziale è una versione bidimensionale del test di Corsi:
− il compito visivo è di riconoscimento: una figura complessa di colore verde o rosso
viene mostrata per 2 secondi e il partecipante deve successivamente riconoscerla
tra nove alternative simili.
Vicari e colleghi hanno anche predisposto alcuni test di memoria a lungo termine visiva
e spaziale. Il compito di apprendimento spaziale richiede al partecipante di ricordare la

85
posizione occupata da oggetti comuni, come ad esempio un fiore all'interno di una matrice
2 X 2, mentre il compito di apprendimento degli oggetti visivi consiste nel ricordare l'esatta
forma di un oggetto, come ad esempio un albero, tra alcuni distrattori. Questi compiti sono
considerati di memoria a lungo termine in quanto, in entrambi, tutti gli stimoli sono
presentati per tre volte di seguito e viene calcolato il numero di risposte corrette fornite a
ogni prova. Negli ultimi anni sempre più si è sentita l'esigenza di creare delle prove
diversificate di MLVS e ancora di più delle batterie di test computerizzate. Ciò è stato
realizzato dal gruppo di Gathercole, in Inghilterra, con la batteria AWMA che comprende
compiti di ML verbale e visuospaziale per bambini dai quattro agli undici anni. La
somministrazione computerizzata permette di ottenere un feedback immediato riguardo alle
prestazioni del singolo rispetto al campione normativo di riferimento. Anche in Italia,
Mammarella e altri hanno predisposto una batteria di prove per la valutazione della MLVS.
La batteria fa riferimento al modello di Cornoldi e Vecchi e alla distinzione tra compiti visivi,
spaziali-sequenziali e spaziali-simultanei.
La batteria è organizzata in due livelli
(immagine di lato) di cui il primo include
due compiti di screening veloce, il test di
Corsi e lo span di cifre, mentre il
secondo comprende un'ampia gamma
di test di
MLV attivi e passivi.
Le prove del I livello e i tre test attivi del
II livello sono di tipo carta-matita, mentre
i test passivi sono computerizzati.
Tutte le prove prevedono una modalità
di somministrazione autoterminante. La
somministrazione della batteria BVS
rende possibile l'identificazione di quali
processi sono più carenti in casi con
DANV. Qualora la valutazione mediante
le prove di I livello rilevi una caduta
massiccia a carico del test di Corsi
rispetto allo span di cifre, il clinico potrà
decidere di approfondire l'analisi della
MLVS attraverso la somministrazione
dei test attivi e passivi. I compiti attivi
richiedono la manipolazione di
informazioni visive e spaziali. Ad
esempio, nel test dei puzzle
immaginativi, il bambino deve
ricomporre una figura non muovendo le
parti in cui essa è stata scomposta, ma scrivendo, su un'apposita griglia di risposta, il
numero corrispondente a ogni parte in modo da ricomporre il modello. Un deficit a carico
dei soli compiti attivi può essere interpretato come una debolezza dei processi attentivi di
elaborazione. I compiti passivi, invece, richiedono
una semplice ritenzione in assenza di elaborazione aggiuntiva e si prestano maggiormente
per l'individuazione di fenomeni di dissociazione.

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I compiti inclusi nella batteria consistono in prove di riconoscimento in cui il bambino deve
riconoscere se coppie di stimoli differenziate per forma o tessitura (nei test visivi), per ordine
di presentazione di posizioni (nei test spaziali-sequenziali) o per la configurazione di
localizzazioni spaziali (nei test spaziali-simultanei) sono uguali o diverse (immagine).
La MLVS può essere considerata cruciale per la comprensione del DANV. D'altra parte, i
risultati sperimentali hanno più volte rimarcato la necessità di distinguere diverse
sottocomponenti all'interno della MLVS. Sarebbe riduttivo, quindi, affermare che i bambini
con DANV ottengono scarse prestazioni in compiti di MLVS senza individuare quali
componenti o processi specifici possano risultare più carenti. Sebbene Rourke sostenga
che non esistono sottotipi di disturbo non verbale, l'osservazione di doppie dissociazioni tra
compiti attivi vs. passivi e spaziali-sequenziali vs. spaziali-simultanei in bambini con DANV
va contro tale affermazione. L'analisi delle prestazioni in compiti di MLVS consente di
individuare eventuali discrepanze nello sviluppo delle diverse componenti di MLVS, offrendo
la possibilità di strutturare trattamenti specifici per bambini che presentano difficoltà marcate
in singole aree o difficoltà più generali all'interno di tale sistema di memoria. Infatti, sapere
che un'abilità è carente rispetto ad un'altra favorisce l'individuazione di modalità alternative
per presentare gli argomenti trattati a scuola, o durante un percorso riabilitativo, in modo
che ogni bambino si senta a proprio agio di fronte ai compiti cognitivi che si trova a dover
affrontare. In sintesi, l'analisi dettagliata della MLVS si offre come strumento per la diagnosi
del DANV; il profilo ottenuto sarà utile come riferimento per la pianificazione di programmi
riabilitativi specifici delle abilità risultate carenti.

9. Il trattamento del disturbo dell'apprendimento non verbale (visuospaziale)


Un buon trattamento riabilitativo deve essere strutturato a partire dall'analisi dei bisogni,
ovvero delle abilità risultate carenti attraverso il processo diagnostico. Essendo il DANV un
disturbo complesso, che può manifestarsi a diversi livelli, è necessario considerare quali
sono le priorità nello specifico caso da trattare  quindi, può sicuramente risultare utile la
riabilitazione di componenti di base (es. l'attenzione o la memoria), ma di fronte a gravi
cadute a livello scolastico è necessario integrare il trattamento con materiale volto a
migliorare le prestazioni a questo livello. Capita spesso, ad esempio, che bambini con DANV
cadano nell'area del calcolo o nelle prassie della scrittura. In questi casi è possibile
predisporre materiali che partono da processi di base (la percezione visiva dei numeri o
delle lettere, l'organizzazione spaziale degli stimoli, la comprensione di riferimenti spaziali
destra-sinistra) per arrivare, in un secondo momento, a esercizi più complessi che
permettano di acquisire e migliorare le prestazioni in compiti di matematica o di scrittura.
Attualmente, nella letteratura italiana, non esistono molti programmi di trattamento per le
competenze visuospaziali.
Il primo programma sull'argomento è stato Abilità visuospaziali. Si tratta di un training
riabilitativo rivolto a bambini dalla terza elementare alla terza media. Il trattamento è distinto
in 10 aree, ognuna delle quali considera un aspetto che potrebbe essere carente in bambini
con DANV.
La prima area (area visuospaziale) è quella che meno richiama gli apprendimenti scolastici,
ma che è trasversale a tutte le altre e comprende schede che esercitano la configurazioni
visive e spaziali, schede che introducono al concetto di immagine mentale e altre di
orientamento o di organizzazione di input visuospaziali.
Le altre aree considerano più da vicino gli apprendimenti scolastici o attività della vita
quotidiana. Pertanto, sono incluse schede che avviano il bambino verso attività quali: il

87
disegno, la matematica, le prassie, la geometria, la comprensione di testi spaziali, la
geografia e l'orientamento, le competenze sociali, le scienze, e l'uso del computer.
Tutto il programma intende inoltre promuovere l'apprendimento di strategie attraverso
un'ottica metacognitiva, secondo la quale il bambino è portato a riflettere sulle strategie
effettivamente impiegate in modo spontaneo durante l'esecuzione delle schede e sulla
possibilità di adottarne di nuove e più funzionali.
Un ulteriore riferimento operativo è la traduzione italiana, sintetizzata in un unico testo, di
due libri scritti da Tanguay [2006] relativi alla gestione di bambini con sindrome non verbale
da parte di genitori e insegnanti. Il libro contiene una serie di suggerimenti più di tipo pratico
che di riflessione psicopedagogica vera e propria, in quanto forniti da una madre (=
Tanguay) di una bambina con sindrome non verbale. Un limite del libro consiste nel fatto
che i consigli operativi sono derivati dalle necessità della figlia dell'autrice che probabilmente
manifestava una forma molto grave del disturbo anche con tratti tipici della sindrome di
Asperger. Pertanto, sebbene alcuni suggerimenti possano facilmente essere generalizzati,
altri appaiono molto specifici o comunque più adatti a casi molto gravi. I due volumi sopra
descritti sono gli unici testi pubblicati in lingua italiana per il trattamento dei DANV. Esistono,
tuttavia, altri programmi riabilitativi che possono risultare utili per questi bambini. In
particolare ricordiamo il training di Antonietti e Colombo, quello di Pazzaglia, Poli e De Beni
e quello di Andrich e Misto.
1) Il primo, Educare alla visualizzazione di Antonietti e Colombo è rivolto a ragazzi
con ritardo mentale, ma possiede degli spunti molto interessanti anche per bambini con
DANV. L'obiettivo del programma è stimolare le capacità di tipo immaginativo-spaziale
attraverso quattro operazioni immaginative:
a) il riconoscimento degli oggetti
b) lo spostamento degli oggetti
c) la rotazione degli oggetti
d) la deformazione degli oggetti.
Le operazioni della vita quotidiana a cui queste operazioni possono essere applicate
consistono nella capacità di individuare gli oggetti sulla base di corrispondenze che
coinvolgono forma, colore e dimensione, nella possibilità di anticipare la collocazione che
andrà a occupare un oggetto, di riconoscere un oggetto come identico anche in seguito a
una rotazione e di stabilire l'identità di uno stimolo anche in seguito a modifiche strutturali.

2) Il programma Orientamento e rappresentazione dello spazio di Pazzaglia, Poli e


De Beni ha lo scopo di migliorare le abilità di orientamento geografico di ragazzi della
scuola media inferiore. Il programma è strutturato in tre parti:
• la prima comprende dei questionari autovalutativi sulle abilità spaziali
• la seconda delle schede operative sulla lettura di mappe e l'abilità di orientamento
• la terza include degli strumenti di autovalutazione come momento di verifica.
La somministrazione delle schede operative è guidata dall'analisi dei questionari
autovalutativi compilati dal ragazzo. Le schede operative sulla lettura di mappe
comprendono materiali volti alla comprensione dei simboli e dei colori presenti nelle mappe
delle scale impiegate per misurare le distanze sulle carte e delle rappresentazioni dei rilievi
all'interno delle mappe.
Le schede sull’abilità di orientamento, invece aiutano il ragazzo nella pianificazione di
percorsi all'interno di mappe, nella riflessione sull'importanza del dare e ricevere

88
informazioni spaziali, nella comprensione dell'esistenza di diverse strategie di orientamento
e nelle attività di pianificazione di un viaggio tenendo conto di distanze, mezzi di trasporto e
tempi.

3) Il programma Memoria visiva di Andrich e Miato 2006 si offre come un addestramento


della memoria visuospaziale attraverso un software strutturato in tre livelli di difficoltà. Sono
inclusi dei giochi tipo «memory», nei quali bisogna ricordare la posizione e l'identità di stimoli
familiari, di figure prive di senso e di colori. Altri compiti consistono, invece, nel
riconoscimento di colori, di percorsi attraverso labirinti, di posizioni occupate all'interno di
matrici e di volti.
Spesso il bambino DANV è un po' goffo, non sa compiere atti motori complessi (per esempio
allacciarsi le scarpe) anche alle soglie della scuola media veste in modo un po' trasandato.
Anche questi aspetti possono essere oggetto di trattamento, nel bambino piccolo anche con
generiche attività psicomotorie, nel più grande con attività mirate. Per quanto riguarda il
trattamento degli aspetti emotivo-relazionali, si consiglia all'operatore di programmare un
intervento volto a migliorare l'autostima e le competenze sociali, da associare a iniziative
che favoriscano la socializzazione del bambino. Lavorando in questa direzione sin dalle
scuole elementari si dovrebbe riuscire ad attenuare le conseguenze emotive adolescenziali.
Nei casi più severi, appare opportuno prevedere un aiuto psicologico più profondo.

10. Conclusioni
Nonostante questo disturbo sia stato individuato da appena una trentina d'anni sono oramai
numerose le ricerche che hanno permesso di comprendere meglio le sue caratteristiche e
che hanno gettato luce su alcuni aspetti cruciali del disturbo. Fino a ora ci si è maggiormente
concentrati sul processo diagnostico, piuttosto che sul suo trattamento. Pertanto, è
disponibile una serie di strumenti di valutazione che possono essere impiegati a! fini
diagnostici. Restano, tuttavia, una serie di problemi irrisolti riguardo agli studi sul DANV.
Fino a ora non esistono ricerche che hanno indagato se effettivamente i problemi di
riconoscimento percettivo possono essere considerati alla base delle difficoltà di
attenzione visiva e di memoria visuospaziale.
Un secondo dato irrisolto riguarda le difficoltà di comprensione del testo dei bambini con
DANV. Non è chiaro, infatti, se il problema di comprensione sia legato a un aspetto generale
(l'incapacità di fare inferenze), oppure specifico, ovvero riguardante la capacità di fare

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inferenze relative a stati emotivi o a relazioni spaziali. A tale proposito le ancora poche
indagini empiriche non forniscono delle risposte chiare, non considerano il ruolo di alcune
funzioni cognitive, ad esempio della memoria di lavoro, nella capacità di comprensione del
linguaggio e dei testi scritti.
Un terzo a nodo è da ritrovarsi nella comprensione di alcuni comportamenti problematici
tipici dei bambini con DANV, come la rigidità e la scarsa flessibilità e propensione ad
accettare cambiamenti. Rourke interpreta questi problemi in riferimento alle scarse
esperienze che questi bambini possiedono riguardo all'esplorazione dell'ambiente
circostante. Fin da piccoli i bambini DANV tenderebbero a non manifestare interesse nei
confronti dell'esplorazione fisica dell'ambiente, comportamento che potrebbe spiegare la
scarsa tendenza ad accettare novità anche negli anni successivi. Gli studiosi della sindrome
di Asperger, al contrario, interpretano tali manifestazioni in riferimento ai tratti tipici
dell'autismo e alla chiusura nei confronti dell'ambiente fisico e sociale.
Infine, le conseguenze emozionali del profilo DANV in adolescenza richiederebbero uno
studio più sistematico e controllato di quello condotto fino a oggi.
Nella letteratura esistono trattamenti sulle competenze sociali che possono dimostrarsi utili
per bambini con DANV. Tuttavia, veramente poco è stato fatto riguardo alle abilità
visuospaziali  i nuovi programmi di intervento dovrebbero considerare il disturbo a partire
dall'esercizio di abilità di base ma sempre in una prospettiva che tenga conto delle
problematiche incontrate nella vita quotidiana andando a incidere sugli apprendimenti
scolastici, le competenze sociali, l'orientamento spaziale e l'autonomia personale.

CAPITOLO 6: “DISTURBI DELLA COMPRENSIONE DEL TESTO”


1. Esiste un disturbo specifico di comprensione?

Nel parlare del disturbo specifico di comprensione del testo (DCT) il primo problema è quello
di chiarire l'esistenza o meno del disturbo. Infatti, i maggiori manuali diagnostici (DSM-IV e
ICD-10) fanno rientrare i problemi legati alla comprensione all'interno della definizione più
generale di disturbo della lettura, senza specificare se e quanto disturbo di comprensione
e disturbo di decodifica si sovrappongano. Questa mancanza di chiarezza ha portato a
considerare il disturbo di comprensione come non dissociabile dal disturbo di

90
decodifica, o perlomeno a considerarlo come dipendente dal disturbo di decodifica. È
importante, però, notare che al contrario esiste una consistente mole di dati che supporta
l'idea che il disturbo di comprensione del testo può essere considerato come un
disturbo con delle caratteristiche ben distinte dal disturbo di decodifica.
Le evidenze che supportano questa dissociazione provengono dalle ricerche che hanno
studiato i predittori della comprensione del testo e della decodifica, le abilità e i processi
cognitivi sottostanti, le caratteristiche dei disturbi nel loro apprendimento e di conseguenza
dei programmi di trattamento  varie ricerche hanno ormai documentato la possibilità di
dissociare fra le abilità che predicono la decodifica da quelle che predicono la comprensione
del testo, dimostrando una certa indipendenza fra le due componenti di lettura.
Naturalmente se pensiamo a un bambino che impara a leggere, l'abilità di decodificare un
testo è strumentale all'abilità di comprensione: non potrebbe esistere la comprensione se
prima il lettore non fosse in grado di decifrare il testo e viceversa la comprensione facilita la
decodifica. È, però, dimostrato che individui che incontrano difficoltà ad apprendere una
lettura ad alta voce corretta e veloce (hanno quindi problemi di decodifica) non presentano
sempre e necessariamente difficoltà di comprensione del testo: l'accesso al significato è per
loro possibile utilizzando ad esempio un approccio personale selettivo al testo. La stessa
cosa può dirsi per soggetti con disturbi di comprensione: la loro lettura ad alta voce può
essere nella norma, al contrario della capacità di comprendere il testo.
Stothard e Hulme [1996] hanno confrontato le prestazioni di studenti con disturbo di
comprensione e disturbi di decodifica rispettivamente con studenti appaiati per età
cronologica o per età di lettura in prove fonologiche e prove di comprensione orale. I risultati
mostrano chiaramente che i cattivi lettori hanno abilità nella norma in tutte le prove che
riguardano gli aspetti fonologici del linguaggio, mentre hanno prestazioni deficitarie nelle
prove di comprensione orale; un andamento opposto si evidenzia negli studenti con disturbi
di decodifica.

91
Oakhill, Cain e Bryant hanno analizzato il
contributo di alcune abilità nell'individuare la
comprensione del testo e la lettura ad alta
voce in bambini fra i 7 e gli 8 anni. Le analisi
di regressione hanno evidenziato che i
migliori predittori della comprensione del testo
erano, oltre che misure di vocabolario e QI
verbale, misure di memoria di lavoro, controllo
metacognitivo e produzione di inferenze,
mentre queste ultime non spiegavano nulla
della prestazione in compiti di decodifica.
La lettura ad alta voce invece era spiegata da
una prova di delezione di fonemi.

Quindi questi risultati, oltre a mostrare una


netta distinzione fra queste due componenti
della lettura, mostrano come il vocabolario o,
in generale, l'«intelligenza verbale», non sono
sufficienti a spiegare la competenza in un
compito di comprensione del testo.
Anche analizzando gli studi sui disturbi
nell'apprendimento della lettura ad alta voce
e della comprensione emergono dati a favore di una netta distinzione fra le due componenti
di lettura. Se da una parte una serie di dati supportano l'idea che i disturbi di
comprensione del testo dipendano da problemi di tipo fonologico o più in generale da sottili
problemi di natura linguistica, altri studi hanno evidenziato che i problemi di natura
fonologica non sono sempre presenti nel DCT, giungendo alla conclusione che le abilità di
basso livello non caratterizzano i disturbi di comprensione. La mancanza di una diretta
relazione fra un deficit in decodifica e deficit in comprensione è evidenziata anche dal fatto
che le esperienze di trattamento sulla sola abilità di decodifica per migliorare la
comprensione non sortiscono risultati brillanti. L'esistenza di due componenti distinte ha
implicazioni in campo educativo nella necessità di progettare percorsi di lavoro diversi,
tenendo conto delle peculiarità dei processi cognitivi coinvolti. Per la decodifica ad esempio,
l'intervento mira principalmente all'automatizzazione del processo di riconoscimento di
parole e frasi, passando da una lettura basata sulla trasformazione grafema/fonema per
ogni parola, al riconoscimento rapido di gruppi di lettere e unità sublessicali, alla lettura
guidata dall'accesso a quello che viene chiamato lessico visivo che consente il recupero
diretto della forma fonologica della parola. Per la comprensione si cerca di promuovere altre
competenze fra cui l'abilità di individuare le informazioni principali in un testo, la struttura di
un testo, le caratteristiche che rendono i testi più facili o più difficili o l'abilità di trarre
inferenze sia lessicali semantiche.

92
Imparare a leggere implica:
• abilità di decodificare
• abilità di comprendere un testo scritto

Comprensione e decodifica sono due processi parzialmente indipendenti


• si può leggere accuratamente e velocemente, ma avere difficoltà nella comprensione
• si può leggere non accuratamente e lentamente, e non avere difficoltà nella
comprensione

2. Caratteristiche del disturbo specifico di comprensione


del testo Il DCT può essere definito come la difficoltà a
comprendere in modo adeguato il significato del testo.
Per parlare di disturbo specifico di comprensione durante
la lettura bisogna considerare alcuni criteri di esclusione,
così come avviene nei disturbi di apprendimento.
In primo luogo, lo studente con disturbo specifico di
comprensione non deve presentare difficoltà
semplicemente dovute a problemi di decodifica del testo: a
fronte di una lettura ad alta voce nella norma egli non riesce
a comprendere il contenuto del testo  i cattivi lettori hanno competenze nella norma nei
processi di basso livello (come accuratezza, velocità di lettura e nella lettura di parole
singole), mentre le prestazioni deficitarie si evidenziano in processi di alto livello come la
capacità di fare inferenze, la memoria di lavoro e la conoscenza delle strutture testuali.
Un altro criterio di esclusione riguarda le capacità cognitive generali; come per gli altri
disturbi dell'apprendimento, le potenzialità generali devono essere nella norma: questo
implica che dalla categoria disturbo di comprensione vengano esclusi gli studenti con lieve
ritardo mentale e si considerino con cautela quelli con funzionamento intellettivo limite 
analizzando la relazione fra misurazione del quoziente intellettivo e comprensione del testo,
le ricerche hanno evidenziato che il profilo più comune fra i cattivi lettori vede una
discrepanza di almeno 15 punti fra subtest verbali e di performance (a vantaggio della
componente di performance), mentre nel caso del gruppo di buoni lettori si riporta una
tendenza opposta.

93
DCT vs Dislessia

Bishop e Snowling hanno proposto una collocazione del DCT rispetto al disturbo specifico
del linguaggio e alla dislessia. Le due autrici propongono una categorizzazione basata su
due dimensioni:
- da una parte la presenza di disturbi di tipo fonologico (compresa l'inesatta lettura di
parole)
- dall'altra la presenza di disturbi che includono la comprensione del discorso, le
conoscenze semantiche e sintattiche.
In base a questa distinzione gli studenti con disturbi di comprensione del testo sarebbero
adeguati dal punto di vista fonologico, distinguendosi quindi dal gruppo dei dislessici, mentre
sarebbero inadeguati dal punto di vista della comprensione del discorso, delle conoscenze
semantiche e sintattiche, mostrando dei punti di contatto con gli studenti con disturbi
specifici del linguaggio. Questa classificazione spiegherebbe per quale motivo molto spesso
i disturbi di comprensione del testo vengono associati più genericamente a un disturbo
specifico del linguaggio.
Se è vero che i deficit linguistici possono rappresentare una caratteristica comune degli
studenti con disturbo di comprensione durante la lettura, d'altra parte è stato dimostrato che
gli individui con disturbo di comprensione del si caratterizzano per profili estremamente
variabili.
Cornoldi e colleghi, esaminando un gruppo di studenti di 11 anni con disturbo di
comprensione del testo, seguiti longitudinalmente per tre anni, hanno evidenziato come per
alcuni studenti il deficit di memoria di lavoro fosse la caratteristica peculiare, mentre per altri
il deficit nelle conoscenze e nel controllo metacognitivo era più rilevante. Anche nel caso in
cui le competenze generali venivano prese in considerazione, emergeva la stessa variabilità
di profili, con studenti con buone prestazioni in entrambi i sub-test della batteria e altri in cui
solo una o entrambe le prestazioni risultavano deficitarie. Risultati simili sono stati riportati
recentemente da Cain e Oakhill  hanno analizzato il profilo di un gruppo di cattivi lettori di
7-8 anni in prove di memoria di lavoro, prove di funzionamento generale (es. quoziente
intellettivo), prove di conoscenza lessicale (es. prove di vocabolario), prove di comprensione
del testo globali o legate ad aspetti più specifici (es. la capacità di fare inferenze, la capacità
di individuare la struttura narrativa del testo) e infine prove di velocità di lettura. Dai dati
emerge che le competenze cognitive generali non determinano delle differenze nella
prestazione in prove di comprensione, ma predicono l'evoluzione del disturbo di
comprensione: studenti con un peggiore funzionamento generale mostrano un minore
miglioramento in prove di comprensione del testo all'età di 11 anni.

94
POOR COMPREHENDER (= cattivo lettore)
• Studente con disturbo specifico della comprensione in assenza di difficoltà dovute a
problemi di decodifica del testo
• Cornoldi e colleghi (1996)  l’analisi dei profili individuali degli studenti con disturbo
della comprensione del testo ha mostrato la presenza di una variabilità nei profili
individuali con punti di forza e di debolezza differenti a seconda del caso:

− aspetti legati all’elaborazione semantica del linguaggio


− capacità di memoria
di lavoro
−competenze
metacognitive
Carretti e Borella hanno approfondito l'analisi dei profili di studenti con disturbo di
comprensione analizzando, oltre che aspetti legati alla memoria di lavoro verbale e
visuospaziale e agli aspetti metacognitivi, anche aspetti di tipo linguistico, come ad esempio
il vocabolario, la comprensione sintattica e la sensibilità a effetti legati alla semantica.
L'analisi delle differenze fra buoni e cattivi lettori ha messo in evidenza che i cattivi lettori
hanno una peggiore prestazione nella prova di memoria di lavoro verbale ma non quella
visuospaziale.
Inoltre, i cattivi lettori hanno una prestazione più bassa nella prova di vocabolario e di
comprensione sintattica, tuttavia sono sensibili tanto quanto i buoni lettori agli effetti di
concretezza.
Anche le conoscenze e il controllo metacognitivo risultano peggiori per i cattivi lettori
rispetto ai buoni lettori.
L’analisi dei casi singoli ha mostrato un quadro interessante. Infatti, del gruppo di 14 cattivi
lettori di quarta elementare, un solo studente mostrava problemi in tutti gli aspetti presi in
considerazione, negli altri casi invece il deficit di comprensione era associato a carenze
maggiori negli aspetti linguistici (vocabolario e comprensione sintattica) o ad una bassa
memoria di lavoro e scarse conoscenze metacognitive. È da segnalar che nel gruppo DCT
considerato uno degli studenti ha mostrato delle difficoltà di comprensione con però delle
prestazioni comparabili a quelle dei buoni lettori in tutte le misure ottenute nello studio,
suggerendo che altri processi cognitivi possono contribuire a spiegare la natura del deficit.
In definitiva il quadro che emerge riguardo alla natura e alle caratteristiche del disturbo di
comprensione è di notevole variabilità: è possibile affermare che gli aspetti legati
strettamente all’elaborazione semantica del linguaggio sembrano importanti, ma tuttavia
non possono essere considerati esaustivi delle caratteristiche del cattivo lettore; infatti, la
capacità di memoria di lavoro e le competenze metacognitive appaiono pure importanti e
vanno incluse nella valutazione.

3. Modelli teorici
Nella comprensione del testo sono coinvolti differenti processi cognitivi, quali ad esempio
la memoria a lungo termine (quindi le conoscenze che un lettore possiede), l'attenzione e
la memoria di lavoro. Pur nella variabilità delle proposte presenti in letteratura per spiegare
come si comprende un testo, tutti i modelli concordano sul fatto che la comprensione del
testo è un processo attivo di costruzione del significato del testo, dipendente quindi non
esclusivamente dalle informazioni presenti nel testo, ma anche dalle informazioni possedute

95
dal lettore  in mancanza di questa interazione fra informazioni presenti nel testo e
conoscenze precedenti, il lettore non riesce a cogliere il significato globale del testo.
Verranno presi in considerazione due dei modelli cognitivi che possono essere un'utile
guida per la comprensione dei disturbi di comprensione del testo:
1) il modello di Gough e
Tunmer 2) il modello di
Gernsbacher
Il primo modello proposto da Gough e colleghi viene chiamato Simple View of Reading,
ha come punto centrale l'importanza della distinzione all' interno della lettura fra decodifica
e comprensione del testo. Il secondo modello analizza quali meccanismi, legati alla
creazione di una rappresentazione mentale del significato del testo, possono spiegare le
differenze fra buoni e cattivi lettori.
Successivamente, verrà delineato l’apporto che i modelli metacognitivi sulla comprensione
del testo possono dare nell'analisi delle caratteristiche degli studenti con questo tipo di
disturbo.

3.1 Il modello Simple view of reading e il ruolo della comprensione orale


Secondo questo modello il livello di comprensione del testo può essere predetto
dall’interazione fra due componenti:
• la decodifica (d)
• la comprensione linguistica (l)  quindi
comprensione (c) = d x l.
Se la capacità di decodificare è uguale a zero, non ci sarà comprensione del testo, così
come se la comprensione del linguaggio è pari a zero.
Il modello predice che, nelle fasi iniziali dell'apprendimento, il livello di comprensione sarà
completamente spiegato dall'efficienza nella lettura ad alta voce, mentre la correlazione fra
comprensione del linguaggio e comprensione del testo sarà di poca entità.
Al contrario, al crescere del livello di scolarità, essendo progressivamente automatizzata la
lettura ad alta voce, la prestazione in compiti di comprensione del testo sarà meglio predetta
dal livello di comprensione del linguaggio.
Gough, Wesley e Peterson hanno calcolato gli indici di correlazione fra decodifica e
comprensione del testo e comprensione del linguaggio e comprensione del testo
distinguendo per il livello di scolarità. I risultati confermano le ipotesi formulate sulla base
del modello. Infatti gli indici di correlazione, fra decodifica e comprensione del testo,
passano da 0,61 per gli studenti dei primi due cicli della scuola primaria a 0,39 per quelli
della quinta elementare-prima media; mentre l'andamento opposto si ottiene per gli indici
che associano comprensione da ascolto e comprensione del testo, passando da 0,41 a
0,68.
Gli studi cross-linguistici non hanno sempre confermato i dati riportati da Gough e colleghi,
mostrando che nelle lingue trasparenti, anche nei primi anni di scolarizzazione, la
comprensione d'ascolto risulta essere un predittore più forte del livello di comprensione del
testo rispetto all'abilità di decodifica. Al modello iniziale sono stati proposti vari cambiamenti.
Chen e Vellutino hanno messo in discussione l'idea di un modello moltiplicativo, proponendo
che un modello additivo (c = d + l) catturi meglio il contributo di decodifica e comprensione
da ascolto nello spiegare la comprensione del testo e che solo in alcune circostanze il
prodotto fra queste due componenti spieghi una quota aggiuntiva di varianza.

96
Malatesha Joshi e Aaron, dopo aver dimostrato, in contrasto con i risultati di Chen e
Vellutino, la sostanziale equivalenza del modello moltiplicativo e di quello additivo,
suggeriscono che il modello moltiplicativo sia da preferire per la sua capacità di prevedere
casi come ad esempio i dislessici piccoli o gravi, che a causa della profondità del deficit non
sono in grado di accedere al contenuto del testo; il modello additivo, al contrario,
prevederebbe una certa capacità di comprensione, dovuta alle competenze di
comprensione linguistica.
Per Tiu, Thompson e Lewis il prossimo passo per comprendere la natura delle componenti
coinvolte nella comprensione del testo sarà quello di includere nel modello misure cognitive
come quelle di memoria di lavoro. È infatti stato ampiamente dimostrato che la memoria di
lavoro è strettamente legata funzionamento cognitivo generale. Va aggiunto che la
comprensione orale non è un meccanismo primitivo, perché la memoria di lavoro e altre
componenti cognitive possono sottostare ad essa.

3.2 La costruzione di un modello mentale e il Structure building framework


Un contributo importante allo studio della comprensione del testo proviene dagli studi che
hanno inteso la comprensione come un processo attivo di costruzione di un modello
mentale. Questo filone di ricerche ha permesso di analizzare come le conoscenze
precedenti e la memoria interagiscano nella costruzione del significato del testo. All'interno
di questa tradizione di ricerca si inserisce anche il modello proposto da Gernsbacher.
Secondo il modello di comprensione elaborato da Gernsbacher lo scopo della
comprensione è quello di creare una coerente rappresentazione del testo. L'autrice
utilizza la metafora della costruzione di un edificio per delineare il suo modello di
comprensione. La costruzione della rappresentazione del testo avviene partendo dai primi
elementi contenuti nel testo: sulla base del loro contenuto, alcune informazioni in memoria
saranno attivate, altre saranno inibite. Proseguendo la lettura, se le informazioni saranno
ancora coerenti, la costruzione sarà mantenuta, in caso contrario saranno attivate altre celle
della memoria e ricomincerà il processo di costruzione. Ai fini della comprensione del testo
sarà proficuo che la costruzione sia unica. In questo processo di costruzione due
meccanismi rivestono un ruolo fondamentale:
- l'attivazione  consente di mantenere attive le informazioni rilevanti
- la soppressione  diminuisce l'attivazione di quelle non rilevanti
Questi due meccanismi sono due meccanismi chiave per la comprensione del testo. In varie
ricerche Gernsbacher e colleghi hanno dimostrato che i lettori con bassa comprensione del
testo differiscono dai lettori abili nell'utilizzo del meccanismo di soppressione: i cattivi
lettori mantengono attive anche informazioni non più rilevanti e tendono a costruire
per lo stesso testo più sub-strutture. La scarsa efficienza del meccanismo di soppressione
implica che i cattivi lettori siano meno efficienti nell'inibire il significato inappropriato di parole
polisemiche o di ritrovare il corretto referente di un'anafora. Inoltre, nella comprensione di
un testo narrativo, i cattivi lettori, nel seguire le azioni del protagonista, risentono
dell'interferenza di informazioni che riguardano altri personaggi della storia. La creazione di
più rappresentazioni del testo spiega anche il minor ricordo delle informazioni recenti del
testo da parte dei cattivi lettori.
In conclusione, questo modello propone che il meccanismo chiave per comprendere le
differenze nella prestazione di cattivi lettori risieda nella capacità di individuare e mantenere
attive le informazioni rilevanti contenute del testo.

97
4. La ricerca sui disturbi di comprensione del testo
Nei prossimi paragrafi verranno illustrate alcune delle ricerche che hanno indagato le
caratteristiche del DCT. L'analisi si focalizzerà solo su alcuni degli aspetti che hanno
maggiormente caratterizzato la ricerca di questi ultimi anni. Le ricerche degli ultimi anni
hanno creato una convergenza fra i risultati ottenuti da approcci di ricerca differenti. Infatti,
se da una parte la memoria di lavoro sembra sostenere la produzione di inferenze,
dall'altra anche le conoscenze e il controllo metacognitivo e la memoria di lavoro
sembrano fra di loro legate nello spiegare la prestazione nella comprensione del testo sia
in giovani che anziani. Dal punto di vista metodologico, le ricerche di cui si parlerà nei
prossimi paragrafi hanno adottato, nella maggior parte dei casi, un disegno per gruppi
contrapposti, analizzando, le prestazioni di lettori che differiscono nel livello di comprensione
del testo (alta comprensione del testobuoni lettori vs. bassa comprensione del testo-cattivi
lettori), appaiati in alcune misure (generalmente intelligenza e decodifica). I dati che è
possibile ottenere da questo tipo di disegno riguardano cosa differenzia la prestazione di un
lettore abile da un lettore meno abile nella comprensione del testo.
Tuttavia, la presenza di differenze non esclude che la migliore prestazione dei buoni lettori
sia dovuta semplicemente alla maggiore esperienza con i testi.

4.1 Decodifica
Le ricerche che si sono interessate delle differenze fra buoni e cattivi lettori hanno
evidenziato che il diverso livello di abilità è determinato da molteplici fattori. Lo studio del
ruolo della decodifica per la comprensione del testo nasce dalla constatazione che in
assenza di decodifica non ci può essere comprensione del testo  la capacità di decodifica
e la comprensione del testo si sviluppano supportandosi vicendevolmente  questo implica
che delle difficoltà nella decodifica possono avere delle ripercussioni negative sul livello di
comprensione del testo. Tuttavia, all'aumentare della competenza nella decodifica, la
comprensione risulta essere determinata da altri fattori. Nel caso dei disturbi di
comprensione, varie ricerche hanno evidenziato che esistono delle differenze fra buoni e
cattivi lettori anche nella decodifica, anche se queste differenze non spiegano la natura del
deficit. Lo studio di Perfetti e Hogaboam ha messo in luce una lentezza dei cattivi lettori
nella lettura di parole rispetto ai buoni lettori. Inoltre, hanno evidenziato differenze fra buoni
e cattivi lettori di scuola media in prove di riconoscimento di parole, oltre che di
metacognizione, di attribuzione e in un questionario che valutava il concetto di sé in
ambito scolastico.
Nello specifico, nella prova di riconoscimento di parole, i buoni lettori mostravano un
punteggio di correttezza più alto dei cattivi lettori. Gli autori hanno individuato, per i due
gruppi, le variabili che spiegano la prestazione di comprensione del testo: per i cattivi lettori
l'unico predittore è risultato il punteggio della prova di riconoscimento di parole. Secondo gli
autori, questo risultato mostrerebbe una lacuna specifica per i cattivi lettori nell'abilità di
decodificare il testo. Alcuni studiosi, confrontando buoni e cattivi lettori in prove che
richiedevano l'elaborazione fonologica della parola, hanno evidenziato che i cattivi lettori
avevano prestazioni inferiori nelle prove che implicavano un grosso impegno di risorse in
memoria di lavoro, ma nessuna differenza in prove di elaborazione fonologica con un basso
carico di memoria, concludendo che i cattivi lettori manifestano deficit di elaborazione
quando le richieste sono molto gravose, e che il loro problema non è dovuto a difficoltà
nell'elaborazione fonologica della parola.
4.2 Inferenze

98
L'inferenza fa riferimento ad una informazione che viene attivata durante la lettura e che
non è esplicitamente presente nel testo. Fare inferenze significa capire cose non dette
all'interno del testo, fare collegamenti, comprendere il significato di una parola sulla base
del contesto in cui è inserita  tutte queste operazioni sono fondamentali durante la
comprensione del testo per creare una rappresentazione mentale coerente del testo. La
capacità di trarre inferenze dal testo è strettamente legata al livello di maturità nella lettura
raggiunto: bambini piccoli compiono un numero inferiore di inferenze rispetto a bambini di
maggiore età. Esistono varie classificazioni circa il tipo di inferenze che un lettore può dover
fare durante la lettura. La distinzione più classica è fra inferenze che mantengono la
coerenza e inferenze elaborative
- Le inferenze che mantengono la coerenza sono fondamentali per la comprensione
in quanto supportano la creazione di un modello mentale coerente. Questo tipo di
inferenze permette di mettere in collegamento fra di loro informazioni lontane nel
testo oppure le informazioni presenti nel testo e le conoscenze precedenti del lettore.
- Le inferenze elaborative permettono di elaborare o di approfondire il contenuto del
testo. Le inferenze elaborative sono meno necessarie per comprendere un testo
rispetto a quelle che mantengono la coerenza, o meglio, consentono al lettore di
raggiungere un livello di comprensione più profondo.
Molti studi hanno dimostrato che i cattivi lettori, pur essendo capaci di un processo
inferenziale, generano meno inferenze rispetto ai buoni lettori. Quindi ad esempio, un cattivo
lettore leggendo una frase del tipo «Anna, prima di uscire, guardò fuori dalla finestra e
decise di prendere con sé l'ombrello» spontaneamente non produce la logica inferenza che
sta piovendo o che sta per piovere. In una ricerca, Oakhill presentava a un gruppo di buoni
lettori e a uno di cattivi lettori una storia. I partecipanti dovevano prima leggerla e
successivamente rispondere a delle domande. Le domande potevano riferirsi o a
informazioni che erano esplicite nel testo o a informazioni che potevano essere ottenute
solo attraverso un processo inferenziale. In questa prima fase, i risultati mostravano che
semplicemente i buoni lettori facevano meglio in tutti i tipi di domande. Dopo aver risposto
alle domande, ai bambini veniva chiesto di controllare la correttezza delle domande
riguardando il testo. In questa seconda fase, la differenza fra buoni e cattivi lettori si
evidenziava esclusivamente nelle domande che richiedevano di fare un'inferenza. Dati
successivi hanno permesso di ipotizzare i cattivi lettori non sarebbero in grado tanto di
integrare fra di loro informazioni già presenti nel testo quanto di integrare le informazioni del
testo con quelle già possedute.
Tuttavia, i cattivi lettori tendono anche a perdere le informazioni rilevanti del testo, con la
conseguenza di un fallimento anche nel processo di integrazione. Questo risultato mostra
la rilevanza di componenti legate alla memoria nello spiegare il deficit di produzione di
inferenze. Infatti, la costruzione di una rappresentazione coerente del contenuto del testo si
basa anche sulla capacità di mantenere attive le informazioni rilevanti del testo, eliminando
quelle non più rilevanti. Nel caso in cui questo non avvenga il lettore si ritroverà con una
sovrabbondanza di informazioni di difficile integrazione. Sulla base di queste ipotesi il
gruppo di Padova ha evidenziato che i cattivi lettori non solo mostrano una minore capacità
di memoria di lavoro, ma sono più suscettibili all'interferenza di informazioni non più rilevanti.
Alla base del minor numero di inferenze generate dai cattivi lettori non ci sia tanto un deficit
di integrazione, quanto piuttosto il deficit di memoria di lavoro che ripetutamente è stato
riscontrato caratterizzare questo gruppo di individui  riducendo il carico di informazioni, i

99
cattivi lettori diventano capaci di integrare le informazioni, mentre, aumentando la quantità
di informazioni presenti nel testo, la loro prestazione diventa più scarsa.

4.3. Memoria di lavoro


Che la memoria a breve termine abbia un ruolo nella comprensione è un'intuizione che ha
accompagnato molti studiosi. Infatti, svariate ricerche hanno tentato di mettere in relazione
misure di ricordo immediato e la comprensione del testo, senza però trovare una
correlazione alta fra le due prestazioni. In realtà la misura della sola componente «passiva»
della memoria a breve termine non rispecchia adeguatamente le caratteristiche del
processo di comprensione del testo che richiede invece l'impegno di un sistema attivo di
memoria di lavoro (ML) ovvero la capacità di mantenere e contemporaneamente di
elaborare il contenuto del testo. Daneman e Carpenter [1980] partendo da questa riflessione
hanno costruito una Prova che pone richieste di elaborazione e di mantenimento: il Reading
Span Test. La prova si compone di una serie di frasi, di facile comprensione (del tipo: «Il
burro e la marmellata vanno con il pane»); il soggetto deve leggerle o ascoltarle, decidere
se siano vere o false e ricordare l'ultima parola di ogni frase. La misura dello span raggiunto
è data dal livello massimo di complessità in cui le risposte del soggetto sono sempre
corrette: ad es. sarà assegnato uno span uguale a tre, se nei set da due frasi e nei tre set
da tre frasi, il soggetto non ha mai commesso errori.
Nella loro ricerca, Daneman e Carpenter hanno correlato la misura ottenuta al Reading
Span Test con i risultati di tre prove di comprensione:
- la prima richiedeva che il soggetto rispondesse a delle domande su un brano
- la seconda richiedeva di identificare il referente di un pronome
- la terza era il Verbal Scholastic Aptitude Test (VSAT) che misura diverse sotto-abilità
di lettura. Dalle analisi risultarono delle alte correlazioni fra la misura di span e la
prestazioni ai test di comrpensione. Inoltre le due autrici dimostrarono che studenti
con basso span di memoria di lavoro facevano più errori nell'individuazione del
referente di un pronome quando il brano era costruito in modo da contenere molte
informazioni irrilevanti fra il referente e il pronome. Questi risultati avevano spinto
Daneman e Carpenter ad affermare che la capacità della memoria di è cruciale nella
comprensione del testo. Inoltre, gli studenti con bassa comprensione del testo hanno
uno span minore di memoria di lavoro perché meno efficienti nell'elaborazione
linguistica della frase, con la conseguenza di una minore disponibilità di risorse per il
compito di memoria. Tuttavia, ricerche successive hanno evidenziato che, anche in
prove di memoria di lavoro che non richiedono l'elaborazione di materiale linguistico,
i lettori con difficoltà di comprensione del testo hanno uno span minore di memoria
di lavoro. L’analisi di Daneman e Merikle ha dimostrato che gli indici di correlazione
fra memoria di lavoro e comprensione del testo sono di simile entità quando la prova
di memoria di lavoro implica l'elaborazione tanto di materiale linguistico quanto di
materiale non linguistico. Quindi il ruolo della memoria di lavoro nella comprensione
del testo non è legata ad effetti modalità specifici, quanto piuttosto al fatto che la
misura di memoria di lavoro capta la capacità dell'individuo di gestire le risorse
attentive, che consentono di individuare le informazioni rilevanti, che verranno
attivate e mantenute, e scartare quindi le informazioni irrilevanti.
Le differenze fra buoni e cattivi lettori sono più consistenti quando i due gruppi vengono
confrontati in prove di memoria di lavoro verbale, rispetto a prove che richiedono
l'elaborazione di materiale non verbale o richiedono semplicemente il mantenimento

100
passivo di informazioni verbali. Per comprendere cos'è un'intrusione, ecco un esempio di
prova di memoria di lavoro  vengono presentate serie di parole di questo tipo:
Il soggetto esaminato deve ascoltare le parole
lette dallo sperimentatore, battere la mano sul
tavolo quando sente il nome di un animale e
ricordare l'ultima parola di ogni lista, nell'ordine
di presentazione (in questo esempio sono:
notte, testa e giraffa). Un'intrusione è data
dall'inclusione di una parola presente
all'interno della lista nel ricordo finale, ad
esempio «campione» al posto di «testa». L'idea da cui siamo partiti è che, per ottenere un
buon ricordo, il partecipante deve essere in grado di
diminuire l'attivazione delle parole che ha elaborato e concentrarsi su quelle da ricordare (le
ultime). L'errore di intrusione, quindi, permette di misurare il deficit di soppressione dei cattivi
lettori avanzato da Gernsbacher e colleghi. Infatti si può ipotizzare che, se le difficoltà nei
processi inibitori spiegano in parte il deficit dei cattivi lettori, allora per il cattivo lettore
dovrebbe essere difficile escludere dal ricordo le parole precedentemente elaborate, e in
particolare quelle elaborate più a lungo, vale a dire le parole di animali. Questo non
dovrebbe verificarsi nella prestazione dei buoni lettori  i cattivi lettori mostrano una
prestazione più bassa nel compito di ricordo e il loro ricordo è caratterizzato da un maggior
numero di intrusioni di parole della lista, specialmente di nomi di animali, dato che non si
presenta nella prestazione dei buoni lettori. Carretti e colleghi hanno inoltre evidenziato che,
in una prova di decisione lessicale, i cattivi lettori hanno un effetto di facilitazione specifico
per i nomi di animali presenti nella prova di memoria di lavoro, a riprova del fatto che queste
informazioni non sono state inibite, ma anzi sono rimaste altamente attivate. Questo effetto
invece non è presente nel caso dei buoni lettori. In conclusione, gli studi sulla relazione fra
memoria di lavoro e comprensione del testo hanno evidenziato uno stretto legame fra questi
due processi: in particolare la difficoltà dei cattivi lettori risulta situarsi a livello di processi di
inibizione delle informazioni irrilevanti. Per comprendere adeguatamente un testo, infatti, è
necessario che il lettore riesca a mantenere attive le informazioni importanti nel testo,
riducendo l'attivazione delle informazioni irrilevanti. Il deficit di memoria di lavoro sembra
avere delle caratteristiche in parte modalità specifiche, così come mostrato dalle peggiori
prestazioni in compiti di natura verbale rispetto a quelli non verbali.

4.3 Metacognizione
Il termine «metacognizione» si riferisce alle conoscenze che un soggetto ha sui propri
processi mentali e al controllo che è in grado di esercitarvi. Per quanto riguarda nello
specifico la comprensione durante la lettura, i modelli metacognitivi di Jacobs e Paris e di
Ann Brown hanno individuato delle coordinate di riferimento per stabilire la relazione fra
metacognízione e comprensione, riferendosi in particolare alle conoscenze che il lettore ha
sullo scopo della lettura, alle strategie per affrontare il testo e al controllo che esercita per
monitorare la propria comprensione. Il disturbo di comprensione potrebbe essere
caratterizzato da carenze in una di queste aree o in tutte tre.

In relazione alla prima area e cioè alle conoscenze metacognitive, Brown distingue
conoscenze relative al testo, allo scopo, alla lettura, alle strategie e al soggetto come lettore.
Lettori Con difficoltà si dimostrano meno consapevoli di dover cercare il significato di quello

101
che legge uno e più focalizzati sull’abilità di decodifica e non sembrano conoscere lo scopo
per cui si legge.
De Beni e Pazzaglia hanno proposto a un gruppo di cattivi lettori e un questionario di
metacompriensione, costruito seguendo il modello metacognitivo di Brown  esso indaga
quattro aree relative a:
• la consapevolezza circa gli scopi del compito
• la conoscenza di strategie
• il controllo durante la comprensione
• la sensibilità al testo.
I cattivi lettori alla richiesta di completare la frase «Quando si legge è importante...» hanno
dato risposte del tipo «è importante leggere senza esitazione e con esattezza tutte le
parole», oppure nell'item 8, in cui viene richiesto di scegliere delle frasi che descrivano la
lettura, i cattivi lettori hanno scelto con maggiore frequenza, affermazioni quali «legge, e
come giocare agli indovinelli: si possono fare degli errori» o «leggere è come fare un
videogioco: richiede di essere molto veloci e precisi», enfatizzando quindi la maggiore
importanza per loro dell'aspetto decifrativo della lettura
Per quanto riguarda le conoscenze su se stesso come lettore e il controllo metacognitivo,
il buon lettore è più consapevole delle proprie abilità; per esempio riesce a prevedere i tempi
di studio in base alla difficoltà del compito e a concentrare la propria attenzione sulle parti
più importanti del testo. Riguardo alla conoscenza e uso di strategie i cattivi lettori non
sembrano differenziarsi tanto nella quantità di strategie che conoscono, quanto nell'abilità
di applicarle in modo flessibile e adeguato considerando lo scopo che vogliono raggiungere.
Cataldo e Oakhill [2000] hanno inoltre evidenziato che i cattivi lettori utilizzano strategie di
lettura meno sofisticate rispetto ai buoni lettori. In questa ricerca a degli studenti italiani
veniva chiesto di leggere un testo e di rispondere successivamente a delle domande
individuando nel testo dove era collocata l'informazione utile per rispondere. Per ogni
studente veniva registrato il tipo di strategia utilizzata. Nel caso dei cattivi lettori la strategia
più utilizzata era quella di ricominciare a leggere tutto il testo, piuttosto che navigare nel
testo alla ricerca della porzione di testo in cui era contenuta la risposta  i cattivi lettori
hanno bisogno di essere aiutati nella navigazione nel testo per individuare le informazioni
rilevanti. Oltre a un poco efficace utilizzo delle strategie di comprensione, i cattivi lettori non
si accorgono di non capire, quindi sono meno efficaci nel monitoraggio del livello di
comprensione. Una tecnica spesso usata per valutare la capacita di controllare il processo
di comprensione e’ quella che introduce anomalie testuali, in cui viene proposto al lettore
un testo che contiene delle incongruenze; da queste ricerche appare chiaro che i lettori abili
sono tipicamente più bravi nell'individuare errori o omissioni e nel risolvere le incongruenze,
rispetto ai cattivi lettori Tuttavia le differenze fra i due gruppi non si esauriscono
esclusivamente nella minore abilità dei cattivi lettori di individuare anomalie nel testo.
Cornoldi infatti, ha osservato che il cattivo lettore può avere capacità uguale al buon lettore
nell'individuare elementi di difficoltà nel testo, ma non trarre la logica conseguenza di
soffermarvisi più a lungo. Questo risultato suggerisce un differente standard di coerenza del
cattivo lettore. Lo standard di coerenza rappresenta da una parte la sensibilità del lettore
all'incoerenza del contenuto del testo e dall'altra lo sforzo che il lettore mette per fare
inferenze, monitorare la comprensione e mantenere la coerenza.

102
4.4. Comprensione del testo e successo scolastico
Obiettivo della comprensione del testo è capire le informazioni contenute in un testo. Tanto
nella vita di tutti i giorni quanto in ambito scolastico la comprensione del testo assume un
ruolo di primo piano. Infatti, studenti con disturbo di comprensione del testo solitamente
mostrano un livello di apprendimento scolastico più deficitario rispetto a studenti di pari età
senza disturbo di comprensione. Inoltre, sembra che la presenza del deficit influenzi
pesantemente le scelte scolastiche di questi ragazzi: in un gruppo di cattivi lettori studiati
longitudinalmente per sette anni, i lettori che a una prima valutazione (effettuata in prima
media) erano stati selezionati come cattivi lettori, ma che successivamente erano migliorati
presentando delle prestazioni nel compito di comprensione del testo pari a quelle dei buoni
lettori, continuavano tuttavia a seguire un percorso scolastico simile a quello dei cattivi lettori
che avevano riconfermato il deficit. Le scelte scolastiche si orientavano più verso gli istituti
professionali e tecnici, e gli abbandoni scolastici erano in numero simile a quelli del gruppo
di lettori che aveva mantenuto la difficoltà di comprensione. Questo dato sembra indicare
che la presenza precoce di un deficit influenza a livello emotivo-motivazionale le scelte dei
ragazzi; vissuti di insuccesso li spingono a trovare fuori della scuola delle gratificazioni,
anche quando in realtà il deficit non è più presente. Cornoldi e colleghi hanno evidenziato
un forte legame fra difficoltà, comprensione del testo e successo accademico anche in
studenti universitari.

5. L'approccio clinico al disturbo di comprensione del testo


5.1. La valutazione
Nonostante l'esistenza di una categoria diagnostica per il disturbo specifico di comprensione
del testo sia ancora oggetto di dibattito, è frequente rilevare casi di DCT più o meno severi.
È stato stimato che la percentuale di studenti che presentano una qualche difficoltà possa
raggiungere valori intorno al 510% della popolazione scolastica. A causa della mancanza di
un consenso circa la natura e le caratteristiche di questi disturbi, sul piano diagnostico essi
vengono spesso ricondotti ad altre tipologie di disturbi per le relazioni che con queste hanno.
In particolare:
• al disturbo specifico del linguaggio per il fatto di essere spesso associati a
problemi di elaborazione semantica e sintattica del testo
• al disturbo specifico di decodifica o dislessia per il fatto che i due problemi
possono essere compresenti o che, più in generale, molti sistemi diagnostici,
come per esempio DSM-IV e ICD-10, attribuiscono la diagnosi di dislessia
anche a casi in cui il problema di lettura riguarda la comprensione;
• al ritardo mentale lieve o al funzionamento cognitivo limite per il fatto che la
comprensione del testo scritto è in questi individui particolarmente
penalizzata. È però dimostrato che, soprattutto se le stime del potenziale
intellettivo escludono specifiche prove basate sulla comprensione linguistica,
un disturbo di comprensione è frequente anche in individui con buona
intelligenza
• a difficoltà aspecifiche di memoria e studio per il fatto che generalmente
una scarsa comprensione del testo scritto produce problemi di memoria e di
studio che in realtà sono almeno in parte secondari.

103
La scelta degli strumenti per valutare la comprensione deve essere fatta in modo da ricavare
delle informazioni utili in sede di trattamento e in primo luogo valutare proprio quell'abilità,
consentendo di escludere il più possibile l'intervento di altre variabili.
Alla prima fase di accertamento di un eventuale deficit dovrebbe seguire una fase in cui
l'esaminatore specifica la natura e le caratteristiche dei disturbi del bambino  in Italia, le
prove più utilizzate per la verifica della comprensione del testo scritto sono incluse nella
batteria MT che prevede distinte prove dalla prima elementare alle prime classi della scuola
secondaria superiore. La modalità di verifica della comprensione prevede che l'esaminato
affronti il testo senza limiti di tempo e quindi risponda a un numero variabile di domande a
scelta multipla con a disposizione il testo letto a cui ricorrere in caso di necessità. Queste
prove sono state valiate dal punto di vista psicometrico e forniscono dei dati normativi con
cui confrontare le prestazioni dei singoli soggetti.
Dopo un'iniziale valutazione del livello di comprensione raggiunto dal ragazzo, potrebbe
risultare utile approfondire le peculiarità del deficit, tenendo conto delle componenti della
comprensione quali la capacità di fare inferenze, di seguire la struttura sintattica del testo,
di rilevare le informazioni più importanti, ecc. La scomposizione in componenti del processo
di comprensione del testo permette appunto di ottenere informazioni più specifiche, utili in
fase di trattamento. Una proposta che permette di valutare alcune componenti implicate
nella comprensione del testo è stata avanzata da Tressoldi e Zamperlin. Gli autori hanno
messo insieme una batteria di cinque strumenti che permettono di effettuare una
valutazione di secondo livello di un eventuale disturbo di comprensione del testo. La batteria
include una prova di vocabolario, una prova di inferenze lessicali, una prova di inferenze
semantiche una prova di metacomprensione e infine un questionario sulle strategie di
studio. Lo strumento ha un'ampia taratura ed è rivolto studenti dalla terza elementare alla
terza media.
Un altro strumento ideato per una valutazione di secondo livello dei disturbi di comprensione
del testo è la batteria di prove di De Beni. La batteria si compone di 10 prove che valutano
10 componenti della comprensione del testo. Le prove sono rivolte a studenti dalla terza
elementare alla seconda media (livello A) e dalla seconda media alla prima superiore (B).
Tuttavia, nella prassi clinica non è possibile utilizzare tutte le 10 prove per orientare poi il
successivo trattamento. La scelta delle prove necessarie per l'approfondimento di un
disturbo di comprensione può essere effettuata attraverso l'analisi delle risposte date dal
bambino nella prova di primo livello (ad esempio la prova MT di comprensione) che potrebbe
dare indicazioni su quale aspetto è importante approfondire. Le prove di tipo metacognitivo
o che richiedono un'elaborazione di alto livello del testo sono i migliori predittori della
prestazione in una misura globale di comprensione del testo, dell'abilità di studio e del
successo scolastico.

5.2. Il trattamento
La scelta di un programma di trattamento per il miglioramento dei disturbi di comprensione
può seguire due differenti itinerari:
• si può decidere di lavorare direttamente sulle abilità che sottostanno al processo di
comprensione  l'intervento interesserà gli aspetti cognitivi delle difficoltà di
comprensione,
• si può decidere di migliorare delle conoscenze o delle strategie che si pensa
influenzino la comprensione del testo  l’intervento promuoverà le conoscenze

104
metacognitive del lettore, l'uso di strategie utili durante la comprensione oppure il
cambiamento del suo stile attributivo.
Molte rassegne in questi anni hanno cercato di stabilire l'efficacia di un trattamento rispetto
a un altro.
Possiamo distinguere tre tipi di programmi per la promozione della comprensione del testo:
1. interventi di tipo cognitivo che puntano all'insegnamento di strategie specifiche;
2. trattamenti che integrano l'insegnamento di strategie con la promozione di
conoscenze metacognitive relative al testo e alla lettura;
3. trattamenti che associano a un'istruzione sulle strategie e sulle conoscenze
metacognitive un lavoro sugli aspetti motivazionali e attributivi implicati
nell'apprendimento.
I programmi maggiormente efficaci sono quelli che, accanto ad un trattamento di tipo
strategico promuovono abilità di tipo metacognitivo. Questi programmi consentono
all'alunno di acquisire nuove strategie e riflettere sulla loro utilità, di migliorare le proprie
conoscenze circa gli scopi della lettura e le abilità di controllo durante la lettura. Programmi
di questo tipo sono abbastanza tipici anche nel nostro paese  es. Nuova guida alla
comprensione che promuove le competenze del lettore in 10 aree; oppure ci sono proposte
più specifiche focalizzate su singole componenti, come per il programma «Highlighter» che
propone situazioni informatizzate per lo sviluppo delle capacità di riconoscere l'effettiva
importanza di ogni unità del testo e il programma che aiuta il bambino a monitorare il suo
processo di comprensione e a rendersi conto che non sta comprendendo bene il testo.
I nuovi materiali per il trattamento inclusi nel progetto Nuova guida alla comprensione
sono composti da tre volumi pensati per fasce di età differente. Le aree di trattamento sono
organizzate secondo la tassonomia proposta per le prove criteriali, quindi prevedendo delle
attività specifiche sia su alcune abilità cognitive (es. fare inferenze, individuare personaggi,
luoghi e tempi in una storia) sia su aspetti metacognitivi legati alla comprensione (es.
conoscenza e utilizzo flessibile di strategie di comprensione). In entrambi i tipi di attività, lo
studente è spinto a riflettere e a esercitarsi sulle operazioni da svolgere per portare a termine
il compito.
Un'altra proposta utile per il potenziamento della comprensione del testo è il programma
metacognitivo Lettura e metacognizione di De Beni e Pazzaglia. Le attività proposte hanno
lo scopo di promuovere le abilità metacognitive nelle loro componenti di consapevolezza e
di controllo, con lo scopo di ottenere un atteggiamento attivo e consapevole nei confronti
della lettura, che abbia delle ripercussioni anche sul livello di comprensione. Il programma
è diviso in tre parti:
- nella prima parte l'obiettivo è quello di promuovere delle conoscenze circa gli scopi
della lettura e l'esistenza di diverse strategie di lettura;
- nella seconda parte. attraverso l'introduzione di tre strategie esemplificative (la
scorsa rapida, la lettura selettiva e la lettura analitica), il ragazzo è indirizzato verso
un uso consapevole e flessibile delle strategie in base allo scopo che deve
raggiungere;
- nella terza parte il lettore viene guidato alla scoperta degli indizi del testo (genere
letterario, titolo caratteristiche grafiche) che possono aiutarlo ad affrontare con
efficacia la comprensione del testo.
Il programma si compone di una scheda criteriale, che indaga le conoscenze del ragazzo
sulle tre aree affrontate dal programma, e di 43 schede di trattamento graduate in difficoltà.

105
Le sperimentazioni condotte sul programma hanno mostrato degli effetti positivi non solo
sullo sviluppo di conoscenze metacognitive generali, ma anche sulla comprensione del testo
misurata con prove oggettive e standardizzate.

CAPITOLO 7: “DISTURBI NELLA SOLUZIONE DI PROBLEMI”


DSM-5 (APA, 2013)
1. Difficoltà matematiche e disturbi di
soluzione di problemi
La complessità del campo delle capacità
matematiche rende particolarmente
articolato e intricato lo studio delle disabilità
d'apprendimento ad esso associate.
Teoricamente una disabilità
nell'apprendimento matematico può derivare da un deficit nell'abilità di
rappresentare o elaborare l'informazione da utilizzare in una o in tutte le varie aree della
matematica (per esempio, comprensione numerica, calcolo e aritmetica elementare,
ragionamento e soluzione dei problemi, algebra, geometria). Tuttavia, la ricerca sui disturbi
specifici di apprendimento (DSA) si è particolarmente concentrata sullo studio della
cognizione numerica e dei processi di conteggio e calcolo, mentre ha svolto analisi ancora
limitate delle altre aree dell'apprendimento in individui con disabilità matematiche. Solo
recentemente l'interesse dei ricercatori si è indirizzato all'esame delle abilità cognitive e
metacognitive sottese alla soluzione dei problemi in bambini e adulti con disabilità
d'apprendimento matematico comparati con individui con abilità nella norma. Non è però
ancora chiaro se è possibile parlare di un disturbo specifico nell'area della soluzione dei
problemi, ossia se si possa configurare in questo ambito un ben preciso disturbo e sia
possibile individuare una dissociazione fra abilità di calcolo e abilità risolutive. Nei manuali
diagnostici, accanto ai disturbi della lettura, dell'espressione scritta e al disturbo
dell'apprendimento, è compreso ancora solo quello di calcolo. Nel manuale DSM-IV la
caratteristica principale del disturbo di calcolo viene tuttavia definita come: «una capacità di
calcolo che si situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all'età cronologica
del soggetto, alla valutazione psicometrica dell'intelligenza e a un'istruzione adeguata
all'età». Quindi per quanto venga posto l'accento sui processi di calcolo, quando si parla
della valutazione tramite test standardizzati si prevede l'analisi del «ragionamento
matematico». Sembra così emergere l'idea che le difficoltà nel ragionamento matematico
e nella soluzione dei problemi siano comprese nel più generale disturbo di calcolo. Nelle
linee guida per la diagnosi di discalculia per le DSA della società italiana di neuropsichiatria
dell'infanzia e dell'adolescenza, è compresa l'efficienza nel problem-solving matematico che
non concorre alla diagnosi di discalculia evolutiva, anche se appare correlata al livello delle
capacità cognitive. Anche la Consensus conference non ha dato spazio specifico ai disturbi
nella soluzione di problemi matematici. Varie ricerche hanno però messo in luce come le
difficoltà nella soluzione di complessi problemi aritmetici siano frequenti e comuni sia nella
discalculia acquisita sia in quella evolutiva. È inoltre nell'osservazione quotidiana degli
insegnanti il riscontro di bambini che, pur non avendo problemi particolarmente accentuati
nel calcolo, presentano difficoltà matematiche di vario tipo, e non riescono a risolvere i
problemi proposti. È dunque chiaro che il limitare l'analisi alle difficoltà nella conoscenza
numerica e nel calcolo è riduttivo, come pure trascurare l'incidenza e analisi di possibili
disturbi nella soluzione dei problemi. Le osservazioni in campo clinico ed educativo

106
sostengono quindi la necessità di approfondire più dettagliatamente la definizione del
cosiddetto «disturbo del calcolo» e la possibilità di individuare l'esistenza di tipologie
diverse di individui con difficoltà specifiche nell'area matematica, con conseguenti diversi
profili cognitivi e neuropsicologici. Ad esempio, andrebbe valutata l'incidenza di possibili
tipologie quali «buoni calcolatori/cattivi solutori di problemi» e «cattivi calcolatori/cattivi
solutori di problemi», accanto a una meno probabile categoria di «cattivi calcolatori/buoni
solutori». In letteratura vengono riportati numerosi casi di calcolatori prodigiosi, con una
grandissima passione per il calcolo: sanno compiere a mente calcoli complessi quali
calcolare radici quadrate o individuare i fattori primi di un determinato numero in brevissimo
tempo, e altrettanto rapidamente sanno calcolare date e giorni di calendari passati e futuri.
Tale capacità di calcolo prodigiosa può però dimostrarsi l'unica capacità veramente
sviluppata, a fronte di una capacità di ragionamento matematico molto debole. Non è raro
trovare queste sorprendenti abilità di calcolo in individui con livello d'intelligenza
decisamente carente, con gravi incompetenze cognitive e sociali o con patologie quali
l'autismo. Ciò che caratterizza questi individui è l'enorme passione e il forte e ossessivo
interesse per i numeri e il calcolo, che sembra essere uno dei fattori decisivi per determinare
la loro straordinaria capacità, spesso associata a un'ottima memoria. Tali esempi
testimoniano la dissociazione fra competenze quali il ragionamento matematico (e la
soluzione dei problemi) e le competenze relative al calcolo. Tuttavia molta strada rimane
ancora da percorrere per individuare tipologie specifiche sottostanti alle disabilità nell'area
matematica.
A confronto delle ricerche sinora svolte nel campo dell'aritmetica elementare e del calcolo,
quelle, seppur rilevanti, condotte sulla soluzione dei problemi in bambini o adulti con
specifiche disabilità aritmetiche sono ancora poco numerose, e ancor più esiguo è il numero
di studi condotti in relazione ad altri domini della matematica.

2. Tipologie di difficoltà associate col disturbo del «problem-solving»


Già dopo le prime classi elementari, appare ben più importante che il bambino padroneggi
abilità complesse, piuttosto che il semplice calcolo, inoltre, esistono molte fisionomie
possibili di difficoltà nelle abilità complesse del ragionamento matematico e della soluzione
dei problemi. Ricordiamo che le difficoltà nella soluzione di problemi trovano una specifica
differenziazione lungo il percorso scolastico dello studente, in corrispondenza con il variare
dei programmi e delle richieste didattiche. A livello di scuole elementari compariranno
soprattutto difficoltà nel problem-solving aritmetico, in associazione più o meno forte con
problemi di calcolo e con l'intuizione del significato delle operazioni e di alcuni concetti. Ad
esempio, certi bambini cominciano a mostrare difficoltà a capire le nozioni tipiche dei primi
problemi, quali il costo unitario, il costo complessivo, il resto, la differenza, ecc. In seguito,
l'introduzione dei concetti geometrici rende più variegata la richiesta cognitiva al bambino,
includendo la visualizzazione di rapporti spaziali elementari, la comprensione e
memorizzazione di regole geometriche, e l'uso di calcoli appropriati.

107
L'insegnamento di algoritmi di base per la soluzione di problemi tipici viene quindi ad
associarsi con la richiesta di flessibilità e intuizione per la soluzione di problemi che
introducono elementi di novità. Successivamente, diviene più impegnativo l'insegnamento
dell'aritmetica e geometria, con l'introduzione di concetti e processi complessi (frazioni,
proporzioni, numeri decimali, figure geometriche meno familiari o risultato di rotazioni, ecc.)
e la proposta di problemi rispecchia questo percorso. L'aggiunta di elementi di logica e
statistica potrà ulteriormente mettere in difficoltà lo studente. I primi lavori significativi e
sistematici riguardanti l'analisi dei processi di soluzione degli esseri umani sono stati
compiuti da psicologi il cui ambito di ricerca può essere ricondotto alla teoria della Gestalt.
Gli psicologi della Gestalt si sono concentrati sullo studio di situazioni problematiche in cui,
per poter raggiungere il successo, è cruciale ristrutturare l'interpretazione degli elementi a
disposizione (si è parlato a questo proposito di problemi insight). Esempio classico del
«problema delle candele»  costituisce una dimostrazione del fenomeno di fissità
funzionale. In tale problema la richiesta consiste nell'assicurare una candela ad una porta
di legno, per poterla poi utilizzare in un esperimento sulla visione. Sul tavolo nella stanza
sono messi a disposizione: una scatola di puntine da disegno, dei fiammiferi e una candela.
I soggetti dimostrano notevoli difficoltà nel trovare la soluzione, specie nel caso in cui la
scatola è piena di puntine, proprio perché tale percezione consolida l'idea di una scatola
come contenitore. Molti tentano di far sciogliere la cera della candela utilizzando la cera
sciolta come base per fissare la candela. La soluzione al problema consiste invece
nell'usare la scatola di puntine come supporto per la candela, fissandola alla porta con
alcune puntine.
Il «problema delle due corde» è un ancor più tipico esempio di un problema insight: in
questo caso, il solutore deve annodare due corde che pendono dal soffitto e distano l'una
dall'altra per una lunghezza maggiore di quella delle due braccia tese. Per raggiungere il
successo è necessaria un'idea creativa (quella di far dondolare una corda e prendere in
mano l'altra) e la soluzione può essere trovata solo dopo aver operato un cambiamento di
prospettiva nel considerare gli elementi disponibili (pensando alle corde in movimento,
piuttosto che alla loro visibile posizione statica). I problemi insight stimolano particolarmente
un pensiero di tipo «produttivo», che porta ad un'idea nuova, originale, mai sorta prima,
piuttosto che un pensiero meramente «riproduttivo», limitato cioè all'impiego di strategie già
apprese nel passato. Wertheimer sottolinea l'importanza di stimolare un pensiero
«produttivo» e non solamente conoscenze di tipo «riproduttivo». Alcuni comportamenti dei
docenti indeboliscono le capacità spontanee e creative degli alunni, enfatizzando le difficoltà
di bambini che incontrano potenziali problemi nella soluzione di problemi nuovi e inconsueti.
Quindi risulta fondamentale ridurre la ripetizione meccanica di procedure già apprese e
limitare la presentazione di soluzioni già pronte.

108
Vi sono stati vari tentativi di classificare i problemi e vedere quali implicano maggiori
difficoltà per i cattivi solutori o se a ciascuna tipologia ricondotte difficoltà specifiche. Per
esempio Fuchs e Fuchs distinguono fra:
• problemi aritmetici semplici
• problemi complessi
• problemi del mondo reale
È possibile pensare tale suddivisione lungo un continuum.
Al livello di difficoltà più basso sono posti i problemi aritmetici semplici, che presentano
un testo breve e essenziale, con una domanda e con la richiesta di un'unica operazione per
ottenere la soluzione.
A livello intermedio sono posti i problemi aritmetici complessi che hanno un testo più lungo,
ma ancora relativamente breve, che contiene delle domande e dei dettagli non essenziali,
ma nessun dato numerico irrilevante.
Al livello più elevato si situa il problem solving della vita reale che presenta un testo esteso,
con dettagli non essenziali e con elementi numerici irrilevanti, che può richiedere lo stesso
numero di operazioni di un problema complesso. La varietà delle possibili soluzioni, la
quantità e la posizione delle informazioni necessarie per comprendere il problema
contribuiscono ad aumentare la difficoltà che uno studente incontra nel riconoscere un
problema nuovo come appartenente a un problema di tipo familiare, per il quale è noto un
metodo risolutivo.
I risultati di Fuchs e Fuchs hanno dimostrato un deficit nella soluzione di tutti e tre i tipi di
problemi in studenti di scuola elementare con disabilità specifica in aritmetica (ALD) e con
difficoltà anche nella comprensione (ALD+RD).
Carpenter e Moser hanno classificato i problemi aritmetici in base alla struttura semantica:
cambio, associazione, comparazione e uguaglianza.
1) Nei problemi «cambio» vi è una quantità iniziale e un'azione che determina un
aumento o decremento della quantità (per esempio: Mario ha 15 caramelle. Il suo
amico Giovanni gli dà altre 6 caramelle. Quante caramelle ha ora Mario?).
2) I problemi «associazione», comportano una relazione statica fra un particolare
insieme e due distinti sottoinsiemi (per esempio: Ci sono 14 calze in un cassetto, 5
sono nere e il resto sono blu. Quante sono le calze blu?).
3) I problemi «comparazione» comportano una relazione statica in cui c'è una
comparazione fra due distinti sottoinsiemi (per esempio: Marta costruisce una torre
alta 15 cubi, Maria una alta 19 cubi. Quanti cubi in più è alta la torre di Maria?).
4) Nei problemi «uguaglianza» c'è lo stesso tipo d'azione come nei problemi di tipo
«cambio», ma è richiesta la comparazione di due distinti sottoinsiemi (per esempio:
Il mio vestito ha 14 bottoni. Il vestito di mia cugina avrebbe lo stesso numero di bottoni
del mio se avesse 5 bottoni in più. Quanti bottoni ha il vestito di mia cugina?).
Va inoltre considerata la posizione della quantità sconosciuta da trovare, che ha una grande
influenza sulla soluzione. I problemi «non canonici», ossia quelli in cui il termine
sconosciuto è posto all'inizio, sono quelli che si rivelano generalmente più difficili e
comportano particolari problemi specie negli alunni con ALD. Una diversificazione dei
disturbi nella soluzione di problemi potrebbe quindi basarsi sulle tipologie di problemi
tipicamente proposti dalla scuola.
Lesioni a carico del lobo frontale possono essere causa di severi deficit nel funzionamento
cognitivo, fra cui l'abilità a risolvere problemi. Le abilità preservate includerebbero la

109
capacità di eseguire semplici operazioni
aritmetiche e l'abilità di affrontare la
rappresentazione visiva e spaziale dei
numeri. Una spiegazione dell'incapacità di
pazienti con danno frontale a risolvere
correttamente i problemi è che essi colgono
solo un particolare frammento del problema
e iniziano arbitrariamente a eseguire delle
operazioni aritmetiche basandosi sulla
comprensione di tale frammento.
Il sistema attentivo supervisore (SAS),
situato nel lobo frontale, ha le funzioni di programmare, pianificare e operare su un
problema. Il danno a carico del lobo frontale determinerebbe l'incapacità del paziente nel
controllare e formare un piano d'azione. La produzione di un comportamento nuovo e non
abituale e routinario, richiesto nel corso della soluzione, sarebbe quindi fortemente
deficitaria in tali pazienti. Training che riducano l’impulsività e aiutino a sviluppare un piano
d'azione, a decodificare correttamente le singole frasi e il testo complessivo, a capire a quale
categoria appartiene il problema, si sono dimostrati utili in pazienti con lesioni frontali e
posteriori.
Lurija e Tsvctkova hanno distinto fra quattro tipi diversi di disturbo nell'area
matematica che possono essere utili per l'analisi dei disturbi dell'apprendimento.
1) Il primo tipo riguarda i difetti di logica e può essere applicato al mondo dei numeri.
2) Il secondo tipo risiede nel difetto di progettazione dell'azione che si esplicita in
tutte le difficoltà associate alla pianificazione.
3) Il terzo tipo di disturbo riguarda la perseverazione in procedure che non si
dimostrano più appropriate, per cui il bambino, una volta padroneggiata una certa
modalità di soluzione di problemi, la applica indebitamente a problemi che sono
invece differenti. Questa tipologia, frequentemente associata alla nozione di rigidità
cognitiva, ricorda comportamenti tipici di risoluzione legati a forme di ritardo o basso
funzionamento cognitivo, ma è presente anche nei comportamenti difensivi in
condizioni di insicurezza e ansia.
4) Il quarto tipo di disturbo è in associazione con la difficoltà a compiere i calcoli
richiesti dal problema.

3. Abilità cognitive e problemi aritmetici


Una parte cospicua dei problemi scolastici si caratterizza per essere costituita da prove in
cui la situazione problematica viene proposta verbalmente e la soluzione ai quesiti viene
ottenuta tramite una serie di operazioni aritmetiche. Tali tipologie di compiti vengono definite
in letteratura arithmetic word problem (problemi aritmetici di tipo verbale). Non sono
problemi insight, ma possono essere definiti problemi di tipo «routinario», ossia situazioni
simili, già incontrate in precedenza seppure con una diversa formulazione linguistica, che
sottendono un medesimo schema risolutivo. Si ritiene che il processo di soluzione possa
essere suddiviso in un certo numero di stadi e, all'interno di ogni stadio, si possano
distinguere vari processi cognitivi, ognuno caratterizzato da un particolare tipo di
conoscenza, generale e/o specifica, necessaria per pervenire alla soluzione.
Mayer e colleghi hanno individuato alcune categorie di processi cognitivi messi in atto
durante la soluzione di questo tipo di quesiti. Prendiamo ad esempio il testo di un semplice

110
problema: Piero e sua madre vanno in un negozio di generi alimentari. Sua madre compra
4 hg di salame che costa 2,50 € all’etto. Piero è goloso e chiede alla madre di comprare
anche una torta al cioccolato che costa 15,60 €. La madre paga il conto con una banconota
da 50 €: quanto riceve di resto? Secondo il modello di Mayer, il processo di soluzione ha
inizio con la «codifica del problema» che è a sua volta suddivisa nei processi di:
1. traduzione
2. integrazione.
Successivamente vi è il «processo di ricerca» per la soluzione costituito anch'esso da altre
due fasi di elaborazione dell'informazione e precisamente: 3. pianificazione
4. calcolo.
Durante il processo di traduzione, ogni affermazione contenuta nel testo del problema
viene trasformata da parte del solutore in una rappresentazione semantica in memoria. Il
processo di traduzione del testo del problema richiede operazioni diverse:
− una di tipo linguistico, che consiste nel comprendere il significato di ogni espressione
del problema
− una di tipo semantico, per cui il solutore deve inferire le implicazioni di una determinata
espressione.
Durante il processo d'integrazione, il solutore cerca di mettere assieme in una
rappresentazione coerente tutte le varie frasi del testo. Per completare la rappresentazione,
il solutore deve quindi integrare le differenti parti del problema in una struttura unitaria. Si è
osservato come la conoscenza dello schema, o del tipo di problema, sia fondamentale per
connettere l'informazione in un tutto comprensibile. I problemi con alta frequenza, quelli più
usati nei principali libri di testo, sono più facili da rappresentare in memoria rispetto a quelli
con bassa frequenza, probabilmente perché la familiarità aiuta ad integrare meglio le
informazioni. In relazione alle fasi d'integrazione delle informazioni, formazione di un
modello mentale del problema e pianificazione, vari studi sperimentali hanno messo in luce
il ruolo del processo di «categorizzazione», ossia dell'individuazione della categoria
generale alla quale il problema può appartenere. Tale processo permette di riconoscere la
struttura profonda del testo, il suo «schema» matematico. Facciamo un semplice esempio
in cui due problemi descrivono due differenti situazioni:
a) «La nonna di Laura ha 23 nipoti. La nonna di Giorgia ha 4 nipoti in meno della nonna
di Laura. La nonna di Cinzia ha 7 nipoti in più della nonna di Giorgia. Quanti nipoti hanno in
tutto le tre nonne?»;
b) «Marta ha 12 anni. Sua sorella ne ha 9 in meno. Marisa ha invece 8 anni in più della
sorella di Marta. Quanti anni in tutto hanno le tre bambine?».
La struttura superficiale e il dominio semantico dei due problemi sono dissimili, ma essi
hanno identica struttura profonda, ossia richiedono le medesime operazioni aritmetiche per
raggiungere la soluzione. Individuare e utilizzare lo schema del problema è un processo
fondamentale per connettere fra di loro le informazioni e per permettere la selezione di
quelle rilevanti per giungere alla soluzione. Il riconoscimento di un modello familiare nel
testo presentato facilita inoltre gli individui nell'accesso rapido alle procedure risolutive.
Sembra infatti che individui esperti abbiano agevolmente disponibile l'intera struttura del
problema, che permette loro di raggiungere la soluzione in modo più veloce. Una volta
compresa la situazione problema, durante il processo di pianificazione, il solutore deve
ricercare nella sua memoria la strada per la soluzione.

111
Secondo Mayer il processo di pianificazione presuppone una conoscenza strategica che
si riferisce all'abilità di costruire e monitorare il piano di soluzione, riconoscendo quali
operatori applicare e quando è il momento opportuno di utilizzarli.
Per quanto riguarda il successo nella pianificazione, due sono le condizioni necessarie;
• in primo luogo si deve essere in grado di generare dei sotto-obiettivi senza agire
direttamente su di essi
• in secondo luogo la memoria di lavoro deve avere delle risorse sufficienti per poter
mantenere attiva e facilmente disponibile la struttura.
Dopo la rappresentazione del problema in memoria e l'individuazione del piano di soluzione,
ha luogo il processo di calcolo, in cui il solutore identifica quali sono le operazioni da
utilizzare per ottenere i differenti sotto-obiettivi. Per eseguire le operazioni è necessaria la
conoscenza degli algoritmi di calcolo. Secondo Mayer nell'educazione matematica viene
data molta enfasi alla conoscenza degli algoritmi di calcolo, mentre si presta minor
attenzione ad altre forme di conoscenza matematica quali quelle relative allo schema del
problema, alla conoscenza strategica e alle conoscenze di tipo linguistico.
4. Abilità metacognitive
Oltre ai processi mentali precedentemente descritti,
alcuni ricercatori hanno considerato la possibilità che
abilità di tipo metacognitivo possano influenzare la
prestazione. Si è infatti osservato che i buoni solutori
possiedono un livello più alto di capacità
metacognitive che permette loro di analizzare in
modo migliore la struttura del compito, di scegliere in
modo flessibile le strategie più adatte e di utilizzare in
modo maggiormente produttivo le risorse cognitive. In
particolare Brown ha descritto alcuni processi
metacognitivi di controllo implicati nella soluzione di un problema  capacità di:
1. prevedere se si è in grado di risolverlo (previsione);
2. predisporre un progetto di soluzione (pianificazione); 3. tenere
sotto controllo il processo risolutivo (monitoraggio);
4. valutare il risultato conseguito (valutazione).
Prima di procedere va ricordato che la metacognizione include le riflessioni sulla mente e il
controllo che la mente esercita su se stessa. In questo secondo aspetto sono inclusi
processi esecutivi che vengono inclusi nell'ambito cognitivo o metacognitivo. Si può
ipotizzare che individui abili nella risoluzione di problemi presentino buone abilità cognitive
relative alla comprensione del testo, e anche una buona abilità di categorizzazione, che
permette di individuare la categoria alla qua e il problema può appartenere. Individui non
abili, oltre a essere carenti in queste abilità, potrebbero essere scarsamente capaci di
sviluppare processi sovraordinati che permettono un controllo consapevole delle procedure
 il miglior predittore del successo nella risoluzione dei problemi è costituito dalla
conoscenza dello schema del problema, seguito dall'abilità di comprensione del testo.
Ovviamente la conoscenza dello schema è maggiormente applicabile a problemi di tipo
routinario, quali possono essere considerati quelli di tipo scolastico, mentre nei problemi in
cui è più rilevante la richiesta di pensiero ipotetico deduttivo e nei problemi meno scontati,
si riscontra in modo più significativo l'influenza delle abilità di pianificazione. Si è inoltre
evidenziato un rapporto fra l'abilità di risoluzione dei problemi, la capacità di

112
categorizzazione, l'applicazione della conoscenza per schemi, e la «conoscenza»
metacognitiva.

5. Memoria di lavoro, processi esecutivi e soluzione dei problemi


La soluzione di un problema matematico implica la necessità di una conoscenza concettuale
relativa al significato delle operazioni aritmetiche e di una conoscenza delle procedure
necessarie per eseguirle, ma queste abilità da sole non sono sufficienti per sviluppare
un'elevata abilità nella soluzione. Prima abbiamo preso in esame, l'influenza di specifiche
componenti cognitive e metacognitive sulla capacità di soluzione dei problemi. Accanto a
tali abilità è ragionevole chiedersi quale possa essere l'influenza dei processi esecutivi e
della memoria di lavoro. Studi recenti confermano l'importanza di usare prove di funzioni
esecutive, quali la Torre di Londra e il Wisconsin Card Sorting Task, per l'esame di individui
con difficoltà di soluzione di problemi. In questi test, sembra essere messa in gioco una
capacità risolutoria dove il bambino deve trovare le domande più idonee per riuscire a
capire quale è l'item scelto dall'esaminatore. Prendendo in esame un problema matematico
di tipo verbale possiamo supporre una rilevante influenza della memoria di lavoro persino
quando il testo scritto del problema è disponibile e non è necessario ricordare a mente i dati
della situazione. La comprensione del problema richiede infatti che le informazioni in
ingresso siano integrate con le informazioni precedenti e il sistema della memoria di lavoro
è coinvolto anche nello sviluppo della rappresentazione mentale della situazione
problematica.
Se facciamo riferimento al modello multicomponenziale della memoria di lavoro
proposto da Baddeley, che individua una componente sovraordinata, l'esecutivo centrale,
che controlla e coordina l'attività e il flusso di informazioni elaborate da due sottosistemi (il
loop articolatorio e il taccuino visuospaziale), è intuitivo pensare che tutte e tre queste
componenti siano importanti nella soluzione di problemi, per il controllo richiesto durante la
pianificazione e lo svolgimento (sistema esecutivo centrale), per il mantenimento di
informazioni implicate nella formulazione verbale del problema, nei calcoli (loop
articolatorio), per il mantenimento e la gestione di visualizzazioni implicate dai dati del
problema (taccuino visuospaziale).
Prendendo come riferimento teorico le ricerche che hanno indagato la relazione fra
memoria di lavoro e comprensione del testo, ricordiamo che vari ricercatori suppongono
che a influenzare la comprensione non sia la capacità della memoria di lavoro ma il modo
in cui vengono trattate le informazioni e la capacità a inibire le informazioni irrilevanti.
Per verificare una simile ipotesi nel caso di problemi matematici alcuni autori hanno messo
a confronto un gruppo di ragazzini solutori non abili, ma con buone abilità intellettive, con
quelle di buoni solutori. I risultati hanno evidenziato che in compiti di memoria di lavoro i
solutori non abili hanno un minor ricordo delle informazioni rilevanti e contemporaneamente
un ricordo più elevato delle informazioni irrilevanti. Ciò può comportare un sovraccarico delle
informazioni contenute in memoria e un uso inefficiente delle risorse disponibili. Sembra
quindi che le difficoltà siano legate a un deficit legato al modo in cui si elabora e controlla
l'informazione. Un aspetto interessante è che la stessa tipologia di ricordo si è osservata
anche quando il gruppo di alunni non abili deve ricordare il testo di un problema aritmetico:
anche in questo compito essi hanno ricordato un minor numero di informazioni rilevanti e
un maggior numero di informazioni irrilevanti. Questo risultato non era dovuto però a una
mancata comprensione di quali siano le informazioni più rilevanti, dal momento che, in un

113
compito che richiedeva di sottolineare gli elementi essenziali per la soluzione dei problemi,
i cattivi solutori non avevano presentato particolare difficoltà.
Un ricordo carente o distorto del problema può avere così un effetto negativo sulla sua
rappresentazione mentale e conseguentemente può influire sulla correttezza della
soluzione. Si è infatti osservato che i problemi risolti in modo più corretto sono quelli di cui
si è avuto un ricordo migliore. L'effetto delle informazioni irrilevanti è particolarmente
cospicuo quando esse sono numerose  l'alto numero d'informazioni irrilevanti ricordate
(errori d'intrusioni) indica che i solutori non abili tendono a mantenere attiva in memoria
informazione che inizialmente è necessario elaborare, ma che poi deve essere scartata e
soppressa. In generale i cattivi solutori presentano maggiori difficoltà nei compiti di memoria
ad alto controllo, quasi nessuna nei compiti a basso controllo, una difficoltà maggiore se è
richiesta l'elaborazione mnestica di informazioni numeriche. In particolare alcuni autori
hanno osservato una diversa influenza per quanto riguarda il ruolo delle informazioni
irrilevanti (numeriche vs. verbali) presenti nel testo di un problema.
- bambini con DDAI evidenziano un deficit nei processi inibitori maggiormente evidente
con le informazioni irrilevanti verbali
- mentre i bambini con specifiche difficoltà aritmetiche presentano difficoltà più
marcate nell'elaborare e inibire informazioni irrilevanti di tipo numerico.
In alcuni lavori si sono prese in esame la
relazione fra abilità di aggiornare i
contenuti di memoria di lavoro e capacità
risolutiva  l'attività di aggiornamento è
un'attività complessa che richiede di
attribuire differenti livelli di attivazione alle
diverse unità di informazione che via via
vengono presentate, per poter mantenere
attivo solo un ristretto numero di elementi.
Una tipica misura dell'abilità di updating
(aggiornamento) è il test di Morris e
Jones che richiede di sentire liste contenenti un numero variabile di lettere, ma di ricordare
solo le ultime 4 lettere di ciascuna lista presentata. Considerato che il numero
di lettere incluse nella lista non è noto, chi deve eseguire la prova è forzato ad aggiornare
continuamente le informazioni in ingresso, per poter ricordare solo le 4 lettere finali.
Successivamente, alcuni studiosi hanno sviluppato una prova volta a misurare i processi
di updating, basando il criterio per la memorizzazione delle parole non sulla posizione
seriale (le ultime quattro della serie, come nella prova di Morris e Jones) ma sul valore
semantico delle parole da ricordare. In particolare la prova, data una lista con numero
costante di 12 item, richiede di ricordare solo i 3 oggetti piu piccoli della lista (chiave, pila,
fazzoletto). Anche un compito cognitivo più complesso, come la soluzione di un problema,
richiede buone abilità di aggiornamento. Infatti, durante la comprensione e la soluzione di
un problema la rappresentazione della situazione è arricchita non appena una nuova
informazione è elaborata ed è possibile che una nuova informazione porta a riconsiderare
le informazioni precedenti ed eventualmente a scartarla. Vi è quindi una fine modulazione
del meccanismo di attivazione e inibizione delle informazioni, che determina la costruzione
del modello mentale del problema. L'abilità di selezionare e aggiornare le informazioni è
connessa all'abilità di soluzione dei problemi.

114
6. Abilità cognitive che si dimostrano precursori precoci dell’abilità matematica e della
soluzione dei problemi
Prendendo in esame gli studi disponibili in letteratura è possibile identificare una serie di
abilità cognitive che potrebbero essere alla base dell'apprendimento matematico all'inizio
della scolarità  è stata ipotizzata l'influenza della memoria di lavoro, delle abilità
fonologiche e della competenza numerica.
Per quanto riguarda la memoria di lavoro sono ancora all'esordio le ricerche che hanno
analizzato l'abilità di memoria di lavoro quale precursore delle precoci abilità matematiche.
Per quanto riguarda l'influenza delle abilità fonologiche, vari studi hanno messo in luce la
sua influenza causale sull’abilità di lettura, ma solo pochi studi hanno esaminato la relazione
esistente fra il livello delle abilità fonologiche e la prestazione in compiti aritmetici.
Per verificare l'influenza delle abilità di base, in un'indagine italiana le abilità di base sono
state misurate all'inizio del primo anno della scuola elementare, tramite una serie di test
cognitivi, in un campione di 170 bambini. Il livello d'apprendimento matematico di tali
bambini è stato successivamente valutato, al termine dell'anno scolastico, con un test di
profitto, che include diverse aree quali la logica, l'aritmetica, e la geometria. Il modello finale
ha dimostrato che la memoria di lavoro ha un ruolo causale sull'apprendimento
matematico già all'inizio della scolarità  compiti ad alto controllo, che richiedono una
manipolazione dell'informazione da ricordare e che coinvolgono maggiormente la
componente dell'esecutivo centrale, sono quelli che risultano avere un ruolo particolarmente
significativo. I compiti a basso controllo non dimostrano invece una relazione
particolarmente significativa.
Nel modello le abilità fonologiche non risultano avere influenza diretta, mentre le abilità di
conteggio verbale risultano essere un predittore significativo. Va qui sottolineato che il
compito di conteggio verbale utilizzato (il bambino deve ripetere per tre volte, velocemente
e accuratamente, la sequenza dei numeri da 1 a 20) implica sia la conoscenza della
sequenza dei numeri sia la velocità d'articolazione, e quindi attiva implicitamente il ruolo del
loop fonologico. Sono quindi le abilità fonologiche specificatamente relate all'elaborazione
numerica quelle che si dimostrano predittori più potenti dell'iniziale apprendimento
matematico.
Al contrario le abilità di comprensione e produzione numerica (leggere e scrivere semplici
numeri) non hanno dimostrato un ruolo causale, ma questo può essere dovuto al fatto che
nel campione le differenze individuali in tali compiti sono risultate essere particolarmente
limitate.

7. Fattori emotivo-motivazionali: l'ansia e la matematica


Nell'ambito degli studi sui processi di apprendimento della matematica, va ricordata
l'influenza delle componenti emotivo-motivazionali, e del generale atteggiamento
dell’individuo e nei confronti della disciplina e dei risultati. Questi aspetti incidono in misura
maggiore sulle attività cognitive che richiedono un buon controllo mentale e quindi possono
influenzare in maniera particolare la soluzione di problemi. Fin dall'inizio della vita
scolastica, percepire se stessi come capaci di comprendere e controllare le esperienze
nell'area matematica risulta una forza trainante dell’apprendimento. Oltre alla percezione
della propria capacità, è importante la concezione della matematica come disciplina
scolastica e il concetto di sé in relazione a questa materia e al suo apprendimento. I bambini
(e soprattutto le bambine) che hanno conseguito insuccessi sviluppano un senso di scarsa
competenza, che contribuisce a renderli ansiosi e diminuisce la loro motivazione a cercare

115
di raggiungere la padronanza della materia. Richardson e Suinn definiscono la relazione fra
ansia e matematica come «un sentimento di tensione, apprensione, paura che interferisce
con la manipolazione dei numeri e la soluzione dei problemi matematici in una vasta varietà
di situazioni quotidiane e accademiche».
L'ansia della matematica ha diverse manifestazioni, che variano da individuo a individuo.
Queste vanno da sintomi fisiologici, quali sudorazione e tremore alle mani, nausea,
palpitazioni cardiache e risate nervose, a esperienze di blocco del pensiero e reazioni
emotive difensive, sino a reazioni meno marcate associate a una moderata agitazione
relativa al compito o all'esame. L'insorgenza di ansia per la matematica è talora precoce:
fenomeni ansiosi possono essere già presenti all'inizio della scolarità e perdurare o
ripresentarsi a livello di istruzione superiore e universitaria. La matematica non è certo
l'unica disciplina a indurre tali sentimenti, ma è quella che li suscita con maggiore frequenza.
Quali sono le ragioni di questo fenomeno? Le ragioni sono molteplici.
Un fattore può essere individuato nello stile di insegnamento di alcuni docenti che
pretendono un alto livello di correttezza e competenza senza però dare un adeguato
sostegno in termini di spiegazioni, utilizzo di strategie utili e rinforzo motivazionale.
Un altro fattore può essere individuato nella natura stessa della disciplina. In matematica
l'errore è in genere evidente e riconosciuto unanimemente. Ciò rende gli individui
particolarmente vulnerabili alla manifestazione pubblica della loro incompetenza. Inoltre
alcuni bambini considerano la competenza matematica come espressione del livello
intellettivo, percependo una minaccia per il proprio livello di autostima in caso di difficoltà.
Inoltre l’ansia della matematica comporta delle forti conseguenze per la vita degli individui
in quanto è un fattore che limita le loro scelte formative e i loro percorsi personali. Essi
tendono a scegliere percorsi formativi relativi a discipline umanistiche. Gli studenti con
l'ansia della matematica, evitando le discipline matematiche, di conseguenza, si precludono
importanti sbocchi lavorativi e di carriera professionale. È possibile una misura attendibile
dell'ansia per la matematica? Nel corso degli anni sono stati costruiti numerosi strumenti
che in vari studi hanno dimostrato buona validità e attendibilità. Tra questi si possono citare:
l
- Numerical Anxiety Scale
- Fennema-Sherman Mathematics Anxiety Scale
- Mathematic Anxiety Rating Scale (MARS)
Quello che ha riscosso maggior successo è la Mathematic Anxiety Rating Scale (MARS).
Tale scala fu realizzata per fornire una misura unidimensionale dell'ansia provata dagli
studenti in associazione con la manipolazione dei numeri e con l'utilizzo dei concetti
matematici. Esistono varie versioni della scala. La scala originale è costituita da 98 item che
descrivono situazioni della vita quotidiana e accademica che coinvolgono la matematica e
possono stimolare l'ansia della matematica.
Sono state costruite anche delle versioni abbreviate della Mathematic Anxiety Rating Scale
(MARS), tra cui quella a 24 item e una a 25 item. Inoltre, per diffonderne l'applicabilità tra i
gruppi d'età, la Mathematic Anxiety Rating Scale (MARS) è stata rivisitata e sono state
costruite la MARS-A per gli adolescenti, e la MARS-E per i bambini delle scuole elementari.
Nella scala di valutazione sMARS (versione ridotta della scala MARS) sono stati identificati
due fattori distinti:
- ansia da apprendimento matematico - ansia da valutazione matematica.

116
Gli item del primo fattore sono relativi ad attività quali «iniziare una lezione di matematica»,
«osservare un professore che lavora alla lavagna su un'equazione algebrica» e «usare le
tabelle in fondo al libro di matematica». Questo fattore appare di notevole interesse perché
mette in luce come l'ansia per la matematica non coinvolga solo il momento della
valutazione e il timore di un in insuccesso, ma possa configurarsi come un complessivo
atteggiamento negativo nei confronti dell'intera disciplina.
Gli item relativi al secondo fattore riguardano la valutazione dell'apprendimento come «fare
una prova scritta di matematica», «dover partecipare alle olimpiadi di matematica» e
«pensare al compito scritto di matematica che avrà luogo il giorno successivo». Tale
fattore misura l'ansia nel contesto in cui si è valutati in matematica.
Nell'adattamento italiano di Saccani e di Cornoldi per la scuola media, a questi fattori ne è
stato aggiunto un terzo di controllo, che indaga, l'ansia nelle altre materie scolastiche
(storia, geografia, letteratura, ecc.). Grazie all'introduzione di questa terza dimensione si è
potuto vedere come l'ansia per la matematica risulti specifica, dal momento che la scala di
controllo risulta avere correlazioni meno elevate con il livello di apprendimento matematico,
rispetto alle altre due subscale.
Quali effetti può avere l'ansia sulla prestazione? Nella letteratura il legame tra ansia e
competenza matematica è ben documentato, ma è difficile individuare la direzione della
reciproca influenza, essendo ad esempio l'ansia potenzialmente indotta da un'oggettiva
difficoltà. Le basse prestazioni nei compiti matematici sembrano trovare una spiegazione
nella scarsa competenza matematica dei soggetti ansios, che deriva a sua volta anche dalla
loro pervasiva tendenza a evitare la matematica e tutto ciò che ad essa è collegato. Tuttavia
va sottolineato come i trattamenti per l'ansia matematica conducano a un significativo
miglioramento della prestazione portando i soggetti ansiosi quasi al livello mostrato da quelli
non ansiosi. Tale miglioramento non è dovuto a un incremento della competenza dato che
i trattamenti in questione non prevedono il fare esercizio o l'insegnamento della matematica.
Per quanto concerne il rapporto dell'ansia con le abilità di calcolo, Saccani e Cornoldi hanno
trovato nelle classi prime medie esaminate con le prove AC-MT che le correlazioni
maggiormente significative emergono nella prova individuale (calcolo a mente, calcolo
scritto e velocità) dove probabilmente il bambino si sente meno protetto rispetto al contesto
della prova collettiva svolta insieme alla classe. Ashcraft e Kirk, esaminando le prestazioni
di individui ad alto e basso livello da ansia matematica, osservano che i due gruppi non
differiscono nell'esecuzione di operazioni elementari (6 + 3, 4 X 7). Sembra così che il livello
di ansia non sia influente sulla velocità e accuratezza nello svolgere operazioni semplici e
almeno in parte automatizzate. Al contrario, quando i compiti divengono più complessi e
richiedono il mantenimento temporaneo in memoria dei risultati parziali (28 + 76), la
prestazione degli studenti ansiosi diviene deficitaria: essi compiono un maggior numero di
errori e il tempo impiegato è all'incirca tre volte superiore rispetto a quello dei soggetti non
ansiosi. Ashcraft ha proposto una spiegazione che chiama in causa il ruolo centrale della
memoria di lavoro, e più precisamente l'influenza dell'ansia matematica sulla memoria di
lavoro. L'ansia generalizzata ha effetti distruttivi su ogni tipo di prestazione cognitiva
producendo preoccupazione e pensieri negativi, che l'individuo non riesce a controllare,
disperdendo così energie e risorse mnestiche non più disponibili per svolgere il compito
richiesto. Gli studenti ansiosi sembrerebbero non essere in grado di liberarsi di pensieri
intrusivi e quindi potrebbero essere incapaci di ignorare informazioni irrilevanti, che è
necessario ignorare, dimostrando un meccanismo inibitorio deficitario.

117
8. Strumenti usati per la valutazione dell'abilità di soluzione di problemi
La varietà di problemi che lo studente deve affrontare e la loro complessità hanno
scoraggiato la predisposizione di prove standardizzate capaci di fornire una stima oggettiva
dell'apprendimento matematico di soluzione di problemi. L'unica prova specifica disponibile
in Italia è l'SPM che però ha un limitato numero di item e si caratterizza come strumento
diagnostico esplorativo. Al contrario, alcune batterie includono prove relative alla soluzione
di problemi. Il test delle abilità di soluzione dei problemi matematici (SPM) di Lucangeli,
Tressoldi e Cendron è utile per l'analisi delle difficoltà nella soluzione di problemi matematici
presentati in forma verbale. Tale strumento è basato su un preciso modello teorico che
considera cinque componenti fondamentali.
La batteria di valutazione prevede quattro
problemi per ogni classe, dalla terza classe
della scuola primaria alla terza classe della
scuola secondaria di primo grado, da
somministrare in uscita per la rispettiva
classe di appartenenza o in entrata alla
classe successiva. Ogni problema è
suddiviso nelle cinque componenti che si
sono dimostrate in grado di spiegare la maggior parte della varianza totale relativa
all'abilità di soluzione dei problemi matematici:
1. comprensione delle informazioni presenti nel problema e delle loro relazioni;
2. rappresentazione delle informazioni mediante uno schema in grado di
strutturarle e integrarle;
3. categorizzazione del problema in base alla struttura profonda;
4. pianificazione del proprio percorso di esecuzione della soluzione; 5.
valutazione della correttezza della procedura.
La prova può essere proposta individualmente o collettivamente. L'alunno deve leggere
attentamente il problema, successivamente per ciascuna delle componenti deve individuare
la risposta corretta fra le scelte disponibili e solo dopo l’esecuzione di questi passaggi deve
produrre la soluzione. Al termine di queste fasi viene richiesta un'autovalutazione dello
svolgimento del problema.
Fra le batterie che includono prove relative alla soluzione di problemi ricordiamo:
− la prova di soluzione di problemi della batteria AC-MT 11-13 che può essere
somministrata collettivamente alla classe ed è costituita, per ogni fascia scolastica,
da una lista di 10 problemi aritmetici. Il tempo previsto per la sua somministrazione
è di circa 30 minuti.
− Anche nella batteria II test di matematica per la scuola dell'obbligo son inclusi
alcuni problemi nel subtest «aritmetica». Tale strumento è un test di profitto relativo
a una valutazione sommativa delle abilità acquisite al termine di un anno scolastico.
Può essere anche usato come prova d'ingresso, se viene proposto all'inizio dell'anno
utilizzando la prova del livello inferiore. È composto da tre subtest, riguardanti
rispettivamente la logica, aritmetica e geometria per studenti delle scuole elementari
e medie inferiori.
− Fra le batterie che includono prove relative alla soluzione di problemi ricordiamo
ancora il test WOND (Wechsler Objective Numerical Dimension), che ha lo scopo di

118
misurare il progresso dei bambini dai 6 ai 16 anni nell'acquisizione delle abilità
matematiche fondamentali.
Il test è composto da due parti, la prima sul ragionamento matematico, la seconda
sull'esecuzione di operazioni.
− La scala WISC prevede, fra i subtest verbali, quello relativo all'aritmetica, che include
una serie di problemi.

9. Possibilità d'intervento e training per sviluppare le abilità di soluzione dei


problemi La sperimentazione di training riguardanti lo sviluppo dei processi cognitivi implicati
nella risoluzione di problemi aritmetici occupa uno spazio ancora limitato e alterna
metodologie di istruzione diretta e approcci metacognitivi. Jitendra e Xin hanno descritto
quattordici utili training accomunati dall'ottica «delle istruzioni» e volti a sviluppare il
processo risolutivo degli alunni in difficoltà. Tale approccio comprende delle «istruzioni
strategiche» focalizzate su un piano d'azione e una serie di regole esplicite e specifiche utili
per prendere decisioni durante la risoluzione di un problema. Jitendra e altri hanno
sviluppato e sperimentato una procedura denominata “schema-based strategy
instruction” per insegnare ad alunni della scuola primaria a risolvere i problemi attraverso
quattro fasi (di cui ognuna comprende una check-list di autocontrollo), e precisamente:
a) individuare la tipologia del problema
b) organizzare le informazioni mediante un diagramma
c) pianificare la soluzione
d) utilizzare gli algoritmi di calcolo per giungere alla soluzione.
Momento cruciale e fondamentale di questa procedura è l'uso di schemi e diagrammi per
individuare e organizzare le informazioni. Per evidenziare le relazioni semantiche presenti
nel testo e per rendere maggiormente disponibili le risorse mentali necessarie per l'analisi
del testo e la ricerca della soluzione. Montague ha posto la sua attenzione sulle procedure
euristiche che conducono alla risoluzione di un problema aritmetico. Esse possono essere
individuate nella parafrasi, nella visualizzazione del testo, nel riconoscimento della struttura
sottostante il problema, rappresentata mediante schemi o diagrammi che facilitano il
collegamento fra dati e operazioni, nell'individuazione di ipotesi inerenti il percorso risolutivo
e infine nella valutazione dell'intero processo risolutivo. Tale metodologia prevede quindi un
lavoro metacognitivo di supporto, attuato attraverso l'autoistruzione, l'autoregolazione e
l'autocontrollo. Dal momento che un problema dei cattivi solutori è legato al modo in cui essi
trattano le informazioni, e non tanto al numero di informazioni che sono in grado di
mantenere in memoria, è utile sviluppare percorsi didattici che suscitino la riflessione
cognitiva e l'uso di strategie volte a migliorare il ricordo delle informazioni pertinenti al
compito (ad esempio un utile supporto tecnologico può essere costituito dal computer,
utilizzato come strumento per potenziare tali strategie).
Il training che qui di seguito presentiamo (risolvere problemi aritmetici) promuove lo sviluppo
e il potenziamento non solo delle componenti cognitive implicate nella risoluzione di un
problema aritmetico, ma anche delle abilità mnestiche impiegate in ogni processo
cognitivo complesso. Lo strumento propone attività concernenti sia le componenti cognitive
(comprensione, rappresentazione, pianificazione, categorizzazione), sia i processi mnestici
(memoria di lavoro e updating). Sono presentate attività strutturate relative sia alle
conoscenze e abilità matematiche di carattere prettamente scolastico, sia esercizi ludici
finalizzati allo sviluppo dei processi mentali sottostanti, senza mai tralasciare la riflessione

119
metacognitiva che mira a un coinvolgimento attivo dello studente, affinché divenga il
costruttore personale del proprio sapere.
Ogni area del programma prevede
una serie di obiettivi specifici; ad
ogni obiettivo sono dedicate una o
più schede che presentano le
attività da svolgere attraverso
consegne scritte che l'insegnante
farà leggere al bambino,
eventualmente semplificandole,
qualora la terminologia usata fosse
troppo difficile.
In una ricerca in cui si è valutata
l'efficacia del programma si è visto che due gruppi di alunni con difficoltà nell'area
matematica, che dimostravano prestazioni analoghe nella soluzione dei problemi in una
fase di pre-test, risultavano diversificati nella successiva fase di posttest. Dopo la proposta
dei rispettivi training, la prestazione del gruppo «training innovativo» risultava
significativamente migliore rispetto a quella del gruppo «training standard» che aveva
utilizzato le usuali procedure didattiche comunemente svolte in classe. Questi risultati
sottolineano quindi l'importanza di individuare e sviluppare le abilità e competenze
sottostanti ai diversi compiti scolastici, superando una didattica di meri e routinari esercizi.

CAPITOLO 8: “DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO DELLA LINGUA STRANIERA E


DISTURBO”
SPECIFICO DEL LINGUAGGIO”
L'apprendimento della lingua straniera sta diventando fondamentale per i bambini di gran
parte del mondo ed è quindi naturale che ci si debba occupare di difficoltà o veri e propri
disturbi in questa area. Poiché è opinione largamente condivisa che tali problemi sono in
relazione con problemi nell'area del linguaggio, cominceremo col fornire una breve
presentazione dei disturbi specifici del linguaggio (DSL), prima di passare a considerare
le difficoltà di apprendimento della lingua straniera (DALS). Si tratta di due tematiche
che rispecchiano settori di indagine e una storia investigativa e clinica piuttosto distanti tra
loro. Questo non solo per ragioni storiche, essendo il problema della lingua straniera legato
a recenti fenomeni socioculturali e di globalizzazione, ma anche per la portata e la ricaduta
clinica del problema.
Il disturbo specifico di linguaggio
I bambini con disturbo specifico del linguaggio (DSL)
sono individui dotati di normali capacità cognitive, che
mostrano tuttavia una competenza linguistica limitata, senza
che siano presenti fattori causali quali sordità o ipoacusia,
deficit cognitivi, emotivo-affettivi, motori o condizioni
socioambientali svantaggiate che giustifichino la ridotta
competenza linguistica. I disturbi dell'apprendimento del
linguaggio possono manifestarsi sia nella comprensione della lingua che nel suo

120
utilizzo o produzione e sulla base della loro estensione e dell'evoluzione nel tempo vengono
classificati in sottotipi. La classificazione proposta dall'Organizzazione Mondiale della Sanità
(ICD-10) prevede quattro differenti categorie:
1. Disturbo specifico dell'articolazione dell'eloquio: si caratterizza per un deficit
nell'uso dei suoni verbali rispetto a quanto atteso in relazione all’età cronologica e/o
mentale, in presenza di normale sviluppo lessicale e grammaticale.
2. Disturbo del linguaggio espressivo (può presentarsi in associazione ad anomalie
articolatorie): consiste in un deficit specifico nella produzione linguistica tale per cui
l'espressione verbale è dissociata dalla comprensione verbale e, mentre la prima è
sensibilmente al di sotto di quanto atteso sulla base dell'età mentale, la seconda è
invece nella norma.
3. Disturbo del linguaggio recettivo: si caratterizza per un deficit primario nella
comprensione del linguaggio (cui si associano marcati disturbi della produzione e
anomalie articolatorie).
4. Afasia acquisita con epilessia (sindrome di Landau-Kleffner): si tratta di un deficit
linguistico acquisito in cui il bambino che ha normalmente sviluppato le competenze
linguistiche espressive e recettive le perde pur conservando un livello intellettivo nella
norma. Può comparire tra i 3 e i 7 anni e si associa ad anomalie
elettroencefalografiche e in molti casi a crisi epilettiche.
Come tutte le classificazioni, anche quella appena descritta presenta una forzosa
schematizzazione della realtà clinica. Se infatti da un lato chiarisce criteri e associazioni
sintomatiche, dall'altro costringe la complessità clinica in schematizzazioni troppo
grossolane. Per questo, potrebbe arricchire la tipizzazione appena descritta l'inserimento di
un asse relativo all'evoluzione temporale dello specifico disturbo. Osservati quindi da una
prospettiva anche diacronica i disturbi del linguaggio accettano un'ulteriore distinzione, che
riguarda in particolare i disturbi espressivi. In questo caso infatti possiamo parlare di due
diverse tipologie di disturbo espressivo a seconda che:
- la compromissione sia meno severa e si prospetti un recupero spontaneo alle soglie
dell'età scolare (ritardo specifico espressivo)
- la compromissione sia più grave e tenda a mantenersi costante anche durante la
scolarità (disturbo specifico espressivo).
In termini epidemiologici, si riscontra la massima incidenza in età prescolare sia del
disturbo specifico dell'articolazione dell'eloquio che del ritardo specifico espressivo,
mentre per il disturbo specifico espressivo e il disturbo specifico recettivo la massima
incidenza si colloca invece in età scolare. Inoltre l'incidenza è decisamente più frequente
nei maschi che nelle femmine.
Intorno ai 24 mesi si registra fino a un massimo di circa il 15% della popolazione infantile
per la quale si parla di ritardo di linguaggio, caratterizzato per un vocabolario espressivo
molto basso. Già a 36 mesi si registra una riduzione spontanea del problema, per arrivare
a età di 5 anni quando l'incidenza arriva al massimo al 3%. L'esame precoce del problema
di linguaggio porta con sé quindi il rischio elevato di falsi positivi, ovvero di problemi la cui
risoluzione può avvenire in maniera completamente spontanea e scomparire nell'arco
dell'età prescolare. Cipriani e colleghi hanno condotto uno studio longitudinale su un
campione di 32 bambini intorno ai 24 mesi con diagnosi di ritardo del linguaggio al fine di
individuare gli indicatori predittivi di un'evoluzione positiva o negativa del problema di
linguaggio. A tal fine, oltre al vocabolario, sono state esaminate la comprensione lessicale
e grammaticale e la produzione grammaticale. I risultati ottenuti consentono di ritenere

121
alcuni di questi indici particolarmente significativi per la prognosi del disturbo.
All'osservazione successiva (intorno ai 38 mesi) circa un terzo dei bambini si era
normalizzato. Del gruppo con evoluzione in DSL invece l'incidenza di deficit di
comprensione riscontrato alla prima osservazione era superiore al 60%. Questo dato
sembra suggerire quindi che il riscontro di un deficit di comprensione in età precoce in
associazione all'individuazione di un ritardo di vocabolario possa essere considerato un
indicatore di serietà del problema e richiedere eventualmente un intervento di sostegno
all'apprendimento  si è riscontrata una certa familiarità nei DSL. Sono stati inoltre rilevati
fattori associati al problema quali basso peso alla nascita, prematurità, convulsioni
febbrili e presenza di epilessia in un familiare del bambino. Anche se
l'elettroencefalogramma (EEG) del bambino con DSL non presenta anomalie tuttavia
sembra che tale esame in sonno riveli anomalie parossistiche simili a quelle di bambini
affetti dalla sindrome di Landau-Kleffner. Inoltre, benché bambini con DSL non presentino
problemi uditivi con stimoli linguistici sufficientemente lunghi, sembra dimostrato che
significative difficoltà emergano in alcuni di essi nel riconoscimento di suoni molto veloci.
Nel linguaggio, ad esempio, le consonanti occlusive hanno durata breve e quindi possono
creare seri problemi a bambini con difficoltà di discriminazione. A dimostrazione
dell'importanza di questo aspetto alcuni autori americani e italiani hanno ottenuto importanti
benefici dalla messa a punto di programmi computerizzati che «parlino» al bambino con
DSL ad un ritmo più lento in modo da consentirgli di imparare gradualmente a distinguere i
suoni più veloci della lingua e arrivare infine a comprenderla alla velocità naturale di
produzione.

1. Memoria e disturbo specifico di linguaggio


La memoria, e in particolare la memoria fonologica, sembra avere un ruolo importante
nell'acquisizione del linguaggio. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che l'acquisizione
del vocabolario si basa sull'efficienza del mantenimento a breve termine della traccia
fonologica della nuova parola. Infatti, bambini con più elevate capacità di memoria
fonologica sono più efficienti nell'apprendimento di parole nuove a parità di altre
caratteristiche cognitive rispetto a bambini con minori capacità di memoria. Di conseguenza
è stata formulata e controllata l'ipotesi per cui il DSL deriverebbe da problemi di memoria
fonologica. Gli studi che hanno confrontato i bambini con e senza DSL hanno rilevato una
prestazione più scadente dei bambini con DSL rispetto ai gruppi di controllo nelle prove di
memoria verbale a breve termine quali, lo span di cifre o la ripetizione di non parole.
Gathercole e Baddeley hanno confrontato le abilità di 6 bambini (età 8 anni) con un disturbo
di linguaggio con quelli di due gruppi di controllo, uno appaiato per abilità verbali e uno per
intelligenza non verbale, In termini di conoscenza del vocabolario, comprensione di frasi e
abilità di lettura, i bambini con DSL, presentavano un ritardo situato tra i 18 e i 24 mesi
rispetto ai loro coetanei. I bambini con disturbo del linguaggio ottenevano prestazioni
inferiori nelle prove di ripetizione di non parole e nel ricordo di liste di parole sia rispetto al
gruppo appaiato per intelligenza non verbale sia rispetto a quello appaiato per intelligenza
verbale e quindi molto più giovane. Questo dato supporta dunque l'ipotesi per cui la
memoria fonologica giocherebbe un ruolo preponderante nell'acquisizione
linguistica, soprattutto nei primi stadi di apprendimento del vocabolario (anni prescolari e
scolari), quando una buona capacità fonologica garantisce la costruzione in memoria di
tracce più durevoli e ben associate al proprio referente. Con l'aumentare dell'età e il
conseguente aumento delle capacità di memoria, assumono invece un ruolo più rilevante le

122
conoscenze semantiche e concettuali. Comunque, data l'importanza delle competenze
fonologiche e più in generale linguistiche, per i primi apprendimenti di lettura e scrittura, non
c'è da sorprendersi che molti bambini diagnosticati per DSL nella fascia 2-6 anni risultino
poi avere un disturbo della lettura e della scrittura. Un altro aspetto importante della storia
del DSL (generalmente il DSL non viene considerato all'interno dei disturbi
dell'apprendimento) è quindi costituito dall'evoluzione del disturbo in un vero proprio DSA.
Così come talune forme di DSL evolvono in dislessie e disortografie, altre forme evolvono
in disturbi della comprensione della lettura. Una difficoltà di comprendere il linguaggio orale
si trasforma in un problema di comprensione del ben più complesso linguaggio scritto: livelli
sufficienti di comprensione del tipico linguaggio orale e di unità frasali sono raggiunti, mentre
la comprensione del discorso orale e scritto risultano molto deboli. Questa evoluzione va di
pari passo con gli strumenti tipicamente utilizzati per la comprensione del linguaggio orale,
quali i test TROG, Token, Rustioni, che esaminano la comprensione della frase, e quelli
invece utilizzati per la comprensione del linguaggio scritto.

2. Le difficoltà di apprendimento della lingua straniera


In una società globale dove i confini geopolitici e
linguistici precipitano non appena si supera la soglia
del mondo virtuale in cui la maggior parte di noi vive
la propria vita, l'inglese diventa la lingua necessaria
alla comunicazione per coloro che sono nati e
cresciuti in un contesto linguistico non anglofono
imparare l'inglese diventa una priorità se non
un'urgente necessità.
Con l'espressione «Second Language Acquisition» (SLA),
ovvero apprendimento della seconda lingua o L2, si fa riferimento all'acquisizione di una
lingua dopo che la lingua nativa è stata appresa.
Chi sta imparando una lingua seconda (L2) si distingue quindi per almeno due aspetti da
chi sta imparando la lingua madre o L1;
a. il processo di acquisizione di chi apprende una L2 inizia in un'età successiva a
quella di acquisizione della L1
b. chi sta imparando una L2 possiede già un sistema linguistico ben consolidato.
L'apprendimento di una L2 così definito può avvenire sia in classe, sia all'interno
della famiglia o di una comunità.

123
L'espressione «acquisizione della L2» fa
riferimento all'acquisizione di una lingua in
un contesto in cui quella lingua è
usualmente parlata (per esempio imparare
il giapponese in Giappone). Con
l'espressione di «apprendimento della
lingua straniera» ci si riferisce invece più
propriamente all'apprendimento di una
nuova lingua nel contesto della propria
lingua madre (per esempio, imparare
l'inglese in Italia). Tale processo si verifica
comunemente nell'ambito scolastico dove
bambini, ma anche adulti, possono
imparare la lingua straniera in un contesto
dove questa non è comunemente utilizzata per la comunicazione quotidiana ed è a questo
processo che
principalmente ci riferiremo parlando di difficoltà di apprendimento della lingua straniera
benché espressioni come L2 o seconda lingua vengano utilizzate come sinonimi.
Una definizione di cosa sia un DALS e in che misura possa rientrare nei DSA rimane
comunque questione ancora aperta, per una serie di problemi connessi.
1) Un primo problema riguarda la possibilità di andare oltre i normali resoconti degli
insegnanti di lingua straniera per parlare di vera e propria difficoltà, identificando gli
aspetti critici da valutare, criteri chiari e procedure idonee per la verifica dell'esistenza di
questi criteri. L'identificazione di criteri e procedure dovrà tenere anche conto di specifici
contesti e obiettivi di apprendimento.
2) Un secondo problema è relativo all'esistenza di DALS come effetto concomitante o
secondario di altre problematiche, come accade per esempio in relazione a una
precedente dislessia.
3) Un terzo problema è relativo alla possibilità di parlare di un vero e proprio disturbo,
specifico, biologicamente e neuropsicologicamente ancorato, separabile da una più
generica difficoltà.

3. Difficoltà di apprendimento della lingua straniera e rapporti con


l'apprendimento della lingua madre
Nel momento in cui un dato obiettivo di
apprendimento diventa parte integrante del
curriculum scolastico ne deriva il possibile effetto
collaterale rappresentato dall'emergere di
difficoltà anche specifiche in quell'ambito da parte
di bambini che magari stanno adeguatamente
perseguendo altri obiettivi di apprendimento,
lettura, matematica, ecc. Il fatto che si parli di una
lingua, anche se straniera, suggerisce che le
DALS potrebbero derivare da una più generalizzata difficoltà di apprendimento della lingua
madre, in base
all’ipotesi per cui la lingua madre rappresenterebbe un substrato su cui la conoscenza della
seconda lingua si costruisce. Considerando il caso dell'apprendimento della lettura, alcune

124
ricerche condotte con differenti gruppi di studenti di L1 /L2, quali ad esempio turco/olandese,
francese/inglese, spagnolo/inglese, hanno stimato che il contributo positivo
dell'alfabetizzazione nella prima lingua nel determinare l'apprendimento della lettura nella
L2 si possa considerare tra il 14 e il 215%. Se inoltre accanto all'alfabetizzazione/lettura
consideriamo anche una misura più specifica dell'abilità nella lingua madre come la
conoscenza della grammatica arriviamo a osservare che essa contribuisce per il 30% circa
all'apprendimento della lettura nella lingua straniera.
La ricerca condotta su ampie popolazioni ci suggerisce che la lingua madre influenzi
positivamente l'apprendimento della lingua straniera e che questa influenza-
sovrapposizione corrisponda a un 50% del fenomeno ovvero che la lingua madre e la lingua
straniera si sovrappongano per circa metà della loro natura e struttura ma si distinguano e
assumano profili indipendenti per la restante metà del fenomeno. Un importante filone di
ricerca che ha indagato proprio questo rapporto L1-L2 all'interno delle DALS è relativo al
contributo che Sparks e colleghi hanno pubblicato a partire dagli anni '80. Gli studi si sono
focali sugli studenti che in USA si confrontano con la lingua straniera e quindi studenti di
scuola superiore o universitari che inseriscono nel proprio curriculum in genere la lingua
spagnola. Le ricerche di Sparks e colleghi hanno individuato ed esaminato gli studenti che
incontravano difficoltà in lingua straniera pur non presentando disturbi dell’apprendimento.
Secondo Sparks i primi fattori causali nel determinare il successo o l’insuccesso
dell’apprendimento della L2 sono di tipo linguistico. Gli studenti che presentano difficoltà di
apprendimento della L2 si caratterizzano per minori competenze nella lingua madre rispetto
a studenti senza difficoltà di apprendimento della L2.
Questa ipotesi, nota come ipotesi delle
differenze nella codifica linguistica
(LCDH), è stata introdotta nella letteratura
relativa alle learning disabilities e
all'apprendimento della lingua straniera nei
primi anni '90. Essa suggerisce, Che gli
studenti dals avrebbero una dissociazione
al l'interno dell'area linguistica, presentando
qualche problema nella codifica degli
aspetti fonologici e sintattici del linguaggio,
ma non nell’area semantica. Secondo Sparks sia l'apprendimento della lingua madre che
quello di una
seconda lingua dipendono da meccanismi linguistici basilari comuni. Sembrerebbe che la
presenza di difficoltà nelle abilità linguistiche abbia effetti negativi sui sistemi linguistici sia
di lingua madre che di lingua straniera. In una lunga serie di ricerche Sparks e Ganschow
hanno raccolto numerose conferme della LCDH, osservando che gli studenti di successo
nell'apprendere una lingua straniera erano anche coloro che si mostravano più abili nella
lingua madre rispetto a studenti con difficoltà in L2. Tali differenze si sono rivelate valide per
studenti sia di scuola superiore sia dell'università. In uno studio sono stati confrontati due
gruppi di studenti al primo anno di scuola superiore (età media 15 anni) con alte e basse
abilità nell'apprendimento della lingua straniera. La divisione dei partecipanti in due gruppi
è stata operata sulla base della votazione riportata durante il primo quadrimestre in cui era
stato introdotto l'insegnamento della lingua straniera. Studenti a basso rischio DALS
avevano ottenuto una «A» o una «B», mentre studenti ad alto rischio avevano ricevuto una
«D» o «F». Sono state quindi proposte misure di abilità linguistiche in lingua madre per

125
valutare le abilità fonologiche (spelling, identificazione di parole, lettura di non parole, ecc.),
sintattiche (conoscenza e uso dei segni di punteggiatura e ortografia) e semantiche
(comprensione di un testo scritto, conoscenza del vocabolario). Lo strumento utilizzato per
misurare l'attitudine linguistica in lingua straniera è stato il classico «Modern Language
Aptitude Test» (MLAT), di cui esiste un vecchio adattamento italiano, per la parte relativa
ai subtest di fonologia, sintassi e semantica. Gli studenti ad alto rischio DALS hanno
ottenuto punteggi inferiori al test di attitudine per la lingua straniera (MLAT).
Per quanto riguarda le abilità nella lingua madre, gli studenti ad alto rischio DALS hanno
avuto prestazioni inferiori rispetto agli studenti a basso rischio in compiti che richiedono
abilità fonologiche, sintattiche e ortografiche. I due gruppi non differivano però per le abilità
di tipo semantico (vocabolario e comprensione del testo). I risultati di Sparks e colleghi
indicano la possibilità di individuare studenti con DALS a un livello avanzato di scolarità e
dimostrano che le difficoltà in lingua straniera sono strettamente associate a difficoltà
fonologico-ortografiche nella lingua madre. Queste evidenze rimangono piuttosto generali
e aprono una vasta serie di interrogativi, primo fra tutti quello relativo all'esistenza di un
profilo DALS e quindi di un disturbo specifico con caratteristiche invariabili e universali.

4. Profilo o profili della difficoltà di apprendimento della lingua straniera


L'identificazione della difficoltà ad apprendere la lingua straniera e il legame con prestazioni
meno efficienti nell'elaborazione della fonologia e della sintassi e ortografia della lingua
madre aprono una finestra sul profilo cognitivo di studenti con DALS. Per approfondire
questo aspetto Sparks e colleghi hanno esaminato i profili di circa 100 studenti con
prestazioni basse nella lingua straniera. Le aree indagate sono state
- l’intelligenza generale, esaminata con test standardizzati di intelligenza
- l'abilità fonologica, valutata attraverso compiti di spelling, di dettato e di
identificazione di parole,
- l'abilità sintattica, misurata con compiti di scrittura, di correzione del testo scritto e di
punteggiatura
- l'abilità semantica, esaminata con test relativi alla comprensione orale e scritta, alla
conoscenza del vocabolario, dei sinonimi e dei contrari.
Il profilo più frequentemente osservato nello studio preso in esame si caratterizza per una
difficoltà nell'elaborazione degli aspetti fonologici ma preservate abilità generali e
linguistiche. lI punteggio ai test rivela una caduta nelle abilità fonologiche, che possono
risultare basse, soprattutto nelle prove di spelling e di riconoscimento di non parole, mentre
per le prove sintattiche e semantiche le prestazioni sono nella media o addirittura al di sopra
della media. Non sembrano emergere problemi di memoria a lungo termine né problemi
nell'apprendimento di materie scientifiche quali ad esempio la matematica. Anche la
prestazione al MLAT ha evidenziato difficoltà marcate nel subtest di fonologia
(corrispondenza suono-simbolo). In sintesi, il profilo più frequente del DALS indica cadute
specifiche nelle competenze fonologiche e preservate abilità semantiche. Il follow-up
di questi casi ha consentito di osservare che si possono ottenere dei progressi anche se
non il completo superamento delle difficoltà in L2.

126
Profili meno frequenti quando si esaminano le
difficoltà di apprendimento della Lingua
Straniera sono ad esempio quello di soggetti
con elevata abilità fonologica, elevata abilità
sintattica, ma scarsa abilità semantica. In questi
casi il problema sembra concentrarsi nella
difficoltà di comprensione del linguaggio prima
e della lettura poi associate a difficoltà
linguistiche generalizzate, tra cui un possibile
pregresso ritardo del linguaggio.
Profili sempre poco frequenti tra i DALS sono quelli di studenti con deficit generalizzati nelle
competenze
linguistiche, sia fonologiche che sintattiche e semantiche. Il profilo intellettivo si caratterizza
per un livello generalmente depresso in cui non emergono gli elementi di discrepanza che
caratterizzano invece i DSA.
Infine si riscontrano DALS anche in casi che hanno buone abilità verbali, fonologiche,
sintattiche, e semantiche, ma bassa motivazione all'apprendimento di una seconda lingua.
In questo profilo il livello intellettivo appare al di sopra della media mentre gli apprendimenti
appaiono lacunosi e deficitari. Le attitudini all'apprendimento della lingua straniera farebbero
presupporre una competenza nella L2 più che adeguata, ma l'esame delle motivazioni
suggerisce che non ci sia un buon approccio motivazionale all'apprendimento della seconda
lingua e che per questo lo studente si applichi poco allo studio di questa materia.
L'analisi dei profili raccolti da Sparks suggerisce l'esistenza di difficoltà di apprendimento
della lingua straniera che si può connotare come difficoltà specifica e propone di evitare
superficiali conclusioni attribuendo la causa di tali difficoltà automaticamente a fattori
motivazionali o affettivi. I risultati dell'indagine sottolineano invece l'importanza di esaminare
attentamente le abilità fonologiche di uno studente considerato a rischio di DALS. Le
ricerche indicano che l'area più debole può essere quella legata alla codifica fonologica.
Quanto questi risultati possano essere generalizzabili a contesti linguistici e culturali
differenti nonché a momenti evolutivi più precoci o più tardivi non è chiaro e richiede specifici
approfondimenti di ricerca. Vi sono infatti variabili linguistiche associate alla lingua le quali
potrebbero giocare un ruolo determinante nel processo di apprendili di quella lingua come
seconda lingua e che, a loro volta, si combinano con le caratteristiche della lingua madre.
Carroll si è cimentato nell'illustrare il concetto di vicinanza tra due lingue  osserva che
lingue più lontane le une dalle altre richiedono maggiore sforzo in termini di apprendimento:
data una lingua madre, imparare una lingua straniera distante richiederà più tempo e più
impegno in considerazione delle differenze nel sistema fonetico e grammaticale nonché nel
sistema di scrittura. È esperienza comune per un italiano incontrare maggiori difficoltà con
l'inglese piuttosto che con lo spagnolo, ma il problema è ancora maggiore per uno studente
inglese o italiano con lingue come il russo per il cui apprendimento occorre studiare
l'alfabeto cirillico o lingue come l'arabo o l'ebraico per cui occorre apprendere anche molti
nuovi fonemi. Difficoltà ulteriori particolari presentano invece le lingue “ideografiche” come
giapponese, cinese e coreano che richiedono l'apprendimento di un sistema di scrittura che
si basa su regole non alfabetiche. Gli studi comparativi relativi alle difficoltà sperimentate in
varie comunità linguistiche con la prima lingua possono aiutare ad anticipare i problemi che
uno studente affronta quando questa stessa lingua è appresa come seconda.

127
Si osserva che imparare a manipolare i suoni della propria lingua appare più semplice per i
bambini italiani, turchi e greci che per i bambini inglesi e francesi: i primi mostrano più
precocemente dei secondi il possesso di sensibilità fonologica per le unità sillabiche alla
scuola materna relativa a un'età precedente all'alfabetizzazione. La spiegazione più
evidente potrebbe essere che l'italiano, il turco e il greco sono lingue con una più semplice
struttura sillabica rispetto all'inglese e al francese e anche con un repertorio di vocali
piuttosto limitato. Inoltre, dobbiamo notare come ci siano lingue con maggiore coerenza
interna e regolarità per cui una lettera o sillaba viene sempre pronunciata allo stesso modo
(come in italiano, in greco e in spagnolo) e lingue con meno regolarità come l'inglese, il
francese o il danese, da cui l'ipotesi per cui le lingue regolari favoriranno l'apprendimento
della lettura rispetto a quelle irregolari.

5. Le difficoltà di apprendimento della lingua straniera in bambini italiani che


imparano l'inglese
La prova di inglese usata per l’individuazione dei DALS prevede un compito di dettato di 30
parole concrete senza relazioni semantiche tra loro, 15 bisillabe e 15 trisillabe, e 24 item a
scelta multipla relativi alla grammatica e sintassi dell'inglese, di difficoltà adeguata al livello
di scolarità.
Il dettato consente la valutazione della competenza ortografica in relazione con la
comprensione del linguaggio parlato.
Il compito di scelta multipla valuta la conoscenza di regole grammaticali e sintattiche.
Nello studio di Ferrari e Palladino le autrici hanno esaminato studenti italiani ad alto rischio
DALS di scuola media (età 12 e 13 anni) al fine di chiarire quali difficoltà di apprendimento
possano essere associate  sono stati selezionati due gruppi e appaiati per età e per
intelligenza non verbale. In due esperimenti, i partecipanti sono stati confrontati in prove di
abilità di lettura, di abilità di calcolo e negli indici di rischio di deficit di attenzione con/senza
iperattività. Ferrari e Palladino hanno osservato in entrambi gli studi che il gruppo ad alto
rischio DALS otteneva prestazioni significativamente inferiori nelle prove di comprensione
in lingua madre. Nelle prove di rapidità di lettura e di correttezza sono state osservate
differenze fra i gruppi meno marcate rispetto a quanto emerso per l'abilità di comprensione.
Inoltre, mentre per la prova di comprensione più del 50% degli studenti a rischio DALS ha
ottenuto una prestazione negativa, per la prova di correttezza e rapidità di lettura i punteggi
del gruppo ad alto rischio rientravano nel range di prestazioni positive, ovvero nella
normalità. I risultati di questa indagine consentono di escludere che le difficoltà di
apprendimento della lingua straniera possano essere associate con difficoltà di calcolo. Gli
studenti a rischio DALS sembrano incontrare qualche difficoltà nel controllo dell'attenzione.
Gli studi di Ferrari e Palladino sono risultati diversi rispetto alle ricerche in ambito americano
 una spiegazione della contraddizione tra i dati italiani e quelli americani può giungere
dalla considerazione delle differenze nei campioni esaminati. Ferrari e Palladino hanno
coinvolto studenti più giovani di due anni rispetto a quelli delle ricerche di Sparks. Si può
quindi supporre che una difficoltà di apprendimento della lingua straniera sia più frequente
e più severa in studenti ancora nella scuola dell'obbligo rispetto a studenti di scuola
superiore o addirittura all'università.
Tuttavia potrebbe giocare un ruolo significativo anche la natura e le caratteristiche della
lingua straniera oggetto dell'apprendimento. Gli studenti italiani si trovano a confrontarsi con
una lingua non trasparente, ovvero una lingua in cui le singole parole contengono numerose
irregolarità ed eccezioni nella pronuncia e nello spelling. Pertanto l'apprendimento

128
dell'inglese richiede accanto alle abilità fonologiche anche abilità di ragionamento e
comprensione dei contenuti della lingua al fine di derivarne la struttura grammaticale e
ortografico-fonologica.
Va aggiunto che sulle differenze potrebbero avere anche influito le modalità utilizzate per
individuare gli studenti con DALS. L'individuazione dei soggetti a rischio DALS, avvenuta
sulla base dei punteggi nel test di lingua inglese e delle preservate abilità non verbali, ha
circoscritto un gruppo che aveva per il 90% anche un punteggio a rischio di difficoltà di
comprensione. Il rapporto tra apprendimento della lingua inglese e abilità di comprensione
merita quindi ulteriori indagini di approfondimento che possono aiutare a comprendere
meglio la natura di entrambe le difficoltà di apprendimento ma anche ad affrontarle in termini
riabilitativi. Tuttavia, questa conclusione è smussata dal risultato di Palladino e Cornoldi per
cui in ragazzini DALS è più evidente un problema di memoria fonologica, piuttosto che di
memoria attiva di lavoro, differentemente da quello che si osserva tipicamente nei disturbi
della Comprensione. Infine, il fatto che siano stati osservati problemi di mancanza di
attenzione nei DALS può essere ritenuto conseguenza della difficoltà di apprendimento.

6. Problemi di memoria e difficoltà di apprendimento della lingua straniera


Gli studi che si sono occupati nello specifico del ruolo della memoria fonologica nel
determinare differenze individuali nell’apprendimento sono numerosi. Un filone di ricerca è
stato sviluppato da Service che ha monitorato l'apprendimento dell'inglese di alcuni gruppi
di bambini finlandesi di età compresa fra i 9 e i 10 anni. La memoria fonologica misurata
con test di ripetizione di non parole si è rivelata un buon predittore dell’abilità di apprendere
l'inglese come seconda lingua in bambini finlandesi di 9 anni a distanza di circa 2 anni e
mezzo. È stato però osservato che, in studenti che hanno già acquisito un vocabolario nella
seconda lingua, le abilità fonologiche sono meno predittive della velocità con cui si potranno
imparare nuove parole. Pertanto, si può ipotizzare che sia importante possedere in primo
luogo un'efficiente memoria fonologica soprattutto nei primi stadi di acquisizione della
lingua, e in secondo luogo un buon vocabolario come base per le nuove acquisizioni.
Palladino e Cornoldi si sono concentrati su un esame dei processi di memoria coinvolti
nell'apprendimento della lingua straniera, selezionando bambini italiani con DALS. Gli autori
hanno selezionato un gruppo di studenti italiani di seconda e terza media (12 e 13 anni) con
un buon livello di intelligenza generale, ma con difficoltà di apprendimento della lingua
straniera, e un gruppo di controllo, appaiato al primo per età, sesso e intelligenza non
verbale e punteggi intorno alla media nelle prove di apprendimento della lingua straniera
(inglese).
I gruppi sono stati così confrontati in una serie di prove al fine di evidenziare quali
componenti di memoria (verbale vs. visuospaziale; passiva vs. attiva) si possono
considerare in relazione con il successo e l'insuccesso nell'apprendimento della lingua
straniera. Le differenze tra i due gruppi sono risultate significative per le prove di memoria
verbale, quali ad esempio la ripetizione di non parole, ma non visuospaziale, quali ad
esempio il ricordo di posizioni nello spazio. Un dato particolarmente interessante è che la
difficoltà dei partecipanti a rischio sembrerebbe più marcata in compiti in cui è richiesto un
mantenimento passivo dell'informazione, piuttosto che un'elaborazione attiva. La prova
di memoria verbale attiva utilizzata in questo studio presuppone infatti maggior controllo
attentivo rispetto alla ripetizione di non parole, poiché si chiede al bambino un doppio
compito, ovvero di ascoltare una serie di frasi di cui egli deve giudicare la veridicità e allo
stesso tempo di tenere a mente l'ultima parola di ogni frase. Dall'analisi dei dati emergono

129
differenze significative tra gruppi solo nella prova di ripetizione di non parole. Nel complesso
i risultati di questo primo studio hanno quindi indicato che gli studenti che incontrano
difficoltà nell'apprendere la lingua straniera non hanno deficit nell'ambito della memoria
visuospaziale ma mostrano difficolta’ nei processi di memoria verbale più passivi e meno
controllati.
In uno studio successivo Palladino e Ferrai hanno esaminato studenti di seconda e terza
media con difficoltà di apprendimento dell'inglese al fine di distinguere le difficoltà di
memoria fonologica, con prove separate di memoria e di consapevolezza fonologica. In una
serie di esperimenti sono stati proposti compiti di consapevolezza fonologica adatti a
bambini di scuola media quali ad esempio compiti di delezione di una sillaba o di lettere da
non parole con suoni simili sia all'italiano che all'inglese. In questi compiti si chiedeva al
bambino di ascoltare attentamente una parola o una non parola da cui egli avrebbe dovuto
eliminare un suono, per esempio da /macerzi/ togliere il suono centrale /cer (la risposta
finale sarebbe /mazi/). Sono state inoltre proposte prove di memoria di lavoro e prove di
ricordo immediato di parole al fine di valutare la memoria fonologica. Il dato coerente che si
è ritrovato in tutti gli esperimenti è che la prestazione dei bambini con DALS è scadente,
rispetto ai compagni senza difficoltà, sia nelle prove di consapevolezza fonologica che nelle
prove di memoria fonologica. Tuttavia l'abilità di manipolare i suoni di una lingua è risultata
un'abilità separata da quella di ricordare i suoni della lingua (memoria fonologica). Sulla
base di questi risultati le autrici hanno concluso che giovani studenti italiani che hanno
difficoltà a imparare l'inglese hanno problemi in due ambiti distinti dell'elaborazione
fonologica della nuova lingua, e cioè sia nella manipolazione dei suoni della lingua sia nel
loro ricordo.
La memoria e la consapevolezza fonologica sono coinvolte in misura almeno parzialmente
indipendente nelle difficoltà di apprendimento della L2 e che sono competenze
sovralinguistiche ovvero che le difficoltà dei bambini esaminati emergono sia che si valuti
l'abilità nella lingua madre (italiano) sia che il compito venga proposto nella lingua straniera
(inglese). Quest'ultimo dato può essere interpretato a sostegno dell'assunzione della LCDH
proposta da Sparks di un forte legame tra competenze nella lingua madre e nella lingua
straniera, oltre che di una precisa direzionalità del rapporto, dalla prima alla seconda.
Le ricerche sulla memoria in soggetti bilingui che possiedono un buon livello di fluenza in
due diverse lingue hanno contribuito a chiarire ulteriormente la natura e le caratteristiche
del rapporto L1-L2. Thorn e Gathercole hanno confrontato bambini inglesi, bilingui per il
francese (conoscenza del vocabolario comparabile nelle due lingue), sin dalla nascita o
dall'età di tre anni, in prove di memoria fonologica, quali il ricordo seriale di cifre e di parole
e la ripetizione di non parole, sia in inglese che in francese. I risultati hanno mostrato
prestazioni pressoché equivalenti dei due gruppi in entrambe le lingue con materiale
lessicale, cifre e parole, mentre, alla prova di ripetizione di non parole, il gruppo di bilingui
dalla nascita e il gruppo di bilingui dall'età di tre anni si differenziavano. I primi ancora una
volta non mostravano differenze nel ricordare materiale nelle due diverse lingue, mentre i
secondi ricordavano meglio le non parole simili alla lingua madre, piuttosto che alla lingua
seconda.

7. Insegnare la lingua straniera anche a chi ha difficoltà


L'analisi condotta finora consente di evidenziare una base di conoscenze relative alla natura
e alle caratteristiche della DALS. Il passo successivo che dovrebbe condurre a un intervento

130
sul problema è tuttavia ancora in gran parte da definire e si incrocia con il complesso tema
delle modalità di insegnamento della lingua straniera.
Un altro ampio dibattito si è sviluppato intorno al tema del «periodo critico», al fine di
stabilire fino il a che età possa essere ottimale studiare una seconda lingua o se sia corretto
considerare difficoltoso il tentativo di apprendimento se avviene al di fuori di un momento
evolutivo in cui quell'apprendimento si può sviluppare pienamente. La letteratura sul tema
non aiuta a trarre delle conclusioni precise e definitive. Pensando ad un uomo o una donna
adulti che sono già passati attraverso l'esperienza di apprendimento di una lingua e
possiedono un sistema cognitivo maturo e ricco di conoscenze circa gli apprendimenti
precedenti, verrebbe da supporre che anche per la lingua straniera non ci dovrebbero che
essere vantaggi rispetto all'apprendimento di un bambino. Tuttavia, ci sono profonde
differenze tra la lingua madre nel bambino e la seconda lingua nell'adulto, tutte a
dimostrazione delle difficoltà di acquisizione di quest' ultimo. La differenza più evidente è
che l'adulto raggiunge raramente o pressoché mai la sensibilità grammaticale e fonologica
del bambino. L'adulto che apprende una seconda lingua non è equipotenziale allo stesso
modo in cui lo è il bambino esposto alla lingua madre in quanto il suo cervello è ormai
«definitivamente» organizzato ovvero ha perso quella plasticità che caratterizza invece il
cervello più giovane. In uno studio sui correlati neurofisiologici dell'elaborazione della L1 vs.
L2 in soggetti bilingui «tardivi», che avevano cioè acquisito la L2 dopo i 7 anni, Perani e
colleghi osservarono che le aree corticali attivate dalla lingua madre non erano le stesse
attivate dalla seconda lingua, ma le due lingue inducevano attivazioni corticali distinte nelle
aree preposte all'elaborazione fonologica dell'emisfero sinistro. Questi risultati sono coerenti
con altri numerosi dati che indicano che l’elaborazione di L1 e L2 attiva aree corticali diverse
a seconda dell’età in cui la seconda lingua è stata acquisita: se la L2 è stata acquisita presto
nell’infanzia (prima dei 7 anni) sarà più facile osservare l'attivazione di aree sovrapposte nel
cervello mentre, se l'acquisizione è tardiva, all'incirca dopo i 7 anni, sarà più probabile
registrare l'attivazione di aree distinte per le due lingue.
Nel complesso sembra esserci quindi un effettivo periodo critico nell'apprendimento della
L2 anche se parlarne al singolare non è completamente corretto  dai dati emerge che
almeno due moduli vadano distinti in termini di sensibilità al periodo critico. Se infatti per la
fonologia il periodo critico sembra concludersi in una finestra che va dai 6 fino intorno agli
11-12 anni, per la sintassi e la morfologia il periodo critico comincerebbe presto ma
arriverebbe fino ai 15 anni.
La didattica della lingua straniera dovrebbe quindi concentrarsi più precocemente sulla
fonologia della lingua e successivamente sulla sintassi e la morfologia. Qualora tuttavia
ci si confronti con una difficoltà di apprendimento della lingua straniera, Ganschow e Sparks
suggeriscono di riconsiderare i metodi di insegnamento. Tra quelli più efficaci sono indicate
le tecniche che enfatizzano il ruolo di istruzioni chiare ed esplicite. Se infatti, per uno
studente senza problemi, un insegnamento per immersione in un contesto naturale di
esposizione alla lingua attraverso video e film o di diretto contatto può rappresentare un
ottimo sistema didattico, per lo studente con qualche difficoltà in L2 l'insegnamento puntuale
della fonologia e del sistema di corrispondenza suono-simbolo può migliorare le sue
potenzialità di apprendimento, aiutandolo a focalizzarsi su specifici apprendimenti e a
fissare meglio in memoria le nuove sonorità e le nuove regole.
Per persone di ogni età che hanno difficoltà nell'apprendimento del vocabolario basato sulla
fonologia, si è inoltre rivelato molto utile l'uso delle mnemotecniche. Fra di esse appare
particolarmente utile quella della parola-chiave che favorisce l'apprendimento della parola

131
straniera (per esempio il termine inglese «bed» per «letto») trovando un termine italiano di
suono anche solo parzialmente simile («benda») e formando una immagine (un letto che ha
delle bende al posto delle lenzuola).
Un interessante approccio alla didattica della L2, che proviene dalla ricerca di un metodo
didattico adatto a popolazioni molto giovani o svantaggiate e con sensibili deficit cognitivi,
prevede che la lingua straniera venga inserita in un «format» narrativo e la
drammatizzazione della vicenda ricca di significato ed emozioni aiuti il bambino a costruire
una solida rappresentazione semantica a cui agganciare fonologia, lessico, grammatica e
sintassi. della nuova lingua. La verifica sperimentale dell’efficacia del metodo ha evidenziato
effetti positivi sin dalla scuola dell'infanzia, con bambini di 3, 4 e 5 anni, che hanno
incrementato la loro produzione nella lingua straniera (inglese) per il numero sia di parole
che di frasi prodotte nel racconto.

132
CAPITOLO 9: “DISABILITA’ INTELLETTIVE: RITARDO MENTALE E
FUNZIONAMENTO INTELLETTIVO LIMITE”
1. Ritardo mentale: una visione generale
Una fonte autorevole per inquadrare il ritardo mentale può essere rappresentata dalla guida
alla classificazione dei disturbi mentali più diffusa nel mondo che è il DSM-IV-TR, cioè il
Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell'American Psychiatric
Association (quello attuale è alla quarta versione revisionata, TR sta appunto per Text
Revision). Va premesso che il termine disturbo si riferisce a qualcosa di più ampio rispetto
a sindrome, in quanto comprende anche altri quadri o modelli purché clinicamente
significativi. Ad esempio, il ritardo mentale è considerato un disturbo, ma non è una
sindrome (è uno degli effetti di varie sindromi o di altre cause ancora, come la deprivazione
culturale). Si può parlare di disturbo mentale solo se vi sono degli effetti negativi (es.
disabilità) dovuti a una qualche disfunzione. I disturbi mentali sono raggruppati in 16 diverse
sezioni più una dedicata a «Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione
clinica».
La prima sezione Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell'infanzia, nella
fanciullezza o nell'adolescenza comprende anche il ritardo mentale e i disturbi pervasivi
dello sviluppo. La classificazione del DSM-IV comprende inoltre cinque assi.
- Asse I Disturbi clinici
Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica
- Asse II Disturbi di personalità Ritardo mentale
- Asse III Condizioni mediche generali
- Asse IV Problemi psicosociali e ambientali - Asse V
Valutazione globale del funzionamento.
Il ritardo mentale (viene utilizzata anche l'espressione di «disabilità intellettive») viene
riportato sull'Asse II. Il fatto che il ritardo mentale abbia un suo asse permette di associarlo
sia ad altri disturbi (come i disturbi pervasivi dello sviluppo) sia a condizioni mediche
generali, come nel caso delle sindromi genetiche causa di ritardo mentale (sindrome di
Down, Williams, X fragile, Prader-Willi, Angelman, ecc.). Fin dalla presentazione del
disturbo, nel DSM vengono messi in luce i tre criteri fondamentali che permettono una
diagnosi di ritardo mentale:
• un QI circa uguale o inferiore a 70;

• un carente funzionamento adattivo in una delle seguenti aree:

133
• comunicazione;
• cura della persona;
• vita in famiglia;
• capacità sociali/interpersonali;
• uso delle risorse della comunità;
• autodeterminazione;
• capacità di funzionamento scolastico;
• e/o lavoro;
• tempo libero;
• salute;
• sicurezza.

• esordio prima dei 18 anni. Il criterio «prima dei 18 anni» serve a escludere i casi in
cui (ad esempio per un incidente automobilistico, per deterioramento cognitivo) una
qualche causa produce un abbassamento di prestazioni cognitive prima normali.
DSM-5  la comunità scientifica e clinica da alcuni anni non usa più l’espressione “ritardo
mentale” «La disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo) è un disturbo con
esordio nel periodo dello sviluppo che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo
che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici» (definizione).

CRITERI DIAGNOSTICI (slide)


A. Un deficit delle funzioni intellettive (confermato dalla valutazione clinica e da test di
intelligenza individualizzati e standardizzati). In particolare:
− ragionamento
− problem solving
− pianificazione
− pensiero astratto
− capacità di giudizio
− apprendimento scolastico
− apprendimento dall’esperienza
B. Un deficit del funzionamento adattivo, tale da comportare il non raggiungimento degli
standard di sviluppo e socioculturali relativi a:
− autonomia
− responsabilità
Si tratta di deficit adattivi che, in assenza di un supporto costante, limitano il
funzionamento nelle attività (una o più) della vita quotidiana, come la comunicazione, la
partecipazione sociale e la vita autonoma, nei vari ambienti di vita dell’individuo (casa,
scuola, ambiente lavorativo, comunità) C. Esordio di A e B durante il periodo di sviluppo.

134
Con riferimento alle frequenze nella
curva normale dovrebbe trovarsi in
questa situazione una
percentuale attorno al
2,3% della popolazione, ma
questo dato sembra
sovrastimare l'effettiva incidenza del
ritardo mentale. Si stima che nella
prassi italiana sia certificato come
avente ritardo mentale 1,30% circa
degli allievi frequentanti la scuola
primaria. Alcuni studiosi sospettano inoltre che una classificazione rigorosa potrebbe
ridurre questo 1,30 a circa l'1%.
Nella scuola dell'infanzia e in quella secondaria di secondo grado le frequenze complessive
sono inferiori rispetto a quelle della primaria, mentre nella scuola secondaria di primo grado
sono superiori. Il ritardo mentale non è una sindrome, ma un effetto che non interessa
semplici prestazioni cognitive basse, ma prestazioni cognitive dovute a processi patologici
che comportano inadeguato funzionamento del sistema nervoso centrale. Questa
affermazione dovrebbe aiutare il clinico in varie situazioni, ad esempio quando si tratta di
formulare una diagnosi relativamente a un individuo con svantaggio socioculturale.
Indipendentemente dalle sue prestazioni, cruciale è la domanda: le carenze socioculturali
hanno portato a processi patologici che hanno agito negativamente sul funzionamento del
sistema nervoso centrale oppure siamo di fronte ad un quadro caratterizzato da prestazioni
cognitive basse per scarsità di stimoli e/o per carenze motivazionali?
Un costrutto utile in questi casi è quello vygotskiano di area potenziale di sviluppo  se
essa è ampia e simile a quella dei bambini normodotati si può ipotizzare che le
compromissioni a livello del sistema nervoso centrale siano molto ridotte o nulle.
Con riferimento alle prestazioni intellettive misurate in termini di QI sono distinti quattro
diversi gradi di gravità
• Ritardo mentale lieve: QI da 50-55 a circa 70  con un ritardo mentale lieve si
possono raggiungere al massimo, in tarda adolescenza, competenze scolastiche
paragonabili a quelle di un bambino di 10-11 anni;
• Ritardo mentale moderato: QI da 35-40 a 50-55  con un ritardo mentale moderato
si può al massimo conseguire il livello di un bambino di 9 anni
• Ritardo mentale grave: QI da 20-25 a 35-40  con un ritardo mentale grave, invece,
non si possono affrontare gli apprendimenti scolastici, ma è possibile l'acquisizione
del linguaggio verbale, e lo sviluppo di abilità di autonomia personale.
• Ritardo mentale gravissimo: QI sotto 20-25.
Una buona valutazione delle prestazioni cognitive non può limitarsi a considerare il livello
di QI generale. Cruciale è definire un profilo che consideri i rapporti fra:
- gli aspetti cognitivi (almeno memoria, intelligenza verbale e intelligenza di
performance), - linguistici (aspetti fonologici, lessicali, morfologici, sintattici e
pragmatici) - sociali o adattivi (considerando anche le prestazioni
scolastiche).

135
Importante è anche la considerazione delle possibili traiettorie dello sviluppo intellettivo.
Alcune sindromi sono infatti caratterizzate da una diminuzione del QI con l'aumento dell'età.
Ne risulta che in questi casi ha un significato molto diverso un QI di 50 a 3 anni o a 18: il
primo caso è molto più preoccupante del secondo. Il QI di 50 a tre anni potrebbe infatti
diventare 25-30 a 18 anni. Infine, anche se non vi sono caratteristiche fisiche e mediche
specifiche associate con il ritardo mentale, esso spesso (soprattutto in caso di QI inferiore
a 50-55) comporta carenze a livello di sviluppo motorio e varie condizioni mediche negative.
Tra i problemi teorici fondamentali particolare rilievo ha la contrapposizione tra l'ipotesi
del ritardo e quella dello sviluppo eterocronico.
- Alcuni si soffermano sulle prove che evidenziano un ritardo omogeneo nelle
prestazioni del soggetto (ad esempio fra lo sviluppo cognitivo e quello motorio o
linguistico) e quindi esprimono una preferenza per l'espressione «ritardo mentale»
- altri enfatizzano l'eterocronia o non omogeneità dello sviluppo  da cui la preferenza
per l'espressione «disabilità intellettive».
I risultati della ricerca non permettono di scegliere fra una delle due ipotesi, anche perché
ogni situazione di ritardo mentale è caratterizzata da un combinarsi complesso di ritardi, di
profili tipici di un'eventuale sindrome, di profili tipici dell'individuo.

(Slide)
- Funzionamento intellettivo limite (FIL)  FIL le carenze sono minori ed
escludono una diagnosi di disabilità, ma sono comunque tali da poter comportare

136
difficoltà a livello adattivo e/o scolastico e quindi richiedere supporti o comunque
adattamenti straordinari. Carenze cognitive generalizzate (anche se non sempre allo
stesso livello) che condizionano negativamente lo sviluppo dell’intelligenza, del
pensiero e del ragionamento e problemi di adattamento
- Disabilità intellettive  DI
• diagnosi di disabilità vera e propria
• in Italia secondo la legge 104 del 1992 “Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione
sociale e
i diritti delle persone handicappate”

2. Sindromi genetiche e ritardo mentale


Il ritardo mentale può essere causato sia da fattori biologici che ambientali.
Tra le cause biologiche vengono inoltre distinte quelle genetiche dalle altre.
La sindrome genetica più famosa causa di ritardo mentale è la sindrome di Down  poco
più dello 0,25% (quindi una persona ogni 400) della popolazione ha ritardo mentale a causa
di una di queste sindromi, ma non si può escludere che questa percentuale aumenti con la
scoperta di nuove sindromi. Si può notare che nel complesso meno del 50% di tutte le
persone affette dalle sindromi genetiche prese in considerazione presenta anche ritardo
mentale (lo 0,26%). Si può sottolineare che in questo 0,26% la sindrome più rappresentata
è la sindrome di Down, seguita dalle sindromi velocardiofacciale, Noonan, X fragile, sclerosi
tuberosa.
Alcune sindromi colpiscono esclusivamente o prevalentemente i maschi: le sindromi di
Klinefelter, di
X fragile, di Edwards, di Lesch-Nihan e la distrofia muscolare di Duchenne. Per altre (le
sindromi di Turner, XXX-XXXX-XXXXX e Rett) avviene il contrario. Nel complesso,
comunque, maschi e femmine sono ugualmente colpiti (13 e 13%). Si tratta di un dato
interessante, in contrasto con quello che riguarda il ritardo mentale in generale
caratterizzato dal fatto che i maschi sono più numerosi delle femmine. Come già detto prima,
alcune sindromi sono caratterizzate da un decremento del QI con il passare degli anni.
Questo avviene ad esempio per la sindrome di Down. Nei primi 3 anni di vita il QI medio è
attorno a 60-70, mentre a 18 anni esso tende ad essere inferiore a 40. Questo implica che
i bambini piccoli con sindrome di Down con un QI maggiore di 70 sono più di quelli che
hanno un'età compresa fra i 16 e i 18 anni.

3. Ritardo mentale non dovuto a cause genetiche


Il ritardo mentale può essere causato da fattori biologici non genetici.
Tra i rischi prenatali vi sono rosolia, toxoplasmosi, sifilide e citomegalovirus. Anche
l'incompatibilità (Rh o AB0) del sangue materno e fetale può produrre ritardo mentale.
Anche eventi legati a gravidanza, parto, condizioni mediche nei primi anni di vita possono
essere causa di danno cognitivo  un ruolo negativo è svolto dalle droghe, dall'alcol e dal
tabacco assunti dalla madre; tra i rischi perinatali vi sono quelli dovuti a prematurità e
asfissia; tra quelli postnatali vi sono encefalite, meningite, traumi e tumori cerebrali, incidenti
cerebrovascolari e avvelenamenti. Una casistica ampia riguarda i rapporti fra lesioni
cerebrali e ritardo mentale. Anche malnutrizione e gravi carenze educative possono
produrre ritardo mentale.

137
Quantitativamente i ritardi mentali dovuti a gravi carenze a livello educativo o socioculturale
costituiscono una minoranza e sono progressivamente diminuiti in tutto il mondo. Tali fattori,
infatti, più facilmente sono responsabili di profili di «funzionamento intellettivo limite» (con
QI fra 71 e 84) o di «disturbi nello sviluppo della personalità» piuttosto che di un vero e
proprio «ritardo mentale»  alcuni studi avevano comunque evidenziato in passato che
gravi carenze causavano un ritardo quantificabile attorno ai 15-25 punti in QI e avevano
legittimato l'avvio di imponenti programmi preventivi (cfr. cap. 1).
Per una buona diagnosi è necessario considerare le caratteristiche culturali dell'individuo. Il
problema non è irrilevante nella realtà italiana caratterizzata da una crescente
immigrazione. È un dato di fatto che nella diagnosi di ritardo non viene quasi mai impiegato
un esaminatore che abbia familiarità con gli aspetti del retroterra etnico o culturale del
soggetto. Questo comporta due tipi di rischi:
- la sopravvalutazione delle difficoltà cognitive - la sottovalutazione.
Le classi sociali economiche più basse siano più rappresentate nelle fasce di ritardo. Per
esempio, non c'è dubbio che situazioni di FIL (QI fra 71 e 84) possono portare risultati medi
in una situazione favorevole in quanto usufruiscono di stimoli ambientali adeguati. Merita
riflessione anche il fatto che il ritardo mentale sia in questi casi più frequente nei maschi
rispetto alle femmine.
Se ci riferiamo al dato del DSM-IV-TR (circa 3 maschi per 2 femmine) e al fatto che nel
ritardo mentale per cause genetiche (che si riferisce circa al 25 % di tutto il ritardo mentale)
non vi sono differenze fra maschi e femmine, dovremmo concludere che nel resto del ritardo
mentale (cause biologiche e ambientali) il rapporto è quasi di 2 maschi per ogni femmina
(64 vs. 36%).
Il ritardo mentale è spesso associato ad altri disturbi, perciò non esclude la diagnosi di
Disturbo di apprendimento o di Disturbo della comunicazione o di Disturbo autistico, ecc. Le
diagnosi di autismo sono (a volte) anche diagnosi di ritardo mentale. Sono infatti soddisfatti
tutti e tre i criteri di diagnosi di ritardo mentale e cioè QI sotto 70, insorgenza prima dei 18
anni, carenze nell'adattamento adattivo. Più complessa è la situazione in caso di sindrome
di Asperger, in cui si riscontrano tre diverse diagnosi:
- sindrome di Asperger con QI sopra 85;
- sindrome di Asperger e QI fra 71 e 84 (quindi funzionamento intellettivo
limite); - sindrome di Asperger e QI sotto 70 (ritardo mentale)  la
più frequente.
Quando qualcuno dice che gli Asperger sono gli autistici intelligenti, di fatto intende più
intelligenti degli autistici che di norma hanno ritardo mentale grave o gravissimo.
Gli studi suggeriscono che le condizioni di vita spesso associate al ritardo mentale (ad
esempio una maggior frequenza di «fallimenti» scolastici) possono comportare effetti sul
piano motivazionale e, più generalmente, sulla personalità. Sulla base di più di quarant'anni
di ricerca gli studiosi hanno evidenziato il ruolo cruciale di sette costrutti di personalità
e/o motivazionali, che possono avere valore adattivo o disadattivo e che possono essere
considerati in relazione al ritardo mentale:
1. tendenza alla reazione positiva. Ci si riferisce sia alla forte motivazione che spinge gli
individui all'interazione con un adulto supportivo che alla dipendenza dall'adulto;
2. tendenza alla reazione negativa. Essa è caratterizzata da iniziale diffidenza nei confronti
di adulti estranei;

138
3. aspettativa di successo. Questo costrutto è definito dal livello di successo o di fallimento
che ci si aspetta di fronte ad un compito nuovo;
4. tendenza a farsi guidare dall'esterno. Operazionalmente essa viene definita dal
comportamento di guardare gli altri al fine di ricevere suggerimenti quando si devono
affrontare problemi di una certa difficoltà;
5. motivazione di competenza. Ci si riferisce alla soddisfazione e alla percezione di
competenza che l'individuo prova nell'affrontare e risolvere compiti difficili; 6.
curiosità/creatività; 7. obbedienza.
Gli individui con ritardo mentale tendono a riportare punteggi inferiori nel livello di aspettativa
di successo, nella motivazione di competenza, nella curiosità/creatività e nell'obbedienza,
superiori nella tendenza alla reazione positiva e nella tendenza a lasciarsi guidare
all'esterno, non significativamente diversi nella tendenza alla reazione negativa.
Consideriamo infine il rischio psicopatologico. Per il ritardo mentale generico
risulterebbero percentuali di rischio psichiatrico molto alte, attorno al 35-40%. Queste
percentuali si riferiscono ad individui adulti, ma sono inferiori per i minori. Il rischio
psichiatrico aumenta quindi con il progredire dell’età cronologica, oltre che con la gravità del
ritardo mentale.

4. Presentazione di sindromi e di casi 4.1.


La sindrome di Down
La sindrome di Down è la causa cromosomica di ritardo mentale più diffusa. Essa interessa
tutte le etnie, sia maschi che femmine. L'incidenza dipende anche dall'età della madre.
Comunque, le nascite che riguardano la trisomia 21 sono molto meno numerose dei
concepimenti, dato che 3 casi su 4 si concludono con un aborto o con la nascita di un
bambino morto. La causa genetica della sindrome di Down è la presenza di un cromosoma
21 in più, cioè tre invece dei due soliti (di norma uno di derivazione materna e uno di
derivazione paterna).
A livello cromosomico si distinguono sottotipi diversi di sindrome:
• la trisomia piena  caratterizzata dal fatto che il cromosoma in più è in tutte le cellule
del corpo. Essa è presente nel 92-95% circa di tutti i bambini con sindrome di Down;
• la forma a mosaico  contraddistinta dal fatto che solo alcune cellule hanno un
cromosoma 21 in più  riguarda il 2-3% degli individui con sindrome di Down;
• la forma con traslocazione non bilanciata  un cromosoma o parte di esso è
attaccato a un altro cromosoma con carenza o eccesso di materiale genetico del
cromosoma 21  interessa il 35% dei casi con sindrome di Down. Alcuni di questi casi
sono familiari, cioè la traslocazione non è comparsa accidentalmente, ma è stata
trasmessa da un genitore asintomatico (cioè senza sintomi) con una traslocazione
bilanciata (cioè senza effetti negativi significativi);
• ulteriori forme rare, in cui è sempre coinvolto il cromosoma 21, sono dovute a
differenze cromosomiche come un cromosoma 21 a forma di anello o la presenza di una
parte in più di un terzo cromosoma 21 (trisomia 21 parziale).
Il tono muscolare del neonato con sindrome di Down è caratterizzato, di norma da
«rilassatezza». Le tappe fondamentali dello sviluppo motorio vengono raggiunte in ritardo.
La sindrome di Down comporta anche vari rischi in termini di salute. Difetti cardiaci congeniti
sono ad esempio presenti in circa un individuo su due. Molta attenzione deve essere
dedicata al controllo regolare della vista, dell'udito, del funzionamento tiroideo, dei denti.

139
Tipico della sindrome di Down è un precoce invecchiamento e un rischio di demenza più
alto rispetto alla popolazione normale. Causa di questa demenza è spesso il morbo di
Alzheimer. Tuttavia, rispetto al passato, le aspettative di vita dell'individuo con sindrome di
Down sono aumentate e si è passati dai 10 ai 60 anni circa. Tale aumento è dovuto ad un
miglioramento della qualità della vita a tutti i livelli. Cruciale è il fatto che attualmente si
intervenga molto di più per eliminare o ridurre i difetti cardiaci. La quasi totalità delle persone
con sindrome di Down viene valutata nei test di intelligenza con un QI inferiore a 70.
Spesso le capacità linguistiche sono inferiori al livello intellettivo e presentano un profilo
disomogeneo. Di norma la produzione è inferiore alla comprensione e alla pragmatica e il
lessico tende a essere migliore della fonologia, della morfologia e della sintassi.
In generale vengono segnalati comportamenti psicopatologici nel 15% circa dei minori e nel
25% circa degli adulti con sindrome di Down  i disturbi più frequenti in età minore sono:
disturbo da deficit di attenzione con o senza iperattività e comportamenti oppositivi e
provocatori. Con l'età adulta sono possibili disturbi depressivi che comparirebbero in circa
un individuo su 12, associati a passività, apatia, mutismo.

4.2. La sindrome di X fragile


La sindrome di X fragile è la più comune causa ereditaria di ritardo mentale. La causa di
questa sindrome è un singolo gene presente nel cromosoma X. Di norma questo gene
contiene una sequenza, ripetuta fra 6 e 50 volte, di trinucleotidi CGG (citosina guanina
guanina) e produce una proteina importante per lo sviluppo cerebrale. Nel caso in cui tali
ripetizioni siano tra 50 e 200 le persone non evidenziano particolari disturbi, ma sono
portatori sani e possono quindi trasmettere tale premutazione ai loro figli. Poiché il disturbo
riguarda il cromosoma X, i maschi (che hanno un solo cromosoma X) risentono
maggiormente dell'anomalia cromosomica: i casi di ritardo mentale sono circa 2 maschi per
ogni femmina. Le madri possono trasmetterla sia ai figli maschi che alle figlie femmine,
mentre i padri possono trasmetterla solo alle femmine.
A livello genetico il ritardo mentale nella sindrome di X fragile è dovuto all'ereditarietà
materna e non a quella paterna. Del problema vengono investiti non solo i genitori, ma
anche altri familiari: i fratelli della persona con X fragile, i fratelli dei genitori o i cugini, ecc.
in quanto possibili portatori sani. Da un punto di vista psicologico, è necessario aiutare la
madre a gestire eventuali sensi di colpa e purtroppo anche i sentimenti del coniuge - o dei
suoceri o di altri familiari – che potrebbe ritenerla responsabile dei problemi del figlio.
Dal punto di vista fisico le persone con X fragile non sono riconoscibili come quelle con
sindrome di Down. Il fatto che i maschi possano avere i testicoli di volume superiore alla
norma (circa il doppio) non è di visibilità pubblica. La tendenza a un viso lungo e stretto,
orecchie prominenti sono caratteristiche non molto evidenti e non tipiche solo della
sindrome. Dal punto di vista cognitivo, la variabilità è notevole non solo nel confronto fra
maschi e femmine che ne risultano meno danneggiate, ma anche tra i maschi stessi. Pur in
un contesto caratterizzato da variabilità notevole, si sta comunque cerca-do di definire un
particolare profilo cognitivo tipico della sindrome. Esso sarebbe caratterizzato da prestazioni
migliori in prove che implicano elaborazione simultanea piuttosto che elaborazione
sequenziale, nei compiti di memoria a lungo termine piuttosto che in quelli a breve termine,
negli apprendimenti di abitudini piuttosto che in quelli richiedenti adattamenti nuovi. Cruciale
in tutto ciò sembra il ruolo che può giocare la capacità di attenzione intensa e prolungata:
negli individui con sindrome di X fragile risultano deficitari numerosi aspetti dell'attenzione
e di altre funzioni esecutive. Tale deficit è stato rilevato a qualsiasi età sia nei maschi che

140
nelle femmine. Come nel caso della sindrome di Down, anche per la sindrome di X fragile
la traiettoria del QI è discendente, nel senso che con il passare dell'età esso diminuisce. Il
fenotipo comportamentale sembra inoltre caratterizzato da timidezza e ritrosia nei rapporti
sociali. In casi gravi la sindrome è associata anche ad autismo.

4.3. La sindrome di Williams


La causa genetica della sindrome di Williams è una micro-delezione nel braccio lungo di
uno dei due cromosomi 7, Ne è coinvolto anche il gene che produce l’elastina = una proteina
che dà elasticità e forza alle pareti degli organi, ai tessuti della pelle, ai vasi sanguigni, alle
artetie. Molteplici sono gli effetti negativi a livello medico e fisico: invecchiamento precoce
della pelle, possibili ernie, coliche, strabismo, ipersensibilità al suono, otite media cronica o
infezioni alle orecchie, ecc. Oltre al gene dell'elastina, mancano altri 12 geni, di cui non è
chiara la funzione.
Livelli, traiettorie e profili cognitivi della sindrome di Williams risultano più chiari se
confrontati con quelli tipici della sindrome di Down.
• I livelli di intelligenza generale sono in media un po' superiori rispetto a quelli tipici
della sindrome di Down. I dati a disposizione non confermano una discesa dei QI dai
primi anni di vita al periodo adolescenziale e giovanile.
• Il profilo cognitivo è innanzitutto caratterizzato da discrepanza fra prestazioni
verbali (migliori) e prestazioni non verbali (inferiori). Si tratta di un dato speculare
rispetto alla sindrome di Down (in cui sono di norma peggiori le prestazioni verbali).
• Particolarmente deficitarie spesso risultano le prestazioni a livello visuospaziale.
• Il linguaggio tende ad avere caratteristiche particolari anche a livello qualitativo. Ad
esempio sono molto più utilizzate parole non comuni (che appaiono come
«raffinate») rispetto ai bambini di pari età mentale e compare una tendenza ad
esprimersi con narrazioni colorite (come si fa quando si «recita» in qualità di attori e
si desidera sorprendere chi ascolta).
• La socialità è caratterizzata da estroversione e in particolare da disinibizione negli
approcci con l'estraneo. Sotto questo aspetto sindrome di Williams e sindrome di X
fragile si contrappongono. I bambini con sindrome di Williams fanno più fatica a fare
amicizia, cioè a vivere e esprimere una socialità intensa, profonda e duratura.

4.4. Le sindromi di Angelman e di Prader-Willi


E’ opportuno presentare assieme due sindromi che dal punto di vista fenotipico sono
profondamente diverse, ma che hanno in comune una caratteristica genetica:
condividono la stessa delezione, che in un caso è nel cromosoma di derivazione materna
(sindrome di Angelman) e nell'altro nel cromosoma di origine paterna (sindrome di Prader-
Willi). Che si tratti della stessa delezione si è evidenziato dal fatto che in un caso di maternità
da parte di una donna con sindrome di Prader-Willi è nato un bambino con sindrome di
Angelman.
La sindrome di Angelman, comporta sempre o quasi sempre ritardo mentale grave. In
media anche dopo i 12-15 anni gli individui con questa sindrome non superano i 18 mesi di
età mentale, limitandosi all'uso dell'intelligenza senso-motoria. Il linguaggio verbale è quasi
assente. A parte la possibilità elevata di attacchi epilettici non sono di norma presenti
complicazioni mediche gravi. Tipico è un camminare rigido e un po' saltellante che ai primi
studiosi ha fatto pensare al movimento di un burattino. Il fenotipo comportamentale presenta

141
un comportamento sorprendente e non facile da spiegare: ogni tanto questi individui si
mettono a ridere.
Del tutto diverso è il quadro relativo alla sindrome di Prader-Willi. La delezione di una
parte del cromosoma 15 di origine paterna comporta effetti non confrontabili con quelli
riguardanti la sindrome di Angelman. Tipico è un ritardo mentale lieve. Non rare sono le
situazioni di funzionamento intellettivo limite. In definitiva si tratta della sindrome meno
compromessa intellettivamente fra quelle finora considerate. La caratteristica cruciale del
fenotipo comportamentale è l'iperfagia e cioè l'aver molto spesso fame. Per questa ragione
il programma di vita di questi individui è molto centrato sui problemi dell'alimentazione: come
limitare il mangiare. La sindrome si caratterizza anche per un profilo cognitivo tipico: QI di
performance superiore a quello verbale, processazione simultanea migliore di quella
sequenziale, prestazioni migliori nelle prove che coinvolgono la memoria a lungo termine
rispetto a quelle che interessano la memoria a breve termine.
Come nelle sindromi di Williams (per il riconoscimento di volti) e di Angelman (per gli scoppi
di ilarità) anche in questo caso la letteratura segnala un dato particolare: la bravura nella
soluzione dei puzzle. Anche sul piano sociale e comportamentale vi sono delle tipicità tra
cui irritabilità, ostinatezza, impulsività, compulsività.

4.5. Caratteristiche peculiari di altre sindromi


Il ritardo tende ad essere molto spesso grave: oltre alla sindrome di Angelman, citiamo le
sindromi 5p- di Rett e di Patau. In alcune la variabilità è veramente notevole, come nella
sindrome di Cornelia de Lange con presenza anche non rara sia di ritardi gravi che di
sviluppo normale. Varie sono le caratteristiche emotive, sociali e comportamentali dei vari
fenotipi. In alcuni casi il fenotipo comportamentale prevede anche aggressività verso gli altri
e verso se stessi; in altri è elevato il rischio di tratti autistici o di altri disturbi di tipo
psichiatrico.

Funzionamento intellettivo limite (slide)


- non è una sindrome, un disturbo mentale o una disabilità, ma il risultato finale di cause fra
loro diverse
- può essere definito come una sorta di “limbo” tra la normalità e la disabilità intellettiva; una
condizione di limite (Vianello et al., 2014)
- Ambito psicopedagogico: slow learner
- ICD-10: Segni che coinvolgono le funzioni cognitive (R41.83)
- DSM-5: Funzionamento intellettivo borderline
- Sintomi del profilo clinico
• difficoltà generalizzate a carico degli apprendimenti scolastici
• no discrepanza tra abilità verbale e non-verbale
• lentezza e affaticamento nell’affrontare compiti cognitivi − maggiore difficoltà
nell’affrontare compiti cognitivi

5. Funzionamento intellettivo limite


Molto scarsa è la ricerca sul funzionamento intellettivo limite (FIL). Si tratta di una specie
di «limbo» tra la normalità e il ritardo mentale. Anche il DSM-IV-TR vi dedica poche righe,
limitandosi a dire che questa diagnosi può essere formulata quando il QI è fra 71 e 84. Con

142
riferimento alla curva normale dovrebbero trovarsi in questa situazione molti individui: circa
il 13,6% (cioè un individuo su 7). Anche se non esplicitamente indicato dal DSM-IV-TR,
sembra opportuno che una diagnosi di FIL venga effettuata non solo con riferimento al
criterio del QI fra 71 e 84, ma anche con riferimento al criterio della presenza di difficoltà
di adattamento (utilizzando le stesse categorie del ritardo mentale) e dell'insorgenza prima
dei 18 anni. Va aggiunto che le casistiche con questo profilo possono avere etichettature
differenti («borderline cognitivo»), o anche diagnosi che mettono l'accento
sull'apprendimento («difficoltà» o «disturbo dell'apprendimento», «slow learner»,
«underachiever», «backward child») e quindi sulla sostanziale normalità del bambino (sia
pur associata a difficoltà scolastica) tale da permettergli una vita normale.
L'assimilazione dei casi con FIL alla famiglia dei disturbi dell'apprendimento si giustifica per
il fatto che comunque, a fianco di abilità adattive sufficienti, difficoltà scolastiche si
presentano e queste risultano non solo migliorabili, ma anche affrontabili con le stesse
metodologie applicate nei casi dei disturbi più specifici.
Come il ritardo mentale il funzionamento intellettivo limite non è una sindrome ma un
«risultato» finale di cause fra loro diverse. Nel caso del ritardo mentale si specifica che
non si tratta di semplici prestazioni cognitive basse, ma di prestazioni cognitive dovute a
processi patologici che comportano inadeguato funzionamento del sistema nervoso
centrale. In assenza di indicazioni relativamente al funzionamento intellettivo limite ci si può
chiedere se un tale criterio è opportuno anche in questo caso. La risposta non è semplice e
ha alla base un ragionamento di questo tipo: il ritardo mentale non è considerato una
situazione «normale» di funzionamento cognitivo basso, ma una situazione patologica
dovuta a cause diverse: un danno genetico o biologico di altro tipo, una grave carenza
ambientale, etc. In altre parole non ci si limita a sottolineare che l'intelligenza si distribuisce
in diversa intensità nella popolazione (e la curva normale rappresenterebbe questa
distribuzione), ma si ipotizza una qualche influenza patologica sul funzionamento del
sistema nervoso centrale. È opportuno utilizzare questo criterio anche per il
funzionamento intellettivo limite? In questo caso esso non è appropriato e eventualmente si
può distinguere fra vari tipi di funzionamento intellettivo limite, tra cui uno che potremmo
definire «normale», nel senso di non dovuto a processi patologici.

5.1. Funzionamento intellettivo limite non dovuto a processi patologici biologici


o a svantaggio socioculturale
Nessuna persona di buon senso dubita del fatto che un bambino nato da due persone
particolarmente intelligenti abbia maggiori probabilità di «ereditare» un buon livello di
intelligenza. Analogamente si può pensare il contrario. In questo secondo caso possiamo
avere situazioni «naturali» di funzionamento intellettivo limite (es. pagina 215-216)

5.2. Funzionamento intellettivo limite dovuto a svantaggio socioculturale


In alcuni casi è evidente che la causa del funzionamento intellettivo limite è un significativo
svantaggio socioculturale (s. pagina 216). In questo caso sono soddisfatti i tre criteri proposti
per una diagnosi di funzionamento intellettivo limite (QI circa fra 71 e 84, alcune carenze di
adattamento, insorgenza prima dei 18 anni). Nella formulazione della diagnosi funzionale è
tuttavia essenziale evidenziare che il fattore che maggiormente influisce sulla situazione del
ragazzo è lo svantaggio socioculturale. Talvolta questi casi sono caratterizzati da una
traiettoria discendente del QI nella norma nei primi anni di vita e a livello di funzionamento
limite successivamente. In alcuni casi si può anche avere nella tarda adolescenza o nell'età

143
giovanile e adulta un ulteriore abbassamento del QI e una diagnosi di ritardo mentale lieve.
Con il passare del tempo le carenze ambientali hanno agito negativamente e in parte ridotto
le potenzialità. Ma fino a che punto? Adeguati interventi educativi e scolastici potrebbero
farle ancora emergere almeno parzialmente? Questa è la domanda cruciale da porsi nei
casi di funzionamento intellettivo limite a causa di svantaggio socioculturale.

5.3. Funzionamento intellettivo limite e disturbi specifici di apprendimento


Consideriamo un caso esemplificativo di una fra le varie possibili interazioni fra disturbi
specifici di apprendimento e prestazioni a livello di funzionamento intellettivo limite.
Beatrice ha 9 anni e frequenta la quarta elementare. Gli insegnanti sono molto preoccupati
per il suo rendimento scolastico e in particolare per le difficoltà in lettura e scrittura e hanno
perciò consigliato ai genitori di portarla dagli operatori della AUSL per una «visita». Dal test
WISC risulta un QI globale di 76, con un QI verbale di 74 e un QI di performance di 81.
Ulteriori analisi hanno evidenziato difficoltà notevoli a livello di lettura.
Quale diagnosi è opportuna per Beatrice? Una risposta è possibile solo approfondendo
ulteriormente il caso e comprendendo in che misura un livello intellettivo basso possa aver
influito sulla difficoltà di apprendimento o viceversa una difficoltà scolastica possa aver
indotto uno stato motivazionale tale da deprimere addirittura tutte le prestazioni cognitive.
Una doppia diagnosi di disturbo specifico di apprendimento e di funzionamento intellettivo
limite sarebbe corretta, nel caso si ritenga che la difficoltà scolastica non è la semplice
conseguenza di un basso QI o viceversa le prestazioni intellettive non sono carenti a causa
dei riflessi indiretti del disturbo di apprendimento. Se una specificità di disturbo si ha quando
c'è una forte deviazione della prestazione del bambino da quella dei coetanei con le sue
stesse caratteristiche, dal punto di vista tecnico si dovrebbe confrontare la prestazione in
lettura di Beatrice con quella di bambini con lo stesso profilo intellettivo. In assenza di norme
di questo tipo, si potrebbe ipotizzare che tipicamente il profilo scolastico segue quello
intellettivo. In casi come quello di Beatrice, comunemente la pratica clinica invita a diagnosi
di disturbo di apprendimento e cioè a evitare la diagnosi di FIL in presenza di disturbi di
apprendimento, almeno nei primi dieci-dodici anni di vita. Questa scelta può essere
giustificata, oltre che dall'opportunità di non mettere l'accento sulle difficoltà intellettive
generali del bambino, anche su due motivazioni:
a. molto spesso il profilo di apprendimento e disomogeneo e quindi si deve mettere
l'accento sugli apprendimenti specificamente deficitari
b. ci sono evidenze del fatto che questi bambini presentano profili di apprendimento
comparabili e beneficiano delle stesse modalità di intervento idonee per case di
disturbo specifico.
Successivamente ai 10-12 anni, e maggiore è la probabilità che un impoverimento del
funzionamento cognitivo tenda a consolidarsi autori e quindi anche la diagnosi di
funzionamento intellettivo limite (es.
pag. 218)

5.3. Funzionamento intellettivo limite per sindrome genetica


Consideriamo altre quattro situazioni (pag. 218-219)

In questi quattro casi sembra appropriata la diagnosi di funzionamento intellettivo limite. In


particolare si può ritenere che le prestazioni siano dovute a un carente funzionamento del

144
sistema nervoso centrale per i deficit connessi con le sindromi genetiche che abbiamo
considerato. Può essere opportuno soffermarsi su Carolina. Essa soddisfa i tre criteri del
Funzionamento Cognitivo Limite: QI di 78, difficoltà nell’adattamento sociale e insorgenza
prima dei 18 anni. A causa di ciò le sue prestazioni scolastiche sono quelle tipiche dei
bambini di 6 anni più che di quelle dei bambini di 8. Si può sottolineare che queste
prestazioni sono coerenti con un QI di rapporto di 75. Possiamo ulteriormente evidenziare
che i deficit connessi alla sindrome non sono omogenei, ma danno luogo a un profilo con
punti di forza (ad esempio nella comunicazione) e punti di debolezza (nel vocabolario
ricettivo, nella produzione linguistica e nella memoria di lavoro). Carolina ha avuto la fortuna
di essere ben seguita sia da un punto di vista educativo, che scolastico e abilitativo. Nel
caso opposto (cioè se Carolina fosse vissuta in un ambiente impoverito) avremmo avuto un
quadro diverso.

A conclusione di questo paragrafo sul FIL possiamo chiederci se in Italia gli individui con
funzionamento intellettivo limite siano normalmente individuati come allievi in situazione di
handicap (seguiti anche dall'insegnante di sostegno). Non esiste una risposta chiara a
questa domanda, poiché dati chiari sull'argomento non sono disponibili. Di norma gli
operatori delle AUSL, di fronte a un profilo di funzionamento intellettivo limite non
ulteriormente compromesso da altre comorbilità, tendono a considerare questi allievi «nei
limiti della norma» e a includerli nella voce «Altri disturbi cognitivi» o più specificamente
all'interno dei disturbi dell'apprendimento. Questo almeno finché essi frequentano la scuola
dell'infanzia e quella primaria. La situazione può modificarsi con la frequenza della scuola
secondaria. Di fronte alla constatazione di effettive difficoltà scolastiche e alle richieste della
scuola di un insegnante di sostegno può esserci l'individuazione di nuove situazioni di
handicap. Queste nuove individuazioni possono spiegare anche perché la percentuale di
allievi in situazione di handicap nella scuola secondaria di primo grado sia maggiore rispetto
a quella della scuola primaria. Le norme ministeriali sono vaghe e in movimento e non
definiscono in modo preciso quale debba essere il livello di gravità di una patologia per
l'individuazione della situazione di handicap ai fini del sostegno scolastico. La prassi italiana
è di conseguenza in evoluzione e disomogenea.
Direttiva ministeriale 27/12/2012 -BES
“ … il funzionamento intellettivo limite può essere considerato un caso di confine fra la
disabilità e il disturbo specifico.” “Anche gli alunni con potenziali intellettivi non ottimali,
descritti generalmente con le espressioni di funzionamento cognitivo (intellettivo) limite (o
borderline), ma anche con altre espressioni (per es. disturbo evolutivo specifico misto,
codice F83) e specifiche differenziazioni- qualora non rientrino nelle previsioni delle leggi
104 o 170 – richiedono particolare considerazione […] Si tratta di bambini o ragazzi il cui
QI globale (quoziente intellettivo) risponde a una misura che va dai 70 agli 85 punti e non
presenta elementi di specificità. Per alcuni di loro il ritardo è legato a fattori neurobiologici
ed è frequentemente in comorbilità con altri disturbi. Per altri, si tratta soltanto di una forma
lieve di difficoltà tale per cui, se adeguatamente sostenuti e indirizzati verso i percorsi
scolastici più consoni alle loro caratteristiche, gli interessati potranno avere una vita
normale. Gli interventi educativi e didattici hanno come sempre ed anche in questi casi
un’importanza fondamentale.” “Anche gli alunni con potenziali intellettivi non ottimali,
descritti generalmente con le espressioni di funzionamento cognitivo (intellettivo) limite (o
borderline) […] Si può stimare che questi casi si aggirino intorno al 2,5% dell’intera
popolazione scolastica.

145
6. Interventi educativi e abilitativi
Per un- buona abilitazione cognitiva sono cruciali una diagnosi precoce e una articolata
valutazione dei vari aspetti dello sviluppo cognitivo, associata con programmi di
intervento mirati, cioè adeguati al profilo cognitivo individuale. L'intervento abilitativo non
può comunque esaurirsi nei primi anni di vita, ma deve continuare fino ai 18-20 anni. Con il
passare degli anni nel campo abilitativo è emersa sempre più l'importanza di un
coinvolgimento attivo sia del bambino che suoi familiari. Nel campo dell'intervento cognitivo
sul ritardo mentale sono state avanzate numerose proposte nate tanto dalla tradizione della
pedagogia speciale, quanto dall'analisi cognitiva dei profili tipici.
Per esempio, gli ambiti delle strategie e della metacognizione sono spesso carenti nelle
persone con ritardo mentale, anche a causa della passività e della scarsa propensione
all'introspezione di molti di loro, e tuttavia migliorano col trattamento. Alcune ricerche si sono
focalizzate sulla capacità dei bambini e dei ragazzi con ritardo mentale di apprendere e
sfruttare con successo specifiche strategie di memoria, altre si sono focalizzate sulle abilità
visuomotorie, percettive, attentive, linguistiche, di ragionamento. Sul piano della
promozione delle abilità cognitive hanno avuto particolare influenza programmi più a largo
spettro e fra essi il metodo Feuerstein  è possibile trovare una chiara presentazioni dei
14 strumenti del Programma di arricchimento strumentale di Feuerstein i quali si
riferiscono ai seguenti aspetti: organizzazione di punti, orientamento spaziale, confronti,
percezione analitica, classificazione-categorizzazione, relazioni familiari, relazioni
temporali, progressione numerica, istruzioni, sillogismi, relazioni transitive, pochoirs
(riorganizzazione di figure), illustrazioni. Le più recenti ricerche condotte hanno evidenziato
che anche training di breve durata (10 incontri di circa 30 minuti) possono produrre risultati
significativi sulle metacognizioni, sull'uso delle strategie e sulle effettive prestazioni di
memoria.
Per quanto concerne la promozione degli apprendimenti scolastici, tenendo conto dei
limiti di traguardi raggiungibili nella condizione di RM e della concomitante necessità di
portare l'individuo a raggiungere una sufficiente autonomia di vita, si è messo l'accento
sull'insegnamento di abilità funzionali di lettura, scrittura ove il bambino non è impegnato
nell'apprendimento di tutti i processi implicati, ma nell'acquisizione di quelli più funzionali al
suo adattamento. Es, per l’area della lettoscrittura si punterà al riconoscimento e alla
scrittura di parole critiche, per l'area della matematica all'uso del denaro e alla capacità di
calcoli semplici, ecc. Spesso questi obiettivi sono stati raggiunti con tecniche
d'insegnamento basate sulla ripetizione, con risultati efficaci.

146
Relativamente alle aree delle autonomie e delle abilità sociali sono opportuni interventi
volti all'acquisizione di abilità specifiche, come (per i più piccoli) tenersi puliti, lavarsi,
indossare indumenti di vestiario o (per i più grandi) cucinare, effettuare compere al
supermercato, ecc.
Le tecniche di intervento più studiate sono state di impostazione comportamentista con il
corredo di procedure tipiche della «behavior modification», quali shaping, fading, prompting,
modeling, apprendimento senza errori, programmi di rinforzo. Progressivamente si è però
riconosciuta l'importanza di un intervento più ampio, che tenga conto della globalità della
persona, del contesto familiare e ambientale, che permetta la partecipazione del minore
con disabilità intellettive alle attività ricreative, sportive e culturali presenti sul territorio.
Ovviamente non sono da trascurare gli aspetti motivazionali  molti individui con ritardo
mentale forniscono prestazioni inferiori rispetto a quanto prevedibile dalla loro età a causa
dell'influenza negativa di aspetti di personalità e motivazionali. È fondamentale cercare di
ridurre al minimo tale influenza negativa. Per favorire adeguate aspettative di successo è
cruciale l'offerta di compiti cognitivi all'altezza delle capacità dell'individuo, cioè tali da
portare a successo e non a fallimento e favorire un atteggiamento attivo, esplorativo,
curioso.
Recentemente Vianello ha evidenziato che oltre al deficit rispetto all'età mentale può esserci
un surplus rispetto all'età mentale. Questo avviene nei casi in cui i bambini e i ragazzi vivono
in un ambiente cognitivamente stimolante ed emotivamente rassicurante.
Una trattazione a parte si dovrebbe fare per le persone con ritardo mentale e disturbo
pervasivo dello sviluppo (autismo classico o altre forme). A livello abilitativo sono necessarie
sia tutte le competenze necessarie per le situazioni di ritardo mentale, che, in aggiunta,
quelle riguardanti la comunicazione.

STRUMENTI PRINCIPALI DI VALUTAZIONE IN AMBITO CLINICO (slide)


- Leiter III
- Scale Wechsler WISC-IV
- Griffiths III  Traduzione italiana e adattamento: Lanfranchi, Rea, Ferri e Vianello (2017)
• Basi dell’apprendimento (Scala A)
• Linguaggio e comunicazione (Scala B)
• Coordinazione oculo-manuale (Scala C)
• Personale-sociale-emotiva (Scala D)
• Grosso-motoria (Scala E)
- Vineland-II

147
CAPITOLO 10: “DISTURBO DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’”
1. Descrizione clinica e classificazione diagnostica
La sindrome di disturbo da deficit di attenzione iperattività (DDAI) (Attention
Deficit/Hyperactivity Disorder= ADHD) è stata clinicamente sistematizzata per descrivere
aspetti altamente diffusi e problematici che riguardano sia l'area dei comportamenti sia
l'area cognitiva, con pesanti ripercussioni sugli apprendimenti scolastici. Per quanto la
specificazione diagnostica della sindrome sia stata oggetto di polemiche e posizioni
contrastanti, le problematiche ad essa associate sono costantemente sotto gli occhi di tutti
(es. pag 223-224)
Il disturbo da deficit di attenzione e di iperattività (DDAt) è la più recente etichetta diagnostica
utilizzata per descrivere bambini che presentano problemi di attenzione, impulsività e
iperattività, in associazione con altri sintomi e in vari contesti (a casa e/o a scuola). I l DDAI
è uno dei disturbi psichiatrici infantili più diagnosticati nei paesi di area anglosassone, ma
che non viene riconosciuto completamente nella pratica clinica italiana. Per quanto le
problematiche illustrate siano ovviamente state sempre presenti, fino al 1902 la
documentazione clinica sul DDAI è praticamente inesistente. In quell'anno un medico
inglese, Still, pubblicò qualche osservazione su un gruppo di bambini. Da allora gli studi
sono aumentati con una crescita esponenziale, ma i contrasti sulla caratterizzazione del
disturbo sono rimasti vivi in tutto il mondo e specialmente in Italia. I contrasti sulla
caratterizzazione del disturbo sono vivi in tutto il mondo e specialmente in Italia  la
diagnosi prevalente era per i clinici italiani quella di «disturbo della personalità» e il
trattamento privilegiato era la psicoterapia a impostazione psicodinamica.
Dalla pubblicazione della terza edizione riveduta del DSM, il disturbo da deficit di attenzione
e di iperattività è diventata la sindrome infantile più studiata in tutto il mondo. L'ultima
descrizione nosografica del DDAI appartiene al DSM-IV-TR che ha ripreso le tematiche del
DSM-III, tra cui la suddivisione dei sintomi in disattenzione, iperattività e impulsività, e la
possibilità di individuare dei sottotipi.

148
Per la descrizione del
DDAI contenuta nel
DSM-IV-TR: riportiamo
la seguente tabella che è
da studiare (c’è anche
nelle slide)
Disattenzione  non è
causata da
atteggiamento di sfida o
da mancanza di
comprensione
− difficoltà a mantenere
l’attenzione per un
periodo di tempo
prolungato
− mancanza di
perseveranza
− disorganizzazione
Iperattività  si
manifesta specialmente
in momenti non
appropriati
− attività motoria
eccessiva e afinalistica
− eccessivo dimenarsi,
tamburellamenti delle
dita, eccessiva
loquacità
Impulsività  incapacità di inibire i comportamenti e difficoltà nel dilazionare la
gratificazione − agire senza riflettere
− non rispettare i turni né nelle conversazioni né nelle attività ludiche
− preferire compiti o giochi in cui si ottiene una ricompensa immediata
− espressione delle emozioni in maniera immediata, violenta

DSM-5: elementi di novità


1. Presenza di esempi dopo la descrizione dei sintomi allo scopo di facilitare la
diagnosi nelle diverse età
2. Il criterio che i sintomi si devono manifestare in almeno due contesti (criterio C del
DSM-IV) è stato rafforzato per «diversi» sintomi in ogni ambiente
3. Il criterio di insorgenza è stato cambiato da «i sintomi che hanno causato
compromissione erano presenti prima dei 7 anni» a «vari sintomi di disattenzione
o iperattività/impulsività erano presenti prima dei 12 anni»
4. L’indicazione del disturbo è stata arricchita da una descrizione che specifica
ulteriormente le caratteristiche dei sottotipi già presenti
5. È consentita una diagnosi in comorbidità con disturbo dello spettro autistico

149
6. Nella diagnosi per gli adulti è necessario sottolineare in modo più evidente la
compromissione
clinicamente significativa dell’ADHD

DSM-5: sintomi e criteri diagnostici


Specificare se: in remissione parziale  quando tutti i criteri sono stati precedentemente
soddisfatti, non tutti i criteri sono stati soddisfatti negli ultimi 6 mesi e i sintomi ancora causano
compromissione del funzionamento sociale, scolastico e lavorativo.
Specificare la gravità attuale:
• Lieve: sono presenti pochi sintomi oltre a quelli richiesti per porre la diagnosi e i sintomi
comportano solo compromissioni minori del funzionamento sociale o lavorativo
• Moderato: sono presenti sintomi o compromissione del funzionamento compresi tra “lievi” e
“gravi”
• Grave: sono presenti molti sintomi oltre a quelli richiesti per porre la diagnosi, o diversi
sintomi particolarmente gravi, o i sintomi comportano una marcata compromissione del
funzionamento sociale o lavorativo Specificare
• 314.01 (F90.2) Manifestazione combinata se sono soddisfatti entrambi i criteri A1
(disattenzione) e A2 (iperattività- impulsività) negli ultimi sei mesi
• 314.00 (F90.0) Manifestazione con disattenzione predominante se il criterio A1
(disattenzione) è soddisfatto, ma il criterio A2 (iperattività-impulsività) non è soddisfatto negli
ultimi sei mesi
• 313.01 (F90.1) Manifestazione con iperattività/impulsività predominanti se il criterio A2
(iperattività-impulsività) è soddisfatto, ma il criterio A1 (disattenzione) non è soddisfatto negli
ultimi sei mesi

Per poter diagnosticare un DDAI, un bambino deve presentare almeno 6 sintomi per un
minimo di sei mesi e in almeno due contesti; inoltre, è necessario che tali manifestazioni
siano presenti prima dei 7 anni di età e soprattutto che compromettano il rendimento
scolastico e/o sociale.
- se un bambino presenta esclusivamente 6 dei 9 sintomi di disattenzione, viene posta
diagnosi di DDAI — sottotipo disattento; s
- se presenta esclusivamente 6 dei 9 sintomi di iperattività-impulsività, allora viene
posta diagnosi di DDAI — sottotipo iperattivo-impulsivo;
- se il bambino presenta entrambe le problematiche, allora si pone diagnosi di DDAI
— sottotipo combinato.
Secondo le stime dell’Associazione degli Psichiatri Americani il DDAI è presente tra la
popolazione in età scolare in percentuali comprese tra il 3 e il 7%; con un rapporto
maschi/femmine che va da 4:1 a 9:1. I 18 sintomi presentati nel DSM-IV-TR sono gli stessi
contenuti nell'ICD-10 con l'unica differenza nell'item (f) della categoria iperattività-impulsività
(parla eccessivamente) che, secondo l'OMS, è una manifestazione di impulsività e non di
iperattività.
Ciò che differenzia chiaramente il DSM dall'ICD è il nome della sindrome:
- il DSM usa il termine disturbo da deficit di attenzione e di iperattività (DDAI) -
l'ICD utilizza l'espressione disturbo dell'attività e dell'attenzione.
Inoltre:
- per il DSM, il disturbo deve comparire prima dei 7 anni,

150
- per l’ICD è necessario riscontrare i primi sintomi a 3 anni.
Per l'ICD si ha una diagnosi se il paziente presenta almeno 6 sintomi di disattenzione, 3 di
iperattività e 1 di impulsività; inoltre, se il clinico constata poi la compresenza di
comportamenti aggressivi la diagnosi non è più DDAI ma sindrome ipercinetica della
condotta. L'ICD-10 tende infatti a non ammettere diagnosi associate (comorbilità), ma
descrive una specifica sindrome per ogni tipologia di paziente. Nel DSM invece i canoni
sono meno restrittivi rispetto a quelli dell'ICD e si formula una diagnosi di DDAI anche solo
se il paziente manifesta 6 sintomi di disattenzione o di iperattivitàimpulsività.
ICD-10: SINTOMI E CRITERI Descrizione
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività è caratterizzato da un pattern persistente (almeno 6
mesi) di disattenzione e/o iperattività-impulsività, con insorgenza durante il periodo dello sviluppo, in
genere da inizio infanzia a metà infanzia. Il grado di disattenzione e iperattività-impulsività è al di
fuori dei limiti della normale variazione prevista per età e livello di funzionamento intellettuale e
interferisce in modo significativo con il funzionamento accademico, lavorativo o sociale. La
disattenzione si riferisce a una significativa difficoltà nel sostenere l’attenzione su compiti che non
forniscono un alto livello di stimolazione o ricompense frequenti, distraibilità e problemi con
l’organizzazione. L’iperattività si riferisce all’eccessiva attività motoria e alle difficoltà nel rimanere
fermi, più evidenti in situazioni strutturate che richiedono un autocontrollo comportamentale.
L’impulsività è una tendenza ad agire in risposta a stimoli immediati, senza deliberazione o
considerazione dei rischi e delle conseguenze. L’equilibrio relativo e le manifestazioni specifiche
delle caratteristiche disattenti e iperattive-impulsive variano tra gli individui e possono cambiare nel
corso dello sviluppo.

Secondo quanto affermato nel DSM è possibile formulare diagnosi multiple: nel caso di un
bambino che, oltre ai sintomi del DDAI, presenti anche quelli del disturbo di condotta, la
diagnosi non sarà di sindrome ipercinetica della condotta, come sostenuto nell'ICD-10, ma
di DDAI associato a disturbo di condotta.
A seconda del manuale di riferimento, dunque, si formulano diagnosi diverse, e di
conseguenza si rilevano dati differenti relativamente alla diffusione del disturbo. Secondo il
DSM infatti i pazienti con DDAI sono circa il 5%, mentre secondo l'ICD-10 sono meno del
2%. Occorre però precisare che nel Nord America viene utilizzato quasi esclusivamente il
DSM, mentre in Europa, e in particolare in Italia, si è in generale più critici sui sistemi
diagnostici psichiatrici e si tende a usare anche l'ICD-10: questa prima importante
differenziazione è la causa principale del fatto che in Europa il disturbo viene riconosciuto
meno frequentemente che nel Nord America.

2. Aspetti evolutivi del DDAI


L'età media di insorgenza del disturbo da deficit di attenzione e di iperattività sarebbe
compresa tra i 3 e i 4 anni. Esistono comunque indicatori precoci della presenza di un
temperamento iperattivo e, al contrario, numerosi casi che presentano la sintomatologia del
DDAI verso i 6-7 anni, limite d'età stabilito rispettivamente dall'ICD-10 e dal DSM-IV per
poter porre diagnosi di DDAI.
Per quanto riguarda l'evoluzione del disturbo è necessario ricordare che esso si manifesta
secondo tempi e modalità differenti a seconda di una serie di variabili che mediano le

151
manifestazioni sintomatologiche. Tra queste ricordiamo: la qualità delle relazioni con e tra i
familiari, l'accettazione del bambino nel contesto scolastico, il profilo cognitivo generale e
intellettivo e la presenza di altri disturbi che, eventualmente, possono complicare il quadro
patologico. Le modificazioni evolutive del disturbo sono meglio comprensibili se teniamo
presente che le difficoltà sono maggiormente evidenti quando il bambino non riesce a
soddisfare le richieste dell'ambiente. Pertanto, in coincidenza di «scatti» di richieste
ambientali legati allo sviluppo, le problematiche diventano più evidenti: ad esempio in
coincidenza con l'ingresso nella scuola elementare, con l'aumento delle complessità dei
compiti, con le nuove richieste sociali durante la preadolescenza e adolescenza. Possiamo
suddividere l'evoluzione del DDAI in cinque fasi:
1) prima della nascita (si valutano i fattori di rischio di insorgenza del
disturbo)
2) i primi tre anni di vita
3) l'età della scuola materna
4) la scuola elementare
5) la preadolescenza
6)l'adolescenza.
Relativamente ai primi anni, spesso i genitori riferiscono che i bambini poi diagnosticati per
DDAI erano difficili sin dalla nascita (molto irritabili, inclini a un pianto inconsolabile,
facilmente frustrabili, con difficoltà di sonno e alimentazione) e in seguito sono risultati meno
sensibili alle ricompense e anche più difficili da educare, in quanto davano risposte
imprevedibili alle tecniche educative solitamente utilizzate per il controllo comportamentale.
Di conseguenza, l'impulsività e la bassa tolleranza alla frustrazione del bambino possono
generare effetti negativi sull'interazione con la madre, innescando un circolo vizioso che
porta a un'accentuazione dei sintomi.
Durante gli anni della scuola elementare, il bambino con DDAI è molto attivo e, sebbene
abbia un'intelligenza uguale a quella dei suoi coetanei, dimostra un comportamento poco
maturo rispetto all'età cronologica. A seconda della situazione, il comportamento del
bambino con DDAI appare più o meno problematico: nelle situazioni di gioco libero, non
mostra particolari difficoltà, mentre in contesti in cui si richiede il rispetto di regole egli viene
descritto come problematico e difficile da gestire. Gli insegnanti continuano a descrivere gli
alunni DDAI come immaturi rispetto ai loro coetanei, soprattutto dal punto di vista
comportamentale. Sia i genitori che gli insegnanti rimangono un po' sconcertati dall'enorme
variabilità delle loro prestazioni attentive: in classe non riescono a seguire la lezione per soli
cinque minuti, mentre completano con successo un videogame che dura anche mezz'ora.
Anche i problemi interpersonali, spesso già presenti durante l'età prescolare tendono ad
aumentare di gravità: questo probabilmente perché le interazioni positive con i compagni
richiedono sempre maggiori abilità sociali di comunicazione e di autocontrollo.
Con la crescita, l'iperattività tende a diminuire in termini di frequenza e intensità e può venire
parzialmente sostituita da «un'agitazione interiorizzata» che si manifesta soprattutto con
insofferenza, impazienza e continui cambi di attività o movimenti del corpo. Inoltre, con lo
sviluppo si possono generare dei tratti comportamentali che ostacolano ulteriormente il buon
inserimento del bambino nel suo ambiente sociale, come ad esempio: l'ostinazione, la
scarsa obbedienza alle regole, la prepotenza, la maggior labilità dell'umore, la scarsa
tolleranza alla frustrazione, gli scatti d'ira e la ridotta autostima. Durante la preadolescenza
il comportamento incontrollato e la disattenzione non consentono una facile acquisizione

152
delle abilità sociali: i ragazzi con DDAI infatti dimostrano scarsa capacità di mantenere
amicizie e risolvere i conflitti interpersonali.
Durante l'adolescenza, si osserva mediamente una lieve attenuazione della sintomatologia,
ma ciò non significa che il problema sia risolto, in quanto spesso si riscontrano anche altri
disturbi mentali, come ad esempio depressione, condotta antisociale o ansia.
In adolescenza, i problemi di identità, di accettazione nel gruppo e di sviluppo fisico sono
problematiche che non sempre riescono a essere affrontate da un ragazzo con DDAI. Gli
inevitabili insuccessi possono determinare problemi di autostima, scarsa fiducia in se stessi,
o addirittura ansia o depressione.
II DDAI si mantiene anche in età adulta. Con la diffusione mediatica del DDAI è probabile
che numerosi adulti tendano ad autodiagnosticarsi il DDAI  quindi gli psichiatri e psicologi
degli adulti devono essere preparati per gestire le richieste di diagnosi e terapie. Per quanto
riguarda le autosegnalazioni, molto spesso gli adulti riportano stati d'ansia, confusione
generalizzata, alterazioni dell'umore e difficoltà interpersonali. Il clinico deve essere
consapevole che il DDAI in età adulta si può confondere con il disturbo bipolare, ma
quest'ultimo caso è caratterizzato dalla presenza di episodi maniacali discreti. Nel caso di
un DDAI il diagnosta deve necessariamente ricostruire la storia di sviluppo in cui è
necessario riscontrare chiaramente la presenza di sintomi del DDAI prima dei 7 anni. Data
la maggior complessità della diagnosi in età adulta, prima di concludere per la presenza di
un DDAI bisogna sottoporre il paziente ad accurati test medici di laboratorio per escludere
che alcune condizioni metaboliche possano mimare il DDAI (ipertiroidismo, carenze
vitaminiche, reazioni ad alcuni farmaci). Per l'esame può essere di estrema utilità l'utilizzo
dei questionari di Brown e di scale di valutazione per ottenere informazioni sul
funzionamento cognitivo-neuropsicologico.
Il DDAI non è una condizione di disagio che alcuni bambini manifestano e che si risolve con
la crescita. Dal punto di vista terapeutico alcuni studi americani hanno riscontrato che il
farmaco metilfenidato produce un effetto positivo nel 78% degli adulti con DDAI. Per quanto
riguarda l'intervento psicologico è di sicura utilità un lavoro centrato sulle strategie di
problem-solving. Un'adeguata terapia dovrebbe aiutare anche il paziente adulto a diventare
più consapevole delle proprie difficoltà, cercando di favorire una migliore autoregolazione
emotiva e comportamentale.

153
Procedura diagnostica
1. Raccolta di informazioni da fonti multiple (genitori,
insegnanti, educatori), utilizzando interviste semi -strutturate
e/o questionari standardizzati sui diversi aspetti del
comportamento e del funzionamento sociale del bambino
2. Intervista al bambino stesso per indagare il livello di
consapevolezza delle proprie difficoltà ed i vissuti ad esso
associati
3. Valutazione neuropsicologica e possibilmente una
valutazione degli apprendimenti
4. Osservazione
possibilmente in un contesto familiare per il bambino, ad
esempio casa o scuola
clinica strutturata o
semistrutturata,

Il problema della comorbilità


Gli studi sono concordi nell'indicare che almeno il 70% dei bambini con DDAI presenta un
disturbo associato. Da questa osservazione ne consegue che il quadro clinico dei bambini
con DDAI è eterogeneo e poco definito. Da un lato si osserva che i caratteri nucleari del
disturbo (disattenzione, iperattività, impulsività) sono sufficientemente definiti, dall'altro si
constata che aspetti come le difficoltà di controllo comportamentale ed emotivo, le difficoltà
relazionali, la compromissione del funzionamento scolastico non si presentano in modo
ricorrente e regolare, per cui è difficile stabilire quanto questi aspetti facciano parte
integrante della sindrome oppure si possano associare per ragioni tuttora difficili da
comprendere. Innanzitutto, bisogna distinguere un vero e proprio disturbo associato al
DDAI, dalla presenza di altri sintomi, diversi da quelli elencati nei manuali diagnostici per il
DDAI, che non giustificano la formulazione di ulteriori diagnosi associate. È necessario
distinguere diverse categorie di disturbi che si possono presentare insieme al DDAI oppure
che possono mascherare un disturbo diverso dal DDAI, in base ai sintomi associati e in
base all'età del bambino. In età prescolare è frequente riscontrare bambini con
comportamenti poco regolati a causa di un ritardo maturativo, per esempio di coordinazione
motoria o di linguaggio e tali manifestazioni possono indurre insegnanti o genitori a pensare

154
che si tratti di DDAI. In questo caso, per riuscire a chiarire con maggior sicurezza il quadro
diagnostico è necessario attendere fino a circa 7 anni, dopo diversi mesi dall'ingresso alle
scuole elementari, al fine di verificare se una successiva maturazione della coordinazione
motoria e dei processi linguistici è in grado di ridurre il livello di iperattività manifestato negli
anni precedenti.
Con riferimento ai sistemi diagnostici più diffusi, le comorbilità più frequenti con il DDAI:
• sono i disturbi da comportamento dirompente (disturbo oppositivo provocatorio —
DOP e disturbo della condotta — DC)
• i disturbi specifici di apprendimento
• il ritardo mentale
• i disturbi della sfera emotiva (disturbi d'ansia, disturbi dell'umore e disturbi bipolari).

Da un punto di vista clinico risulta


piuttosto complesso discriminare se le
caratteristiche di un bambino iperattivo
possono essere riconducibili a un DDAI,
a un altro disturbo oppure alla comorbilità
tra DDAI e un altro disturbo. A seconda
dei manuali diagnostici sono ammesse
diverse comorbilità: l'ICD non ammette, a
differenza del DSM, la coesistenza di
disturbi ansiosi e/o dell'umore col disturbo
dell'attenzione e del movimento. Il tema
della comorbilità è legato alla scelta di
ricondurre le problematiche del bambino a ben precise e distinguibili categorie diagnostiche.
Questa
impostazione semplificata è utile nella pratica clinica, ma si espone alle considerazioni
critiche messe in luce da molte teorie moderne della personalità che ritengono che
l'individuo debba essere considerato per la compresenza di una serie di dimensioni, alcune
delle quali possono aver dei valori particolarmente alterati.

3.1. Disturbi da comportamento dirompente


Le percentuali di comorbilità nei DDAI Possono raggiungere il 40-50% per quanto riguarda
i disturbi oppositivi provocatori e «scendere» fino al 10-15% per i disturbi della condotta.
Per stabilire una comorbilità con un disturbo da comportamento dirompente è necessario
osservare le caratteristiche di ostilità, provocatorietà e aggressività tipiche di questi disturbi.
È opportuno porre notevole attenzione allo stile educativo dei genitori e all'ambiente
familiare del bambino in quanto questi rappresentano importanti predittori dei disturbi di
condotta.
Il disturbo DDAI + DC descrive un quadro sindromico differente rispetto al DDAI, sotto molti
punti di vista, tali da giustificare la possibilità di creare un’entità diagnostica diversa, come
in effetti propone l'ICD (sindrome ipercinetica della condotta).
Rispetto ai bambini con DDAI, quelli con DDAI + DC sono più frequentemente maschi, sono
maggiormente esposti a incidenti stradali, ad abuso di sostanze, a comportamenti devianti,
a drop-out scolastici, vengono da famiglie con maggiori conflitti e aggressività espressa,

155
presentano deficit neuropsicologici più severi e manifestano una risposta al trattamento con
metilfenidato di grado inferiore.

3.2. Disturbi specifici di apprendimento  45%

ADHD e dislessia
- alta comorbilità
- il solo processo esecutivo che differenzia i due gruppi è la pianificazione
- condividono un’eziologia biologica comune che è basata su una predisposizione genetica di
entrambi i disordini. Esistono specifici alleli che possono essere associati con un rischio
crescente per entrambi di ADHD e dislessia
ADHD e problemi di scrittura
- qualità inferiore di grafismo
- minore correttezza ortografica
- difficoltà nell’espressione scritta  funzioni esecutive, quali pianificazione, memoria di
lavoro, organizzazione
ADHD e problemi in matematica
- − difficoltà nel mantenere l’attenzione su stimoli ripetitivi  raggiungono stati di
«abituazione» agli stimoli più rapidamente dei coetanei difficoltà apprendimento
automatismi (fatti aritmetici)
- − compromissione memoria di lavoro  ridotta capacità di problem solving aritmetico
ADHD e disturbo non-verbale
La quasi totalità dei bambini con ADHD presenta qualche forma di difficoltà scolastica, sia pur con
profili diversi. In taluni casi sembra esserci una vera e propria concomitanza di due problematiche
distinte (per esempio dislessia e ADHD). In altri casi un problema sottostante unico, come per
esempio difficoltà di controllo dell’informazione irrilevante o di pianificazione.

Circa il 30% dei maschi con DDAI presenterebbe anche un disturbo specifico
dell'apprendimento (DSA), mentre le femmine con DDAI e DSA sarebbero circa il 10%.
Tuttavia, la quasi totalità dei bambini DDAI presenta qualche forma di difficoltà scolastica,
sia pur con profili diversi. In taluni casi sembra esserci una vera e propria concomitanza di
due problematiche distinte (per esempio dislessia e DDAI).
In altri casi un problema sottostante unico, come per esempio la difficoltà di controllo
dell'informazione irrilevante o di pianificazione, produce tanto i sintomi del DDAI quanto una
difficoltà scolastica, per esempio rinvenibile nella soluzione di problemi o nello svolgimento
di un problema scritto.
In altri casi un profilo sembra influenzare l'altro, come accade per l'enfatizzazione delle
difficoltà scolastiche dovuta all'incapacità di sintonizzarsi con il lavoro della classe o
viceversa per la enfatizzazione di tratti DDAI dovuta alla perdita di motivazione e raccordo
con il lavoro della classe conseguenti a oggettive difficoltà.
Sia per i DSA che per i Disturbi da Comportamento Dirompente l'età in cui il bambino viene
sottoposto alla valutazione clinica può complicare o facilitare il processo decisionale di tipo
diagnostico. Se verso i 10 anni si riscontra la compresenza di DDAI e DSA è necessario
effettuare un'accurata ricostruzione dello sviluppo del bambino per verificare l'esistenza di
caratteristiche di DDAI prima dell'apprendimento della lingua scritta. Nel caso in cui il

156
bambino non presentasse i sintomi DDAI alla scuola materna non è possibile formulare una
diagnosi di DDAI in età successive; parimenti se un bambino non manifesta una difficoltà di
apprendimento sin dalle prime fasi della scolarizzazione può trattarsi di un ritardo di
apprendimento conseguente a un profilo DDAI.
La presenza di un DSA associato al DDAI sarebbe legata a maggiori problematiche per
quanto riguarda le competenze mnestiche, visuomotorie, di controllo
comportamentale e di adattamento sociale. I bambini con DDAl+ dislessia, DDAI +
discalculia forniscono prestazioni peggiori in tutti i test neuropsicologici che indagano sia le
funzioni esecutive che nei test che non indagano tali funzioni. Tuttavia, secondo alcuni le
prestazioni cognitive del gruppo con DDAI + DSA sono più simili a quelle dei bambini con
DSA per cui il DDAI associato sarebbe un fenomeno secondario di un disturbo di
apprendimento. Altri autori ritengono invece che il gruppo con disturbo misto sia un sottotipo
del DDAI, con caratteristiche distinte rispetto al DDAI «puro». Relativamente al contesto
italiano, uno studio di Marzocchi ha riscontrato che i bambini con DDAI + DSA presentano
un quadro neuropsicologico diverso rispetto a quello dei bambini con DDAI-puro:
• il gruppo con DDAI + DSA, per quanto riguarda l'attenzione, ha prestazioni simili al
gruppo con DSA
• per quanto riguarda i processi di inibizione, ha prestazioni simili a quelle del gruppo
con DDAIpuro.
• I DDAI + DSA hanno inoltre una prestazione inferiore ai controlli per quanto riguarda
la denominazione rapida e la fluenza fonemica, mentre i DDAI-puri hanno un deficit
specifico nell'applicazione di strategie cognitive, in particolare di memoria.

3.3. Disturbi d'ansia


Circa il 25% dei casi con DDAI presenta anche disturbi d'ansia. L'associazione con i disturbi
d'ansia appare per certi versi complementare a quella con i disturbi da comportamento
dirompente. Infatti, i bambini con DDAI e disturbi d'ansia hanno una prevalente
compromissione attentiva, ma appaiono meno impulsivi, almeno sul piano
comportamentale. Inoltre, tali bambini presentano un minore rischio di evoluzione in senso
antisociale, compatibilmente con la qualità dell'ambiente di vita. Anche in questo caso è
opportuno mettere in guardia i clinici rispetto ai possibili errori diagnostici, legati alla
confusione tra comorbilità e diagnosi differenziale. Infatti, anche i disturbi d'ansia possono
presentarsi con sintomi di inattenzione, iperattività e impulsività. Se l'analisi clinica si limita
al riscontro dei sintomi nucleari e alla somministrazione di una rating scale, il rischio di un
errore diagnostico è notevole. Infatti, numerosi bambini con disturbi d'ansia presentano
frequentemente alcuni sintomi che possono erroneamente far pensare al DDAI, tra cui: stato
di tensione, irritabilità, distraibilirà e iperattività. Da un punto di vista terapeutico, lo studio
MTA ha dimostrato che i ragazzini con DDAI + ansia sono più sensibili al trattamento
psicosociale e rispondono come i DDAI-puri al trattamento farmacologico. Va aggiunto che
in età adolescenziale alcuni ragazzi con DDAI possono sviluppare dei tratti ansiosi a seguito
di una serie di fallimenti in ambito sociale e scolastico che li rendono insicuri rispetto alle
loro capacità e incerti sui risultati dei loro comportamenti: in questi casi non si tratta di una
vera comorbilità ma di una conseguenza del DDAI che interagisce con i tratti di personalità.

4. Disturbi dell'umore
La diagnosi di comorbilità tra depressione e DDAI è stata spesso eccessivamente ampliata,
sebbene le stime più attendibili parlino di circa il 25%. La confusione è dovuta al fatto che

157
viene interpretata come depressione quella che in realtà è una demoralizzazione derivante
dalle esperienze vissute dai bambini con DDAI, come ad esempio difficoltà di rendimento
scolastico, rimproveri da genitori e insegnanti, emarginazione da parte dei coetanei,
insuccessi e solitudine. La difficoltà nel fare diagnosi differenziale deriva dal fatto che i
genitori riferiscono spesso, anche per i bambini con umore depresso, difficoltà di
concentrazione e iperattività. Nella storia naturale della comorbilità DDAI-depressione il
disturbo a esordio più precoce è il DDAI, mentre la depressione si sviluppa
successivamente, nell'età scolare o in adolescenza. La prognosi del disturbo depressivo
quando è associato a DDAI sembra essere indipendente da quest'ultimo, nel senso che il
quadro depressivo può persistere e aggravarsi anche in quelle condizioni nelle quali il DDAI
va incontro in adolescenza a un miglioramento clinico e funzionale.

5. Le cause del disturbo e i modelli neurocognitivi


Fino alla fine del secolo scorso si cercava una singola causa biologica del DDAI, sperando
quasi di riuscire a individuare il gene del disturbo. Di fatto la genetica molecolare aveva
cercato di analizzare le espressioni di alcuni geni candidati nei bambini con DDAI per
verificare se alcune caratteristiche fossero in grado di differenziarli rispetto al resto della
popolazione. Sono state trovate numerose evidenze sul coinvolgimento dei geni che
controllano il funzionamento dei recettori e del trasportatore del circuito della dopamina.
Inoltre, sono stati ottenuti risultati interessanti su geni che controllano il funzionamento del
circuito noradrenergico e di diversi enzimi e proteine. Nessuno di questi risultati è riuscito a
convincere i ricercatori che esistano uno o pochi geni coinvolti nella genesi del DDAI. Molto
probabilmente una certa vulnerabilità genetica può rappresentare quel substrato biologico
in cui le esperienze educative e ambientali possono causare il DDAI. Da un punto di vista
neuro-anatomico gli studi di brain imaging affermano che, a livello di gruppo, i bambini con
DDAI presentano inferiori livelli di attività cerebrale.
Fino agli anni '90 i modelli neuropsicologici maggiormente condivisi dai ricercatori erano
quelli di Sergeant, Barkley e Swanson.
Sergeant ha proposto il cosiddetto modello energetico-cognitivo che prevede tre livelli di
elaborazione dell'informazione:
1) quello sovraordinato coordina le azioni ed è la sede delle funzioni esecutive
2) Il secondo livello è quello prettamente energetico in cui viene proposta l'esistenza di
tre tipi di «risorse», di cui il primo è l’effort che controlla gli altri due: l'arousal e
l’activation. - l'arousal, è definito come l'energia necessaria per fornire risposte rapide
- l'activation è l'energia necessaria per mantenere la vigilanza.
3) Il terzo livello di elaborazione delle informazioni è costituito da tre sistemi:
- decodifica
- processazione
- risposta motoria.
Il modello di Sergeant prevede che i bambini o DDAI abbiano un deficit a carico della
componente di attivazione che determina una compromissione a livello di esecuzione
motoria; mentre risulta intatto il circuito arousal-decodifica. Secondo Sergeant, i bambini
con DDAI presentano un deficit a carico della componente di controllo superiore, cioè delle
Funzioni Esecutive.

158
Nel 1997, Barklev ha proposto il cosiddetto modello ibrido, specifico per il disturbo da
deficit di attenzione e di iperattività, secondo il quale il problema centrale di questi bambini
è un deficit di inibizione e delle funzioni esecutive. Barkley parla di una stretta somiglianza
delle prestazioni dei bambini con DDAI con quelle dei pazienti adulti con lesioni pre-frontali
e sostiene che il deficit inibitorio determina difficoltà a livello di memoria di lavoro,
autoregolazione di emozioni, motivazione e arousal, interiorizzazione del linguaggio e
analisi/sintesi degli eventi.
Un po' più articolata dal punto di vista neuropsicologico è la proposta di Swanson che, per
evidenziare i deficit del DDAI, riprende la proposta di Posner e Petersen basata sulla
specificazione di tre network che controllano i processi attentivi:
1.
esecuzione/contr
ollo;
2. mantenimento
dell'allerta;
3. orientamento.
Collegando queste diverse evidenze e utilizzando l'approccio delle neuroscienze, con il
nuovo millennio l'impostazione della ricerca sul DDAI ha visto un'importante virata verso il
tentativo di definire molteplici cause o meglio fattori di rischio.
Castellanos e Tannock hanno individuato
una serie di fattori di rischio
(ENDOFENOTIPI) che rendono un bambino
più vulnerabile all'insorgenza del DDAI.
Gli endofenotipi sono indici quantificabili ed
ereditabili geneticamente, che inducono una
maggiore probabilità di sviluppare una certa
patologia. Secondo Castellanos e Tannock
fenotipi per il DDAI riguardano:
1. l'iperattività motoria e i relativi
collegamenti neurobiologici con il sistema
dopaminergico
2. il deficit di inibizione delle risposte
impulsive;
3. la ridotta capacità di tollerare l’ansia
4. il deficit di analisi temporale;
5. le difficoltà riscontrate a livello di memoria di lavoro.
Ciò che accomuna questi modelli
neuropsicologici è la
constatazione che i processi cognitivi di tipo controllato (contrapposti a quelli di tipo
automatico) risultano essere maggiormente compromessi nei bambini con DDAI rispetto ai
controlli. Questi processi sono stati ricondotti dalla neuropsicologia alla nozione di «funzioni
esecutive». Alcuni ricercatori paragonano le funzioni esecutive al direttore d'orchestra il
quale coordina le produzioni dei vari musicisti, che, secondo la metafora, rappresentano i
processi cognitivi più «basilari» (percezione, motricità, memoria, attenzione). Le funzioni
esecutive non sono sinonimo di intelligenza. Questo circuito, da un punto di vista

159
neurobiologico, viene alimentato da alcuni neurotrasmettitori, soprattutto dopamina e
noradrenalina.
Un ulteriore sviluppo delle teorie che si basano sull'approccio delle neuroscienze lo si deve
a SonugaBarke il quale ha proposto il modello a due vie per il DDAI. Questo modello
concettualizza il DDAI come il punto di arrivo di due processi psicologici ed evolutivi
differenti e la composizione di due distinte vie.
- La «via dei pensieri e del comportamento deficitari» è caratterizzata da un
peculiare deficit del controllo inibitorio, che media due effetti dell'esito evolutivo e cioè
l'assenza di controllo comportamentale, e una significativa riduzione d'impegno posto nel
compito. L'assenza di controllo comportamentale media a sua volta la comparsa dei
sintomi del DDAI, mentre gli effetti riguardanti l'impegno posto nel compito sono supportati
dalle disfunzioni cognitive. Tali deficit cognitivi costituiscono il pattern classico delle
difficoltà che i soggetti DDAI Incontrano nei compiti che richiedono flessibilità a tenti va,
integre capacità di pianificazione e di auto monitoraggio comportamentale e una memoria
di lavoro intatta. Il DDAI sarebbe quindi il risultato delle alterazioni presenti nei circuiti
cerebrali di ordine superiore, deputati alla regolazione e al controllo: le regioni
principalmente coinvolte sarebbero quelle frontali e pre-frontali.
- La seconda via è quella dello stile motivazionale che fornisce un percorso
alternativo per lo sviluppo del DDAI. La scarsa tolleranza per l'attesa è definita come una
caratteristica che media il collegamento tra i sintomi comportamentali, l'impegno posto nel
compito e l'alterazione biologica del meccanismo di ricompensa. I bambini con DDAI non
conferiscono agli eventi futuri lo stesso valore dato dagli altri individui e questo fatto li porta
di conseguenza a preferire l'immediatezza (per esempio comportamenti impulsivi
influenzati dal contesto di scelta). Il DDAI-tipo combinato non è comunque riducibile alla
sola impulsività, benché essa ne sia un elemento chiave. Nel modello a due vie, il legame
tra i sintomi del DDAI e i meccanismi alterati di risposta sono mediati dall’intolleranza
dell'attesa, che aumenta col passare del tempo trascorso ad aspettare. Il diminuito
gradiente di attesa della ricompensa porta il bambino a fallire ripetutamente davanti alle
esigenze di attesa ed è esattamente a questo punto che un semplice meccanismo di
condizionamento gioca un ruolo di primaria importanza. Esso infatti spiega come i setting
caratterizzati da lunghe attese acquisiscono tonalità negative tramite l'associazione con le
emozioni spiacevoli. Anche le pratiche culturali rivestono un ruolo importante ed
esercitano un effetto moderatore su l'influenza gita dall' alterazione dei meccanismi di
ricompensa (spiegazione di questo modello pagg. 235-36-37)

160
c’è nelle slide

LE BASI BIOLOGICHE DELL’ADHD


Ereditabilità dei sintomi dovuta a fattori genetici si attesterebbe al 74%  per circa tre quarti della
varianza, le cause dell’ADHD dipendono da fattori genetici
Fattori prenatali non genetici
− uso da parte della madre di nicotina e di alcol durante la gravidanza
− basso peso alla nascita
Genetica molecolare
− metodo linkage: si identificano le aree dei cromosomi che contengono i geni coinvolti 
sistema dopaminergico
− metodo genoma-scan: risultati contraddittori
Basi neuroanatomiche: tecniche fMRI e DTI (permette di visualizzare i collegamenti tra i circuiti
neuronali tramite l’analisi delle molecole di acqua presenti nel cervello)
− regioni prefrontali (processi cognitivi), corpo striato (processi emotivi) e cervelletto
(regolazione meccanismi linguistici e motori)
− ridotto spessore materia grigia della corteccia −
lobi occipitali bilaterali

5. Procedure e strumenti di valutazione diagnostica


La diagnosi di DDAI è un processo molto complesso. Un primo problema è dovuto al fatto
che i bambini DDAI in un contesto eteroregolato, come il setting della valutazione. Riescono
a mantenere un comportamento controllato. Quindi è possibile che il clinico non riscontri i
comportamenti sintomatici che sono invece presenti nella vita quotidiana. Per questo motivo
i principali manuali diagnostici (DCM e ICD) per effettuare una diagnosi di DDAI richiedono
una valutazione di tipo comportamentale, ossia una rilevazione della presenza dei
sintomi in almeno due contesti di vita del bambino. Inoltre, non esistono strumenti di tipo
medico, quali ad esempio prelievi ematici, EEG, risonanza magnetica, né test
neuropsicologici in grado di accertare con sicurezza la presenza di un DDAI.

161
La diagnosi del disturbo richiede quindi in primo luogo il coinvolgimento delle persone che
seguono il bambino nei suoi principali contesti di vita (famiglia e scuola), ossia i genitori e
gli insegnanti, che sono le principali fonti di informazioni per un clinico. Di solito il
procedimento diagnostico prevede le seguenti fasi:
1) la raccolta di informazioni da fonti multiple (genitori, insegnanti, educatori),
utilizzando interviste semistrutturate e/o questionari standardizzati sui diversi aspetti
del comportamento e del funzionamento sociale del bambino;
Relativamente alla prima raccolta di informazioni, si può portare avanti un colloquio clinico
con i genitori al fine di ricostruire la storia del bambino e della sua famiglia, oppure usare
un'intervista clinica specificamente costruita per la diagnosi psicopatologica. L'intervista può
essere strutturata o semistrutturata con il vantaggio di passare in rassegna
sistematicamente tutte le psicopatologie dell'età evolutiva e quindi di fornire una panoramica
completa e generale. Lo svantaggio principale però di tali tecniche è che sono delle
interviste molto lunghe e spesso includono, soprattutto le interviste strutturate, delle
domande che non hanno attinenza con il quadro clinico del bambino e dalle richieste della
visita.
Di solito durante il primo colloquio, oltre all'anamnesi del bambino, è opportuno raccogliere
informazioni sulla percezione che i genitori hanno della loro situazione familiare, del livello
di stress e di frustrazione che provano e sulla loro disponibilità per la pianificazione di un
eventuale intervento che li coinvolga in prima persona. Infine è importante rilevare le
possibili risorse di cui la famiglia dispone, compreso il rapporto con la scuola e gli insegnanti.
2) un'intervista al bambino stesso, per indagare il livello di consapevolezza delle
proprie difficoltà e i vissuti a esso associati;
Oltre a effettuare l'intervista con i genitori è necessario che il clinico interagisca direttamente
con il bambino per capire il suo vissuto, relativamente alle sue problematiche e alla visita
stessa. Esistono diverse modalità per impostare il colloquio con il bambino, che spaziano
dalle più strutturate alle più informali. Indipendentemente dalla modalità adottata, lo scopo
del colloquio con il bambino è quello di capire che grado di consapevolezza egli ha rispetto
ai propri problemi e ai propri vissuti a tal proposito, se presenta frustrazione e in che ambito,
se percepisce di avere problemi con la scuola, che includono non solo il rapporto con gli
insegnanti e le materie scolastiche, ma anche con i pari. A volte è vantaggioso chiedere al
bambino qual è secondo lui la causa del problema; ciò consente di esaminare alcune sue
convinzioni ed eventuali atteggiamenti di accusa nei confronti di persone significative del
suo ambiente o rivolti a se stesso.
Dopo aver condotto i colloqui con la famiglia e con il bambino, è di fondamentale importanza
raccogliere informazioni anche dagli insegnanti. La raccolta di informazioni dagli insegnanti
è delicata e non priva di rischi:
- delicata perché non è detto che tutti gli insegnanti condividano la stessa opinione sia
rispetto alla frequenza dei comportamenti sintomatici, sia rispetto alla valutazione di
gravità del problema;
- rischiosa perché l'alleanza con gli insegnanti è fondamentale sia nella fase
diagnostica, sia soprattutto nella successiva fase di consulenza e/o intervento
terapeutico, e quindi non deve essere compromessa.
Nel DDAI è fondamentale essere consapevoli delle possibili reazioni emotive degli
insegnanti perché proprio le caratteristiche comportamentali di questi bambini possono far
scatenare reazioni emotive molto diverse e indurre una serie di attribuzioni che hanno

162
spesso più a che fare con la struttura di personalità dell'insegnante che non con il quadro
sintomatologico del bambino. Il contatto con gli insegnanti consente di capire se:
- il bambino manifesta dei comportamenti di disattenzione e/o iperattività in classe e
se questi si verificano in particolari momenti della giornata o con alcuni insegnanti
piuttosto che con altri;
- il bambino oltre ai problemi comportamentali manifesta delle difficoltà scolastiche,
generali o specifiche;
- è capace di gestire autonoma-mente il proprio materiale (libri e quaderni) e i compiti
per casa; se presenta delle difficoltà a rapportarsi con i coetanei.
Passeremo ora in rassegna i principali strumenti che un clinico ha a disposizione per
effettuare una diagnosi di DDAI, ossia: interviste, questionari, osservazione strutturata e test
cognitivi e neuropsicologici.
3) una valutazione neuropsicologica e possibilmente una valutazione degli
apprendimenti;
4) un'osservazione clinica strutturata o semistrutturata, possibilmente in un
contesto familiare per il bambino, ad esempio casa o scuola.

5.1. Le interviste
In Italia «circolano» delle traduzioni di varie interviste in lingua inglese, ma l'unica adattata
e pubblicata è la Kiddie-SADS. Nella Kiddie-SADS sono presenti 4 diverse sezioni:
1) l’intervista introduttiva non strutturata  dura circa 10-15 minuti e riguarda i dati
demografici e anamnestici includenti il funzionamento scolastico, le relazioni con la
famiglia. i coetanei, gli interessi e gli eventuali disturbi psichiatrici
2) l'intervista diagnostica di screening  include 5 aree di psicopatologie: disturbi
dell'umore, psicosi, disturbi d'ansia, disturbi del comportamento e abuso di sostanze.
3) i supplementi diagnostici  se con l'intervista di screening si ottiene un punteggio
superiore al cut-off in un'area, è necessario somministrare i supplementi diagnostici
per approfondire un'eventuale psicopatologia
4) C-GAS  consente di valutare il grado di funzionamento globale su una scala che
va da 0 (bisogno di assistenza 24 ore al giorno) a 100 (funzionamento superiore in
tutti gli ambiti)

5.2. I questionari
I questionari sono degli strumenti molto utili perché consentono di avere in poco tempo un
quadro del comportamento del bambino in contesti differenti. Quasi tutte le scale per la
valutazione dei comportamenti sintomatici del DDAI hanno una versione per genitori e una
per insegnanti, in modo tale da consentire il confronto tra i due contesti di vita più importanti
per il bambino. Si raccomanda al clinico di essere piuttosto cauto nell'inviare i questionari
agli insegnanti, eventualmente cercando di informarli telefonicamente, in modo da
condividere con loro lo scopo di tale richiesta di informazioni per evitare inutili
incomprensioni. Di solito queste scale includono anche una versione per il bambino, in modo
da consentire di ottenere anche il suo punto di vista. Inoltre, numerosi questionari sono
suddivisi in subscale e consentono di ottenere un profilo «quantitativo» dei comportamenti
disturbanti. Le scale più usate in Italia sono le scale SDA, SDAI, SDAG e SDAB (Scale per

163
l'individuazione di comportamenti di disattenzione e iperattività in età scolare per insegnanti-
genitori-bambini), elaborate da Cornoldi e colleghi.
(1) Le scale SDAI e SDAG consentono di valutare la presenza di sintomi del DDAI
facendo riferimento alle indicazioni fornite dal DSM-IV e contengono 18 item.
(2) La scala SDAB, che fornisce la valutazione del bambino, è composta da 1.4 item e
non ricalca esattamente la descrizione del DSM.
(3) Le scale SDA sono concise e di veloce somministrazione, ma vanno integrate con
ulteriori informazioni perché circa il 20% di bambini presenta sintomi di DDAI, pur non
soddisfacendo tutti criteri diagnostici del disturbo.
A tale scopo sono state create le scale COM che raccolgono indizi di eventuali comorbilità
con tutte le sintomatologie più frequentemente associate al DDAI. Il questionario COM è
composto da 30 item ed è diviso in 6 aree che indagano le sindromi più frequentemente
associate al DDAI: Disturbo oppositivo Provocatorio, disturbo di condotta, disturbi della sfera
autistica, disturbi d'ansia, disturbi dell'umore e sindrome di Tourette.
Un altro gruppo scale nate in Italia sono le scale SCOD (Scale per i comportamenti
dirompenti), per insegnanti e genitori. Queste scale, oltre ai 18 sintomi del DDAI,
contengono anche gli 8 sintomi del disturbo oppositivo provocatorio e 16 sintomi del disturbo
della condotta. Con le SCOD è possibile quindi ottenere 4 punteggi: disattenzione,
iperattività-impulsività, disturbo oppositivo provocatorio e disturbo della condotta. Gli aspetti
positivi delle SCOD sono due:
a) possiedono una buona taratura ottenuta in diverse regioni d'Italia
b) hanno dei dati suddivisi per maschi e femmine e quindi consentono di evitare
la sottostima del DDAI al femminile.
Gli aspetti negativi riguardano l'inclusione dei 16 sintomi del disturbo di condotta che non
presentano una sufficiente coerenza interna e in parte non riguardano la fascia della scuola
elementare.
Un'altra scala molto usata, soprattutto a livello internazionale è la Conners Rating
Scale/CRs elaborata da Conners nel 1970 e di cui esistono due versioni, una per i genitori
composta da 80 item, e una per insegnanti che contiene invece 59 item.
Le scale valutano aspetti relativi a disattenzione, aggressività, impulsività, iperattività,
disturbi psicosomatici e problemi legati all'ansia. Le scale di Conners hanno il vantaggio di
essere piuttosto specifiche per la valutazione dei sintomi DDAI e contemporaneamente
permettono di ottenere sufficienti informazioni su altre categorie di disturbi sia
comportamentali che di tipo emotivo (ansia e depressione).
Uno degli strumenti più diffusi a livello mondiale per la valutazione delle problematiche
generali del bambino, che includono anche il DDAI, è la Child Behavior Checklist/CBCL,
elaborata da Achenbach nel 1978. Si tratta di un questionario che consente di ottenere una
valutazione da parte del genitore, dell'insegnante e del bambino stesso. Ognuna delle tre
versioni contiene 113 item atti a indagare una vasta gamma di comportamenti manifestati
dai soggetti di età compresa fra i 4 e i 18 anni. Il questionario consente di ottenere
informazioni sulle competenze dimostrate dal soggetto nelle attività sportive, scolastiche,
sociali e sulla capacità di giocare e lavorare da solo; permette inoltre di mettere in luce
eventuali problematiche secondo una suddivisione in sintomi internalizzati ed esternalizzati.
Va precisato che la CBCL non ricalca la nosografia del DSM, ma propone un'altra tipologia
di classificazione ottenuta su base empirica.

164
• tra i disturbi internalizzati vi sono le seguenti categorie: ritiro sociale, sintomi somatici,
ansiadepressione, problemi sociali;
• tra i disturbi esternalizzati vi sono comportamenti definiti di delinquenza e
aggressività;
• infine vengono descritti due gruppi di sintomi chiamati disturbi del pensiero e problemi
di attenzione.
La CBCL, a differenza delle scale Conners, è poco sensibile al DDAI ma è molto specifica
per cui consente di evitare eccessivi falsi positivi. Tutti i questionari citati prevedono una
valutazione che non si limita a chiedere se un comportamento sintomatico è presente o no,
ma richiedono di stimare la frequenza (o gravità) del comportamento su una scala a tre o
quattro punti usando una gamma di punteggi che vanno da 0 a 3 o 4 punti (da «mai — per
nulla» fino a «molto spesso — completamente vero»).

5.3. L'osservazione strutturata


Una tecnica che ha il vantaggio di essere molto ecologica, poiché consente di osservare il
comportamento in un contesto naturale, è l'osservazione. La premessa che ha portato allo
sviluppo di tale tecnica è che il comportamento è sempre il frutto di una relazione tra
individuo e contesto. Scopo primario dell'osservazione è cercare di capire la relazione tra
un comportamento problematico e le conseguenze che lo mantengono o gli antecedenti
che lo scatenano, in vista della programmazione di un intervento mirato a evitare la
comparsa di certi comportamenti o eventi che producono i comportamenti indesiderati
(antecedenti) o di cambiare le conseguenze che in qualche modo li mantengono. Ci
possono essere diverse tecniche per effettuare un'osservazione clinica, ma di solito sono
previsti i seguenti passi:
1) inventario dei comportamenti negativi emessi dal bambino (osservazione non
strutturata): questa fase richiede di identificare i comportamenti che sono frequenti;
2) categorizzazione dei comportamenti negativi: in questa fase bisogna cercare di
raggruppare i comportamenti negativi più frequenti, ad esempio per il contesto
scolastico: «va dal compagno durante la lezione», «corre tra i banchi», «esce dalla
classe prima della fine della lezione» possono rientrare nella categoria «si allontana
dal proprio banco»;
3) osservazione strutturata delle classi di comportamento negativo: consiste nel
segnare, su un'apposita tabella, la frequenza delle classi di comportamento, con
particolare attenzione agli antecedenti che tendono a scatenare il comportamento
problematico e alle conseguenze che potrebbero avere la funzione di mantenerlo.

5.4. Test cognitivi e neuropsicologici


Una volta completata la raccolta di informazioni sul comportamento del bambino tramite i
resoconti di insegnanti e genitori, il clinico può somministrare dei test cognitivi, per indagare
alcune funzioni neuropsicologiche, allo scopo di ottenere conferme per la diagnosi,
delineare il profilo funzionale, effettuare una diagnosi differenziale per disturbi di tipo
cognitivo o neuropsicologico e programmare un eventuale intervento riabilitativo di tipo
cognitivo. Ai test, i bambini con DDAI possono fornire buone prestazioni a causa del
contesto strutturato in cui vengono somministrati. Se aggiungiamo il fatto poi che alcuni
bambini con DDAI spesso sono piuttosto intuitivi, possiamo ritrovarci di fronte a una
prestazione assolutamente brillante. Per questo motivo occorre sottolineare che la diagnosi

165
di DDAI è clinica, ossia non esiste alcun test in grado di stabilire con certezza la presenza
del disturbo.
La valutazione può includere l'analisi delle abilità cognitive attraverso la somministrazione
di una WISC. Ci si attende comunque che il livello intellettivo del bambino con DDAI sia
comparabile a quello degli altri bambini, un dato che pone problemi per le teorie
dell'intelligenza basate sul costrutto di controllo dell'attenzione. Si può poi procedere alla
valutazione di altri processi cognitivi frequentemente deficitari nei bambini con DDAI:
l'attenzione sostenuta, l'uso di strategie, l'inibizione di risposte impulsive e i processi di
soluzione dei problemi.
Un test molto usato che valuta non solo la componente dell'attenzione sostenuta ma anche
l'aspetto dell'impulsività e l'uso di strategie è il Matching Familiar Figure Test (MFFT). Il test
è costituito da 20 item in cui viene presentata una figura-modello in alto accompagnata da
altre sei figure in basso, di cui solo una è identica al modello, mentre le altre 5 contengono
qualche differenza; il compito del bambino è quello di scegliere, tra le 6 fígure quella uguale
al modello. Nel protocollo, oltre al numero totale degli errori, vien registrato il tempo che il
bambino impiega nel dare la prima risposta (latenza)  i bambini con DDAI commettono un
maggior numero di errori e presentano tempi medi di latenza più bassi rispetto ai loro
coetanei senza DDAI.
Spesso nei bambini con DDAI vengono valutate alcune funzioni esecutive (EF) che
numerosi studi hanno dimostrato esser compromesse in questo disturbo. Tra i testi più adatti
per la valutazione di tali funzioni sicuramente è necessario citare la Torre di Londra, una
prova di pianificazione visuospaziale costituita da una serie di problemi la cui soluzione deve
essere progettata a livello mentale dal bambino e prevista in tutti i suoi passaggi prima di
essere messa in atto concretamente. Si tratta di un test di difficoltà crescente che richiede
al bambino di muovere delle palline forate, poste in una data configurazione su una
particolare struttura, fino a raggiungere una nuova configurazione. In questa prova i bambini
con DDAI risolvono un minor numero di problemi o necessitano di un maggior numero di
tentativi per arrivare alla soluzione rispetto ai controlli.
All'interno dei test per la valutazione delle funzioni esecutive si può citare il Wisconsin Card
Sorting Test» (WCST), la prova più impiegata per lo studio delle perseverazioni nei pazienti
frontali, che può essere usata anche per la valutazione della capacità di flessibilità dei
bambini con DDAI e la loro capacità e di cambiare strategie. Questo test misura abilità di
problem-solving, l'uso del feedback, l'abilità di modificare strategie scorrette, la flessibilità e
la capacità di inibire una risposta prepotente e scorretta. Ai pazienti viene chiesto di disporre
in pile delle carte (tipo carte da gioco) che differiscono per colore, forma e numero, secondo
un criterio da scoprire. I pazienti frontali falliscono a questi test perché dopo aver appreso il
primo criterio sulla base delle risposte affermative o negative dell’esaminatore, non riescono
più ad apprendere i criteri successivi in quanto tendono ad applicare sempre il primo, anche
se il risultato è sbagliato. Alcuni studi hanno trovato che anche i bambini con DDAI falliscono
in questo tipo di prove.
Uno dei test neuropsicologici maggiormente in grado di discriminare i bambini con DDAI dai
controlli o da bambini con altri disturbi è il «Continuous Performance Test» (CPT),
particolarmente indicato per misurare la vigilanza, l'attenzione sostenuta e l'impulsività. La
versione più diffusa è quella che presenta singole lettere in successione su un monitor di
computer: il compito del bambino è quello di schiacciare un tasto quando compare la coppia
in successione di lettere-bersaglio. Il numero totale di omissioni è indicativo del livello di
vigilanza del bambino, mentre il numero di falsi positivi è indicativo del grado di impulsività.

166
Ispirata al CPT, ma in versione «carta e matita», è la Prova CP, composta da tre schede in
cui sono stampate 300 lettere: il compito consiste nel cancellare una sequenza di
letterebersaglio (FZB) facendo una croce su ogni lettera; i bersagli sono 18 per ogni scheda,
ma il compito diventa più difficile dalla prima alla terza scheda a causa della disposizione
delle lettere che sono sempre più ravvicinate. Gli indici che vengono considerati sono
quattro: il numero totale di omissioni, il numero totale di risposte sbagliate nelle tre schede,
l'aumento di omissioni dalla prima alla terza scheda e la diminuzione del tempo di lavoro tra
la prima e la terza scheda; questi consentono al clinico di individuare il calo di performance
del bambino nel tempo, e quindi eventuali problemi di attenzione sostenuta.
Un altro test per la valutazione dell'attenzione sostenuta, usato frequentemente in Italia, è il
Test delle Campanelle. Tale strumento è costituito da 350 stimoli raffiguranti oggetti
animati e inanimati di dimensioni simili e con il medesimo orientamento, distribuiti in quattro
fogli contenenti ciascuno 35 campanelle. Il compito del bambino consiste nel barrare le
campanelle presenti in ogni foglio in 120 secondi Biancardi e Stoppa hanno dimostrato in
una loro ricerca che questo test è molto utile nell'analisi delle competenze attentive nei
bambini, dei processi di controllo dell'elaborazione delle informazioni e nella valutazione
delle competenze attentive nei bambini.
Un compito di recente costruzione per la valutazione delle funzioni esecutive dei bambini è
il test di Completamento alternativo di frasi — CAF. Il compito Consiste nel
completamento di alcune frasi con parole semanticamente non collegate alla frase
pronunciata dall' esaminatore. Es. La esaminatore pronuncia la frase “in autunno cadono…”
il bambino non solo non devi dire la parola mancante, cioè “le foglie”, ma deve anche cercare
di non dire una parola che abbia qualche legame semantico con la frase (es. rami, frutti). Le
frasi da completare con la parola corretta o semanticamente scollegata sono alternate in
modo da richiedere al soggetto maggiore flessibilità cognitiva. Il punteggio finale viene
ottenuto assegnando un punteggio decrescente d’errore per completamenti significativi di
frase (3 punti di errore), generazione di parole semanticamente collegate (2 punti),
generazione di parole non collegate semanticamente ma senza l'uso di strategie (1 punto)
o generazione di parole con l’uso di strategie. Il CAF ha dimostrato di essere
sufficientemente discriminativo tra bambini con DDAI e controlli; inoltre è o osservato che i
bambini con DDAI senza comorbilità utilizzano un numero minore di strategie cognitive
rispetto ai controlli per l'esecuzione del test.
Per la valutazione delle capacità di inibizione esistono alcune prove particolarmente adatte
per i bambini con DDAI. Una prova che discrimina molto bene tra bambini con DDAI e non,
è la prova del Go-no Go  si tratta di una prova computerizzata che chiede di premere un
tasto ogniqualvolta il bambino vede comparire sullo schermo una X e non deve premere
quando compare una O. Nella ricerca il bersaglio X compariva 60 volte e la O 15 volte in
modo da indurre un maggior controllo inibitorio nel caso di comparsa di non target. In questo
studio solo i bambini con DDAI + DOP hanno commesso un maggior numero di errori,
tuttavia solo il gruppo con DDAI-puro ha mostrato risposte più lente nella condizione in cui
il ritmo di presentazione degli stimoli era rallentato dal computer e non controllato dai
bambini. Una versione italiana a «carta e matita» di tale prova è il Walk don't walk  è
formata da 20 item ognuno dei quali è rappresentato da una scala costituita da 13 gradini
numerati da 0 a 12, con disegnate delle rane stilizzate. L'esaminatore chiede al bambino di
posizionarsi con un pennarello sul gradino dello 0 e di fare un puntino sulla casella
immediatamente successiva ogni volta che sente il segnale acustico di avanzamento (Go)
e di inibire questa azione quando percepisce il segnale d'arresto (No Go). La difficoltà

167
consiste nel fatto che i due suoni si assomigliano. Il bambino deve inibire la risposta
automatica di avanzamento e aspettare di sentire l'intero suono prima di effettuare il salto.
Se il bambino non ascolta per intero il segnale e si limita ad analizzare solamente la prima
parte del suono, commette l'errore di avanzare nella scala, benché il segnale completo
indichi l'arresto dell'azione.
Un altro test per la valutazione della capacità di inibizione, in particolare del controllo
dell'interferenza, è il Test di Stroop  prevede la presentazione di stimoli che elicitano 2
risposte alternative e incompatibili, una delle quali (quella che non si deve dare) è più
spontanea rispetto all'altra (che si deve dare) perché è stata automatizzata. La versione
classica consiste nella presentazione dei nomi di colori, dove il colore dell'inchiostro può o
meno coincidere con la scritta. Il compito del soggetto è quello di denominare il colore,
senza leggere il nome del colore, che, nel caso della condizione di non concordanza, è
differente dal colore dell'inchiostro con cui è scritto e che invece deve essere nominato (es.
ROSSO scritto in verde). Una versione di questa prova usata da Cornoldi è lo Stroop numeri
in cui al bambino viene mostrato un numero ripetuto più volte, per esempio, nella situazione
di incongruenza, il numero «3» scritto per cinque volte e il bambino non deve leggere il
numero 3 ma deve dire quanti «3» sono rappresentati.
Una prova di memoria di lavoro visuospaziale, particolarmente indicata per i bambini piccoli
è il Dual Request Selective Task (DRST). Tale strumento è una prova di memoria di lavoro
visuospaziale che della prevede l’esecuzione di un doppio compito. Richiede la
memorizzazione della prima casella di un percorso effettuato da una rana di plastica su una
matrice 4 x 4 e la contemporanea esecuzione di un compito interferente che consiste nel
battere la mano sul tavolo ogni volta che la rana, lungo il suo percorso, salta su una
particolare casella che è di colore rosso. In questa prova i bambini con DDAI tendono a
commettere più errori rispetto ai pari del gruppo di controllo e in particolare più errori di
intrusioni (cioè a indicare come iniziale una casella toccata dallo sperimentatore ma che
non era in posizione iniziale).

BIA – Batteria Italiana per l’ADHD (Marzocchi, Re e Cornoldi, 2010), 7 test:


1) il test delle ranette  valuta l’attenzione sia selettiva che sostenuta e l’inibizione motoria
2) il test di attenzione sostenuta (TAU) valuta l’attenzione uditiva sostenuta
3) il test di Stroop numerico è un compito che valuta l’inibizione
4) il Completamento alternativo di frasi (CAF) è ideato per valutare i processi d’inibizione della
risposta verbale
5) il test di memoria strategica verbale (TMSV) permette di valutare la memoria episodica
verbale e la capacità di categorizzare gli item e rievocarli in modo coerente e organizzato.
6) il test MF valuta l’impulsività e l’attenzione visiva
7) il Continuous Performance Tests (CPT) valuta l’attenzione visiva sostenuta.

6. Gli interventi terapeutici


L'intervento del DDAI è un tema delicato. Uno dei più importanti studi a tal riguardo è stato
condotto negli Stati Uniti ed è denominato MTA. Tale studio ha coinvolto sei team
indipendenti di ricerca e ben 579 bambini con le rispettive famiglie e scuole di appartenenza.
Lo scopo di tale studio è stato quello di confrontare l'efficacia dei possibili trattamenti per il
bambino con DDAI, ossia il trattamento:
- farmacologico (Farm.)

168
- psicologico di tipo comportamentale (Ps)
- la combinazione di questi due tipi di intervento (Comb.)
- il trattamento di controllo (Cc), che consisteva nella cura di solito fornita dal
pediatra di base. I primi risultati dello studio americano enfatizzarono il ruolo cruciale
del trattamento farmacologico per la riduzione dei sintomi del DDAI, in presenza o meno
di terapie psicologiche associate, mentre il trattamento psicologico da solo o quello
standard produssero i risultati più modesti. Tuttavia, analisi più approfondite rilevarono
che il Comb. dava dei risultati migliori anche rispetto al Farm. per gli aspetti definiti
secondari, quali ad esempio le relazioni con i pari e il livello di soddisfazione dei genitori.
È poi da tener presente che i bambini del gruppo Comb. diminuivano di circa il 20% il
dosaggio del farmaco e che il livello di soddisfazione di genitori e insegnanti era
significativamente più alto con questo tipo di trattamento e con quello Ps che non con
quello Farm. Analisi più approfondite successive, che hanno preso in considerazione
nuove misure che combinavano il parere di genitori e insegnanti hanno messo in luce
un vantaggio del Comb. rispetto al Farm. e nessuna nessuna differenza tra lo Ps e il Cc.
In conclusione era emersa una migliore efficacia del trattamento Combinato rispetto a
quello Farmacologico, risultato superiore a sua volta rispetto al Ps e Cc.
La prima indagine di follow up, dopo 24 mesi dall'inizio del trattamento, ha messo in
evidenza un ridimensionamento degli effetti. Inoltre i maggiori benefici del Comb rispetto
agli altri tipi di trattamenti non sono stati più riscontrati. Questo significa che a 10 mesi dalla
fine del programma di intervento intensivo gli effetti di tutti i tipi di trattamento cominciano a
perdere di efficacia. Diverse polemiche sono nate a causa dei risultati che sembravano
mettere in secondo piano il trattamento solo psicologico. Va tuttavia precisato che il
trattamento Ps, anche se non raggiungeva i risultati del Comb. e del Farm., permetteva
comunque ai bambini di ottenere dei miglioramenti pari al gruppo seguito dal medico di
base, fra i quali i due terzi venivano trattati con uno psicostimolante, suggerendo che con il
solo trattamento psicologico era possibile ottenere dei buoni risultati che inoltre perduravano
per tutti i 14 mesi del progetto. In Italia fino al 2007 non era consentito l'uso dei farmaci per
il bambino con DDAI, ma ora sono cominciate somministrazioni controllate che hanno
trovato appassionati consensi e fiere opposizioni sia negli operatori, sia nelle famiglie, sia
nella stessa opinione pubblica. Il trattamento farmacologico prevede la somministrazione di
una sostanza psicostimolante. Questa sostanza ha la funzione di regolarizzare il livello di
dopamina (un neurotrasmettitore che consente la comunicazione tra neuroni), che si
presume essere presente in modo alterato nel cervello di un bambino con DDAI, soprattutto
nelle aree prefrontali, che sono le aree deputate a diverse funzioni molto importanti quali
l'attenzione, la pianificazione e il controllo. Per quanto riguarda l'intervento di tipo
psicologico la letteratura scientifica sull'argomento ha ripetutamente sottolineato che i
trattamenti devono essere estesi ai diversi contesti di vita del bambino (in particolare scuola
e famiglia) e devono essere portati avanti per lunghi periodi. In altre parole, l'intervento non
può considerarsi concluso dopo uno o due cicli, ma deve accompagnare il bambino durante
la sua crescita. Per questo motivo è di fondamentale importanza che il trattamento sia
adattato alle esigenze dello stadio evolutivo del bambino.
Alcuni autori hanno sottolineato la mancanza di dati relativi all'efficacia dei trattamenti con
ragazzi adolescenti ove invece risulterebbero particolarmente importanti. Infatti, data la ben
nota ricerca di indipendenza e di autonomia, che implica l'allontanamento dalle figure
genitoriali e la maggiore influenza del gruppo dei pari, e la persistenza dei sintomi DDAI
anche durante l'adolescenza, adolescenti con DDAI hanno maggiori probabilità di incorrere

169
in insuccessi e in situazioni pericolose, per esempio incidenti con automobile, uso di alcol o
sostanze stupefacenti e insuccessi o abbandoni scolastici. Dai pochi studi esistenti
sull'argomento, è emerso che è controproducente «trasferire» un trattamento usato con i
bambini agli adolescenti. Invece un intervento che coinvolga in primo luogo la scuola e che
includa automonitoraggio, valutazione funzionale, training sull'uso di strategie, tecniche di
gestione del comportamento sembra essere più efficace.
Altra premessa fondamentale per una buona riuscita di un intervento con un bambino con
DDAi è un lavoro multifocale, che includa il bambino, la famiglia e la scuola, data la
pervasività dei sintomi del disturbo. Lo scopo principale dei trattamento con il bambino con
DDAI è quello di renderlo in primo luogo consapevole delle proprie difficoltà e di aiutarlo
nell'acquisizione di una maggiore autoregolazione. In generale, vengono utilizzate sia
tecniche comportamentali che cognitive. Le tecniche comportamentali si basano
prevalentemente sui principi della «modificazione del comportamento» ispirata dal
condizionamento operante skinneriano, secondo i quali a ogni comportamento segue una
conseguenza che, se positiva (rinforzo), aumenterà la probabilità che quel comportamento
si verifichi nuovamente, se negativa invece ne potrà diminuire la probabilità di verificarsi.
Questo è il principio che si cerca di adottare sia con il bambino nelle sedute con lo psicologo,
sia con i genitori e gli insegnanti, nei diversi contesti di vita. Nella realtà quotidiana è noto
che i bambini con DDAI richiedono un continuo e immediato feedback sul proprio
comportamento e questo spiega perché il principio del rinforzo sia particolarmente utile. Per
rendere facilmente operativo e più accattivante questo principio di solito si usa la tecnica
dei gettoni (token economy), che prevede che per ogni comportamento positivo il bambino
guadagni dei punti, mentre per i comportamenti negativi ne perda altri (costo della risposta).
Ovviamente sia i comportamenti positivi, che fanno guadagnare dei punti, sia quelli negativi,
che ne fanno perdere, devono essere stati precedentemente scelti e chiaramente concordati
da operatore e bambino. La tecnica dei gettoni ha il grosso vantaggio di eliminare il
rimprovero, poiché non è più l'adulto che decide i premi e le punizioni ma è il sistema di
regole, concordato da entrambe le parti. In questo modo il bambino riceve un continuo
feedback sul proprio comportamento e viene messo nelle condizioni di potersi autovalutare
e di capire un'eventuale «punizione». Si riesce in questo modo a evitare il grosso carico
emotivo che di solito è legato al rimprovero. Le tecniche comportamentali, oltre al rischio di
«monetizzare» il rapporto educativo, hanno il limite di una difficile generalizzabilità al
contesto di vita quotidiana e di mantenimento nel tempo. Per tale motivo spesso alle
tecniche comportamentali si associano delle tecniche cognitive, quali ad esempio le
autoistruzioni verbali o il problem-solving. In questo tipo di approccio si cerca anche di
lavorare molto sugli aspetti attribuzionali e motivazionali, in modo da aiutare il bambino a
dare il giusto peso ai diversi tipi di comportamento, ad avere una maggior consapevolezza
e fiducia delle proprie azioni, a sviluppare quel famoso «discorso autodiretto» che ha lo
scopo di guidare il bambino durante lo svolgimento delle attività e che è di fondamentale
importanza per lo sviluppo dell'abilità di pianificazione. I sintomi di disattenzione, iperattività
e impulsività che caratterizzano il DDAI sono anche presenti anche a casa e possono
mettere in crisi la relazione fra un genitore e un figlio, aumentando il livello di stress e di
frustrazione nei genitori. A lungo andare, i genitori possono sviluppare delle convinzioni
errate, quali ad esempio «mio figlio si comporta male apposta» o «sono un fallito come
genitore», che hanno conseguenze negative sia per la gestione e l'educazione del bambino,
sia per la qualità della vita familiare.

170
Con i genitori si attivano pertanto dei corsi di formazione chiamati «parent training»
(«allenamento per genitori»), ossia dei corsi che hanno la funzione di sostenere i genitori
nel difficile compito di capire e educare bambini così speciali, ma anche di insegnare loro
delle tecniche educative diverse da quelle tradizionali. Il parent training per famiglie di
bambini con DDAI consiste in una serie di incontri gestiti da uno psicologo che incontra
gruppi di genitori. Gli obiettivi di solito sono:
• sostenere i genitori nell'educazione del loro bambino DDAI;
• evidenziare alcune abitudini di interazione problematica;
• fornire maggiori strategie di affrontamento (coping) dei momenti di
difficoltà;
• migliorare e/o risolvere situazioni problematiche all'interno del contesto
di vita quotidiano. Un tipico parent training percorre le seguenti tre fasi.
In un primo momento è molto importante che si crei un clima di fiducia tra genitori e
psicologo e tra i genitori stessi, se si lavora in gruppo. È inoltre indispensabile chiarire il
concetto di DDAI e sfatare eventuali «false credenze» in merito. In questa prima fase si
cerca inoltre di preparare i genitori ai cambiamenti che l'introduzione di tecniche
comportamentali e cognitive comporterà.
Solo quando gli obiettivi della prima fase sono raggiunti, si passa alla seconda fase e si
insegnano delle tecniche di gestione del comportamento del bambino. Di solito si fa
riferimento a tecniche di tipo comportamentale, basate sull'elargizione di rinforzo. Si insegna
a riconoscere e manipolare gli antecedenti e le conseguenze dei comportamenti negativi
del bambino, monitorare i comportamenti problematici, rinforzare i comportamenti positivi
con premi concreti se si tratta di bambini più piccoli o con elogi anche verbali se sono un
po' più grandi. Si insegnano anche alcune tecniche per diminuire la comparsa di
comportamenti negativi, quali ad esempio il time-out, il costo della risposta, cercando di
individuare e selezionare i comportamenti negativi realmente significativi, da «punire», da
quelli lievemente negativi, sui quali «sorvolare».
Nella terza fase si insegnano tecniche di tipo cognitivo. Anche in questo caso si cerca di
rimanere in linea con il lavoro che si svolge con il bambino e si chiede ai genitori di fungere
da modello  i genitori possono auto-osservarsi su come si propongo ai loro figli di fronte
alle situazioni complesse e come applicano le strategie di soluzione dei problemi. Si utilizza
il modellamento del comportamento dei genitori per trasferire queste abilità anche bambini.
Infine, l'ultimo anello del lavoro con il bambino con DDAI sono gli insegnanti, in genere
figure educative di grande rilevanza per la vita di un bambino. Gli insegnanti possono
intervenire sia lavorando sulla gestione del comportamento del bambino sia su aspetti più
legati al rendimento scolastico, che è scarso in bambini con DDAI. Come a casa anche a
scuola è possibile evidenziare delle ciclicità nella manifestazione dei comportamenti
problematici da parte dei bambini con DDAI. Come per i genitori, anche per gli insegnanti
sono previsti degli incontri di consulenza che hanno lo scopo sia di chiarire le caratteristiche
del DDAI, al fine di ovviare a idee sbagliate che potrebbero colpevolizzare il bambino, sia di
spiegare alcune tecniche come ad esempio l'uso del rinforzo, piuttosto che dei rimproveri
e delle punizioni, l'utilizzo di regole e istruzioni efficaci, l'introduzione di routine che hanno
lo scopo di rendere prevedibile, e quindi meno faticoso per il bambino, il lavoro. Riguardo
quest'ultimo punto, bisogna precisare che, poiché il bambino con DDAI riesce molto bene
quando è eteroregolato, riuscirà altrettanto bene in un contesto molto strutturato. Di
conseguenza risulta molto importante l'organizzazione del contesto, dalla disposizione
dei banchi, alla creazione di una scaletta quotidiana delle attività da fare, all'introduzione di

171
routine, meglio se esplicite, che facciano capire chiaramente l'alternanza di momenti di
lavoro e momenti di pausa. Tutto ciò può aiutare il bambino a capire l'entità del compito da
svolgere, la sua durata e soprattutto a farne prevedere la fine e la conseguente ricompensa.
In questo modo è possibile aiutare il bambino a raggiungere e mantenere periodi di lavoro
più lunghi ed efficienti. Alcuni autori sottolineano l'importanza di modificare l'entità e le
istruzioni dei compiti da fare. Ridurre la lunghezza del compito, dividendolo in sottounità
raggiungibili in poco tempo e consentendo quindi brevi e frequenti pause, rendere il lavoro
più stimolante, modificare le istruzione in base allo stile di apprendimento dello studente
sono tutti esempi di modificazione del compito che hanno ottenuto buoni risultati. Un'altra
tecnica con ottimi effetti sia per il tutor, sia per il ragazzo DDAI, specie con i ragazzi più
grandi, è il tutoraggio gestito dai coetanei (peer tutoring), in cui uno studente provvede
ad aiutare, dare istruzioni e feedback sul lavoro svolto a un altro compagno. In questo modo,
si raggiunge l'obiettivo di lavorare sia su aspetti scolastici che sociali. Va infine ricordato che
gli studenti DDAI presentano una variegata gamma di difficoltà scolastiche che possono
essere affrontate con le specifiche strategie illustrate in precedenza.
Tornando al dibattito sull'efficacia dell'intervento psicologico bisogna comunque tener
presente che, al di là del fatto che la modalità ottimale di intervento è quella che interviene
contemporaneamente su più fronti possibili, diversi fattori possono influire sugli esiti di un
trattamento. Tra questi fattori possiamo annoverare: la comorbilità, la presenza di
psicopatologie in uno dei genitori e lo stato socioeconomico. Per quanto riguarda la
comorbilità, risultati dallo studio MTA hanno messo in luce che bambini con DDAI, bambini
con DDAI e con DOP e/o DC rispondevano meglio al trattamento farmacologico, a
prescindere dalla presenza o meno dell'intervento psicologico.
Al contrario, bambini con DDAI che presentavano anche ansia rispondevano meglio al
trattamento di tipo psicologico. La presenza di psicopatologie nei genitori e di depressione
nella madre sono gli indici maggiormente studiati, come barriera a una buona riuscita del
trattamento. Alcuni autori dell'MTA group hanno sottolineato l'importanza che uno stato di
malessere dei genitori può aver avuto sugli esiti del trattamento, soprattutto se si trattava
del solo trattamento farmacologico. Sembra infatti che nelle famiglie in cui c'era un genitore
depresso, il trattamento combinato desse i risultati migliori, probabilmente poiché il genitore
si sentiva sostenuto dalle figure professionali di riferimento. Questi dati ci mostrano come
qualsiasi tipo di intervento possa dare dei risultati limitati se non si adatta alle esigenze del
bambino, ma anche deIla famiglia e degli insegnanti.

172
CAPITOLO 11: “DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO: ASPETTI EMOTIVO-
MOTIVAZIONALI”
È un'opinione comune quella che porta a credere che siamo motivati verso i compiti e le
attività che sappiamo svolgere con successo. Se una cosa ci riesce bene, allora la facciamo
volentieri, ci sentiamo gratificati e ci impegniamo a lungo. Possiamo addirittura arrivare ad
essere degli «esperti». Al contrario, se una cosa non ci riesce, oppure la facciamo solo se
proprio ci viene imposta, cerchiamo di sbrigarla al più presto, senza manifestare vero
impegno e interesse.
Secondo questa visione un bambino che presenta difficoltà d'apprendimento dovrebbe
risultare assolutamente demotivato verso ogni attività che abbia a che vedere con
l'apprendimento, lo studio, la scuola e molto più motivato verso attività e compiti
extrascolastici in cui riesce bene.
Una visione alternativa parte dall'osservazione che vi sono bambini e adulti che si applicano
proprio per imparare ciò che ancora non sanno e quindi in situazioni dove il successo non
solo non è assicurato, ma è poco probabile. Questo accade sia per l'ambito
dell'apprendimento, sia per tutti gli altri ambiti: sociale, sportivo, di vita quotidiana. Questa
visione alternativa, secondo la quale le persone sono motivate a fare ciò che ancora non
sanno fare, rischiando l'insuccesso e non avendo risultati immediati né rinforzi, sembra
trovare una conferma dall'osservazione del grande impegno che alcuni bambini che
presentano difficoltà d'apprendimento dimostrano: fanno più fatica, si ritrovano a svolgere
esercizi aggiuntivi e, nonostante le difficoltà, non perdono la motivazione a fare.
Atteggiamenti motivazionali differenziati di fronte agli stessi tipi di difficoltà possono essere
spiegati alla luce di alcune fra le tante teorie riguardanti il comportamento motivato
Le persone manifestano dei «bisogni» (definiti anche come motivazioni intrinseche) che
sono presenti dalla nascita, in misura differente fra gli individui, sono universali e possono
essere favoriti od ostacolati dall'ambiente e dagli atteggiamenti, dai comportamenti e dagli
stili educativi di adulti, insegnanti, genitori. Secondo le principali teorie si nasce curiosi con
il bisogno di sentirsi competenti, di scegliere e dare una direzione alla propria vita, di vivere
esperienze in cui ci si sente appagati per l'attività stessa che si sta svolgendo, anziché per
il risultato.
Per bambini che non manifestano questo atteggiamento aperto e positivo verso
l'apprendimento, si parla di deficit motivazionale completo: l'attività non è piacevole per
sé, non viene rinforzata da altri, non fa esperire un senso di efficacia, non soddisfa i propri
obiettivi. Perché allora impegnarsi?
La motivazione dipende tanto dalle aspettative di riuscita quanto dal valore assegnato al
compito. Ciò significa che una persona risulta motivata se entrambi gli aspetti sono positivi.
Le aspettative discendono dalla percezione di essere capaci di affrontare il compito e che
questo è di difficoltà adeguata e si collegano all'attribuzione all'impegno. Il valore attinge
dagli obiettivi a breve, medio e lungo termine che la persona si pone, dalle percezioni di sé
future, dagli stereotipi, dalle aspettative degli altri e dalle pratiche di socializzazione.
Il valore può assumere significati diversi: strumentale («studio questa cosa perché mi serve
per...»), intrinseco («faccio perché mi piace, mi diverte»), per il concetto di sé («affronto
questo argomento perché sento che è una cosa mia»), per le emozioni che consente di
esperire («mi impegno a lungo e faccio dei sacrifici, perché immagino già quanto mi sentirò
soddisfatto/a dopo»).
Secondo il modello aspettativa-valore non basta che un bambino/a si senta capace di
affrontare un compito e sappia come svolgerlo, ovvero conosca le strategie, ma è

173
necessario anche che dia importanza a quella cosa. Risulta quindi necessario trovare il
modo non solo di sostenere la competenza, ma anche di costruire o rivedere il sistema di
obiettivi e di valori.

1. Aspetti emotivo-motivazionali implicati nelle difficoltà di apprendimento


Molte ricerche hanno indagato le componenti motivazionali dell'apprendimento su vaste
popolazioni di studenti. Ciò ha consentito di individuare gli aspetti più critici e di predisporre
opportuni strumenti di valutazione e procedure di intervento indirizzati ai bambini, senza
considerare i casi specifici di coloro che presentano disturbi d'apprendimento. All'interno
dell'insieme dei bambini con difficoltà d'apprendimento quanto può la motivazione spiegare,
predire, accompagnare il disturbo specifico? Esistono disturbi motivazionali «primari»
ovvero non conseguenti alle difficoltà incontrate, agli insuccessi o a interventi errati, carenti
o tardivi?
I bambini con disturbo specifico d'apprendimento, rispetto ai loro compagni senza
particolari difficoltà, hanno un concetto di sé più negativo, si sentono meno supportati
emotivamente, provano più ansia hanno poca autostima, tendono a sentirsi meno
responsabili del proprio apprendimento e a persistere poco, ovvero ad abbandonare il
compito alle prime difficoltà.
Un aspetto che può risultare problematico è quello riguardante le autoattribuzioni. Queste
sono le spiegazioni che una persona si dà per i propri risultati e si possono distinguere in:
• interne (ad esempio «mi sono impegnato/a»)
• esterne (ad esempio «il compito era difficile»)
• stabili (ad esempio «sono bravo/a»)
• instabili nel tempo («sono stato sfortunato/a»)
• controllabili da sé (ad esempio «non mi sono impegnato, anche se avrei potuto farlo»)
• non controllabili («la maestra mi ha chiesto una cosa che non sapevo»).
I bambini imparano fin dall'età di 3 anni a dare delle spiegazioni ai propri successi e
insuccessi. Con il passare del tempo si viene a sviluppare un modo tipico di reagire di fronte
a un buon risultato o a un fallimento che viene definito «stile attributivo». Questo non è
altro che il proprio modo di spiegare perché si riesce oppure no  è interessante osservare
le caratteristiche di alcuni stili, in particolare degli stili «impotente» e «pedina».

174
Lo stile impotente è quello di chi ritiene di «non essere portato» oppure di non avere
sufficienti abilità: di solito questa convinzione si sviluppa a fronte di ripetuti insuccessi
attribuiti alla mancanza stabile di abilità. La tendenza sarà quella di cercare delle conferme
all'opinione di non essere bravo» associata ad uno scarso impegno nella convinzione di non
poter riuscire. Questo ritiro dell'impegno porterà a ottenere degli insuccessi che finiranno
per confermare l'attribuzione alla mancanza di abilità. Dovesse capitare un successo questo
verrà attribuito a cause esterne («ce l'ho fatta perché era facile o perché sono stato/a
aiutato/a») e pertanto non gioverà a un rafforzamento dell'autostima, né a scalfire la
convinzione di «non essere portato». In un'ottica di intervento con bambini che presentano
questo tipo di stile attributivo risulterà quindi importante modificare la convinzione di non
potercela fare e ciò potrà avvenire facendo sperimentare loro dei successi e portandoli al
tempo stesso a riconoscere quale causa degli stessi l'impegno strategico.
Lo stile pedina muove da un pensiero fatalista o magico secondo cui le cose vanno come
devono andare, nel bene e nel male: non importa cosa si faccia, se e quale impegno ci si
metta. Questo stile porta al poco impegno, conseguenza del quale può essere l'insuccesso.
Chi tende a ragionare secondo questa modalità pertanto non trarrà vantaggio né dai
successi né dai fallimenti, perché non attribuiti a sé. Pensieri tipici di chi si ritrova
principalmente in questo stile sono «l'insegnante non mi capisce», «non è la scuola giusta
per me», «sono/non sono fortunato», «sono capitato in una buona classe». Si tratta di uno
stile che può portare alla demotivazione e al disinteresse, poiché nulla è visto sotto il proprio
controllo e viene a essere debole il legame fra il proprio agire e i risultati. A bambini che
tendono a possedere questo stile attributivo andrebbero presentati dei compiti e la
possibilità di affrontarli con le opportune strategie o senza. I bambini dovrebbero riconoscere
l'importanza delle strategie, per gli effettivi risultati e per il senso di soddisfazione che
possono provare.
È implicito che questi stili che abbiamo descritto nel dettaglio possono risultare pervasivi o
riguardare solo determinati ambiti. Ad esempio è tipico che per alcune materie vi sia più che
per altre la convinzione che «bisogna essere portati».
Un ulteriore aspetto che può risultare carente nei bambini che presentano difficoltà
d'apprendimento è quello che riguarda la percezione di autoefficacia ovvero delle proprie
abilità nell'affrontare i compiti proposti. Abbiamo visto che il credersi capaci influenza la

175
motivazione al compito, determinando, nei casi in cui questa percezione sia debole, una
riduzione dell'impegno, forme di evitamento o la tendenza a dilazionare. Oltre a questa
visione «quantitativa» delle proprie abilità ve n'è una più di tipo «qualitativo» riguardante il
modo in cui queste sono concepite. Se l'abilità è intesa come un insieme di competenze da
dimostrare potranno prevalere pensieri del tipo «chi si impegna tanto dimostra che è poco
bravo. Se uno è già bravo non serve che si impegni». Al contrario, se l'abilità è concepita
come qualcosa che, proprio grazie all'impegno, si può sviluppare, allora prevarranno
pensieri del tipo «più mi impegno più divento bravo». È evidente che questo diverso modo
di concepire l'impegno influenza la quantità e la qualità dell'impegno profuso. In un caso si
potrà arrivare a cercare di impegnarsi il meno possibile per dimostrare di essere più bravi,
nell'altro si cercherà di impegnarsi di più e il meglio possibile per diventare più bravi. Questa
tendenza a ridurre l'impegno per «dimostrare» le proprie preesistenti va evidenziata e
arginata proponendo una riflessione sull'importanza di un impegno strategico mirato proprio
a rafforzare e valorizzare le abilità esistenti e a fare emergere quelle che non si possiedono
già. Lo sforzo dell'operatore dovrà quindi essere quello di sfatare l'idea che «bravi si nasce»
e di promuovere invece quella contrapposta che «bravi si diventa». Ciò potrà avvenire sia
valorizzando situazioni concrete in cui i ragazzi hanno sperimentato come, con l'impegno
strategico e mirato, si possono rafforzare le abilità esistenti, sia proponendo attività nuove.
I ragazzi potranno così capire che la scuola non è un luogo dove esibire ciò in cui già si
riesce o si sa meglio, ma dove acquisire proprio quelle competenze, conoscenze e abilità
che ancora non si posseggono. A ciò andrebbe affiancato un lavoro anche sui piani
strategico (come affrontare le nuove attività passo a passo) e motivazionale (quale
significato dare alla nuova attività e perché può essere così emozionantesoddisfacente
affrontarla).
Importanti implicazioni emotivo-motivazionali collegate alle difficoltà d'apprendimento sono
quelle che riguardano l'accettazione da parte dei compagni e il vissuto di popolarità. I
bambini che presentano difficoltà d'apprendimento spesso risultano esclusi dai compagni,
a causa delle loro difficoltà a livello cognitivo che determinano distorsioni o incapacità
nell'interpretare i contesti sociali e relazionali e nel porsi dal punto di vista dell'altro. Bambini
con difficoltà d'apprendimento, posti a confronto con altri che non presentano problemi,
tendono a essere meno persuasivi e a creare un'impressione negativa, a non stimolare la
discussione, a manifestare poca flessibilità e un atteggiamento comunicativo passivo.
Questa incapacità riflette anche le aspettative che adulti e compagni comunicano. Alcuni
bambini risultano essere molto influenzati dalle percezioni che altri nutrono nei loro
confronti tanto da uniformare il concetto di sé a quanto altri pensano di loro. Questo spiega
perché spesso i bambini che presentano difficoltà d'apprendimento non mettano in atto
strategie relazionali che li porterebbero ad essere meglio accolti. È evidente che si instaura
un circolo vizioso che è opportuno spezzare. A tal fine è utile tenere conto che le abilità
sociali dei bambini con disturbo d'apprendimento possono migliorare per effetto di opportuni
interventi, ma che questo miglioramento non incide necessariamente sull'accettazione di
questi bambini da parte dei pari. Ciò testimonia quanto sia importante lavorare non solo sul
singolo, ma anche sul con sociale. Ciò può avvenire, concretamente, in situazioni in cui il
bambino con difficoltà è accoppiato a un compagno o inserito in un gruppo efficacemente
cooperante e insieme ai compagni deve risolvere un problema e presentare procedura e
soluzione alla classe. Questa modalità rafforza le abilità strategiche e quindi la percezione
di competenza, crea un clima di collaborazione e consente di provare soddisfazione e

176
felicità. È stato osservato che la certificazione o una diagnosi esplicita può favorire i bambini
rendendoli meglio accolti dagli insegnanti e, di riflesso, dai compagni.
2. L'importanza della considerazione degli aspetti emotivo-motivazionali nella
diagnosi di difficoltà d'apprendimento
Alcune ricerche hanno indagato le relazioni fra difficoltà d'apprendimento e motivazione
allo studio chiedendosi in modo più esplicito quanto le componenti motivazionali possano
essere in relazione con una diagnosi di disturbo specifico dell'apprendimento  sono state
realizzate alcune ricerche: l'obiettivo era quello di individuare quali aspetti fossero
maggiormente in relazione con una diagnosi di disturbo dell'apprendimento. L'importanza
degli aspetti motivazionali non vuole oscurare quella degli aspetti cognitivi o
neuropsicologici. Ciò su cui si insiste è che esiste un intreccio fra le componenti cognitive,
metacognitive e motivazionali tale per cui il bambino, che inizialmente incontra delle
difficoltà più sul versante cognitivo e strategico, nel tempo, se non è opportunamente
sostenuto, può sviluppare diverse forme di demotivazione o di disinteresse verso le attività
di apprendimento che, a loro volta, diventano cause di difficoltà.

3. Problematiche emotivo-motivazionali severe: il caso della fobia scolastica


Vi sono anche disturbi emotivo-motivazionali severi. La letteratura ha evidenziato relazioni
intrinseche fra disturbi di apprendimento e problematiche anche gravi, sia comportamentali
sia emozionali punto il caso più citato e’ quello della depressione, ma altre tematiche
rilevanti riguardano problematiche positive virgola di condotta, d'ansia, di relazione.
Fra queste risulta di particolare interesse la fobia scolastica. Si tratta di una particolare
paura e avversione verso la scuola che si accompagna a reazioni emotive negative
associate a qualche componente dell'ambiente scolastico (i compagni, la valutazione, un
docente in particolare) e che coinvolge un 2% della popolazione scolastica, in particolare
nei momenti di passaggio ovvero a 6 e a 11 anni. Si distingue dall'ansia in quanto ha
componenti più diffuse, irrazionali e profonde, non associabili a specifici elementi del
contesto scolastico. È diversa e più grave, rispetto all'assenteismo poiché può riguardare
anche gli studenti più capaci, comporta un'assenza prolungata da scuola, compare anche
quando i genitori sono a conoscenza del fatto, è associata ad auto-isolamento in casa. La
fobia scolastica, se non trattata, può portare a sviluppare forme gravi di isolamento e
depressione e inoltre comporta minori opportunità lavorative e un insufficiente sviluppo delle
proprie potenzialità. La base irrazionale del disturbo ha portato diversi autori a ritenere che
la fobia scolastica dipendesse da conflitti inconsci non risolti, da ansia da separazione da
figure di riferimento importanti, spesso la madre, o da timori legati a principi narcisistici, in
particolare l'onnipotenza.
Altri autori hanno posto maggiore rilievo agli aspetti comportamentali, in particolare ai
comportamenti di evitamento e a come questi fossero stati rinforzati nel tempo attraverso
forme di astensione dalla scuola. Tutte le ricerche concordano nel ritenere il problema
maggiormente legato ad aspetti sociali e familiari che non a difficoltà specifiche del singolo.
Sono stati proposti vari approcci per affrontare il problema, fra cui quello psicoanalitico,
centrato sulla relazione madre-bambino, quello psicodinamico, focalizzato e quello
comportamentista che prevede tecniche comportamentali quali l'esposizione graduale allo
stimolo ansiogeno, il rilassamento, affiancate a colloqui durante i quali il paziente è
incoraggiato a trarre conclusioni definitive sull'efficacia di parlare delle proprie fobie.

177
4 Strumenti per la valutazione degli aspetti emotivo-motivazionali nelle difficoltà di
apprendimento Il QAT considera una componente motivazionale, cioè l'atteggiamento
verso la scuola, che include tutta una serie di risposte emotive nei confronti della scuola e
le abilità sottese a un buon rapporto con essa, quali mantenere e stabilire relazioni sociali,
rafforzare la propria identità, sviluppare un senso di appartenenza, saper trarre esempio
dagli altri, comportarsi in modi valutati positivamente da insegnanti e compagni  gli aspetti
sociali sono così importanti al punto da considerarli come obiettivi (allacciare nuove
amicizie, essere stimati dagli insegnanti, sentirsi sostenuti dai familiari) al pari di quelli
relativi all'apprendimento (ad esempio imparare, evitare brutte figure in ambito scolastico).
Dati di ricerca confermano l'esistenza di un legame positivo e significativo fra
l'atteggiamento verso la scuola e l'apprendimento. Un atteggiamento positivo crea infatti un
ambiente classe favorevole all'apprendimento, mentre un ridotto senso di appartenenza
costituisce un fattore di rischio di abbandono e può predisporre a fenomeni di devianza
giovanile.
In ambito internazionale lo strumento più usato per misurare l'atteggiamento verso la scuola
è lo School Attitude Assessment Survey (SAAS) di cui è stata proposta anche una
versione più breve, composta da 35 item (SAAS-R). In Italia è stato predisposto di recente
il QAT che ha tratto ispirazione da due delle aree considerate nel SAAS-R. Si tratta di uno
strumento composto da 30 item da cui si ottiene un punteggio che indica «quanto bene»
il/la ragazzo/a sta a scuola e che fornisce informazioni anche sulle componenti sociali.
Un programma mirato a promuovere un corretto atteggiamento verso la scuola è quello
proposto da Friso, Moè e Pazzaglia. Questo si compone di una breve descrizione teorica
dei concetti considerati e di schede operative che il ragazzo può utilizzare da solo o in una
discussione con i compagni. Le schede contemplano l'area personale delle aspettative e
delle rappresentazioni di sé, l'area sociale che si riferisce al rapporto con compagni,
insegnanti e genitori e l'area emotiva che tocca alcuni aspetti fra cui l'ansia d'esame, il senso
di insoddisfazione, l'incertezza che accompagnano i vissuti scolastici. L'impostazione è di
tipo metacognitivo e rivolta a promuovere una riflessione propria e la costruzione, il più
possibile autonoma, delle proprie motivazioni ad apprendere.
Il test AMOS consiste in una batteria di diversi strumenti mirati a valutare una serie di aspetti
di ordine strategico e motivazionale, differenziati per fasce d'età.
AMOS 8-15 è rivolto a bambini e ragazzi della scuola primaria e della scuola secondaria di
primo grado e comprende uno strumento per valutare:
 il metodo di studio (QAS)
 le strategie (QSS)
 una prova di studio (PS) distinta in due livelli
 strumenti per valutare i seguenti aspetti motivazionali: teoria implicita
dell'intelligenza, fiducia nella propria intelligenza, obiettivi di apprendimento e
attribuzioni.
I dati normativi sono distinti per livello scolare dalla terza elementare fino al primo anno della
scuola secondaria di secondo grado.
AMOS è stato tarato per studenti di scuola secondaria superiore e universitari. Comprende
gli stessi strumenti per valutare le abilità strategiche e di studio di AMOS 8-15, più una prova
per verificare gli stili cognitivi: globale vs. analitico e verbale vs. visivo. Per la parte
motivazionale comprende strumenti per valutare i seguenti aspetti: teorie implicite fiducia,
percezione di abilità e obiettivi di apprendimento. La batteria AMOS si presta a un uso

178
flessibile: i singoli subtest possono essere applicati indipendentemente oppure si può
procedere a una somministrazione di tutti.
Un altro programma predisposto da Cornoldi si rivolge a studenti di secondo grado, ma
anche a studenti universitari che presentano difficoltà o blocchi nel sostenere gli esami. Il
programma proposto da Cornoldi trova utilizzo anche negli ultimi anni della scuola primaria
e nei primi anni di scuola secondaria di secondo grado. Tutti questi programmi hanno in
comune l'impostazione metacognitiva ovvero partono dall'idea che gli studenti devono
essere stimolati a riflettere sulle proprie motivazioni e strategie e portati a modificare il
proprio approccio allo studio e l'atteggiamento motivazionale a partire da quanto già fanno,
sanno e pensano.

5. Indicazioni generali per l'intervento


Anche il proporre attività facili può danneggiare la motivazione e non risultare funzionale
all'apprendimento. Per esempio, si è erroneamente portati a credere che quando un
bambino riesce facilmente, consegna il compito tutto giusto e in poco tempo ciò significhi
che è motivato. A una lettura attenta si può invece osservare che, a questo alunno, è stato
assegnato un compito troppo facile, nel fare il quale non ha imparato nulla di nuovo: ha
avuto una conferma delle sue capacità esistenti, ma non ha sviluppato, né acquisito nuove
competenze; inoltre, non ha potuto sperimentare delle difficoltà nello svolgere il compito e
mettere in moto il sistema di motivazioni e di strategie necessario per affrontare e risolvere
i problemi incontrati.
È questa la prospettiva sviluppata da Dweck, studiosa americana che da anni si occupa di
capire perché alcuni ragazzi si spaventano di fronte agli ostacoli posti dal compito, mentre
altri vivono questi come una sfida alle proprie abilità e una occasione per imparare. Secondo
Dweck la risposta sta nelle concezioni entitarie o incrementali delle proprie abilità e nel
significato attribuito al successo.
Vi sono bambini, ragazzi e adulti che tendono a possedere una visione «entitaria» delle
proprie abilità. Credono di avere certe capacità e non altre e di doverle dimostrare. Si
aspettano di essere giudicati sulla base delle abilità che possiedono o che non possiedono.
Per loro, il successo consiste nell'ottenere giudizi positivi circa le proprie abilità, mentre
l'insuccesso sta nell'essere valutati negativamente a causa delle proprie prestazioni
inadeguate o insufficienti.
Vi sono però anche bambini, ragazzi e adulti che tendono a una visione «incrementale»
delle proprie abilità e concepiscono l'apprendimento come occasione per costruire nuove
abilità e non come un'opportunità per dimostrare ciò che si sa già: di conseguenza possono
affrontare i compiti con maggiore fiducia, con la speranza di imparare e di riuscire a superare
le difficoltà e gli ostacoli posti dalla situazione e con minor timore di essere giudicati
incompetenti. La valutazione del loro lavoro è un indice di come il compito è stato svolto e
non, come per gli «entitari», un giudizio su di sé. Secondo una visione «incrementale» delle
abilità proprie e altrui, il successo non sta nel risultato finale, ma nel provare ad affrontare i
compiti proposti, nel cimentarsi, applicarsi, dedicarsi mettendoci il massimo delle proprie
conoscenze e strategie al fine di imparare. Il successo non sta quindi nel risultato finale, ma
in quanto si è imparato. Il successo risiede anche nello sviluppare buone motivazioni
personali verso il compito, senza le quali ogni insegnamento strategico e ogni programma
di recupero o rafforzamento diventa vano. In questa prospettiva, non si impara se il compito
proposto è troppo facile, se l'obiettivo principale (o unico) è il risultato o il dimostrarsi più
bravi. Si impara invece se la situazione proposta è «challenging» ovvero «sfidante» e pone

179
un giusto livello di ostacoli e di stimolazioni. Il bambino con disturbo dell'apprendimento può
essere spinto a «fare meglio degli altri», «fare per accontentare la maestra» oppure a «fare
meglio di prima»: è evidente da quanto detto che la motivazione più funzionale è quella che
dà origine all'ultimo dei tre possibili pensieri, perché determina un desiderio di imparare
libero da paure.
Ne scaturisce l'importanza di individuare gli ambienti motivanti, in particolare per bambini
che presentano disturbi dell'apprendimento. Quali caratteristiche dovrebbe presentare una
scuola, un'istruzione per risultare funzionale a chi presenta un disturbo specifico? A questa
domanda hanno cercato di dare risposta Brigharm e colleghi, che hanno messo a punto un
programma rivolto a ragazzi di scuola superiore che presentavano difficoltà
d'apprendimento e l'hanno implementato in tre scuole. Un punto forte della sperimentazione
è stato quello di affiancare a un supporto sulle difficoltà specifiche una serie di iniziative
volte a creare un senso di appartenenza e a promuovere la collaborazione fra scuola e
famiglia e degli insegnanti fra loro. Inoltre, si è cercato di consentire il più possibile ai ragazzi
stessi di scegliere il percorso da svolgere e le discipline che preferivano approfondire.
Il ruolo delle critiche e dei feedback è stato analizzato da alcuni autori che si sono chiesti
per quale ragione bambini che presentano difficoltà d'apprendimento temano il fallimento al
punto da evitare tutti i compiti, anche quelli fattibili. Una spiegazione di questo atteggiamento
è stata data considerando lo stile educativo, gli obiettivi, le aspettative e i valori degli adulti.
In un contesto dove l'attenzione è sui risultati e sulle potenzialità espresse, il rischio è che
l'adulto si ritrovi a criticare eccessivamente il bambino perché non si cimenta, non si applica
o fallisce e non lo valorizzi, né gli trasmetta un senso di soddisfazione per i risultati positivi
e i tentativi messi in atto per affrontare i compiti proposti. In tale contesto il bambino è portato
a vergognarsi e a fuggire le situazioni di apprendimento, anziché affrontarle. Si instaura così
un circolo vizioso che si autoalimenta. A questo quadro si possono affiancare anche aspetti
di tipo sociale. Alcuni bambini con DSA, soprattutto quelli che manifestano DDAI, tendono
a essere rifiutati o comunque a rimanere in una posizione marginale in quanto disturbano.
In realtà, tutto ciò deriva da un frustrante senso di inadeguatezza che le critiche non fanno
che esacerbare. L'indicazione operativa classica è quella di limitare l'evidenziazione dei
comportamenti negativi con osservazioni e rimproveri e di puntare nel trasmettere
approvazione e accettazione per i comportamenti positivi.

6. Le forme dell'interazione con il bambino in difficoltà: parole da dire, parole da non


dire
Ai bambini viene costantemente veicolato il messaggio che le loro prestazioni vengono
valutate, che ad ogni valutazione corrisponde un indice e che, in base a questo indice, è
possibile fare una graduatoria. Questo messaggio tende a trasmettere una «paura di non
farcela» anziché un «piacere di apprendere». Questo rischio vale ancor più per i bambini
che presentano difficoltà d'apprendimento, perché questi incontrano parecchi fallimenti e
difficoltà a scuola e inevitabilmente avvertono il focus rappresentato dall'attenzione sulla
prestazione. Analizzeremo in successione due aspetti: le parole da (non) dire e
l'atteggiamento da assumere.
Fra le frasi più frequenti rivolte al bambino in difficoltà capita di sentire «Ti devi impegnare
di più!». Questa frase può avere delle ripercussioni positive suggerendo che il bambino ce
la può fare, ha le potenzialità, ma non si applica a sufficienza, trasmettendo un'idea di
responsabilità e di controllo sul proprio apprendimento che è positiva e incoraggiante.
Tuttavia, bisogna tenere conto di come viene interpretata da chi la ascolta. Un bambino

180
entitario penserà che gli viene detto «Ti devi impegnare di più», perché non è bravo ed è
solo impegnandosi tanto che può compensare il suo problema: «chi è già bravo non deve
applicarsi così tanto». Tale interpretazione porterebbe a una considerazione personale di
incapacità piuttosto che a una legata al compito o alla prestazione non ancora adeguati. Al
contrario un bambino incrementale probabilmente penserebbe «mi dice così perché pensa
che io ce la possa fare. Ha fiducia in me e mi incoraggia a lavorare». Questa interpretazione
rende il messaggio motivante ed efficace, purché il bambino abbia in chiaro concretamente
cosa fare per applicarsi di più. La valenza del messaggio viene migliorata se viene
esplicitata, ad esempio dicendo «Dovresti ripassare i concetti x e y» oppure «Potresti fare
un po' di esercizi aggiuntivi, ad esempio quelli a pag. 21». In tali casi viene suggerito il
maggiore impegno, ma viene circoscritta la difficoltà e vengono altresì offerte strategie
opportune per affrontare il compito.
Nell'idea di motivare capita poi di proporre «Facciamo una gara!». È un messaggio
motivante? Se si considerano solo le prestazioni, queste, in un contesto competitivo,
potrebbero risultare migliorate, ma solo a breve termine. Sarà infatti necessario riproporre
la gara per far lavorare i bambini a scapito della motivazione intrinseca al compito, che non
verrà più affrontato se non ci sarà la promessa di un premio o la minaccia di una punizione.
In una serie di esperimenti gli studiosi hanno dimostrato che, quando i bambini presentano
già una motivazione al compito, ad esempio fanno dei disegni semplicemente perché si
divertono in questa attività, l'introduzione di un premio per i migliori disegni riduce l'interesse
spontaneo per questa attività e fa sì che i bambini disegnino solo se viene promesso loro
un premio e non più per il piacere di disegnare. A livello competitivo gli educatori
considerano i risultati finali; se, invece, non c'è la preoccupazione di «finire presto e bene»
allora si può meglio valutare il percorso, capire dove c'è l'incomprensione o l'errore del
bambino e ripartire da lì, facendogli svolgere con successo quel passaggio dove prima
sbagliava. Il bambino con difficoltà può avere vissuto anche numerosi fallimenti  un clima
scolastico che punta molto sulla valutazione e quindi sulla competizione fra i singoli,
piuttosto che sulla cooperazione, tende ad acuire le difficoltà che il bambino con disturbo
nell'apprendimento manifesta nel definire un buon concetto di sé.
Altra, brevissima frase, molto frequente è «Bravo/a!». È veloce da dire, normalmente fa
piacere riceverla, di solito corona un risultato positivo. Si pensa che rafforzi l'autostima e
che la sua omissione stia a significare che qualcosa è andato bene. Eppure la frase
trasmette un messaggio ambiguo e addirittura controproducente dal punto di vista
motivazionale  in una serie di ricerche è stato dimostrato che dire «Sembri proprio molto
intelligente!» piuttosto che «Ti sei applicato bene e a lungo» rendeva le persone più
vulnerabili di fronte a un insuccesso. Bambini cui è sempre stato detto di essere bravi fanno
fatica ad accettare e ad affrontare l'insuccesso e, alle prime difficoltà, tendono a evitare
compiti dove sembra loro di non riuscire. I «bravo, bravo!» sembrano quindi funzionare
finché tutto va bene, ma questa etichetta di «bravo» si scolorisce e rischia di diventare «non
bravo» allorché crescono le difficoltà poste dal compito. Ancor peggiore può essere la
situazione in cui il «bravo» è detto a fronte di risultati non particolarmente eccellenti, allo
scopo di incoraggiare. Il bambino normalmente coglie la discrepanza e può cominciare a
pensare che non ci si aspetta granché da lui. È evidente che questo può demotivare e
portare a evitare di affrontare i compiti e quindi all'insuccesso. L'indicazione operativa
associata a queste critiche è quindi quella di stimolare fornendo feedback che vertono sul
comportamento, ad esempio dicendo «hai prestato attenzione, senza chiacchierare o
distrarti», piuttosto che sulla persona, del tipo «sei attento» «sei un bravo bambino», e di

181
sottolineare eventuali miglioramenti personali, cioè «hai letto più velocemente di ieri»
piuttosto che il confronto, ad esempio «sei più preciso di tuo fratello».
Infine, un'espressione frequente è «Con me fa». Anche questa sembra essere detta con la
buona intenzione di sottolineare che il bambino, in certe circostanze con determinate
persone, ce la può fare. Il risvolto negativo è che essa intende evidenziare la presenza di
un tipo di motivazione esterna, anziché interna al bambino. Questa motivazione non porta
a rafforzare il sistema di autostima del bambino, né a fargli cogliere il nesso fra i propri sforzi
e comportamenti e il risultato, ma rischia di indurgli la convinzione di non essere capace se
non con l'aiuto di quella specifica persona. L'operatore dovrebbe evitare di far passare
messaggi del tipo «riesci perché ti sto a fianco», «con altri o da solo non riesci» e trasmettere
l'idea che si tratta dell'apprendimento del bambino, non di quello dell'operatore e che ce la
può fare da solo. Operativamente, il bambino andrebbe incoraggiato nel formulare e nel
perseguire i propri obiettivi, anziché essere posto di fronte a obiettivi stabiliti a priori o a
standard di prestazione oggettivi o decisi dall'insegnante o dall'operatore. È evidente che
tale acquisizione richiede una serie di passaggi intermedi e lo sviluppo di abilità
metacognitive e di autoregolazione lungo un percorso non necessariamente breve, ma
auspicabile. Dal punto di vista dell'insegnamento strategico ci sembra interessante riportare
i risultati di uno studio  a ragazzi che presentavano difficoltà d'apprendimento, di età
compresa fra i 10 e i 14 anni, è stato proposto uno dei seguenti quattro tipi di intervento:
a. sulle strategie di lettura + esplicito training di promozione dello stile attributivo;
b. sulle strategie con l'indicazione generale di attribuire i risultati all'impegno nei
compiti specifici proposti;
c. solo sulle strategie;
d. solo promozione dello stile attributivo.
Il confronto dell'efficacia dei quattro diversi tipi di intervento ha indicato che solo il primo ha
condotto a miglioramenti durevoli nel tempo, sia per quanto riguarda gli aspetti strategici
che quelli motivazionali. Ciò conferma l'importanza di affiancare a un training strategico
specifico per il disturbo presentato, un sostegno per gli aspetti motivazionali e in particolare
sulle attribuzioni di causa e di responsabilità personale per i risultati ottenuti.
Al di là delle specifiche parole o frasi fatte che si possono utilizzare, quali sono gli
atteggiamenti da assumere per favorire l'emergere di un concetto di successo a più ampio
respiro? Come può il bambino trovare un automotmotivazione?
Un primo atteggiamento che sembra rilevante è quello relativo alla visione incrementale,
anziché entitaria dell'apprendimento, non solo del bambino, ma anche dell'operatore. È noto
infatti che insegnanti entitari, convinti che certi alunni sono portati e altri no, tendono a
trasmettere la stessa visione in classe.
Un secondo atteggiamento conseguente da assumere è quello di fare sperimentare il
successo ovvero di trasmettere, anche attraverso i propri atteggiamenti e comportamenti,
il pensiero «Sei stato tu che l'hai fatto». U
n terzo atteggiamento consiste nel fornire un aiuto strategico e fornirlo al momento più
opportuno  risulta spontaneo, per un operatore, spendersi nell'aiutare un bambino che
vede in difficoltà, ma tale aiuto non sempre è utile, perché può essere interpretato in maniera
distorta e inadeguata dal bambino. Infatti il pensiero che il bimbo può sviluppare è «siccome
non sono bravo, mi aiuta la maestra; se fossi bravo non avrei bisogno di aiuto» oppure
«riesco se mi aiutano, altrimenti non ce la faccio» e conseguentemente «non mi impegno,
non sto attento. Io sono quello che riesce solo se aiutato oppure se mi assegnano un

182
compito più facile rispetto agli altri». Può essere quindi importante evitare di intervenire se
non su richiesta specifica di aiuto, perché l'aiuto non richiesto può essere vissuto come
un'intrusione, causare una perdita del senso di controllo personale sul proprio
apprendimento e favorire un'attribuzione delle proprie difficoltà alla mancanza di abilità.
Potrebbe capitare che il bambino in difficoltà, lasciato solo, non chieda mai aiuto, perché si
sente emotivamente disturbato o perché non si accorge delle difficoltà: gli sembra di avere
svolto correttamente l'esercizio o di avere capito, quando invece non è così. Il ruolo
dell'operatore in casi di questa natura è proprio quello di aiutare bambino ad autovalutarsi
creando una motivazione a chiedere aiuto e liberandolo dai blocchi psicologici o relazionali
(es. vergogna).
Preferibile che talvolta si lasci che il bambino completi il compito e quindi abbia modo di
apprezzare il suo lavoro svolto, piuttosto che intervenire quando si vede un errore. Se
l'obiettivo fosse fare bene e presto allora l'operatore dovrebbe intervenire sempre subito
facendo notare l'errore, ma, poiché l'obiettivo è quello di rendere il bambino autonomo e
autoregolato, l'operatore può scegliere prima di lasciare svolgere l'intera operazione, poi
invitare a ripassarla, verbalizzando i passaggi in modo che il bambino si accorga da solo
dell'errore e da solo rifaccia l'operazione correttamente. Va aggiunto che una discussione e
riflessione sui processi che hanno portato all'errore può aiutare il bambino a riflettere sui
suoi processi mentali e a capire che anche l'errore è un'occasione per imparare. Perché
alcuni bambini si cimentano con entusiasmo e voglia di fare mentre altri vivono le situazioni
di apprendimento con ansia e con la paura non farcela? La spiegazione sta
nell'atteggiamento che educatori, insegnanti e genitori assumono e hanno assunto nel
tempo, creando una storia di approvazione per l'indipendenza o di sostegno della
dipendenza dall'aiuto altrui  il bisogno innato di competenza fa sì che il bambino affronti
determinati compiti. A questo punto ci possono essere due esiti: uno più positivo e
funzionale al sostegno dell'autonomia, l'altro più sul versante negativo che porta alla
diminuzione del piacere di apprendere e dell'autonomia.
Il primo esito è dovuto anche all'adulto che sostiene ed eventualmente rinforza i tentativi di
padronanza ovvero lascia fare senza intervenire, senza sostituirsi al bambino/a, senza
avere fretta o far capire che non è bravo/a o che non sta facendo nel modo ottimale. Il
bambino ha bisogno di sentire che quello che sta affrontando è il suo compito, che ce la può
fare e che l'adulto ripone fiducia in lui. In seguito ad esperienze di questo tipo, il bambino
comincia a sentirsi più sicuro ed è pronto a cimentarsi con i compiti senza avere
continuamente bisogno di una conferma e di un'accettazione del proprio agire. Svilupperà
così un sistema interno di autoricompensa che condurrà ad esperire piacere e soddisfazione
nell'eseguire i compiti e di conseguenza ad aumentare la motivazione verso gli stessi. Il
secondo esito conduce a una condizione meno favorevole nella quale si ha un calo nel
piacere di apprendere dovuto al fatto che l'adulto non abbia approvato i tentativi fatti dal
bambino, si sia sostituito a lui, o lo abbia biasimato per le difficoltà incontrate o per gli errori
compiuti. Il bambino impara da tale disapprovazione dei tentativi per «fare da solo» che non
è capace, che altri sanno fare meglio di lui, che non è portato, che è meglio non provarci
più.
Si i noti che questi principi erano stati avanzati anche da illustri pedagogisti del passato
come per esempio da Maria Montessori, nel motto «Aiutami a fare da solo».

7. Demotivati e super-motivati

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Vi sono forme di demotivazione, ma vi sono anche forme di troppa motivazione: i
«secchioni», i perfezionisti, quelli che si dimostrano sempre come i più bravi  anche queste
forme di eccessiva motivazione possono avere dei risvolti negativi e richiedere eventuali
interventi da parte dell'operatore. Ad esempio, ragazzi che da sempre hanno ottenuto il
massimo dei voti, mostrandosi super-motivati verso qualsiasi compito e circostanza e pronti
a dare il massimo di sé, possono risultare particolarmente vulnerabili di fronte a un
insuccesso. Se a questo essere bravissimi si associa una visione entitaria delle proprie
abilità («sono nato così»), la persona può vedersi crollare delle «certezze» che erano al
centro del proprio percepirsi come studente. Ciò può determinare uno sconvolgimento
interiore e un ridimensionamento importante delle proprie convinzioni, che, a sua volta, può
condurre a scelte di abbandono scolastico o cambio di indirizzo. Questo può accadere
spesso nel passaggio da un livello scolare a uno successivo. È quello che viene definito
«big fish little pond effect» ovvero l'effetto del «pesce grosso nel piccolo stagno». Un
ragazzo con buone abilità in una o in più discipline è come un pesce grosso nel piccolo
stagno della scuola primaria o della secondaria di I grado, ma rischia di diventare un pesce
medio qualsiasi nella scuola secondaria. Per evitare che ciò accada i ragazzi
particolarmente brillanti dovrebbero essere accompagnati, durante gli anni della scuola
dell'obbligo, ad affrontare degli insuccessi per non arrivare a essere troppo vulnerabili. Ciò
può avvenire concretamente proponendo compiti impegnativi, non scontati, compiti che
possono porre delle difficoltà e portare anche a dei fallimenti che andranno «incassati» con
l'aiuto delle figure di riferimento che aiuteranno a dare un significato al fallimento stesso e a
sviluppare le giuste abilità per affrontare efficacemente anche l'insuccesso. Accanto a
questo voler essere «più bravi», alcuni ragazzi potrebbero sviluppare forme di
perfezionismo che nella scuola dell'obbligo sono gestibili, ma che diventano più difficilmente
praticabili nei livelli scolastici successivi, visto che fare tutto e bene impegna molte ore ed
energie. Tutto ciò è quindi realizzabile finché le richieste scolastiche sono contenute, ma
non quando cominciano a diventare più consistenti. Inoltre, una caratteristica che spesso
accompagna il perfezionismo è il discernere poco fra le cose più importanti e i dettagli meno
rilevanti. Può capitare quindi che il perfezionista per volere sapere tutto rischi di non cogliere
il nucleo principale della materia, che sta affrontando, manifestando debolezze nella
prestazione.
Per l'insegnante o l'operatore risulta quindi particolarmente importante sostenere anche
coloro che sono troppo e mal motivati. Ciò potrebbe avvenire aiutando a distinguere sé dalle
proprie prestazioni, e sostenendo l'idea di fare per la «gioia di apprendere» piuttosto che
per dimostrarsi bravi. Questo percorso andrebbe svolto attraverso forme di riflessione
metacognitiva accompagnate con la considerazione dell'eventualità di insuccessi o con
reali fallimenti, visti in una nuova luce per il valore che assumono rispetto alla dimensione
di sé e per le ricche informazioni che i propri errori possono dare.

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CAPITOLO 12: “LAVORO CLINICO NEI SERVIZI E COLLABORAZIONE CON LA
SCUOLA”
Nel lavoro quotidiano con i disturbi specifici di apprendimento (DSA), presso i servizi o nelle
scuole, restano comunque aperti diversi problemi che verranno affrontati in questo capitolo:
• come sono organizzati i servizi di Consulenza per l'età evolutiva, le Unità operative
di neuropsichiatria infantile e dell'adolescenza? Rispondono alle esigenze dei DSA
(per esempio riconoscimento tempestivo del problema, trattamenti adeguati,
sufficiente informazione alla scuola, ecc.)?;
• come è opportuno procedere nella diagnosi di DSA e nella successiva elaborazione
della diagnosi funzionale?;
• quante sono le richieste di consulenza per i DSA che arrivano ai servizi e a che età
generalmente avviene la prima consulenza per DSA?;
• cosa si attende la scuola nei casi in cui invita i genitori a portare il proprio figlio a una
consulenza specialistica perché presenta problematiche nell'apprendimento
scolastico?;
• quale percezione hanno gli insegnanti dell'alunno in difficoltà di apprendimento?;
• a quale normativa fa riferimento la scuola di fronte alle disabilità e alle difficoltà
scolastiche dei DSA? Quali risorse può mettere in campo?
• quale ruolo potrebbe svolgere la scuola rispetto alla prevenzione primaria,
secondaria, terziaria? Il capitolo si articola in due parti: la prima esamina le modalità
operative dei servizi che si occupano di DSA, la seconda propone dal punto di vista
della scuola le problematiche connesse ai DSA che possono insorgere nello
svolgimento dell'azione didattico-educativa.

1. L'organizzazione dei servizi per i DSA


La diagnosi e l'intervento possono essere svolte da operatori e strutture diverse. In Italia, le
Aziende sociosanitarie locali dispongono di servizi (a volte indicati come Unità operative
semplici o complesse) cui il cittadino può accedere direttamente, per propria iniziativa,
chiedendo una consulenza diagnostica in questo campo.
Vi sono poi Istituti o Servizi sociosanitari privati, spesso gestiti da religiosi, in molti casi
convenzionati con le aziende sanitarie, presso i quali il genitore può portare il proprio figlio
per un accertamento clinico.
Anche talune università (es. Padova) hanno aperto servizi di consulenza. È inoltre possibile
richiedere un aiuto a liberi professionisti che hanno acquisito una specifica competenza in
questo ambito.
Alcune regioni dispongono di centri di riferimento all'interno dei quali l'attività è
prevalentemente rivolta alla ricerca, alla diagnosi e al trattamento delle disabilità cognitive,
linguistiche e dell'apprendimento.
Importante infine è l'attività clinica e di ricerca svolta dagli Istituti di ricerca, ricovero e
cura e di cui i più rilevanti per i DSA si trovano a Calambrone (Pisa), Bosisio Panini (Lecco),
Trieste, Troina (Enna). Le figure maggiormente coinvolte nel campo dei DSA sono
essenzialmente tre: neuropsichiatra infantile, psicologo, logopedista; altre figure
potenzialmente interessate sono quelle dell'insegnante di sostegno, psicomotricista,
fisioterapista, pedagogista, foniatra, oculista, neurologo, linguista; è inoltre possibile, che
anche l'assistente sociale sia coinvolta in una prima fase allo scopo di raccogliere
informazioni generali sulla famiglia e sull'inserimento scolastico del bambino. Si può trovare

185
un servizio distrettuale per l'età evolutiva che accoglie in prima istanza le richieste chieste
del territorio (scuola e famiglia) ed è spesso costituito solo da psicologo e logopedista, i
quali possono avvalersi per la diagnosi e il trattamento del neuropsichiatra (per esempio
esame neurologico, accertamenti ti strumentali, interventi farmacologici, ecc.). Oppure
possono esserci vere e proprie unità operative di neuropsichiatria infantile che raccolgono
tutte le richieste di consulenza a favore di pazienti di età compresa tra gli 0 e i 18 anni.
Nella realtà italiana, nel campo dei disturbi evolutivi specifici dell'apprendimento e dei
disturbi da deficit di attenzione e di iperattività la motivazione alla consulenza viene
fortemente orientata dagli insegnanti. Spesso questa richiesta genera nei genitori
preoccupazione, diffidenza nei confronti dell'operato stesso dei docenti, ma anche timori di
discriminazione del proprio figlio nell'azione didattica curricolare con l'intento di giungere a
una «certificazione» e/o proporre attività semplificate nei contenuti e nella forma. L'impegno
temporale e i costi previsti per seguire un caso di DSA sono estremamente variabili e
meriterebbero maggiore riflessione di quella che ricevono ora, perché potrebbero orientare
a una più oculata spesa da parte delle famiglie e dei servizi pubblici. In linea di principio, si
dovrebbe infatti applicare ai servizi sui DSA una logica economica che si ponga in termini
di costi-efficacia e costi-benefici. In effetti, i costi per il Servizio sanitario nazionale pubblico
per i DSA dovrebbero poter essere in qualche modo stimati e questi potrebbero essere
rapportati ai benefici raggiunti, nei termini di miglioramenti nell'apprendimento deficitario e
nella qualità della vita del bambino e delle persone che gli sono vicine. Una valutazione per
il contesto italiano, simile a quella che è stata più volte tentata per altri contesti potrebbe
riservare delle sorprese, con eccessive spese nei momenti diagnostici e insufficienti sforzi
per il monitoraggio e l'appoggio del DSA lungo tutto il percorso scolastico. Infatti, il numero
di visite necessarie per approdare a una diagnosi è molto diverso da struttura a struttura: in
alcuni casi sono richiesti solo due incontri (anamnesi, verifica dei criteri di inclusione e di
esclusione per la diagnosi, osservazione, colloquio clinico, test cognitivi), in altri contesti
possono essere richieste da 5 a 13 visite. In genere, i servizi che operano a livello
ambulatoriale prevedono un tempo per la diagnosi che va da un mese a due-tre mesi.
Alcuni servizi, pubblici o privati, prevedono una figura (il neuropsichiatra infantile) che
accoglie tutte le richieste di diagnosi e coordina le varie sedute di approfondimento; in altri,
invece, la valutazione può essere affidata direttamente a un professionista esperto delle
problematiche.
Il percorso diagnostico e l'impostazione del Progetto riabilitativo dovrebbero essere il frutto
di una valutazione globale e multiprofessionale. In questo senso, una volta formulata la
diagnosi e stabilito l'intervento sarebbe indifferente che l'incontro con gli insegnanti, che
hanno segnalato un loro alunno per difficoltà di apprendimento o invitato la famiglia a
richiedere una consulenza specialistica, venisse svolto da un professionista piuttosto che
un altro. Tuttavia, un orientamento clinico attento alla globalità della persona, ma meno
sensibile all'esigenza di competenze specifiche nel campo dei DSA ha alcune lacune sia di
tipo metodologico che teorico.
La prima che si segnala riguarda proprio il processo diagnostico. È indubbio che in Italia
l'orientamento tradizionalmente non ha facilitato l'individuazione dei disturbi specifici di
apprendimento e l'adozione di procedure diagnostiche e di intervento esplicitamente messe
a punto per il DSA. L'orientamento operativo dei Servizi è impegnato a coordinare e
orientare l'intervento di figure professionali differenti (neuropsichiatra, psicologo,
logopedista, assistente sociale, educatore, ...) e privilegia spesso gli aspetti emotivi, sociali
e funzionali del disturbo. Con questa modalità di approccio, anche il disturbo specifico di

186
apprendimento viene affrontato come un generale «problema di sviluppo», alla pari di altre
psicopatologie, centrando quindi l'attenzione non solo sull'alterazione di una funzione ma
anche sulle sue implicazioni emotivo-motivazionali, familiari e sociali. L'esigenza di far
riferimento a diverse variabili interconnesse per l'analisi di una patologia o di un problema è
sicuramente un passo avanti importante rispetto a modelli lineari causali semplici, ed è
ampiamente condivisa.
Allo stesso modo risulta fondamentale prevedere un lavoro clinico specifico per i DSA,
coordinato da un professionista specificamente preparato per queste problematiche. Le
modalità operative precedentemente descritte, che non tengono cioè conto della specificità
della psicopatologia, presentano dei rischi nella diagnosi dei DSA. Il primo rischio quindi di
questo approccio è la mancanza di una precisa procedura diagnostica costruita su modelli
interpretativi del DSA. Possiamo individuare alcuni problemi tipici che si incontrano nel
lavoro clinico coi DsA:
• la valutazione delle problematiche emotive-relazionali come aspetti principali
dell'evoluzione del disturbo;
• il debole coinvolgimento dei genitori nella consulenza;
• la mancata acquisizione di sufficienti informazioni utili per la scuola al fine di mettere
in relazione le difficoltà di apprendimento con le cause funzionali del disturbo e
scegliere di conseguenza quali misure compensative e/o dispensative utilizzare;
• lo scollamento fra diagnosi e linee seguite per l'intervento;
• l'impossibilità nello stabilire quali cambiamenti siano dovuti alla maturazione del
bambino, o piuttosto agli effetti dovuti all'intervento, dalle particolari tecniche utilizzate
per la riabilitazione all'intervento sugli aspetti emotivo-relazionali.
3. La valutazione del DSA
Anche se negli ultimi anni si è assistito a importanti sforzi a opera di gruppi professionali
non esistono esistano in Italia delle procedure codificate e utilizzate nella diagnosi di
bambini con DSA e con DDAI. Possiamo pertanto limitarci a fornire delle indicazioni
operative fondamentali.
Il primo momento di indagine clinica avviene attraverso la raccolta anamnestica durante
la quale i genitori vengono invitati a riportare la situazione attuale, il quadro familiare, e se
vi sono state complicanze durante il parto o postnatali, a tracciare le tappe di acquisizione
relative alla deambulazione, al linguaggio, all'autonomia, alla conquista delle prime relazioni
sociali. Questo momento è importante dal punto di vista clinico per orientare il successivo
percorso diagnostico. Per esempio, la presenza di ritardo o disturbo di linguaggio può avere
delle importanti ricadute per l'apprendimento della lingua scritta soprattutto nella
comprensione del testo; allo stesso modo alcuni ritardi nell'acquisizione di specifiche
competenze motorie possono essere importanti nella valutazione delle disprassie evolutive;
l'acquisizione di ritmi regolari sonno veglia per il disturbo da deficit di attenzione e di
iperattività (DDAI), ecc. Allo scopo di effettuare un'indagine accurata può essere utile
avvalersi anche di interviste strutturate come per esempio l'intervista strutturata K-SADS-
PL; nel caso, inoltre, il clinico acquisisse il sospetto diagnostico per un tratto DDAI risulta
importante richiedere a genitori e insegnanti di descrivere, attraverso questionari specifici,
il comportamento e l'attenzione del bambino nei due rispettivi contesti di vita. Alla
conclusione di questa fase, si dovrebbero formulare delle ipotesi diagnostiche e illustrare ai
genitori come si intende verificarle. Nel campo dei DSA, ma anche del DDAI è fondamentale
valutare lo «stato degli apprendimenti». allo scopo di indagare l'estensione del problema e
la sua gravità. Si tratterà di verificare se sono presenti i criteri di inclusione nel disturbo

187
specifico, ove si potrà fare riferimento ai criteri standard e alle linee guida della Consensus
conference. Questa fase dovrebbe prevedere due distinte operazioni:
• la prima generale che indaga l'esistenza di un problema attraverso prove specifiche
• la seconda che approfondisce le cause funzionali che lo determinerebbero.
Relativamente alla prima operazione, il clinico dovrebbe compiere le seguenti operazioni:
1. esplicitazione del motivo della richiesta di consultazione;
2. raccolta dell'anamnesi fisiologica e familiare;
3. valutazione breve dello «stato degli apprendimenti», con una maggiore
focalizzazione sull'area eventuale per la quale il bambino è stato segnalato.
La procedura diagnostica intende verificare in primo luogo, accanto ai criteri di inclusione
nel DSA (e nel DDAI), anche il livello di acquisizione delle competenze necessarie per
affrontare le richieste scolastiche. Risulta importante acquisire quelle informazioni che
potranno essere poi confrontate con l'idea che dell'alunno ha l'insegnante.
La seconda operazione di diagnosi dovrebbe approfondire il «locus» funzionale del deficit
(ricerca sulle cause del disturbo di apprendimento). La diagnosi dovrà contenere una
valutazione descrittiva dei disturbi cognitivi e dell'apprendimento e la formulazione di ipotesi
sulle cause del deficit e dovrà consentire l'individuazione del problema all'interno delle
classificazioni esistenti relative ai disturbi dello sviluppo, così da favorire una possibilità di
comunicazione veloce e sufficientemente precisa tra gli operatori dei servizi e della scuola
sul tipo di patologia riscontrata nel bambino in esame. Si tratta di guadagnare «un'idea»
circa le modalità di funzionamento del bambino e di sintetizzare queste informazioni
all'interno di un profilo psicologico-funzionale che consenta di comprendere l'ambito della
patologia riscontrata al momento della valutazione, ma anche le modalità attraverso le quali
il bambino apprende e si adatta all'ambiente.
A questo punto si può definire un progetto di intervento all'interno del quale chiedere la
collaborazione della scuola sia rispetto alle particolari difficoltà che incontra lo studente sia
in relazione alle ricadute di queste sul piano psicologico e motivazionale. Il processo
valutativo e la proposta di trattamento, basata su evidenze sperimentali, dovrebbero essere
illustrati ai genitori, meglio se attraverso una relazione scritta nella quale risultino con
chiarezza il percorso diagnostico, gli strumenti utilizzati, i dati raccolti e la loro
interpretazione  ci deve essere per la scuola la possibilità di disporre di un referto in grado
di documentare le difficoltà dello studente, su cui basare possibili interventi educativi.
Proprio perché si tratta di problematiche che investono l'apprendimento scolastico, la scuola
e i servizi sanitari specialistici dovrebbero collaborare assieme nella definizione di attività di
recupero. La scelta delle procedure di intervento e degli strumenti idonei dovreb be
prevedere il coordinamento da parte di uno specialista in psicopatologia dell'apprendimento.
A questa prima valutazione essenziale, e spesso sufficiente, può seguire, nei casi più
complessi, una seconda più articolata e comprensiva. Anche questa dovrà trovare delle
modalità di comunicazione, comprensibili alle diverse figure professionali che possono
essere coinvolte nel progetto di intervento  necessità di riportare un quadro esaustivo circa
le diverse manifestazioni del sintomo  adottare un linguaggio condiviso con altre figure
professionali  bisogna fornire un bozzetto clinico in grado di orientare eventuali decisioni
terapeutiche, riabilitative, educative, didattiche. Una valutazione completa del bambino, solo
per casi in cui essa si riveli necessaria, può coinvolgere molti piani:
1) area degli apprendimenti: lettura, scrittura, comprensione del testo, dominio
numerico, «problem-solving» matematico;

188
2) area dello sviluppo visuomotorio, con particolare riferimento alle prassie della
scrittura e ai disturbi visuospaziali dell'apprendimento;
3) area dello sviluppo delle abilità cognitive: percezione visiva, relazioni spaziali,
linguaggio, memoria, attenzione;
4) area dello sviluppo affettivo-relazionale, con particolare attenzione per autonomia
affettiva e rapporti con l'adulto e con i compagni: si tratta di descrivere il grado di
autostima, la tolleranza alle frustrazioni, il grado di autonomia comportamentale ed
emotiva, come il bambino si comporta con gli altri, esprime o comunica i propri
sentimenti, prende iniziative, riesce a collaborare, quale motivazione è presente nei
confronti dell'apprendimento scolastico e verso attività extrascolastiche;
5) area del livello di funzionamento cognitivo e delle potenzialità di sviluppo:
quest'area riguarda più specificatamente l'analisi dell'intelligenza/e, ma porta anche in
qualche modo alla sintesi del quadro ottenuto, integrato con indicazioni relative al
livello di sviluppo raggiunto e con la prognosi delle aspettative dei possibili livelli di
apprendimento che ci si può attendere. Le aree previste nell'elaborazione della
diagnosi funzionale per i DSA sono in parte diverse da quelle indicate per la diagnosi
funzionale della legge quadro 104 poiché diversa è la condizione clinica dovuta a DSA
rispetto ai bambini in situazione di handicap (es. ritardo mentale). In particolare, è stata
inserita l'area degli apprendimenti (da valutare con modalità e strumenti specifici e da
professionisti formati), poiché nella normativa viene prevista la stesura del profilo
dinamico funzionale attraverso il concorso di molteplici figure professionali
(psicologo, neuropsichiatra infantile, docenti curriculari e specializzati, in
collaborazione con le famiglie). Va precisato che l'elaborazione della diagnosi
funzionale per i DSA non porta necessariamente all'atto formale definito di
«certificazione di handicap», necessario per l'assegnazione dell'insegnante di
sostegno. Questa particolare condizione crea spesso malintesi, aspettative
contrastanti, attriti tra operatori della scuola, famiglia e professionisti. In altre parole,
se ad esempio a un bambino viene posta diagnosi di dislessia evolutiva, il fatto di
riconoscere questa problematica dovrebbe prevedere l'adozione di interventi
appropriati. Tra questi, la scuola dovrebbe attivarsi per cercare di limitare le
conseguenze del disturbo non solo con la normale azione didattica, ma anche
attraverso l'adozione di strumenti compensativi e dispensativi opportuni che
garantiscano il reale diritto allo studio del ragazzo. Es. può essere utile prevedere l'uso
della calcolatrice, del computer, dispensare dalla lettura ad alta voce, dalla scrittura
sotto dettatura veloce, dal rispetto Queste indicazioni sono previste dalla circolare
MIUR n. 4099/Aa, del 2004, la quale indica esplicitamente la necessità di lavorare a
scuola in modo differenziato con DSA.
Inoltre la scuola è portata a pensare che trattamenti speciali richiedano insegnanti speciali,
quindi specializzati, come appunto dovrebbero essere gli insegnanti di sostegno, senza
porsi nella prospettiva di considerare ogni bambino come portatore di caratteristiche e
esigenze specifiche e quindi tale da richiedere momenti di progettazione individualizzata.
Una conseguenza importante nell'utilizzo di un approccio clinico «indifferenziato» nella
diagnosi dei disturbi evolutivi specifici è la difficoltà, a livello nazionale di conoscere l'entità
del fenomeno: non esistono dati univoci relativi all'incidenza del DSA. Se ci viene chiesto
quanti sono questi studenti con difficoltà scolastiche, quanto lavoro richiedano ai
professionisti dei Servizi specialistici, la risposta è generica e poco precisa. Ma perché è
difficile la raccolta di questi dati? La ricerca dei motivi che determinerebbero la difficoltà

189
nell'identificare i DSA, il disturbo da deficit di attenzione e di iperattività e altri disturbi
specifici dello sviluppo, risiedono nel fatto che prassi cliniche differenti e una frequente
scarsa attenzione al DSA possono portare a stime di incidenza estremamente differenti. I
dati dell'Unità operativa complessa di NPI della Provincia di Venezia possono fornire una
stima sull'entità dei disturbi specifici dello sviluppo, in un contesto sensibile alla tematica dei
DSA. All'interno di questa struttura, è costituito un servizio di secondo livello, coordinato da
uno psicologo, che raccoglie gli invii provenienti da tutti i distretti dell'azienda sanitaria, ed
è organizzato in modo tale da prevedere uno specifico percorso diagnostico e di trattamento
per i disturbi di apprendimento, di linguaggio e di attenzione e iperattività. I dati che fanno
riferimento alle diagnosi formulate da questo professionista, negli anni 2004, 2005 e 2006,
a favore di bambini residenti nel territorio dell'azienda sanitarSa indicano una prevalenza,
fra le richieste di consulenza pervenute, di quelle relative a bambini con DsA (circa il 40%),
rispetto ai quali sono previsti percorsi di trattamento a seconda delle necessità, e percentuali
minori di disturbi specifici del linguaggio (attorno al 15%) e disturbi di attenzione/iperattività
(10%) e ancora minori per tutti gli altri disturbi dello sviluppo (35%): in questo contesto i
maschi erano il doppio delle femmine per i primi due tipi di disturbo e circa otto volte superiori
per il terzo. Va aggiunto che gli alunni DSA vengono visti per la prima volta dalla seconda
alla quarta classe della scuola primaria. Tuttavia, non sono pochi gli studenti che ricevono
una diagnosi di DSA alla fine della scuola primaria di primo grado, se non addirittura mentre
frequentano gli ultimi anni della scuola secondaria. Proprio per le ricadute sulla motivazione
allo studio, sull'immagine di sé, sull'autostima, un riconoscimento precoce del problema
e un adeguato intervento riabilitativo dovrebbero sempre essere auspicati.

2. La normativa scolastica
Per trattare la normativa a cui la scuola fa riferimento nel suo lavoro con le difficoltà e i
disturbi specifici dell'apprendimento, risulta oggi utile partire da una pietra miliare della
legislazione scolastica italiana: la legge 517 del 1977.
Con l'articolo 7 della legge infatti venivano abolite le «classi di aggiornamento e
differenziali» ed erano previsti l'inserimento e l'integrazione nelle classi normali degli alunni
«portatori di handicap» (nel tempo è diventato «soggetto in situazione di handicap», poi
«disabile», poi «diversamente abile»). In questa prospettiva si assumeva che interventi
educativi e didattici differenziati e individualizzati dovessero avvenire in relazione al
contesto-classe e essere concordati con gli specialisti della disabilità e con le strutture
presenti nel territorio.
L'articolo 2 della legge 517 precisava che, al fine di contribuire all'attuazione del diritto allo
studio, «la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative
organizzate per gruppi di alunni della stessa classe, oppure di classi diverse, anche allo
scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni».
Gli alunni di cui si parla nell'articolo non sono ben definiti ma si può evincere che non
coincidono con quelli in situazione di handicap, ma che sono alunni che richiedono
ugualmente un'attenzione particolare per i quali è possibile avvalersi di una differente
organizzazione scolastica.
Con la legge quadro n 104 del 1992, il legislatore ha inteso precisare con maggiore
chiarezza i principi e le coordinate necessarie per promuovere e realizzare l'integrazione
della persona disabile nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società, individuando a
questo scopo compiti specifici dei servizi socio-sanitari, della scuola, di Regione, Provincia
e Comuni e le relazioni/collaborazioni tra i diversi enti. In particolare, la legge ha definito

190
chi sia la persona disabile: persona con minorazione fisica, psichica e sensoriale
stabilizzata e progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di
integrazione lavorativa, per la quale dopo accertamento essa ha diritto alle prestazioni
stabilite in suo favore. In ambito scolastico questo ha significato poter disporre di un
insegnante aggiuntivo, l'insegnante di sostegno, e altro personale di supporto nei casi più
gravi e la possibilità/dovere di prevedere interventi educativo-didattici mirati al caso. La
legge ha anche stabilito da chi e come deve essere elaborata la diagnosi che documenta la
compromissione: la diagnosi, che deve essere «diagnosi funzionale», spetta alle unità
sanitarie locali, o più precisamente alle unità multidisciplinari che elaborano la diagnosi
considerando e descrivendo le diverse funzioni e potenzialità della persona in ordine a
precisi aspetti (cognitivo, affettivo-relazionale, linguistico, sensoriale, motorioprassico,
neuropsicologico, autonomia personale e sociale). Gli accertamenti devono essere
documentati in forma scritta (con relazione/scheda riepilogativa). A partire dalla diagnosi, le
unità sanitarie locali provvederanno a stilare la «certificazione», su apposita modulistica,
dove vengono riportati la «diagnosi clinica», la tipologia di disabilità prevalente e il grado, la
richiesta di personale e di trattamenti, la validità del documento, che va controfirmato da
uno dei genitori. La «certificazione» è quindi un documento distinto dalla relazione/scheda
in cui è riportata la «diagnosi funzionale» e viene rilasciata unicamente dalle strutture
pubbliche presenti sul territorio. Questo significa che la diagnosi funzionale e la relazione
collegata non sono necessariamente il presupposto per la certificazione. È ovvio che, nel
caso dello studente disabile con gravi difficoltà cognitive, la «certificazione» è logica
conseguenza, ma in altre situazioni, ad esempio di «Funzionamento Intellettivo Limite», è
più complesso decidere di rilasciare il documento di certificazione.
Anche nel caso dei DSA, la diagnosi generalmente non porta a certificazione, a meno che
non siano presenti particolari gravità del disturbo, comorbilità, potenzialità cognitive deboli.
Il problema della «certificazione» è un aspetto molto delicato nella relazione servizi, scuola,
famiglia. Infatti, la scuola tenderebbe a richiedere la certificazione per quasi tutti gli alunni
con difficoltà scolastiche, qualunque ne sia la causa, così da poter disporre di personale
aggiuntivo specializzato (insegnante di sostegno), il quale consentirebbe di realizzare
attività didattiche differenziate. I servizi invece sono più cauti nel produrre la certificazione;
ma, soprattutto, non disponendo di protocolli di indagine condivisi, si muovono secondo
logiche e approcci differenti. In alcune realtà, le problematiche di apprendimento, in assenza
di ritardo mentale, possono essere certificate, in altre invece non viene richiesta la presenza
dell'insegnante di sostegno. Inoltre, i servizi pubblici hanno come cliente/utente diretto il
genitore dello studente, che molto spesso non è favorevole alla «certificazione». La
compilazione del modulo viene spesso rifiutata dalla famiglia perché percepita come una
pericolosa etichetta con la quale l'alunno viene identificato dalla scuola. La legge 104 ha
previsto altri aspetti.
Il cosiddetto Profilo dinamico funzionai (PDF) è redatto dopo che è stata effettuata la
diagnosi dall'unità multidisciplinare, dai docenti curriculari, dall'insegnante operatore
psicopedagogico, dall'insegnante specializzato con la collaborazione dei genitori
dell'alunno, e dovrebbe indicare il prevedibile livello di sviluppo dell'alunno in situazione di
handicap. Il PDF è lo strumento di raccordo dei punti di vista sanitario-riabilitativo, educativo-
didattico e familiare per individuare obiettivi, attività e modalità di intervento. A partire dal
PDF si predispone un Piano Educativo individualizzato (PEI) funzionale all'alunno. Il PEI
è il «documento nel quale vengono descritti gli interventi integrati ed equilibrati tra loro».
Sono state anche indicate modalità per garantire il diritto all'educazione e all'istruzione ai

191
disabili: programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari e sociosanitari
arrivando a stipulare accordi di programma, dotazione di strumentazioni tecniche, ausili,
sussidi didattici, istituzione di corsi per formare personale specializzato all'insegnamento
per l'integrazione da parte del Ministero dell'istruzione. Come si può osservare da questi
brevi richiami, la legge 104 considerava le difficoltà di apprendimento come secondarie alla
disabilità, ad esempio a un ritardo mentale, ed era solo in un secondo momento, nella fase
di elaborazione del PDF, che prevedeva la descrizione degli stati degli apprendimenti
rapportandosi con la scuola, vista come ente a cui compete quest’area di analisi, mentre
non veniva prevista un'area specifica di indagine e descrizione nella fase diagnostica. In
realtà nella pratica clinica accade che venga richiesta una valutazione degli apprendimenti
e dei processi sottostanti di studenti che hanno già una certificazione, proprio al fine di
meglio progettare il lavoro scolastico.
La categoria di DSA compare nella Classificazione internazionale a delle malattie (ICD-
9 e 10), elaborata dall'OMS, e nel Manuale di diagnostico e statistico delle malattie
mentali (DSM versione III e IV), elaborata dall'associazione psichiatri americani, a cui gli
operatori sanitari deputati alla diagnosi fanno riferimento. Per questa psicopatologia dell'età
evolutiva non è esplicitamente prevista la certificazione. Tuttavia, se ragioniamo seguendo
la logica della scuola possiamo concordare con essa che un disturbo specifico di
apprendimento, soprattutto se severo, ostacoli al pari delle disabilità la piena realizzazione
del diritto allo studio. Perché allora non prevedere anche per studenti con DsA insegnamenti
speciali ed eventualmente un insegnante di sostegno alla classe? A seconda della
provincia, sulla base di collaborazioni tra gli enti interessati, del livello delle conoscenze
condivise che si sono sapute costruire nel tempo, della sensibilità e attenzione per
problematiche come i DSA, il disagio, l'emarginazione, e dello stimolo di associazioni si
possono realizzare accordi di programma differenti. Ad esempio, nell'accordo di programma
della provincia di Padova i disturbi specifici dell'apprendimento hanno un loro spazio,
accanto alle altre disabilità e problematiche sociali, a dimostrazione di una cresciuta
consapevolezza dell'importanza del problema.
In secondo ordine, si deve ricordare che, a partire dal 2004, il Ministero dell'istruzione ha
dimostrato particolare sensibilità rispetto agli studenti con disturbi specifici
dell'apprendimento; ha infatti emanato la circolare n. 4099/A/4a del 5 ottobre 2004 che
prevede per i DSA l'utilizzo di strumenti compensativi e dispensativi.
Nell’inverno del 2007, inoltre, è stato discusso un disegno di legge (n. 1011/07) relativo a
norme in materia di difficoltà specifiche di apprendimento, che si richiama alla circolare
sopra cictata. Questi i punti salienti della proposta di legge:
- si riconosce la dislessia, la disortografia, la discalculia quali difficoltà specifiche che
si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie e
di deficit sensoriali;
- tutti i bambini hanno diritto a una diagnosi specialistica che accerti entità e qualità
delle DSA;
- la diagnosi deve essere fatta da uno specialista qualificato e deve essere precoce;
- è dovere di genitori e insegnanti evidenziare i primi sospetti;
- si ribadisce che ogni istituzione scolastica deve adottare misure educative e
didattiche di supporto, favorire la didattica individualizzata con forme efficaci e
flessibili di lavoro scolastico, prevedere accorgimenti di carattere dispensativo e
compensativo, individuare forme di verifica e di valutazione che non mettono l'alunno

192
DSA in condizioni di svantaggio anche negli esami di stato, di passaggio di ciclo e di
ammissione all'università.
Sostanzialmente queste ultime direttive sostengono l'opportunità e la necessità di prevedere
dei trattamenti speciali e funzionali per i casi di DSA, opportunamente valutati da esperti
che hanno rilasciato una diagnosi, senza implicare la certificazione e di conseguenza
nemmeno un insegnante specializzato. Diventa perciò importante che tutti gli insegnanti
siano sensibilizzati, che la scuola possa davvero rispondere ai bisogni degli studenti con
DSA con competenza, responsabilità, professionalità e che in questo percorso sia affiancata
e aiutata da personale competente. Acquisire conoscenze per lavorare con i DSA sul piano
operativo porta a delle ricadute positive anche su altri studenti in difficoltà e talvolta per tutta
la classe.

4. Risorse della scuola: insegnanti specializzati, altre figure di supporto, strutture


L'insegnante specializzato o di sostegno, è un elemento fondamentale, ma non l'unico,
per realizzare l'integrazione scolastica dell'alunno disabile. Le ore di sostegno assegnate
sono in relazione alla gravità della disabilità dello studente (da un minimo di 4-6 a un
massimo di 18) e per i casi più gravi sono previsti altri operatori forniti dalle Aziende socio-
sanitarie. Alla formazione degli insegnanti specializzati attualmente è preposta l'università,
attraverso l'organizzazione di corsi aggiuntivi. Il piano di studio per la formazione di questi
docenti prevede anche corsi relativi alle difficoltà di apprendimento che possono avere peso
e denominazioni differenti. L'insegnante di sostegno ha quindi una preparazione sulle
difficoltà e i disturbi dell'apprendimento ma la sua conoscenza non sarà necessariamente
spesa nel lavoro con casi di DSA poiché non sono certificabili in senso stretto, anche se
può servire a sensibilizzare gli altri colleghi rispetto ai bambini/ragazzi con DSA, organizzare
degli incontri di formazione, aggiornamenti anche con esperti interni, ecc. In alcune scuole
o istituti comprensivi sono presenti altre figure di supporto come ad esempio l'insegnante
con distacco che svolge la funzione di «operatore psicopedagogico»  insegnanti di ruolo
nella scuola, distaccati in genere annualmente per svolgere le funzioni psicologiche e
pedagogiche, in base alla regolamentazione prevista dal MIUR. Questo tipo di
psicopedagogista non è una figura esterna alla scuola, come lo sono le figure di psicologo
scolastico o psicologo dell'educazione, ma è un docente che ha avuto un distacco
dall'insegnamento sulla base di un curriculum idoneo a svolgere il ruolo a cui è preposto
(per esempio laurea in psicologia, diploma di scuole di specializzazione, ecc.). Lo
psicopedagogista svolge nella scuola una serie attività che talvolta riguardano direttamente
i DSA, ma generalmente sono di tipo formativo/organizzativo a favore di tutta la scuola che
hanno in carico gli studenti in difficoltà, in particolare quelli certificati. Dove non c'è lo
psicopedagogista, tra gli insegnanti in servizio nella scuola può essere scelto un referente
che si occupa in modo più specifico di certe tematiche e tra queste possono esserci le
difficoltà di apprendimento.
Infine un'altra possibilità, ancora poco diffusa, è quella di fare un contratto con personale
esterno, ad esempio con uno psicologo libero professionista, o con gruppi di professionisti
ai quali affidare attività particolari a seconda delle esigenze dell'istituto. Talune scuole hanno
istituito un servizio di consulenza psicologica (chiamato «Sportello») per genitori e alunni
che opera settimanalmente a orari prefissati. Gli istituti dove sono presenti degli insegnanti
o gruppi di lavoro sensibili hanno una discreta
disponibilità di testi, materiali, strumenti, utili per l'intervento con i disabili e le difficoltà di
apprendimento

193
5. Rapporti fra scuola e servizi sociosanitari: alcune riflessioni ed esemplificazioni
Nonostante si cominci a considerare più frequentemente la presenza di problematiche
«specifiche dello sviluppo», è ancora raro che la consulenza specialistica in questo ambito
venga richiesta dal pediatra o dal medico di famiglia. Infatti, più frequentemente è
l'insegnante che fa presente ai genitori che qualcosa «non va nell'apprendimento del figlio».
Questo comportamento può avere almeno due spiegazioni:
1. le alterazioni del normale sviluppo senza chiare patologie manifeste sono spesso
considerate come espressioni di semplice sfasatura di sviluppo e non viene attribuito
significato clinico a questi fenomeni;
2. non sono sufficientemente noti i segni premonitori di questi Disturbi ed è solo con
l'ingresso a scuola che si manifestano in modo più netto.
La scuola quindi non solo è più sensibile ai DSA, ma potrebbe svolgere nel caso dei DSA
un fondamentale ruolo di prevenzione secondaria, cioè di individuazione precoce e
tempestiva di carenze nei precursori necessari all'apprendimento. Spesso accade invece
che anche la scuola, inizialmente, possa avere un atteggiamento attendista, possa cioè
attribuire difficoltà di apprendimento e/o di attenzione alla scarsa motivazione allo studio o
al debole impegno nei compiti assegnati. Inoltre, in molti casi, i disturbi specifici dello
sviluppo sono segnalati, dagli insegnanti ai genitori, ma questi ultimi si recano dallo
specialista con l’atteggiamento di chi ritiene che il problema sia riconducibile al metodo di
lavoro dell’insegnante piuttosto che a difficoltà intrinseche al bambino. È importante allora
riflettere sulle situazioni che si possono creare nei rapporti tra Servizi specialistici e
istituzione scuola. Vediamo, in particolare, alcune di queste situazioni che attualmente
sono più tipiche. Da parte della scuola può partire una richiesta verso i Servizi per l'Età
evolutiva per:
• segnalare un alunno quando i suoi insegnanti ritengono che i problemi posti non
siano gestibili in ambito educativo, oppure quando avvertono che ci sono problemi
esterni di cui essi stessi non possono farsi carico;
• far presente una situazione rispetto alla quale non vi è ancora certezza che le
difficoltà riscontrate siano stabili nel tempo;
• parlare di un bambino già conosciuto dal Servizio; gli insegnanti desiderano allora
condividere il percorso educativo dell'alunno al fine di valutare l'adeguatezza
dell'itinerario didattico formulato.
Le prime due situazioni si configurano come una segnalazione della scuola che chiede al
servizio specialistico di esaminare il «caso» a cui eventualmente seguiranno una diagnosi
funzionale e una presa in carico.
La terza riguarda invece la situazione più tipica nella relazione servizi-scuola, quella in cui i
servizi hanno già in carico lo studente. Soffermiamoci su questa. A partire dalla diagnosi, lo
specialista può:
- ravvisare l'opportunità che l'intervento didattico diretto sul bambino sia prioritario e
ritenere che a scuola si esauriscano le possibilità di recupero;
- può prevedere un lavoro riabilitativo (presso il servizio) fuori dalla scuola, perché la
situazione dell'alunno è tale da non possedere i requisiti fondamentali necessari
all'apprendimento; in questo caso, il trattamento ambulatoriale dovrebbe contribuire
a migliorare l'efficacia dell'azione didattica.

194
Nell'uno o nell'altro caso è importante definire delle ipotesi interpretative sul disturbo, gli
obiettivi da perseguire, le strategie da utilizzare, le modalità di controllo dell'efficacia del
lavoro svolto, le possibili ripercussioni che le problematiche di apprendimento possono
avere sul piano emotivo relazionale. Il rapporto tra clinici e scuola ha numerose implicazioni
sul piano operativo, circa le possibilità di integrazione dell'intervento di recupero e sul piano
teorico per quanto attiene ai diversi modelli di riferimento degli operatori. La ricchezza di
tutte queste valenze può generare notevoli ambiguità sulle caratteristiche del rapporto tra
clinici e scuola. Per facilitare la relazione e la comunicazione è importante che l'esperto
renda esplicito quanto è noto sulla natura del disturbo e sul fatto che non sempre è possibile
una riduzione del danno evidenziato nelle prestazioni dell'alunno. È pure importante
evidenziare quali aspettative hanno gli insegnanti in relazione all'aiuto che possono ottenere
dai servizi specialistici, se si aspettano solo una definizione diagnostica, oppure aspirano
alla formulazione condivisa di programmi di intervento educativo e riabilitativo, nei quali
sono chiaramente indicati gli obiettivi. È quindi importante che di fronte alla complessità e
all'urgenza dei problemi posti dal bambino in difficoltà, non si creino confusione di ruoli e
allo stesso tempo non si innalzino barriere in grado di ostacolare la comunicazione tra
operatori e famiglia. Fattori di rischio che possono ostacolare la definizione di un programma
comune e integrato di lavoro con studenti in difficoltà di apprendimento son legati:
- alla delega della scuola ai «tecnici»;
- alla richiesta degli insegnanti al tecnico di risolvere i conflitti che spesso la presenza
di un bambino con problemi fa sorgere nella scuola;
- a una totale deresponsabilizzazione della scuola legata al messaggi per cui il disturbo
è biologico e immodificabile; oppure, al contrario, all'assunzione da parte dei Servizi
di competenze di natura prettamente scolastica, di un ruolo, cioè educativo, che può
impedire ogni possibilità di incontro insegnante-bambino;
- all'adozione prioritaria di modalità di intervento incentrate sul singolo bambino, così
da estraniarlo dal contesto-classe venendo meno al principio dell'integrazione;
- infine, all'introduzione di modelli di intervento rivolti solo alla disabilità e disturbo
perdendo di vista le possibilità di sviluppo generale.
In sintesi, bisognerebbe evitare il rischio che la relazione tra Scuola e Servizi si sposti dal
bambino/ragazzo con problemi alla impossibilità per l'insegnante di svolgere il proprio ruolo
in un contesto che non preveda facilitazioni o aiuti in questo senso. Per avviare una valida
collaborazione tra le agenzie in questione bisogna evitare che lo psicologo si appropri delle
competenze della scuola, esautorando gli insegnanti di ogni responsabilità e impegno nel
lavoro didattico, o al contrario che l'insegnante determini la diagnosi funzionale senza
alcuna conoscenza della patologia. Per raggiungere questi obiettivi, è fondamentale che i
contenuti del profilo funzionale dell'alunno siano espliciti, comprensibili, e quindi fruibili da
operatori con formazione didattico-educativa e non clinica. Questo comporta che anche i
Servizi conoscano bene la realtà scolastica in generale e quella specifica in cui è inserito il
bambino per riuscire a realizzare un buon passaggio di informazioni e conoscenze che
possano essere davvero comprese e condivise. È questa una premessa indispensabile per
una vera collaborazione servizi-scuola.
 Come dovrebbe essere allora definito il profilo funzionale che sia fruibile dalla
scuola?
Innanzitutto sarebbe opportuno adottare un modello esplicito di riferimento relativo ai
processi richiesti dall'elaborazione di una particolare informazione (per esempio lettera,
numero) in grado di consentire delle previsioni sulle tappe necessarie all'acquisizione di una

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specifica competenza. Bisognerà per esempio chiedersi come apprende e si adatta
all'ambiente l'alunno con difficoltà scolastiche sia specifiche che secondarie: segue cioè un
percorso normale, ma con un cammino solo lievemente rallentato rispetto ai compagni di
classe, oppure non ha acquisito particolari abilità che dovrebbero consentire l'acquisizione
degli apprendimenti richiesti dalla scuola? Nella costruzione del profilo funzionale dei DSA,
occorre mettere assieme la conoscenza propria del clinico con la conoscenza del bambino
normale da parte dell’insegnante. La scuola può essere d’aiuto al clinico per tre ordini di
motivi:
1) per confermare le ipotesi della diagnosi funzionale;
2) per verificare i ritmi di apprendimento del bambino;
3) per individuare le modalità attraverso le quali l'alunno apprende più facilmente.
Discutere, pertanto, con il tecnico il profilo cognitivo e psicopatologico, in particolare le
strategie d'apprendimento che il bambino possiede o può attivare in una determinata fase
di sviluppo, consente all'insegnante di rielaborare la propria metodologia didattica e di
cercare nuove modalità di rapporto educativo con un bambino che impara in modo
differente dagli altri. Solo da un incontro che integra i dati clinici con quelli pedagogici
possono emergere gli obiettivi che la scuola può raggiungere, in relazione alla prognosi del
disturbo e del livello di autonomia ipotizzato come perseguibile. L'attività che la scuola
svolge in modo consapevole in relazione a scopi precisi con uno studente con disturbo
specifico dell'apprendimento è indispensabile per potenziare le abilità carenti e mantenere
nel tempo i progressi realizzati sostenendo così anche autostima e motivazione. In questo
modo la scuola svolge un importante ruolo di prevenzione terziaria che si affianca alla
prevenzione primaria (che si attua quando il problema non è ancora comparso) e alla
prevenzione secondaria (associata all'intervento volto a evitare che un problema esistente
ne induca un altro).
Il bambino/ragazzo con disturbi dell'apprendimento necessita di essere seguito in modo
particolare anche con trattamenti speciali, con appoggio psicologico, con accorgimenti
didattici, con eventuali provvedimenti dispensativi e/o compensativi, per tutto il corso della
sua carriera scolastica e non solo nella fase iniziale, dopo la diagnosi, ma questa è una
logica che la scuola fa fatica a comprendere o almeno a seguire. La funzione di prevenzione
terziaria può essere svolta solo dalla scuola in modo rilevante e non può essere realizzata
dal servizio o da un operatore esterno.

7. Segnalazione e prevenzione
La scuola gioca un ruolo fondamentale nella segnalazione delle difficoltà di apprendimento,
poiché è proprio l'insegnante che può rendersi conto per primo del fatto che un alunno si
discosta dal gruppo nell'acquisire le competenze previste dal percorso didattico. Per
l'individuazione dei DSA questa funzione della scuola, che potremmo definire
«prediagnostica», andrebbe non solo valorizzata ma anche organizzata in modo preciso e
sistematico. Si potrebbero valorizzare esperienze e procedure che prevedono l'utilizzo di
strumenti in grado di evidenziare la presenza di situazioni «a rischio» e individuare i
momenti significativi del percorso scolastico in cui sarebbe meglio effettuare la
segnalazione. Possiamo chiederci se è possibile la prevenzione primaria per i DSA e se la
scuola può contribuirvi. Se condividiamo l'idea che la prevenzione primaria concerne tutte
quelle azioni volte a far sì che una patologia non insorga e che riguarda perciò la correzione
dei fattori di rischio attraverso la promozione di comportamenti finalizzati al perseguimento
della salute, dovremmo rispondere che la cosa è per la scuola difficile, visto che essa può

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solo prendere atto dei risultati di apprendimento manifestati dall'alunno. Tuttavia appare
possibile nelle situazioni di rischio prevedere una serie di attività che potrebbero favorire
una riduzione delle problematiche.
Un primo screening, che si configura come diagnosi precoce o prevenzione secondaria,
può essere svolto durante l'ultimo anno della scuola dell'infanzia per valutare i precursori
dell'apprendimento. Per realizzare questa fase è possibile utilizzare differenti strumenti
adatti a bambini di 5 anni come ad esempio il Questionario osservativo IPDA e le prove
ad esso collegate.
Un altro momento importante potrebbe essere individuato in relazione alla frequenza da
parte dell'alunno della terza elementare. Infatti, a questo punto del percorso scolastico,
quasi tutti i bambini dovrebbero aver automatizzato i meccanismi della lettura e scrittura
strumentale e del calcolo e sviluppato abilità di comprensione del testo e di scrittura di testi.
Attraverso la somministrazione di prove oggettive e standardizzate, dovrebbe essere
possibile valutare se le prestazioni di alcuni studenti si discostano dal risultato atteso per il
loro livello di scolarizzazione. A tal fine possono essere utilizzati diversi strumenti come ad
esempio la batteria QI VATA 8-11 anni che fornisce un quadro complessivo delle
acquisizioni dell'alunno. Non è rara tuttavia, la richiesta di consulenza per problemi di natura
scolastica anche quando il ragazzo frequenta la scuola media inferiore o superiore e
particolarmente delicato appare il passaggio da un ordine di scuola all'altro. È stato infatti
osservato che gli studenti con DSA traggono particolare giovamento da un aiuto fornito
durante i momenti di transizione. Può essere quindi importante ipotizzare una rilevazione
sistematica del livello di competenza acquisito, anche all'inizio della scuola primaria di
secondo grado e della scuola secondaria attraverso strumenti comprensivi di diverse prove
quali la batteria QI VATA 11-14 anni e la batteria AMOS 8-15 o procedure oggettive più
specifiche. Questi strumenti sono stati elaborati anche per un utilizzo a scuola da parte di
insegnanti che hanno una certa cultura della valutazione oggettiva e standardizzata e ne
condividano l'utilità. Ma chi dovrebbe coordinare e dare significato a questa attività di
formazione e di sensibilizzazione allo screening per gli insegnanti? Questa attività dovrebbe
essere svolta dai servizi specialistici interni ed esterni alla scuola, ma potrebbe essere
anche coordinata o svolta dall'università, in un'ottica di azione agganciata alla ricerca, in
particolare dove sono attivi gruppi di ricerca nel campo della psicopatologia
dell'apprendimento. La valutazione dovrà comunque costituire il primo passo di un percorso
volto alla facilitazione degli apprendimenti, alla promozione di abilità trasversali, al
rafforzamento delle strategie degli studenti e delle loro capacità di affrontare situazioni di
difficoltà scolastica. Il cammino verso l'integrazione delle conoscenze e metodiche della
psicologica clinica e cognitiva con conoscenze e metodiche della psicologia clinica e
cognitiva con conoscenze e metodiche pedagogiche e verso la loro traduzione in progetti
educativi individualizzati che considerino lo sviluppo come principale dimensione di
riferimento è ancora lungo. Tuttavia, la stesura del profilo funzionale nel quale siano anche
indicate le strategie di apprendimento possibili per il bambino in difficoltà potrebbe
consentire di stabilire il punto di partenza per la discussione e il confronto per costruire
specifici progetti di intervento, per integrare linguaggi differenti, e arrivare a una efficace
integrazione scolastico e professionale dell'alunno con DSA.

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