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Legge Sulla Lobby. Migliorarla Una Battaglia (Soprattutto) Culturale
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21/02/22, 11:09 Legge sulla lobby. Migliorarla una battaglia (soprattutto) culturale
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Il tema è quella della cd. “Legge Lobby”, la proposta di legge che ha ottenuto solo il 12
gennaio scorso, dopo 97 ddl rigettati, l’approvazione dell'Aula della Camera dei Deputati. Il
testo è stato approvato a Montecitorio con 339 voti a favore, nessun contrario e 42
astenuti (Fdi e Alternativa), ed è ora all’esame del Senato. E che da subito ha riscosso
commenti contrastanti.
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Proprio per fare chiarezza e dare continuità ad un lavoro portato avanti negli anni da FERPI
e da ultimo confluito nei contenuti dell’audizione del 30 giugno 2021, la scelta di un
confronto sulla proposta di legge, una sorta di “chiamata alle armi” per ragionare insieme
su quali modifiche sarebbe opportuno segnalare, e in fretta, nel suo percorso in Senato.
Ospiti di Ferpi Lazio alcuni rappresentanti della professione del “lobbista” e non solo, come
Eleonora Faina, Direttore Generale Anitec-Assinfo, Veronica Pamio, VP Rel. Esterne e
Sostenibilità Aeroporti di Roma S.p.A., Pier Luigi Petrillo, Prof. Ord. di Diritto pubblico
comparato Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, Fabio Bistoncini, Founder e
Presidente di FB&Associati, Federico Anghelé, The Good Lobby.
Per dare il via alla discussione ha scelto di partire dalla posizione dell’OCSE, Vincenzo
Manfredi: “Il lobbying può favorire la partecipazione democratica e fornire dati e analisi utili
direttamente ai responsabili decisionali”, ma “l’assenza di trasparenza ed integrità potrebbe
distanziare le politiche pubbliche dall’interesse pubblico in particolare se un piccolo gruppo
che rappresentasse interessi forti utilizzasse la sua ricchezza...”. Un indizio di quanto il
legislatore non ha recepito nella formulazione approvata.
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A Pier Luigi Petrillo il testo sembra avere almeno il merito di definire finalmente cosa sia
una “mediazione lecita”, in luogo della connotazione negativa che le viene sempre
attribuita, perché indica quando una attività di mediazione si svolga in un perimetro di
liceità. Nel contempo non gli sfuggono alcune zone che il legislatore ha lasciato invece in
ombra: dalla definizione di “decisori pubblici” sembrano esclusi tutti i cd. burocrati, come i
dirigenti generali di prima fascia, per cui l’attività esercitata nei confronti di queste figure
potrebbe assumere connotati di illiceità; la scelta di alcune organizzazioni, come quelle
datoriali e sindacali, per le quali non si applicherebbe la legge, una scelta che definisce
‘miope’. Ma nel suo complesso gli appare come il male minore, qualcosa che è meglio di
nessuna legge perché almeno aiuterebbe i decisori pubblici ad individuare i loro
interlocutori.
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pubblico e per il portatore di interessi e cosa renda credibili i rapporti e possa migliorare il
patto di fiducia fra eletti ed elettori. Le consultazioni al centro quindi, e così i modi e i
tempi con cui si ingaggiano i rappresentanti degli interessi, su questo aspetto ribadendo
con forza come anche le associazioni datoriali possano ed abbiano dimostrato di essere
essere portatrici di interessi generali. Altro nodo da sciogliere poi quello delle “revolving
doors”.
Tra gli intervenuti Federico Anghelé in rappresentanza di The Good Lobby, coalizione di
trentaquattro, ad oggi, organizzazioni no profit della società civile che veicolano interessi
collettivi, che si è spesa per il varo di una legge sul lobbying non nell’ottica di arginare
pratiche di corruzione, ma nella convinzione che sia uno strumento di autentica
partecipazione democratica, da attuarsi secondo processi decisionali trasparenti,
partecipativi e inclusivi, con il definitivo superamento delle asimmetrie informative e di
accesso ai decisori pubblici che proprio chi agisce per conto di questo tipo di
organizzazioni conosce bene e subisce. E questo gli è parso da sottolineare come fatto
particolarmente significativo nel segno di un cambiamento culturale e di una maturazione
dell’opinione pubblica sul tema da salutare con ottimismo. Per questo la sua è una
reazione di “moderata soddisfazione” per la legge al suo punto attuale, perché testimonia
comunque la crescita della qualità del dibattito, anche se non in tutti i contesti. La battaglia
condotta da The Good Lobby ha riguardato anche la democratizzazione dell’accesso ai
processi decisionali, con esiti inferiori forse alle attese, ma è un punto di partenza che
porta a ritenere che da un’alleanza tra responsabili dei public affairs, aziende ed
organizzazioni no profit si potrebbero avere ulteriori e migliori risultati. Sulla esclusione di
alcune categorie (sindacati e organizzazioni datoriali) ha voluto ricordare esperienze
straniere di regolazione che hanno dimostrato, come nel caso dell’Austria, che laddove ci
sono delle esclusioni così macroscopiche l’efficacia della norma nello scattare una
fotografia della interazione tra i portatori di interessi e decisori pubblici venga decisamente
meno. Quanto alle porte girevoli, sarebbe bastato arrivare a forme di mediazione basate
sulla responsabilità, cosa che non è accaduta. L’appello The Good Lobby, vista l’evidente
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comunanza di visione sul considerare il testo approvato “un primo passo” almeno dal
punto di vista culturale, è stato quello di unire le forze approfittando della pur esigua
finestra temporale aperta dal passaggio in Senato per provare ad ottenere la migliore
formulazione possibile.
Gli scambi fin qui hanno poi portato da più d’uno a definire la proposta di legge
quantomeno un “compromesso al ribasso”, testo oggettivamente carente anche proprio
dal punto di vista di una effettiva conoscenza dei meccanismi del mestiere. Ben venga
quindi, ha detto ancora Manfredi, una comune azione di advocay anche dal punto di vista
culturale. A parlare di compromesso al ribasso anche l’On. Emanuele Prisco,FDI, che non ha
votato il provvedimento. Un’astensione motivata dalla non rispondenza del testo alla
riconosciuta necessità di rendere trasparenti i processi decisionali, rendendo facile
distinguere chi operi in maniera onesta e trasparente rispetto a chi invece lo fa con
sotterfugi, nell’ombra. Un compromesso perché ha cercato di tenere insieme un approccio
culturale ultra-giustizialista di forze politiche che vedono il torbido in ogni attività
economica o pubblica amministrazione e nella politica e quello di forze politiche più
liberale e attento alle garanzie e ai diritti. Scarsamente efficace, inoltre, per raggiungere
l’obiettivo della regolazione, l’assenza di un vantaggio, di una premialità nel mantenere un
rapporto trasparente con i portatori d’interesse. Manca, cioè, ciò che possa rendere
conveniente iscriversi al registro. Se un decisore politico aspira davvero a che tutti i
rapporti siano trasparenti deve dare a chi va a parlare con lui un vantaggio a renderli
trasparenti. In assenza di tale criterio di reciprocità resta senz’altro complicato far
funzionare il sistema. Tra le lacune della legge poi una riguarda i rappresentanti di
interessi come dipendenti di società e l’altra l’attività di rappresentanza di interessi delle
aziende straniere. Infine, dubbi sulla tenuta del registro in capo ad Agcom dove si è deciso
di farlo depositare, mentre si era proposto di farlo al Cnel, organo costituzionale che in
qualche modo rappresenta il mondo economico e del lavoro è giusto, idoneo come arbitro
terzo. Sulla tenuta del registro presso il Cnel, peraltro, va sottolineato che era delle
proposte contenute all’interno dell’audizione FERPI del 30 giugno 2021, come “casa dei
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corpi intermedi”. Infine, la norma che riguarda la partecipazione con il suo surplus di
burocratizzazione sembra affatto realistica se applicata ai decisori politici locali.
Questa eventuale riforma così com’è spaventa, nella sua applicazione concreta in azienda,
Veronica Pamio che ha voluto ricordare come l’attività di lobbying già abbastanza
complessa e la eccessiva burocratizzazione-amministrativa a carico dei rappresentanti di
interessi delle singole aziende o delle società di consulenza e in generale su comparti
produttivi che hanno sofferto e soffrono per una crisi severa non potrà che avere un
ulteriore negativo impatto. E questa proposta di legge le sembra scontare un “peccato
originale”, per cui pare che sia il portatore di interessi dover dimostrare di poter essere
trasparente, di poter comunicare la propria attività. Quando la norma dovrebbe lavorare
esattamente al contrario: è il decisore pubblico che deve rispondere al proprio elettorato e
che deve rispondere delle proprie responsabilità, comunicando chi incontra, come e dove
incontra, dimostrando che le consultazioni informali che mette in atto siano equilibrate.
Invece i portatori di interessi svolgono un’attività lecita, e la proposta di legge in questa
formulazione però li pone nella condizione di doverlo provare. E non è così, si veda
l’esempio di Bruxelles, dove i lobbisti si iscrivono ad un registro, devono dichiarare tutta
una serie di cose e sono procedure cui si sottopongono volentieri; ma poi è il decisore che
indica i nomi delle persone e delle aziende che incontra e rende pubblici gli interessi che
ascolta, anche se in consultazioni informali. In altre parole, la normativa così è complessa e
contorta e certo non può aspirare ad assicurare trasparenza ed equilibrio nell’ascolto dei
portatori di interessi. Che invece sono un apporto di valore per il decisore pubblico, anche
quando vengono da soggetti privati, come ha dimostrato la recente esperienza della crisi
sanitaria. Perché non è possibile che il legislatore non conosce tutte le sfaccettature
dell’applicazione di una norma.
La legge, inoltre, di fatto non considera che circa il 95% dei lobbisti non opera come
consulente, ma come dipendente in un rapporto di lavoro di tipo subordinato da aziende
ed organizzazioni, sottostante quindi a policy aziendali e ad una gerarchia. L’applicazione
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