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Mentre mangiavamo Ségolène aveva chiesto se qualcuno aveva uno specchio.

«Non penso di truccarmi» avevano risposto le donne.


«Non credo che mi farò la barba» avevano detto gli uomini.
Stupiti, si resero conto che nessuno aveva portato un oggetto del genere.
«Per dieci giorni nessuno vedrà la propria faccia! » aveva concluso Ségolène.
La prospettiva la turbava. Quanto a me, ne ero più che felice.
Da sempre ho un rapporto difficile con gli specchi. Dopo averli ignorati durante l'infanzia, ho
trascorso l'adolescenza a guardarmi in faccia. Quanti giorni ho dedicato a decifrarmi? Non per
narcisismo, semmai per smarrimento. Non capivo... Cercavo invano un rapporto tra me e
quell'individuo che sviluppava torace, spalle e cosce mentre dentro di me non cambiavo. Non solo
la sua metamorfosi seguiva un progetto che mi sfuggiva, ma si svolgeva senza che io l'avessi
desiderata, né la controllassi, né la anticipassi. Fino a dove si sarebbe spinta? Mi consideravo
vittima di una fatalità assurda, crescere. Che legame c'era tra me e la carne che assumeva quella
forma d'uomo? Il bambino che non vedevo più nel riflesso continuava ad esistere in me. Anzi,
continuava a essere me.
Una volta terminata l'evoluzione mi rassegnai senza entusiasmo a passare la vita in quel corpo
muscoloso, massiccio e atletico dai tratti arrotondati. Eppure, se avessi avuto la possibilità di
scegliermi una faccia, sarebbe stata sottile. E se avessi potuto scegliermi un fisico, l'avrei preferito
gracile, a immagine dei miei dubbi e dei miei interrogativi.
A diciott'anni smisi del tutto di avere un rapporto con gli specchi, tranne che per farmi la barba,
Quando inaspettatamente, per strada o in un ristorante, uno specchio mi rimandava la mia immagine
mi stupivo. Che incongruenza! Mi somigliavo così poco...
Agli amici intimi non confessavo mai quella sensazione di inadeguatezza, perché l'unica volta che
mi ero azzardato a esprimerla la ragazza di turno di turno aveva risposto: «Non ti piaci? che
importa, piaci a me. E ti trovo bello-. Che errore, poverina... Non era quella, la mia sofferenza.
Bello o non bello non m'interessava! Piacersi o non piacersi non aveva importanza. Il mio male era
antecedente, innato: non mi riconoscevo! A casa mia non avevo specchiere né specchi da terra, solo
un quadratino di vetro in un bagno senza finestre.

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A differenza del giorno che limita il cielo all'azzurro la notte non ha confini. Ci rivela realtà
nascoste a milioni di chilometri di distanza. Ci mostra anche realtà scomparse, le stelle morte, dal
cui strascico luminoso siamo ancora raggiunti.
Descrivendoci firmamento Jean-Pierre ci metteva a confronto con due infiniti quello del tempo e
quello dello spazio.
«Quattordici miliardi di anni fa l'universo si trovava nello strato di massima densità: miliardi di
miliardi di miliardi di tonnellate in una goccia. Quando è esploso con un "big bang" espressione che
dà il nome alla teoria, la materia si è dispersa e l'universo si è espanso. Da allora continua a
espandersi. L'osservazione indica che le galassie si allontanano da noi a una velocità proporzionale
alla distanza che ci separa da loro. Un'espansione che possiamo definire infinita... Se andiamo
indietro nel tempo l'universo era esiguo, molto caldo e compatto. All'inizio l'energia era costituita
dall'irraggiamento poi la densità dell'irraggiamento è calata fino a diventare inferiore a quella della
materia. Allora nell'universo ha predominato la materia e le forze gravitazionali hanno preso il
sopravvento sulle forze elettromagnetiche. Le galassie sono, miliardi di anni dopo, il risultato di
quelle evoluzioni. Noi stessi incarniamo una conseguenza di quelle variazioni. Siamo solo polvere
di stelle».
I miei compagni di viaggio, bocca aperta e occhi sgranati, approvavano convinti. Uno a uno si
alzavano per andare a guardare nel telescopio.
Abbastanza rapidamente cominciai a fantasticare... Le stelle, mute, hanno sempre reso gli uomini
chiacchieroni. Avrei avuto voglia di elaborare il non la storia delle stelle, ma la storia delle loro
storie. Una bella differenza! Oh, non volevo tornare indietro di quattordici miliardi di anni, mi
accontentavo di balzare di secolo in secolo. Jean-Pierre ci illustrava l'universo secondo Hubble, ma
il sapiente di un secolo prima l'avrebbe raccontato secondo Newton, e tre secoli prima secondo
Galileo, e nell'antichità e nel Medioevo secondo Tolomeo. Ancora prima, il racconto sarebbe stato
fatto da un poeta, uno stregone o un sacerdote. Da quando gli umani si riuniscono nella notte
misteriosa i discorsi proliferano. E dato che non sopportano l'ignoranza, gli uomini cercano saperi.
Inventano miti, inventano dèi, inventano un dio, inventano le scienze. Gli dèi cambiano, si
alternano, muoiono, e altrettanto succede ai modelli cosmologici. Rimane solo un'ambizione:
spiegare. Ero talmente assorto nelle mie riflessioni che avevo saltato il mio turno al telescopio. Il
professore universitario aveva notato il mio riserbo.
«Non è d'accordo con me, signor filosofo?».
«Sì, quella del big bang è una bella speculazione, ma rimane comunque un'ipotesi... Che verrà
abbandonata... Come tutte quelle che l'hanno preceduta... Ogni evo ha la sua leggenda-
«Che significa? Io enuncio verità scientifiche».
«In tutte le epoche, intorno al fuoco, l'oratore del deserto crede di possedere la verità. E i suoi
contemporanei, intorno a lui, ne condividono la convinzione».
«Mette in dubbio la mia teoria? ».
«Provvederà il tempo a farlo. La teoria che lei ci racconta è l'ultimo grido in fatto di ricerca
scientifica, ma sa quanto me che anche questa tesi sarà superata. La verità rimane inaccessibile,
esistono solo verità provvisorie, tentativi di verità. In fondo la sua teoria espone la maniera moderna
di vivere l'ignoranza».
«Ignoranza?» ripeté lui quasi strozzandosi.
«Commovente, no?» mormorai.
Un silenzio imbarazzato accolse il nostro scambio di idee. Il mio intervento dava fastidio! L'unica
cosa che il gruppo aveva recepito del mio commento era la tracotante provocazione. Avevo voluto
essere umile riportando me, lui, e tutti noi alla scala millenaria dell'umanità, e invece apparivo
pretenzioso.
«Disprezza la scienza?» continuò lui, aggressivo.
«Niente affatto! La considero con attenzione e rispetto così come considero con attenzione e
rispetto i miti e le religioni».
Più discutevo e più aggravato la mia posizione. Mettere la scienza al livello di altre finzioni, in quel
caso irrazionali, scandalizzava i presenti. Fiutavo un'ostilità crescente, optai per un diversivo e gli
rivolsi una domanda.

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