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Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798, periodo della dominazione francese, età che coincide con

l’affermarsi del Romanticismo. In ambito letterario è il periodo in cui inizia il grande dibattito tra classicisti e
romantici nel quale si inserirà anche Leopardi stesso che però non potrà essere inserito in nessuno dei due
movimenti letterari, poiché superò entrambi. In questo periodo nasce una concezione pessimistica della
storia e del rapporto fra uomo e natura: il desiderio dell'uomo è il piacere, la felicità; è un piacere infinito
per estensione e per durata, che non potrà mai raggiungere.
Parlando di infinito, una delle sue liriche più famose prende proprio questo nome. L'idillio leopardiano è un
componimento caratterizzato da un forte rapporto tra il paesaggio naturale e gli stati d'animo dell'uomo.
L'intera poesia è centrata sulla sfera dell’indefinito, da cui deriva la consapevolezza dell’uomo di far
parte dell'ordine dell’universo.
Seduto davanti a una siepe che non gli consente di vedere l’orizzonte, Giacomo insegue la propria
immaginazione dietro quel confine visivo. Il tema della lirica è precisato in una pagina dello Zibaldone:
“l’anima si immagina quello che non vede, che quell’ albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va
errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse
dappertutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario.” Il tema di fondo è dunque l’immaginazione
dell’infinito, stimolata da un impedimento fisico: ciò che gli occhi umani non possono vedere è contemplato
dall’ immaginazione.
Questo tema è di aspirazione prettamente romantica. Ma Leopardi diversamente dai romantici non
affronta il tema sul piano metafisico, trascendente, sovrannaturale, ma lo ricollega al piano dell’esperienza
sensibile. L’Infinito leopardiano non tende al legame dell’io con l’universo, ma tende a valorizzare le
capacità di pensare e immaginare dell’uomo.
Fin dall’antichità, l’uomo è rimasto affascinato di fonte all’Infinito: quando si fermò a contemplare il cielo, il
suo mondo interiore di inquietudini e angosce, si arricchì di una dimensione nuova, quella della
consapevolezza di esistere al centro di qualcosa di misterioso e infinito.
Fra tutte le invenzioni umane, quindi, quella dell’infinito è forse la più affascinante, al punto tale che è stata
analizzata da molte discipline: poesia, pittura, matematica, filosofia.
La parola "limite" ha un significato intuitivo ma spesso nel linguaggio comune assume differenti significati.
Parlando di un oggetto capita di sostenere che esso sia limitato, cioè che ha una forma finita o dei confini,
oltre i quali probabilmente non è possibile andare. Nonostante assuma differenti significati, il concetto di
limite in matematica è ben definito e parte fondamentale dell'analisi infinitesimale. Si ritrovano sue
applicazioni per calcolare aree e volumi nella matematica greca, presso Archimede, anche se in forma non
esplicita. Il limite è anche l'unico strumento per "lavorare" con gli infinitesimi e gli infiniti. I primi tentativi di
continuare l'opera di Archimede si devono a diversi matematici come, Newton, Leibniz. Fu Newton a
esplicitare il concetto di infinitesimo: una grandezza infinitamente piccola ma diversa da zero. La sua
definizione richiedeva di considerare il rapporto di due quantità e di determinare quindi ciò che accadeva a
questo rapporto quando le due quantità tendevano simultaneamente a zero. Newton afferma che bisogna
considerare il rapporto nel momento in cui il numeratore e denominatore diventano zero. Ma in
quell'istante la frazione si presenta come 0/0, che non ha alcun significato. Anche Leibniz parlava di
“quantità infinitamente piccole” fondando i suoi calcoli sugli infinitesimi, un po’ paragonabili alle monadi
della sua filosofia.
Nella poetica di Leopardi assistiamo ad un’evoluzione del concetto di limite: esso, inizialmente,
rappresenta la possibilità di andare oltre, perché permette, una volta superato, di raggiungere l’infinito; ma,
in un secondo momento, poiché l’uomo può concepire l’infinito solo ponendo un punto di riferimento,
il limite negherà l’esistenza dell’infinito stesso. Più tardi il poeta giungerà a confutare l’esistenza
dell’infinito, ciò che è illimitato, partendo dal fatto che “una cosa senza limiti non può esistere, non sarebbe
più cosa” quindi solo il limite è in grado di distinguere un oggetto.
Il rapporto dell’uomo con l’infinito, ha interessato la filosofia sin dalle sue origini. Già nel VI secolo a. C.,
Anassimandro, uno dei filosofi della scuola di Mileto, definì il principio, l’arché , come apeiron, cioè privo di
limiti, indefinito, infinito. Per Anassimandro il principio non può che essere l’infinito, l’indeterminato, senza
inizio né fine, fuori dal tempo. L’infinito, governa e ordina tutte le cose e può essere considerato come
Divino. Anassimandro, in disaccordo con Talete, ritiene che l’arché, in quanto origine di tutte le cose, non
può essere una delle cose stesse, un elemento limitato e finito.
Il pensiero umano di fronte alla necessità di definire l’infinito, non può che far riferimento a ciò che è
capace di definire, vale a dire il finito.

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