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La Kabbalah in Italia
Contributed by Donatella Di Cesare
Thursday, 15 March 2012

Il viaggio di Moshè Idel lungo i percorsi della mistica ebraica.


di Donatella Di Cesare

Insignito nel 1999 del prestigioso Premio Israele, Moshe Idel è considerato oggi il maggior studioso di Kabbalah. Le
università più prestigiose del mondo fanno a gara per averlo e la sua opera è già tradotta in molte lingue.

Eppure il suo cammino non è stato né facile né diretto. Forse lo shtetl della Romania, dove è nato nel 1947, era
l’unico villaggio ebraico sopravvissuto alla Shoà. Moshe Idel, che veniva da una famiglia ortodossa, frequentò il
cheder, la scuola tradizionale. Chi aveva imparato la lezione, poteva far ritorno a casa. Mentre gli altri bambini erano
ancora chini sulle lettere quadrate dell’alfabeto ebraico, lui era già a casa, dove aveva il tempo per dedicarsi alla
lettura. Divorava un libro dopo l’altro, mentre emergeva la passione per le materie umanistiche. Lesse a undici
anni il primo libro di filosofia. Non poteva sapere allora quale sarebbe stato il suo campo di studi. Ma sapeva invece in
quale posto del mondo avrebbe voluto vivere: in Israele. Giunse con la famiglia nel 1963. Gli mancava solo un anno per
terminare la scuola, ma dovette quasi ricominciare da zero. Si iscrisse all’ulpan del suo kibbutz e cominciò a
immergersi nell’ebraico parlato che avrebbe presto estromesso il rumeno e lo yiddish.

Chi avrebbe potuto immaginare che quel sedicenne, che si aggirava nelle librerie francesi di Tel Aviv alla ricerca delle
opere di Carl Jung e di Albert Schweitzer, avrebbe superato con facilità tutti i gradini della carriera universitaria? E
diventare addirittura il genio innovatore degli studi qabbalistici? «È inutile dire che all’epoca ignoravo persino
l’esistenza della parola ‘Kabbalah’. Credo proprio che l’unica volta in cui mi ero imbattuto in
questa parola fosse stato in un romanzo di Balzac dove aveva, com’è noto, il significato di ‘intrigo’»
- così racconta Idel. Negli anni del servizio militare lesse libri di teologia e filosofia. Come tanti altri, scoprì l’opera di
Gershom Scholem, che a quei tempi era di moda. In effetti non fu questa scoperta a spingerlo verso la Kabbalah.
Piuttosto fu l’incontro con Shlomo Pines, straordinario studioso del pensiero ebraico, forse troppo presto
dimenticato. Sotto la sua guida Moshè Idel cominciò a lavorare sui manoscritti di Abraham Abulafia, il qabbalista nato a
Saragozza, in Aragona, nel 1240, e morto forse nel 1291 sull’isola maltese di Comino. Scholem non gli aveva
concesso molto spazio. Al contrario Idel ne fece uno dei fondatori della Kabbalah estatica o profetica, quella corrente che
avrebbe privilegiato anche in seguito nelle sue ricerche. Si può dire così che Abulafia rappresentò una sorta di spartiacque
tra Idel e Scholem. Ma l’autorità di quest’ultimo era tale che ci vollero anni - passati a decifrare decine e
decine di manoscritti - prima che Idel si decidesse a consegnare un suo libro a un editore israeliano. E anzi pubblicò il
primo solo nel 1988, dopo la morte di Scholem.

Non che il loro rapporto fosse stato conflittuale. Tutt’altro. Si erano incontrati spesso, a partire dal 1971,
discutendo insieme, con entusiasmo, le opere di molti qabbalisti. Pur riconoscendo i meriti di Scholem, il suo lavoro
pionieristico, la sua capacità di restituire alla Kabbalah un posto consono nell’ambito della tradizione ebraica, Idel
andò assumendo un atteggiamento critico. Scholem avrebbe privilegiato la corrente teosofico-teurgica, emarginando la
Kabbalah estatica e lasciando in ombra gli aspetti magici. Sono state figure come Abraham Abulafia, Menahem Recanati
e Yohanan Alemanno, vissuti tra la fine del XIII e l’inizio del XVI secolo, a spingere Idel verso la riscoperta della
Kabbalah italiana a cui ha dedicato un volume, pubblicato da Giuntina in prima edizione mondiale nel 2007. Ma la ricerca
è in fieri e Moshè Idel non ha smesso, anche di recente, di indagare questo ambito. Lo ha mostrato nella lectio
magistralis all’Accademia dei Lincei organizzata, il primo marzo scorso, da Myriam Silvera. Idel ha messo a fuoco
soprattutto il carattere sincretistico della Kabbalah italiana. Il ruolo che, nella sua interpretazione, attribuisce
all’Italia dipende da diverse cause.

Anzitutto da quella geografica: nessun altro posto al mondo è stato il crocevia di tradizioni diverse che sono confluite per
dare vita alla mistica ebraica. Ma importante è stato anche l’incontro dei manoscritti qabbalistici con la stampa. Se
prima la Kabbalah viveva nel segreto, relegata a poche centinaia di esperti, in seguito conobbe una diffusione
vastissima. Prima ancora di assumere un carattere essoterico, aperto a tutti, la struttura stessa dei testi ne uscì
modificata. Concepito in Spagna, lo Zohar acquistò il corpus di un testo solo grazie alle stamperie italiane, nella seconda
metà del Cinquecento. La larga diffusione dette però presto origine alla versione cristiana - fenomeno tipicamente italiano.
Così i qabbalisti furono costretti ad adottare nuove strategie di scrittura e comunicazione. Il che non impedì che nascesse
nel mondo ebraico una diffidenza e, anzi, una critica verso la Kabbalah, considerata troppo vicina al cristianesimo. T
uttavia, proprio quei libri qabbalistici, pubblicati in grande quantità già nell’Italia del XIII secolo e considerati non del
tutto kasher, devono indurre, secondo Idel, a rivedere il giudizio riduttivo secondo cui la Kabbalah sarebbe nata in
Spagna. La scuola fondata da Abulafia in Sicilia, le correnti che scaturirono dalla riflessione originale di un maestro come
Recanati e che giunsero a influenzare, attraverso Pico della Mirandola, la filosofia, sono capitoli decisivi della storia della
Kabbalah.

Donatella Di Cesare
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