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Fisiologia

Prof.Cerra
La fisiologia inizia quasi insieme alla filosofia, quando la filosofia e la scienza nascevano insieme come un
tutt’uno chiedendosi il perché della vita sia in termini fisici, metafisici, biologici e così via.
Possiamo dunque dire che la fisiologia è una scienza antica e osservare a partire dalla teoria ippocratica
grandi nomi che hanno contribuito a ciò che è oggi la fisiologia quali Aristotele, Galeno, Malpighi, Galvani,
Golgi, Sertoli e molti altri.
Oggi la fisiologia è una disciplina che si integra con la Biochimica, la Chimica Fisiologica, la Farmacologia, la
Patologia e l’Endocrinologia.
La Fisiologia studia le funzioni dell’organismo, dal livello molecolare a quello cellulare, tissutale, d’organo,
d’apparato e di organismo.
Uno dei principi cardini della fisiologia è quello che va sotto il nome dei Rapporti struttura-funzione.
Quando studiamo la funzione di una qualunque cosa, sappiamo che funziona perché ha una determinata
struttura. Una struttura permette una funzione e quella funzione si appoggia e si basa sul fatto che c’è
quella struttura che garantisce lo svolgimento della funzione. Vedremo che il cuore svolge la sua funzione
per via della sua struttura.
Un altro concetto chiave della fisiologia è l’Omeostasi.
Secondo la definizione di Claude Bernard (XIX secolo) l’omeostasi è la costanza dell’ambiente interno.
L’ambiente interno, gli organismi, le cellule e i tessuti, contengono un loro ambiente che rimane nel tempo
in qualche modo costante, cioè non varia al di la di limiti ristretti, ben definiti (liquido intracellulare,
temperatura, PH ecc).
Però l’organismo, la cellula, il tessuto, l’apparato, vivono in relazione con un’ambiente esterno,
quest’interazione con l’ambiente esterno fa si che quest’ambiente interno possa in qualche modo subire
delle modificazioni. Affinché si mantenga uno stato stazionario di salute è necessario che la struttura che
stiamo considerando (la cellula, il tessuto, l’organo...) siano capaci di reagire alla perturbazione che
proviene dall’ambiente esterno modificando delle sue componenti, cioè reagire allo stimolo con una
risposta che consente a quel parametro di tornare ad uno stato iniziale.
Il nostro organismo è costituito in maniera tale da gestire costantemente una serie di reazioni di risposta a
degli stimoli esterni, cosicché quel componente si mantiene costante.
Quando l’omeostasi viene garantita siamo in uno Stato Stazionario (steady state), se questo stato
stazionario viene mantenuto, ci troviamo in uno Stato di Salute, quando questo stato omeostatico di salute
non viene mantenuto, ci troviamo in uno Stato di Malattia.
La fisiologia si occupa dell’organismo quando è in buona salute.
La fisiologia di cui ci occuperemo è la fisiologia cellulare, tissutale e d’organo.
Il particolare punto focale della fisiologia è l’integrazione delle funzioni attraverso molti livelli di
organizzazione. La più piccola unità strutturale in grado di realizzare tutti i processi vitali è la cellula.
Una barriera di lipidi e proteine chiamata membrana cellulare separa le cellule dal loro ambiente esterno.
Gli organismi semplici sono composti esclusivamente da una cellula mentre gli organismi complessi hanno
molte cellule con differenti strutture e funzioni. L’insieme delle cellule che presentano funzioni correlate
costituiscono i tessuti. I tessuti formano unità strutturali e funzionali denominate organi e gruppi di organi
integrano le loro funzioni per creare apparati (sistemi).
Organizzazione biologica:
Genoma (geni codificati nel
DNA)
Trascrittoma (RNA messagero)
Metaboloma (metaboliti
presenti in particolari
condizioni)
Proteoma (espressione delle
proteine e loro localizzazione)
Fisioma (complesso delle
funzioni)
Diseasoma (insieme delle
condizioni legate ad una
patologia)
Ambiente e Popolazione

Come abbiamo detto un organismo in omeostasi è un organismo in equilibrio. Quest’organismo può andare
in contro a delle variazioni che provengono dall’ambiente interno o dall’ambiente esterno e che possono
indurre l’organismo ad allontanarsi dalla condizione omeostatica di equilibrio. Ogni qual volta che
l’organismo perde l’omeostasi intervengono naturalmente delle reazioni compensatorie. Queste
compensazioni possono portare a buoni risultati e dunque al benessere (condizioni fisiologiche) o ogni qual
volta la compensazione fallisce portare al disordine e alla malattia (condizioni patologiche).
Affinché l’organismo si possa mantenere in condizione omeostatica, queste variazioni, seguono delle
dinamiche cosiddette a feedback, cioè delle retroazioni. Il feedback può essere positivo o negativo.
Feedback positivo: quando uno stimolo attiva il meccanismo di controllo e la risposta che io ho rinforza lo
stimolo iniziale, cioè amplifica lo stimolo. (es. l’ossitocina induce il rilascio di latte, aumenta quindi la
suzione e questo aumenta il rilascio dell’ossitocina)
Feedback negativi: si ha una risposta che inibisce lo stimolo iniziale, cioè limitano lo stimolo. (es. la carenza
di ossigeno ai tessuti, stimola la produzione renale di eritropoietina (EPO) che stimola la produzione di
globuli rossi, quindi i tessuti ricevono più ossigeno e si blocca lo stimolo iniziale)
Omeostasei dei volumi dei
fluidi corporei
-Acqua corporea totale: 42 l

Liquido Liquido
extracell:14 l intracell : 28 l

Membrana
cellulare

Liquido
Plasma
interstiz: 10,5l
3,5 l

Parete
capillare

I vari compartimenti idrici del nostro organismo sono in comunicazione l’uno con l’altro, cioè il liquido
extracellulare e il liquido intracellulare sono in counicazionee. L’acqua transita dall’interno all’esterno della
cellula e viceversa passando attraverso la membrana plasmatica, cioè i compartimenti sono separati, ma
non in maniera stagna, sono separti in maniera tale che possono comunicare tra di loro, in maniera
dinamica.
I soluti e l’acqua entrano attraverso i liquidi extracellulari. Il liquido extracellulare e quello intracellulare
sono in equilibrio osmotico.
L’acqua si sposta seguendo un gradiente osmotico. L’equilibrio tra i compartimenti si realizza spostando
acqua e non soluti.

Membrana cellulare
La membrana cellulare è una struttura di separazione e di comunicazione tra l’ambiente intracellulare e
l’ambiente extracellulare. E’ una struttura estremamente dinamica perché non limita i due compartimenti
separandoli a tenuta stagna ma è una zona di comunicazione. E’ proprio grazie alla comunicazione
attraverso la memrana che le cellule possono vivere nelle condizioni appropriate.
Non è l’unica membrana presente nell’organismo, ma all’interno delle cellule ci sono diverse membrane
intracellulari.
Sostanzialmente la membrana è una tela fosfolipidica costituita da due foglietti fatti da fosfolipidi,
organizzati in maniera da porre le teste polari a contatto con i compartimenti idrici extracellulari e
intracelluari, nel caso della membrana plasmatica, e le code dirette verso l’interno così da formare una
regione con caratteristiche idrofobe, perché si dispongono a contatto con gli acidi grassi, mentre le teste
che rappresentano la regione idrofila, sono a contatto con le zone idriche. All’interno di questa tela
fosfolipidica i fosfolipidi possono compiere una serie di movimenti. I fosfolipidi possono muoversi sul loro
asse, le code possono vibrare e spostarsi, possono migrare da una regione all’altra della membrana,
possono anche scambiarsi dal versante extracellulare al versante intracellulare con il cosiddetto
meccanismo del Flip-flop.
Questi fosfolipidi sono associati con un a serie di catene di olisaccaridi all’esterno, all’interno di questa tela
fosfolipidica sono immerse le proteine della membrana e la membrana non è isolata completamente
rispetto alla cellula ma è solidale con l’interno della cellula in quanto è collegata attraverso il citoscheletro
da proteine come l’actina citoscheletrica o la spectrina.
I due strati della membrana non sono perfettamente simmetrici l’uno con l’altro, c’è una distribuzione
preferenziale dei fosfolipidi nello strato esterno rispetto allo strato interno, nello strato esterno si vanno a
disporre preferenzialmente i fosfolipidi neutri, mentre nello strato interno vanno a disporsi
preferenzialmente i fosfolipidi con carica negativa.
La membrana si lascia attraversare da una
serie di sostanze, la sua natura
fosfolipidica ne determina delle
caratteristiche chimico fisiche molto
particolari, che stabiliscono quali e come
avvengono i trasporti attraverso la
membrana. Diremo dunque che la
membrana è selettivamente permeabile.
Innanzitutto attraverso la membrana
passa con facilità l’acqua. La forza che
muove l’acqua da un compartimento
all’altro è l’osmosi.

Osmosi
L’osmosi è la forza che guida i movimenti dell’acqua attraverso la membrana.

Membrana semipermeabile ∆P= Pressione osmotica


(pori idrici)
Legge di Vant’Hoff

∆𝑷 = 𝑹𝑻(𝚽𝒊 𝒄)

R = costante dei gas


T = temperatura assoluta
∆P Φ = coefficiente osmotico (>1 o <1)
C1 C2 i = numeri di ioni dissociati
v1 v2 C1
C2 c = molarità del soluto
v1
v2

Φ i c = concentrazione osmotica effettiva o


Flusso osmotico o osmosi osmolarità o tonicità
1 osmole = quantità di soluti necessaria per
avere un ∆𝑷 di 22,4 atmosfere

Abbiamo due contenitori, costituiti da due compartimenti C1 e C2, separati da una membrana
semipermeabile, ossia una membrana che possiede dei pori idrici attraversabili dall’acqua. Questa
membrana semipermeabile separa due compartimenti contenenti liquidi diversi. Il liquido nel
compartimento è solo acqua, il liquido nel compartimento due invece è acqua con una soluzione che per
dimensione o per altro non può attraversare i pori idrici. La conseguenza di questa situazione è un richiamo
dell’acqua contenuta nel compartimento uno che va verso il compartimento due. Questa forza è la forza
osmotica. Ciò avviene perché i sistemi tendono all’equilibrio, quindi il gradiente che si genera, che
chiamiamo gradiente osmotico, tra il compartimento uno ed il compartimento due, fa si che ci sia una
forza, che genera l’aumento di volume del compartimento due. L’aumento di volume corrisponde alla
pressione osmotica, ∆𝑷 , cioè la pressione che si genera a seguito di questo flusso di acqua.
Nell’osmosi è l’acqua che passa non le particelle.
La pressione osmotica è definita dalla legge di Vant’Hoff, che dipende dalla costante dei gas, dalla
temperatura assoluta, da un coefficiente osmotico, dal numero di ioni dissociati e dalla molarità del soluto.
L’unità di misura dell’osmosi è l’osmole, che è la quantità di soluto necessaria per avere una pressione
osmotica di 22,4 atmosfere.
Questo flusso osmotico è così importante che avviene sempre all’interno delle cellule.

L’effetto osmotico è ben visibile in esperimenti di base sul comportamento delle cellule all’interno di un
liquido, in funzione della variazione dell’osmolarità del liquido circostante.
Normalmente le cellule sono poste all’interno dei liquidi interstiziali, in condizioni d’uguale valore di
osmolarità. Cioè l’interno delle cellule e l’esterno delle cellule è in equilibrio dinamico che fa si che ci sia
costantemente un passaggio di acqua.
Se noi prendiamo un globulo rosso nel caso dell’isotonicità, e lo mettiamo all’interno di una soluzione che
ha la sua stessa concentrazione di NaCl. In questa condizione il liquido all’interno del globulo rosso ha lo
stesso valore osmotico del liquido all’esterno del globulo rosso.
Se noi prendiamo un globulo rosso e lo mettiamo all’interno di una soluzione ipertonica, ossia cosicché il
liquido extracellulare è ipertonico rispetto al liquido intracelulare, la forza osmotica richiamerà acqua
dall’interno verso l’estero della cellula. Il risultato è che all’interno della cellula si ridurrà la quantità di
acqua che è migrata verso l’esterno. La cellula si svuota di acqua e si raggrinzisce.
Quando invece, il globulo rosso è messo all’interno di un liquido ipotonico, cioè le condizioni di osmolarità
sono tali per cui l’acqua dall’esterno va verso l’interno, la cellula si riempirà di acqua fino a scoppiare.
Questo evento viene chiamato emolisi osmotica. I globuli rossi esplodendo formano i ghost eritrocitari.
Le ombre o ghost eritrocitarie
consentono lo studio della
membrana.
Ovviamente i movimenti di acqua
all’interno delle cellule, non
valgono solo per i globuli rossi,
ma per qualunque cellula.
Non tutto il volume della cellula
entra nello scambio osmotico, le
zone osmoticamente attive sono
le zone localizzate in prossimità
della zona di scambio.
L’acqua passa attraverso la membrana o grazie alle sue caratteristiche chimico fisiche attraverso il doppio
strato fosfolipidico, o mediante canali per l’acqua detti acquaporine.
Le acquaporine non servono soltanto per il passaggio di acqua, ma per il passaggio di urea, glicerolo e altro.
Membrana cellulare
A cavallo della membrana si distribuiscono le specie ioniche in maniera non identica all’intero e all’esterno,
il motivo di ciò è dato dall’accumulo all’interno della cellula di proteine che funzionano come anioni non
diffusibili e quindi impongono agli ioni che invece possono diffondere attraverso la membrana, una forza
che fa si che gli ioni essendo specie cariche si distribuiscano in maniera tale da tendere all’equilibrio e
compensare quest’eccesso di carica negativa all’interno della cellula. L’eccesso di proteine all’interno della
cellula induce un richiamo d’acqua per forza oncotica e quindi consente il turgore cellulare, impone la
distribuzione degli ioni, fa si che l’acqua che entra generi un gradiente osmotico, fa si che l’interno della
cellula sia carico negativamente, ci sia dunque un eccesso di carica che non può essere spostato fuori dalla
membrana.
Nonostante il turgore cellulare generato, le cellule
normalmente non scoppiano perché anche al di
fuori della cellula ci sono degli ioni, che non
entrano nella cellula e quindi consentono un
richiamo d’acqua verso l’esterno. Quindi abbiamo
acqua che entra ed acqua che esce. In più, questa
diversa distribuzione degli ioni all’interno e
all’esterno della cellula fa si che esistano dei
trasporti attivi che favoriscono la distribuzione
asimmetrica degli ioni.
La presenza di questi anioni non diffusibili
all’interno della cellula e la presenza di queste
specie cariche che si distribuiscono in maniera
asimmetrica, fa si che l’interno della cellula sia sempre caratterizzato da un eccesso di carica negativa.

Se noi facciamo la differenza in termini elettrici, tra l’interno della cellula e l’esterno della cellula, vedremo
che l’interno della cellula possiede una prevalenza di carica negativa. Questo avviene in tutte le cellule e va
sotto il nome di potenziale di riposo.
Una cellula a riposo ha sempre l’interno cellulare, il
citoplasma, ricco di cariche negative, mentre all’esterno sono
prevalenti le cariche positive. Questa differenza di potenziale
tra l’interno e l’esterno della cellula, abbiamo detto che va
sotto il nome di potenziale di riposo, la esprimiamo in
millivolt (mV) e la definiamo con il segno meno.
Nell’immagine sono riportati i potenziali di alcuni tipi cellulari
a riposo. E’ importante specificare che si tratta di potenziale a
riposo, perché questo valore cambia in alcuni momenti in
quello che definiremo potenziale d’azione.

La membrana, come abbiamo detto, altro


non è che una barriera che separa due
ambienti diversi l’uno dall’altro, ma è
anche una zona, attraverso la quale
possono avvenire una serie di scambi tra
l’ambiente intracellulare ed extracellulare.
I passaggi possono avvenire sia dal liquido
extracellulare che dal liquido
intracellulare, ma affinché avvenga il
passaggio attraverso la membrana è
necessario che le particelle che si trovano
in prossimità della membrana siano capaci
di interagire chimicamente con i fosfolipidi
di membrana, cioè con una tela
fosfolipidica, che è una tela idrofoba nella sua regione centrale, idrofila nella sua regione periferica, dove
sono posizionate le teste. Si tratta di una tela anche abbastanza fitta, che esercita quindi una capacità di
filtraggio delle sostanze, un filtraggio selettivo, che sarà dato da un lato dalla dimensione delle sostanze ma
dall’altro lato dalla loro natura chimica. Alcune sostanze sono in grado di reagire con i fosfolipidi di
membrana, altre invece no. La membrana è dunque sede di un’intensa attività di trasporto, un’attività di
trasporto caratteristica della particella che deve essere trasportata. Possiamo vedere nell’immagine come
per esempio piccole molecole idrofobiche come i gas respiratori, l’azoto, il benzene, sono in grado di
spostarsi attraverso la membrana fosfolipidica da un ambiente all’altro. Allo stesso modo anche piccole
molecole lipofile, come l’acqua, il glicerolo, l’etanolo, gli ormoni steroidei, le vitamine liposolubili, sono in
grado di interagire con la membrana e di spostarsi da un versante all’altro. Altre sostanze come grosse
molecole polari, o anche piccole particelle cariche come gli ioni, non riescono ad attraversare la membrana,
da un lato perché sono grandi come nel caso degli amminoacidi, del glucosio e dei nucleotidi, dall’altro lato
perché sono piccole ma sono carice elettricamente. In entrambi i casi la membrana è una barriera
invalicabile.
Ovviamente partecipano al trasporto le particelle che sono più vicine alla membrana, sappiamo che le
particelle non sono ferme all’interno di queste soluzioni ma si muovono mosse da moti browniani e dunque
solo quelle più vicine alla membrana sono in grado di interagire e partecipano al trasporto.
Una grande quantità di sostanze riesce ad attraversare la membrana con modalità differenti in base al tipo
di sostanza.
Possiamo classificare tutte le modalità
con le quali avviene il trasporto
attraverso la membrana secondo due
principi di base: da un lato i trasporti
che sono condizionati dalla natura
della particella da trasportare,
dall’altro dalla necessità di energia
metabolica.
Partendo dalla necessità di energia,
abbiamo due tipi di trasporto: i
trasporti che non richiedono altra
energia se non quella insita nel
movimento molecolare, oppure i
trasporti che invece richiedono
energia che deriva dall’ATP. L’ATP è la
fonte energetica metabolica che viene
sfruttata da alcuni tipi di trasporto.
Quando i trasporti non richiedono energia altra se non quella del movimento molecolare, in realtà vogliamo
dire che hanno bisogno di un’energia, ma l’energia è quella custodita all’interno dei gradienti, per esempio
dei gradienti di concentrazione. Se abbiamo una sostanza che è libera di diffondere all’interno di una
soluzione, e la mettiamo in un angolino, questa sostanza dopo poco diffonderà liberamente all’interno di
tutta la soluzione raggiungendo una sua condizione di equilibrio.
Quei trasporti che non richiedono nessuna energia se non quella dei gradienti vanno sotto il nome di
diffusione. Diremo che una sostanza diffonde da una zona all’altra attraverso la membrana.
Ci sono poi dei trasporti che invece richiedono l’energia che si ricava dall’ATP. Questi trasporti, sono
trasporti che in qualche modo sono mediati da proteine di membrana che necessitano dell’ATP per poter
funzionare nel trasporto.
Se consideriamo invece le caratteristiche strutturali, vedremo che arriveremo sempre alla diffusione e ai
trasporti che si definiscono attivi, cioè quelli che richiedono energia.
Nel caso della diffusione, la diffusione è quella modalità di trasporto nella quale non è richiesta energia se
non quella derivante dal gradiente, e può essere divisa in diffusione semplice, cioè il trasporto che avviene
attraverso la membrana di quelle particelle che possono interagire con la membrana muovendosi da una
zona a più alta concentrazione verso una zona a più bassa concentrazione, e diffusione facilitata.
La diffusione semplice non richiede l’intervento di mediatori. Accanto alla diffusione semplice, un altro tipo
di trasporto che non richiede energia se non quella dei gradienti è la cosiddetta diffusione facilitata.
Nel caso della diffusione facilitata, abbiamo sempre una particella che si muove secondo il suo gradiente,
ma in questo caso non riesce ad interagire con la membrana e ha bisogno di essere aiutata ad attraversare
la membrana da trasportatori, da mediatori. Questi mediatori sono proteine di membrana che si collocano
all’interno della membrana e generano nel doppio strato lipidico una zona favorevole al passaggio delle
sostanze.
Un altro modo di classificare i trasporti, è classificarli in forma semplice e forma mediata. La diffusione
facilitata è un trasporto in forma semplice, tutti gli altri sono trasporti in forma mediata.
I trasporti che abbiamo definito trasporti passivi, ossia la diffusione semplice e la diffusione facilitata, sono
trasporti che avvengono scaricando gradiente, in maniera tale che alla fine del trasporto si raggiunga una
condizione di equilibrio. I trasporti attivi, invece, sono trasporti che utilizzano tutti proteine di membrana,
anzi in alcuni casi vengono utilizzate vescicole rivestite di membrana, come nel caso dell’endocitosi,
dell’esocitosi e della fagocitosi.
Nei trasporti che richiedono energia dall’ATP distinguiamo, un trasporto attivo primario ed un trasporto
attivo secondario. Questi trasporti attivi hanno come funzione quella di generare un gradiente, cioè
agiscono in maniera tale per cui la particella trasportata verrà spinta verso una regione extracellulare o
intracellulare, cosicché alla fine sarà maggiormente concentrata in quella regione e di meno nell’altra
regione, dunque genereranno i gradienti.
Possiamo osservare nell’immagine
diverse vie di trasporto, abbiamo la
fagocitosi, dove possiamo notare
che la membrana crea
un’invaginazione, all’interno della
membrana ci sono dei recettori che
interagiscono con la particella, si
richiude poi la membrana e la
vescicola di membrana con la
particella da trasportare migra
all’interno della cellula.
Osserviamo inoltre la
macropinocitosi, in cui la membrana prende un materiale ancora più abbondante. Oppure la formazione di
vescicole ricoperte da clatrina o da caveolina, sono sempre processi di endocitosi in cui subentrano diverse
vescicole.

Nella parte bassa dell’immagine possiamo


notare che alcune proteine di membrana
possono trasportare una sola particella,
uniporto, possono trasportare due particelle
nello stesso verso, cotrasporto, oppure
possono trasportare due particelle in verso
opposto, controtrasporto.

Trasporti passivi
Abbiamo detto che la diffusione si divide in
semplice e facilitata, quella semplice è
vettore-indipendente, quella facilitata è
vettore-dipendente.
Diffusione semplice
Nell’immagine abbiamo il classico esempio
in cui è riportato un contenitore separato
da una membrana semipermeabile, che si
lascia cioè attraversare da qualcosa e non
da tutto. Al tempo 0 poniamo in una parte
del contenitore una sostanza diffusibile
qualunque, al tempo 1 la particella seguirà
il suo gradiente, quindi attratta dalla forza di gradiente si sposterà dall’altra parte del contenitore, al tempo
2 la particella raggiungerà l’equilibrio all’interno dei due contenitori, avremo dunque un flusso netto uguale
a zero, cioè tante particelle vanno da sinistra a destra tante vanno da destra a sinistra. Questo avviene
perché la particella è in grado di interagire con la membrana.
La diffusione semplice riguarda sostanze permeanti liposolubili, devono essere dunque in grado di
interagire con la membrana. Si dice essa sia gradiente limitata, cioè se c’è la differenza di concentrazione
tra l’interno e l’esterno della membrana la diffusione può avvenire, altrimenti la diffusione non avviene.
Quando il gradiente di concentrazione è pari a zero la diffusione non avviene. La diffusione semplice ha
inoltre una cinetica di non saturazione, nel senso che all’aumentare della differenza di concentrazione
aumenta in maniera lineare la diffusione, cioè il passaggio, il flusso diffusionale.

Le varie sostanze che attraversano la membrana per diffusione, non la attraversano tutte con la stessa
velocità, non hanno tutte lo stesso flusso diffusionale, perché dipende dalla natura della particella o meglio
dipende dal cosiddetto coefficiente di ripartizione olio/acqua, per cui abbiamo una permeabilità che
incrementa man mano che aumenta il coefficiente di ripartizione olio/acqua.
Ci sono delle sostanze altamente permeabili, tipo l’etano, l’etanolo e sostanze meno permeabili tipo il
glicerolo. L’acqua si posiziona in una condizione di elevata permeabilità.
Anche la dimensione relativa delle molecole influenza la permeabilità, cioè la capacità che hanno queste
sostanze di passare, tanto è vero che possiamo osservare nel grafico che diminuisce la permeabilità
all’aumentare delle dimensioni relative delle molecole.
La diffusione semplice è governata dalla cosiddetta LEGGE DI FICK.
La legge di Fick è un’equazione abbastanza semplice che ci aiuta a calcolare il flusso diffusionale, cioè
quante molecole al secondo passano attraverso la membrana.
∆𝐶
𝐹 = 𝐾𝑑 × 𝐴 ×
∆𝑥
F= flusso diffusionale (mol/sec)
K d = coefficiente di diffusione (m/s)
∆C= differenza di concentrazione (mol/m3 ) (maggiore è il gradiente, maggiore sarà il flusso)
∆x= spessore della membrana (m) (maggiore è lo spessore, minore sarà il flusso)
A= superficie della membrana (m2 ) (maggiore è la superficie, maggiore sarà il flusso)
Possiamo dire che il flusso diffusionale cresce all’aumentare della differenza di concentrazione e
all’aumentare della superficie che si occupa del passaggio.
La legge di Fick non è valida per le molecole cariche perché il potenziale della membrana genera una forza
aggiuntiva che va a sommarsi all’eventuale gradiente di concentrazione.
La legge di Fick non tiene conto delle dimensioni delle molecole e la possiamo rappresentare come una
retta che cresce all’aumentare della differenza di concentrazione.
La legge di Fick ricorda la legge di Ohm per le membrane, secondo la quale la corrente espressa in
Coulomb/s passa attraverso una membrana in base alla conduttanza della membrana che dipende in
questo caso dal numero dei canali, delle vie che sono aperte per il passaggio delle cariche.
Un altro fattore che influenza la velocità di diffusione è la distanza diffusionale, più lontani sono le zone
coinvolte nel trasporto, maggiore è il tempo che la particella impiega per passare attraverso la membrana.
Le particelle più vicine alla membrana sono quelle che passano prima e passano più rapidamente.
Il fatto che la distanza diffusionale determina il tempo del trasporto è un fattore importante per esempio
nel passaggio dei gas respiratori nei tessuti, più distante è il vaso sanguigno dalla cellula che deve ricevere
ciò che proviene dal vaso sanguigno, ad esempio i gas respiratori, maggiore è il tempo.
Diffusione facilitata
La diffusione facilitata avviene sempre secondo gradiente, anche il questo caso in assenza di gradiente la
diffusione non avviene, dunque anche la diffusione facilitata come quella semplice è gradiente limitata.
Come osserviamo nell’immagine, la particella s deve interagire con la
proteina x di membrana, una volta che è avvenuta questa interazione,
la proteina x di membrana cambia conformazione e fa si che la
particella s venga rilasciata sull’altro versante della membrana. E’
quindi necessario che esista un mediatore. La diffusione facilitata
interessa il trasporto di piccole molecole come ad esempio il glucosio,
gli amminoacidi oppure gli ioni. Il trasporto avviene secondo delle
cinetiche particolari, per i trasportatori di piccole molecole si tratta di
una cinetica di saturazione, per cui il flusso diffusionale cresce al crescere della concentrazione. Le proteine
di membrana possono legarsi a degli inibitori di tipo farmacologico e quindi essere incapaci di far avvenire il
trasporto. I trasportatori sono specifici per la sostanza, quindi avremo trasportatori del glucosio, degli
amminoacidi, i canali per il sodio, i canali per il potassio e così via. Le proteine di membrana sono sensibili
alla temperatura, per cui lavorano in maniera ottimale ad un determinato valore termico.
Canali ionici
I canali ionici sono quelle proteine di membrana che mediano il trasporto passivo delle specie ioniche che
essendo cariche elettricamente non potrebbero passare attraverso la membrana per diffusione semplice.
Si genera dunque un varco ricco di acqua
all’interno del quale può passare lo ione
per cui il canale è specifico. La dimensione
del canale è varia, dipende dal tipo di ione
che deve passare.
Questi canali ionici sono proteine
transmembrana, hanno una regione
idrofila, cioè gli amminoacidi di queste
catene peptiche si organizzano in maniera
tale da creare un’attrazione elettrostatica
con lo ione, si riempiono di acqua e
dunque lo ione più vicino al canale perde il proprio guscio di idratazione e interagisce con l’acqua posta
all’interno del canale.
I canali ionici selettivamente selezionano gli ioni che possono attraversarli e come vedremo possiedono
delle diversità funzionali. Sono proteine molto complesse, alcuni sono canali formati da varie subunità
proteiche.
Anche nel caso dei canali, abbiamo diversi tipi di canali che possono essere classificati in quanto possiedono
degli stati funzionali diversi.
I canali ionici hanno due proprietà fondamentali che sono il gating e la selettività. Quasi tutti i canali ionici
localizzati a livello delle membrane cellulari sono in grado di passare, in risposta a segnali specifici, da una
conformazione aperta in cui è ammesso il passaggio degli ioni ad una conformazione chiusa.
Un modello che ci permette di spiegare la transizione tra apertura e chiusura è la presenza di una “porta”
(gate), che è una propaggine molecolare del canale, capace di muoversi in modo da occludere o da aprire il
lume del canale ionico. Il gate è ovviamente costituito da una specifica sequenza amminoacidica.
Ci sono 5 diverse categorie di canali provvisti di gate, che si distinguono in base al meccanismo di gating,
abbiamo infatti: canali controllati dal voltaggio, canali controllati dal ligando, canali controllati dalla
sollecitazione meccanica, canali controllati dalla temperatura e canali controllati dalla luce.
Nei canali voltaggio-dipendenti, la proteina cambia la propria struttura a causa della differenza di
potenziale che c’è sui due lati della membrana.
Nei canali chemio-dipendenti il canale cambia il proprio stato funzionale a causa a causa di un mediatore
chimico che può provenire dallo spazio extra-cellulare, dunque si lega il mediatore e si apre il canale,
oppure da un messaggero intracellulare il quale si lega anch’esso consentendo l’apertura del canale.
Ci sono anche canali che cambiano il proprio stato funzionale in relazioni a cambiamenti di temperatura o
ancora a causa di una reazione alla radiazione luminosa, canali che si attivano a causa di deformazioni
meccaniche della membrana.
Possono inoltre esserci dei canali senza porta (canali di leakage) che sono invece sempre aperti. Infine, ci
sono i canali dell’acqua, le acquaporine, che sono quelle strutture che si inseriscono all’interno della
membrana aumentando la permeabilità della membrana per l’acqua.
La permeabilità ionica della membrana può essere aumentata da sostanze ionofore, come ad esempio la
valinomicina, che è un antibiotico, che si inserisce nella membrana e genera un canale per il potassio,
quindi aumenta la possibilità che la membrana sia attraversata da ioni di potassio i quali si muovono
secondo il loro gradiente elettrochimico.
Questi canali ionici sono come abbiamo detto proteine transmembrana, selettive per uno ione o per una
famiglia di ioni, sono caratterizzati da una specifica conduttanza, che è la capacità che ha la membrana di
lasciarsi attraversare dalla carica. Come abbiamo detto i canali ionici oscillano tra uno stato di apertura e
uno di chiusura per un processo di gating o variazione delle condizioni d’accesso.

Il gating altro non è che il


momento in cui le porte dei canai
cambiano la loro posizione. Nel
momento in cui cambiano la
posizione danno luogo ad una
corrente oppure la bloccano.
Come abbiamo detto il gating è
influenzato da cari fattori.

I canali possono inoltre essere modulati ad esempio attraverso sostanze farmacologicamente attive, P
possono dunque essere bloccati e subire il fenomeno della desensibilizzazione.
Poiché ogni volta che il canale si apre, passa uno ione,
passa una corrente che può essere positiva o negativa, la
corrente totale della membrana è data dalla somma
delle correnti che passano nei singoli canali.
Quindi noi avremo una membrana, che viene attraversata
da un evento di corrente, il quale dipende dalla quantità di canali che si sono aperti. Possiamo dunque fare
la sommatoria di tutte le singole correnti. Questa corrente dipende dal potenziale della membrana, perché
lo ione è una specie carica dunque è soggetto alla forza chimica e alla forza elettrica, la forza elettrica è
determinata dalla differenza di potenziale che c’è all’esterno e all’interno della cellula, la forza chimica è il
suo gradiente.
Quando un canale si apre, lo ione si sposta così da scaricare un gradiente chimico per raggiungere il suo
equilibrio. L’equilibrio è quel momento in cui le forze che agiscono sullo ione lo hanno distribuito in
maniera tale che il flusso netto sia uguale a zero. Quindi la corrente che si genere su una membrana
dipende dalla somma delle correnti che passano attraverso i singoli canali, che dipende da quanti canali
sono presenti sulla membrana. Questo numero di canali presenti sulla membrana determina la massima
conduttanza della membrana.
I canali si studiano attraverso una tecnica che è tipica dell’elettrofisiologia che è la tecnica Patch clamp. Il
Patch clamp sfrutta la possibilità di isolare una porzione di membrana utilizzando una micro-pipetta in
vetro che viene poggiata sulla membrana la quale viene sigillata e dunque isolata dal resto della membrana.
Questa porzione di membrana potrà comprendere diversi canali ionici. All’interno della pipetta è posta una
soluzione elettrolitica.
Attraverso questa
tecnica è possibile
registrare le
correnti ioniche
che fluiscono
attraverso i canali
ionici presenti. Il
potenziale in
uscita è
proporzionale alla
corrente
applicata all’ingresso invertente (-), cioè alla corrente che passa nel patch di membrana isolato dalla bocca
dell’elettrodo.
Trasporti attivi
I trasporti attivi sono quei trasporti che sfruttano l’energia metabolica che deriva dall’ATP.
Nel trasporto attivo primario, la
particella proteica è in grado essa
stessa di far avvenire l’idrolisi
dell’ATP. Una regione della proteina
agisce da ATPasi, cioè da enzima
idrolitico nei confronti dell’ATP;
poiché l’ATP è una molecola ad alta
energia, l’idrolisi dell’ATP in ADP e
fosfato inorganico fa si che la
particella x venga trasferita
dall’interno all’esterno della cellula.
Possiamo notare nell’immagine che la
particella x all’interno della cellula è
concentrata in quantità minore
rispetto all’esterno della cellula, ciò indica il fatto che il trasporto attivo primario avviene contro gradiente.
Si chiama primario questo tipo di trasporto perché la proteina trasportatrice si occupa non solo di far
avvenire il trasporto, ma anche di idrolizzare l’ATP. Avremo dunque un trasportatore che è allo stesso
tempo un enzima ATPasico.
Nel trasporto attivo secondario, il meccanismo si complica. Il trasporto attivo secondario richiede
sicuramente la necessità di un trasporto attivo primario che idrolizzando l’ATP e con l’energia dell’idrolisi,
prende la particella x dall’interno della cellula e la porta verso l’esterno. Questo trasportatore genera il
gradiente di x. Il trasporto attivo secondario dunque, sfrutta l’energia del gradiente di x per trasportare s da
una zona a bassa concentrazione verso una zona ad alta concentrazione. Anche in questo caso abbiamo un
trasporto contro gradiente, che genera dunque un gradiente.
Trasporto attivo primario
Un esempio di trasporto attivo primario è il trasportatore attivo primario sodio/potassio -ATPasico.
Tutte le cellule contengono la sodio/potassio
ATP-asi. Lo scambio di sodio e di Potassio avviene
in contro-trasporto. Nell’immagine abbiamo una
grande proteina con almeno due subunità che si
dispongono lungo la membrana, una sul versante
extra-cellulare ed una sul versante intra-cellulare.
Nel versante intra-cellulare si trova localizzata una
porzione della proteina che è in grado di
idrolizzare l’ATP, per cui la proteina cambierà
conformazione cosicché due ioni 𝐾 + contenuti
+
all’esterno della cellula entrino nella cellula e tre ioni 𝑁𝑎 contenuti all’interno della cellula fuoriescano
dalla cellula. La 𝑁𝑎+ /𝐾 + − 𝐴𝑇𝑃𝑎𝑠𝑖 prende il sodio dall’interno della cellula (sappiamo che il sodio è
maggiormente concentrato all’esterno della cellula, è uno ione esterno) attivando dunque un trasporto
contro gradiente. Allo stesso modo, il potassio che è maggiormente concentrato all’interno della cellula,
viene spinto contro gradiente dall’esterno all’interno. Tutto ciò avviene grazie all’idrolisi dell’ATP. Questa
pompa è altamente selettiva, si chiama 𝑁𝑎+ /𝐾 + − 𝐴𝑇𝑃𝑎𝑠𝑖 e solo il sodio e il potassio infatti trasporta;
genera la creazione di un gradiente; è sensibile verso veleni metabolici e da agenti specifici come
l’oabanina ed è una pompa elettrogenica. Elettrogenica sta ad indicare che quando funziona sposta tre ioni
sodio contro due ioni potassio, spostando tre cariche positive contro due cariche positive la differenza è
uno. Tre cariche vengono compensate da due cariche, quindi all’interno della cellula rimane una differenza
di carica, c’è una carica positiva in meno, ciò contribuisce a mantenere la negatività dell’ambiente
intracellulare.
Schema di funzionamento:
Allo stato iniziale la pompa è
aperta verso l’interno, è dunque
disposta in maniera tale che gli
ioni 𝑁𝑎+ possano interagire con
la regione interna della pompa.
Tre ioni 𝑁𝑎+ si collocano
all’interno della proteina. A
questo punto avviene la
defosforilazione dell’ATP, viene
dunque staccato un gruppo
fosfato che va a legarsi ad una
porzione della pompa. Questo
legame cambia la conformazione
della pompa che si apre verso
l’esterno, quindi lo ione
𝑁𝑎+ lascia la pompa e se ne va
all’esterno della cellula. In
questo momento la pompa è
aperta verso l’esterno, dunque
due ioni 𝐾 + vicini entrano nella pompa interagendo con essa. A questo punto la pompa viene nuovamente
defosforilata, si stacca nuovamente un gruppo fosfato inducendo un nuovo cambio conformazionale. La
pompa si apre verso l’interno e versa dentro i due ioni 𝐾 + . Dopodiché la pompa è nuovamente pronta per il
ciclo successivo.
Affinché questa pompa possa funzionare è necessario che ci siano il sodio 𝑁𝑎+ , il potassio 𝐾 + e l’ATP.
L’attività di questa pompa è vitale per il corretto funzionamento delle cellule.

Possiamo notare come la pompa similmente ad un


ingranaggio è sempre attiva.

Oltre alla pompa 𝑁𝑎+ /𝐾 + − 𝐴𝑇𝑃𝑎𝑠𝑖, abbiamo altri


tipi di pompe, tra cui le pompe protoniche, che
sfruttano l’ATP e possono trasportare unicamente
protoni. Le pompe protoniche spostano una sola carica
positiva, quindi sono elettrogeniche.

Lo schema riassume
le varie ATPasi per il
trasporto ionico.
Trasporto attivo secondario
Un esempio di trasporto attivo secondario è il cotrasporto 𝑵𝒂+ − 𝑫 − 𝒈𝒍𝒖𝒄𝒐𝒔𝒊𝒐(𝑺𝑮𝑳𝑻 − 𝟏), si tratta di
una grande proteina che interviene nell’assorbimento intestinale e nel riassorbimento renale del glucosio.

Sappiamo che all’esterno della cellula la concentrazione di 𝑁𝑎 + è alta, dunque il 𝑁𝑎+ viene trasportato
all’interno della cellula. Il cotrasportatore funziona sfruttando il gradiente del sodio per portare contro
gradiente il glucosio. Il 𝑁𝑎+ si legherà ad una porzione del trasportatore, il Glucosio, allo stesso modo si
legherà ad un’altra porzione del trasportatore, il trasportatore cambia conformazione e rilascia nel fluido
intracellulare l’𝑁𝑎+ e il glucosio. In questo modo il passaggio del glucosio, contro gradiente, è permesso per
il fatto che è stato sfruttato il gradiente del sodio. Normalmente la maggior parte dei trasporti attivi sono
sodio mediati dallo ione sodio, che è spesso considerato la particella motrice dei trasporti attivi secondari.

In molte cellule vi è una sinergia tra i vari tipi di trasportatori che cooperano l’uno con l’altro.
Nelle cellule renali, ci sono le 𝑁𝑎+ /𝐾 + − 𝐴𝑇𝑃𝑎𝑠𝑖 che generano il gradiente del sodio, questo gradiente
del sodio fa si che il cotrasportatore attivo secondario sodio-glucosio, scaricando il gradiente del sodio,
porta dentro il glucosio. Il glucosio entra nella cellula e poi fuoriesce per andare nel sangue utilizzando la
diffusione facilitata, ossia una proteina prende il glucosio all’interno della cellula e lo porta all’interno del
vaso sanguigno.
Potenziale d’azione
Tutte le cellule possiedono un potenziale, definito potenziale di membrana che non è altro che la
differenza di cariche tra l’interno e l’esterno della cellula, con l’interno carico più negativamente rispetto
all’esterno.
In alcune cellule questa condizione è
costante, mentre in altre, dette appunto
cellule eccitabili, il potenziale di
membrana può variare in determinate
situazioni. Questa variazione può essere
definita potenziale d’azione o variazione
di potenziale.
Le cellule eccitabili sono quelle cellule che se opportunamente stimolate possono far variare il loro
potenziale di membrana spostandolo dal valore di riposo. Sono cellule eccitabili le cellule muscolari
scheletriche, le cellule nervose, le cellule muscolari cardiache, le cellule del nodo seno atriale e le cellule
muscolari lisce.
Il potenziale d’azione può essere definito come una variazione rapida e imponente del potenziale di
membrana nel tempo.
Il potenziale d’azione può essere descritto
attraverso un grafico dove collochiamo sull’asse
delle x il tempo (msec) e sull’asse delle y la
differenza del potenziale della membrana (mV).
Nell’immagine è rappresentato il potenziale
d’azione di una fibra nervosa.
Una curva tipica del potenziale d’azione parte dalla
condizione di riposo dove ad un certo punto
insorge uno stimolo il quale provoca lo
spostamento della curva verso valori sempre meno
negativi. Questo momento viene chiamato
depolarizzazione, perché la membrana perde la
propria polarità, non separa più un ambiente
negativo all’interno e positivo all’esterno, ma man
mano che cresce questa differenza inizia a venir
meno fin quando la differenza di potenziale si
annulla, i due versanti della membrana avranno in
questo momento lo stesso valore in termini di
cariche. Si arriva ad un momento il cui il potenziale
di membrana si inverte diventando positivo
all’interno, ciò prende il nome di eccedenza, per
poi raggiungere un picco massimo e nel tempo
ritornare più o meno velocemente al potenziale di riposo. Questa fase di discesa della curva è definita
ripolarizzazione. A volte si ha un’iperpolarizzazione, durante la discesa della curva ci sarà un momento in
cui il potenziale di membrana si abbasserà ancor di più rispetto alla soglia del riposo, per poi ritornare a
stabilizzarsi al valore iniziale di riposo.
I grafici dei diversi potenziali d’azione variano a seconda delle cellule, ci sono però delle caratteristiche
generali comuni ad ogni tipo di potenziale. Innanzitutto, la regola generale fondamentale del potenziale
d’azione è la legge del tutto o nulla, ciò significa che quando una membrana viene stimolata
opportunamente, sé si realizza il potenziale d’azione si realizza al massimo della sua capacità oppure non si
realizza proprio. Poiché si realizzi il potenziale d’azione è necessario che si verifichino delle condizioni. La
prima condizione è che dopo che la membrana è stata stimolata, il valore del potenziale della membrana,
raggiunga un determinato livello definito soglia. Se non viene raggiunto il valore soglia, tipico di ciascuna
cellula, il potenziale d’azione non si genera e la membrana torna verso il suo stato di riposo. Ogni cellula ha
un potenziale d’azione la cui forma è diversa, ossia un’espressione grafica diversa.
Il potenziale d’azione è inoltre autorigenerante ed autopropagante, per cui una volta che avviene in un
punto si autorigenererà e auto propagherà su tutta la membrana.
Il potenziale d’azione, per essere definito tale deve avere un periodo di refrattarietà e si deve propagare
nella cellula seguendo la conduzione ortodromica, si propagherà dunque in un verso senza tornare indietro
nella membrana.
Forme dei principali tipi di potenziale d’azione:
Nelle cellule del cuore, ogni
cellula ha un diverso
potenziale d’azione,
caratterizzato dalla sua forma
particolare.
Nella cellula miocardica
ventricolare, come possiamo
notare dall’immagine, nella
fase di discesa del potenziale
c’è un periodo di
rallentamento che prende il
nome di plateaux. Possiamo inoltre notare come il potenziale d’azione della fibra nervosa sia molto più
rapido rispetto al potenziale delle cellule cardiache, il tempo del potenziale d’azione delle prime
corrisponde nelle seconde alla sola fase di depolarizzazione della membrana.

Che cos’è uno stimolo?


In laboratorio uno stimolo è uno stimolo elettrico che viene imposto per esempio alle membrane
sottoposte al clamping. In questo caso vado a variare la concentrazione degli ioni contenuti nella soluzione
elettrolitica presente nella pipetta, variando anche la forza che spinge lo ione sulla membrana, il quale si
muoverà spinto da un nuovo gradiente elettrochimico. Se lo ione si sposta, si spostano delle cariche, quindi
varierà il potenziale di membrana. Questo avviene sperimentalmente.
Gli stimoli possono essere di diversa intensità e giungono alla membrana in maniera crescente, ad ogni
stimolo corrisponde una variazione del potenziale di membrana. I primi stimoli vengono detti stimoli
depolarizzanti e sono quegli stimoli che spostano il potenziale della membrana man mano verso il
potenziale d’azione. I primi stimoli, seppur man mano aumentano di intensità energetica rappresentano
una depolarizzazione locali ma non raggiungono il valore soglia, dunque non rappresentano un potenziale
d’azione, sono perciò definiti stimoli sottoliminali. Dopo gli stimoli sottoliminali viene raggiunto il valore
soglia, il potenziale di membrana continua a variare andando incontro ad una depolarizzazione rapidissima,
raggiunge lo 0 e poi ritorna verso il riposo nella fase definita ripolarizzazione. Ho dunque ottenuto il
potenziale d’azione. Gli stimoli successivi a quelli sottoliminali sono definiti stimoli sovraliminali e generano
un potenziale d’azione caratterizzato dalla legge del tutto o nulla.
Tutto ciò succede nella membrana perché sono presenti una serie di canali ionici in grado di sostenere il
potenziale d’azione. In particolare, i canali che sono maggiormente responsabili nei potenziali d’azione
nelle varie cellule sono i canali per il sodio e i canali per il potassio. Nelle cellule cardiache un ruolo
importante è affidato ai canali al calcio.
Come sappiamo i canali ionici possono avere degli stati funzionali differenti e nel caso dei canali voltaggio
dipendenti ciò che fa variare la funzione della membrana è la variazione elettrica della membrana.
Parlando di canali che sostengono il potenziale d’azione, ci riferiamo proprio ai canali voltaggio dipendenti.
Il potenziale di equilibrio è quel valore del potenziale di
membrana per il quale il flusso netto è uguale a zero.
Attraverso un canale aperto lo ione specifico per quel canale
fluisce per andare verso il suo potenziale di equilibrio.
Che cosa succede nella membrana di una cellula eccitabile
quando viene posta ad uno stimolo depolarizzante?
Nel grafico dell’immagine in basso è messa in relazione la
conduttanza per gli ioni 𝑁𝑎+ e per gli ioni 𝐾 + .
La conduttanza è la capacità che ha la membrana di lasciarsi
attraversare da uno ione.
Esiste una conduttanza potenziale della membrana che è data
dal numero di canali presenti su di essa.
Un fattore che determina la conduttanza è però lo stato
funzionale del canale stesso.
Può essere osservata una stretta connessione tra la conduttanza
della membrana per gli ioni considerati e i propri potenziali
d’azione.
Nella membrana i canali al 𝑁𝑎+ allo stato di riposo
sono chiusi e la conduttanza e minima, ma nel
momento in cui arriva lo stimolo depolarizzante il
canale che inizialmente era chiuso, si apre. Quando
il canale al 𝑁𝑎+ si apre, il 𝑁𝑎+ fluisce massivamente
attraverso questo canale, passando dall’esterno
della cellula verso l’interno della cellula. Ciò avviene
perché il sodio segue il suo gradiente
elettrochimico, tende dunque a raggiungere il suo
potenziale di equilibrio. Questo movimento del
𝑁𝑎+ verso il suo potenziale di equilibrio, è
imponente e rapido, e fa si che una grande quantità
di cariche positive dall’esterno della cellula passino
verso l’interno della cellula. Se tante cariche
positive dall’esterno della cellula passano verso
+
l’interno della cellula, portate dallo ione 𝑁𝑎 , queste cariche andranno a neutralizzare elettricamente le
cariche negative già presenti all’interno. Questi canali sono voltaggio dipendenti, hanno delle porte di
attivazione, cioè delle porzioni del canale che si spostano seguendo l’attrazione elettrostatica di queste
cariche in movimento e aprono il canale.
Si innesca a questo punto un circuito a retroazione positiva rapida o
circuito a feedback positivo.
Questo ciclo che si attiva è il cosiddetto ciclo di Hodgkin, arriva lo
stimolo depolarizzante, il canale al 𝑁𝑎+ si apre, entra lo ione 𝑁𝑎+ il quale
depolarizza, questa depolarizzazione fa aprire un altro canale vicino
voltaggio dipendente al 𝑁𝑎+ . Si apre il canale, il 𝑁𝑎+ entra e depolarizza,
questa depolarizzazione fa a sua volta aprire un altro canale vicino
voltaggio dipendente al 𝑁𝑎+ e così via. Questo processo è
potenzialmente esplosivo ed ha un limite che è dato dal numero finito di
canali presenti sulla membrana e dal fatto che i canali al 𝑁𝑎+ dopo un
certo tempo cambiano stato funzionale, cioè si inattivano. Il canale nello
stato inattivo non lascia passare gli ioni e nello stesso tempo non è
attivabile, non risponde più allo stimolo. Man mano si inattivano i primi
canali aperti e ciò fa si che rallenti la corrente del sodio, vedremo una
riduzione della conduttanza di membrana. I canali per il sodio hanno una
cinetica rapida, gli eventi sono cioè rapidi.
Il canale inattivo dopo un certo tempo, precisamente quando termina lo stimolo depolarizzante, passa nella
fase chiuso. Il canale chiuso a differenza di quello inattivo può essere aperto. La membrana diventa dunque
nuovamente eccitabile.
In parallelo, dopo lo stimolo iniziale, possiamo notare nel sistema di assi cartesiani sopra rappresentato,
aumenta, anche se molto più lentamente, la conduttanza degli ioni 𝐾 + . Con l’aumentare della
depolarizzazione dunque è aumentata gradualmente anche la conduttanza della membrana al 𝐾 + ,questo
perché sulla membrana oltre ai canali voltaggio dipendenti al 𝑁𝑎+ , ci sono canali voltaggio dipendenti al
𝐾 + . Questi canali voltaggio dipendenti al potassio hanno una cinetica più lenta rispetto a quelli al sodio.
Anche questa volta l’apertura dei canali è determinata dalla depolarizzazione della membrana. Attraverso
questi canali aperti, lo ione 𝐾 + fluisce andando verso il suo potenziale di equilibrio, quindi scaricando il suo
gradiente elettrochimico il potassio uscirà dalla cellula. Tutto questo avviene per un certo tempo. I canali al
potassio non hanno lo stato di inattivazione, possono dunque essere aperti o chiusi. Saranno dunque aperti
finché la membrana è depolarizzata e si chiuderanno quando la membrana ritorna verso lo stato di polarità
a riposo. Con la fuoriuscita dello ione 𝐾 + l’interno della cellula tornerà ad avere valori negativi. Il momento
in cui lo ione potassio insieme alle cariche positive esce dalla cellula è quello che abbiamo definito
ripolarizzazione. Poiché i canali del potassio sono lenti, la conduttanza al potassio che permane anche dopo
che la membrana è arrivata al riposo fa si che ancora cariche escano dalla cellula e la membrana va incontro
all’iperpolarizzazione.
Durante il potenziale d’azione la membrana è stata dunque attraversata da flussi ionici massivi di Na
entrante e di K uscente. Alla fine del potenziale d’azione, vi è un recupero del potenziale di riposo, però il
Na e il K si trovano nel compartimento sbagliato. L Na infatti che dovrebbe essere ione esterno si trova
all’interno e il K che dovrebbe essere ione interno si trova all’esterno. In questa condizione la cellula non
potrebbe funzionare, ma funziona perché l’equilibrio ionico è ripristinato dall’attività delle 𝑁𝑎+ /𝐾 + -ATPasi.
Schematicamente, quello che avviene durante il potenziale d’azione è una variazione voltaggio
dipendente e tempo dipendente dello stato funzionale dei canali.
Il contributo delle correnti può essere
osservato utilizzando dei bloccanti dei
canali per il sodio (TTX) e per il potassio
(TEA). Vedremo che la corrente dell’Na va
verso l’interno della cellula e la corrente di
K fuoriesce dalla cellula.
Refrattarietà
Una delle caratteristiche del potenziale d’azione è la refrattarietà. Le dinamiche che avvengono nei canali
ionici fa si che durante un potenziale d’azione si generi un tempo nel quale la membrana si dice che è in
refrattarietà. La refrattarietà è quel momento nel quale la membrana è refrattaria agli stimoli, non risponde
cioè agli stimoli. Questo periodo di refrattarietà è diviso in due fasi, periodo refrattario assoluto, in cui
nessuno stimolo può attivare la membrana e un periodo refrattario relativo durante il quale la membrana
può essere opportunamente stimolata. La refrattarietà assoluta coincide con il tempo che va dal momento
in cui nel momento di depolarizzazione la membrana va verso la zona della neutralità fino a metà della
ripolarizzazione. In questo momento i canali al sodio sono inattivati, non rispondono cioè agli stimoli. Man
mano i canali da inattivi cominciano a passare a chiusi, dunque sono nuovamente stimolabili, comincia così
un periodo di refrattarietà relativa.
La refrattarietà è un meccanismo difensivo delle cellule eccitabili, infatti, fa sì che stimoli depolarizzanti
ravvicinati trovino le membrane in condizioni di refrattarietà assoluta. Non può dunque insorgere un
potenziale d’azione mentre c’è ancora il potenziale d’azione precedente. Questo fa si che i potenziali
d’azione non siano sommabili.
Il fatto che i canali al Na siano inattivi, fa si che il potenziale d’azione si propaghi in un'unica direzione.
Abbiamo detto che il potenziale d’azione è autopropagante e autorigenerate.
Autorigenerante perché come abbiamo detto, dopo aver imposto alla membrana uno stimolo, si aprono i
canali al sodio e grazie al ciclo di Hodgkin vengono aperti canali al sodio vicini e così via.

Le correnti di ogni singolo canale sì autopropagano perché depolarizzano zone limitrofe che erano a riposo.
Questo consente al potenziale di propagarsi nella membrana andando ad invadere delle regioni della
membrana a riposo.
Il potenziale d’azione non può tornare indietro sulla membrana perché alle sue spalle i canali erano in fase
di inattivazione, ciò viene definito conduzione ortodromica.
Nelle cellule nervose la conduzione
può essere continua, nei neuroni
amielinici o saltatoria nei neuroni
mielinici.
Il neurone è la cellula del sistema
nervoso su cui si sviluppa il
potenziale d’azione. I neuroni sono
cellule più o meno grandi costituiti
da un corpo cellulare da cui si
diramano dei prolungamenti
chiamati dendriti. Vi è un
prolungamento più evidente
chiamato assone che termina con
delle regioni che prendono
contatto con il neurone successivo.
Alcuni neuroni nel sistema nervoso
sono inguainati da cellule
accessorie. Alcune cellule della glia
vanno ad avvolgersi attorno all’assone del neurone formando dei manicotti che non sono altro che la
membrana di queste cellule accessorie che gira più volte attorno all’assone. All’interno di questa
membrana è contenuta la mielina che ha una natura lipidica. La natura lipidica della mielina fa si che questa
sia una zona dell’assone isolata elettricamente, dunque le correnti ioniche non riescono a fluire.
Nei neuroni amielinici tutta la membrana è interessata dalle correnti ioniche.
Nei neuroni mielinici, il potenziale d’azione si propaga passando in maniera saltatoria, perché i manicotti di
mielina sono interrotti da alcune zone chiamate nodi di Ranvier in cui la membrana è nuda. I canali
presenti in questa zona sono canali attivabili, per cui la corrente non farà altro che passare da un nodo
all’altro. La conduzione saltatoria è più rapida.
La teoria dei cavi
Lungo la fibra nervosa il segnale si propaga secondo la teoria dei cavi, l’assone di una fibra nervosa, è come
se avesse una zona interna che funziona da conduttore (assoplasma) separato da un conduttore esterno
(fluido extracellulare) per mezzo di uno strato isolante (membrana).
In queste cellule le correnti che
sostengono il potenziale d’azione si
propagano in maniera radiale. Una
frazione della corrente che fluisce
nell’assoplasma esce attraverso la
membrana. Pertanto, l’intensità del
segnale elettrico diminuisce d’ampiezza
col crescere della distanza dal punto
della fibra in cui esso è stato generato.
La velocità con cui si propaga il potenziale dipende dal diametro dell’assone e dalla presenza di mielina.

E’ come se avessimo un circuito elettrico in cui


abbiamo una resistenza che è quella imposta dalla
membrana (Rm) per il passaggio delle cariche e una
resistenza interna data dal citoplasma (Rin).
Il potenziale d’azione altro non è se non la
variazione nel tempo del potenziale di
membrana, lo possiamo rappresentare
graficamente su un sistema di assi cartesiani
dove posiamo sulle ascisse il tempo (msec) e
sulle ordinate la differenza di potenziale
(mV). A sostenere il potenziale d’azione sono
una serie di canali ionici voltaggio dipendenti
che si trovano nelle membrane delle cellule
cosiddette eccitabili.

Potenziale pacemaker
Il cuore è un organo autoritmico, è dunque un organo che
si contrae grazie allo sviluppo autonomo di un potenziale
d’azione nelle cellule del nodo seno atriale.
Questo potenziale d’azione incomincia a generarsi quando
le cellule durante lo sviluppo embrionale manifestano la
propria eccitabilità, cioè intorno all’ottava settimana di
vita intrauterina e rimane fin quando il nostro cuore
smetterà di battere. Il battito del cuore che noi
avvertiamo altro non è che l’espressione finale del fatto
che nelle cellule pacemaker ci sono dei canali che
permettono la genesi del potenziale d’azione. Dalle cellule
pacemaker questa corrente attraversa tutto il cuore e fa
contrarre il muscolo vero e proprio.
Osservando il grafico del potenziale di tale tipo di cellule
possiamo notare che parte da un tratto definito pre-
potenziale che ha un valore instabile, tra 60 e 65 mV. Instabile perché questa cellula raggiunge il suo
potenziale di riposo e lo perde immediatamente, sono infatti cellule costantemente attive nel generare
potenziali d’azione. Nella prima fase del potenziale la membrana tende a depolarizzare lentamente, questa
lenta depolarizzazione è data dall’apertura di alcuni canali che fanno entrare lo ione 𝑁𝑎+ , lo ione
𝑁𝑎+ passa, depolarizza la membrana lentamente e questa membrana man mano che si depolarizza si
avvicina verso il valore soglia. Mentre si aprono i canali che permettono il passaggio dello ione 𝑁𝑎+ ,
cominciano ad aprirsi alcuni canali al 𝐶𝑎2+ , anche questi una volta aperti lasciano fluire all’interno della
cellula una grande quantità di Ca. La depolarizzazione è sostenuta in questo caso dagli ioni 𝐶𝑎2+ , infatti,
questo potenziale prende anche il nome di potenziale al calcio. Il potenziale sale, si raggiunge il massimo,
poi piano piano i canali si chiudono e iniziano ad aprirsi i canali al 𝐾 + e il potassio lentamente fuoriesce da
queste cellule portando fuori dalla cellula anche le cariche positive. La membrana va dunque incontro ad
una ripolarizzazione, il potenziale si riavvicina al valore del potenziale di riposo, ma durante la discesa del
potenziale si aprono dei canali particolari, i canali funny. I canali funny, a differenza degli altri canali ionici
visti finora che si aprivano spinti dalla depolarizzazione, si aprono spinti dalla ripolarizzazione, sono canali
cationici farebbero dunque in teoria passare anche altri ioni oltre al sodio, ma il gradiente elettrochimico
del sodio prevale. Il sodio entra, si genera la depolarizzazione iniziale alla quale fa seguito nuovamente
l’intero processo di generazione del potenziale. Ciò si ripete per tutto l’arco di tempo di vita delle cellule
pacemaker.
Potenziale del miocardio di lavoro
E’ un potenziale molto lungo caratterizzato da un
periodo di stabilità durante la fase di
ripolarizzazione chiamato plateau.
Fase 0 = apertura dei canali al sodio
Fase 1 = corrente transitoria uscente di potassio
Fase 2 = corrente entrante di calcio controbilanciata
dalla bassa corrente uscente di potassio
Fase 3 = correnti uscenti del potassio
Fase 4 = ripristino delle concentrazioni ioniche ad
opera della pompa sodio-potassio

Osservando l’andamento delle


correnti attraverso le cellule
ventricolari del miocardio, vediamo
che la membrana inizia la sua
depolarizzazione spinta dal sodio,
entra poi il potassio che da avvio alla
fase di ripolarizzazione della
membrana. La ripolarizzazione della
membrana viene interrotta dagli ioni
calcio, più lenti dei precedenti, che si
oppongono alla discesa del potenziale
verso lo stato di riposo. Si crea
dunque un plateau in cui il potenziale
di membrana rimane stabile per un
certo periodo. In questo periodo la
membrana si trova nella condizione di
refrattarietà assoluta. Man mano che passa il tempo la curva relativa alla permeabilità del calcio
diminuisce, rallenta dunque l’ingresso di calcio fino alla chiusura. Nel frattempo che si chiudono i canali al
calcio si aprono dei canali tardivi al potassio, che fanno sì che il potassio esca dalla cellula e riporta la
membrana e riporta la membrana verso lo stato di riposo. La membrana entrerà dunque nella refrattarietà
relativa.

Trasmissione sinaptica
Nel sistema nervoso, questo potenziale d’azione è il linguaggio utilizzato per far avvenire la comunicazione
tra le cellule. Il tessuto nervoso è costituito in maniera importante da neuroni, che sono corredati da cellule
accessorie cosiddette della glia. I neuroni sono le cellule eccitabili per eccellenza del sistema nervoso. I
neuroni sono collegati a formare delle reti estremamente complesse che vanno a costituire i circuiti
nervosi.
Il potenziale d’azione è dunque quell’evento che consente alle cellule nervose di comunicare tra di loro e
con i bersagli. Le cellule nervose svolgono infatti la funzione di recepire il segnale, sarà fisiologicamente
questo lo stimolo che attiverà una membrana di una cellula nervosa, di integrare questo segnale all’interno
delle reti nervose e poi di trasferire sulla cellula, che chiameremo bersaglio, il risultato di questo segnale.
Ciò che avviene nel sistema nervoso è dunque mediato dal potenziale d’azione. Il potenziale d’azione si
propaga sulla membrana delle cellule nervose, raggiungerà la fine della cellula nervosa è dovrà dunque
essere trasmesso alla cellula nervosa successiva. Le regioni giunzionali tra le cellule nervose eccitabili sono
dette sinapsi e permettono la propagazione dell’impulso nervoso.
Possiamo classificare le sinapsi in due famiglie, le
sinapsi cosiddette elettriche e le sinapsi chimiche.
Le sinapsi elettriche sono quelle caratterizzate da un
movimento di ioni da un neurone all’altro attraverso
una connessione fisica diretta.
Le sinapsi chimiche invece, sono quelle sinapsi nelle
quali la trasmissione del segnale avviene attraverso
l’utilizzo di mediatori chimici.
Sinapsi elettriche:

Abbiamo una cellula presinaptica contenente il neurone numero 1, dove si sviluppa il potenziale d’azione e
una cellula postsinaptica dove deve avvenire il passaggio degli ioni. Nelle sinapsi elettriche questo
passaggio avviene in maniera diretta tra la cellula pre e postsinaptica, perché le due membrane prima
distanti si avvicinano con una fessura intorno ai 2-4 nm e su di esse si trovano localizzate delle proteine
chiamate connessine che si organizzano a formare delle strutture chiamate connessoni. Questi connessoni
rappresentano le zone attraverso le quali la membrana può far passare gli ioni.

Se le due cellule fossero separate da una larga fessura le correnti ioniche si disperderebbero nell’ambiente,
quindi il passaggio delle correnti da una cellula all’altra non potrebbe avvenire. Nel caso delle sinapsi
elettriche le cellule hanno le membrane estremamente ravvicinate cosicché le cariche del potenziale
d’azione della cellula presinaptica che si muovono, possono passare alla cellula postsinaptica. Questo può
avvenire perché le due membrane sono tenute insieme dalle connessine. Le connessine sono delle proteine
transmembrana che si trovano sia sulla membrana presinaptica che sulla membrana postsinaptica. In
ciascuna delle membrane si organizzano 6 connessine uguali a formare il cosiddetto connessone. Il
connessone di una membrana si trova perfettamente allineato con il connessone della membrana della
cellula adiacente. Si viene a formare il gap junction.
All’interno di queste subunità che formano il connessone si viene a formare un canale, un poro, ricco di
acqua. Questo poro ricco di acqua ha in se un’ambiente idrofilo all’interno del quale possono fluire gli ioni.
Queste zone della membrana sino dunque zone dove può avvenire in maniera imponente il passaggio degli
ioni dalla cellula presinaptica alla cellula postsinaptica. Di fatto le correnti fluiscono in queste zone definite
a bassa resistenza elettrica. In questa maniera, molto rapidamente si attiva la sinapsi elettrica che è
definita sinapsi di tipo rapido.

Sinapsi chimiche:

Le sinapsi chimiche sono un po' più lente delle sinapsi elettriche e sfruttano la possibilità che la cellula
presinaptica possa utilizzare una sostanza chimica, detta neurotrasmettitore, per trasferire il segnale alla
cellula postsinaptica.
All’interno delle sinapsi chimiche stesse ci saranno sinapsi con diversa velocità, alcune saranno un po' più
rapide, altre un po' più lente, ciò dipenderà sostanzialmente dal tipo di sostanza chimica utilizzata e dal tipo
di canale che si trova sulla membrana.
Nel caso delle sinapsi chimiche le cellule pre e postsinaptiche non sono quasi adese, ma sono separate da
una fessura, chiamata proprio fessura sinaptica o vallo sinaptico.
Le cellule in questo caso sono caratterizzate da alcune vescicole propriamente dette vescicole sinaptiche,
contenute in grande quantità nel terminale assonale. Sono proprio queste vescicole che contengono la
sostanza chimica che la cellula utilizza come neurotrasmettitore. Alcune di queste vescicole sono
localizzate in prossimità della membrana, altre sono un pò più distanti.
Una terminazione sinaptica è strutturalmente costituita da un assone sinaptico dentro cui viaggia il
potenziale d’azione, il terminale arriva in prossimità della cellula postsinaptica e si slarga a formare il
bottone terminale o bottone sinaptico. All’interno vi sono le vescicole e i mitocondri. Questo terminale è
separato dal vallo sinaptico, e la membrana postsinaptica tende ad accogliere il terminale quasi
avvolgendolo così da aumentare anche la superficie di contatto.
All’interno delle vescicole sono contenuti i neurotrasmettitori. Questi neurotrasmettitori possono avere
varia natura chimica e possono essere più o meno grandi. Un neurotrasmettitore molto ricorrente è
l’Acetilcolina. A seconda del tipo di neurotrasmettitore le sinapsi funzioneranno in maniera diversa.

Possiamo notare che ci sono delle vescicole presinaptiche


strettamente collegate al lembo della membrana, quasi a
formare un tutt’uno con essa. In questo modo il contenuto
delle vescicole viene rilasciato nella fessura sinaptica tramite un
evento di esocitosi. Una volta che il neurotrasmettitore è
arrivato nel vallo sinaptico diffonde verso la membrana
postsinaptica.

Come possiamo vedere ci sono diversi tipi di neurotrasmettitori: gassosi (NO, CO) non peptidici di basso
peso molecolare (Acetilcolina, catecolamina aa quali GABA, Glicina, noradrenalina, serotonina, istamina,
purine quale adenosina), peptidici

Traffico vescicolare
Alcuni neurotrasmettitori sono prodotti
all’interno del nucleo, maturano all’interno
dell’apparato del Golgi e vengono poi
trasportati nelle vescicole attraverso i
microtubuli del citoscheletro contenuti
all’interno dell’assone. Sui microtubuli
avviene il traffico delle vescicole le quali
vengono legate a delle proteine cargo che
hanno la capacità di muoversi interagendo
con i microtubuli e spostare le vescicole
dalla zona di produzione e di impacchettamento del neurotrasmettitore verso i terminali dove questo
neurotrasmettitore deve essere rilasciato.
Quando la vescicola
arriva nella parte attiva
della membrana, le
proteine cargo rilasciano
le vescicole che vanno ad
addensarsi nelle zone
attive, pronte vicino la
membrana per essere
rilasciate.
Quando le vescicole sono arrivate in prossimità della membrana presinaptica avviene il processo
dell’esocitosi.

In alcuni momenti le sinapsi con il neurotrasmettitore si attivano, ciò avviene quando la cellula presinaptica
viene stimolata da un potenziale d’azione.
Che succede quando arriva un potenziale d’azione nella cellula presinaptica?
Un potenziale d’azione depolarizza il terminale
assonale, raggiungendo il bottone sinaptico. Quando
arriva al terminale sinaptico, la depolarizzazione
portata dal potenziale d’azione fa aprire dei canali per
il 𝐶𝑎+2 voltaggio dipendenti. Questi canali si trovano
in prossimità della zona attiva. Con l’apertura di questi
canali il 𝐶𝑎+2 entra massivamente nella cellula
legandosi ad una proteina calcio legante, la
calmodulina. Una molecola di calmodulina lega
quattro ioni 𝐶𝑎+2 , si forma dunque un complesso
calcio-calmodulina che va ad attivare una proteina k
chinasi di tipo 2 (proteina chinasi calcio-calmodulina
dipendente). Questa chinasi II agisce come le altre
chinasi andando a fosforilare un substrato, in
particolare una proteina legata alle vescicole, la
sinapsina.
Quando la sinapsina viene
fosforilata dalla chinasi II si stacca
dalla vescicola. Quando la
sinapsina è legata alla vescicola,
questa non può interagire con la
membrana plasmatica, ma
essendosi staccata, la vescicola
può interagire con la membrana
plasmatica. La vescicola arriva in
prossimità della membrana
plasmatica e fonde la propria
membrana con quella del
terminale e le molecole di
neurotrasmettitore fuoriescono
per esocitosi.

Affinché avvenga questo rilascio è necessario un apparato proteico imponente.

Nelle sinapsi, una parte di vescicole è localizzata a distanza dalla


membrana, ed è il cosiddetto pool di riserva delle vescicole. Ci
sono invece delle altre vescicole posizionate sulla membrana che
partecipano immediatamente al rilascio del neurotrasmettitore.
Affinché possa avvenire tutto ciò le vescicole devono essere ancorate il più vicino possibile ai canali al Ca.
La membrana della vescicola per fondersi con la
membrana presinaptica deve poter interagire ed
ancorarsi, attraverso delle proteine di ancoraggio
(sinaptobrevina, sinaptogamina, sintaxina), si
venngono a creare degli scaffold proteici che
permettono la fusione delle due membrane e la
formazione del varco che consente il passaggio del
neurotrasmettitore all’interno del vallo sinaptico.
Al termine di questo evento la membrana delle
vescicole si trova inserita nella membrana presinaptica
e viene poi recuperata mediante un meccanismo di
endocitosi. Avviene dunque il recupero della vescicola
che viene riportata verso l’interno, in maniera tale che
la superficie della membrana presinaptica non si
espanda per ogni vescicola che arriva.
Il neurotrasmettitore è a questo punto rilasciato nella fessura sinaptica. Ciò fa si che il segnale che era il
potenziale d’azione, che si è trasformato nel neurotrasmettitore, nella forma di neurotrasmettitore
raggiunge la cellula postsinaptica, incontra una proteina capace di legarlo in maniera altamente specifica, il
recettore, e da inizio alla cascata degli eventi nella cellula postsinaptica.
Molte sinapsi utilizzano l’Acetilcolina come neurotrasmettitore.
L’Acetilcolina (Ach) è un neurotrasmettitore
piccolo della famiglia dei neurotrasmettitori
non peptidici, è formata a partire da colina
ed acetil coenzima A, viene sintetizzata nel
terminale assonale dall’ enzima
colinaAcetiltrasferasi e impacchettata
all’interno delle vescicole. Quando
l’Acetilcolina viene rilasciata con il
meccanismo visto incontra sulla membrana
postsinaptica una proteina chiamata
recettore colinergico. Ci sono molti tipi di
recettori colinergici. Nel momento in cui
l’Ach lega il recettore colinergico, la sinapsi è
attiva. La sinapsi rimarrà attiva fin quando il
neurotrasmettitore rimarrà legato al
recettore. Sulla membrana della cellula
postsinaptica si trova un enzima,
l’Acetilcolinaesterasi, che separa l’acetato
dalla colina. La sinapsi interrompe dunque il segnale portato dall’Ach, l’acetato si allontana dalla fessura
sinaptica e la colina viene ricaptata.
Ci sono diversi sistemi per fare avvenire l’interruzione del segnale delle sinapsi, uno di questo è la
rimozione attraverso il sangue del neurotrasmettitore, o ancora questo può essere ripreso nel terminale,
oppure la fessura sinaptica viene ripulita ad opera delle cellule della glia. Il risultato di tutto ciò è il ritorno
al riposo della sinapsi.
Che succede quando il
neurotrasmettitore si lega al recettore
nella membrana?

Recettore legato a
secondi messaggeri

I recettori per i neurotrasmettitori possono essere classificati in recettori ad azione diretta e recettori ad
azione indiretta. I recettori ad azione diretta sono i cosiddetti recettori canale, sono quei canali ionici
attivati dal ligando, chemio dipendenti. Il recettore in questo caso permette si l’ancoraggio del
neurotrasmettitore, ma è dotato anche all’interno di un varco per gli ioni. Nel caso dell’Acetilcolina il
recettore appartiene alla famiglia dei recettori nicotinici anche chiamati ionotropici. Sono recettori rapidi,
l’azione indotta dall’acetilcolina attraverso questo tipo di recettori è un’azione rapida.
I recettori ad azione indiretta sono chiamati anche recettori metabotropici, sfruttano cioè il metabolismo.
Sono anche noti come recettori legati a secondi messaggeri. Alcuni neurotrasmettitori come l’Ach possono
avere sia recettori ad azione diretta che recettori ad azione indiretta.
Un recettore ad azione indiretta è una proteina di membrana che ha sicuramente una zona extracellulare
che lega il suo ligando specifico, ma tale canale ionico è questa volta separato dal recettore. Questi
recettori sono infatti legati a secondi messaggeri intracellulari. Nel caso dei recettori muscarinici, per l’Ach,
questi sono accoppiati a proteine G, principali proteine trasduttrici del messaggio intracellulare. Queste
proteine G che possono essere stimolatorie o inibitorie, si attivano e come risultato si avrà la modulazione
del canale ionico. Queste sinapsi sono sinapsi lente.
Quando una sinapsi si attiva quello che si realizza nella cellula post-sinaptica, prima ancora che si realizzi un
potenziale d’azione è una variazione elettrica della membrana che prende il nome di potenziale post-
sinaptico. Il potenziale post-sinaptico, a differenza del potenziale d’azione che segue la legge del tutto o
nulla, è un potenziale graduato. I potenziali post-sinaptici sono potenziali locali graduati, la loro intensità
dipende dall’ampiezza dello stimolo. In altre parole, questi potenziali graduati hanno un’intensità che
dipende dalla quantità di corrente che passa e questo a sua volta dipenderà dalla quantità di canali che si
sono aperti. Possiamo avere un potenziale post-sinaptico inibitorio o eccitatorio.
Potenziale post-sinaptico eccitatorio:
Quando il neurotrasmettitore va a legarsi
al suo recettore, lo ione positivo passa
attraverso questo canale che si apre,
entra nella membrana generando una
depolarizzazione.
Osservando i grafici abbiamo
inizialmente il potenziale della
membrana post- sinaptica prima
dell’attivazione della sinapsi, in una condizione dunque di riposo. In seguito all’ingresso delle cariche
positive si crea dunque una depolarizzazione, questa è indicata come potenziale sinaptico unitario e
corrisponde alla variazione di potenziale che si ha quando sulla membrana arriva un quanto di
neurotrasmettitore. Nelle vescicole il neurotrasmettitore è contenuto in quanti. Quando degranula una
sinapsi, va cioè in esocitosi, rilascia il neurotrasmettitore dunque una serie di quanti. Ciascuno di questi
quanti contiene un certo numero di molecole di neurotrasmettitore che va a legare un certo numero di
recettori. Un certo numero di canali si aprirà e un determinato valore di corrente verrà generata. Poiché
quando la sinapsi si attiva non si libera solo il neurotrasmettitore di una vescicola, ma di molte vescicole,
sulla membrana post-sinaptica arriveranno tanti quanti di neurotrasmettitore i cui effetti si sommeranno e
genereranno intorno alla sinapsi quello che va sotto il nome di potenziale post-sinaptico. In questo caso le
correnti entranti sono positive avremo dunque una depolarizzazione maggiore. Nel grafico successivo
abbiamo un potenziale più ampio che rappresenta un potenziale post-sinaptico eccitatorio.
Possiamo notare che il potenziale si
svolge attorno alla membrana e che
trattandosi di un potenziale graduato man
mano che ci allontaniamo dal punto di
insorgenza dello stimolo l’intensità della
variazione del potenziale è minore. Il
potenziale raggiunge dunque valori più
bassi rispetto al precedente.
Allontanandoci maggiormente
osserviamo come il potenziale decade nel
tempo raggiungendo valori sempre più
bassi, fino ad arrivare a valori sottosoglia.
Possiamo dunque notare che il potenziale post-sinaptico è un potenziale che decade nel tempo e nello
spazio. Il potenziale eccitatorio, come quello inibitorio, si genera e la sua intensità se non diventa
potenziale d’azione si estingue allontanandoci fisicamente sulla membrana dal luogo della
somministrazione ma allo stesso tempo allontanandoci dal tempo della somministrazione.
Potenziale post-sinaptico inibitorio:
Il processo è lo stesso solo che in questo caso
entreranno nella membrana attraverso i canali
che si apriranno, ioni negativi.
Il neurotrasmettitore dunque attiverà
direttamente o indirettamente il canale
favorendo l’ingresso delle cariche negative che
iper-polarizzeranno la membrana. Ancora una
volta si può registrare il potenziale sinaptico
unitario. Ossia quello dato da questo pacchetto di neurotrasmettitore che si somma a quello dei
neurotrasmettitori rilasciati dalle altre vescicole fino ad avere un potenziale post-sinaptico inibitorio, cioè
la membrana si allontana dal valore del riposo e assumendo valori sempre più negativi all’interno si
allontana ancor più dalla soglia.
Alcune sinapsi funzionano proprio come sinapsi inibitorie, alcuni neurotrasmettitori come ad esempio il
GABA, neurotrasmettitore associato ad un canale per il cloro, in cui il GABA funziona proprio inibendo
l’attività sinaptica.
Non tutto quello che passa nelle reti nervose ha una funzione eccitatoria. I potenziali inibitoti non possono
diventare potenziali d’azione ma possono diventare potenziali post-sinaptici eccitatori.
Quando su una cellula arrivano una serie di potenziali d’azione ad alta frequenza, avremo che si
scaricheranno una serie di vescicole di neurotrasmettitore. L’intensità del potenziale graduato, post-
sinaptico eccitatorio, dipende da quanto neurotrasmettitore è stato rilasciato, dunque da quante vescicole
hanno partecipato all’esocitosi, ciò a sua volta dipende da quanti potenziali d’azione arrivano nel tempo su
quella sinapsi. I potenziali che giungono sulla membrana si distribuiscono intorno ad essa in maniera radiale
dalla zona d’insorgenza dello stimolo fino ad arrivare ad una zona chiamata zona trigger. La zona trigger è
una zona ricca di canali voltaggio dipendenti al Na, cioè di canali che hanno la capacità di aprirsi quando
arrivano queste correnti, di far dunque attivare il ciclo di Hodgkin e dunque se il potenziale in questa zona è
abbastanza da superare la zona soglia, parte il potenziale d’azione.

Sulle cellule arrivano solitamente terminazioni sinaptiche che possono essere asso-somatiche, asso-
assoniche o asso-dendritiche. Su ciascun neurone possono arrivare più neuroni con sinapsi che potrebbero
essere o eccitatorie o inibitorie. Ciò sta a significare che sul neurone ricevente devono essere presenti sia
canali che possono dar luogo a potenziali depolarizzanti, sia canali che possono dar luogo a potenziali iper-
polarizzanti. Può dunque capitare che sulla stessa cellula arrivi una sinapsi eccitatoria e una sinapsi
inibitoria.
A sinistra abbiamo una sinapsi
eccitatoria dove sono coinvolti i canali
al sodio, si genera un potenziale post-
sinaptico eccitatorio e questo
potenziale se è di bassa intensità non
arriva alla soglia e decade nel tempo,
ma se è di alta intensità supera la soglia
e fa partire il potenziale d’azione.
A destra invece abbiamo una sinapsi su
cui arriva il suo potenziale d’azione ma
in questo caso si attivano dei canali per
il cloro. Entra il cloro e si genera un
potenziale post-sinaptico inibitorio.
Se sullo stesso neurone arrivano
entrambi le sinapsi, quando agisce
l’eccitatoria il potenziale post-sinaptico subisce una depolarizzazione, arriva alla soglia e fa partire il
potenziale d’azione. Se si attiva la sinapsi inibitoria, si genera il potenziale post-sinaptico inibitorio, il
potenziale sale non raggiunge la soglia e decade nel tempo. Ma se a questo potenziale sinaptico inibitorio
fa seguito subito dopo l’attivazione della sinapsi eccitatoria si ha una depolarizzazione. Ma tale
depolarizzazione trova una membrana iper-polarizzata per cui la variazione del potenziale non è tale da
portare la membrana al raggiungimento della soglia.
L’effetto eccitatorio ed inibitorio delle sinapsi è un effetto sommabile. Possiamo avere una sommazione
temporale, quando si sommano stimoli consecutivi o una sommazione spaziale quando si sommano due
stimoli che avvengono in due diversi punti della membrana contemporaneamente.

I potenziali si registrano man mano che si va a


distanza rispetto alla sinapsi.
Il grafico ci mostra una leggera differenza tra il
potenziale A e il potenziale B, ossia una piccola
gobbetta in fase ascendente del potenziale A.
Questa gobbetta rappresenta proprio il potenziale post-sinaptico.
L’inibizione come dicevamo è un evento importante per il corretto funzionamento delle reti nervose. Le
reti nervose possono essere inibite secondo due modalità, una modalità che viene definita inibizione pre-
sinaptica e una modalità che viene definita inibizione post-sinaptica.

Per inibire una cellula nervosa è necessario portare la membrana verso l’iperpolarizzazione.
Nell’inibizione pre-sinaptica il neurone eccitatorio (1) scarica, la sinapsi si attiva e parte un potenziale
d’azione verso il neurone numero due, il quale arriva in prossimità dei bersagli e ramifica andando a
raggiungere tre cellule bersaglio. Su due di queste cellule bersaglio c’è il rilascio del neurotrasmettitore
perché il potenziale induce l’esocitosi, il neurotrasmettitore lega il recettore e si ha la risposta. Nel ramo
che porta alla terza cellula bersaglio, prima del terminale assonale l’assone viene raggiunto da un neurone
inibitorio (3), si tratta in questo caso di una sinapsi asso-assonica. Questo neurone inibitorio quando viene
attivato scarica e induce l’iperpolarizzazione del terminale. Quando il potenziale d’azione arriverà in questo
tratto iper-polarizzato non riuscirà a passare perché la membrana sarà lontana dalla soglia. Quindi ancor
prima di arrivare alla sinapsi viene impedito il rilascio del neurotrasmettitore.

Nell’inibizione post-sinaptica il neurone due viene raggiunto da un neurone eccitatore e da un neurone


inibitore. Se il neurone eccitatore si attiva si genera un potenziale post-sinaptico eccitatorio, ma se il
neurone inibitore si attiva o in contemporanea o poco dopo l’attivazione del neurone eccitatorio, questa
zona della membrana del neurone numero due si iper-polarizzerà. Quindi il potenziale eccitatorio troverà
una membrana iper-polarizzata in prossimità del neurone inibitorio e dunque il potenziale d’azione non si
formerà. Tutte le tre cellule bersaglio a valle non verranno perciò stimolate, non si ha nessuna risposta.
Gli organi bersaglio del sistema nervoso sono il tessuto cardiaco, il muscolo scheletrico e le ghiandole.
Vediamo dunque cosa succede su uno degli organi bersaglio e in particolare sul muscolo scheletrico.
Il muscolo scheletrico è controllato dal sistema nervoso somatico ed in particolare dai cosiddetti
motoneuroni α, lunghi neuroni mielinici che arrivano verso il muscolo scheletrico andando a formare una
giunzione chiamata α-motoneuronale. Questa zona giunzionale ha le caratteristiche di una sinapsi ma non
si trova tra due neuroni, è appunto una giunzione neuro-muscolare.
Il neurone motore prima di arrivare al muscolo scheletrico ramifica, arrivati alla membrana muscolare il
neurone genera diversi bottoni sinaptici.

La zona muscolare che accoglie il bottone sinaptico è fittamente ripiegata e costituisce la placca motrice.
Questa zona del muscolo scheletrico sarà definita come altamente funzionale.
Quando il motoneurone arriva al tessuto scheletrico si
va innanzitutto a formare la cosiddetta unità motoria,
formata dal neurone e dalla fibra muscolare. Il neurone
motore ha nel punto d’incontro della fibra un vasto
territorio d’innervazione, può dunque controllare una
superficie muscolare molto elevata. Un solo stimolo che
raggiunge il neurone motore può dunque raggiungere
una vasta area muscolare. Il risultato è la contrazione
del muscolo.
Il terminale assonale in questione è ricco di vescicole
che contengono come neurotrasmettitore
l’Acetilcolina. L’Acetilcolina è dunque il mediatore della
trasmissione neuro-muscolare. Quando arriverà il
potenziale d’azione nel neurone motore, l’Acetilcolina verrà rilasciata dalle vescicole. A questo punto si
degranula l’ACh e vengono rilasciati i quanti di ACh, questi andranno a legare i recettori posti sulla placca
motrice. Accano ai recettori dell’ACh si trovano tutti gli apparati di regolazione della concentrazione ionica.
L’Acetilcolina si legherà dunque ai recettori che sono recettori canale. L’apertura dei canali favorirà il
passaggio dello ione 𝑁𝑎+ e perciò l’interno della cellula muscolare scheletrica acquisirà cariche positive.
Acquisendo cariche positive si ha un potenziale di placca che ci ricorda il potenziale post- sinaptico
eccitatorio. Allontanandoci dalla placca si registra un potenziale d’azione. Poiché lo stimolo viaggia
arrivando a diverse sinapsi, date le innumerevoli ramificazioni del neurone, si formano diversi potenziali di
placca i quali possono essere tra loro sommati consentendo la genesi di un potenziale d’azione.
Abbiamo due tipi di recettori canale per l’ACh, N1 ed N2.
N2 è quello utilizzato nel sistema muscolare
scheletrico;
N1 è utilizzato nei Gangli del Sistema nervoso
autonomo.
Possiamo notare che avremo il potenziale d’azione muscolare solo dopo che sarà terminato il potenziale
d’azione nervoso. C’è dunque un periodo di latenza. Questa distanza temporale precede l’evento che
chiameremo contrazione.
Come nei potenziali post-sinaptici eccitatori, anche nella placca motrice, se registriamo il potenziale
d’azione in prossimità della placca, vedremo il potenziale di placca come se fosse un potenziale post-
sinaptico eccitatorio. Allontanandoci dalla placca motrice il potenziale d’azione perde il potenziale di placca.
I potenziali di placca decrescono al crescere della distanza.

SISTEMA NERVOSO
Il sistema nervoso è il meccanismo principe di regolazione del funzionamento dei vari organi, apparati,
cellule e sistemi di cui parleremo. Esso presiede al controllo omeostatico facendo si che la funzione svolta
dai neuroni possa essere utilizzata dai circuiti omeostatici che rispondono alle perturbazioni che vengono
dall’ambiente interno o dall’ambiente esterno. Queste perturbazioni vengono percepite da recettori. (la
parola recettore è utilizzata sia per descrive le proteine di membrana capaci di legare il ligando sia per
descrivere delle cellule nervose capaci di recepire gli stimoli).
Il recettore utilizza il sistema nervoso attraverso delle vie che portano il segnale a dei centri di
integrazione. Questi centri di integrazione sono nel sistema nervoso centrale, elaborano il segnale che
viene mandato attraverso nei neuroni a degli effettori che provocano una risposta. (RIFLESSO NERVOSO
SEMPLICE)
Accanto al sistema nervoso, lo stesso ruolo di controllo omeostatico è affidato al sistema endocrino, cioè
agli ormoni. Anche in questo caso avremo una perturbazione dall’ambiente interno o esterno, avremo
anche qui un sensore, che recepisce il segnale e lo integra. A questo punto le cellule secernenti di tale
sistema producono un ormone che raggiunge l’effettore e genera una risposta. (RIFLESSO ENDOCRINO
SEMPLICE)
I due tipi di sistemi omeostatici si possono integrare, nel cosiddetto RIFLESSO NEURO-ENDOCRINO
COMPLESSO, anche in questo caso la perturbazione viene avvertita da un recettore che attraverso una via
nervosa lo comunica al sistema nervoso centrale, avviene l’integrazione e il neurone in uscita non arriva
direttamente sull’effettore ma su una cellula endocrina che poi produrrà un ormone che raggiunge
l’effettore generando una risposta.
Il primo controllo omeostatico è affidato al sistema nervoso a causa dei tempi velocissimi. Accanto a questo
c’è il sistema endocrino che ha però tempi più lunghi.
Il sistema nervoso si divide in un sistema
nervoso centrale, formato da encefalo e midollo
spinale, e in un sistema nervoso periferico,
formato da nervi cranici e nervi spinali.
Abbiamo le fibre afferenti (afferiscono, vanno al
sistema nervoso), ossia neuroni che partono
dagli organi di senso (occhio) e vanno verso il
sistema nervoso centrale. Accanto alle fibre
sensitive afferenti, abbiamo le fibre cosiddette
motrici o efferenti (vanno dal sistema nervoso
agli organi effettori). Gli organi effettori possono
essere i muscoli scheletrici che sono raggiunti
dalle fibre efferenti del sistema nervoso
somatico, volontario e il muscolo cardiaco, il muscolo liscio e le ghiandole che sono raggiunti dalle fibre
efferenti del sistema nervoso autonomo, involontario. Il sistema nervoso autonomo si divide in simpatico e
parasimpatico.
Il neurone
Il neurone come possiamo vedere ha un corpo
cellulare che contiene il nucleo, il nucleolo e gli
organuli. Da questo corpo cellulare partono una
serie di prolungamenti chiamati dendriti che sono
quelle su cui arrivano ad esempio le sinapsi asso-
dendritiche. Dal neurone parte il monticolo
assonico anche detto cono d’emergenza, da cui
parte l’assone il quale può ramificare tramite
assoni collaterali. L’assone, in questo caso mielinico, terminalmente perde la guaina mielinica e ramifica in
delle terminazioni che finiscono poi con i bottoni sinaptici. L’impulso nel neurone iene raccolto sui dendriti
oppure sul corpo cellulare, il potenziale diventa potenziale d’azione nel monticolo assonico o nel primo
nodo di Ranvier. La mielina avvolge l’assone formando i manicotti, ed è un isolante elettrico.
Alcuni tipi di neuroni:
Il sistema nervoso
La periferia sensoriale è popolata da cellule che vengono definite recettori sensoriali. La parola recettore
può essere facilmente confusa con il recettore per il neurotrasmettitore o per l’ormone, in quel caso
parleremo di molecole, mentre nel caso dei recettori sensoriali parliamo di cellule sensoriali.
Queste cellule reagiscono agli stimoli trasformandoli in potenziale d’azione e attraverso questo linguaggio
elettrico riescono a trasferire l’informazione alle regioni centrali dove viene raccolta, integrata ed
elaborata. Dalla periferia sensoriale al sistema nervoso arriva il segnale attraverso l’impulso sensitivo,
viaggiando su delle vie nervose, cioè dei neuroni.
Attraverso delle fibre viene prodotta al termine dell’integrazione dell’informazione, una risposta motoria.
La risposta motoria, rappresentata da nervi motori ossia strutture composte da più neuroni, raggiungono la
periferia motoria, costituita dai muscoli scheletrici lisci, cardiaci e ghiandole. I neuroni che arrivano sui
muscoli scheletrici vanno a costituire i neuroni motori efferenti del sistema nervoso somatico. Nel caso
delle fibre che arrivano al muscolo cardiaco, al muscolo liscio e alle ghiandole vengono detti neuroni motori
efferenti del sistema motorio involontario, cioè autonomo, che si divide in simpatico e parasimpatico.
Neuroni
I neuroni possono essere suddivisi in neuroni multipolari, neuroni bipolari e neuroni pseudounipolari o a
T.

Sono neuroni multipolari i motoneuroni α che possiedono un soma,


molti dendriti e un prolungamento assonico che deriva dal corpo
cellulare e termina con delle terminazioni sinaptiche.

Il neurone bipolare, come nel caso delle cellule retiniche, ha il soma e


con i dendriti da un lato e l’assone dall’altro.

Il neurone pseudounipolare, detto anche neurone a T, ha il corpo


cellulare sporgente da un lungo prolungamento assonico che ha da un
lato i dendriti e dall’altro i terminali assonici.

Cellule della glia


Accanto i neuroni abbiamo le cellule della glia, cellule accessorie che aiutano i neuroni al corretto
funzionamento. Sono dunque cellule aggiuntive che si trovano all’interno del tessuto nervoso.
Le cellule gliali si trovano nel
sistema nervoso periferico e nel
sistema nervoso centrale.
Nel sistema nervoso periferico le
cellule gliali sono le cellule
satellite e le cellule di Schwann.
Le cellule di Schwann formano la
guaina mielinica dei nervi
periferici e secernono dei fattori
cosiddetti neurotrofici, cioè che
sostengono la crescita e la vitalità
dei neuroni; mentre le cellule satelliti hanno come ruolo prevalente quello di sostenere i corpi cellulari dei
neuroni.
Le cellule gliali del sistema nervoso centrale sono:
-gli oligodendrociti che formano la guaina mielinica;
-gli astrociti, chiamati così perché hanno una forma più o meno stellata, che danno supporto al sistema
nervoso centrale, contribuiscono alla costruzione della barriera emato-encefalica, secernono fattori
neurotrofici che sostengono la vita dei neuroni e infine controllano l’equilibrio del potassio (K) e dei
neurotrasmettitori, si occupano dunque di tenere pulito in termini molecolari e ionici l’ambiente dei
neuroni;
-le cellule della microglia che sono cellule di difesa e tengono dunque pulito l’ambiente eliminando le
sostante di rifiuto del tessuto nervoso;
-le cellule ependimali che creano le barriere tra i compartimenti, l’ependima, e sono sorgente delle cellule
staminali nervoso;

Associazioni tra neuroni


Le reti nervose si organizzano attraverso degli schemi:
Divergenza
Possiamo vedere come un neurone che ha un assone ramificato sinapta
con tre neuroni, questi tre neuroni hanno a loro volta un assone
ramificato e sinaptano con altri neuroni, totalmente sette. Il primo
neurone genererà un potenziale d’azione, si attiveranno le sinapsi sui tre
neuroni e di conseguenza quelle sui sette neuroni successivi. L’effetto
totale è di divergenza, si amplifica, c’è un potenziamento dell’effetto. La
rete nervosa fa si in questo caso che sia sufficiente attivare un neurone
per attivarne molti altri come conseguenza. Può però esserci un feedback
negativo o positvo. Nel caso di un feedback negativo, ad esempio, la
presenza di sinapsi inibitorie sui neuroni di secondo ordine fa si che venga
inibita l’attività a monte del neurone di primo ordine.
Convergenza
Al contrario nella convergenza abbiamo un certo numero di neuroni che
man mano convergono su un numero minore di neuroni per poi
convergere tutti quanti su un unico neurone. Ciò sta a significare che
l’attività del neurone di terz’ordine, in basso, è condizionata dall’attività
dei neuroni a monte. Il segnale che arriva all’ultimo neurone è un segnale
che deve tener conto dei segnali che provengono da tutti i neuroni a
monte. Il risultato in termini sinaptici deriverà dalla sommazione
sinaptica spaziale e temporale.

Inibizione laterale
L’inibizione laterale è un meccanismo di comunicazione tra neuroni prossimali,
vicini l’uno all’altro. Lo troviamo nella visione e nella sensibilità tattile. Se
consideriamo ad esempio uno spillo e andiamo a pungere la cute, avvertiamo il
dolore in un punto ben preciso che identifichiamo sulla nostra superficie corporea,
questa sensazione si disperde e diminuisce man mano che ci allontaniamo dalla
zona nella quale abbiamo ricevuto la puntura. Questa localizzazione puntiforme
ben identificata è dovuta proprio al fatto che i neuroni sensoriali primari che
percepiscono lo stimolo vengono attivati e genereranno dunque un potenziale
d’azione. Il neurone che percepisce direttamente la puntura genera il potenziale
d’azione con una frequenza di scarica maggiore rispetto ai neuroni ad esso laterali
che genereranno anch’essi potenziale d’azione ma ad una frequenza minore. Il neurone che scarica a
maggiore frequenza, rilascia un numero notevole di molecole di neurotrasmettitore. Come possiamo
notare dall’immagine il neurone di secondo ordine centrale ha due ramificazioni laterali oltre alla centrale,
queste due ramificazioni sono ramificazioni inibitorie. Dunque, solo il neurone ti terzo ordine direttamente
allineato con il neurone a scarica maggiore verrà attivato mentre, i due laterali non vengono attivati a causa
dell’inibizione avvenuta prima delle terminazioni sinaptiche dei neuroni di secondo ordine.
Il segnale si ripulisce nella sua regione principale e arriverà così chiaro, nitido, non distribuito.
Tutto ciò succede perché nel nostro sistema nervoso esistono le vie di feedback.
C’è dunque un segnale in input che viene percepito da una
periferia sensoriale, viene trasmesso alle reti nervose e questo
segnale prevede che le reti nervose possano essere attivate fino
alla fine i anche limitate durante il circuito attraverso i feedback
negativi.

Quello rappresentato nell’immagine è un possibile


schema di rete nervosa, dove è presente una periferia
sensoriale identificata con la pelle. (la pelle non è
l’unica periferia sensoriale, ci sono i sensi speciali
diversi dal tatto e c’è la periferia viscerale che ci
consente di sentire cose a noi non percepibili tipo il pH
e l’osmolarità dei liquidi corporei).
Questa periferia sensoriale, in questo caso somatica, è
innervata da una serie di terminali che raccolgono il
segnale che arriva in questa regione. Il segnale viene
poi percepito da neuroni sensoriali, in questo caso
neuroni a T che ramificno su una serie di neuroni di associazione i quali sinaptano l’uno con l’altro. I neuroni
di associazione sinaptano poi sui neuroni motori che escono dalle regioni centrali del sistema nervoso e
arrivano verso la periferia effettrice, in questo caso il muscolo scheletrico. I neuroni sensoriali e i neuroni
motori sono neuroni che contengono la mielina a differenza dei neuroni di associazione che ne sono privi.
Organizzazione generale del SNC
Le strutture anatomiche costituenti il SNC sono contenute in
parte nella teca cranica e in parte all’interno del canale
midollare. Una parte di tali strutture fuoriesce dalle teche
protettive come nervi cranici o spinali, sono questi che
portano da e verso la periferia le fibre nervose.
All’interno della scatola cranica abbiamo il cervello, il
cervelletto, all’interno c’è il diencefalo e il mesencefalo, poi
il ponte, il bulbo e il midollo allungato che continua con il
midollo spinale. Il midollo spinale è contenuto all’interno
della colonna vertebrale. Dalla colonna vertebrale
fuoriescono delle terminazioni nervose che chiamiamo nervi
spinali, i quali si dividono in 8 nervi cranici, 12 nervi toracici,
5 nervi lombari, 5 nervi sacrali e 1 nervo coccigeo, ognuno
dei quali, come possiamo vedere, prende il nome del
segmento vertebrale da cui fuoriesce.
Midollo spinale
Il midollo spinale è contenuto all’interno del
canale vertebrale. Il tessuto nervoso contenuto
nel canale è circondato da una serie di tessuto
che va a formare la tela aracnoidea e la dura
madre. Sotto la tela aracnoidea c’è uno spazio
subaracnoideo dove c’è del liquido
interstiziale che purifica, nutre e protegge il
tessuto nervoso. Dalla colonna centrale
fuoriescono delle radici che si uniscono per
formare un’unica struttura nervosa, il nervo
spinale. Queste radici, che sono le radici dei
nervi spinali, si dividono in radici anteriori e
radici posteriori, tenendo conto che l’intera struttura considerata può essere divisa in sezione frontale in
una porzione posteriore o dorsale e una porzione anteriore o ventrale. Posteriore o dorsale e anteriore o
ventrale fanno riferimento all’essere bipedi o quadrupedi.
Guardando attentamente, la radice dorsale e la radice ventrale sono diverse in quanto sulla radice dorsale
si trova un rigonfiamento che prende il nome di ganglio. Il ganglio della radice dorsale contiene i corpi
cellulari dei neuroni sensoriali, quelli che derivano dalla periferia sensoriale e che portano il segnale alle
regioni centrali.
Le zone centrali del midollo spinale assumono una colorazione grigiastra, più scura, che fa si che la parte
centrale del midollo venga chiamata sostanza grigia, mentre le porzioni periferiche vengono chiamate
sostanza bianca perché hanno una colorazione biancastra. Questa differenza è data dal fatto che nelle
regioni chiamate di sostanza bianca, le fibre nervose di neuroni lì presenti, hanno gli assoni ricoperti da
mielina, la quale è biancastra. All’interno della sostanza grigia ci sono invece quelle porzioni dei neuroni che
sono privi di mielina, dunque corpi cellulari o interi neuroni amielinici. La sostanza grigia assume una forma
ad H o a farfalla che può essere ulteriormente divisa in due porzioni posteriori, corni posteriori di sostanza
grigia, e due porzioni anteriori, corni anteriori di sostanza grigia. Le regioni di sostanza bianca invece si
dividono in fasce e colonne.
La sostanza grigia è formata da corpi cellulari e neuroni delle vie nervose che hanno raccolto il segnale nella
periferia e arrivano al sistema nervoso da cui partiranno poi come vie motorie.
Come abbiamo detto nel ganglio sono contenuti i corpi cellulari dei neuroni sensoriali i quali provengono
dalla periferia sensoriale somatica e viscerale. Questi neuroni nelle periferie hanno recepito uno stimolo,
sarà dunque partito un potenziale d’azione che viaggerà attraverso la fibra nervosa passando attraverso il
ganglio, arriverà all’interno del midollo spinale ed entrerà nella sostanza grigia in quanto entrando nel
midollo spinale i neuroni perderanno la mielina. Il neurone proveniente dalle vie periferiche somatiche
(cute) arriverà e terminerà nella regione posteriore. Diremo quindi che le porzioni posteriori dell’H grigia
sono porzioni sensoriali somatiche.
I neuroni provenienti dalla periferia sensoriale viscerale (stomaco) termineranno un po' più ventralmente.
Diremo dunque, che tagliando l’H grigia con una sezione trasversale passante attraverso il canale
ependimale dove scorre il liquido cefalo-rachidiano, la regione viscerale è localizzata nella parte posteriore
dell’H grigia più medialmente rispetto alle somatiche.
Nella regione ventrale dell’H grigia si trovano invece i corpi cellulari dei neuroni che vanno a costituire le
vie efferenti, cioè quelle che escono dal sistema nervoso centrale, la regione motoria. Anche in questa
regione nella parte più bassa ci sono i corpi cellulari che raggiungeranno l’effettore somatico, mentre nella
parte ventrale più mediale ci saranno i corpi cellulari che raggiungeranno l’organo effettore autonomo. Da
questa regione motoria fuoriescono i neuroni che mandano l’assone attraverso la radice anteriore, motoria,
unendosi al nervo spinale per poi raggiungere l’organo effettore. Quest’organo effettore sarà somatico
(muscolo scheletrico) o autonomo.
Avremo dunque che porzioni dorsali sono sensoriali, somatica e viscerale e le porzioni ventrali sono
motorie, autonoma e somatica. Questo fa si che ci sia un’organizzazione topografica dell’H grigia.
Tra le fibre efferenti e quelle afferenti molto spesso ci sono delle fibre intermedie chiamate interneuorni
che possono contribuire ad integrare il circuito.

Arco riflesso

L’arco riflesso è il circuito nervoso più semplice che possiamo vedere ed è quello che media le cosiddette
azioni riflesse. Con azioni riflesse intendiamo ad esempio l’azione del riflesso patellare, cioè quel riflesso
che fa scattare la gamba in avanti quando qualcosa batte sul tendine rotuleo. Tutte le azioni riflesse sono
caratterizzate dal fatto che apparentemente sono senza controllo. L’azione riflessa viene generata in un
tempo così rapido che l’azione viene prima ancora che noi ci accorgiamo venga compiuta.
Sono azioni molto rapide in quanto si sviluppano su circuiti nervosi molto brevi, costituiti da una periferia
sensoriale (la mano vicino ad una fonte di calore, zona di cute a contatto con la fiamma), una via nervosa
afferente (neurone afferente che sente il bruciore sulla mano e attraverso la radice dorsale del nervo
spinale lo porta nelle regioni del collo posteriore di sostanza grigia), un interneurone e una via motoria che
parte dal midollo spinale esce ventralmente e raggiunge l’organo effettore (muscolo scheletrico che si
contrae facendo spostare il braccio dalla fonte di calore). Quest’azione prevede il contributo di tre neuroni
e poiché i neuroni funzionano attraverso i potenziali d’azione e per ogni potenziale d’azione nervoso ci
voglio 2-3 ms, e dato che le fibre sono mieliniche quindi la conduzione è saltatoria, quindi rapida, il riflesso
sarà sommariamente molto rapido.
Questo tipo di riflesso si chiama riflesso polisinaptico, perché è costituito da più sinapsi, almeno due.
Il riflesso monosinaptico, invece, è ad
esempio il riflesso patellare. Qui è
coinvolto un numero di neuroni ancor
più basso, vi è all’interno del muscolo
scheletrico un recettore che viene
stirato quando il martelletto preme sul
tendine rotuleo. Poiché i tendini sono
solidali con il muscolo, come si stira un
po' il tendine si stira il muscolo
scheletrico. La terminazione recettoriale
si chiama proprio recettore di stiramento, questo recettore attivandosi genera un potenziale d’azione che
viaggia attraverso il neurone sensoriale passando attraverso il ramo dorsale e arriva nel midollo spinale,
perde la mielina quando entra nell’H grigia e arriva a livello ventrale dove va a sinaptare direttamente con
un neurone motore, il quale esce nella radice ventrale si unisce al nervo spinale e raggiunge lo stesso
muscolo che era stato stimolato dallo stiramento, si attiva la placca motrice e il muscolo si contrae
consentendo il piegamento dell’arto. In questo caso abbiamo solo due neuroni e una sola sinapsi. Questo
riflesso è ancora più rapido del precedente, polisinaptico.
Questo tipo di rete nervosa è una rete molto semplice che consente di effettuare delle azioni molto rapide
in risposta ad uno stimolo. Gli elementi sempre presenti in un arco riflesso sono innanzitutto i neuroni
sensoriali, una periferia sensoriale che sente lo stimolo, qualunque esso sia. Lo stimolo deve poi essere
trasformato in potenziale d’azione da una zona chiamata encoder, una zona grilletto. Ci deve essere poi
una via afferente che arriva al sistema nervoso centrale, una via efferente ed un organo effettore.
Quando si parla di riflesso si parla sempre di una via nervosa che media le azioni riflesse.

Possiamo notare come l’azione riflessa si sviluppa subito seguendo la via nervosa precedentemente
descritta, ma al livello del centro integratore del midollo spinale il neurone sensoriale sinapta con
l’interneurone mandando un prolungamento che fuoriesce dall’H grigia e va nella sostanza bianca salendo
poi all’encefalo. Quindi una parte dell’impulso nato dallo stimolo, oltra a generare la risposta motoria viene
comunicato alle regioni encefaliche che integrano il segnale in entrata generando altri tipi di risposte.
I recettori
E’ definita periferia sensoriale tutta quella parte di organismo che contiene recettori sensoriali, cellule in
grado di recepire gli stimoli, distribuite su sistemi di tipo somatico e sistemi di tipo viscerale. Avremo perciò
una sensibilità somatica ed una sensibilità viscerale.
Le cellule recettoriali possono essere
classificate in funzione del luogo dove
si trovano e della funzione che
svolgono. Innanzitutto, è importante
distinguere i recettori intesi come
proteine recettrici intracellulari o sulla
membrana responsabili del legame con
il proprio ligando a seguito di cui viene
attivata una cascata cellulare, dai
recettori sensoriali i quali convertono i
vari stimoli in segnali elettrici.
I recettori sensoriali possono essere
suddivisi in recettori periferici,
localizzati fuori dall’encefalo e
recettori centrali, localizzati nell’encefalo o in prossimità dell’encefalo. Ai recettori centrali appartengono
quelle cellule che si occupano della sensibilità gustativa, olfattiva, uditiva e della vista. Nell’occhio vi è
infatti la porzione di tessuto nervoso più esterna al corpo, più superficiale.
I recettori periferici vengono classificati in funzione dello stimolo che riescono a percepire, avremo dunque
i chemocettori, recettori che percepiscono sostanze chimiche quali il pH o alcuni gas chimici; gli
osmocettori che percepiscono le variazioni di osmolarità; i termocettori i quali percepiscono i cambiamenti
di temperaura; i barocettori sensibili alla variazione della pressione; i propriocettori che ci consentono
costantemente di riconoscere e percepire la posizione del nostro corpo nello spazio; altri meccanocettori
(anche i barocettori sono recettori meccanici) che percepiscono le vibrazioni, la sensibilità tattile; i
nocicettori, cosiddetti recettori per il dolore. I recettori per il dolore secondo alcune ipotesi sono molto
simili ai recettori per la temperatura, tant’è vero che ad altissime o a basse temperature la sensazione che
percepiamo dalla temperatura è associata ad una sensazione dolorifica, alcuni recettori sono dunque
coinvolti nella mediazione congiunta della termocezione e della nocicezione.
Recettori sensoriali
Nell’immagine abbiamo ad esempio da una
parte i recettori gustativi, dall’altra i recettori
tattili.
Possiamo notare come nella cavità orale ed in
particolare sulla superfice della lingua, sono
presenti delle zone che contengono i pori
gustativi dentro i quali sono collocati i bottoni
gustativi all’interno delle quali si trovano le
cellule gustative ossia i recettori. La cellula
recettiva sporge attraverso dei microvilli
entrando a contatto con la cavità orale. Su
queste membrane gli stimoli chimici vanno a
legarsi, il che implica la presenza di molecole
recettrici del gusto. La cellula gustative non sono neuroni propriamente detti, esse terminano all’interno
della lingua ma vengono raggiunte da fibre afferenti che ricevono sinapsi da queste cellule, attivano la fibra
dendritica e portano le informazioni recepite dalla cellula gustativa verso le regioni centrali.
L’altra immagine rappresenta uno spaccato della pelle dove possiamo notare il derma, l’epidermide, i peli
contenuti nei bulbi piliferi attorno ai quali sono presenti ad esempio i recettori del pelo. Il recettore del
pelo è una terminazione nervosa che arriva lì dove inizia il fusto del pelo e poiché il pelo è alloggiato in
questa struttura anatomica che lo contiene e fuoriesce sulla superficie della cute, ogni volta che il pelo
cambia angolo all’interno di questo alloggiamento il recettore del pelo sente il cambiamento di direzione. E’
per questo che noi sentiamo per esempio la pelle d’oca, meccanismo di risposta omeostatica
all’abbassamento della temperatura. Il nostro organismo infatti, percepisce l’abbassamento della
temperatura esterna come disagio e reagisce attivando delle micro-contrazioni muscolari, responsabili dei
brividi; accanto alla risposta involontaria del muscolo c’è una risposta che coinvolge dunque anche i peli, la
cosiddetta pelle d’oca. La pelle d’oca viene permessa dal controllo sul bulbo pilifero del muscolo erettore
del pelo, che si contrae facendo drizzare il pelo e permettendo dunque la pelle d’oca.
Questa è una parte della sensibilità della cute, accanto a questa c’è la sensibilità data da altre strutture
nervose, terminazioni nervose libere, cellule organizzate in maniera molto particolare come gli organi di
Ruffini, il corpuscolo di Meeisner e il corpuscolo di Pacini.

Nell’olfatto, le cellule olfattive a differenza di quelle gustative sono delle vere e proprie cellule nervose. Le
molecole odoranti che si trovano prevalentemente disperse nell’aria, entrano nelle cavità nasali i recettori
olfattivi si attivano e inviano segnali elettrici. Le cellule olfattive hanno una porzione cellulare che sporge
all’interno del lume delle cavità nasali e che viene raggiunta dalle molecole odoranti. Sulla membrana di
queste cellule olfattive, di questi recettori olfattivi, si trovano i recettori olfattivi in termini molecolari, cioè
ci sono proteine attivate dal legame con la molecola odorante. Saranno in questo caso ad esempio canali
ionici. Queste cellule olfattive mandano segnali elettrici verso le regioni superiori attraverso una rete
intricata che arriva ai glomeruli olfattivi. I glomeruli olfattivi, collocati all’interno del bulbo olfattivo,
raccolgono le sinapsi provenienti dalla periferia olfattiva, queste sinapsi convergono su neuroni che
mandano il segnale verso altre regioni cerebrali.
Tipi di recettori sensoriali
Abbiamo sostanzialmente tre tipi di
organizzazione di base.
-Il primo tipo, più semplice presenta delle
terminazioni nervose libere e un assone
che passa dal corpo cellulare e che continua
sinaptando con il resto del sistema nervoso.
In questo caso la cellula non è uguale in
tutta la sua struttura, ma una porzione di

direzione dello stimolo


essa, le terminazioni, saranno arricchite da
molecole che la caratterizzano
funzionalmente e che consentono a quella
porzione cellulare di sentire il segnale che è
stato captato nella periferia nella quale
questa cellula si trova.
-Accanto a queste cellule ci sono recettori
più complessi i quali possiedono una
terminazione sensoriale e una terminazione sinaptica, verso l’altro neurone. Nelle terminazioni sensoriali di
queste cellule più complesse sono presenti delle modificazioni strutturali, ad esempio tale porzione
cellulare può essere incapsulata in strati concentrici di tessuto connettivo.
-Abbiamo poi le cellule sensoriali separate dai neuroni, come nel caso dei sensi speciali, in cui la cellula
recettrice è in grado di recepire il segnale e di inviarlo mediante sinapsi alle fibre nervose.
Il recettore sensoriali affinché funzioni e quindi sia capace di
sentire lo stimolo per il quale è sensibile, deve possedere la
capacità di essere attivato da uno stimolo (una molecola
chimica, una deformazione meccanica, una variazione
termica) il quale deve essere trasformato in variazione di
potenziale di membrana (potenziale d’azione). Lo stimolo
modificherà dunque la permeabilità della membrana per
qualche ione, questa variazione è tale per cui la cellula subirà
delle variazioni del potenziale della membrana e a sua volta
queste variazioni attiveranno o inibiranno gli eventi elettrici e
quindi i potenziali d’azione.
Nel particolare esempio riportato in foto del corpuscolo del Pacini, abbiamo una clava terminale avvolta
più volte da tessuto connettivo ripiegato. Ogni qual volta questo corpuscolo del Pacini viene schiacciato
perché dalla regione cutanea su cui si trova subisce una compressione, tale compressione viene avvertita
dalla membrana del neurone che sta dentro la capsula connettivale. In questa membrana si trovano dei
canali ionici sensibili allo stiramento. La membrana si schiaccia, schiacciandosi si distende e vengono attivati
i recettori di stiramento (canali ionici), aprendosi questi canali il sodio (Na) entra nella membrana,
attraversa la membrana ed entra nella clava terminale. La membrana con l’ingresso dello ione 𝑁𝑎+ subirà
una depolarizzazione che viaggerà sulla membrana e poiché l’assone che fuoriesce dalla clava terminale è
un assone mielinico, le cariche positive dell’𝑁𝑎+ convergnono verso il primo nodo di Ranvier. Nel primo
nodo di Ranvier l’alta densità di canali al Na fa si che si generi un potenziale d’azione. In questo caso il
primo nodo di Ranvier funge da encoder, cioè funge da zona nella quale si genera il potenziale d’azione e
generandosi il potenziale d’azione si attiva la membrana cellulare e il potenziale viene trasferito lungo tutto
l’assone, con modalità saltatoria perché abbiamo appunto un assone mielinico.
Il potenziale d’azione è il linguaggio che deve essere utilizzato affinché il segnale arrivi al sistema nervoso
centrale.
Come sappiamo la nostra sensibilità sensoriale
non ha la caratteristica del tutto o nulla, cioè ci
consente di percepire le varie sensazioni non
solo quando insorgono o quando vanno via, ma
anche sentirne l’intensità, l’ampiezza e la durata. Questa capacità è tipica della percezione. Il sistema
sensoriale percepisce lo stimolo il quale genera un potenziale generatore, modificando la permeabilità
della membrana per uno ione. Uno stimolo più intenso e più lungo causa un potenziale di membrana più
intenso e più lungo. Il potenziale generatore, quando arriva nella zona trigger si trasforma in potenziale
d’azione. Per stimoli di scarsa durata si genera una serie di potenziali d’azione. Più alto e più intenso è lo
stimolo, più lunga è la durata del potenziale d’azione e maggiore è la frequenza dei potenziali d’azione che
si genera in un arco di tempo. Maggiore è la frequenza di scarica del potenziale d’azione, maggiore sarà il
numero di neurotrasmettitori rilasciati.
La frequenza dei potenziali è direttamente proporzionale all’intensità dello stimolo.

Adattamento recettoriale
Alcuni recettori hanno meccanismi funzionali diversi,
classificabili in quello che prende il nome di adattamento
recettoriale. L’adattamento recettoriale ci dice quanto il
recettore è in grado di adattarsi allo stimolo. Alcuni recettori
sono in grado di adattarsi allo stimolo, altri si adattano
lentamente o ancora non si adattano.
Ci sono dunque recettori che rimangono operativi per tutta la
durata dello stimolo, questi vengono chiamati recettori di
tipo tonico, non si adattano dunque allo stimolo o si
adattano lentamente.
Accanto questi recettori di tipo tonico, ci sono i recettori di tipo fasico, questi vanno in fase con lo stimolo,
si attivano quando lo stimolo arriva (recettori fasici on) oppure quando lo stimolo termina (recettori fasici
off).
Nel caso in cui abbiamo invece recettori fasici-tonici, questi si adattano parzialmente, si attivano quando
arriva lo stimolo e poi man mano si adattano allo stimolo.

La ricezione del dolore e della temperatura


Normalmente dolore e temperatura sono sentiti da terminazioni nervose libere. Le fibre che trasmettono la
sensazione dolorifica sono sostanzialmente le fibre Aδ e le fibre C.
Le fibre Aδ sono fibre mieliniche, a trasmissione rapida e trasmettono il dolore acuto, puntorio, localizzato,
il primo dolore che si percepisce.
Le fibre C sono invece fibre amieliniche, a trasmissione più lenta e trasmettono il dolore ottuso e diffuso.
Al di sopra dei 45°C e al di sotto dei 15°C la reazione termica diventa dolorosa per cui vengono usate le
stesse vie.
Queste cellule hanno delle proteine di membrana
che intervengono per sentire le sensazioni del
dolore e della temperatura. Queste proteine di
membrana sono proteine canale, ad esempio:
-TRP(transient reception potential) possibili
recettori per la temperatura, attivati da
capsaicina(presente nel peperoncino), canfora,
mentolo, olio di senape;
-DEG/ENaC (Degenerin/Epithelial 𝑁𝑎+ channel);
-ASIC (Acid sensing ion channel);
-P2X3R (Purinergic receptors);
Il dolore può però essere un dolore di tipo infiammatorio:

Quando c’è un danno tissutale si attivano i mastociti, i macrofagi e i


neutrofili e rilasciano una serie di citochine infiammatorie. Queste
citochine infiammatorie vanno a legare sui terminali sinaptici
attivando dei recettori. Questi recettori a secondo della citochina
che viene prodotta vanno ad attivare un canale o un ulteriore
recettore. Mediante l’attivazione di una serie di cascate
intracellulari questa cellula modifica la propria permeabilità e
l’attività dei canali che sono in essa contenuti, favorendo
l’attivazione del potenziale d’azione che permette poi la
trasmissione del segnale doloroso.

Nel dolore neuropatico, il dolore si genera perché


si attiva la microglia, le cellule della microglia
inducono il rilascio di neuromodulatori dai
neuroni afferenti primari. Si attiva il rilascio di
questi neurotrasmettitori che vanno a legare i
recettori nei neuroni di secondo ordine, cioè dei
neuroni dove devono andare a sinaptare.
(Il glutammato ad esempio interviene nella
recezione dolorifica)
Quest’attivazione fa si che venga potenziato ancor
più il rilascio delle citochine dalla microglia, si attivano le cascate intracellulari e viene così potenziato
questo rilascio costante di citochine proinfiammatorie e di chemochine che attiva il neurone di secondo
ordine facendo si che parta il potenziale d’azione che viene condotto attraverso le fibre verso le regioni
centrali.
Lo stimolo doloroso viaggia attraverso le fibre C e
attraverso le fibre Aδ che arrivano nella regione del
midollo spinale e sinaptano nelle corna dorsali.
Una fibra esce dall’H grigia andando nella zona
bianca e poi risale attraverso il ponte, il midollo
allungato e il mesencefalo, arriva al talamo, va
verso la corteccia somato-sensoriale, va verso il
sistema limbico e va verso la corteccia cingolata.
Questo stimolo doloroso viene dunque comunicato
ad una serie di aree centrali che recepiscono
questo segnale dando una risposta immediata anche di tipo motorio.
Sensibilità somato-sensoriale→ sensibilità delle strutture somatiche
Possiamo rappresentare sulla superfice corporea delle regioni ben
distinte, delle aree specifiche omogenee dove avviene la recezione
degli stimoli provenienti dall’esterno. Queste regioni, che si
chiamano dermatomeri, sono innervate dalla radice dorsale di un
nervo spinale; sono dunque regioni popolate dalle terminazioni
sensoriali dei neuroni che poi passando dal ganglio della radice
dorsale e dalla radice dorsale stessa, entrano nel midollo spinale e
vanno a sinaptare con degli interneuroni o direttamente con dei
neuroni efferenti. Ciò sta a significare che esiste una corrispondenza
topografica ben precisa tra una determinata regione del corpo e la
regione del sistema nervoso che riceve le informazioni provenienti
dalla periferia. Ad ogni regione del sistema nervoso corrisponde
dunque una precisa regione della superficie corporea. Se, ad
esempio, percepiamo una sensazione sulla mano quest’informazione sensoriale raggiungerà il sistema
nervoso centrale attraverso una via nervosa ben definita che porta quest’informazione attraverso un nervo
cervicale (C5), raggiungendo il midollo.
Come sappiamo una parte delle informazioni dai dermatomeri viaggia per andare verso le regioni superiori
sfruttando delle vie molto ordinate, queste vanno sotto il nome di vie sensoriali ascendenti.
Le vie sensoriali ascendenti si dividono in un
sistema della colonna dorsale ed in un sistema
spino-talamico. Nel caso del sistema della
colonna dorsale le fibre viaggiano nelle colonne
dorsali del midollo spinale, nel sistema spino-
talamico le fibre vanno dal midollo spinale fino
al talamo. I due sistemi si occupano di trasferire
delle in formazioni differenti. Il sistema della
colonna dorsale veicola verso le regioni
superiori le sensazioni fini (tatto delicato,
pressione delicata, sensazioni fasiche ossia
quelle dell’accomodamento rapido, postura e
movimenti). I neuroni entrano dunque
attraverso le radici dorsali del nervo spinale e si
dirigono direttamente nelle regioni della colonna dorsale, la fibra, che ha una lunghezza che dipende dal
dermatomero dal quale proviene, salirà e arriverà nel midollo allungato al livello dei nuclei gracile e
cuneato, qui sinapterà con il neurone di 2°ordine. La sinapsi con questo secondo neurone darà via alla
decussazione. La decussazione avviene quando una fibra nervosa passa da un lato all’altro. Molte
informazioni arrivano infatti invertite, ciò avviene proprio perché le fibre ad un certo punto decussano, cioè
si incrociano. I neuroni dunque decussano a livello dei Lemnischi mediali e salgono arrivando verso il
talamo dove sinaptano nuovamente con il neurone di 3°ordine il quale si proietta verso la corteccia
cerebrale e in particolare verso la corteccia cerebrale che riceve le informazioni. La corteccia è infatti
organizzata in zone che ricevono le informazioni e zone della corteccia dalle quali partono le informazioni.
Dall’altro lato c’è il sistema spino-talamico che si occupa di veicolare le informazioni che derivano dal tatto
grossolano, dalla pressione grossolana, ma anche dal dolore e dalla temperatura. Anche in questo caso i
neuroni entrano dalla colonna dorsale, però invece di dirigersi verso l’alto come nel caso precedente,
arrivano nel corno dorsale di sostanza grigia e sinaptano immediatamente con il neurone di 2°ordine.
Questo neurone di 2°ordine del sistema spino-talamico che parte dal corno dorsale di sostanza grigia,
decussa all’interno del midollo spinale, uscendo dal midollo acquisterà la mielina e attraverso le colonne
laterali di sostanza bianca salirà fino ad arrivare al livello del talamo. Qui si ha dunque la sinapsi con il
neurone di 3° ordine che proietta verso la regione della corteccia che riceve il tatto grossolano, la pressione
grossolana, il dolore e la temperatura.
La differenza tra le due vie è, come possiamo vedere, che la colonna dorsale ha la prima sinapsi a livello del
midollo allungato, la via spino-talamica ha invece la prima sinapsi nel segmento di midollo nel quale è
entrata.

Prima di arrivare nella corteccia però, queste vie passano nel talamo che è
una regione che raccoglie le informazioni somato-sensoriali, è dunque un
centro proiettivo che precede l’integrazione.

Esempio:

La corteccia cerebrale è organizzata in


diverse aree corticali. Posteriormente
abbiamo le aree dedicate alla visione,
nel lobo occipitale, qui abbiamo infatti la
corteccia visiva nella quale arrivano gli
stimoli provenienti dall’occhio, dai
neuroni retinici che attraverso il chiasma
ottico e le varie vie che proiettano verso
la corteccia, portano i segnali recepiti.
Associata alla corteccia visiva, vi sono le
aree di associazione visiva.
Nelle regioni temporali, c’è la corteccia uditiva e intorno le aree di associazione uditiva, qui arrivano i
neuroni che portano le informazioni acustiche. C’è poi la corteccia gustativa e la corteccia olfattiva.
Nelle regioni frontali avviene invece il coordinamento delle informazioni provenienti dalle altre aree.
Di fronte all’area della corteccia somato-sensoriale primaria c’è la corteccia motoria primaria, nella quale
sono collocati i corpi cellulari dei neuroni che attivano le vie motorie.
L’immagine rappresenta la mappa topografica della corteccia
somato-sensoriale primaria attraverso la buffa
rappresentazione dell’homunculus sensorialis che ci permette
di rappresentare la corteccia sensoriale.
La corteccia somato-sensoriale è come abbiamo detto quella
dove arrivano i neuroni di 3°ordine, ogni colore corrisponde ad
una precisa regione del corpo, ogni regione corporea va ad
occupare una regione particolare della corteccia. La
massa corticale occupata da ogni regione corporea è
tanto più grande quanto più grande è il numero di fibre
nervose, di neuroni di terzo ordine, che portano il
segnale proveniente dalla periferia in quella regione.
Le periferie sensoriali ad alta capacità discriminante,
ad alta capacità selettiva dell’impulso, utilizzeranno un
numero di neuroni maggiore, per cui avranno un’area
di corteccia maggiore. Possiamo notare che l’area
dedicata a tronco, gamba, piedi e dita dei piedi è
grande quanto l’area dedicata a mano, dita della mano e pollice. Ciò sta a significare che i neuroni dei
dermatomeri del tronco, della gamba, dei piedi e delle dita dei piedi che mandano le informazioni ai
neuroni di terzo ordine sono un numero inferiore di quelle che portano le informazioni dalla mano. La
sensibilità tattile della mano è infatti elevatissima, sentiamo il caldo, il ruvido, lo sfioramento, i peli che si
drizzano. Tale sensibilità è molto più alta rispetto a quella ad esempio di un ginocchio o di una coscia.
Possiamo notare come l’omino abbia le mani molto grandi, la faccia e le labbra molto grandi ma i piedi ed il
tronco molto piccoli, questo sta proprio ad indicare che la sensibilità della testa e delle mani è molto più
grande di quella di tutte le altre regioni corporee.
La stessa cosa vale quando parliamo dell’homunculus motorio. Come abbiamo detto difronte alla corteccia
somato-sensoriale primaria c’è la corteccia motoria primaria.
Anche in questo caso i corpi cellulari
dei neuroni devono andare ad
innervare le regioni periferiche.
A seconda della capacità motoria di
una data regione sarà reppresentato
l’homunculus motorio. Avremo per cui
ad esempio che la mano è una zona ad
altissima motilità.
Possiamo vedere che ancor più che
nell’homunculus sensorialis, abbiamo
nell’homunculus motorio labbra
molto accentuate in quanto hanno
una motilità ancora più ampia
rispetto alla sensibilità. Ad
un’elevata capacità sensoriale
corrisponderanno dunque molti
neuroni ed un’area corticale grande,
allo stesso modo elevata capacità
motoria corrisponderà ad un’area
corticale grande.
Affinché dall’area motoria si arrivi ai distretti periferici ci sono delle vie nervose discendenti.
Le vie nervose discendenti si dividono in fasci cortico-
spinali laterali e rubro-spinali e fasci cortico-spinali e
cortico-spinali ventrali, anche queste decussano e
dunque anche in questo caso le informazioni motorie
della corteccia dell’emisfero destro passano alla
periferia motoria della regione sinistra del corpo e così
via.
Quando tali informazioni arrivano nei muscoli avviene
la contrazione muscolare.

Cosa succede quando il muscolo si contrae?


Come abbiamo già visto, quando un
motoneurone arriva in prossimità del
muscolo scheletrico, ramifica formando la
cosiddetta unità motoria, il motoneurone
termina sulla fibra nervosa sinaptando su
una vasta area di fibra muscolare e si va a
formare la giunzione neuro-muscolare. La
placca motrice si attiva quando dalla
corteccia motoria primaria arriva un
potenziale d’azione, come conseguenza
all’attivazione di questa struttura si ha la
contrazione del muscolo scheletrico
corrispondente.

Abbiamo tre tipi di muscolo: il muscolo scheletrico, il


muscolo cardiaco e il muscolo liscio.
Il muscolo scheletrico è un muscolo volontario
striato, il muscolo cardiaco è anch’esso un muscolo
striato ma involontario com’anche il muscolo liscio.

Possiamo osservare una


porzione di muscolo
scheletrico. I muscoli
scheletrici sono strutture
costituite da unità cellulari
che si ripetono.
Nel complesso il fuso
muscolare è contenuto all’
interno di una fascia
connettivale che continua con
il tendine per collegare il
muscolo scheletrico all’osso. Tale struttura muscolare è contenuta nell’epimisio che manda dei setti che
separano i vari fasci muscolari, detti perimisio. All’interno vi è poi la fibra muscolare, ricoperta
dall’endomisio che contiene le microfibrille.
Nella cellula
muscolare scheletrica
individuiamo una
zona esterna che è la
membrana
plasmatica, chiamata
sarcolemma,
abbiamo poi il
sarcoplasma e il
reticolo
sarcoplasmatico. Sulla
membrana si
ritrovano dei piccoli
fori che rappresentano le zone nelle quali la membrana plasmatica entra all’interno della cellula, si vanno
dunque a costituire i tubuli trasversi. Il tubulo trasverso si trova affiancato da due strutture di membrana
intracellulare che costituiscono il reticolo sarcoplasmatico. Il reticolo sarcoplasmatico è organizzato in
maniera molto ordinata, ripetitiva e nella regione del tubulo trasverso va a formare due strutture un po'
slargate che si chiamano cisterne terminali. Le cisterne terminali sono collegate da un lato all’altro
attraverso un reticolo sarcoplasmatico longitudinale. All’interno di queste strutture di membrana ci sono
le miofibrille che rappresentano l’unità contrattile del muscolo scheletrico. Le miofibrille sono costituite da
proteine che hanno la capacità di modificarsi e dar luogo alla contrazione e sono disposte in maniera molto
regolare all’interno della cellula del muscolo scheletrico. Tutta la cellula ha una sua ordinata ripetitività.
La fibra muscolare come possiamo vedere è una
struttura ripetitiva che contiene delle zone chiare e
delle zone scure che sono quelle responsabili della
bandeggiatura. Tale bandeggiatura si ripete
ritmicamente in maniera ordinata all’interno del
muscolo scheletrico. Abbiamo una stria sottile
scura che chiameremo zona Z, una stria chiara
(zona I) seguita da una zona scura (zona A), seguita
da un’altra zona chiara e così
via. A ed I stanno ad indicare
isotropo ed anisotropo.
La zona scura centrale, al centro
della banda A divide le strutture
in maniera simmetrica ed è
chiamata linea M e le due zone
chiare laterali alla linea M
formano la banda H. Da una zona Z all’altra si definisce l’unità strutturale dell’apparato contrattile, cioè il
sarcomero. Questa struttura è la struttura che presiede alla contrazione muscolare, è proprio qui che
avvengono i meccanismi che fanno si che una volta che si è attivato il neurone e si è dunque attivata la
sinapsi colinergica il muscolo possa andare in contrazione.
Il primo evento che vedremo avviene all’interno della struttura definita triade, formata da un tubulo
trasverso e da due cisterne terminali. Queste zone sono zone nelle quali sono localizzate le cosiddette
calcium release unit, cioè le unità di rilascio del calcio.
Accanto alle calcium release unit c’è l’apparato contrattile del sarcomero.
Le miofibrille che vanno a formare l’unità funzionale
proteica che consente e presiede proprio la
contrazione, sono organizzate in maniera
estremamente regolare.
Se effettuiamo un taglio al livello della banda I,
vediamo in sezione una serie di filamenti sottili
disposti in una simmetria esagonale, con i vertici
dell’esagono comuni a due esagoni adiacenti.
Se noi tagliamo al livello della zona H, abbiamo dei
filamenti più spessi disposti anche in questo caso
secondo una simmetria esagonale, dove il centro
dell’esagono è uno dei vertici dell’esagono
adiacente.
Se noi tagliamo sulla stria M, vediamo che questi
filamenti spessi sono collegati da proteine accessorie.
Se tagliamo nella zona della banda A, agli estremi della zona H, noi identifichiamo una struttura nella quale
troviamo sia i filamenti sottili della banda I, sia i filamenti più spessi della banda H. Questi filamenti sono
organizzati in maniera ordinata l’uno rispetto all’altro, ciascun filamento sottile è circondato da tre
filamenti più spessi e ciascun filamento spesso è circondato da sei filamenti sottili.
Quest’impacchettamento ordinato consente il massimo grado d’interazione tra particelle.
I filamenti sottili sono dati dalla
molecola chiamata actina.
L’actina è una proteina
globulare o monomerica. Nel
muscolo scheletrico l’actina va
a formare dei filamenti
formando l’actina filamentosa.
I due filamenti di actina si
avvolgono a formare un α-elica
con un passo di 7 monomeri di
actina. I vari filamenti di actina
sono collegati con i sarcomeri
adiacenti al livello della stria Z.
La stria Z è costituita da
proteine che congiungono i
filamenti di actina. Insieme all’actina filamentosa si trova un’altra proteina che si chiama nebulina e che
interagisce con l’actina andando ad aiutare quest’ultima nella sua stabilizzazione. L’actina è associata anche
ad altre proteine che vanno a formare un complesso che si chiama troponina-tropomiosina, questo
complesso funge da complesso inibitore della contrazione.
I filamenti di actina sono collegati alla membrana cellulare attraverso proteine dette integrine, il
collegamento avviene ad opera di proteine intermedie che fanno si che l’actina sia collegata con la
membrana. A questo complesso di proteine partecipa anche la distrofina che è la proteina che si riscontra
mutata nella distrofia muscolare.
Una delle proteine che contribuisce al mantenimento dell’impalcatura strutturale del muscolo è la titina,
proteina molto grande difficile da analizzare.
La tropomiosina è una proteina filamentosa che alloggia nella
doccia del filamento di actina F.
Ogni sette molecole di actina G:
Troponina C= alta affinità per gli ioni 𝐶𝑎++ , come se fosse una
calmodulina, proteine calcio leganti per ognuna delle quali si
legano 4 ioni;
Troponina I= blocco del sito miosinico dell’actina, ha dunque una funzione inibitoria importante in quanto
di per sé l’actina andrebbe ad interagire con la proteina che va a formare i filamenti spessi, la miosina;
Troponina T= collocazione sulla tropomiosina.

La miosina appartiene alle proteine motrici, è una proteina complessa. All’interno del sarcomero ne
troviamo molte disposte a formare dei fasci. Questi fasci sono formati dall’affiancamento in parallelo delle
molecole di miosina. Ogni molecola di miosina è costituita da una coda e da una testa. La testa è collegata
alla coda attraverso una zona di cerniera. Nel filamento di miosina, filamento spesso, le molecole di miosina
sono disposte affiancate coda contro coda.
Come avviene la contrazione muscolare
scheletrica?
Ciò che da avvio alla contrazione è l’attivazione del
terminale assonale, quindi il rilascio
dell’Acetilcolina e l’attivazione dei recettori
nicotinici che si trovano localizzati nella placca.
Nella placca si genera dunque il potenziale di
placca, varie placche si attivano, i potenziali di
placca si sommano e danno luogo al potenziale
d’azione che come tutti i potenziali d’azione viaggia
sulla membrana andando nelle zone dove la
membrana è a riposo. Camminando sulla
membrana nelle zone a riposo, scende all’interno
dei tubuli trasversi. La regione dei tubuli trasversi
viene invasa dal potenziale d’azione andando
dunque incontro a depolarizzazione. Questa
depolarizzazione che diffonde all’interno del tubulo
trasverso è l’evento che attiva la contrazione muscolare. La contrazione muscolare si attiva perché questo
potenziale d’azione arriva nel tubulo trasverso e incontra dei canali ionici voltaggio-dipendenti per il calcio,
questi sono in grado di legare in maniera selettiva farmaci della famiglia delle diidropiridine e vengono per
questo anche chiamati recettori DHP o recettori per le diidropiridine. Quando questo recettore si attiva, si
apre il canale al calcio e il calcio entra, nello stesso tempo però questo recettore DHP che è localizzato sul
tubulo trasverso è collegato da un punto di vista molecolare con un’altra struttura che è presente sul
reticolo sarcoplasmatico. All’interno delle cisterne del reticolo vi è una quantità di ioni calcio molto elevata
tanto che una parte del calcio viene legata a delle proteine calcio-leganti che appartengono alla famiglia
delle calsequestrine. Queste proteine calcio-leganti riducono la quantità di calcio libero. Dunque, ogni volta
che arriva un potenziale d’azione, il Ca che è contenuto all’interno delle cisterne del reticolo, fuoriesce
dando luogo alla contrazione.
Muscolo scheletrico:
Come abbiamo visto il segnale viene
raccolto in periferia e viene trasferito
attraverso le vie nervose agli organi
effettori.
Nel muscolo scheletrico il primo evento è
rappresentato dall’attivazione del
terminale assonale che induce il rilascio
del potenziale d’azione. Viene dunque
indotto il rilascio del neurotrasmettitore,
cioè l’Acetilcolina, questa si lega ai
recettori nicotinici presenti sulla
membrana muscolare, si genera un
potenziale di placca a cui fa seguito il
potenziale d’azione che si propaga e
invade tutta la membrana della fibra
muscolare scheletrica per raggiungere
quelle porzioni definite tubuli trasversi,
cioè quelle invaginazioni della membrana
all’interno della cellula. La membrana entra nella cellula, depolarizza e questa depolarizzazione dà inizio a
quegli eventi che portano sulla cellula muscolare delle modificazioni funzionali cosicché alla fine il muscolo
andrà in contrazione.
Un’unità funzionale importante di questo processo è quella che viene definita Calcium Release Unit, cioè
l’unità di rilascio del calcio.
Questa è costituita dal tubulo trasverso e
dalle cisterne del reticolo sarcoplasmatico
organizzate a formare una triade (tre unità
che si ripetono in maniera regolare
all’interno di un muscolo). All’interno di
questa triade il tubulo trasverso svolge il
ruolo di portare il segnale che arriva dalla
placca motrice. E’ dunque quella porzione
di membrana che andrà incontro a
depolarizzazione e a seguito di questa
depolarizzazione il primo degli eventi
intracellulari che si attiva è il rilascio del
calcio, l’incremento della concentrazione di
calcio libero nel citoplasma dovuto o
all’ingresso di calcio dall’esterno o all’ingresso di calcio nel citoplasma proveniente dalle cisterne del
reticolo. Per capire come funziona tale meccanismo dobbiamo vedere quali sono gli effettori molecolari
dell’accoppiamento eccitazione-contrazione. Sulla membrana del tessuto muscolare, sul sarcolemma, si
osserva la presenza di una proteina, che è una proteina canale con affinità per il calcio, voltaggio
dipendente di tipo L. Questa proteina si trova nel tubulo trasverso e poiché è in grado di legare i farmaci
della famiglia delle diidropiridine, viene anche chiamato recettore per la diidropiridina (DHPR). Quando il
potenziale d’azione arriva nel tubulo trasverso, questo recettore DHPR si attiva, l’attivazione di questo
recettore induce l’apertura del canale che esso contiene per il calcio e il calcio entra all’interno della cellula.
Nel muscolo scheletrico quest’ingresso di calcio all’interno della cellula non è rilevante come lo è nel
muscolo cardiaco. Quello che è rilevante nel muscolo scheletrico è che questo recettore DHPR è accoppiato
dal punto di vista molecolare ad un’altra proteina, anche questa è una proteina canale che si trova però
localizzata sulle membrane delle cisterne del reticolo. Questa proteina per la capacità di legare
selettivamente la rianodina, viene chiamato recettore per la rianodina (RyR). Questo accoppiamento di
DHPR e RyR è il requisito funzionale che consente l’attivazione del meccanismo intracellulare della
contrazione. All’interno delle cisterne del reticolo il calcio è impacchettato con proteine calcioleganti quali
la calsequestrina che consentono di tenere bassa il più possibile la concentrazione di calcio. Quando arriva il
potenziale d’azione il recettore DHPR si attiva e interagisce con il recettore RyR, quest’interazione fa si che
il recettore RyR cambi conformazione aprendosi e facendo fuoriuscire una grande quantità di calcio.
Una volta che il calcio è uscito dalle cisterne va a
legarsi al sistema di inibizione troponina-
tropomiosina. La troponina come abbiamo visto
è un proteina formata da tre subunità :
troponina C, troponina I e troponina T delle
quali la troponina C è in grado di legare il Calcio.
La tropomiosina, normalmente, quando il
muscolo è a riposo va a collocarsi in maniera
tale che da far si che si frappone fra la testa
della miosina e l’actina. Ogni monomero di
actina globulare ha un sito di legame per la testa
della miosina. Se non ci fosse la tropomiosina
avverrebbe il legame tra miosina ed actina.
Quando non c’è il calcio
dunque la tropomiosina sta lì e
funge da sistema inibitorio.
Quando però arriva il calcio,
questo andrà a legarsi alla
subunità C della troponina e la
codificazione conformazionale
di questa proteina fa si che si
modifichino anche le altre
subunità. Questa modifica fa
spostare il filamento di
tropomiosina.
Quando c’è il calcio dunque, la
miosina è legata all’actina,
quando il calcio va via, invece, il
sistema troposina-
tropomiosina si va a porre come ostacolo tra la testa delle miosina e il filamento di actina. Avviene una
interazione molecolare che è fondamentale per la contrazione perché è il momento in cui le due proteine
contrattili entrano in contatto tra di loro e la miosina che ha come caratteristica il fatto di avere una
regione flessibile tra la coda e la testa, proprio a livello di questa regione flessibile fa variare l’angolo.
Poiché la testa è legata al filamento di actina, questo spostamento della testa della miosina (colpo di forza)
si trascina l’actina-G. Avviene dunque lo scorrimento di un filamento su un altro di 10nm.
Poiché avvenga questo scorrimento è necessario che ci sia il contributo dell’ATP.
L’ATP serve nella contrazione non solo per dare alla
miosina la capacità di modificare l’angolo tra la
testa e la coda, ma svolge anche un ruolo nel
distacco delle teste. Quello che avviene va sotto il
nome di ciclo dei ponti trasversi. Un ponte trasverso è quello che si realizza nel momento in cui la testa
della miosina lega l’actina. Arriva dunque un potenziale d’azione, aumenta il calcio libero nel citoplasma,
viene spostato il sistema inibitorio troponina-tropomiosina e la testa della miosina può legare l’actina. In
questa condizione, la testa della miosina che contiene in se un sito ATPasico e dunque i prodotti dell’idrolisi
dell’ATP (ADP e Pi) ha alta affinità per l’actina. Avviene dunque il legame con l’actina e si forma il complesso
A-M٠ADP٠Pi, il quale dopo il colpo di frusta libera ADP e Pi. Questo processo avviene
contemporaneamente per tutte le teste di tutti i filamenti di miosina presenti in tutte le fibre muscolari.
Dopo la liberazione di ADP e Pi si forma il complesso acto-miosinico A-M ad altissima affinità che rimane
legato finchè non interviene una seconda molecola di ATP. Questo momento del ciclo dei ponti trasversi
viene chiamato momento di rigor. Il rigor è quel momento in cui la testa della miosina è legata ll’actina e
non è dunque presente l’ATP nel complesso. C’è un momento di rigor per ogni atto di contrazione. (rigor
mortis = quando le cellule di un organismo non più vivo non sono più in grado di produrre ATP a livello
mitocondriale e quindi consumato l’ATP a disposizione non può più avvenire il distaccamento dei complessi
acto-miosinici formatisi, ciò determina la rigidità cadaverica).
Dopo il momento di rigor, arriva una seconda molecola di ATP che si lega alla testa della miosina. In questo
momento la miosina ha bassa affinità per l’actina e dunque si stacca dal filamento di actina. Dopo tale
distaccamento la testa della miosina è pronta per attaccare evenetualmente un altro monomero di actina
grazie allo scorrimento dei filamenti oppure nel caso in cui si riduce la concentrazione di calcio tornando
alle condizioni pre-contrazione e si placa il potenziale d’azione, di dare luogo ad un rilassamento del
muscolo.
Possiamo vedere che il risultato dello
scorrimento dei due filamenti è l’accorciamento
del sarcomero, l’avvicinamento delle due strie Z.
Le strie Z che erano ad una determinata distanza
vengono avvicinate verso il centro del filamento,
verso la zona M di 10nm in 10nm. Infatti ogni
testa della miosina sposta il filamento di 10nm.
Considerando i vari sarcomeri messi insieme,
questi spostamenti sono responsabili alla
contrazione muscolare.

La contrazione si interrompe, nel caso del muscolo scheletrico, perché si interrompe il potenziale d’azione
dunque il muscolo scheletrico non è più stimolato dal motoneurone, la placca motrice torna silente, la
membrana ritorna a valori di potenziale di riposo, il tubulo trasverso non è pù attivo, i recettoti DHPR e i
recettori RyR sono nello stato di quiete e il calcio smette dunque di uscire dal reticolo. Ma poiché ciò
avviene subito dopo la contrazione, il citoplasma è ricco di calcio e finchè il calcio rimane libero nel
citoplasma, la contrazione può sempre avvenire. Se la contrazione è però giunta al termine il calcio libero
deve essere rimosso dall’interno della cellula. Al termine della contrazione il calcio viene
ricompartimentalizzato, una parte del calcio viene portata fuori dalla membrana attraverso le pompe del
calcio della membrana (ATPasi calcio dipendenti), dall’altro lato del calcio entra dal citoplasma all’interno
del reticolo sarcoplasmatico attraverso delle pompe, le cosiddette pompe SERCA. Le pompe SERCA sono
localizzate nella regione longitudinale del reticolo. Il calcio fuoriuscito inizialmente dall apertura dei
recettori DHPR e RyR rientrerà dunque longitudinalmente attraverso le pompe SERCA.
Il meccanismo complessivamente descritto è un meccanismo energeticamente molto dispendioso, per cui
serve una grande disponibilità energetica per la contrazione che viene data attraverso una serie di eventi
metabolici particolarmente imponenti in muscoli tipo il cuore dove la contrazione non è un evento che si
interrompe.
L’ATP necessario viene prodotto dal ciclo di
Krebs e dalla fosforilazione ossidativa come via
aerobica, in parte dalla via anaerobica ,
dall’idrolisi della creatina fosfato e dalla glicolisi.
Sono dunque necessari substrati capaci di
intervenire nei processi che portano alla
formazione dell’ATP, quali il glucosio, il
glicogeno, la creatina fosfato. Poiché avvenga la
produzione di ATP nella via aerobica che è quella
a più alto rendimento energetico, è necessario
che ci sia l’Ossigeno che proviene dal sangue.
Nel sangue l’O si trova legato all’emogliobina,
arriva a livello del muscolo e diffonde per
gradiente all’interno della cellula muscolare,
viene immagazzinato dalla mioglobina, che è la proteina muscolare che funziona come deposito di ossigeno
per essere poi reso disponibile per gli eventi aerobici.
E’necessario dunque il rifornimento dei muscoli scheletrici di substrati energeticamente ad alto
rendimento, capaci di fornire ciò che serve per sostenere l’energetica a livello mitocondriale.

Muscolo cardiaco:

L’organizzazione del muscolo cardiaco è molto simile a quella del muscolo scheletrico. Abbiamo le striature,
quindi dei sarcomeri ben identificabili come quelli del muscolo scheletrico, abbiamo delle proteine,le
isoforme cardiache, non vi sono in questo caso le triadi ma le diadi. Le diadi sono costituite dal tubulo
trasverso e da una sola cisterna a differenza delle triadi che hanno due cisterne.
Abbiamo dunque un tubulo e una cisterna che è la terminazione del reticolo. Anche in questo caso la diade
è il luogo dove avviene il rilascio del calcio quando arriva il potenziale d’azione. Nel cuore il potenziale
d’azione non è dato dall’attivazione del motoneurone α. Il cuore è un organo involontario ed autonomo, è
regolato dal sistema nervoso autonomo ma non è controllato dal sistema nervoso somatico.
Lo stimolo che attiverà la contrazione nel cuore non è quindi l’attivazione della placca motrice. L’evento che
nel cuore da origine alla contrazione è la generazione del potenziale d’azione nelle cellule del nodo seno-
atriale. In queste cellule si genera il potenziale al calcio, lento, che si propaga da una cellula all’altra grazie a
zone di giunzione dove sono presenti giunzioni comunicanti (gap junction), le quali generano nella
membrana una bassa resistenza elettrica favorendo la fluizione degli ioni. Il potenziale d’azione che si
genera nel nodo seno-atriale, viaggiando da una cellula all’altra attraverso le giunzioni comunicanti che si
trovano nei dischi intercalari, depolarizza la membrana e arriva nei tubuli trasversi. Anche qui il potenziale
incontra nei tubuli trasversi i canali al calcio di tipo L (DHPR) che si aprono facendo entrare il calcio. Il calcio
dopo essere entrato va subito a legarsi al recettore RyR. I due recettori sono sempre accoppiati come nel
caso del muscolo scheletrico, ma in questo caso è il calcio stesso che legandosi al RyR, fa aprire il recettore
facendo così uscire il calcio dal reticolo. Questo meccanismo viene chiamato nel cuore rilascio del calcio
indotto dal calcio. Si genererà un cosiddetto spark di calcio, ciò un incremento rapidissimo della
concentrazione del calcio nella calcium release unit, il calcio viene poi sfruttato per la contrazione del
cuore, per la trascrizione , viene portato all’interno dei mitocondri e interviene nel metabolismo e alla fine
della contrazione viene recuperato ad opera delle SERCA e viene rimandato all’interno del reticolo verso le
cisterne.
E’ necessario che avvenga un ottimo
reimpacchettamento. Qundo il calcio si
libera nel citoplasma, il muscolo si contrae il
cuore va in sistole, durante la sistole il
calcio viene riportato nelle cisterne, in
assenza di calcio il muscolo non è più
contratto e si rilassa, va dunque in diastole.
Nel cuore avviene costantemente un
rilascio di calcio e un recupero di calcio.
Il recupero del calcio anche qua avviene
attraverso le pompe SERCA che agiscono
sotto controllo operato da una proteina
regolatrice che si chiama fosfolambano. Il fosfolambano è normalmente collegato alle SERCA , è un
pentamero nella forma inattiva ed è un monomero nella forma attiva. Quando il fosfolambano è collegato
alle SERCA blocca l’attività della proteina, inibisce cioè la pompa; quando viene fosforilato dalla PKA o dalla
calciocalmodulina chinasi, si stacca invece dalle SERCA che può dunque recuperare il calcio. Il recupero di
calcio è massimo durante la diastole e minimo durante la sistole.
Tutte queste proteine quali per esempio la PKA la CaMkII sono bersagli di regolazione ad opera di cascate
intracellulari come la stimolazione adroenergica del cuore. Vedremo che il cuore è sotto il controllo da
parte del sistema nervoso autonomo, il sistema nervoso simpatico attraverso le catecolammine stimola
l’attività cardiaca, le catecolammine attraverso i loto recettori accoppiati a proteine G inducono la
produzione di AMP ciclico, la produzione della PKA che va ad esempio a fosforilare il fosfolambano così da
facilitare il recuper del calcio e la disponibilità del calcio per la contrazione successiva.
L’immagine riassume il sistema di funzionamento
della contrazione muscolare.
Muscolo liscio:
Il muscolo liscio è organizzato in maniera
completamente differente rispetto al muscolo
scheletrico e al muscolo cardiaco. Le cellule del
muscolo liscio sono innanzitutto delle cellule
affusolate che non hanno all’interno un apparato
contrattile come quello del muscolo scheletrico
seppure contengono le proteine contrattili actina
e miosina. Dal punto di vista di organizzazione
cellulare possiamo distinguere il muscolo liscio in
un muscolo liscio unitario ed un muscolo liscio
multiunitario. Il muscolo liscio unitario è per
esempio quello che forma la tonaca media
dell’apparato gastrointestinale , si chiama così
perché le cellule sono collegate tra di loro da giunzioni comunicanti, sono dunque tra di loro accoppiate
elettricamente come lo sono le cellule del muscolo cardiaco. Quest’accoppiamento fa si che le cellule si
contraggano in risposta ad uno stimolo, tutte contemporaneamente come se fossero una singola cellula.
Nel muscolo liscio multiunitario, invece, le cellule non sono accoppiate elettricamente ma ognuna si
comporta come un’entità separata.
Il muscolo liscio viene modulato in risposta agli stimoli che arrivano da parte del sistema nervoso
autonomo. I rami nervosi del sistema nervoso autonomo presentano lungo l’assone degli slargamenti che si
chiamano varicosità all’interno delle quali ci sono le vescicole con il neurotrasmettitore. Questo
neurotrasmettitore viene rilasciato in prossimità delle cellule del muscolo liscio e modula l’attività cellulare
così da modulare la contrazione. IL muscolo liscio può essere indotto a contrarsi o a rilassarsi dal sistema
nervoso autonomo. Mentre nel muscolo scheletrico la stimolazione nervosa causava la contrazione e al
termine del potenziale d’azione il rilassamento, il muscolo liscio può andare incontro in maniera attiva a
contrazione oppure a rilassamento.
Le unità contrattiti del muscolo liscio sono organizzate sempre con un filamento spesso centrale di miosina
e dei filamenti di actina che sporgono collegati a delle strutture chiamate corpi densi, costituiti da un
agglomerato di proteine. L’apparato contrattile oltre ad essere ancorato ai corpi densi è ancorato anche
alla membrana cellulare. Nella condizione rilassata la cellula ha una struttura fusiforme, mentre nella
condizione contratta l’apparato contrattile si accorcia, la cellula diventa globosa, si avvicinano i corpi densi
l’uno all’altro e questo fa si che venga tirata anche la membrana a cui l’apparato contrattile è collegato.
La contrazione nel muscolo avviene sempre
per scorrimento dei filamenti. La miosina nel
muscolo liscio è organizzata in fasci anche
qui con le teste sporgenti rispetto alle code,
però le teste sporgono in verso opposto da
un lato e dall’altro. Da entrambi i lati le teste
prendono rapporti con i filamenti di actina.
Quando avviene la contrazione il filamento di
actina superiore si muove verso sinistra e il
filamento di actina inferiore si muove verso
destra. La conseguenza a ciò è che i corpi densi,
equivalenti più o meno delle strie , si
avvicinano, in questo modo avviene il
cambiamento di struttura della cellula che
diventa globosa.
I meccanismi di contrazione sono più o meno gli
stessi di quella del muscolo scheletrico. Il calcio
dell’ambiente extra-cellulare entra nella cellula
perché qualcosa modulerà lo stato di apertura dei
canali che potranno essere voltaggio dipendenti,
chemio dipendenti, controllati da ormoni.
Quando aumenta la concentrazione del Calcio
all’interno della cellula viene liberato il Calcio
anche dal reticolo sarcoplasmatico. Il calcio si lega
alla calmodulina, si forma il complesso calcio-
calmodulina Ca-CaM , il quale va ad attivare una
chinasi che si trova nella catena leggera della
miosina. La catena leggera della miosina del
muscolo liscio è substrato di un’attività chinasica
e la chinasi di tale catena leggera va a fosforilare
le catene leggere della miosina aumentando
l’attività ATPasica della miosina stessa. La miosina
sarà dunque in grado di interagire con l’actina e di far avvenire un maggior numero di ponti trasversi.
Questo genera lo scorrimento dei filamenti e dunque la tensione muscolare.
Quando ha termine la contrazione, il calcio che è
libero nel citoplasma, o ritorna nel reticolo ad opera
delle ATPasi del reticolo o viene mandato fuori dalla
cellula o ancora viene scambiati attraverso lo
scambiatore 𝑁𝑎+ - 𝐶𝑎2+ . Il 𝐶𝑎2+ è dunque rilasciato
dalla calmodulina (CaM). La miosina fosfatatsi
rimuve il fosfato dalla miosina, riducendone
l’attività ATPasica. La riduzione dell’attività ATPasica
della miosina determina la diminuzione della
tensione muscolare.

Molti sono i fattori che regolano l’attività del


muscolo liscio, per esempio la noradrenalina
attraverso recettori α e β adroenergici,
l’acetilcolina che interviene inducendo
contrazione o rilassamento del muscolo liscio,
ormoni come l’angiotensina, i peptidi
natriuretici, l’endotelina, la vasopressina o
l’adenosina. Hanno tutti la capacità di modulare
l’attività muscolare dei muscoli lisci, andando
proprio a modulare l’attività dei canali.
Nell’immagine possono orsservare come un
neurotrasmettitore o un ormone va a modulare
l’attività di un canale 𝐶𝑎2+ chemio-dipendente
che potra dunque essere inibito o attivato. Se
viene inibito si blocca l’ingresso di calcio mentre
se viene attivato il calcio aumenta. O ancora il
Calcio può entrare attraverso canali voltaggio
dipendenti o può fuoriuscire dal reticolo. Viene
dunque reso disponibile all’interno del
citoplasma per attivare il complesso che
prevede il contributo della calmodulina e
dunque l’attivazione della catena leggera della
miosina. Il rilascio di calcio può essere anche
attivato da neurotrasmettitori o ormoni
accoppiati a proteine G.
Cenni di meccanica della contrazione muscolare scheletrica
Gli eventi molecolari fin ora descritti si traducono in un evento meccanico, che altro non è che lo sviluppo
della forza.
Se andiamo a considerare quello che
avviene in generale nel muscolo a seguito
della depolarizzazione della membrana e
rappresentiamo in grafico l’evento
elettrico, cioè il potenziale d’azione e
l’evento meccanico otteniamo dei grafici
di questo tipo.
In questi grafici, possiamo facilmente
vedere che se descriviamo rispetto al
tempo l’andamento del potenziale e la
contrazione del muscolo che è espressione
della sua forza, vedremo che al potenziale
d’azione che è l’evento che dà inizio a
tutto il processo fa seguito lo sviluppo della forza. Il tempo di latenza tra il potenziale d’azione e lo sviluppo
di una forza è un tempo dovuto al fatto che è necessario che si attivi il meccanismo molecolare della
contrazione muscolare, affinché dunque il fuso muscolare sviluppi una forza. Lo sviluppo della forza che
può essere per esempio espressa in Newton conseguente all’arrivo della stimolazione è rappresentata sul
grafico con una curva che prende il nome di meccanogramma.
Quando il potenziale d’azione si sviluppa, la risposta di un muscolo è lo sviluppo di una forza. All’arrivo del
potenziale d’azione si ha quella che va sotto il nome di scossa muscolare, scossa tetanica che provoca
l’incremento della forza che poi viene registrato nel meccanogramma.
Nel grafico possiamo osservare
quanto detto fin ora, dunque
all’arrivo di un potenziale d’azione
la membrana va incontro a
depolarizzazione e si sviluppa dopo
un certo tempo di latenza la forza.
Nel tempo in cui la membrana
ritorna a riposo si ha lo sviluppo
della tensione muscolare.
L’intensità della forza sviluppata
dipende dal limite strutturale del
muscolo. Al termine del picco
massimo la forza decade e il
muscolo ritorna nuovamente nel suo stato rilassato. Al picco il muscolo è contratto, nella parte più bassa il
muscolo è rilassato. Il muscolo rilassato può dunque subire una nuova eccitazione, interviene un nuovo
potenziale d’azione ed esattamente con le modalità precedentemente descritte dopo un certo tempo una
nuova scossa muscolare.
Il potenziale d’azione è un evento come sappiamo non sommabile, possiamo però avvicinare i potenziali
d’azione quando il motoneurone è attivo e scarica più volte, in questo caso osserviamo che dopo il primo
potenziale d’azione si sviluppa la forza ma in questo caso il secondo potenziale d’azione arriva quando il
muscolo è ancora parzialmente contratto che subisce al livello della membrana un ulteriore
depolarizzazione attivando nuovamente l’apparato contrattile che si stava nel frattempo rilassando.
L’evento elettrico riattiva il meccanismo molecolare che trova il muscolo parzialmente contratto e si
sviluppa una forza maggiore di quella precedente. Le singole scosse che si ottengono a seguito dei
potenziali d’azione sono dunque eventi sommabili.
La sommazione tetanica fa si che se abbiamo dei potenziali d’azione molto ravvicinati, man mano che si
susseguono i potenziali d’azione, cresce sempre di più la forza sviluppata. Questo evento di sommazione
raggiunge il suo massimo in quello che viene chiamato tetano completo, in cui si ha il massimo della forza.
Il grafico tende poi ad un plateau, dato dal fatto che il muscolo ha una sua capacità limitata di poter
sviluppare la forza data dal numero limitato di ponti trasversi che si possono generare, dal numero limitato
di molecole di ATP che possono intervenire, dal numero limitato di sarcomeri convenuti all’interno della
fibra muscolare. Il valore massimo è dunque intrinseco con la capacità specifica del singolo muscolo.
Se continuano i potenziali d’azione il muscolo alla fine non riuscirà più a sviluppare la forza, a mantenere
questa forza sviluppata e la forza decadrà quando o cessa il potenziale d’azione o quando il muscolo andrà
incontro a fatica muscolare.

Le modalità con le quali si sviluppa la singola scossa dipendono dal tipo di


muscolo che stiamo considerando, avremo muscoli veloci, tipo le fibre del
muscolo oculare (7.5 ms) e muscoli lenti, tipo il muscolo soleo (90 ms).

Quando il muscolo si contrae lo può


fare secondo due modelli generali.
Tutti i muscoli possono andare
incontro ad una contrazione di tipo
isometrico e una contrazione di tipo
isotonico.
Quando il muscolo si contrae, l’intero
fuso muscolare si accorcia, questo
diventa letteralmente visibile nella
contrazione isotonica. L’intero fuso
muscolare si può contrarre nella
cosiddetta contrazione isotonica, cioè
a pressione costante, a forza costante,
accorciandosi nella sua lunghezza sviluppando una forza che viene mantenuta costante nel tempo.
D’altro canto, il muscolo si può contrarre in maniera isometrica, cioè a lunghezza costante, in cui la
lunghezza complessiva del fuso non varia durante la contrazione, mentre aumenta la forza che viene
sviluppata.
La contrazione isotonica ci consente di sollevare una mano che regge un peso, il bicipite andrà in
contrazione e si accorcerà tirando con se il tendine che lo tiene ancorato all’apparato scheletrico del
braccio. Si svilupperà una forza che può rimanere costante per tutto il tempo in cui terremo la mano
sollevata e il muscolo antagonista si rilasserà per azione riflessa. Dunque, avremo un accorciamento
dell’agonista e un rilassamento dell’antagonista.
Nella contrazione isometrica l’agonista non si accorcia, si sviluppa una forza che uguaglia quello del peso
posto nella mano che farà mantenere la mano ad uno stato costante.
La forza che viene sviluppata dal muscolo durante la contrazione è in qualche modo dipendente dalla
lunghezza dei sarcomeri. L’intensità della forza sviluppata durante la contrazione dipende dalla lunghezza
che il sarcomero ha prima della contrazione. Ciò è definito rapporto lunghezza-tensione o stiramento-
forza. Questa relazione è importante sia nel muscolo scheletrico, sia nel muscolo cardiaco, sia nel muscolo
liscio. La forza sviluppata dal muscolo durante la contrazione aumenta per lunghezze di sarcomeri crescenti
fino a raggiungere un suo massimo e poi decadere. Ciò soprattutto nel muscolo scheletrico e nel muscolo
cardiaco. All’aumentare del sarcomero, prima della contrazione, aumenta la forza sviluppata fino a
raggiungere il massimo e all’ulteriore aumento della lunghezza iniziale del sarcomero diminuisce la forza.
Ciò avviene perché la lunghezza del sarcomero in qualche modo condiziona il grado di sovrapposizione
delle proteine contrattili.
Partendo da una condizione di lunghezza del
sarcomero, calcolata in condizioni di riposo del
muscolo, in questo caso di 1.2 μm, man mano che
aumenta la lunghezza del sarcomero, le strie Z si
allontaneranno, i filamenti di actina e miosina si
allungheranno e quando avverrà il ciclo dei ponti
trasversi, le teste della miosina saranno in grado di
interagire con i filamenti di actina per un numero
maggiore di volte. Si svilupperà dunque un numero
maggiore di ponti trasversi e il risultato sarà una
maggiore forza rispetto a quella che si svilupperà
quando il sarcomero sarà più corto. Se diminuisce la
lunghezza, infatti, il grado di sovrapposizione dei miofilamenti è talmente elevato che anche se le teste
della miosina interagiscono con l’actina, non riescono a tirare ulteriormente l’actina perché si è raggiunto il
limite di accorciamento del sarcomero.
Se invece aumenta la lunghezza del sarcomero prima che il muscolo vada in contrazione, le teste della
miosina possono interagire con un numero maggiore di molecole di actina e quindi si sviluppa un numero di
ponti trasversi maggiore. Man mano che si allungano ancora di più i sarcomeri, si allontanano le strie Z,
l’interazione dei miofilamenti aumenta e si raggiunge la forza massima che si ha quando siamo in condizioni
di lunghezza normale a riposo dei sarcomeri. Se il sarcomero si allunga ulteriormente vedremo che la forza
decresce perché si distanziano troppo i filamenti di miosina dalle molecole di actina, fino ad arrivare al
punto in cui non c’è possibilità per i filamenti di actina e di miosina di interagire, quindi non è possibile far
avvenire nessun ciclo di ponti trasversi e nessuno sviluppo della forza.
La relazione lunghezza-tensione è molto importante perché rappresenta la base di una delle leggi che
governano l’attività cardiaca.

Controllo spinale della motilità scheletrica


Gli eventi muscolari sono sotto controllo da parte del sistema nervoso. Il muscolo dunque si contrae perché
risponde ad uno stimolo nervoso e questo stesso stimolo nervoso è quello che controlla in maniera
coordinata la motilità del muscolo che si sta contraendo. Questo controllo spinale della motilità scheletrica
prevede il contributo di alcune porzioni muscolari che rappresentano un elemento funzionale molto
importante contenuto all’interno del fuso muscolare, regione contenuta all’interno delle fibre muscolari.
All’interno del fuso muscolare, ci sono delle porzioni di cellule nelle quali le cellule muscolari scheletriche
sono modificate e vanno a formare delle regioni cosiddette intra-fusali.
All’interno di un muscolo abbiamo dunque le
fibre extra-fusali e le fibre intra-fusali. Le
regioni intra-fusali sono costituite da fibre con
delle caratteristiche differenti, contengono una
regione centrale priva di capacità contrattile ma
che ha capacità sensoriali. In questa regione le
cellule anche se hanno tracce dell’apparato
contrattile, hanno perso la capacità contrattile
e sono avvolte da fibre nervose che sono le
terminazioni sensoriali di neuroni afferenti al
sistema nervoso centrale. Agli estremi di questa
regione centrale ci sono due regioni che hanno invece mantenuto la capacità contrattile. Queste regioni
contrattili sono innervate da fibre nervose che appartengono ai motoneuroni γ del sistema nervoso
centrale.
Come sappiamo la contrazione del muscolo scheletrico avviene perché si attivano i motoneuroni α che
sono quelli che contraggono le porzioni extra-fusali, mentre queste regioni contrattili all’interno delle fibre
intra-fusali sono innervate da i motoneuroni γ.
Questa struttura è quella che interviene nel controllo della motilità scheletrica e che consente al muscolo,
per esempio, di regolare il suo punto di lavoro o ancora che interviene nell’opposizione che fa il muscolo
scheletrico alla forza di gravità. Il controllo è affidato a degli archi riflessi.
Le fibre extra-fusali, come sappiamo, sono sotto il controllo
dei motoneuroni α, i quali sono innervati dalle fibre
raggiunte dalle terminazioni sinaptiche di quelle fibre che
appartengono ai motoneuroni γ. Le terminazioni attivandosi
mandano le informazioni al motoneurone α. Queste fibre
altro non sono che neuroni di stiramento che si attivano
quando la zona centrale del fuso si stira, ossia quando si
contraggono le due porzioni ad essa periferiche. Ogni volta
che la regione centrale si stira, il neurone sensoriale si
attiva, sinapta con il motoneurone α che induce la
contrazione delle fibre extra-fusali. Quindi le fibre extra-fusali si contraggono in risposta allo stiramento
della regione centrale delle fibre intra-fusali. Si tratta di un arco riflesso monosinaptico, che prevede però il
contributo di un arco riflesso polisinaptico.
L’arco riflesso polisinaptico chiama in causa anche
alcune terminazioni sensoriali che si trovano
all’interno dei tendini. Ciò avviene in quanto
quando il fuso muscolare si contrae, all’interno
dei tendini si attivano delle terminazioni sensoriali
sensibili allo stiramento. Se il muscolo si contrae,
il tendine si stira, questo stiramento viene
recepito da terminazioni sensoriali e viene sempre
veicolato attraverso le radici dorsali dei nervi
spinali, per andare a sinaptare su degli
interneuroni inibitori. Questi interneuroni inibitori
bloccano l’attività di scarica del motoneurone α e
così termina la contrazione della fibra extra-
fusale.
Quando si contrale la fibra extra-fusale, il tendine si stira e lo stiramento rappresenta un feedback negativo
che blocca la contrazione delle fibre extra-fusali per cui il muscolo raggiunge un suo livello di contrazione
massima che attiva il cosiddetto organo tendineo del Golgi che fa terminare la contrazione del fuso
muscolare.
Tutti questi riflessi che controllano la contrazione del fuso muscolare sono riflessi spinali.
Nell’esempio riportato, il muscolo
deve sollevare un peso. Mediante
dei segnali che provengono dalla
corteccia motoria e che sono
condizionati dal desiderio e dalla
volontà di sollevare i mattoncini,
induciamo dunque la contrazione
delle fibre extra-fusali attivando il
motoneurone α.
Quando si contrae il motoneurone α, lo stesso stimolo
attiva contemporaneamente i motoneuroni γ, che
come abbiamo detto si trovano alla periferia della fibra
intra-fusale. Si contrae dunque il muscolo tutto
insieme ma si contraggono anche le fibre extra-fusali.
Quando si contraggono le fibre extra-fusali, si accorcia
la regione periferica e la regione centrale, sensoriale, si
allunga. Lo stiramento della regione centrale è sentito
dalle fibre sensoriali che comunicano al motoneurone
α di proseguire la contrazione.
Questo meccanismo ci consente, nell’esempio
precedente di mantenere il peso e di aumentare la
contrazione muscolare in funzione del peso aggiunto.

Questa contrazione ha un suo limite quando il muscolo raggiunge il massimo della sua capacità, si accorcia,
il tendine si allunga e i neuroni sensoriali disseminate all’interno del tendine vengono attivati, si attiva
l’organo tendineo del Golgi. Questo organo tendineo del Golgi mediante un riflesso polisinaptico blocca la
scarica dei motoneuroni α.
Il muscolo ha così raggiunto il massimo della sua forza di lavoro e tornando all’esempio con i pesi arriva a
non riuscire a tenere l’aggiunta dell’ultimo peso, il muscolo si rilasserà e i pesi cadranno.
Questo meccanismo è un feedback protettivo negativo del muscolo che si attiva quando si raggiunge il
massimo della capacità dell’apparato muscolare-tendineo-osseo di sostenere la contrazione di questo
muscolo.
Istante per istante viene dunque
regolata la forza muscolare da un
punto di vista nervoso attivando
una serie di riflessi.
Tutto ciò richiede che il muscolo
abbia l’adeguato rifornimento
energetico che ricava come
abbiamo già visto per l’energetica
della contrazione dalla
fosforilazione ossidativa, dalla
glicolisi anaerobia ma anche dalla
glicolisi aerobia.
Lo sviluppo della forza fa si che
incrementi il consumo di ossigeno
che rende necessario il consumo di
substrati energetici tipo la creatina
fosfato.
SANGUE ED EMODINAMICA

Il sangue è un tessuto connettivo di tipo liquido e di colore rosso, questa particolare colorazione viene
attribuita dalla presenza nel sangue di particolari pigmenti respiratori. Il pigmento respiratorio per
eccellenza contenuto nel sangue dei mammiferi è rappresentato dall’emoglobina che conferisce al sangue
un caratteristico colore rosso.
Il sangue è quel tessuto che mette in comunicazione tutti i distretti del nostro organismo. Il sangue scorre
attraverso un sistema di vasi che partono dal cuore e vengono in contatto con tutti gli organi, i tessuti e le
cellule del nostro organismo.
Il sangue è presente in una quantità variabile tra l’uomo e la donna, nei maschi la quantità di sangue
circolante è pari a circa 5-6 l, nelle donne intorno ai 4-5 l.
Il sangue svolge principalmente tre funzioni principali, che sono quella di trasporto, di regolazione e di
protezione.
Attraverso il sangue vengono principalmente veicolati gas, nutrienti e proteine che servono per
l’integrazione tra tessuti ed ambiente esterno. Tramite il sangue viene veicolato ad esempio l’ossigeno
atmosferico, ossigeno che entra nel nostro organismo attraverso la respirazione e che dai polmoni viene
veicolato con tutte le cellule proprio attraverso il sangue. Sempre attraverso il sangue, il prodotto di scarto
del metabolismo, dunque la CO2, viene trasportata dalle cellule al sistema respiratorio per essere poi
eliminata all’esterno. Oltre a questi due gas, che sono i gas principali deputati alla funzionalità cellulare, il
sangue trasporta nutrienti e cataboliti. Trasporta dunque i nutrienti assunti con la dieta verso gli organi, i
tessuti e le cellule che devono rifornirsi per svolgere le loro funzioni e da queste cellule prende i cataboliti,
cioè i prodotti di scarto del metabolismo e li trasporta verso gli organi deputati all’escrezione.
Il sangue trasporta anche ormoni che si comportano da mediatori chimici e vengono veicolati da esso trai
diversi distretti.
Infine, il sangue trasporta anche calore in quanto è deputato alla regolazione della temperatura che
effettua attraverso due meccanismi che sono la vasocostrizione e la vasodilatazione.
Altra funzione importante è quella di regolazione del pH dei liquidi corporei, infatti nel sangue si ritrovano
una serie di componenti che nel loro insieme costituiscono dei veri e propri sistemi tampone fisiologici che
impediscono ai liquidi corporei di andare in processi di alcalosi o acidosi. Nel sangue in particolar modo
ritroviamo tre principali sistemi tampone che sono il sistema tampone acido carbonico/bicarbonato, il
sistema fosfato e il sistema tampone delle proteine del sangue (emoglobina).
Altra funzione di regolazione del sangue è quella di idratazione cellulare, sono presenti per questo motivo
diverse proteine la cui presenza è responsabile di quella che viene definita pressione osmotica, cioè quella
pressione che si genera all’interno dei vasi e che solitamente interviene nel trattenere i liquidi. Grazie alla
pressione osmotica e in presenza di un'altra pressione che gioca a livello dei vasi e che è quella idraulica o
idrostatica, vengono favoriti i processi di filtrazione e assorbimento che sono alla base dell’idratazione
della cellula.
Oltre alla funzione di trasporto e di regolazione, il sangue svolge un importante funzione di protezione.
Protezione principalmente da infezioni attraverso anticorpi e fagocitosi, ma anche protezione da perdite di
sangue in seguito a lesioni del vaso che avviene principalmente attraverso l’attivazione del processo
emostatico.
Il sangue come abbiamo detto è un tessuto connettivo di natura liquida ed essendo un tessuto connettivo
avrà sicuramente al suo interno una componente cellulare. La componente cellulare rappresenta il 45% del
tessuto sanguigno ed è costituita principalmente da tre elementi figurati che sono gli eritrociti o globuli
rossi, i leucociti o globuli bianchi e le piastrine. Questi componenti figurati si trovano immersi all’interno di
una componente liquida che è rappresentata dal plasma. Il plasma rappresenta il restante 55% del sangue,
è una soluzione di colore giallino ed è composta principalmente da soluti quali sali inorganici, da proteine e
da acqua. Le proteine rappresentano circa il 7% della componente plasmatica e si distinguono a loro volta
in tre grosse categorie: le albumine, le globuline e il fibrinogeno. Le albumine sono le proteine che
intervengono principalmente nella regolazione della pressione osmotica e quindi nell’idratazione cellulare.
Le globuline sono a loro volta distinte in tre categorie che sono le globuline di tipo alfa, le globuline di tipo
beta e le globuline di tipo gamma. Alfa e beta rappresentano le globuline deputate al trasporto di gas o
nutrienti, mentre le gamma globuline sono rappresentate principalmente dagli anticorpi e svolgono quella
che è la funzione protettiva del sangue. L’ultima categoria di proteine presenti nel sangue è rappresentata
dal fibrinogeno, precursore della fibrina, che è la proteina che interviene invece nel processo emostatico.

Il sangue abbiamo detto essere costituito da due


componenti, la componente cellulare e la
componente plasmatica.
La componente cellulare è costituita quasi
interamente dai globuli rossi.

Essenzialmente la componente cellulare del


sangue è costituita dai globuli rossi definiti
anche eritrociti, dai globuli bianchi o leucociti
e dalle piastrine. I leucociti a loro volta si
distinguono in tre categorie che sono i
granulociti, i monociti e i linfociti. I granulociti
sono così definiti perché presentano al loro
interno dei granuli che reagiscono in maniera
diversa alla colorazione con coloranti acidi o
basici e che pertanto vengono distinti in
neutrofili, eosinofili se reagiscono a coloranti
acidi e basofili se reagiscono a coloranti basici.
Eritrociti:
Gli eritrociti sono le cellule più numerose del sangue, ne ritroviamo infatti
circa 4-6 milioni/mm3 e rappresentano il 40-45% del volume totale di
sangue. La quantità di globuli rossi rispetto al volume totale di sangue
prende il nome di ematocrito.
Gli eritrociti hanno una forma molto particolare, definita forma a lente
biconcava, schiacciati verso l’interno e più slargati verso l’esterno. Nei
mammiferi gli eritrociti vengono considerate delle cellule anche se non
sono delle vere e proprie cellule. Nascono complete ma nel momento in cui
vengono messe in circolo sono prive di nucleo e di qualunque altro tipo di
organulo citoplasmatico. Non avendo il nucleo e non avendo dunque
possibilità di produrre proteine o di replicarsi, hanno un’emivita di circa 120
giorni, trascorso questo periodo vengono veicolati a livello della milza dove vengono degradati. La funzione
principale degli eritrociti è quella di trasportare ossigeno. Proprio perché sono privi al loro interno di
qualunque organulo intracellulare, la componente citoplasmatica nei globuli rossi è praticamente piena di
una proteina, l’emoglobina, che è la principale proteina responsabile del trasporto dell’ossigeno nel
sangue.
Oltre ad essere ricchi di questa proteina i globuli rossi hanno un citoscheletro molto sviluppato. Questo
rende gli eritrociti delle cellule altamente flessibili e adattabili a spazi anche molto piccoli.
I globuli rossi vengono prodotti nel midollo delle ossa brevi o piatte (ala iliaca, sterno, corpi vertebrali)
nonché nelle epifisi di omero e femore.
La funzione principale degli eritrociti è dunque quella di trasportare l’ossigeno molecolare. L’ossigeno che
entra nel nostro organismo attraverso la respirazione, raggiunge i tessuti sia disciolto direttamente nel
plasma che trasportato dall’emoglobina. Tuttavia, la quantità di ossigeno che raggiunge i tessuti sotto
forma di ossigeno disciolto nel plasma è molto bassa, circa 1,5% del totale; il restante viene trasportato ai
tessuti proprio perché legato all’emoglobina.
L’emoglobina è un pigmento e come tale è quella proteina che
conferisce al sangue il caratteristico colore rosso. In realtà vediamo il
sangue di un colore rosso acceso quando l’emoglobina è
complessata con l’ossigeno e quindi si trova nella forma di
ossiemoglobina.
L’emoglobina è una proteina tetramerica appartenente alla classe
delle globine, ed è costituita da quattro subunità, due subunità di
tipo α e due subunità di tipo β. All’interno di ciascuna subunità
proteica è presente un gruppo prostetico che prende il nome di EME
ferroso ed è l’elemento responsabile del legame con l’ossigeno.
Il gruppo EME è costituito da quattro gruppi pirrolici che si legano
insieme a formare una struttura ad anello che prende il nome di
anello tetrapirrolico.
Al centro di questo anello tetrapirrolico è presente un atomo di
ferro bivalente che può formare 6 legami di cui 4 vengono utilizzati
per bloccare il ferro all’interno dell’anello pirrolico. In particolar
modo due legami del ferro sono legami di valenza con due azoti (N)
dell’anello tetrapirrolico e sono dunque legami abbastanza corti. Poi
abbiamo due legami di coordinazione, più deboli con gli altri due
azoti (N) dell’anello tetrapirrolico e i restanti due legami che il ferro
può formare vanno a complessarsi uno direttamente alla globina, legando il gruppo prostetico alla proteina
e l’altro è utilizzato in presenza di ossigeno per legare l’O2. E’ un legame di tipo reversibile, se c’è l’ossigeno
viene legato, se l’ossigeno non è presente il Fe continua a legare la parte proteica.
Quali sono i fattori che favoriscono il legame dell’ossigeno all’emoglobina?
Essenzialmente sono due e sono la pressione parziale dell’O2 e la presenza dei potenziali siti di legame
disponibili sulla molecola di emoglobina.
Se in un distretto tissutale la pressione parziale di ossigeno è troppo bassa, l’ossigeno non riesce a legare
l’emoglobina.
L’emoglobina può essere satura, quando tutti i siti di legame sono occupati dall’ossigeno, oppure
parzialmente satura di ossigeno. In base a quella che è la % di saturazione dell’emoglobina, il numero di siti
disponibili al legame con l’ossigeno, l’ossigeno può legarsi o meno alla proteina.
La cinetica di legame dell’ossigeno
all’emoglobina è rappresentata
principalmente da questa curva sigmoidale
che mette in relazione la pO2 con la % di
saturazione dell’emoglobina. Quando la
pressione parziale di ossigeno è alta,
intorno ai 10mmHg (pressione tipica
registrata a livello polmonare),
l’emoglobina (Hg) è completamente satura
di ossigeno. Ad alte pressioni parziali di
ossigeno, l’ossigeno si lega completamente
all’emoglobina. Man mano che attraverso il sangue l’Hg viene veicolata verso i tessuti, la pressione parziale
di ossigeno diminuisce. A livello tissutale la pressione parziale di ossigeno si aggira intorno ai 40mmHg e la
% di saturazione dell’Hg comincia a scendere, l’affinità di legame dell’ossigeno per l’Hg diminuisce. A livello
tissutale si ha quindi un rilascio parziale di ossigeno dell’emoglobina verso i tessuti.
Questa particolare curva, oltre ad indicare quello che è il legame d’interazione tra l’ossigeno e l’Hg, indica
anche quello che viene definito legame di cooperazione dell’ossigeno all’emoglobina.
L’emoglobina come sappiamo è costituita da 4 subunità proteiche, se c’è ossigeno, non tutto l’ossigeno si
lega immediatamente all’emoglobina. Il legame dell’ossigeno all’emoglobina avviene attraverso una
cinetica di cooperazione. In presenza di ossigeno, una molecola di ossigeno si lega ad una subunità delle
quattro, il legame di una molecola di ossigeno con la prima subunità, genera nella subunità in cui l’ossigeno
si è legato un cambiamento conformazionale che rende la proteina nel suo complesso più disponibile al
legame con un'altra molecola di ossigeno. Le quattro subunità cooperano dunque tra di loro per il legame
con l’O2.
Affianco all’emoglobina c’è un'altra proteina che è la mioglobina.
Mentre l’Hg è una proteina tetramerica, la
mioglobina è costituita da una singola
subunità proteica a cui è legato un gruppo
prostetico in grado a sua volta di legare
l’ossigeno.
Mentre l’Hg si trova principalmente nel
sangue, la mioglobina rappresenta un
deposito di ossigeno a livello muscolare.
La cinetica di legame dell’ossigeno alla
mioglobina è diversa, nell’Hg è una sigmoide,
nella mioglobina è esponenziale.
Mentre così come l’Hg ad alte pressioni parziali di O2, anche la mioglobina è completamente satura di O2, a
differenza dell’Hg che intorno a valori tissutali di pressione parziale di ossigeno comincia a rilasciare l’O2, la
mioglobina lo rilascia soltanto quando la pressione parziale di O2 scende al di sotto dei 25 mmHg, cioè solo
in condizioni in cui l’ossigeno a livello tissutale è molto basso, ovvero quando la cellula si troverà in quella
fase in cui sta eccessivamente producendo ATP ed ha quindi una necessità immediata di avere ulteriore O2.
Ci sono dei fattori che vanno ad influenzare il legame dell’ossigeno all’emoglobina, questi fattori
essenzialmente sono la temperatura, il pH e la presenza di fattori che possono andare in qualche modo a
competere con l’O2 per il legame all’emoglobina.
Se consideriamo ad esempio ad
una cellula muscolare che sta
svolgendo un’intensa attività
muscolare e che sta
consumando molto ATP e
quindi sta consumando molto
O2. Queste reazioni di
produzione di energia sono
reazioni che rilasciano calore,
questo calore tenderà ad
aumentare la temperatura in
quel distretto. Se aumenta la
temperatura diminuisce
l’affinità di legame dell’O2 per l’Hg.
Al contrario, per esempio, se consideriamo le temperature che si hanno a livello polmonare, queste sono
più basse rispetto a quelle tissutali, questo favorisce ulteriormente il legame dell’O2 all’Hg.
Un effetto simile lo ha il pH. Considerando sempre una cellula muscolare ad intensa attività lavorativa,
produce ATP consumando O2 e dunque producendo CO2. La CO2 è un acido e come tale tende a spostare
l’equilibrio acido base della cellula alterando il pH.
Se c’è un aumento dell’acidità, questo aumento va ad agire sull’Hg, diminuendo l’affinità di legame dell’O2
per l’Hg. L’Hg rilascerà più facilmente l’O2 ai tessuti.
In presenza di pH più basico, invece, viene aumentata l’affinità di legame dell’O2 per l’Hg.
Un altro fattore che interviene nel modulare l’affinità dell’O2 per l’Hg è l’acido 2,3-difosfoglicerico (DPG),
che è un intermedio della glicolisi.

Se aumenta l’attività muscolare, ad esempio, la cellula muscolare va incontri ad un aumento della glicolisi
anaerobia che comporta un aumento degli intermedi che regolano la glicolisi. Questo acido DPG, che è
proprio un intermedio della glicolisi, se aumenta può andare a competere con l’O2 per il legame sull’Hg.
Leucociti:
I leucociti si distinguono, come abbiamo detto, principalmente
in tre classi che sono quelle dei granulociti, dei linfociti e dei
monociti. Sono cellule deputate alla difesa dell’organismo,
sono molto meno numerose degli eritrociti, rappresentano
infatti solo lo 0,1% della componente cellulare.
A differenza degli eritrociti sono delle cellule complete, hanno
infatti il nucleo e gli organuli intracellulari. In alcuni casi sono
cellule polinucleate, non hanno dunque un solo nucleo ed il
nucleo può essere diviso in più lobi.

Piastrine:
Un'altra classe di cellule appartenente alla componente cellulare del sangue è rappresentata dalle
piastrine. Le piastrine, così come i globuli rossi non possono essere definite delle vere e proprie cellule in
quanto derivano dalla frammentazione citoplasmatica di cellule giganti multinucleate, i megacariociti del
midollo emopoietico delle ossa (200-400.000 per mm3), e sono quindi prive di nucleo e di organuli cellulari.
Come i globuli rossi hanno una certa emivita, dopodiché vengono degradate. Le piastrine sopravvivono in
media per 10 giorni.
1/3 delle piastrine viene rimosso dalla circolazione ed è trattenuto dalla milza dove va a costituire un
materiale cellulare di riserva.
Le piastrine sono delle frammentazioni del citoplasma e presentano al loro interno numerosi granuli che
vengono distinti in due categorie principali che sono i granuli densi e i granuli α.
I granuli densi contengono principalmente serotonina, calcio, ADP ed ATP.
I granuli α, invece, contengono fibrinogeno nonché una serie di fattori che intervengono nella regolazione
del processo emostatico, nella fase della coagulazione. Infatti, le piastrine rappresentano gli elementi
cellulari essenziali per il processo di emostasi e di coagulazione del sangue.

Emopoiesi:
Il processo attraverso il quale vengono prodotte tutte le cellule sanguigne, prende il nome di emopoiesi.
L’emopoiesi avviene in distretti specifici dell’organismo che vengono definiti come organi ematopoietici.
Questi organi ematopoietici sono diversi nella vita fetale e nell’adulto. Nell’embrione il primo organo
ematopoietico è rappresentato dal sacco vitellino, man mano che l’embrione si sviluppa, altri organi come il
fegato, l milza e il midollo osseo rosso possono svolgere funzione ematopoietica. Nell’adulto l’unico tessuto
con funzione ematopoietica è il midollo osseo rosso e in alcuni casi possono intervenire anche i linfonodi e
la milza.
Questi tessuti sono deputati principalmente alla produzione di una cellula che viene definita cellula
staminale totipotente. Questa cellula staminale totipotente ha la capacità di differenziarsi sotto specifici
stimoli in cellule staminali unipotenziali ognuna delle quali dà origine ad una linea cellulare emopoietica.
Tutte le cellule del sangue si originano dunque a partire da un unico precursore che è questa cellula
staminale totipotente.
Il processo ematopoietico è un processo abbastanza complesso.
Possiamo vedere
come da un'unica
cellula che è la
cellula staminale
totipotente, che
prende il nome di
emocitoblasto, si
differenziano poi
delle linee cellulari
che daranno
origine a eritrociti,
piastrine e globuli
bianchi che a loro
volta si
distingueranno in
granulociti,
linfociti e monociti.

Quali sono le principali vie emopoietiche?


La cellula staminale totipotente può differenziarsi in due linee principali, la linea linfoide e la linea
mieloide. La linea linfoide darà origine ai soli linfociti. La linea mieloide darà invece origine a tre diverse
linee, la linea da cui si svilupperà l’eritoblasto e di conseguenza l’eritrocita, la linea che darà origine al
megacariocito da cui avranno origine le piastrine e infine la linea cellulare dal quale si svilupperà il
mieloblasto ovvero il precursore dei granulociti e il monoblasto, ovvero il precursore dei monociti.
Esempio della linea di produzione degli
eritrociti che prende il nome di eritropoiesi, in
cui l’emocitoblasto si trasforma in
proeritroblasto ed in eritroblasto a livello del
midollo osseo.
Durante questa maturazione la cellula tende a
perdere la sua componente intracellulare,
diventa più piccola, il nucleo si compatta e nel
momento in cui c’è il passaggio dal midollo osseo al sangue, da eritroblasto a reticolocito, il nucleo
scompare quasi completamente fino a scomparire del tutto nello stadio maturo dell’eritrocita.
Processo emostatico:
Il processo emostatico è quel processo che si attiva per intervenire nella rigenerazione delle ferite. Nel
momento in cui un vaso viene lesionato, per evitare la perdita di sangue si attivano tutta una serie di
meccanismi che portano all’attivazione del sistema fibrinolitico e quindi alla produzione di fibrina che va a
chiudere la lesione bloccando in questo modo il passaggio del sangue.
I sistemi coinvolti nel processo emostatico sono quattro e sono rappresentati dai vasi e in particolar modo
dalla muscolatura dei vasi, dalle piastrine, dalla cascata enzimatica della coagulazione e dal sistema
fibrinolitico.

La fase coagulativa coincide con l’attivazione della


pro-trombina, che è una globulina plasmatica, in
trombina ad opera della tromboplastina. Il
fibrinogeno ad azione della trombina viene
convertito in fibrina che è una proteina a forma di maglia. Le diverse maglie vanno ad incastrarsi sulle
piastrine formando una rete. Questa rete blocca le piastrine e va a formare quello che viene definito
coagulo.
Nel momento in cui un vaso si rompe, vengono rilasciati dei fattori che attivano il processo emostatico.
Attivano dunque le piastrine che rilasciano quei fattori che a cascata collaborano tra di loro nel portare
all’attivazione della trombina così da poter trasformare il fibrinogeno in fibrina.
Esistono due vie di attivazione della trombina che vengono definite via intrinseca o via estrinseca.
La via intrinseca viene anche definita via lenta perché ha un numero di fattori da attivare prima di arrivare
sulla trombina che è maggiore rispetto alla via estrinseca che pertanto è più rapida.
La via intrinseca è attivata o dal collagene o da altri fattori di coagulazione rilasciati dalle piastrine. I fattori
di coagulazione si attivano l’uno con l’altro (il fattore XII attiva l’XI che a sua volta attiva il IX e di
conseguenza il X).
Nella via estrinseca, invece, è il danno tissutale direttamente che può andare ad attivare il fattore IX che
attiva direttamente il fattore X.
Indipendentemente dall’attivazione di una delle due vie, importante è l’attivazione del fattore X che altro
non è che la tromboplastina che va ad agire sulla pro-trombina trasformandola in trombina. La trombina
può in questo modo agire sul fibrinogeno trasformandolo in fibrina e quindi dare origine a quella struttura a
maglie necessaria per completare il processo di rimarginazione delle ferite.
Il sangue è il mediatore omeostatico che mette in comunicazione le informazioni provenienti da tutti i
distretti del corpo per far si che il corpo lavori come un insieme. Quello che avviene è mediato dal fatto che
il sangue scorrendo all’interno di un sistema di vasi chiuso, raggiunge tutti i distretti dell’organismo e
raccoglie, veicola, le informazioni che provengono da un distretto dell’organismo mettendolo in
comunicazione con gli altri.
Un esempio di ciò che avviene sono i gas respiratori, cioè l’O2 e la CO2 che vengono veicolati dal sangue che
nel distretto polmonare raccoglie l’ossigeno dall’aria inspirata e rilascia nell’aria che verrà espirata la CO2.
Quest’O2 verrà trasferito a tutte le cellule dell’organismo e in questo trasferimento verrà
contemporaneamente caricata l’anidride carbonica che deriva dal metabolismo di ogni singola cellula
dell’organismo che verrà poi portata al distretto respiratorio per poter essere eliminata.
Lo stesso può valere per gli ormoni, l’ormone prodotto da una particolare struttura endocrina raggiunge il
suo organo bersaglio spesso estremamente distante grazie al sangue.
Affinché questo possa avvenire il sangue deve potersi distribuire nelle varie regioni del corpo in maniera
appropriata.
La circolazione
Il sangue scorre all’interno di un sistema di vasi
chiuso, costituito da vasi di natura differente,
strutturalmente differenti, organizzati tra di loro
in una maniera abbastanza complessa. All’interno
di questi vasi il sangue si distribuisce in tutte le
regioni dell’organismo.
Il sangue svolge una circolazione di tipo doppio e
completo, ciò significa che l’albero circolatorio è
diviso in due porzioni.
Il sangue circola in un sistema di vasi chiuso che
nell’uomo è diviso in una circolazione sistemica
chiamata anche grande circolazione che
raggiunge tutto il corpo, tranne i vasi che
raggiungono il distretto polmonare che vanno a costituire il cosiddetto piccolo circolo o circolazione
polmonare. Abbiamo dunque due sistemi circolatori collegati l’uno con l’altro, il sangue circola all’interno
del grande circolo e in continuità passa attraverso il piccolo circolo per tornare al grande circolo e così via.
Tra il sistema circolatorio polmonare e quello sistemico si trova situato il motore idraulico di questo
circuito, che è il cuore, proprio per questo parliamo di sistema cardiocircolatorio. Il cuore è quell’organo
all’interno del quale il sangue circola seguendo una direzione ben precisa, seguendo delle leggi ben precise,
così da ricevere l’energia sufficiente per distribuirsi all’interno dei vasi, quindi andare dal cuore verso i vasi,
è inoltre anche in grado di accogliere il sangue che dai vasi ritorna al cuore.
Il movimento che fa il sangue a livello del cuore è un movimento unidirezionale. In tutto l’albero
circolatorio il sangue si dirige in maniera unidirezionale, cioè non torna indietro sui suoi passi.
All’interno del cuore il sangue segue una direzione indicata nell’immagine dalle frecce arrivando nelle
camere atriali o atri e fuoriuscendo da esso dalle camere ventricolari o ventricoli.
All’interno del cuore una metà riceve e trasmette il sangue di tipo ossigenato(rosso), cioè quello che
proviene dai polmoni dove si è caricato di ossigeno, e l’altra metà contiene sangue deossigenato(blu).
All’interno dei vasi quindi, il sangue circola sia nella sua forma ossigenata che nella sua forma non
ossigenata o meglio carica di CO2. In particolare, il sangue nel muoversi attraverso i vasi esce dal cuore con
vasi cosiddetti di tipo arterioso.
Le strutture vascolari si dividono in tre grandi
famiglie all’interno delle quali possono essere
fatte ulteriori distinzioni. I vasi in entrata al
cuore, che portano il sangue al cuore sono le
vene, mentre i vasi di uscita dal cuore sono le
arterie. C’è un terzo tipo di vasi che sono i
capillari, costituiti esclusivamente da tessuto
endoteliale. I capillari sono vasi di scambio,
sono cioè quei vasi che si trovano tra le arterie
e le vene e sono responsabili dello scambio tra
il sangue e i tessuti.
Vi sono i vasi cosiddetti venosi, che sono vasi di
raccolta dove il sangue nei distretti periferici
viene raccolto. Sono proprio questi vasi che portano il sangue al cuore.
Al cuore arrivano inoltre le vene che provengono dai polmoni e che si chiameranno vene polmonari le quali
trasportano il sangue ossigenatosi nei polmoni al cuore.
Il sangue però può dunque arrivare al cuore anche attraverso le vene cave quando proviene dalla
circolazione sistemica. Entra nel cuore attraverso le vene cave superiore ed inferiore, arriva nell’atrio
destro, dall’atrio destro si dirige nel ventricolo destro e dal ventricolo destro fuoriesce attraverso un altro
tipo di vasi che sono i vasi arteriosi e si dirige verso i polmoni, nei polmoni si ossigena.
Ritorna al cuore attraverso le vene polmonari, va nell’atrio sinistro da cui si dirige nel ventricolo sinistro,
esce dall’arteria aorta e si distribuisce per tutto il corpo.
La differenza tra vene e arterie è sostanziale, non tanto nel calibro quanto nella caratteristica strutturale.
Entrambi sono costituite da tre tonache:
-una porzione interna chiamata tonaca intima costituita da un tipo cellulare chiamato endotelio che svolge
la funzione di delimitare la parete vascolare, l’endotelio è a contatto con il sangue e media gli scambi tra il
sangue che circola all’interno di questi vasi e le altre cellule del vaso. Si tratta di un monostrato di cellule
appiattite che è presente sia nei vasi arteriosi, sia nei vasi venosi;
- l’endotelio è circondato da una tonaca media, formata da cellule muscolari lisce in percentuale non
costante che dipende dal tipo di vaso. All’interno di queste cellule muscolari lisce si trovano immerse fibre
di elastina e fibre di collagene. Maggiore è la quantità di elastina, maggiore sarà l’elasticità del vaso, allo
stesso modo, maggiore è la quantità di collagene, maggiore sarà la rigidità del vaso.
La tonaca media può avere spessore variabile. Le cellule lisce che costituiscono la tonaca possono andare in
contrazione, questa contrazione si traduce in una variazione del diametro del vaso. Se le cellule muscolari
lisce si contraggono il diametro interno del vaso diminuirà, se si rilassano, al contrario aumenterà.
Nelle vene, a differenza delle arterie, il tessuto muscolare e l’endotelio protrudono nel lume formando le
cosiddette valvole venose che bloccano il sangue nell’eventuale percorso retrogrado;
-All’esterno il vaso è ricoperto da una tonaca connettivale, la tonaca avventizia, questa in particolare è
ricca di fibre elastiche e di fibre di collagene. Le proprietà di elasticità e di rigidità conferite al vaso da
queste fibre sono fondamentali perché condizionano lo scorrimento del sangue all’interno dei vasi.

Il sangue che esce dal cuore attraverso le arterie, si distribuisce in vasi di calibro sempre più piccolo che
ramificano fino ad arrivare ai vasi più piccoli dell’organismo che sono i capillari. Prima di arrivare ai capillari
abbiamo arterie chiamate arteriole e metarteriole. Dall’altro lato dopo il capillare ci saranno le venule.
Nella circolazione sistemica le vene portano sangue deossigenato e le arterie portano sangue
ossigenato;
Nella circolazione polmonare le vene polmonari portano al cuore sangue ossigenato e le arterie
polmonari portano ai polmoni il sangue deossigenato.
Emodinamica
Le leggi che governano lo scorrimento del sangue all’interno dell’apparato cardiocircolatorio sono descritte
dall’emodinamica, che è una scienza biofisica nella quale i principi della dinamica dei fluidi vengono
applicate alla circolazione del sangue.
Le leggi dell’idrodinamica sono solitamente applicate a fluidi ideali quali ad esempio l’acqua. Nel caso del
sangue non abbiamo un fluido ideale, il sangue è un fluido non Newtoniano.
Inoltre, i vasi in cui scorre il sangue a differenze dei tubi idrici, non sono tubi rigidi ma sono tubi che hanno
una loro capacità di modificare il proprio calibro.
Le grandezze e i concetti utilizzati in emodinamica sono la velocità, la pressione, la densità, il flusso e la
resistenza.
Abbiamo innanzitutto vasi di calibri
differenti. I due circuiti, il piccolo e
il grande circolo sono collegati tra
di loro attraverso il cuore che è
organizzato in due metà, la metà
destra e la metà sinistra che
costituiscono due pompe.
La metà destra riceve il sangue
deossigenato, la metà sinistra
riceve e trasmette il sangue
ossigenato.
Questo circuito è alimentato dal
fatto che la pompa emodinamica,
cioè il cuore, riesce a svolgere le
sue attività di pompa proprio
perché subisce delle modificazioni e fa si che si riesca a mantenere costante nel tempo anche se in maniera
oscillatoria, con dei massimi e dei minimi, lo scorrimento del sangue. Questa pompa immette cioè nel
circuito un volume di sangue adeguato alla capacità che ha questo circuito di contenerlo.
L’attività del cuore è un’attività pulsatoria, va dunque incontro a dei massimi e dei minimi di attività, si
contrae ed espelle il sangue, lo manda nel circuito vascolare, si rilassa e accoglie il sangue che viene dal
circuito vascolare.
Per far avvenire ciò i vasi devono avere la capacità di dilatarsi per accogliere il sangue in arrivo, devono
dunque essere elastici. Questa elasticità del sangue è una garanzia di buon funzionamento dei vasi che
consente anche grazie al cosiddetto ritorno elastico al vaso di dare un ulteriore spinta energetica al sangue
facendolo procedere nel suo moto. È inoltre un sistema che lavora contro la forza di gravità.
Il massimo del volume del sangue come possiamo vedere nell’immagine è contenuto nei vasi di tipo
venoso, le vene, le venule e i seni venosi (circa il 60%). I seni venosi sono strutture un po' slargate dove si
raccoglie il sangue prima di convergere nelle venule.
Il 13 % circa è contenuto nel distretto arterioso, solo il 7% è contenuto a livello dei capillari e a livello del
cuore.
All’interno del sistema vascolare di tutto l’apparato cardiocircolatorio, il sangue si muove seguendo un
gradiente di pressione, si muove cioè spinto da una forza insita nel gradiente pressorio, andando da zone a
pressione maggiore in zone dove la pressione è minore.
Quando parliamo di pressione, parliamo di una forza che nel caso della pressione arteriosa è la forza
esercitata dal sangue sulla parete dei vasi, alla quale si oppone la forza esercitata dalla parete dei vasi verso
il sangue, contiene una forza propulsiva data dall’azione di pompa del cuore che si contrae e impartisce una
forza al sangue che transita attraverso le arterie.
All’interno di questo sistema non ci sono mai zone di vuoto, non ci sono mai punti in cui il sangue non c’è,
ce ne potrà essere di più o di meno ma il vuoto non c’è mai. Il vuoto genererebbe una pressione negativa,
un gradiente molto forte, che attirerebbe tutto il liquido nella zona dove c’è il vuoto.
Parliamo di portata dell’apparato circolatorio come quel volume che transita attraverso una sezione
dell’apparato circolatorio, per esempio la sezione di un vaso, al secondo (ml/s). Questo valore è dato dal
rapporto tra la pressione di perfusione media in mmHg (differenza di pressione nei vasi a monte e quella a
valle) divisa per la resistenza. La resistenza è quella forza che si oppone al passaggio. La resistenza idraulica
di un vaso dipende dalla capacità che ha un vaso di farsi permeare dal sangue, di farsi perfondere dal
sangue.

Normalmente la parete delle arterie per calibri


paragonabili è più spessa rispetto alla parete
delle vene. C’è una componente avventizia e
muscolare più robusta all’interno delle arterie.
I capillari sono i tessuti vascolari più semplici
formati solamente da endotelio.

In funzione delle differenti caratteristiche strutturali, i vasi possono avere una capacità di distendersi,
chiamata anche compliance, distendendosi accolgono il sangue. Maggiore è la compliance maggiore sarà la
capacità del vaso di accogliere il sangue.
La rigidità è invece il concetto inverso rispetto alla compliance, più un vaso è rigido per la maggiore
presenza di collagene rispetto all’elastina e più non si lascerà distendere dall’arrivo dell’onda pressoria.
Ciò dipende anche dall’elasticità della parete e dalla tensione della parete, la quale dipende a sua volta
dalla pressione e dal diametro. Il diametro del vaso e la natura biologica della parete sono quelli che
contribuiscono in maniera importante a determinare le proprietà della parete vascolare.
Nel sistema cardiocircolatorio ciò che sostiene la circolazione è innanzitutto la pressione cosiddetta
pressione propulsiva della pompa, cioè la capacità che ha il cuore di generare delle pressioni e far si che
questo si traduca in una spinta propulsiva al sangue che è contenuto nel suo interno.
Il cuore genera pressioni per spostare volumi. Affinché il lavoro svolto dal cuore di generare pressioni per
spostare volumi sia efficace, bisogna che l’apparato cardio circolare sia in grado di ricevere questi volumi, ci
sarà quindi una pressione di riempimento dell’apparato cardiovascolare, necessaria perché il sistema
vascolare si riempia.
La circolazione dipende dunque dalle caratteristiche fisiche geometriche dei condotti (il calibro, lo
spessore della parete, la lunghezza del singolo vaso, la disposizione in serie o in parallelo con gli altri vasi, la
capacità dei vasi di distendersi e di contrarsi) e dalle proprietà reologiche del sangue (viscosità e densità).
Poiché il flusso circolatorio è garantito solo se il sistema è in condizioni di “troppo pieno”, l’omeostasi del
circolo è garantita dalla congruità tra il volume ematico circolante e le dimensioni del letto vascolare.
Uno dei concetti cardine dell’emodinamica è il concetto di flusso. Il flusso è la quantità di sangue che passa
nell’unità di tempo attraverso un vaso o una sezione dell’apparato cardiovascolare.
𝐹 = 𝑉 × 𝑆𝑣𝑎𝑠𝑜 cm/s x cm2 = cm3/s = ml/s
Il flusso dipende dal volume e dalla sezione del vaso cardiovascolare.
La gittata cardiaca è invece la quantità di sangue che i ventricoli sx e dx pompano rispettivamente
nell’aorta e nell’arteria polmonare nell’unità di tempo.
𝐺𝑐 = 𝐺𝑠 × 𝑛
Legge di Poiseuille
Una delle leggi principali che descrive l’emodinamica è la cosiddetta legge di Poiseuille.
È una legge che è stata scoperta per via
empirica dalle osservazioni cliniche del
medico francese Poiseuille.
Questa legge descrive il flusso del sangue,
cioè descrive come arriviamo ad ottenere i
valori di flusso per il sangue tenendo conto
della pressione e della resistenza.
La legge di Poiseuille dice in linea generale
che il flusso è direttamente proporzionale al
gradiente di pressione ed è inversamente
proporzionale alla resistenza, crescerà
all’aumentare del raggio, piccoli aumenti di
raggio daranno grandi aumenti di flusso, e
diminuirà all’aumentare della viscosità del sangue e all’aumentare della lunghezza del vaso.
La resistenza di un vaso dipende dalla viscosità del sangue, dalla lunghezza di un vaso, da π e dal raggio del
vaso elevato alla quarta potenza (r4).
La resistenza opposta da un vaso al passaggio del sangue aumenta all’aumentare della viscosità del sangue
e all’aumentare della lunghezza del vaso. Diminuisce invece all’aumentare del raggio, poiché il raggio è alla
quarta potenza, piccoli incrementi di raggio danno effetti sulla resistenza.
Nell’immagine abbiamo un contenitore nel
quale la colonna dell’acqua è quella che esercita
una pressione. Dal contenitore fuoriescono due
vasi di diversa grandezza.
A parità di pressione, di lunghezza e di liquido, il
calibro del vaso influenzerà il flusso. Dal vaso ad
alta resistenza si raccoglie a parità di pressione
un flusso minore, il flusso è maggiore invece, nei
vasi a resistenza più bassa.
Nei vasi il calibro come abbiamo detto può
variare variando lo stato di contrazione delle
cellule muscolari lisce che compongono la
tonaca media del vaso. Se queste cellule si contraggono il vaso diminuisce il proprio calibro mentre se si
rilassano il vaso aumenta il proprio calibro.
Il flusso sarà dunque condizionato dal variare del calibro nel vaso.
In un circuito normalmente le resistenze di
condotti posti in serie si sommano.
Anche alcuni vasi sono in serie, l’aorta che
esce dal cuore ad esempio, è in serie rispetto
al cuore.
Se come abbiamo detto sommiamo le
resistenze in serie, avremmo una resistenza
all’infinito e il flusso si interromperebbe
perché ci vorrebbero delle pressioni
elevatissime.
In realtà nel sistema vascolare, abbiamo
condotti in serie e condotti in parallelo.
Nelle resistenze in parallelo non sarà più la somma della resistenza ma 1/Rtot= 1/R1+1/R2…
Il fatto che i condotti sono in parte in parallelo, non porta all’infinito le resistenze periferiche.
Il grande circolo viene anche detto ad alta resistenza, mentre il distretto polmonare è un distretto a bassa
resistenza.
Importante è che esca tanto sangue quanto ne entra.

All’interno dei vari distretti il volume deve essere


uguale e deve distribuirsi in maniera adeguata. Ciò
dipende dall’area del vaso e dall’area totale del
distretto considerato.

Quando parliamo di distretti circolatori e


dunque quando parliamo di vasi in parallelo
tra loro, la superfice di cui dobbiamo tenere
conto per calcolare il flusso in ingresso e in
uscita è l’area data dall’area totale di tutto il
distretto.
Maggiore sarà l’area totale minore sarà la
velocità del sangue.
La velocità minore è a livello del letto
capillare.
Questo è estremamente funzionale per il
corretto funzionamento dei capillari, che sono
i cosiddetti vasi di scambio.
A livello dei capillari il sangue arriva con un
andamento lento che gli permette di avere il tempo sufficiente per effettuare lo scambio con i distretti
tissutale nel quale si trova.
Andamento della pressione ematica
Se consideriamo l’andamento della pressione
all’interno dell’intero sistema cardiovascolare
abbiamo sempre un grafico in cui sono visibili
dei massimi della pressione, che chiameremo
pressione sistolica. Il massimo della pressione
a parte che nel ventricolo sinistro si raggiunge
nei vasi arteriosi.
Man mano che andiamo verso i capillari il
valore della pressione si riduce per arrivare ai
minimi nei vasi di capacità, cioè nelle vene.
Dopodichè recuperiamo valori più alti nel
ventricolo di destra e nelle arterie polmonari
per poi man mano riscendere fino ad arrivare
di nuovo ai vasi di
capacità che ritornano al
cuore.
Ciò ci mostra come il
sangue si muove da zone
ad alto valore pressorio, a
zone a più basso valore
pressorio, seguendo
dunque il gradiente di
pressione.

Modalità di scorrimento del sangue


Le leggi fin ora descritte servono per
descrivere le modalità di scorrimento del
sangue nei vasi.
Possiamo avere un andamento di tipo
laminare e un andamento di tipo turbolento.
Il moto turbolento è il moto disordinato di un
liquido.
Il moto laminare, invece, è un moto
organizzato in maniera ordinata. Nel caso del
sangue si realizza in vasi di piccolo calibro.
Se noi guardiamo vasi di piccolo calibro
riusciamo ad osservare la cosiddetta
parabola del flusso nella quale abbiamo una zona centrale caratterizzata da una velocità massima la quale
diminuisce man mano che ci avviciniamo verso le pareti dei vasi.
Ciò avviene in quanto il liquido è come se scorresse in lamine concentriche con la lamina centrale a più alta
velocità. Andando verso le pareti la velocità diminuisce perché queste esercitano una forza frenante.
Questo flusso come abbiamo detto si realizza nei vasi di piccolo calibro, è un flusso quieto in cui le particelle
scorrono in maniera ordinata.
Il flusso turbolento è invece caratterizzato dal moto vorticoso e disordinato delle particelle, quindi
energeticamente dispendioso. È un flusso rumoroso in quanto le particelle sbattono contro le pareti
generando un rumore. Si ha in vasi di grosso calibro, in prossimità delle ostruzioni, delle biforcazioni dei
vasi, in prossimità di restrizioni o di allargamenti, in prossimità delle zone di gomito o ancora in zone dove il
vaso presenta una rottura.

E’ un flusso che può essere pericoloso, ad esempio nel caso degli


aneurismi. Questo flusso di particelle va ad esercitare delle forze
anomale sulle pareti dell’aneurisma, rischiando di farlo rompere.
Il flusso passa da laminare a turbolento grazie ad una velocità critica che
contiene in sé il cosiddetto numero di Reynolds che tiene conto della
velocità del sangue, della densità, della viscosità e del diametro.
E’ un numero adimensionale, quando il sangue raggiunge il numero di
Reynolds pari a 1000, transita da modalità laminare a modalità turbolenta.

Una delle conseguenze del flusso laminare è il plasma skimming o


anche scrematura del plasma.
Prendendo il sangue che scorre in un vaso con flusso laminare e
raccogliendolo nella zona centrale del vaso, possiamo notare che
paragonando l’ematocrito di questa zona centrale all’ematocrito
di una zona periferica, l’ematocrito della zona centrale è più alto di
quello della periferia.
Questo perché sommando i vettori velocità otteniamo una forza
risultante che spinge il globulo rosso verso l’asse centrale del vaso.
Il meccanismo di plasma skimming fa si che alla biforcazione, il sangue che va nella biforcazione sia quello
che è prossimo alla parete dei vasi e che conterrà dunque un minor numero di globuli rossi, ciò permette la
conservazione dell’ematocrito per il vaso successivo.
Molti sono i meccanismi che controllano il corretto scorrimento del sangue nei vasi:
-Possono essere meccanismi di tipo nervoso e dipendono in questo caso dal Sistema nervoso Autonomo;
-Può esserci un controllo di tipo ormonale, in quanto una serie di sostante possono agire per far variare la
resistenza dei vasi. Abbiamo infatti ormoni che incrementano la resistenza o ormoni che diminuiscono la
resistenza (Sistema RAS, peptidi Natriuretici, catecolamine circolanti etc..);
-Può esserci un controllo locale grazie alla capacità intrinseca dei tessuti, cioè alla capacità che hanno i
tessuti di rispondere ad una variazione omeostatica, di pressione, di flusso o di resistenza, generando una
risposta intrinseca.
Flusso ematico cardiaco
Circolazione → sistema di vasi di vario calibro che trasportano il sangue dal cuore verso la periferia
sistemica e polmonare e poi da tali periferie il sangue ritorna al cuore tramite dei vasi che hanno proprio la
funziona di raccogliere il sangue e di portarlo verso le camere cardiache.

Il cuore è diviso in
quattro camere,
due camere
chiamate atri e due
camere chiamate
ventricoli, può
essere diviso in una
metà destra e in
una metà sinistra e
per ogni metà
avremo un atrio e
un ventricolo.
Il cuore ha una
forma globosa con
una porzione
conica che è la
porzione
ventricolare che
termina con l’apice
ventricolare. Nella parte superiore vi è la base del cuore, dove sono contenuti gli atri. Gli atri sono separati
dai ventricoli da due regioni che presentano dei lembi valvolari, questi si chiamano osti atrioventricolari.
Tali valvole servono per evitare il reflusso, saranno dunque aperte o chiuse a seconda del momento in cui le
consideriamo. In questo modo il sangue può dirigersi dagli atri verso i ventricoli senza tornare indietro, a
meno che non siano presenti dei difetti valvolari che vanno recuperati chirurgicamente. Le valvole
disfunzionali vengono dette incompetenti.
Il sangue quindi dagli atri va verso i ventricoli passando dagli osti atrioventricolari e poi dai ventricoli
fuoriesce nei vasi arteriosi, i quali sono governati da valvole che sono in questo caso semilunari.
Una differenza importante tra atri e ventricoli è che la parete degli atri è una parete sottile, mentre le
pareti dei ventricoli sono delle pareti molto più spesse, in particolare il muro ventricolare del ventricolo
sinistro è molto più spesso ripetto al ventricolo destro. In entrambi i casi, il tessuto che costituisce entrambi
le pareti è tessuto muscolare cardiaco.
Atrio destro e atrio sinistro sono separati tra di loro dal setto interatriale, ventricolo destro e ventricolo
sinistro sono separati dal setto interventricolare. Nei mammiferi non c’è comunicazione tra i due atri o tra i
due ventricoli.
All’interno delle cavità ventricolari, il muscolo ventricolare forma delle estroflessioni che si chiamano
muscoli papillari collegati attraverso delle fibre connettivali, le corde tendinee ai lembi valvolari.
Queste corde tendinee consentono durante la contrazione cardiaca la perfetta chiusura dei lembi valvolari.
Una parte importante all’interno del cuore è quella che si occupa di generare e veicolare l’impulso elettrico.
Il muscolo cardiaco abbiamo detto essere un muscolo striato, come quello scheletrico, ma involontario
come quello liscio, non ha cioè le placche motrici, non si contrae perciò quando arriva il potenziale d’azione
da parte del motoneurone.
Il cuore è regolato dal sistema nervoso ma non parte l’attività cardiaca in base all’arrivo di un potenziale
d’azione come avviene nel muscolo scheletrico.
Il cuore è un organo autonomo ed in particolare è dotato di una sua autoritmicità, si contrae in maniera
pulsatoria poiché è in grado di generare da solo in proprio battito, il potenziale d’azione che fa si che tutto il
cuore si possa contrarre. Questo potenziale d’azione si sviluppa all’interno delle cellule del nodo seno-
atriale, in quella regione posta nell’atrio destrio vicino allo sbocco delle vene cave, dove c’è una massa di
tessuto cardiaco che non è altro che un tessuto muscolare modificato, non più in grado di contrarsi, ma con
una capacità elettrica. In questa regione si svilupperà dunque il potenziale pacemaker.
Nel nodo seno-atriale si genera questo impulso elettrico che si propaga da cellula in cellula attraverso il
sistema di conduzione. Le fibre di conduzione si propagano in parte verso il ventricolo, formando il nodo
atrio-ventricolare da cui partono due rami di cellule elettriche che vanno a formare il fascio di Hiss che
decorre all’interno del setto interventricolare attraverso una branca destra ed una branca sinistra, arriva
all’apice ventricolare, ramifica formando delle fibre più disperse nel tessuto, le fibre del Purkinie e risale
nella parete ventricolare così da raggiungere tutte le zone del cuore.

Sistema di conduzione

Sistema
coronarico

Il cuore è irrorato dai vasi coronarici, anche questi arteriosi e venosi, che prendono il sangue che fuoriesce
dal ventricolo sinistro attraverso un piccolo foro nella zona di uscita dell’aorta chiamato ostio coronarico, e
lo portano a tutte le cellule cardiache.
Tale circolazione coronarica è fondamentale perché il cuore è un organo ad alto consumo energetico la cui
attività è costante e richiede perciò un approvvigionamento di ossigeno e nutrienti molto alto.
Come un normale tessuto c’è dunque un sangue che porta al cuore i nutrienti e l’ossigeno ed un sangue che
porta via dal cuore i metaboliti e le sostanze di scarto.
Il cuore è formato da un miocardio comune che è quello visivamente più presente, costituito da cellule
muscolari dotate di eccitabilità, contrattilità, refrattarietà e in grado di condurre lo stimolo perché
accoppiate elettricamente le une alle altre attraverso le zone a bassa resistenza elettrica.
Accanto c’è il miocardio di conduzione, dotato di eccitabilità, contrattilità estremamente ridotta,
refrattarietà prolungata, conduzione, automatismo e ritmicità.

Con “miocardio” si intende il potente muscolo cardiaco, che forma il cuore e permette la sua azione
propulsiva. È composto per il 70% da fibre muscolari, mentre il restante 30% è costituito principalmente
da tessuto connettivo e da vasi. Il miocardio è un ibrido dei due tessuti muscolari presenti nel corpo
umano; riconosciamo, infatti, caratteristiche appartenenti al tessuto muscolare scheletrico (tessuto
muscolare striato) e altre caratteristiche del tessuto muscolare liscio. Fondendo insieme caratteristiche
di entrambi i tessuti, il cuore può raggiungere le migliori prestazioni per quanto riguarda la sua funzione
di pompa, cioè possiede capacità di contrazione rapida e potente, pur rimanendo resistente e
performante sul “lungo periodo”. Il miocardio è lo strato più spesso della parete cardiaca ed è
composto dal cosiddetto “miocardio di lavoro”, cioè la parte pulsante, e dal “miocardio di
conduzione”, ovvero la parte trasmittente l’impulso. La struttura del miocardio è rivestita internamente
da endotelio chiamato endocardio mentre, per la parte esterna, da una membrana sierosa
detta pericardio.
L’endocardio ha il compito di rivestire internamente il cuore ed è un tessuto molto sottile, a sua volta
suddivisibile in tre strati: l’endotelio, la lamina propria e lo strato sottoendocardico (nel quale si trovano
anche le diramazioni terminali del sistema di conduzione cardiaco).

Il pericardio è una sottile membrana di origine mesodermica che circonda il cuore. Questa struttura,
spessa circa 20 µm, è costituita da due strati distinti:
-pericardio fibroso è lo strato più esterno;
-pericardio sieroso è lo strato più interno e aderisce perfettamente a tutte le parti piane e a tutte le
insenature del miocardio. Il pericardio sieroso è costituito da due foglietti di origine celomatica,
il foglietto parietale (costituito da uno strato di cellule mesoteliali e da uno strato fibroso di collagene
secreto da particolari cellule dette pericardiociti), e un secondo, il foglietto viscerale (anche chiamato
epicardio), a livello dell’origine dei grossi vasi del peduncolo vascolare, costituito solo da uno strato di
mesotelio. Fra i due foglietti del pericardio sieroso sono presenti normalmente da 20 a 50 ml di liquido
chiaro roseo -detto liquido (o liquor) pericardico.
L’epicardio, come abbiamo appena visto, è il foglietto viscerale che – assieme al foglietto parietale –
compone il pericardio, cioè il rivestimento esterno del cuore; è costituito da mesotelio (simile
all’endotelio), da uno strato di tessuto adiposo e da uno strato detto “sottoepicardico”, in cui si
osservano i rami più grossi delle coronarie.

dischi intercalari→ zone ricche di gap


junction, zone di passaggio del segnale;

Funzione cardiaca
La funzione cardiaca può essere controllata attraverso dei parametri, detti parametri cardiaci.
Il cuore come sappiamo è un organo pulsatile, la sua attività subisce momenti di rilassamento e momenti di
contrazione. Quest’alternarsi di contrazione e rilassamento ha una sua ritmicità che è espressa dalla
frequenza cardiaca (battiti/minuto). I battiti sono quelli che noi percepiamo e altro non sono che le
contrazioni del cuore.
Il cuore ha una sua frequenza che si aggira intorno ai 65/70 battiti al minuto in condizioni di riposo. Tale
frequenza non è costante ma è fisiologicamente variabile.
Inoltre, come sappiamo, il cuore genera pressioni per spostare volumi, un altro parametro per valutare il
funzionamento del cuore consiste nel verificare la capacità del cuore di spostare volumi. Ciò può essere
verificato analizzando la gittata. Abbiamo una gittata sistolica ed una gittata cardiaca, la gittata sistolica è il
volume di sangue che lascia i ventricoli per andare nelle arterie ad ogni battito (ml di sangue/battito).
Questo valore è fondamentale perché se il cuore lavora generando pressioni per spostare volumi, è bene
che siano corretti i volumi che devono essere spostati.
La gittata cardiaca è data invece dagli ml di sangue espulsi nell’unità di tempo. (gittata sistolica x
frequenza).
Ogni volta che il cuore varierà la propria frequenza, se la gittata sistolica rimane costante, varierà la gittata
cardiaca.
Al livello del nodo seno atriale si genera un
potenziale d’azione che si propaga attraverso le
pareti atriali, arriva nel nodo atrio-ventricolare e
attraverso la branca destra e la branca sinistra del
fascio di His arriva all’apice e raggiunge tutte le fibre
del Purkinje.
Le fibre hanno la capacità di condurre l’impulso a velocità differente.

Tutto ha inizio dal potenziale


pacemaker, caratterizzato dal fatto
che le cellule nodali sono cellule con
un potenziale di riposo instabile,
intono a -60 mv. Queste cellule
subiscono una prima depolarizzazione
nella quale alcuni canali al calcio si
aprono, il sodio entra attraverso i
canali funny attivatisi alla
ripolarizzazione precedente. Grazie
all’apertura dei canali al calcio si ha il
potenziale al calcio, man mano si
chiudono i canali al calcio, si aprono i
canali al potassio e la membrana
ripolarizza, mentre ripolarizza si
aprono i canali funny, la membrana poi depolarizza di nuovo spontaneamente e riprende l’andamento del
potenziale. Abbiamo perciò un potenziale che si rigenera in quanto si aprono da soli i canali funny.
Ciò avviene nelle cellule nodali e poi si propaga a tutte le altre cellule.

La refrattarietà assoluta è un meccanismo importantissimo di salvaguardia per il cuore, perché dato che
tutta l’attività cardiaca è data dal succedersi di potenziali d’azione, variando la frequenza di generazione dei
potenziali, la refrattarietà garantisce la sincronicità. Il muscolo cardiaco non è inoltre tetanizzabile, i
potenziali non sono sommabili.
I due meccanismi sono connessi tra di loro e garantiscono la corretta e lineare ritmicità del cuore.
Esistono vari tipi di
potenziali perché sulle
varie cellule cardiache
sono presenti diversi
tipi di canli.
La mutazione di uno
solo dei canali sono
causa di diversi
problemi, come ad
esempio la morte in
culla.
Tutto ciò si traduce
nelle cellule cardiache
nella contrazione.

Il cuore viene modulato dal sistema nervoso e per essere


modulato deve essere innervato. Il sistema nervoso media la
regolazione rapida anche sul cuore e il cuore essendo un
organo viscerale è il bersaglio del sistema nervoso autonomo,
quindi del sistema nervoso simpatico e del sistema nervoso
parasimpatico.
Entrambe le divisioni del sistema nervoso raggiungono il cuore.
Un tempo si riteneva che il parasimpatico raggiungesse solo le regioni atriali e che fosse responsabile della
regolazione solo dell’attività atriale, mentre il sistema ortosimpatico si pensava raggiungesse solo le regioni
ventricolari e quindi fosse responsabile di un controllo ventricolare selettivo. Oggi sappiamo che il sistema
nervoso simpatico e parasimpatico raggiungono tutte le regioni cardiache, in particolare il parasimpatico ha
un’attività importante sulle cellule elettriche ma svolge anche azioni di controllo della contrazione, mentre
il simpatico è prevalentemente incaricato al controllo della contrazione ma altrettanto in maniera
importante regola la ritmicità.
Il nervo parasimpatico che innerva il cuore è il nervo vago, che raggiunge il cuore mediante le sue branche
cardiache superiori ed inferiori e toraciche del vago destro e sinistro. Le fibre terminano al nodo seno-
atriale ed in misura minore al miocardio ventricolare.
Le fibre simpatiche derivano dai segmenti T2-T4 della corda spinale e sono distribuiti attraverso gangli
cervicali-mediani e toraco-cervicali (o stellati) e dai primi 4 gangli della catena simpatica toracica. Le fibre
passano nel plesso cardiaco e poi arrivano al nodo seno-atriale.
All’interno del cuore si trovano distribuiti degli ammassi di tessuto nervoso che vanno a formare i cosiddetti
gangli intracardiaci. Questi funzionano come dei gangli autonomi, sono raggiunti dalle fibre nervose
estrinseche, esterne al cuore e raccolgono gli impulsi che derivano dai recettori sensoriali che si trovano
all’interno del cuore e che percepiscono per esempio lo stiramento, integrando le risposte.
Esiste una comunicazione costante tra il cuore ed il sistema nervoso, si viene dunque a formare il
cosiddetto asse cuore-cervello, nel quale lo scambio di informazioni tra il cuore e il cervello è costante.
Il cuore riceve il controllo operato dal nervo vago e dalle vie simpatiche, ma nello stesso tempo dal cuore
partono dei segnali che vanno verso le aree superiori.
Dal punto di vista del controllo
nervoso gli effettori molecolari umorali
che agiscono sul cuore sono
l’acetilcolina, l’adrenalina e la
noradrenalina.
Il controllo operato dall’acetilcolina
avviene attraverso i recettori
muscarinici di tipo M2 che agiscono
attraverso proteine G inibitorie.
Queste proteine G inibitorie vanno a
modulare l’attività nei canali per il
potassio e per il calcio, quindi
modulano facendo si che l’acetilcolina
vada ad agire rallentando ad esempio
il battito cardiaco o ancora sui canali
funny. Mentre le catecolamine attraverso le proteine G stimolatorie e attraverso i recettori β-adrenergici
andranno a stimolare la cascata della chinasi che attivano e controllano la contrazione ma anche
l’elettricità.
Nella pratica clinica, tutta l’attività
cardiaca viene visualizzata utilizzando
l’elettrocardiogramma.
L’elettrocardiogramma è una
metodica non invasiva che registra
l’andamento dell’onda elettrica nel
cuore. Quello che si registra non è un
potenziale d’azione ma è lo
spostamento dell’onda elettrica nelle
varie regioni. L’onda che si registra
rappresenta la sequenza della
depolarizzazione e della
ripolarizzazione degli atri e dei
ventricoli.
L’onda cosiddetta P corrisponde alla
depolarizzazione degli atri, cioè quando
il potenziale d’azione incomincia a
livello atriale. Dalle zone nodali si
sposta verso i ventricoli. All’onda P fa
seguito quello che viene chiamato
complesso QRS, con una zona negativa
Q, una zona positiva R ed un’altra zona
negativa S. Il complesso QRS
corrisponde alla depolarizzazione dei
ventricoli. Q rappresenta il momento in
cui si depolarizza il setto
interventricolare. Segua a tale
complesso un’onda T detta
ripolarizzazione ventricolare.
Di questo elettrocardiogramma si analizza lo sviluppo dei picchi, il tempo tra un picco e l’altro, lo sviluppo
delle zone negative.
Per il cardiologo ogni elemento dell’elettrocardiogramma è indicativo del corretto o non corretto
funzionamento del cuore.
Vedremo che il tempo tra P ed R rappresenta il tempo della conduzione atrioventricolare, cioè il tempo che
ci mette il potenziale d’azione ad andare dal nodo seno-atriale fino ai ventricoli.
Il tratto ST ci dice la durata della ripolarizzazione ventricolare.
Il complesso QT indica tutta la sistole elettrica ventricolare.
O ancora la distanza tra il picco R ed il successivo picco R che ci dice la durata del ciclo cardiaco.
Sistema linfatico
Accanto alla circolazione ematica, vi è un altro sistema
circolatorio, che è il sistema circolatorio cosiddetto linfatico. Il
sistema circolatorio linfatico è importante nelle funzioni che
svolge.
La linfa è un liquido biancastro che contiene una serie di ioni,
proteine, grassi, cellule di tipo linfatico.
Fa parte del sistema immunitario, contribuisce a filtrare, catturare
e distruggere i patogeni.
Assorbe i grassi a livello dell’intestino, che vengono recuperati
dall’alimentazione, e li versa nella circolazione sistemica.
A livello del tessuto periferico svolge la funzione di raccogliere
liquidi e proteine che vengono filtrate dal sangue per dirigerle
nuovamente nel circolo sistemico.
Il sistema linfatico non è un circuito chiuso, ma un circuito aperto
fatto da vasi di calibro sempre maggiore che nascono a fondo
cieco dispersi all’interno della nostra periferia tissutale.
In questo sistema la linfa si muove in una direzione unidirezionale
andando dai tessuti verso il circuito ematico versandosi all’interno
del torrente ematico.
In periferia i vasi linfatici sono organizzati in prossimità dei vasi
sanguigni.
I vasi sanguigni derivano dalle arteriole e
possiedono quindi un capo arteriolare e in
continuità seguono il proprio percorso nelle
venule e quindi nei vasi venosi.
Nel caso dei vasi linfatici non c’è la divisione
in arterie e vene linfatiche.
Nella periferia tissutale i vasi sanguigni e i vasi
linfatici sono in comunicazione tra di loro. Le
sostanze contenute all’interno dei vasi
sanguigni passano nell’interstizio quindi
nell’ambiente extra vascolare, dall’ambiente
extra vascolare possono andare verso il
sangue, ma in questo scambio di sostanze
partecipano anche i vasi linfatici, che
recuperano acqua e soluti che provengono dai
capillari sanguigni e li reimmettono nella
circolazione generale.
Questi scambi sono governati dalla differenza di pressione che c’è nei vari ambienti coinvolti nello scambio.
Nell’immagine abbiamo un capillare con una regione venosa ed una regione arteriosa, il sangue transita in
questo distretto capillare e la pressione con la quale il sangue perfonde questo distretto vascolare decresce
man mano che ci spostiamo dal capo arteriolare verso il capo venulare.
La pressione idraulica diminuirà man mano che andiamo verso l’uscita dal letto vascolare. Questa pressione
idraulica è quella forza che esercita il sangue sulle pareti del vaso alla quale si oppone la forza che il vaso
stesso esercita sul sangue. Ma questa è una forza che tende a favorire la fuoriuscita di liquidi dal sangue
verso l’interstizio.
Quando il sangue entra nel capo arteriolare arriva ad una pressione pari a 30 mmHg e fuoriesce nel lato
venoso con una pressione di 15 mmHg. La forza esercitata quindi dal sangue all’inizio è sicuramente
maggiore di quella alla fine del capillare. La pressione idraulica che tende a spingere il liquido fuori dal
capillare sarà maggiore all’inizio e minore alla fine, questa forza è favorevole alla filtrazione, cioè questa
forza è una forza che favorisce la fuoriuscita del liquido, appunto la filtrazione.
Diminuisce la forza e quindi anche la filtrazione man mano che transitiamo dal capo arterioso al capo
venoso del capillare. In questo gioco di forze, a questa forza idraulica si oppone una pressione
colloidosmotica, cioè la pressione esercitata dalle proteine contenute all’interno dei capillari. Questa forza
colloidosmotica rappresenta una forza che richiama liquido dai tessuti verso il capillare. Questo gradiente
osmotico crescente verso l’interno del capillare è una forza che fa entrare il liquido dall’ambiente extra-
vascolare verso il capillare. Questa pressione osmotica non varia man mano che avanziamo dal capo
arterioso fino al capo venoso, proprio per questo gioco di movimento di liquidi. Da un lato entra il liquido
chiamato dal gradiente osmotico a cui si oppone l’uscita di liquido dato dalla pressione idraulica.
In questo gioco di forze avremo che all’inizio nel letto capillare arterioso il liquido verrà filtrato, preverrà la
forza idraulica. Man mano che la forza idraulica diminuisce e la pressione colloidosmotica rimane, l’efficacia
in termini di filtrazione diminuisce e quindi quando arriviamo verso il capo venoso, il liquido tenderà ad
entrare avremo dunque un assorbimento, proprio perché prevale la pressione colloidosmotica.
Ciò sta a significare che tra i capillari e il tessuto circolante c’è uno scambio. In questo gioco di filtrazione e
di assorbimento i capillari linfatici agiscono recuperando i soluti che sono fuoriusciti dai capillari cosicché
nell’interstizio non si generi un accumulo di liquido.
La periferia linfatica è dunque fondamentale per avere una giusta quantità di liquido e di soluti.
Il liquido recuperato dai capillari
linfatici viene poi convogliato nei vasi
linfatici. Una quota di linfa passa
dall’intestino; nella parete intestinale
scorrono dei vasi linfatici che
mandano un ramo, chiamato appunto
vaso chilifero, all’interno del villo
intestinale. All’interno del villo la
regione ricca di vasi si chiama
scheletro vascolare del villo, questo
contiene un capillare linfatico che
raccoglie i grassi che sono stati
assorbiti dalle cellule dell’epitelio.
Questo circuito poi attraverso vasi di
calibro sempre maggiore raggiunge la
regione della vena cava superiore e in
prossimità della succlavia i vasi
linfatici si versano nei vasi sanguigni.
Lungo il percorso dei vasi linfatici si
trovano i gangli linfatici e i linfonodi. I
gangli linfatici sono quelle zone di
tessuto connettivo che hanno una
funzione importante nella risposta
immune.
Il passaggio delle sostanze dal tessuto
verso il capillare linfatico avviene
perché la struttura dei capillari linfatici
lo favorisce.
Le cellule che formano il capillare
linfatico sono cellule endoteliali
linfatiche, disposte a formare queste
strutture vascolari sovrapponendosi le
une con le altre. Questa
sovrapposizione fa si che ci siano degli
spazi aperti di passaggio per i fluidi e per le proteine. In queste zone le cellule sono ancorate al tessuto
connettivo attraverso dei filamenti che contribuiscono ad aprire i varchi tra una cellula e l’altra così da
generare dei percorsi che favoriscono il passaggio dei liquidi dal tessuto verso il capillare.
Il percorso della linfa lungo i vasi linfatici è garantito dalla presenza di strutture ghiandolari, molto più
pronunciate di quelle presenti nelle vene, fondamentali perché in questo caso la linfa si sposta ma non è
mossa dalla pressione generata dall’organo propulsore che è il cuore, quindi la possibilità che ritorni
indietro nel suo percorso è molto elevata e ciò non avviene proprio ad opera di tali valvole che occludono il
passaggio ogni qual volta si muove la linfa.

Il ciclo cardiaco
Il cuore è quell’organo che agisce come una pompa emodinamica che grazie all’alternarsi di fasi di
contrazione, chiamata sistole e di rilassamento, chiamata diastole, causate da una serie di eventi elettrici fa
si che si generino pressioni per spostare volumi.
Si tratta di una pompa che ha un’attività ciclica pulsatoria non intermittente, questa attività ciclica si
sviluppa in ciò che viene chiamato ciclo cardiaco.
Il ciclo cardiaco descrive gli eventi che avvengono nel cuore e che si ripetono ciclicamente a seguito del
generarsi nelle cellule del nodo seno-atriale del potenziale d’azione pacemaker che abbiamo visto si
distribuisce poi a tutto il cuore attraverso il sistema di conduzione e che si rigenera spontanemente nelle
cellule pacemaker fornendo la capacità auto-ritmica al cuore.
Poiché il potenziale d’azione del pacemaker è l’evento numero uno dell’attività cardiaca e si ripete
ciclicamente, tutti gli eventi conseguenti a questo potenziale sono eventi ciclici.
Il ciclo cardiaco è dato sostanzialmente dall’alternarsi di sistoli e diastoli, cioè di fasi di contrazione
conseguenti all’arrivo dell’onda del potenziale d’azione e diastoli, cioè fasi di rilassamento, quando il cuore
è elettricamente a riposo.
Ogni ciclo cardiaco è costituito da una sistole, una protodiastole e una diastole, nell’uomo il ciclo ha una
durata di circa 0,8 sec ed ha inizio con la constrazione degli atri in quanto gli atri sono i primi che ricevono
l’onda di depolarizzazione e pertanto sono i primi che vanno in contrazione.
La durata del ciclo è condizionata dalla frequenza
cardiaca, cioè dalla velocità con la quale il potenziale
d’azione si genera a livello del nodo seno-atriale.
Il ciclo cardiaco sarà più lungo se i potenziali d’azione
sono più distanziati tra loro, sarà più corto se i
potenziali pacemaker saranno più vicini tra loro.

Il ciclo cardiaco può essere analizzato in


funzione dell’elettrocardiogramma che
abbiamo detto essere la rappresentazione
sulla superficie corporea del movimento
dell’onda elettrica nel cuore a partire dal
nodo seno-atriale.

Il ciclo cardiaco è stato studiato sin dagli anni 40 del


secolo scorso con strumenti per quei tempi
all’avanguardia.
Per valutare ciò che avviene nel cuore è necessario
misurare le pressioni nelle varie camere, per fare ciò
sono stati utilizzati degli strumenti chiamati trasduttori
di pressione in grado di trasformare la pressione in
segnale elettrico il quale viene poi registrato da un
ulteriore strumento.
Fu inoltre utilizzato il cardiometro,applicato alle pareti
del ventricolo veniva utilizzata per misurare le
variazioni di dimensione del ventricolo corrispondenti
al volume ventricolare.
Ciò ha consentito di rappresentare graficamente il ciclo cardiaco nel tempo.
Oggi abbiamo la possibilità di descrivere il ciclo cardiaco nella sua forma più nota che va sotto il nome di
diagramma di Wiggers, da colui che lo ha descritto.

Si tratta di un grafico che ci illustra


fase per fase ciò che avviene nel
ciclo cardiaco nelle varie camere
del cuore. E’ rappresentato dunque
l’andamento nel tempo della
pressione degli eventi elettrici
rispetto all’elettrocardiogramma.

Poiché si tratta di un ciclo è importante vedere ciò che avviene in questa serie di eventi ripetitivi che
abbiamo detto partono dalla depolarizzazione delle cellule del nodo seno-atriale dalla quale tutto dipende.
E’ importante precisare che ciò che noi analizzeremo è il ciclo cardiaco della metà sinistra del cuore.
L’andamento delle pressioni è uguale in termini di salire e scendere in entrambi le metà del cuore ma
variano i valori raggiunti.
All’interno del cuore di sinistra, al livello del ventricolo, si sviluppa una pressione intraventricolare molto
più alta rispetto a quella che si sviluppa nel ventricolo di destra. Così come la pressione all’interno dell’aorta
è molto maggiore della pressione all’interno dell’arteria polmonare.
I due cicli, cuore destro e cuore sinistro, hanno una dinamica uguale, ma variano i valori della pressione.
Restano invece uguali i valori dei volumi registrati a destra e a sinistra.

Partiamo dunque ad analizzare il grafico di Wiggers proprio dala depolarizzazione delle cellule pacemaker.
Quando le cellule pacemaker depolarizzano e dunque c’è il potenziale d’azione, il muscolo cardiaco atriale è
rilassato. Il fatto che il muscolo sia rilassato fa si che all’interno degli atri ci sia un valore di pressione basso
quasi pari a 0.
Nel momento in cui incomincia l’onda di depolarizzazione questa invade la muscolatura atriale che riceve
un’onda elettrica. Attraverso le gap junction l’onda elettrica passa dal tessuto di conduzione al miocardio e
depolarizza la membrana delle cellule muscolari cardiache atriali. La conseguenza di questo è che le cellule
attivano il rilascio di calcio, si libera il calcio e si attiva l’apparato contrattile.
Quando il muscolo cardiaco va in contrazione le camere atriali incrementano la propria pressione, in questo
caso l’atrio di sinistra, aumenta dunque la pressione registrata nella camera atriale sinistra.
Man mano che passa il tempo l’onda di depolarizzazione passa dagli atri ai ventricoli attraverso il fascio di
His e le fibre del Purkinje, quindi la contrazione si sposta dagli atri verso i ventricoli.
Nel ciclo cardiaco infatti si contrae prima l’atrio e poi il corrispettivo ventricolo, subito dopo che incrementa
la pressione atriale, la pressione ventricolare aumenta molto rapidamente perché le cellule del miocardio
ventricolare vanno incontro ad una contrazione in risposta all’onda elettrica arrivata, questo fa si che
all’interno delle camere ventricolari la contrazione induca un incremento della pressione.
Nel momento in cui inizia il potenziale d’azione nelle cellule pacemaker il sangue proveniente dalla vena
polmonare in questo caso o dalla vena cava se parlassimo della metà destra, sta riempiendo gli atri.
L’atrio sinisto si riempie quindi di sangue, ma questo sangue , prima ancora che l’atrio comincia a contrarsi,
scende direttamente nel ventricolo corrispondente perché le valvole atrio-ventricolari sono aperte. Quando
incomincia la contrazione atriale la pressione che si genera all’interno dell’atrio, rapidamente supera la
pressione che si genera all’interno del ventricolo e il sangue viene spinto all’interno del ventricolo
corrispondente che già si stava riempiendo.
Osservando la curva del volume ventricolare, vediamo che quando incomincia la contrazione degli atri,
aumenta la curva della pressione, il ventricolo è già quasi completamente pieno perché le valvole atrio-
ventricolari ( in questo caso la bicuspide e la mitrale) sono aperte, quindi il sangue che si muove dall’atrio a
pressione maggiore al ventricolo a pressione minore, riempie i ventricoli; quando gli atri vanno in
contrazione il sangue contenuto nell’atrio viene spinto con forza attraverso la valvola ancora aperta e
completa il riempimento ventricolare.
Man mano che l’onda di contrazione dagli atri passa ai ventricoli comincia dunque la contrazione
ventricolare che si esprime con un incremento della forza. La cavità ventricolare sarà in questo momento
piena di sangue che non può tornare nell’atrio in quanto la volvola atrio-ventricolare è chiusa e questo
sangue non riesce ad uscire dal ventricolo perché la valvola che separa il venricolo all’aorta, la semilunare
aortica, è chiusa. La valvola è chiusa perché l’aorta ha una pressione maggiroe di quella del ventricolo.
In questo momento il volume ventricolare non cambia, quindi questa fase di sistole ventricolare è una fase
che avviene senza cambiamento di volume. Questa fase di sistole prenderà il nome di sistole
isovolumetrica (ausometrica). Quando la contrazione del ventricolo continua, la pressione all’interno del
ventricolo raggiunge il valore della pressione aortica e lo supera, a questo punto si apre la valvola aortica, il
ventricolo continua a contrarsi ma l’incremento di pressione coincide con una diminuizione del volume. Il
volume del ventricolo diminuisce perché il sangue si trasferisce dal ventricolo verso l’aorta.
Aumenta il flusso aortico, gli ml di sangue che spariscono dal ventricolo si trasferiscono nell’aorta. Il flusso
aortico raggiunge il suo massimo quando il grafico della pressione ventricolare e aortica altrettanto
raggiungono il suo massimo. Questo tempo si sviluppa in coincidenza con la contrazione ventricolare, man
mano che però passa il tempo i ventricoli ripolarizzano, ci troviamo infatti nell’onda T
dell’elettriocardiogramma. La contrazione ventricolare incomincia dunque a diminuire, la forza sviluppata
dalla contrzione incomincia a diminuire, diminuisce anche la pressione all’interno del ventricolo. In questa
fase finisce la sistole e incomincia la cosiddetta diastole, cioè il rilassamento ventricolare. Il rilassamento
atriale era già incominciato, perché come l’onda elettrica passa dagli atri ai ventricoli, la muscolatura atriale
si rilassa e il sangue ricomincia a riempire gli atri.
Man mano che il muscolo si rilassa diminuisce la pressione fin tanto che la pressione ventricolare diventa
più bassa della pressione aortica.
Fin quando la pressione ventricolare è più alta della pressione aortica il sangue lascia il ventricolo, il volume
ventricolare diminuisce, nella prima fase coincidente con la sistole che si chiamerà in questo caso
isotonica,lo spostamento del sangue è molto rapido. Questa fase si chiama anche fase di eiezione rapida.
Dopo che si è raggiunto il massimo e la pressione ventricolare inizia a diminuire, diminuisce anche la
velocità con la quale il volume ventricolare diminuisce. Il sangue va sempre dal ventricolo all’aorta, ma il
flusso aortico lentamente diminuisce. Questa fase si chiama fase di eiezione lenta o anche diastole
isotonica in quanto avviene a volume variabile ma a pressione che tende il più possibile ad essere costante.
Diminuiscono via via sia la pressione del ventricolo sia la pressione aortica, quando la pressione ventricolare
diventa più bassa della pressione aortica si chiudono le valvole aortiche. Il sangue che ha lasciato il
ventricolo e va nell’aorta non può tornare indietro nonostante il gradiente pressorio potrebbe essere
favorevole. A questo punto il flusso aortico è al minimo, il sangue avanza, il ventricolo si rilassa intanto che i
valori della pressione ventricolare scendono al di sotto di quelli della pressione atriale.
In questo periodo avviene quella che va sotto il nome di diastole o rilassamento isovolumico. Il volume
ventricolare ha raggiunto il suo minimo e rimane costante per tutto il tempo della diastole isovolumetrica.
La diastole isovolumetrica finisce quando la pressione ventricolare diventa più bassa della pressione atriale,
si riaprono le valvole atrio-ventricolari e il sangue che stava arrivando nell’atrio si trasferisce nel ventricolo
attraverso le valvole aperte. Seguendo il gradiente pressorio incomincia dunque il riempimento
ventricolare. La curva del volume ventricolare sale in quello che va sotto il nome di riempimento rapido o
riepimento passivo. Questo riempimento ventricolare continua fino a che un altro potenziale d’azione non
si genera nel nodo seno-atriale, l’atrio si contrae e il riempimento ventricolare si conclude quando durante
la sistole degli atri il sangue viene spinto dentro i ventricoli dalla contrazione atriale.
I ventricoli si riempiono dunque all’inizio in maniera passiva molto rapidamente attraverso le valvole aperte
ma il termine del riempimento ventricolare è determinato dall’incremento della pressione dovuto alla
contrazione atriale che spinge il sangue all’interno dei ventricoli.
Possiamo registrare i toni cardiaci, che sono tendenzialmente 4, due sono i toni principali, gli altri sono toni
minori. I toni cardiaci sono dovuti ai vortici del sangue che sbatte contro le parete, al rimbalzo delle valvole,
al movimento e al rumore che fanno i lembi valvolari quando si chiudono o quando si aprono o ancofra al
passaggio del sague con moto turbolento.
Sul grafico del ciclo cardiaco possiamo anche rappresentare quello che avviene a livello coronarico. Le
coronarie ricevono il sangue in uscita dal ventricolo, però tali coronarie hanno valori di flusso coronarico
minimo in coincidenza con la sistole ventricolare, perché la contrazione della parete del ventricolo genera
una forza prevalente che tende a far chiudere i vasi coronarici che sono meno permeabili al sangue di come
non lo sono quando il ventricolo è in diastole. Il rilassamento ventricolare riduce le forze extra-vasali sulle
coronarie per cui il flusso coronarico raggiunge il massimo durante la diastole. Si dice che è un flusso
pulsatile.
Possiamo valutare inoltre un indice di funzionalità cardiaca
importante che è la velocità con la quale il ventricolo si contrae.
Molte sostanze, quali ad esempio le catecolamine come la
noradrenalina, agiscono sulla contrazione aumentando la velocità
con la quale il ventricolo si contrae.
Le catecolamine inducno effetti di potenziamento della contrazione,
sia in termini di forza sviluppata, sia in ternmini di velocità.
Per valutare la velocità occorre calcolare la derivata dello sviluppo
della pressione nel tempo.
In condizioni normali possiamo notare nel grafico una curva
continua. Questa curva può variare per effetto della noradrenalina
ad esempio.
L’attività del cuore può essere influenzata sia sulla velocità di contrazione sia sulla velocità di rilassamento.
Possiamo dunque avere sostanze che hanno un effetto che chiameremo inotropo, cioè che influenza la
forza di contrazione e un effetto che chiameremo lusitropo che riguarda la velocità con la quale il cuore si
rilassa.

Come abbiamo detto durante la fase di riempimento


passivo il ventricolo si riempie perché agisce come
forza che sposta il sangue dagli atri ai ventricoli, il
gradiente pressorio. Questo gradiente pressorio
viene favorito da un meccanismo che è chiamato
meccanismo del piano delle valvole.

Da un punto di vista anatomico le


valvole è come se fossero poste tutte
quante su un'unica superficie, su un
unico piano. Intorno a queste valvole
c’è un anello connettivo che
irrigidisce questo piano chiamato
proprio piano delle valvole e forma
come uno scheletro fibroso del
cuore, una zona più rigida dove si
inseriscono i lembi valvolari. Intorno
al piano delle valvole si sviluppano i
muscoli cardiaci disposti secondo un
andamento spiralato cosicchè ogni
volta che il ventricolo si contrae, il
cuore subisce una leggera torsione
accorciandosi.
Durante la contrazione, durante la dinamica del ciclo cardiaco, le camere ventricolari cambiano volume.
La metà destra e la metà sinistra del cuore si rilassano e si contraggono in sincrono, prima gli atri e poi i
venrtricoli.
Il movimento del piano delle valvole fa si che si generi un ulteriore forza che facilita il riempimento
ventricolare.
Quando il cuore è contratto, durante la fase eiettiva, quando sono chiuse le valvole atrio ventricolari ma
sono aperte quelle arteriose, il piano delle valvole si trova nella prima posizione rappresentata.
Quando il ventricolo si rilassa, il piano delle valvole si sposta verso l’alto, spostandosi verso l’alto è come se
la cavità ventricolare si allungasse, allungandosi, proprio perché il cuore è tenuto fermo, si sposta il piano
delle valvole. Quando il piano delle valvole sale, si genera un ulteriore forza che si aggiunge al gradiente
pressorio e facilita il riempimento ventricolare passivo.
Come possiamo vedere dal grafico il riempimento attivo da un contributo minimo all’intero riempimento
ventricolare. Dopo il riempimento attivo i ventricoli si svuotano e raggiungiamo il minimo.
Avremo un volume telesistolico alla fine della
sistole e un volume telediastolico al termine della
diastole.
Possiamo notare come il ventricolo anche alla fine
della sistole non sia mai completamnte vuoto,
abbiamo circa 50 ml che vanno a formare il volume
ventricolare residuo, un volume tampone.
Possiamo vedere nell’immagine alcuni degli
indicatori di funzionalità cardiaca. Il volume alla
fine della diastole, telediastolico, è un indicatore di
quanto il cuore è capace di distendersi per
accogliere il sangue, il cuore deve avere la capacità
di ricevere il sangue che torna dal circuito sistemico
e dal circuito polmonare, deve dunque avere una capacità distensiva adeguata ad accogliere questo
sangue. Allo stesso tempo non deve però riempirsi troppo.
La differenza tra il massimo del volume e il minimo è il volume di sangue che viene espulso ad ogni
contrazione che abbiamo definito gittata sistolica. Il volume di gitatta sistolica varia in base alla forza che il
cuore è stato in gradi di sviluppare ed è dunque un indice della capacità che ha il cuore di contrarsi.
Il volume ventricolare residuo è uguale ad 1/3 del volume di riempimento totale, è anch’esso un indice di
funzionalità cardiaca. Tutti questi indici di funzionalità vengonn riassunti nella cosiddetta frazione di
eiezione. La frazione di eiezione è il rapporto tra il volume sistolico e il volume telediastolico, un valore
normale è circa 0,60 % - 0,75%. Quando il valore non rientra in questo range il cuore può essere o incapace
di contrarsi in maniera adeguata, quando la gittata è più piccola rispetto a quella normale, oppure può
essere iperdinamico quando il volume di gittata supera quello normale.
Il diagramma di Straub mette in relazione le
variazione di volume in funzione delle variazioni di
pressione. Mettendo sulle x il volume e sulle y la
pressione, possiamo disegnare questa figura
geometrica chiusa nella quale identifichiamo i
punti A,B,C,D,ed F. In A abbiamo il valore più
basso di pressione edi volume, il volume
ventricolare è ridotto, il ventricolo è rilassato, ha
terminato la sua eiezione, si aprono le valvole
atrio-ventricolari ed incomincia il riempimento,
passivo durante la diastole atriale, attivo durante
la sistole atriale. La sistole atriale completa il riempimento ventricolare, avremo il ventricolo con il massimo
del volume, si chiudono le valvole atrio-ventricolari perché incomincia la sistole isovolumetrica, non cambia
il volume ma sale molto velocemente la pressione. Arriviamo dunque al momento in cui si apre la valvola
aortica, inizia a ridursi il volume ventricolare, arriviamo ad un massimo nello sviluppo della pressione dopo
cui inizia piano piano a ridursi la pressione. Prende avvio la diastole isovolumetrica, il rilassamento
ventricolare che continua con la chiusura della valvola aortica, si riaprono le valvcole atrio-ventricolari e il
ciclo ricomincia.
L’area che è compresa all’interno di questa curva descrive
il lavoro cardiaco, cioè il lavoro che copie il cuore per
generare pressioni e spostare volumi.
Anche il lavoro cardiaco è un indice di funzionalità
cardiaca.

L’immagine rappresenta il grafico della pressione


aortica estrapolato dal ciclo cardiaco, vediamoa ncora
una volta che la pressione aortica va da un minimo,
durante la fase ascendente raggiunge un massimo, poi
ridiscende e ritorna verso il minimo. Identifichiamo il
valore minimo e il valore massimo che definiscono la
cosiddetta pressione di polso.
L’onda dicrota indica un rimbalzo in cui la pressione
aumenta di nuovo, ciò è dovuto alla chiusura delle
valvole che causa il rimbalzo del sangue.
L’attività cardiaca è molto intensa e può
svolgersi correttamente solo se il cuore si
trova nelle condizioni metaboliche
opportune. Le prime di queste condizioni
metaboliche sono quelle legate al
rifornimento di O2 e alla rimozione di CO2.
A questo scopo contribuiscono in maniera
importante i vasi della circolazione
coronarica, ossia la circolazione selettiva
del cuore, fittamente organizzata così da
raggiungere tutte le cellule cardiache. Questo modello di organizzazione coronarica è caratteristico dei
mammiferi, degli uccelli, dei rettili, ma ci sono animali privi di circolazione coronarica per cui il loro cuore
viene irrorato in maniera completamente diversa.
L’immagine illustra l’albero coronarico.
Nelle coronarie circola il sangue che deriva da un foro
posto alla radice dell’aorta, che è l’ostio coronarico. Arriva
dunque sangue ossigenato attraverso le arterie
coronariche e si distribuisce nei vasi coronarici.

Come abbiamo visto nel diagramma di Wiggers,


si tratta di un flusso coronarico pulsatile, che ha
dei massimi e dei minimi condizionati dall’attività
del resto del cuore.
Da un lato la perfusione coronarica è consentita
dalla pressione dell’aorta, dall’altro lato le
coronarie hanno una ricca componente
arteriolare che è quella che nei vasi ha sempre la
funzione di regolare le resistenze.
Le resistenze coronariche, come tutte le
resistenze periferiche, sono importanti, per
determinare la pressione che è necessaria al
sangue per attraversare il letto vascolare.
Le coronarie sono però infilate nel muro
ventricolare ed atriale, circondate da tessuto
muscolare che esercita delle forze extra-vasali, i vasi coronarici sono soggetti a delle forze che si sviluppano
nel miocardio nel quale si alternano momenti di rilassamento muscolare durante la diastole e momenti di
contrazione muscolare durante la sistole. Durante la sistole le forze extra vasali agiscono costringendo le
coronarie, che raggiungono valori di flusso bassi rispetto a quelli che si registrano durante la diastole.
Durante la fase di rilassamento, dunque, le coronarie vengono perfuse per poi essere spremute durante la
fase di sistole.
Il corretto funzionamento delle coronarie è alla base di una corretta irrorazione del miocardio e del corretto
funzionamento di tutte le cellule cardiache.
L’occlusione di un piccolo vaso coronarico, anche se periferico, porta alla morte del tessuto a valle del vaso,
nel cosiddetto infarto del miocardio, il flusso si interrompe e le cellule non sono più rifornite né di nutrienti
ne di ossigeno, non vengono portate via le sostanze di rifiuto e nello stesso tempo si accumulano metaboliti
tossici, incomincia un forte stress ossidativo e il tessuto va dunque in infarto. Quando l’arteria si riapre il
danno del sangue che ritorna è quasi maggiore del danno dell’infarto.
Come abbiamo già visto vi sono delle differenze
tra la parte sinistra e la parte destra del cuore, i
grafici delle pressioni hanno lo stesso
andamento ma con valori che si ottengono
completamente differenti, mentre il volume è
uguale in entrambi i lati.
I due ventricoli hanno una struttura parietale
molto diversa per cui la forza sviluppata dal
ventricolo sinistro è maggiore della forza
sviluppata dal ventricolo destro.
Nel grafico vediamo infatti che la pressione che
si sviluppa nel ventricolo destro è più bassa di
quella che si sviluppa nel ventricolo sinistro, ciò è
funzionale al fatto che il ventricolo sinistro manda il sangue nel circuito sistemico, che è un circuito grande
ad alta resistenza e dunque necessita della forza sviluppata dal ventricolo sinistro per arrivare fino ai
distretti più periferici. Il circuito polmonare è un circolo a bassa resistenza e quindi sebbene la parete del
ventricolo destro sia più sottile rispetto a quella del ventricolo sinistro, la pressione che si sviluppa è
sufficiente per superare quella dell’arteria polmonare e mandare il sangue all’interno dei vasi polmonari.
I toni cardiaci sono rumori prodotti
dal cuore in seguito a movimento o
ad arresto del sangue. Sono 4, ma
solamente i primi due sono
auscultabili.
1° TONO: segna l'inizio della sistole
ventricolare (isovolumetrica) e cala
durante la fase di efflusso. Si ascolta
bene nella regione apicale del cuore.
E' dovuta all'urto del sangue verso la
valvola atrio-ventricolare chiusa, alle
vibrazioni delle corde tendinee, al
flusso turbolento del sangue che
passa al bulbo aortico.
2° TONO: coincide con l'incisura, è
più breve del primo, ed è determinato dalla chiusura delle valvole aortica e polmonare. Segna l’inizio della
diastole. E' auscultabile a sx e dx dello sterno nel 2° spazio intercostale.
3° TONO: di brevissima durata, è dato dall'urto del sangue verso la parete interventricolare durante la fase
di riempimento ventricolare rapido.
4° TONO: inizia a metà della presistole, ed è determinato dalle vibrazioni del sangue e dell'apparato
cardiaco.
Il terzo e il quarto tono sono dei toni secondari, registrabili con degli strumenti un po' più complicati
rispetto al fonendoscopio che normalmente può essere utilizzato.
Regolazione dell’attività cardiaca
La regolazione dell’attività cardiaca è importante perché il cuore è il motore del sistema di comunicazione
di ogni parte del corpo.
Il sistema cardiovascolare è connesso con tutte le porzioni
del nostro organismo, non c’è una regione che non sia
raggiunta dal sangue, per cui è fondamentale che l’attività
cardiaca sia adeguata per garantire la corretta perfusione di
organi e apparati.
Il cuore è in grado di modulare la propria attività in funzione
delle richieste che gli arrivano dalla periferia, ma nello
stesso tempo influenza l’attività delle periferie. C’è dunque
uno scambio reciproco, istante per istante il cuore e la
periferia comunicano.

Il cuore può essere regolato tramite


regolazione instrinseca (eterotermica),
regolazione di Frank-Starling o regolazione
estrinseca (omeotermica).
La prima regolazione che considereremo è
quella estrinseca mediata dal sistema nervoso
autonomo, che controlla l’attività cardiaca
adattando l’attività del cuore alle esigenze
dell’organismo.
L’attività cardiaca può essere regolata
regolando ad esempio la frequenza cardiaca, la
gittata cardiaca o la gittata sistolica.
Ogni volta che varia la frequenza o la gittata
sistolica, può variare la gittata cardiaca, per cui i
meccanismi di regolazione del cuore riguardano prevalentemente la frequenza e la gittata sistolica.
Il sistema nervoso simpatico e parasimpatico possono modulare l’attività cardiaca portando effetti sulla
contrattilità e sulla frequenza. In particolare, il sistema nervoso simpatico ha la capacità di stimolare la
contrattilità, aumenta la forza di contrazione e aumenta la frequenza cardiaca. Se aumenta la frequenza
cardiaca aumenterà anche la gittata cardiaca, se aumenta la contrattilità aumenta la gittata sistolica,
perché vorrà dire che il ventricolo si è contratto con maggiore forza, si è generata una pressione maggiore
ed è dunque aumentato il volume che viene espulso per quella contrazione.
Gli effetti sulla contrattilità vengono definiti effetti inotropi (inotropismo) e sono nel caso del sistema
nervoso simpatico effetti inotropi positivi e quindi stimolatori; quelli sulla frequenza sono definiti effetti
cronotropi, (cronotropismo da cronos= tempo) anch’essi positivi.
Può essere variata la velocità di conduzione nelle fibre e si parlerà di effetto dromotropo ma può variare
anche la velocità del rilassamento e si parlerà di effetto lusitropo (lusitropico).
Il sistema nervoso parasimpatico, ed in particolare il vago, nervo parasimpatico del cuore, dà effetti
opposti al sistema nervoso simpatico riducendo la frequenza e la contrattilità, così si riduce la gittata
cardiaca per azione sulla gittata sistolica o sulla frequenza cardiaca. Gli effetti simili a quelli del sistema
simpatico sono dati dall’adrenalina circolante ovvero la catecolammina che circola nel sangue e mima gli
effetti del sistema nervoso simpatico.
Accanto a questi effetti estrinseci vi è la regolazione intrinseca detta regolazione di Frank-Starling (prende
il nome da due cardiologi che indipendentemente nello stesso tempo identificarono questo meccanismo).
Come abbiamo visto il nervo vago (decimo
nervo cranico) raggiunge il cuore e ramifica, i
nervi simpatici dal tronco simpatico
raggiungono il cuore, dalla midollare del
surrene proviene l’adrenalina ovvero le
catecolammine circolanti che attraverso il
sangue, e di conseguenza le coronarie,
raggiungono il cuore.
A questo circuito contribuiscono altri rami
autonomi che provengono da alcune regioni
del sistema circolatorio all’interno delle quali
sono disposti dei sensori di pressione.
Il cuore influenza l’attività dei vasi e i vasi influenzano l’attività cardiaca.
La periferia informa il cuore dello stato della sua esigenza (in questo caso dell’arrivo della pressione) e
attraverso le vie nervose viene regolata l’attività cardiaca: si parla quindi di riflesso barocettivo.
Nelle regioni dell’arco aortico, dopo che l’aorta esce dal ventricolo sx e si piega per dare origine all’aorta
discendente, si trova una regione ricca di recettori sensoriali detti barocettori che sentono la pressione
(dipende dall’attività del cuore) con la quale il sangue arriva nell’aorta, si stimolano al variare della
pressione e, attraverso un ramo del nervo vago che torna indietro verso i centri cardio-regolatori del SNC,
informa della variazione della pressione così che questi centri possano controllare l’attività cardiaca sulla
base delle informazioni ricevute dai barocettori aortici.
Esistono anche barocettori a livello dei seni carotidei i quali sentono le condizioni del sangue che si dirige
verso la testa attraverso letti vascolari estremamente delicati.

Il controllo operato dal nervo vago è un


controllo operato a livello della frequenza in
modo che le cellule del nodo seno atriale
rallentino la loro stanica.
Il grafico superiore si ottiene sotto
stimolazione parasimpatica da acetilcolina in
cui la membrana della fibra della cellula
pacemaker raggiunge potenziali ancora più
negativi rispetto a quelli normalmente
presenti e più lentamente raggiunge la soglia,
per cui impiega un tempo maggiore per avere
il potenziale d’azione: questo è un effetto che
riduce la frequenza.
Il rallentamento della frequenza è dato dall’iperpolarizzazione della membrana delle cellule auto ritmiche
che permette alla membrana di raggiungere la soglia e quindi depolarizzare più lentamente.
Al contrario la stimolazione adrenergica, in cui vi è l’adrenalina, consiste nella stimolazione dei terminali
simpatici che velocizzano la depolarizzazione delle cellule pacemaker incrementando la velocità di sviluppo
dei potenziali d’azione, ciò incrementa la frequenza cardiaca.
I due tipi di mediatori, l’acetilcolina
e le catecolammine, agiscono sui
canali della membrana in maniera
differente l’uno rispetto all’altro:
l’acetilcolina si lega a recettori
colinergici muscarinici presenti sul
cuore ed accoppiati a proteine G
inibitorie, l’attività di queste
proteine fa sì che siano inaccessibili i
canali al calcio, dunque è ridotta la
possibilità del calcio di entrare
all’interno della cellula, il passaggio
delle cariche positive è impedito e si
rallenta la depolarizzazione mentre i
canali al potassio vengono aperti, il
potassio esce.
Questo iperpolarizza la membrana portandola più lontano dalla soglia.
Al contrario, la noradrenalina agisce con i recettori β-adrenergici accoppiati a proteine G stimolatorie le
quali attivano l’adenilato ciclasi localizzata nell’intorno della membrana, si produce AMP ciclico, si attiva la
proteina chinasi A la quale fosforila i canali al calcio di tipo T nelle cellule nodali, entra il calcio e la
membrana depolarizza.
La proteina chinasi fosforila anche i canali funny che si attivano con l’iperpolarizzazione della membrana
durante la ripolarizzazione, entra il sodio e depolarizzazione a causa dell’ingresso di questi cationi avviene
più rapidamente in questo modo si hanno gli effetti di stimolazione della frequenza.
Ciò fa sì che il cuore istante per istante sia in grado di
modulare la propria frequenza e quindi di conseguenza
la gittata cardiaca
Normalmente la frequenza cardiaca si trova tra 60-65
battiti al minuto.
Definiamo:
-TACHICARDIA: frequenze > 100 battiti/min
-BRADICARDIA: frequenza < 60 battiti/min
Sono entrambe condizioni fisiologiche, ma frequenze
estremamente alte o basse non sono compatibili con lo
stato fisiologico.

Il sistema nervoso non va ad agire solamente sulla


frequenza, ma va ad agire anche sulla forza di
contrazione.
La forza di contrazione ventricolare viene
modificata mediante l’attivazione dei recettori β1-
adrenergici che permettono la produzione di AMP
ciclico il quale fosforila i canali al calcio voltaggio-
dipendenti aumentando il loro tempo di apertura e
favorendo l’ingresso del calcio. Se entra il calcio
nelle cellule muscolari si attiva il rilascio del calcio
indotto dal calcio (RyR) e si ha una maggiore
contrazione dovuta all’attivazione dell’apparato
contrattile.
Nello stesso tempo si ha un incremento del recupero di calcio nei depositi in modo che il calcio possa
essere libero di uscire nuovamente.
Contemporaneamente viene fosforilato il fosfolambano che stimola l’attività delle pompe SERCA del
reticolo, quindi, il calcio viene rimosso dal sarcoplasma, sganciandosi dalla troponina C.
La contrazione è più veloce ma nello stesso tempo è facilitato anche il rilassamento.
Quando il cuore è esposto all’azione del sistema
ortosimpatico, considerando l’andamento delle
curve, si nota che la curva del cuore sottoposto
alla noradrenalina è una curva in cui a parità di
volume, la maggiore contrazione indotta dalla
stimolazione di noradrenalina fa sì che venga
espulso un maggiore volume di sangue.
Questo è un effetto inotropo positivo.
Il sistema nervoso simpatico agisce dunque sulla
contrazione e sulla frequenza, ma se la
frequenza supera i 150-170 battiti/min non si
tratterà più di un buon incremento per il cuore.
Se ad esempio il corpo è sottoposto ad intensa
attività fisica, il cuore aumenta la propria
frequenza, le maggiori contrazioni al minuto consentono un ricambio di sangue più veloce nei vari distretti
muscolari coinvolti, per cui la frequenza sarà funzionale alla corretta perfusione della periferia.
Ma se la frequenza aumenterà troppo, verrà a mancare il tempo necessario al cuore per riempirsi di
sangue. Diminuirà dunque il tempo tra una sistole e l’altra quindi queste saranno più vicine e si ridurrà la
possibilità del riempimento ventricolare.
Frequenze molto elevate non incrementeranno la gittata cardiaca, in quanto questa aumenta se in parallelo
aumenta la gittata sistolica. Ma se ad un certo punto non ci sarà sangue sufficiente per riempire la cavità, la
gittata non aumenterà più.
Possiamo vedere ciò che avviene nel cuore
quando sottoposto alla stimolazione adrenergica
sfruttando il diagramma di Wiggers.
Le linee tratteggiate rappresentano le modifiche
che si hanno a pressioni e volumi quando il cuore
è stimolato dalle catecolammine.
Il contrario, invece, avviene quando viene
rilasciata l’acetilcolina dal nervo vago.
Il ventricolo subisce una contrazione più forte, si
raggiungono valori di pressione maggiori e si
rilassa più rapidamente.
Nell’aorta viene pompato più sangue e quindi ne
aumenta il flusso: aumentano le velocità di
contrazione e di rilassamento ed aumenta anche
la pressione nell’aorta. Il volume ventricolare diminuisce perché la pressione maggiore si traduce in una
maggiore gittata, il ventricolo si svuota, prendendo il volume maggiore che viene trasferito nell’aorta che
deriva dal fatto che il ventricolo va a raccogliere il sangue dal volume ventricolare, il volume tampone. Il
volume tampone è quello dal quale viene recuperato il volume per avere una gittata maggiore.
Legge di Frank-Starling
Il cuore sottoposto all’azione del sistema nervoso
aumenta la propria attività sia in termini di
frequenza, sia in termini di gittata quando è
stimolato dal Sistema Nervoso periferico, al
contrario, quando è stimolato dal vago
diminuiscono frequenza e gittata.
Accanto a questo meccanismo di regolazione
cosiddetto estrinseco, il cuore ha una sua capacità
intrinseca che permette di regolare la propria
contrazione in funzione del volume di sangue
contenuto nel cuore.
Questa regolazione và sotto il nome di legge di
Frank-Starling, che è la legge generale del cuore.
La legge di Frank-Starling afferma che maggiore è la
quantità di sangue che arriva nell’atrio e torna all’atrio dx o sx dal circuito sistemico polmonare, maggiore
sarà la quantità di volume che riempie i ventricoli alla fine della diastole, maggiore sarà il volume
telediastolico, ovvero al termine della diastole, maggiore sarà la lunghezza delle fibre miocardiche durante
il rilassamento.
La conseguenza di questa maggiore distensione delle fibre è l’incremento della forza di contrazione delle
cellule. La sistole che si genera è una sistole più forte e aumenta la gittata sistolica.
Questo si ricollega al muscolo scheletrico in cui maggiore è la lunghezza del sarcomero a riposo (prima della
contrazione) più forte sarà la tensione sviluppata in quanto si ottimizza il grado di sovrapposizione delle
proteine contrattili ed aumenta la probabilità di ponti trasversi così la forza di contrazione raggiunge un suo
massimo per una certa lunghezza del sarcomero.
A questo meccanismo si unisce il fatto che le fibre sottoposte a stretch si avvicinano le une rispetto alle atre
ed aumenta la probabilità per cui la miosina può interagire con l’actina.
Questa regolazione è detta eterometrica (a
lunghezza variabile) perché la variazione della
forza di contrazione dipende dalla differente
lunghezza del sarcomero.
Quella nervosa invece si chiama omeometrica ciòè
a lunghezza costante.
Le curve di Starling sono uguali perché la quantità
di sangue che riempie i ventricoli, ovvero il volume
telediastolico, fa variare la lunghezza delle fibre
ventricolari prima della contrazione, quindi
durante la diastole.
All’aumentare del volume telediastolico, aumenterà la lunghezza delle fibre e quindi maggiore sarà la forza
di contrazione e la gittata (volume di sangue espulso).
I grafici mostrano o l’allungamento, che dipende dal volume telediastolico o la forza che si traduce poi in
gittata.
Il pallino rosso indica le condizioni normali ovvero 8 mmHg e 70 ml di un cuore normalmente
funzionante.
Se il cuore riceve un maggiore volume di sangue è in grado di espellerlo grazie alla sua capacità intrinseca, a
questo contribuisce anche il calcio, in quanto durante questo effetto aumenta la disponibilità di calcio nel
miocardio e quindi è facilitata l’interazione delle proteine contrattili.
Quello che si ha durante lo sviluppo di questo meccanismo di
Starling è che man mano che aumenta il volume alla fine della
diastole, le fibre cardiache si distendono maggiormente perché il
ventricolo si è riempito di più e la conseguente maggiore forza di
contrazione fa svuotare il ventricolo di quantità maggiore di sangue.
Nel caso della noradrenalina il volume ventricolare rimane costante.
Il maggiore volume che viene espulso, dipende dal fatto che viene
recuperato una parte del sangue del volume ventricolare residuo.
In questo caso, invece, il volume ventricolare residuo rimane uguale
e aumenta semplicemente la gittata perché viene espulso il volume
di sangue arrivato in più.
Ogni volta che aumentano le resistenze del circuito periferico o di
quello polmonare e dunque il ritorno venoso al cuore è diverso nei due circuiti, le camere cardiache
riescono a compensare nel battito successivo compensando proprio alla variazione del riempimento
ventricolare modulando la contrazione per far sì che sia il più costante possibile la quantità di sangue che
fuoriesce dai ventricoli.
L’effetto delle catecolammine e quello di Starling possono sommarsi con una famiglia di curve in cui a
parità di volume telediastolico aumenta la quantità di volume espulso alla sistole, le curve più basse,
invece, della curva normale sono quelle che si registrano in un cuore affetto da insufficienza cardiaca.
Nel caso dell’ipertrofia ventricolare, per esempio, il ventricolo anche se ha una massa muscolare maggiore
rispetto a quella che dovrebbe avere non è in grado di sviluppare contrazioni capaci di espellere il volume di
sangue che lo ha riempito, quindi il ventricolo ipertrofico è insufficiente e nel cuore varia la frazione di
eiezione ovvero il volume di sangue. Il cuore rimane meno svuotato di quanto sarebbe necessario in realtà.
A ciò possono compensare dei farmaci che possono aiutare a potenziare la forza di contrazione.
Per avere una corretta regolazione di Starling è
necessaria una perfetta organizzazione
molecolare delle proteine, anche di quelle che
collegano l’apparato contrattile alla membrana.
La cellula muscolare, durante la deformazione
che subisce durante l’effetto dovuto alla legge di
Starling, si modifica, si allunga e questo comporta
che la membrana si distenda e che le proteine
che collegano la membrana all’apparato
contrattile contribuiscano a garantire la
comunicazione tra la membrana e l’apparato
contrattile. L’apparato contrattile si deforma, i
suoi elementi elastici, come la titina e la nebulina, aiutano a far sì che esso mantenga la sua struttura e che
quindi sia in grado di tornare nella sua condizione iniziale al termine della stimolazione.
L’impalcatura proteica che tiene legato l’apparato contrattile alla membrana è molto ricca, tra queste
proteine possono esserci proteine note quali la distrofina che si altera nella distrofia muscolare, con danni
anche seri a livello cardiaco.
Un altro effetto che si ha sul cuore è un effetto
dovuto al cosiddetto postcarico.
Il postcarico altro non è che la pressione nell’aorta,
pressione che deve essere superata dalla forza
ventricolare; il ventricolo deve potersi contrarre cpsì
da generare una pressione che supera la pressione
nell’aorta. Solo così il sangue potrà lasciare il
ventricolo e andare nell’aorta, la pressione aortica
influenzerà a ritroso l’attività del cuore.
Quando aumenta la pressione delle arterie, aumenta
la forza sviluppata dal ventricolo, quindi la maggiore
pressione in uscita dal cuore è come se fosse una
forza che impedisse di avere un’adeguata gittata.
Tende perciò a ridursi il volume di sangue espulso.
Il cuore è anche sottoposto all’attività di controllo operata dagli ormoni (più famosi sono gli ormoni
tiroidei) circolanti ad azione cardiaca che modulano passando nel sangue, o da alcune sostanze che hanno
attività modulatoria cardiovascolare (sostanze cronotrope, inotrope, nusitrope).

Pressione arteriosa
Quando il sangue viene pompato fuori dal ventricolo
durante la sistole ventricolare, viene eiettato attraverso
le valvole semilunari, aortiche o polmonari, e si dirige
verso le arterie aorta e polmonari le quali di distendono
in quanto vasi elastici con una parete avventizia ricca di
elastina in grado di distendersi accogliendo l’onda
ematica che arriva la quale esercita una pressione sulle
pareti dei vasi.
I vasi si distendono con un effetto elastico chiamato
mantice e successivamente durante la diastole tornano
nella posizione precedente in cui generano il ritorno
elastico. Ciò fa si che nei vasi successivi alle arterie il sangue arrivi in modo continuato senza gli sbalzi
pressori che invece ci sono all’uscita dal cuore (si smorza l’onda pressoria dell’aorta).
Considerando il grafico della pressione, possiamo notare che vicino al cuore, nel ventricolo sx l’oscillazione
dell’onda è elevata, man mano si riduce l’oscillazione nelle arterie per ridursi via via e far scendere anche i
valori della pressione, fino ad arrivare ai capillari e alle vene.
La pressione arteriosa è la pressione che il sangue esercita sulle pareti delle arterie, il valore sarà
determinato dal sangue stesso che perfonde le arterie e dalla resistenza che esse oppongono.
La pressione arteriosa è determinata dalla gittata cardiaca (volume di sangue che lascia il cuore), dalle
resistenze periferiche ovvero da quanto i vasi si lasciano perfondere dal sangue, dalla distensibilità dei
vasi e dal volume ematico (quantità di sangue circolante).
I vasi possono essere più o meno distensibili, i
vasi elastici sono distensibili.
L’elasticità è una proprietà dei vasi che tende a
diminuire con la senescenza, le cattive abitudini
(fumo delle sigarette ad esempio), cattivi
abitudini alimentari, stress ossidativo.
Se un vaso ha una distensibilità ridotta la
pressione esercitata dal sangue è maggiore di
quella esercitata sulle pareti vascolari tipo l’aorta
di distensibilità normale.
Quando la distensibilità è ridotta aumenta la
pressione perché il vaso non si distende e quindi
la pressione esercitata dal sangue sulle pareti
vascolari cresce.
Nello stesso tempo, la pressione aumenta quando aumenta la gittata per cui aumenta il volume espulso
che esercita una maggiore pressione sui vasi.
Il postcarico influenzerà anche l’attività cardiaca, se c’è una resistenza a valle il cuore sarà costretto a
sviluppare una forza maggiore per poter superare le resistenze periferiche, ciò avviene nelle condizioni di
ipertensione.
La pressione arteriosa viene rappresentata graficamente con un’oscillazione registrata nell’andamento
della pressione nelle arterie, questa pressione raggiungerà un valore massimo detto pressione sistolica
(pressione generata durante la sistole ventricolare quando il sangue lascia il ventricolo e va nelle arterie)
diversa dalla pressione diastolica, valore minimo (pressione registrata quando termina la sistole
ventricolare e inizia la diastole), corrispondente anche al minimo flusso arterioso.
La differenza tra le due pressioni, tra massimo e minimo, è data dalla pressione di polso.
I valori di pressione variano con il variare dell’età, dei ritmi circadiani, delle fasi di sonno e di veglia,
dell’attività fisica, dello stato emotivo, dello stress da catecolammine o ancora della digestione.
Esistono range fisiologici al di fuori dei quali avremo delle variazioni patologiche; l’OMS (Organizzazione
Mondiale della Sanità) ha definito due categorie di valori: valori normali e valori di ipertensione (aumento
della pressione sistolica/diastolica) o ipotensione (diminuzione della pressione sistolica/diastolica).

La pressione viene misurata seguendo il


metodo di Riva Rocci, medico italiano che
scoprì e mise in atto l’attuale sistema di
misurazione della pressione arteriosa.
Lo strumento è caratterizzato da un
manicotto gonfiabile collegato ad una
pompa e posto sulla piega del gomito del
braccio sinistro in cui viene insufflata
dell’aria che gonfia il manicotto,
svuotandolo, si riduce di volume e si libera
l’aria. Il manicotto è ulteriormente collegato
ad un manometro (misuratore di pressione)
che può essere ad orologio (ad ago) o ad
una colonna di mercurio; normalmente
l’operatore utilizza uno stetoscopio posto sotto il manicotto nella piega del gomito.
Questo sistema funziona sfruttando la transizione tra flusso laminare e flusso turbolento.
Il manicotto misura la pressione dell’arteria brachiale, abbastanza superficiale che si trova all’interno del
braccio, passa dal gomito ed è facilmente rintracciabile da questo sistema.
Il momento A corrisponde al momento in cui l’operatore ha sistemato il manicotto e lo ha gonfiato al
massimo, questo comporta un formicolio sulla mano dell’arto corrispondente dovuto al fatto che la
pressione extravasale, esercitata dal manicotto, ha fatto collassare i vasi contenuti al di sotto del
manicotto. Da quel punto in poi a valle non passa il sangue e di conseguenza si avverte una sorta di
formicolio. In questo momento la pressione nel bracciale per poter far chiudere l’arteria deve essere
superiore alla pressione massima dell’arteria in modo tale che quest’ultima sia completamente chiusa.
Successivamente l’operatore ha il compito di far defluire l’aria dal manicotto il quale si sgonfia; man mano
che diminuisce l’aria la pressione nel manicotto diventa più bassa della pressione massima all’interno
dell’arteria e di conseguenza l’arteria inizia a poco a poco a riaprirsi ed il sangue, attraverso la zona in cui è
avvenuta l’ostruzione, passa in modalità turbolenta e il rumore dovuto a questo passaggio viene sentito dal
fonendoscopio posto sotto il manicotto. Questo rumore corrisponde al valore di pressione massima
nell’arteria (120 mmHg, valore normale).
Man mano che il valore della pressione del manicotto scende al di sotto di quello della pressione massima,
diminuisce la compressione sul vaso, il vaso si allarga, più sangue entra e vengono dunque sentiti toni
ancora più intensi. Dopo il primo tono debole se ne avvertono altri più intensi nel manicotto (toni noti
come “toni di korotkoff”) quasi svuotato la pressione scende al di sotto del valore minimo: così il vaso si
aprirà completamente non essendo più soggetto alla pressione del manicotto, il sangue ricomincerà a fluire
in modo laminare ovvero in modalità silenziosa, motivo per cui non si udirà più alcun rumore.
Registrando il valore di pressione in cui si sente il primo tono al fonendoscopio e l’ultimo tono udito si ha
un’indicazione indiretta ma reale del valore della pressione massima o sistolica e minima o diastolica.
I valori registrati nella pressione arteriosa sono valori variabili in funzione di situazioni come per esempio le
condizioni di tipo patologico (ipertensione o ipotensione).
La variabilità della pressione dipende da diversi fattori:
• attività cardiaca (gittata);
• volume ematico;
• resistenze periferiche;
• distensibilità dei vasi;
Inoltre, la pressione arteriosa può essere regolata mediante meccanismi rapidi, quali: un meccanismo
nervoso, un meccanismo intrinseco dei vasi (simile al meccanismo intrinseco di Starling) ed un meccanismo
dipendente dal metabolismo.
Vi è inoltre un meccanismo più lento che dipende dall’attività renale (l’asse cardio-renale si basa sulla
relazione funzionale tra il cuore che determina i valori della pressione e il rene che facendo variare il
volume ematico influenza l’attività cardiaca).
Sistema nervoso autonomo
Il sistema nervoso autonomo è quella divisione
del sistema nervoso costituito da una serie di
fibre efferenti che partono da regioni centrali e
raggiungono gli organi effettori (muscolo liscio,
muscolo cardiaco e ghiandole).
È costituito dunque dalle fibre motrici e dai
nervi cosiddetti autonomi.
Il sistema nervoso autonomo si divide in
porzioni che sono anatomicamente identificate
e che svolgono funzioni particolari.
Le due divisioni principali sono il sistema
nervoso ortosimpatico o simpatico e il sistema
nervoso parasimpatico, esse svolgono funzioni
opposte che presiedono alla risposta
omeostatica rapida degli organi quali i vasi
sanguigni, il cuore ecc.
Il sistema nervoso simpatico, detto
anche toracolombare, è formato da
quei neuroni che provengono dal
midollo spinale e precisamente dalla
zona toraco-lombare da cui prende il
nome.
Le fibre che costituiscono il sistema
nervoso simpatico si trovano proprio
nei nervi spinali, nelle regioni che
vanno dalla prima vertebra toracica alla
seconda vertebra lombare.
In generale, le vie efferenti sono
costituite da due neuroni, il primo
neurone che parte dal sistema nervoso
centrale e si dirige verso la periferia e il
secondo neurone che parte da delle stazioni intermedie, chiamate gangli autonomi e che raggiunge gli
organi bersaglio.
Sia per quanto riguarda il sistema nervoso simpatico, sia per quanto riguarda il sistema nervoso
parasimpatico, parleremo di un complesso di due neuroni, pre-gangliare e post-gangliare. Ciò sta ad
indicare che i due neuroni sono congiunti, sinaptano, in queste strutture chiamate gangli, organizzate in
maniera completamente diversa nel sistema nervoso simpatico rispetto al parasimpatico.
Nel sistema nervoso simpatico il neurone pre-gangliare ha il suo corpo cellulare a livello del midollo spinale,
nella settima lamina, nel corno laterale di sostanza grigia.
I corpi cellulari di questi neuroni partono dal midollo spinale e fuoriescono insieme al nervo spinale il quale
arriva all’interno di un ganglio. I gangli del sistema nervoso simpatico sono organizzata in una catena.
Mentre i gangli sulla radice dorsale del nervo spinale contenevano i corpi cellulari dei neuroni sensoriali, in
questo caso contengono il termina le assonale del neurone pre-gangliare e il corpo cellulare del neurone
post-gangliare, contengono dunque le sinapsi autonome. Da questi gangli diparte una serie di neuroni che
raggiungono i gangli accessori, quali il ganglio celiaco, il mesenterico superiore, il mesenterico inferiore, i
gangli cardiaci. In questi gangli accessori si trovano i corpi cellulari dei neuroni che poi raggiungeranno gli
organi bersaglio.
Accanto al sistema nervoso ortosimpatico
c’è il sistema nervoso parasimpatico,
definito anche craniosacrale, in quanto i
neuroni che lo costituiscono si trovano
localizzati a livello cranico e a livello sacrale.
Il neurone pregangliare ha il corpo cellulare
all’interno del nucleo di Edinger-Westphal,
del nucleo salivatorio superiore, del nucleo
salivatorio inferiore, del nucleo motorio
dorsale del vago e del nucleo ambiguo e le
fibre camminano con i nervi cranici III
(oculomotore), VII (salivatorio facciale), IX
(glossofaringeo) e X (nervo vago).
Il nervo vago è uno dei nervi più estesi del
nostro organismo.
Nella regione delle vertebre sacrali S2, S3 ed S4 partono le fibre pregangliari che raggiungono organi
effettori della regione del basso addome.
Possiamo notare come gli organi effettori siano gli stessi del sistema nervoso ortosimpatico, questo ci dice
che i due sistemi nervosi autonomi raggiungono gli stessi bersagli.
Anche nel caso del sistema nervoso parasimpatico ci sono neuroni pre e post gangliari, ci sarà dunque
anche un ganglio dove i due neuroni si uniscono e sinaptano, questo ganglio però a differenza dei gangli
ortosimpatici si trova molto più vicino al bersaglio, a volte perfino nella parete dell’organo effettore.
Avremo quindi che nel caso del sistema nervoso parasimpatico la fibra pregangliare sarà una fibra molto
lunga e la fibra postgangliare sarà una fibra molto breve, esattamente il contrario di quello che si aveva nel
sistema nervoso simpatico nel quale la fibra pregangliare raggiungeva il ganglio vicino all’uscita del midollo
spinale e la fibra postgangliare decorreva fino al bersaglio, anche distante.
Possiamo vedere come i neuroni pregangliari del
sistema nervoso simpatico fuoriescono con la
radice ventrale del nervo spinale, raggiungono il
nervo spinale e poi transitano all’interno della
catena gangliare o per proseguire verso un neurone
sensoriale, o fuoriescono dal ganglio per andare in
un ganglio collaterale, o salgono verso le regioni
superiori o ancora scendono verso le regioni
inferiori.
Nel caso in cui la fibra si ferma all’interno del
ganglio, si ha la sinapsi con il neurone postgangliare
che arriva all’organo bersaglio. Questo sistema
attiva i cosiddetti archi riflessi viscerali.
Il sistema nervoso autonomo gestisce una quantità notevole di azioni riflesse che sono quello che
controllano la regolazione omeostatica dell’attività degli organi e degli apparati.
Alcuni dei riflessi autonomi sono il riflesso barocettivo, il riflesso chemocettivo (cioè la capacità di dare una
risposta in funzione dello stato chimico del liquido che attiva e che si trova intorno al recettore sensoriale),
il riflesso della tosse, il riflesso della deglutizione, il riflesso gastrico e cefalico della digestione, il riflesso
gastrocolico (induce la defecazione poco dopo l’assunzione del cibo), il riflesso duodenocolico, il riflesso
del vomito e il riflesso della minzione (porta ad urinare).
Qual è la differenza tra un ganglio sensoriale ed
un ganglio simpatico o più in generale
autonomo?
Si tratta sempre di ammassi di tessuto nervoso,
ma nel ganglio sensoriale, quello sulla radice
dorsale del nervo spinale ci sono i corpi cellulari
dei neuroni sensoriali, mentre nei gangli
autonomi ci sono le sinapsi tra il neurone
pregangliare e il postgangliare.
Un ulteriore differenza è tra il ganglio simpatico
e il ganglio parasimpatico. Il ganglio simpatico è
caratterizzato da un ricco fenomeno di
divergenza.
Nell’immagine possiamo vedere due assoni pregangliari che arrivano all’interno del ganglio, ramificano
andando a sinaptare con 7 neuroni con i corpi cellulari postgangliari, per cui fuoriescono dal ganglio 7
assoni post gangliari. Ciò sta a significare la presenza di divergenza, 2 neuroni hanno condizionato l’attività
di 7 neuroni, per cui il segnale portato dalle fibre pregangliari viene amplificato in un numero maggiore di
fibre postgangliari. Questa sinapsi che avviene, da uno a molti neuroni, fa si che il segnale simpatico sia più
esteso di quello parasimpatico.
Nel ganglio parasimpatico, al contrario, non c’è divergenza, ma il rapporto è quasi 1:1.
Questo fa si che il territorio di innervazione e l’effetto dell’attivazione del sistema nervoso simpatico sia
maggiore rispetto a quella del sistema nervoso parasimpatico.
Riassumendo possiamo vedere che nel sistema
parasimpatico un lungo neurone pregangliare
mielinico, quindi veloce (conduzione saltatoria),
arriva al ganglio dove sinapta con un neurone
postgangliare corto amielinico (rapporto 1:1).
Nel caso della divisione ortosimpatica, un neurone
ramifica e sinapta con più neuroni all’interno del
ganglio. Le ramificazioni fanno inoltre si che sinapti
con altri gangli, per cui i bersagli sono maggiori di
numero rispetto a quelli parasimpatici.

Un'altra differenza tra i due sistemi sta nel


tipo di neurotrasmettitore che viene
utilizzato. In entrambi le divisioni il neurone
pregangliare è un neurone di tipo
colinergico, cioè utilizza l’Ach come
neurotrasmettitore. La sinapsi che avviene
all’interno dei gangli è una sinapsi di tipo
colinergico, il che significa che il neurone
postgangliare sul corpo cellulare dei dendriti
deve possedere recettori colinergici. I
recettori colinergici presenti all’interno di
entrambi i gangli sono recettori colinergici nicotinici, simili a quelli della placca motrice. Sono dunque
recettori canale, iontropici, non sono accoppiati a secondi messaggeri, quindi sono recettori rapidi, lasciano
transitare rapidamente le correnti cationiche portate dal sodio per cui inducono depolarizzazione. Si tratta
dunque di sinapsi sicure, che certamente danno luogo a depolarizzazione. Una volta che viene rilasciata
l’Ach si attiva il neurone postgangliare. Il neurone postgangliare del parasimpatico, rilascerà anche lui Ach
sull’organo effettore, ma in questo caso l’organo effettore, per essere bersaglio dell’Ach possiede dei
recettori di tipo muscarinico, ossia recettori metabotrobici accoppiati a secondi messaggeri che quindi
utilizzando le proteine G mediano l’effetto dell’Ach sull’organo effettore. L’effetto che si avrà sull’organo
effettore dipende dal tipo di recettore muscarinico espresso sulla membrana delle cellule bersaglio.
Dall’altro lato, nel sistema nervoso simpatico, il neurone postgangliare rilascerà un altro tipo di
neurotrasmettitore, cioè la noradrenalina che è una catecolamina che andrà ad agire sui bersagli
utilizzando recettori adrenergici che potranno essere α o β adrenergici a seconda del bersaglio sul quale si
trovano. Anche questi sono recettori accoppiati a secondi messaggeri e anche questi utilizzano le proteine
G, per cui l’effetto della noradrenalina sull’organo effettore sarà dipendente dal tipo di recettore
adrenergico e in particolare dal tipo di proteina G che è accoppiata al recettore adrenergico.
L’immagine riassume ciò che avviene nel sistema nervoso
autonomo.
Ci sono alcune fibre simpatiche che sono anche
colinergiche, altre utilizzano un'altra catecolamina, la
dopamina.
Alcune fibre pregangliari del simpatico raggiungono inoltre
le ghiandole del surrene e a tale livello rilasciando l’Ach che
si lega a recettori nicotinici, il surrene rilascia le
catecolamine che attraverso il sangue raggiungeranno gli
organi bersaglio dove si trovano recettori α e β adrenergici.
Quando viene stimolato il sistema nervoso simpatico da un
lato si attiva la via dei due neuroni, pre e post gangliare,
quindi l’organo bersaglio riceve il neurotrasmettitore dalla
sinapsi; dall’altro lato viene attivato il surrene che rilascia le
catecolamine, funziona dunque come se fosse un neurone
postgangliare, che circolano nel sangue andando ad attivare
tutti i recettori adrenergici che il sangue incontra.
L’effetto della stimolazione simpatica è dunque ancora di più sostenuto perché oltre all’effetto della
noradrenalina che esce dalla sinapsi, c’è anche l’effetto delle catecolamine che vengono prodotte dallo
stesso stimolo e vengono rilasciate dal surrene. Nel caso del parasimpatico questo non avviene.

Come abbiamo detto le due divisioni del sistema nervoso autonomo, raggiungono gli stessi organi
bersaglio. In questi organi bersaglio spesso si trovano sia le fibre simpatiche che le fibre parasimpatiche.
Le due divisioni però, mediano effetti differenti, uno dei due indurrà stimolazione e l’altro indurrà
inibizione. Dunque, uno stimolerà l’effetto, darà l’effetto di potenziamento dell’attività di quelle cellule,
quindi di quell’organo, un altro invece darà rallentamento di quell’attività, bloccando l’attività.
E’ sbagliato pensare che il sistema nervoso simpatico sia un sistema generalmente stimolatore, mentre il
parasimpatico sia prevalentemente inibitore. Ciò è vero solo su alcuni organi, su altri è esattamente il
contrario.
Quando le due divisioni sono presenti contemporaneamente, una medierà un effetto stimolatorio, e l’altra
medierà un effetto inibitorio. In particolare, il simpatico avrà un effetto stimolatorio di quegli organi e di
quegli apparati che consumano energia. Il parasimpatico invece tende ad aumentare l’attività di quegli
organi e di quegli apparati che servono per recuperare energia e quindi per esempio il tratto gastro-
intestinale, noi ricaviamo energia dai nutrienti che ingeriamo durante il pasto e quest’energia che è quella
contenuta all’interno dei legami chimici degli alimenti viene utilizzata dai substrati energetici che devono
essere digeriti e poi assorbiti per raggiungere le varie cellule.
Il sistema nervoso,
soprattutto il sistema
nervoso simpatico presiede
alla cosiddetta risposta
“combatti o scappa”. La
risposta “combatti o scappa”
è una risposta di
sopravvivenza che consente
all’organismo di attivare una
risposta che o gli fa
affrontare la situazione di
emergenza oppure lo fa
allontanare dalla situazione
di emergenza. In queste
situazioni il sistema nervoso
simpatico andrà a potenziare
l’attività di quegli organi che
in quella data risposta consumano energia, mentre il sistema nervoso parasimpatico andrà a ridurre
l’attività di quegli organi che dovrebbero recuperare l’energia.
Affinchè tutto questo avvenga è necessario che gli organi bersaglio coinvolti siano ricchi di recettori
colinergici o adrenergici.
Accanto al simpatico e al parasimpatico c’è un’altra divisione del sistema nervoso autonomo che è il
sistema nervoso enterico.
Il sistema nervoso enterico è il sistema nervoso che
controlla localmente l’attività dell’apparato
gastroenterico. Questo sistema nervoso è a sua
volta controllato dal sistema nervoso autonomo
simpatico e parasimpatico, ma ha una sua
caratterizzazione che lo rende come se fosse una
divisione aggiuntiva del sistema nervoso autonomo.
Questo sistema è paragonato ad un piccolo cervello
in quanto contiene tutti gli elementi che abbiamo
visto nel sistema nervoso. Abbiamo terminali
sensoriali, fibre sensoriali, interneuroni, neuroni
efferenti ed organi bersaglio (muscolo o ghiandole).
In alcuni casi i neuroni del sistema nervoso enterico fuoriescono dalla parete dell’organo enterico e
raggiungono i gangli autonomi, esterni, extra-murali, per poi controllare quest’attività e creare degli archi
riflessi molto corti.
Le fibre si organizzano in questo sistema prevalentemente all’interno di due plessi, il plesso sottomucoso di
Meissner e il plesso mienterico di Auerbach (si trova nella parete muscolare). Ogni plesso è costituito da
piccoli gangli autonomi connessi da fibre amieliniche.
Il sistema nervoso enterico contiene dunque tutto il necessario per vivere di vita propria. In realtà però,
oltre ad avere una sua autonomia dal sistema nervoso autonomo è anche controllato e comunica con esso.
Nell’immagine possiamo osservare uno schema di intestino,
abbiamo la mucosa e la sottomucosa dove abbiamo il plesso
di Meissner.
Tra la muscolatura longitudinale e la muscolatura circolare
abbiamo invece il plesso mienterico (di Auerbach).
Entrambi i plessi sono raggiunti da fibre parasimpatiche
postgangliari che stimolano l’attività di questi neuroni e da
fibre simpatiche postgangliari che inibiscono l’attività di
questi neuroni.
Ciò perché come abbiamo detto il sistema nervoso parasimpatico è uno stimolatore dell’attività
gastroenterica, mentre il sistema nervoso simpatico è un inibitore dell’attività gastroenterica.

Nella trasmissione adrenergica, tutta la fibra


assonale del neurone è popolata da
varicosità che sono sedi di rilascio del
neurotrasmettitore. Quando il ramo
assonale con tutte le varicosità è a contatto
con l’organo bersaglio saranno molti i siti di
rilascio del neurotrasmettitore, quindi
l’azione del neurotrasmettitore adrenergico
sarà un’azione diffusa, estesa. Quest’azione
estesa è un ulteriore elemento che
caratterizza il fatto che l’attivazione
simpatica dà effetti generalizzati, diffusi,
persistenti, ampi. Nell’immagine vediamo
che la noradrenalina formatasi viene
impacchettata nelle vescicole e rilasciata ed agisce sui recettori adrenergici. Ma a questi recettori
adrenergici arriva anche l’adrenalina rilasciata dal surrene, hanno dunque doppia possibilità di essere
stimolati. La noradrenalina dopo aver svolto la sua azione viene ricaptata, recuperata da autorecettori, una
parte viene disattivata da enzimi specifici e una parte va nel sangue. La parte che va nel sangue rivà in
circolo e ritrova gli stessi recettori adrenergici presenti sugli altri organi bersaglio.
L’effetto andrenergico è più consistente di quello colinergico.
E’ importante osservare che in tutti i casi si
tratta di recettori accoppiati a proteine G, ma le
proteine G possono essere diverse. Ad
esempio, gli α2 sono accoppiati a proteine G
inibitorie, abbassano la quantità di cAMP
perché bloccano l’attività dell’adenilato ciclasi,
dunque bloccano l’attività della PKA.
Dall’altro lato gli α1 sono accoppiati a proteine
Gq che attraverso la fosfolipasi C producono
diacilglicerolo (DAG) ed inositolo trifosfato IP3,
viene stimolata la produzione della proteina
chinasi C (PKC) e viene aumentata la
disponibilità di Ca2+.
Nel caso dei recettori β, i β1 a seconda del tipo
di cellula nella quale si trovano sono accoppiati
proteine G stimolatorie.
Gli effetti di ognuno dei recettori sono
differenti e dipendono dal tipo di proteina G
che è associata.
Un esempio dell’attività del sistema
nervoso autonomo è rappresentato dalla
regolazione della vasomotilità.

Asse ipotalamo-ipofisi
L’asse ipotalamo-ipofisi è una struttura funzionale che rappresenta il punto di raccordo tra il sistema
nervoso e il sistema ormonale.
Gli ormoni sono delle sostanze che svolgono delle azioni su organi bersaglio, sono molecole di natura
differente che possono essere classificati in vari modi.

Questo asse mette insieme il punto di


congiunzione strutturale e funzionale tra
strutture prettamente nervose, quindi
neuroni e aree cerebrali con cellule che sono
in grado di produrre degli ormoni.
Le sostanze secrete dagli ormoni possono svolgere azione esocrina, cioè essere versati all’esterno tipo la
saliva o il sudore (non sono in questo caso azioni ormonali) o endocrina, all’interno dell’organismo (si tratta
in questo caso di azioni ormonali). Se il bersaglio è lontano dalla cellula che ha prodotto l’ormone avremo
un effetto endocrino proprio, quando la sostanza circola nel sangue e raggiunge il bersaglio; oppure potrà
essere paracrino se la sostanza è prodotta da una cellula ed agisce sulla cellula vicina o ancora autocrino
quando la cellula produce la sostanza e la sostanza agisce sulla stessa cellula che l ha prodotta.
Nell’asse ipotalamo-ipofisi gli stimoli raccolti dal sistema nervoso possono in qualche modo influenzare
l’attività del sistema endocrino.
L’asse ipotalamo-ipofisi, come di evince dal nome è costituita dall’ipotalamo e dall’ipofisi, collegati dal
peduncolo ipofisario. Si tratta di un asse sia anatomico che funzionale.
Da un punto di vista strutturale l’ipofisi si divide in una regione posteriore o neuroipofisi costituita da
tessuto nervoso, ed una regione anteriore o adenoipofisi, costituita da tessuto di tipo epiteliale secernente,
cioè endocrino. C’è anche una regione mediale, anche questa costituita da tessuto endocrino.
L’ipofisi è protetta all’interno dell’osso etmoide.
Questo sistema va a controllare tutti gli assi ormonali presenti
nel nostro organismo.

Una serie di fattori ipotalamici


controllano l’attività ipofisaria cosicché gli
organi bersaglio siano controllati nella
loro attività di produzione degli ormoni.
Si vengono a formare quindi dei veri e propri assi ormonali. Si può parlare quindi di assi ipotalamo-ipofisi-
gonadi, ipotalamo-ipofisi-surrene, ipotalamo-ipofisi-tiroide. L’asse ipotalamo-ipofisi ha dunque il suo
terminale nell’organo bersaglio. Uno di questi assi è quello coinvolto nello stress.
L’asse dello stress è l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene.
Variazioni dei ritmi circadiani, attività stressanti, stress di tipo fisico o emozionale, da freddo, da dolore o da
calo glicemico, intervengono e stimolano l’ipotalamo, questo fa si che rilasci l’ormone che attraverso
l’ipofisi controlla il rilascio del cortisolo dalla corteccia surrenale. Il cortisolo è l’ormone dello stress.
Sindrome da stress → patologia ben definita per cui uno stress prolungato sull’organismo, induce
l’attivazione degli assi ormonali, cosicchè la prima risposta dell’organismo è quella di attivare appunto la
risposta “combatti o scappa”. L’organismo attiva dunque delle risposte compensatorie che lo rendono più
performante in risposta a quello stress.
Se lo stress si risolve, l’asse ormonale rientra e l’organismo riprende la sua attività fisiologica.
Se lo stress permane o aumenta, l’organismo inizia ad adattarsi allo stress , mantiene sempre una risposta
compensatoria verso lo stress ma tende ad adattarsi.
L’organismo inizia dunque ad essere meno responsivo allo stress, quando questo prosegue, l’organismo
consuma molta energia, entra in una fasa prima di adattamento, poi di esaurimento delle risorse
energetiche, se lo stress viene elminato l’organismo è ancora in grado di rientrare nella fase fisiologica.
Ma se la risposta è eccessivamente prolungata o lo stress è molto alto, iniziano ad intervenire i danni d
‘organo, gli assi ormonali si squilibrano . La curva di resistenza allo stress precipita bruscamente perchè
l’organismo non è più in grado di gestire lo stress.
Tale sindrome è molto studiata e coinvolge anche l’asse cuore-cervello, l’asse cervello-apparato
gastrointestinale, cervello-gonadi.
Ad esempio molto frequenti sono le amenorree da stress che coinvolge l’asse ormonale ipotalamo-ipofisi-
gonadi.
Regolazione della pressione arteriosa
L’attività del cuore sostiene il flusso del sangue nel circuito polmonare e nel circuito sistemico, può essere
regolata da meccanismi intrinseci e meccanismi estrinseci. I meccanismi intrinseci sono rappresentati dalla
capacità che hanno le cellule cardiache di regolare la propria contrazione in funzione del grado di
distinzione delle fibre prima che queste si contraggono (legge di Starling), mentre la regolazione di tipo
nervoso è a carico del sistema nervoso ortosimpatico.
Abbiamo visto che il sistema nervoso ortosimpatico è un potenziatore dell’attività cardiaca attraverso il
rilascio di noradrenalina e l’attivazione dei recettori β1-adrenergici, mentre il sistema nervoso
parasimpatico è un inibitore dell’attività cardiaca con effetti mediati dall’Ach e dai recettori muscarinici.
La regolazione dell’attività cardiaca ha effetti sulla pressione arteriosa, cioè induce effetti a livello
vascolare, poiché il cuore svolge il suo ruolo di pompa emodinamica per gestire lo sviluppo di adeguate
pressioni e quindi lo spostamento dei volumi ematici, ogni variazione dell’attività cardiaca si trasferisce a
variazioni della performance vascolare.
Nei vasi il passaggio del sangue esercita una pressione che viene operata sulle pareti dei vasi, a questa si
oppone una pressione operata dai vasi verso il sangue, e i valori di questa pressione variano a seconda del
distretto vascolare e variano inoltre ogni qual volta varia l’attività cardiaca e dunque la gittata, ogni qual
volta varia la resistenza periferica o la compliance vascolare o ancora il volume ematico.
Abbiamo visto inoltre che la pressione arteriosa si misura attraverso il sistema di Riva Rocci.
La pressione arteriosa può essere regolata in vari modi e in particolare può avvenire secondo due
meccanismi: un meccanismo rapido che prevede un’azione diretta a livello dei distretti vascolari e del cuore
in modo che nell’arco di un battito cardiaco o in un tempo veloce come quello del circuito ematico possa
essere regolata la pressione; accanto a questi effetti ci sono effetti a lungo termine che richiedono la
partecipazione di meccanismi ormonali che agiscono tramite effetti che, nonostante impieghino più tempo
ad insorgere, sono più duraturi.
Avremo dunque una risposta immediata generata dal sistema cardiovascolare, dalle capacità intrinseche
del sistema cardiovascolare e del suo controllo nervoso ed una risposta più lenta. Questo perché la
pressione arteriosa deve rimanere il più costante possibile durante lo svolgimento delle attività quotidiane
nonostante gli sbalzi provocati dalle diverse esigenze dell’organismo.
L’emodinamica garantisce la corretta perfusione di tutti i distretti dell’organismo con le giuste quantità di
sangue (per perfusione intendiamo il flusso di sangue che raggiunge il distretto e che porta i nutrienti
portando via le sostanze di scarto).
Un modo con il quale viene
regolata la pressione
arteriosa è attraverso la
risposta miogena dei vasi,
risposta intrinseca alle
proprietà del muscolo
liscio vascolare (simile alla
risposta di Frank-Starling)
che permette che si
mantengano costanti il
flusso di sangue in entrata
in un distretto capillare e
quello in uscita.
Considerando il letto
capillare, se un capillare è
più dilatato e riceve un
maggior flusso di sangue, il
flusso di sangue diminuisce negli altri capillari per avere 4 L/min di sangue in uscita.
Il muscolo liscio dei vasi è sempre lievemente, tonicamente contratto, ciò sta ad indicare uno stato di
contrazione basale del muscolo liscio che permette che le pareti arteriolari siano sempre leggermente in
tensione (non sono mai completamente rilassate!). Questo tono vascolare può essere modulato in
eccesso aumentando o riducendosi e solo così potranno variare le resistenze del vaso.
In condizioni normali, nelle arterie arriva il sangue con una pressione arteriosa media di 50 mmHg e lo stato
vasocostrittore dà un determinato valore di resistenza, in queste condizioni si avrà un flusso di 25 mL/sec
nell’arteriola a valle della zona di muscolatura liscia.
Che cos’è la risposta miogena?
Il muscolo liscio di un vaso è in grado di rispondere generando una contrazione più forte se esso viene
allungato prima della contrazione: se aumenta il flusso di sangue in ingresso al letto arteriolare, e di
conseguenza aumenta la pressione arteriosa, la muscolatura liscia si distende passivamente perché accoglie
questo maggior volume di sangue che esercita una maggiore pressione che induce alla distensione del
muscolo liscio; immediatamente il muscolo liscio rilassato per risposta miogena si contrae, generando una
contrazione di risposta allo stiramento provocato dall’arrivo del sangue con maggiore pressione (risposta
che supera l’effetto la precedente distensione), la resistenza del vaso aumenta mentre in precedenza era
diminuita. La risposta miogena fa sì che il calibro del vaso si riduca rapidamente a causa di questa
contrazione generata dalle capacità di risposta del muscolo liscio del vaso per cui aumenta la resistenza e a
valle viene mantenuto un flusso uguale a quello che vi è in condizioni normali.
La risposta miogena è estremamente efficace in senso protettivo verso i vasi (la stessa risposta si ha a
valle dell’arteriola nella zona degli sfinteri precapillari). Il letto capillare è molto delicato, i vasi sono
costituiti anche da una sola cellula endoteliale, quindi l’arrivo del sangue ad alta pressione o in volume
eccessivo sempre ad alta pressione, può danneggiare il delicatissimo letto capillare e allora la risposta
miogena fa si che come compensazione a questo incremento di pressione che si ha, il muscolo stesso
risponda contraendosi, aumentando la resistenza e riducendo il flusso in uscita. In questo modo il letto
capillare viene protetto permettendo la corretta perfusione del letto capillare in cui avvengono gli scambi
tra il sangue e il tessuto ed è necessario un adeguato tempo di perfusione, il sangue deve passare con la
giusta velocità nei capillari per consentire il corretto svolgimento del trasferimento delle sostanze da un
compartimento all’altro (ci sono capillari stretti in cui i globuli rossi passano in fila indiana e in questo modo
viene rallentato il tempo di passaggio dei vasi sanguigni e ottimizza la cessione di ossigeno ai tessuti).
Il letto capillare ha una propria omeostasi che deve essere garantita dalla corretta perfusione ematica e
uno dei meccanismi che consente la corretta perfusione ematica è proprio la risposta miogena operata dal
vaso in cui la muscolatura liscia risponde contraendosi ad un rilassamento che avviene per incremento della
pressione di perfusione.
Accanto a questo c’è una regolazione
affidata al sistema nervoso.
Alcuni vasi sono raggiunti
prevalentemente da fibre di tipo
adrenergico, altri vasi sono raggiunti
da fibre adrenergiche e fibre
colinergiche.
Nel caso della regolazione
adrenergica il sistema adrenergico,
influenza lo stato di contrazione della
muscolatura liscia vascolare, agendo
sia attraverso l’adrenalina rilasciata
dal surrene, sia attraverso la
noradrenalina rilasciata dalle fibre del
neurone postgangliare del sistema
nervoso autonomo ortosimpatico.
Perché quest’effetto della regolazione adrenergica avvenga è necessario che sul muscolo liscio vi siano
recettori per le catecolammine (per l’acetilcolina nel caso del controllo colinergico).
Il vaso è normalmente in condizioni di vasocostrizione tonica vasale e in queste condizioni il sistema
nervoso simpatico tramite i neuroni postgangliari, con una certa frequenza tonica e prolungata nel tempo,
scarica noradrenalina in prossimità della muscolatura liscia vascolare così il muscolo liscio vascolare rimane
tendenzialmente contratto per l’azione mediata dai recettori α-adrenergici.
Se aumenta la frequenza di scarica dei neuroni simpatici, aumenteranno il rilascio di noradrenalina e lo
stato di contrazione del muscolo liscio vascolare e di conseguenza si ha un incremento della resistenza del
vaso in quanto si ha la diminuzione del calibro. Ma se aumenta la resistenza è necessario che la pressione
aumenti per poter avere un adeguato flusso a valle, altrimenti si ha una riduzione di quest’ultimo.
Il contrario avviene se si riduce la scarica di noradrenalina in maniera tale da avere vasodilatazione data la
minore operatività dei recettori α-adrenergici.
Sui vasi il sistema nervoso simpatico agisce
come possiamo osservare nell’immagine.
All’interno della muscolatura liscia si
disperdono le ramificazioni, zona di rilascio
della noradrenalina, man mano che aumenta
la scarica del neurone postgangliare aumenta
lo stato di contrazione del muscolo liscio e
quindi verrà indotto l’aumento della
resistenza periferica a causa della riduzione
del calibro. In questo modo il sistema nervoso
può andare a regolare vaso per vaso, distretto
per distretto l’afflusso di sangue e la
pressione arteriosa.

Questa regolazione della pressione arteriosa


viene sentita a livello di centri di controllo
superiori. Come abbiamo detto, nella
regione dell’arco aortico e nella regione dei
seni carotidei esistono delle zone ricche di
barocettori, cioè di recettori di pressione.
Queste zone sono strategiche dal punto di
vista emodinamico dove avviene il
monitoraggio della pressione sanguigna.
I barocettori si trovano nella parete del vaso
in cui arriva il sangue con una certa
pressione permettendo la loro attivazione.
Questi attraverso delle fibre afferenti,
informano i centri nel bulbo che si occupano
del controllo cardiovascolare. Il sangue quando arriva è immediatamente sentito dai recettori che si
trovano nell’arco aortico, nella zona delle carotidi, invece, viene sentita la pressione del sangue che si dirige
verso il letto capillare dell’encefalo; quindi viene monitorata la pressione arteriosa. Quest’informazione
nella forma di potenziali d’azione arriva nel centro di controllo cardiovascolare bulbare da cui partono le
informazioni per i neuroni simpatici, quelli che attraverso la catena simpatica e attraverso il ganglio stellato
arrivano al cuore. I vari gangli portano le informazioni ai vasi e viene attivato il sistema nervoso
parasimpatico (in particolare in questo caso il nervo vago).
Il riflesso barocettivo, dunque, altro non è che un arco riflesso che sente le variazioni della pressione
arteriosa all’interno delle zone che lo compongono.
Quando il sangue arriva nella zona dell’arco
aortico o dei seni carotidei con una
pressione più alta di quella normale
vengono attivati i barocettori che
comunicano attraverso i neuroni afferenti
con i centri bulbari di controllo
cardiovascolare i quali sono costituiti dalle
sinapsi dei neuroni afferenti, da
interneuroni e dai neuroni efferenti.
In uscita dalla rete di neuroni dei centri
bulbari di controllo cardiovascolare vi sono
neuroni che raggiungono il sistema nervoso
parasimpatico, grazie all’attivazione dei
nervi viene attivato il nervo vago, aumenta
la scarica vagale che agisce sul cuore e rallenta l’attività cardiaca. Contemporaneamente un neurone
inibitore sinapta con i nervi simpatici i quali arrivano, viene rallentata l’attività di scarica dei neuroni
pregangliari simpatici e di conseguenza viene rallentata la stimolazione dei neuroni postgangliari simpatici e
diminuiscono i controlli su cuore, arteriole e vene.
All’aumento della pressione arteriosa seguono una serie di azioni che controllano gli elementi che possono
contribuire a far abbassare di nuovo la pressione arteriosa, di conseguenza viene ridotta la stimolazione
simpatica sul cuore, prevale la stimolazione parasimpatica quindi il cuore rallenta contraendosi con meno
forza e con minore frequenza. Il risultato è una diminuzione della gittata cardiaca, viene ridotto il tono
simpatico sul cuore e sui vasi i quali si rilassano, diminuiscono le resistenze periferiche e di conseguenza
diminuisce anche la pressione arteriosa.
Riflesso barocettivo: mediante l’attivazione di un arco riflesso viene regolata dai centri bulbari di controllo
cardiovascolare l’attività del simpatico e del parasimpatico per ottenere un effetto complessivo di
diminuzione della pressione arteriosa. Quando un organo è innervato contemporaneamente dai due
sistemi, simpatico e parasimpatico, questi sono tonicamente operativi e mantengono i loro bersagli in uno
stato di equilibrio omeostatico: sono due sistemi controregolatori uno dell’altro (all’aumentare di uno
diminuisce l’altro).
La regolazione metabolica arteriolare si chiama così
perché gli effetti sui vasi dipendono dall’attività
metabolica ovvero da quanto lavorano le cellule
vascolari.
Se il tessuto che viene irrorato dal distretto vascolare si
trova in una condizione di aumento del metabolismo
(es. muscolo scheletrico quando corriamo) questo fa sì
che il tessuto sia povero di ossigeno, ricco di anidride
carbonica, di adenosina, di protoni e di potassio ovvero
fattori che svolgono effetti differenti: l’ossigeno è
vasocostrittore, mentre la CO2, l’adenosina, l’H+, il K+
sono vasodilatatori.

Quando siamo in un distretto dal metabolismo vigoroso avremo una diminuzione di ossigeno e una
maggiore produzione di CO2 e dei metaboliti vasodilatatori per cui la muscolatura liscia si distenderà,
diminuiranno le resistenze ed il flusso a valle sarà favorito.
Quando il distretto è a riposo e si ha una diminuzione del metabolismo, ci sarà una maggiore disponibilità
di ossigeno ed una minore produzione di adenosina, anidride carbonica, protoni, potassio per cui si avrà
una vasocostrizione ed il flusso si ridurrà a causa dell’incremento delle resistenze.
Tutto questo influenza la pressione arteriosa.
Il tono arteriolare a riposo è regolato
dall’equilibrio fra sostanze vasocostrittrici e
vasodilatatrici. Sui vasi agisce un po' tutto,
agisce l’attività nervosa, l’attività metabolica,
agisce il tono miogeno, per cui i vasi sono
modulati dalla variazione del tono arteriolare.
Questo permette la regolazione rapida della
perfusione della pressione a cui si associano
effetti indotti da ormoni con attività
vasocostrittrice (angiotensina, vasopressina) o
vasodilatatrice (adenosina).

La regolazione della pressione


arteriosa a breve termine è
determinata dall’attività
cardiaca, quindi da quanto il
cuore è in grado e come pompa
il sangue all’interno dell’arterie
e questo viene determinato
dalla frequenza cardiaca e dalla
gittata sistolica; dalla resistenza
arteriolare controllata a livello
locale con un meccanismo
miogeno, ma anche un
meccanismo nervoso,
metabolico o ancora umorale
(operata dall’adrenalina o da altri ormoni); e infine da un effetto dovuto alla distribuzione del sangue tra i
vari distretti arteriosi e venosi.
Accanto a questo però la pressione arteriosa viene regolata anche a lungo termine con variazioni che
interessano prevalentemente gli effetti del volume ematico che dipende da quanta acqua è contenuta
nell’organismo (assunzione di liquidi attraverso la dieta o infusioni di liquido endovena).
Il volume è determinato anche dai liquidi che perdiamo, quindi dalle perdite passive quali sudorazione,
lacrime per umettare l’occhio, emissione di aria umida dall’apparato respiratorio, emorragie o condizioni
particolari. Accanto alle perdite passive ci sono le perdite regolate dal rene.
Il rene
Organo deputato alla regolazione idrosalina e
cardiovascolare.
È un organo pari, posto nella cavità addominale,
ha una forma simile ad un fagiolo, è un costituito
da un parenchima renale, irrorato dal sangue che
arriva dall’arteria renale e lo lascia tramite la vena
renale. L’arteria renale è una diretta derivazione
dell’aorta addominale quindi porta il sangue,
appena uscito dal cuore, nel letto vascolare renale
(molto complesso).
La funzione del rene è svolta da una fitta rete
vascolare ma anche dalle unità funzionali che lo
costituiscono ovvero i nefroni (organi funzionali del rene) i quali sono costituiti da una serie di tubuli
dall’andamento convoluto o rettilineo che convergono in tubuli di calibro maggiore che sfociano poi nel
bacinetto renale in cui si raccoglie l’urina la quale, attraverso l’uretere, viene indirizzata verso la vescica
dalla quale viene eliminata. Queste strutture tubulari sono circondate da strutture vascolari ovvero i vasi
che arrivano come ramificazioni successive dell’arteria renale.
Le parti tubulari sono costituite da una porzione che racchiude una rete di capillari dall’aspetto globoso
detta glomerulo il quale riceve il sangue da un piccolo ramo vascolare, il sangue passa nel glomerulo e
fuoriesce da un altro ramo vascolare (due arteriole) da cui partono una serie di capillari che corrono in
parallelo con i tubuli, sono in continua comunicazione e si raccolgono per fuoriuscire nella vena renale.
Intorno a questa struttura capillare vi è una capsula di tessuto epiteliale detta capsula di Bowman che
continua nei tubuli renali.
L’arteria renale entra nel rene ramificando e da
questa ramificazione ne partono tante altre
rivolte verso la periferia renale; la
vascolarizzazione renale permette che la zona
periferica del rene detta corticale sia irrorata
da una serie di piccole arteriole mentre la
regione centrale, midollare è irrorata da vasi di
calibro maggiore. Altre strutture del
parenchima renale sono i calici, le papille renali
e nella regione corticale si trovano le arterie
(interlombari, interloculari), quelle interloculari
danno luogo a piccoli rami in uscita ovvero
delle arteriole le quali ramificano formando un
gomitolo di capillari detto glomerulo in cui
arriva il sangue e vi transita tramite i capillari fuoriu scendo da un’altra arteriola.
L’arteriola che porta il sangue dalle arterie interlobulari al glomerulo è detta arteriola afferente mentre
quella che porta il sangue fuori dal glomerulo è l’arteriola efferente la quale continua con una serie di
capillari che scendono verso la midollare del rene e poi risalgono per tornare verso la corticale e andar via
attraverso vasi di calibro maggiore tramite l’arteria renale.
Nella corticale si trovano anche le porzioni prossimali del nefrone, si trova una capsula epiteliale che
avvolge il glomerulo chiamata capsula di Bowman da cui parte un tubulo detto tubulo contorto prossimale
(prossimale alla capsula, contorto perché convoluto) che inizia a scendere verso la regione midollare,
diventa rettilineo, arriva nella midollare più o meno in profondità e risale con andamento rettilineo
formando la cosiddetta ansa di Henle la quale risale verso la corticale, il tubulo ritorna convoluto e forma il
tubulo contorto distale il quale si unisce attraverso il tubulo collettore ad un dotto collettore che raccoglie
l’urina formata facendola convergere nelle regioni alla fine delle papille renali per raccoglierla poi nella
parete renale.
Il sangue che arriva attraverso l’arteria renale si distribuisce prevalentemente nella regione corticale in cui
si trovano i nefroni mentre nella regione midollare si trovano le anse di Henle, regioni del nefrone.
Il rene riceve circa il 25% della gittata cardiaca, arriva a pressioni elevate essendo vicino l’uscita del cuore e
non essendo al termine della caduta pressoria: l’intero volume di sangue viene filtrato dal rene circa 340
volte ogni giorno.
Il sangue si distribuisce intorno ai tubuli infatti si
parla di capillari peritubulari, poi arriva nei vasa
recta (vasi diritti) attraverso l’ansa di Henle e risale
nei vasi interloculari grazie a cui poi fuoriesce dal
rene.
Alcune anse di Henle arrivano nella midollare
profonda mentre altre arrivano al confine tra la
midollare e la corticale: i nefroni sono detti nefroni
corticali perché quasi tutti sono localizzati nella
zona corticale oppure nefroni juxtamidollari
essendo più vicini alla midollare.

Funzione renale

Innanzitutto, il rene regola la volemia (pressione arteriosa) e le


caratteristiche del sangue; regola la pressione osmotica del
liquido extracellulare; regola la concentrazione ematica di ioni
e metaboliti nel sangue; regola il pH ematico; elimina prodotti
finali del metabolismo (urea, acido urico, creatinina, bilirubina,
acido fosforico e solforico, derivati ormonali inattivi, farmaci,
ecc; elimina i composti tossici (organo detossificante).
Il rene riesce a svolgere queste funzioni grazie a 4 processi:
filtrazione, riassorbimento, secrezione ed escrezione.
La filtrazione è quel processo che avviene sul sangue,
Il sangue che arriva al rene e ai glomeruli viene filtrato quindi
alcune sostanze dal sangue passano nei tubuli renali; questo
processo comincia all’inizio del nefrone quando il sangue arriva
al glomerulo ed è il primo dei processi di formazione dell’urina.
Da questa filtrazione si produce un liquido ultrafiltrato
glomerulare che attraversa i tubuli renali in cui viene modificato
con il riassorbimento e la secrezione.
Alcune sostanze precedentemente filtrate vengono recuperate nuovamente quindi dal liquido tubulare
vanno verso il sangue, mentre altre dal sangue si dirigono verso il liquido tubulare.
Il prodotto finale di questo processo di elaborazione fa si che il primo liquido filtrato che diventa liquido
tubulare arrivando nella zona dei dotti collettori come pre-urina viene poi mandato nella vescica ed escreto
tramite la minzione.
Il glomerulo e la capsula di Bowman costituiscono il corpuscolo renale.

La filtrazione rappresenta il primo evento nella formazione dell’urina e produce circa 180 L/giorno di liquido
filtrato detto ultrafiltrato glomerulare nell’uomo, tale evento permette la rimozione dal sangue di acqua e
soluti non proteici.
Affinché possa avvenire la filtrazione dev’esserci da un lato il sangue, dall’altro una struttura dove si
raccoglie questo filtrato prodotto ed un setto filtrante.

Importante alla filtrazione è la struttura del


corpuscolo renale (o corpuscolo del Malpighi),
costituito dal glomerulo e dalla capsula di Bowman: il
sangue entra dall’arteriola afferente a bassa
resistenza (corta e larga), si distribuisce nei capillari
glomerulari e fuoriesce dall’arteriola efferente ad
alta resistenza (lunga e sottile).
Normalmente il letto capillare riceve il sangue dalle
arteriole e lo manda alle venule, in questo caso il
letto capillare è posto tra due arteriole
(diversamente il rene non potrebbe svolgere la
propria funzione) e per questo motivo è definito rete mirabile arteriosa.
Questa zona vascolare con l’arteriola afferente e l’arteriola efferente vanno a formare il cosiddetto polo
vascolare del corpuscolo renale; i capillari del glomerulo sono avvolti da un tessuto epiteliale che forma
l’inizio del tubulo renale. La capsula di Bowman è formata da una porzione esterna detta endotelio
parietale della capsula e da una regione a contatto con i capillari ovvero la regione viscerale della capsula.
Tra una regione e l’altra vi è lo spazio di Bowman in cui si raccoglie il liquido filtrato, le due regioni formano
il setto attraverso cui avviene la filtrazione glomerulare.
Il setto filtrante prevede la presenza dell’endotelio
dei capillari del glomerulo detto endotelio
fenestrato siccome la parete endoteliale è
interrotta da varchi, le cellule presentano zone
libere ed è una struttura ad alta permeabilità
siccome vi avvengono molti scambi e consentono la
comunicazione tra il sangue ed il tessuto
circostante (muscolo liscio del vaso, interstizio per i
capillari). Gli endoteli sono sede del traffico
transendoteliale dato che si formano vescicole di
endocitosi che attraversano la cellula passando dall’altra parte portando fuori le sostanze e garantendo il
transito vescicolare.
Le cellule endoteliali sono giunzioni larghe quindi possono passare sostanze attraverso le vie paracellulari
tra una cellula e l’altra. In questo caso il passaggio nell’endotelio dei capillari del glomerulo avviene
attraverso fenestrazioni ampie (arrivano massimo fino a 100 nm).
L’endotelio si poggia su una membrana basale la quale si
appoggia dall’altro lato alle cellule del foglietto viscerale
della capsula di Bowman: queste cellule sono cellule
epiteliali dalla forma molto particolare dette podociti
caratterizzati da una zona centrale in cui vi è il nucleo
(processo primario) e da una serie di prolungamenti sottili
detti pedicelli, prolungamenti digitiformi, i quali sono
organizzati in modo che quelli di un podocita sono
alternati con quelli del podocita adiacente (quasi a
formare un setaccio), tra un pedicello e l’altro si formano
zone vuote dette fessure di filtrazione (30-40 nm) e
corrispondono alle finestre dell’endotelio capillare (circa 70 nm) attraverso cui passano sostanze contenute
nel plasma che passano il filtro formando il filtrato glomerulare: in alcuni nefriti questa struttura potrebbe
anche alterarsi.

L’epitelio viscerale modificato contribuisce a formare il setto


filtrante. Tra un pedicello e l’altro si formano delle fessure di
filtrazione la cui dimensione e di circa 30-40 nm. Queste
fessure di filtrazione sono più o meno in corrispondenza
delle fenestre dell’endotelio capillare, cioè quegli spazi
all’interno delle cellule endoteliali che hanno una
dimensione di circa 70 nm.

Tra un podocita e l’altro si trova il diaframma di filtrazione


(visibile come struttura elettrondensa) costituito da
proteine, la più abbondante è la nefrina, proteina
costituita da domini Ig-simili molto lunghi (un dominio tipo
fibronectina poggiato più vicino alla membrana) ancorata
con un piede alla membrana del pedicello.
Ogni molecola di nefrina di un pedicello ha ai suoi lati
molecole di nefrina dell’altro pedicello: si genera così un
filamento centrale di circa 10 nm impenetrabile da ogni
sostanza a causa della forza intermolecolare tra le nefrine
di due diversi pedicelli.
Si forma così una struttura interdigitata da cui restano
liberi solo i pori di filtrazione (porzioni molecolari
distanziate tra loro) di circa 4x15 nm che rappresenta il
filtro selettivo per l’albumina, molecola con dimensione affine a quella del poro del setto di filtrazione: la
selezione nel passaggio avviene per dimensione molecolare.
Il setto filtrante fa passare sostanze con dimensioni inferiori a quelle dell’albumina: nel setto filtrante è
posta una membrana basale e dal lato opposto si trova il foglietto viscerale della capsula di Bowman con i
pedicelli dei podociti che formano fessure di filtrazione.
Sostanze (tutte tranne quelle più grandi dell’albumina) che passano in questo setto sono: ioni, acqua,
glucosio, fosfati, sali minerali, amminoacidi.
Quindi i 180 L/giorno formati di filtrato sono rappresentati da un liquido che ha la stessa composizione del
plasma tranne le proteine plasmatiche, di conseguenza il sangue che entra nei capillari del glomerulo viene
filtrato attraverso il setto e il filtrato glomerulare conterrà ciò che ha la dimensione giusta per passare nel
setto con dimensioni sempre più piccole.
Il filtrato glomerulare è un liquido ha alla stessa composizione del plasma tranne le proteine, avrà anche
la stessa osmolarità del plasma nonostante sia diversa la pressione oncotica.

L’ampiezza dei pori di filtrazione è regolata


dalla presenza di cellule muscolari modificate
che formano il mesangio glomerulare: queste
cellule hanno forma più o meno stellata, si
forma un’unità mesangio capillare e siccome
la cellula è contrattile e modificata mantiene
una capacità contrattile.
Questa cellula può contrarsi e ridurre gli spazi
per la filtrazione.
Ci sono delle forze che governano la filtrazione, il verso di spostamento delle particelle che arrivano in
prossimità dei setti filtranti.
Abbiamo detto che quando il sangue arriva nei capillari
dal capo arteriolare e va verso il capo venulare del
capillare, subisce una caduta di pressione che
garantisce il gradiente che consente al sangue di
attraversare i capillari andando dal capo arteriolare
verso il capo venulare, questa pressione del sangue è
una pressione di tipo idraulico (vista come pressione
arteriosa), ed è quella che il sangue esercita sulle pareti
dei vasi alla quale si contrappone l’effetto della parete
del vaso stesso che però nel capillare è molto ridotto.
Questa pressione è una pressione che favorisce la
filtrazione, cioè la forza che spinge le sostanze a lasciare il vaso e ad andare verso l’interstizio.
Si tratta dunque di una pressione favorevole alla filtrazione. Al contrario, sempre nei distretti vascolari, a
questa pressione, si contrappone una pressione generata dalla presenza delle proteine plasmatiche le quali
esercitano un gradiente che richiama acqua, dal vaso verso l’interstizio.
L’interstizio è povero di proteine, quindi le proteine plasmatiche esercitano una forza che richiama acqua
dall’interstizio verso il sangue. Questo significa che da un lato la pressione idrostatica spinge l’acqua e le
sostanze a passare dal sangue verso l’interstizio, dall’altro la pressione oncotica richiama acqua verso il
capillare.
Fin tanto che la pressione idrostatica è superiore a quella oncotica, nei capillari dei tessuti avviene la
filtrazione. Per capire in un tratto capillare se il flusso avviene in entrata o in uscita dal capillare è
sufficiente applicare la formula:
𝑲[(𝑷𝒄𝒂𝒑 − 𝑷𝒊𝒏𝒕 ) − (𝝅𝒄𝒂𝒑 − 𝝅𝒊𝒏𝒕 )]
Dove K è un coefficiente, il coefficiente di filtrazione. Il flusso transendoteliale è dato dalla differenza tra la
pressione idrostatica nel capillare e la pressione idrostatica nell’interstizio, meno la differenza tra la
pressione oncotica del capillare e la pressione oncotica dell’interstizio, tutto moltiplicato per il coefficiente
di filtrazione. Questa differenza tra le pressioni è la forza netta che consente la filtrazione.
Fin tanto che la pressione nel capillare è più alta della pressione oncotica, in quel tratto di capillare avverrà
la filtrazione, cioè i liquidi lasceranno il capillare per andare fuori dal capillare stesso, si avrà perciò un
flusso in uscita.
Man mano che ci avviciniamo al capo venulare, però, la pressione idrostatica cade, c’è questa diminuzione
della pressione idrostatica che fa si che la pressione scenda al di sotto della pressione oncotica. Quando la
pressione idrostatica si riduce al di sotto della pressione oncotica, questa prevale, per cui i liquidi
dall’interstizio passeranno verso i vasi, si avrà in questo caso assorbimento.
Ciò è quanto definito dall’equilibrio idro-osmotico di Starling, vale nei capillari tissutali e nei capillari del
glomerulo con una differenza.
La differenza nei capillari del glomerulo è che proprio
nei capillari del glomerulo, la presenza di una arteriola
efferente, di un vaso arteriolare in uscita, stretto, lungo
ad alta resistenza, fa si che non ci sia quella riduzione di
pressione che si ha nei capillari tissutali.
Il sangue arriva nell’arteriola afferente ad alta pressione
(60 mmHg). I valori alti di pressione sono dovuti al fatto
che il sangue arriva all’arteria renale con circa 100
mmHg, essendo prossimi al cuore non si è ancora avuta
la caduta di pressione che si ha man mano che ci si
allontana dal ventricolo sinistro.
La differenza di pressione idraulica tra il sangue nel capillare (60mmHg) e la pressione all’interno del liquido
della capsula di Bowman (15mmHg) dà una pressione netta di filtrazione in uscita in quanto la pressione
idrostatica del sangue risulta essere maggiore rispetto a quella del liquido della capsula di Bowman. Il
sangue arriva con un’alta pressione oncotica, pari a 25 mmHg. La pressione oncotica del liquido che si sta
raccogliendo nella capsula di Bowman è 0, questo significa che il liquido tenderà ad andare dalla capsula di
Bowman verso il sangue. Mettendo questi numeri nel calcolo della pressione netta di filtrazione, abbiamo
che la forza netta di filtrazione sarà di 20 mmHg, favorevole dunque alla filtrazione che spinge acqua e
sostanze a lasciare i capillari e a raccogliersi nella capsula di Bowman.
Man mano che il sangue va verso l’uscita, quindi verso l’arteriola efferente, scende la pressione idrostatica,
però proprio perché c’è un’arteriola a valle non scende moltissimo, per cui quando arriva prima
dell’arteriola efferente avrà un valore di 55 mmHg. La pressione all’interno dei capillari si sarà dunque
abbassata di poco. Nel frattempo, il sangue all’interno dei capillari avrà perso acqua, ma non vengono
trasferite nella capsula di Bowman le proteine plasmatiche, questo genera un incremento della pressione
oncotica che sale a 35 mmHg. Nello stesso tempo nella capsula di Bowman non ci sono proteine quindi la
pressione, dunque la pressione oncotica rimarrà 0 e rimarrà sempre 15 mmHg la pressione idraulica nella
capsula di Bowman perché il liquido si raccoglie ma viene subito trasferito nel tubulo contorto prossimale,
dunque non c’è un incremento di volume nella capsula.
Se andiamo a sostituire all’interno della pressione netta della formula, avremo alla fine un valore di 5
mmHg, anche questo positivo, per cui anche qui avverrà filtrazione.
A differenza di quello che avviene nei capillari tissutali, nei capillari glomerulari, a causa di questi valori di
pressione, avviene filtrazione sia dal lato in ingresso, che dal lato in uscita.
Ciò significa che l’equilibrio idro-osmotico di
Starling sarà verificato anche qui, però sarà
verificato in termini di filtrazione.
Lungo tutto il percorso del sangue nei capillari
glomerulari avviene sempre ed esclusivamente
filtrazione e mai assorbimento.
Nel grafico possiamo notare come all’inizio
abbiamo una forte filtrazione, c’è una pressione
netta di filtrazione molto elevata, perché il
gradiente di pressione idrostatica è molto più
alto del gradiente di pressione oncotica, quindi
avviene molta filtrazione.
Man mano che andiamo verso il capo afferente,
la pressione netta diminuisce, diminuisce la pressione idrostatica, aumenta la pressione oncotica, ma non
arriva mai all’inversione come nei capillari tissutali.
Per cui avremo al massimo un equilibrio di filtrazione, cioè avremo una pressione di filtrazione netta pari a
0, ma non avremo mai assorbimento.
Ciò rappresenta l’effetto emodinamico dell’essere una rete mirabile arteriosa, viene garantita sempre la
filtrazione, in ogni tratto dei capillari glomerulari, per cui non avremo mai assorbimento, al massimo non
avremo proprio filtrazione.
La filtrazione avviene dunque perché abbiamo dei requisiti strutturali, dei requisiti emodinamici e dei
requisiti che risiedono nella natura della membrana basale.
La membrana basale è lo strato ricco di proteine
cariche negativamente, formata da collagene di
tipo IV, laminina, fibronectina, entactina e
proteoglicani. Anche le altre membrene, le
membrane basali dei podociti, le membrane delle
fessure, sono tutte ricche di proteine cariche
negativamente. Questo significa che si crea una
regione con un eccesso di cariche negative. Per
questo motivo le proteine che sono
prevalentemente a carica negativa vengono
respinte dalla repulsione elettrostatica di questa
membrana basale, tant’è vero che volendo
calcolare il coefficiente di filtrazione, tipico per
ciascuna particella che attraversa il setto filtrante, vedremo che in base alla dimensione molecolare
vengono prevalentemente filtrate le sostanze con carica positiva.
Questo non riguarda piccoli ioni tipo il cloro che sfugge rapidamente.
Quando si perde la carica, come avviene in alcune nefriti, la filtrazione avviene in maniera indiscriminata,
anche per sostanze che normalmente non verrebbero filtrate.
La selezione molecolare a livello del setto filtrante avviene per dimensioni molecolari, per peso molecolare
e per carica.
Possiamo vedere che passa l’acqua, passa
l’urea, passano alcune proteine fino al
margine dato dall’albumina.
Man mano che incrementa la dimensione
delle sostanze, diminuisce il rapporto tra la
concentrazione dell’ultrafiltrato e la
concentrazione plasmatica. Nel caso
dell’acqua abbiamo tanta acqua nel plasma,
tanta acqua nell’ultrafiltrato, man mano che
arriviamo all’albumina, avremo poca albumina
nell’ultrafiltrato e tutta l’albumina nel plasma.
Questo significa che se le proteine plasmatiche non passano attraverso l’ultrafiltrato, non le ritroveremo
nemmeno nell’urina. La presenza di tali proteine nell’urina è indice di cattivo funzionamento della
filtrazione glomerulare.
E’ quindi estremamente importante che la filtrazione
avvenga in maniera ottimale, per avere una
produzione ottimale di liquido che poi andrà ad
attraversare i globuli renali per dar luogo al processo
di formazione dell’urina.
Come si fa a valutare la corretta filtrazione?
Si sfrutta un meccanismo indiretto che tiene conto
del fatto che una volta che una sostanza è stata
filtrata, passando attraverso i tubuli renali, questa sostanza può essere riassorbita o può essere secreta.
Il filtrato entra nella capsula di Bowman e poi transita attraverso il tubulo renale. Se questa viene
riassorbita, dunque, viene recuperata e ritorna nel sangue. O ancora potrebbe essere secreta dal sangue e
ritornare verso il tubulo renale, la ritroveremo in questo caso nelle urine.
Quello che noi troveremo nelle urine, sarà si il frutto della filtrazione, ma anche di processi intermedi.
Se noi avessimo una sostanza che viene filtrata e assorbita completamente, potremo calcolare come
avviene la filtrazione.
Questo e ciò che avviene utilizzando il metodo
della clearance renale. (Clearance=ripulitura)
Se noi abbiamo la possibilità di avere una
sostanza che sia presente nel plasma, sia filtrata
completamente e poi o completamente
riassorbita o non riassorbita del tutto, possiamo
capire in qualche modo cosa succede.
Una sostanza che può essere utilizzata
sperimentalmente, è uno zucchero che
usualmente non produciamo che è l’inulina.
L’inulina viene filtrata tutta nel passaggio
attraverso il glomerulo e non ci sono sistemi nel
tubulo renale affinché essa venga riassorbita.
Tanta inulina c’è nel filtrato tanta ne
recuperiamo nell’urina che viene escreta.
Poiché tutta l’inulina che c’è nel sangue viene filtrata, avremo che il contenuto di inulina plasmatico è
uguale all’inulina che viene filtrata e all’inulina che viene escreta.
L’inulina che troviamo nell’urina, corrisponde all’inulina che troviamo nel plasma.
Se consideriamo la concentrazione plasmatica di inulina, il volume di urina che viene prodotto nell’unità di
tempo e conosciamo la concentrazione dell’inulina presente nell’urina, possiamo calcolare la velocità di
filtrazione glomerulare perché sappiamo che la quantità filtrata nel tempo è uguale alla quantità escreta nel
tempo.
Questo significa che la quantità filtrata nel tempo è una velocità, è la velocità della filtrazione glomerulare.
Poiché conosciamo il volume di urina, perché lo possiamo raccogliere e conosciamo la concentrazione di
inulina nell’urina, sappiamo che la quantità filtrata nel tempo moltiplicata per la concentrazione plasmatica
di inulina, è uguale alla concentrazione di inulina nell’urina per il volume di urina nel tempo.
Se noi risolviamo ed estraiamo la velocità della filtrazione glomerulare vediamo che la possiamo calcolare
moltiplicando il volume dell’urina per la concentrazione di inulina nell’urina diviso la concentrazione
plasmatica di inulina. Questo ci consente di calcolare la velocità della filtrazione glomerulare e ci consente
anche di capire se ha una clearance uguale a quella dell’inulina.
L’inulina ha la clearance completa, per cui se consideriamo la clearance dell’inulina come termina di
paragone, possiamo vedere come e se altre sostanze vengono filtrate e come vengono trattate lungo il
passaggio nel tubulo renale.
Normalmente per calcolare l’efficienza della filtrazione glomerulare, non si usa l’inulina ma si usa la
creatinina.
Se la clearance di una sostanza è, maggiore della clearance dell’inulina, significa che la sostanza è stata
secreta passando attraverso i tubuli renali, se invece la clearance della sostanza è minore della clearance
dell’inulina, la sostanza è stata riassorbita.
Se la clearance è uguale la sostanza è stata esclusivamente filtrata.
La filtrazione molecolare avviene, solo perché al rene arriva il sangue, quindi il flusso ematico renale
determina la filtrazione. Il flusso ematico renale determina la velocità di filtrazione glomerulare perchè
dipende appunto da quanto sangue arriva al rene nell’unità di tempo.
Il flusso ematico renale inoltre determina la velocità del riassorbimento tubulare; partecipa alla
concentrazione dell’urina; ovviamente fornisce al rene l’ossigeno i nutrienti, rimuove CO2 e i cataboliti per
la sopravvivenza corretta delle stesse cellule che formano il nefrone.
In termini emodinamici è fondamentale per il corretto funzionamento del nefrone.
Al rene arriva circa il 25% della gittata cardiaca, quindi circa 1200/1500 ml di plasma al minuto.
Il flusso dipende dalla differenza di pressione diviso la resistenza.
𝐹𝐸𝑅 = ∆𝑃/𝑅
La differenza di pressione è la differenza che c’è nel sangue in ingresso e il sangue in uscita; la resistenza è
la resistenza dei vasi renali (delle arterie, delle arteriole).
Le arteriole glomerulari in entrata e in uscita influenzano la filtrazione, influenzano il flusso del sangue nel
singolo glomerulo ma influenzano in maniera importante tutta la resistenza vascolare del rene. Per cui
tutto il rene funzionerà se il flusso ematico è gestito in maniera corretta nel rene e questo dipende dalla
pressione alla quale il sangue arriva al rene e dalle resistenze.
Possiamo vedere che le arteriole possono essere
modulate in termini di tono vascolare, anche in
queste esiste un tono vascolare basale (non sono mai
completamente rilassate) ma possono essere
modulate in maniera differente. Possono costringersi
le arteriole in ingresso, quindi quelle afferenti,
oppure quelle efferenti.
L’effetto sul glomerulo sarà diverso se si vaso
costringono le arteriole in ingresso o si vaso
costringono le arteriole in uscita.
Quando si vaso costringono le arteriole in ingresso,
aumenta la resistenza, per cui al glomerulo arriverà
un minore flusso di sangue.
Ma se si vaso costringono tutte le arteriole in ingresso aumenta la resistenza totale del rene e diminuirà il
flusso ematico al rene. Questo significa che il sangue che arriverà al glomerulo arriverà con una pressione
minore, perché la vasocostrizione farà cadere la pressione a valle. Ma se diminuisce la pressione con la
quale il sangue arriva al glomerulo, diminuirà la forza elettrostatica che favorisce la filtrazione.
Verrà prodotto meno filtrato e diminuirà anche la velocità di filtrazione glomerulare.
Esattamente l’opposto sulla filtrazione glomerulare, si ha quando viene vaso costretta l’arteriola efferente.
L’effetto sul flusso ematico sarà sempre lo stesso, perché il flusso ematico diminuirà in quanto
diminuiscono le resistenze totali del rene.
L’incremento delle resistenze a valle fa si che il sangue che arrivi nel glomerulo abbia una pressione
maggiore, perché aumenta la pressione a monte e ciò implica un aumento della filtrazione glomerulare.
L’effetto sarà dunque uguale sul flusso ematico ma diverso sulla velocità di filtrazione.
Se invece le arteriole si dilatano, quando si dilata l’arteriola a valle, la vasodilatazione riduce le resistenze e
se riduce le resistenze totali del rene, il flusso sarà favorito.
Però la vasodilatazione a valle favorisce l’uscita del sangue dal capillare, quindi diminuisce la pressione
capillare. Aumenta il flusso ematico ma diminuisce la velocità di filtrazione glomerulare.
Il contrario si ha quando aumenta la vasodilatazione a monte del glomerulo, aumenta il flusso ematico
renale, aumenta la pressione all’interno dei capillari glomerulari e aumenta anche la velocità di filtrazione
glomerulare.
La variazione delle resistenze dell’arteriola afferente e dell’arteriola efferente possono dunque modulare
da un lato il flusso ematico renale dall’altro lato la filtrazione glomerulare.
La velocità del flusso ematico renale è strettamente collegata alla pressione arteriosa. La pressione
all’interno dei capillari glomerulari dipende certamente dal tono delle arteriole a monte e a valle, ma nelle
arteriole il sangue arriva con una pressione che dipende dalla pressione arteriosa generale, cioè quella
generata all’uscita nell’aorta.
Avremo quindi che la velocità di filtrazione glomerulare che può essere modulata in maniera fine
cambiando le resistenze arteriolari in entrata e in uscita, dipende dalla pressione arteriosa.
All’aumentare della pressione arteriosa aumenta il flusso ematico renale e aumenta la velocità di filtrazione
glomerulare, fino ad un limite che è definito ambito di autoregolazione, per cui per incrementi della
pressione arteriosa si mantiene stabile entro un certo limite sia il flusso ematico renale che la velocità di
filtrazione glomerulare.
Quando la pressione arteriosa media è molto bassa e scende al di sotto dei 60 mmHg, il rene si trova a non
essere capace di far avvenire la filtrazione, perché nell’equilibrio idro-osmotico di Starling il valore della
pressione idrostatica sarà così basso che sarà eguagliato dalla pressione oncotica per cui non ci sarà
filtrazione. In questo caso si ha la condizione di anuria, non viene dunque prodotta l’urina.
La pressione di urina incrementa all’aumentare della pressione e aumenta in maniera esponenziale per
valori di pressione molto alti (>240 mmHg), si va in questo caso incontro alla cosiddetta diuresi pressoria,
cioè a quella produzione di urina estremamente alta in volumi.
La regolazione della filtrazione può avvenire perché le arteriole sono in grado di dare una risposta miogena;
o mediante un controllo di tipo nervoso, sull’arteriola efferente, infatti, si trovano dei terminali
ortosimpatici, ci sono recettori β-adrenergici.
La regolazione avviene inoltre mediante una serie di sostanze ormonali, quali l’angiotensina II (ANG II), le
prostaglandine, i peptidi natriuretici, dunque una serie di sostanze con effetto proprio sulla filtrazione
glomerulare.
Ancora, la regolazione può avvenire mediante il cosiddetto feedback tubulo-glomerulare.
Il feedback tubulo-glomerulare è un feedback
che visualizziamo anatomicamente perché
l’organizzazione dei tubuli renali, quindi del
nefrone è tale per cui si viene a formare questo
feedback tra una zona chiamata macula densa,
le cui cellule sono in grado di sentire la qualità
del liquido tubulare che lascia l’ansa di Henle
andando nel tubulo contorto distale, e
l’arteriola afferente.
Le cellule della macula densa informano le
cellule dell’arteriola afferente della qualità del
liquido tubulare che è arrivato nel tubulo
contorto distale. Si forma dunque questo feedback comunicativo tra le cellule cosiddette iuxtaglomerulari,
cioè quelle vicine al glomerulo, e le cellule della macula densa del tubulo distale.
Questa organizzazione anatomica sente la qualità del liquido tubulare che arriva al glomerulo la quale a sua
volta dipende dalla filtrazione glomerulare. Tutto dipende da come viene filtrato il liquido tubulare.
La qualità del liquido tubulare dipende dalla filtrazione glomerulare, se aumenta la velocità di filtrazione
glomerulare, aumenta la velocità del flusso tubulare, perché si produce più ultrafiltrato e più ultrafiltrato
transita attraverso i tubuli e arriva in prossimità della macula densa, aumenta il flusso tubulare e aumenta
la quantità di NaCl del flusso di liquido che transita sulla macula densa ma anche del NaCl che arriva alla
macula densa.
L NaCl è uno dei sali che viene liberamente filtrato, quindi la quantità di NaCl dipende dalla filtrazione
glomerulare.
Quindi se aumenta la velocità di filtrazione glomerulare, aumenta la velocità del flusso tubulare, aumenta la
velocità del flusso alla macula densa e il carico di NaCl, le cellule della macula densa attivano un segnale
non conosciutissimo. Questo segnale fa si che si attivi l’arteriola afferente e che le cellule muscolari lisce si
contraggono, contraendosi le cellule muscolari dell’arteriola afferente, aumenta la resistenza arteriolare,
questa fa diminuire il flusso di sangue al rene, fa diminuire la pressione idrostatica nel glomerulo e
diminuisce la velocità di filtrazione glomerulare, per cui lo stesso stimolo, attiva questo feedback che riduce
la filtrazione glomerulare. Si tratta di un meccanismo di autoregolazione che garantisce il mantenimento di
un equilibrio.
Accanto a questo ci sono una serie di sostanze con effetto umorale che intervengono nella regolazione del
flusso ematico renale e della velocità di filtrazione glomerulare, agendo proprio a livello delle arteriole.
Una possibilità è quella della regolazione dal mesangio.
Quando queste cellule vanno in contrazione, i capillari che
si trovano all’interno di queste cellule vengono
abbracciati e contratti per cui si genera un effetto extra-
vasale che riduce la dimensione delle fessure di
filtrazione, riduce la superfice di filtrazione, questa unità
mesangio-capillare che si forma è contratta e diminuisce
anche la velocità di filtrazione glomerulare.
Queste cellule del mesangio contribuiscono anche a
regolare la velocità della filtrazione glomerulare.

Omeostasi idrosalina e cardiovascolare


omeostasi = equilibrio;
idrosalina = parliamo di acqua e di Sali che
vengono filtrati;
cardiovascolare = perché il rene regola il volume
ematico e ciò regola la pressione arteriosa;

Una volta che si è generato l’ultrafiltrato


glomerulare, questo incomincia a transitare
verso i tubuli renali del nefrone.
Il primo tubulo che attraverserà e il tubulo
contorto prossimale.
Quando il liquido tubulare filtrato inizia ad
andare nei tubuli, le sostanze vengono o
riassorbite o secrete. Il liquido che transita
a livello dei tubuli incontra l’epitelio del
tubulo contorto prossimale, costituito da cellule più o meno cubiche che hanno un lato apicale, quello
luminale, rappresentato da fitti ripiegamenti della membrana che formano il cosiddetto orletto a spazzola.
L’acqua e altri soluti possono andare dal liquido tubulare, attraverso i sistemi di trasporto localizzati sulla
membrana apicale delle cellule dell’epitelio cubico dei tubuli renali, utilizzando dunque la via transcellulare
per dirigersi passando attraverso l’interstizio, verso il sangue.
Possono uscire dalle cellule, adese le une alle altre, attraverso zone di giunzione serrate che possono essere
regolate, le cellule possono essere più adese le une alle altre oppure i varchi possono essere più aperti per
la via paracellulare.
Le modalità utilizzate per il riassorbimento delle sostanze filtrate affinchè ritornino verso il sangue, sono le
vie transcellulari e le vie paracellulari.
I flussi trans-epiteliali sono molto importanti perché come abbiamo detto produciamo 180 litri di filtrato al
giorno ed 1,5/2 litri di urina. Ciò sta a significare che oltre il 90% del liquido che viene filtrato deve essere
riassorbito e l’assorbimento deve avvenire non solo per l’acqua ma anche per i sali.
Una buona parte di questo riassorbimento massivo avviene a livello del tubulo contorto prossimale, in
questa zona avvengono riassorbimenti massivi di acqua e soluti che passano transitando attraverso lo
spazio interstiziale per poi andare nei capillari cosiddetti peritubulari.
Il tubulo contorto prossimale è la sede di
intensa attività di riassorbimento, i
meccanismi con i quali avvengono questi
riassorbimenti sono meccanismi che
richiedono la cooperazione tra vari sistemi
di trasporto.
Anche in questo caso ci sono dei requisiti
strutturali, il primo dei quali è la
caratteristica struttura delle cellule
epiteliali, di tipo cubico. Queste cellule si
distinguono per una regione apicale nella
quale è presente un orletto a spazzola
molto evidente ed una superfice
basolaterale lineare. Queste cellule si
definiscono polarizzate in quanto funzionano in maniera diversa le regioni apicali e le regioni basolaterali,
sono inoltre polarizzate anche in termini elettrici perché le regioni apicali sono bagnate da un liquido
tubulare prevalentemente negativo rispetto alle regioni basolaterali.
La base di tutto il funzionamento di queste cellule è il fatto che la Na+/K+ATPasi è localizzata esclusivamente
sulla membrana vasi laterale, si tratterà dunque principalmente di una polarità funzionale.
Nella zona del tubulo contorto
prossimale avvengono i
riassorbimenti più importanti di
acqua e di sali.
In particolare, il riassorbimento
di acqua avviene con modalità
iso-osmotiche nel senso che
dipende strettamente dai
gradienti osmotici che si
generano a cavallo di queste
cellule (cellule cubiche con
l’orletto a spazzola, ampia
superficie luminale).
Nella regione apicale le cellule
sono dotate di una serie di
trasportatori (es.: trasporti
attivi secondari accoppiati
sodio-glucosio, sodio-amminoacidi, sodio-fosfato, scambiatori sodio-protoni), di canali ionici (canali di
Linkage, canali al sodio sempre aperti e senza gating, non voltaggio-dipendenti): i trasportatori sono
coinvolti da una serie di attività di trasporto che dipendono dal fatto che Na⁺/K⁺ATPasi nella regione
basolaterale porta fuori il sodio sottraendolo dall’ambiente intracellulare di conseguenza la membrana
basolaterale separa un ambiente ricco di sodio filtrato nel lume (il filtrato contiene il sodio ad una
concentrazione simile a quella plasmatica), nella cellula il sodio viene portato via verso la regione
basolaterale dalla Na⁺/K⁺ATPasi e si genera un forte gradiente che funge da motore per l’attività dei
trasportatori attivi secondari che scaricano il gradiente del sodio e portano dentro amminoacidi, glucosio,
fosfato. Una volta che il sodio entra viene subito recuperato dalla Na⁺/K⁺ATPasi e trasferito nella regione
basolaterale così il sodio contenuto nel liquido tubulare transitando nella cellula fuoriesce nella regione
dello spazio interstiziale; siccome si spostano cariche positive, nella regione in prossimità della zona
basolaterale delle cellule ci sarà un eccesso di carica positiva (cellule polarizzate). Ma se il sodio si
trasferisce dalla regione luminale a quella basolaterale si genera il gradiente elettrico ovvero una forza che
attira il cloro a dirigersi verso la regione basolaterale passando attraverso membrane apicali da parte di
canali non voltaggio-dipendenti che lo fanno passare seguendo il gradiente, può passare inoltre attraverso
zone paracellulari (type junctions non perfettamente serrate), quindi dopo che il sodio passa è seguito dal
cloro. Alla fine di questo movimento si genera un eccesso di NaCl nella regione basolaterale che
corrisponde al maggiore responsabile della differenza di osmolarità tra la regione basolaterale e quella
laminale.
Il gradiente osmolare transepiteliale (la zona interstiziale è ad osmolarità maggiore rispetto a quella
luminale) è la forza che richiama l’acqua, la quale attraversando le cellule (ricche di acquaporine) o le vie
paracellulari, seguendo il gradiente osmotico, si trasferisce dal lume (in cui si trova perché contenuta nel
liquido tubulare che deriva dal plasma) nella regione interstiziale.
Il risultato di questo movimento è che nella regione interstiziale l’eccesso di NaCl ha causato il gradiente
osmotico che richiama acqua per cui dal lume vengono riassorbiti acqua e NaCl, trasferito nell’interstizio e
da quest’ultimo passa nei capillari peritubulari e viene portato via dal sangue.
I movimenti di soluti richiedono che la cellula intera partecipi ed i vari distretti della cellula siano coinvolti in
maniera diversa in questi meccanismi di trasporto.
La Na⁺/K⁺-ATPasi genera i gradienti di sodio i quali sostengono l’ingresso del sodio ad opera di trasportatori
accoppiati (trasporti attivi secondari), il quale entra in cootrasporto con gli amminoacidi, glucosio e fosfati o
in scambio con i protoni, quindi il passaggio dei protoni acidifica l’urina. Ciò sta alla base del riassorbimento
di cloro e dell’acqua: questo meccanismo dipende dalla quantità di NaCl che passa dal lume verso
l’interstizio la quale determina il gradiente osmotico che causa il richiamo di acqua; in queste zone avviene
quasi il 90% del riassorbimento dell’acqua, ciò avviene in maniera obbligata.
Se c’è energia per sostenere l’attività della Na⁺/K⁺-ATPasi ci sarà il riassorbimento di acqua e di NaCl.

Nelle regioni del tubulo contorto prossimale


viene anche riassorbito il bicarbonato (filtrato
e trasferito dal plasma nell’ultrafiltrato
glomerulare).
La Na⁺/K⁺-ATPasi genera il gradiente del sodio
il quale sostiene lo scambiatore sodio-protoni
che porta fuori i protoni derivanti
dall’idratazione dell’anidride carbonica: nelle
cellule del tubulo contorto si trova l’enzima
anidrasi carbonica che velocizza la reazione di
idratazione della CO2, per cui l’anidride
carbonica e l’acqua formano l’acido carbonico
che si dissocia rapidamente in H⁺ e bicarbonato: l’ H⁺ fuoriesce dalla membrana luminale o in scambio con il
sodio o ad opera di una pompa protonica, un’ATPasi che manda fuori gli H⁺ e che quando arrivano nel lume
incontrano lo ione bicarbonato, si ricostituisce l’acido carbonico che si dissocia in CO₂ ed acqua perché
sull’orletto a spazzola di queste cellule si trova l’anidrasi carbonica che può sia contribuire a formare l’acido
carbonico che a riformare CO₂ e H₂O. L’anidride carbonica rientra nelle cellule, si aggiunge a quella prodotta
dal metabolismo cellulare proveniente dall’interstizio, si riforma l’acido carbonico ed il circuito apicale
continua. Contemporaneamente lo ione bicarbonato si dirige verso la regione basolaterale e viene inviato
con un cotrasportatore sodio-bicarbonato nella regione interstiziale e di conseguenza nel sangue.
Il risultato è il riassorbimento netto del bicarbonato dal lume all’interstizio.

La membrana apicale possiede questi meccanismi


di cootrasporto del sodio con il glucosio, gli
amminoacidi e i fosfati. Ogni volta che passa il
sodio, vengono trasferiti nelle cellule anche
glucosio, amminoacidi e fosfati, recuperate dal
liquido tubulare e portate nella cellula.
Il glucosio è completamente filtrato durante il
processo di filtrazione, di conseguenza tanto
glucosio si trova nel sangue altrettanto si troverà
nell’ultrafiltrato ovvero nel liquido che inizia a
percorrere il tubulo contorto prossimale.
Il glucosio viene utilizzato dal cotrasportatore SGLT
1/2 (sodio-glucosio) della membrana apicale e
portato dentro grazie al trasportatore attivo
secondario. Il Na⁺ funge da motore ed entrando nella cellula trasporta con sé anche il glucosio il quale entra
nella cellula e potrebbe accumularsi nella cellula se sulla membrana basolaterale non si trovasse un
trasportatore specifico per il glucosio, GLUT2, localizzato in maniera selettiva sulla membrana basolaterale
e fa avvenire il passaggio del glucosio nella membrana per diffusione facilitata generando nella membrana
una condizione favorevole al passaggio del glucosio secondo gradiente.
Quando il glucosio dal lume entra nella cellula si crea un gradiente tra l’interno della cellula e la regione
interstiziale e il glucosio passa attraverso il GLUT. Il risultato è che il glucosio è transitato dal liquido
tubulare verso l’interstizio e poi nel sangue, con questo meccanismo il tubulo contorto prossimale assorbe
il glucosio.
Lungo tutto il tratto del nefrone il glucosio viene
assorbito esclusivamente nel tubulo contorto
prossimale ma questo meccanismo di trasporto
è mediato da SGLT (attivo secondario,
membrana apicale) e GLUT (passivo, membrana
basolaterale) quindi la capacità delle cellule del
tubulo contorto prossimale di assorbire il
glucosio è limitata dal gradiente del sodio e dalla
capacità di trasporto dei trasportatori.
Per cui il tubulo contorto prossimale assorbe il
glucosio fino ad un certo limite, la
concentrazione di glucosio che si trova nel
liquido tubulare, è uguale a quella plasmatica
perché il glucosio viene tutto filtrato, man mano
che ci si sposta seguendo la lunghezza del tubulo contorto prossimale l’assorbimento di glucosio tende a
diminuire. Sarà abbondante nelle prime porzioni del tubulo ma poi diminuisce man mano che ci si allontana
in quanto diminuisce la quantità di glucosio presente nel liquido tubulare. L’efficienza del riassorbimento
tubulare del glucosio è estremamente elevata, però c’è un limite oltre il quale il tubulo contorto non riesce
ad assorbire il glucosio, questo limite si raggiunge quando la concentrazione del glucosio plasmatica è
molto elevata. Ciò avviene in quanto questi trasportatori sono Tm limitati, sono trasportatori saturabili
quindi anche se aumenta la disponibilità del substrato da trasportare non aumenta ulteriormente il
trasporto.
Man mano che aumenta la concentrazione di glucosio nel plasma aumenta in maniera direttamente
proporzionale la filtrazione ad opera del setto filtrante del glomerulo. Guardando il grafico in basso,
separandosi dalla linea filtrata, la linea verde compare intorno ai 300 mg/dl perché quando la
concentrazione di glucosio plasmatica è al di sotto la quantità di glucosio riassorbito cresce al crescere del
glucosio filtrato, invece, quando i trasportatori sono completamente saturati, la quantità di glucosio
riassorbita inizia a diminuire. Per cui al di là di un certo valore limite non aumenta il riassorbimento del
glucosio e quando questo accade si inizierà a trovare il glucosio nell’urina. Poichè il liquido tubulare
prosegue negli altri tratti del nefrone in cui non ci sono meccanismi di riassorbimento del glucosio, quando
si saturano quelli del tubulo prossimale si satura completamente la capacità riassorbitiva del glucosio da
parte nel nefrone. Significa che la concentrazione di glucosio plasmatica è elevata infatti è definita “soglia
renale del glucosio” la concentrazione di glucosio plasmatico alla quale corrisponde la comparsa di glucosio
nell’urina; il trasporto di glucosio è di circa 375 mg/min. Superata questa soglia il glucosio lo troviamo
nell’urina e da ciò capiamo che il plasma contiene troppo glucosio,questo è un indice di diabete.
La secrezione è un meccanismo
in base al quale alla sostanza
contenuta nel liquido tubulare
si aggiunge una sostanza che le
cellule del tubulo prossimale
versano nel liquido tubulare: i
protoni (H⁺) vengono secreti nel
tubulo contorto prossimale e in
scambio con Na⁺, come
abbiamo visto si uniscono al
HCO3-, riformano l H2CO che da
origine ad H2O e CO2. Così la
CO2 viene recuperata e dal H2O
abbiamo H+ e OH- che vengono dunque secreti nell’urina.
Nel frattempo, un’altra secrezione che avviene a livello del tubulo contorto prossimale è quella di NH₄⁺ che
deriva dalla glutammina metabolizzata ad ammonio e HCO₃⁻ il quale passa, utilizzando lo stesso
meccanismo utilizzato dall’anidrasi carbonica, nel sangue, ma quando vengono recuperati bicarbonato e
sodio vengono escreti NH₄⁺. Quindi, in questo tratto, all’assorbimento del sodio, del cloro, dell’acqua, del
glucosio, dei fosfati e degli amminoacidi, si accompagna la secrezione di protoni (H+) e ioni ammonio (NH4+).

La secrezione di ioni ammonio ha un ruolo importante


nella compensazione acido-base: al giusto valore di pH e
temperatura funzionano correttamente gli enzimi quindi
l’organismo possiede sistemi tampone a livello renale e
polmonare efficienti per mantenere l’esatto valore di pH
nei liquidi corporei.

A livello del tubulo contorto prossimale,


viene anche riassorbito il calcio (Ca2+) il
quale si trova anche esso nel liquido
tubulare.
Questo riassorbimento nel tubulo contorto
prossimale avviene per una quota di circa
70%. Sulla membrana apicale delle cellule
del tubulo contorto prossimale si trovano
canali per Ca²⁺ , canali ionici particolari,
che legano le sostanze vanilloidi , entra il
calcio seguendo il gradiente elettrochimico
e fuoriesce dalla membrana basolaterale
utilizzando lo scambiatore Na⁺- Ca²⁺ così
Na⁺ entra e Ca²⁺ fuoriesce.
Il calcio può fuoriuscire andando verso il
sangue anche attraverso le vie paracellulari.
I gradienti sono garantiti dalla presenza di una pompa del calcio nella membrana basolaterale che li gestisce
così il Ca²⁺ viene recuperato e il suo riassorbimento è controllato dal paratormone e dal calciferolo.

Il potassio (K+) entra dalla membrana basolaterale


tramite la pompa Na⁺-K⁺ e fuoriesce attraverso la
membrana apicale utilizzando canali specifici.
Nelle regioni più distali del
rene, nelle regioni dei dotti
collettori, il riassorbimento
di acqua è controllato per
via ormonale e il controllo
avviene ad opera
dell’ormone vasopressina o
ormone antidiuretico ADH,
che circola nel sangue
raggiungendo le cellule del
dotto collettore.
Queste cellule possiedono
sulla membrana basolaterale
dei recettori di membrana
per la vasopressina (ormone
peptidico): il recettore per la
vasopressina è accoppiato a
proteine G e induce
l’incremento della produzione di cAMP nella cellula il quale, attivando una cascata di eventi intracellulari,
agisce su alcune vescicole contenute nelle cellule. Queste vescicole, sono vescicole rivestite da membrana e
la loro membrana è ricca di pori idrici (molecole di acquaporina): tramite un meccanismo di esocitosi
mediato dal calcio si avvicinano alla membrana luminale e fondono la propria membrana con quella della
cellula. Questo fa si che le molecole di acquaporina già contenute nella membrana delle vescicole si
inseriscano nella membrana plasmatica della cellula perciò aumentano il numero di molecole di
acquaporina sulla membrana apicale e la permeabilità all’acqua delle regioni del dotto collettore.
La conseguenza funzionale di tutto questo è che l’acqua transita seguendo il gradiente osmotico, passando
dalle regioni del dotto collettore verso l’interstizio e di conseguenza nel sangue. Il risultato dell’effetto
dell’azione della vasopressina è quello di recuperare una quota aggiuntiva di acqua dalla pre-urina che si sta
formando e riportarla nel sangue.
Questo meccanismo è importante per quanto riguarda la regolazione della pressione arteriosa.
La vasopressina è un ormone vasocostrittore ed antidiuretico perché riduce la diuresi, riduce la perdita di
acqua attraverso le urine potenziando il riassorbimento del dotto collettore andando a inserire le molecole
di acquaporina sulla superficie. Ma se l’acqua passa dal liquido tubulare verso il sangue, nel sangue
aumenta il volume plasmatico e di conseguenza si ha un incremento della pressione arteriosa, nello stesso
tempo diminuirà l’osmolarità plasmatica. Uno ei segnali che fa produrre la vasopressina è l’incremento
dell’osmolarità plasmatica, quando l’osmolarità del plasma supera i 280 mOsm gli osmocettori ipotalamici
sentono l’incremento di osmolarità e inducono il rilascio di vasopressina la quale fa recuperare acqua dal
rene e l’acqua farà abbassare l’osmolarità. Contemporaneamente si attivano i barocettori aortici e carotidei
che sentono che la pressione del sangue si è abbassata, la vasopressina viene prodotta, va ad agire sulle
cellule muscolari delle arteriole inducendo vasocostrizione e agisce sul riassorbimento dell’acqua così
aumenterà il volume ematico.
Il risultato è un incremento della pressione arteriosa.
A livello delle cellule del nefrone distale, in
particolare delle cellule P, il riassorbimento
del sodio è regolato dall’aldosterone,
ormone del sale, ormone steroideo che
circola nel sangue e viene prodotto in
maggiore quantità quando diminuiscono la
pressione arteriosa, quando diminuisce il
flusso alla macula densa, processi
strettamente collegati tra loro, e quando
aumenta la concentrazione extra-cellulare
di potassio. L’aldosterone aumenta la
propria concentrazione plasmatica e arriva
nel sangue che perfonde il rene vicino alle
regioni distali, attraversa la membrana per
diffusione semplice e trova i suoi recettori nel citoplasma, recettori intracellulari a cui si lega e va ad agire,
prevalentemente a livello del nucleo, dove va ad indurre la sintesi proteica di tutte quelle proteine
coinvolte nell’assorbimento del sodio. Va quindi a generare nuove pompe di membrana, nuovi canali
potenziando l’equipaggiamento molecolare. Il sodio di conseguenza viene recuperato dalla regione
luminale e poi espulso verso il sangue attraverso le pompe di membrana, contemporaneamente il potassio,
in maggiore concentrazione nel plasma, entra attraverso la Na⁺/K⁺- ATPasi e viene secreto dalla cellula
verso il liquido tubulare in modo da avere un recupero di sale. L’effetto di questo recupero di sale, fa
aumentare anche l’osmolarità plasmatica, fa aumentare la pressione, aumenta il volume e quindi l’effetto
dell’aldosterone si associa a quello della vasopressina, costituendo i due meccanismi principali che regolano
l’assorbimento del sodio e dell’acqua a livello delle regioni distali del rene.

ADH (vasopressina)

L’ADH contribuisce alla


regolazione dell’osmolarità.
Quando non è presente la
vasopressina il dotto collettore
è impermeabile all’acqua la
quale non viene riassorbita,
non passa attraverso la parete
e l’urina è diluita, al contrario,
se è presente la vasopressina
l’acqua viene recuperata dal
liquido verso il sangue e l’urina
prodotta ha un’osmolarità
maggiore.
L’ansa di Henle corrisponde ad
una serie di tubuli, è formata da
due regioni, discendente e
ascendente.
La regione discendente è
costituita da un tubulo detto
ramo discendente spesso
dell’ansa. L’ansa incomincia con
questa regione in cui la parete è
più spessa che corrisponde alla
continuazione del tubulo
prossimale, si trova nella regione
corticale del rene, e inizia a
scendere verso la midollare. Man
mani che scende verso la
midollare, questo tratto
dell’ansa di Henle diventa più
sottile e oltre alla forma cambia
anche la propria funzione in
quanto cambia la permeabilità
delle cellule all’acqua (e ai sali).
Questo tratto sottile continua fino ad arrivare nella midollare e risale con una porzione sottile che si
trasforma poi in una porzione spessa, giunge nel tubulo contorto distale in cui poi termina l’ansa di Henle.
L’ansa è dunque costituita da due porzioni, i due rami dell’ansa, discendente e ascendente, sono paralleli
tra loro e in essi il liquido che scorre, ovvero la pre-urina, lo fa in verso opposto. Quando supera il tubulo
distale e scende nel dotto collettore, il liquido scorre in un tubulo parallelo ai due tratti ma con verso
opposto al tubulo centrale.
L’andamento discesa-salita-discesa è uno dei requisiti funzionali che consente all’ansa di Henle di svolgere il
suo ruolo di regolatore dell’assorbimento di acqua e Sali.
Le porzioni coinvolte in questo meccanismo sono: il tratto discendente dell’ansa, il tratto ascendente e il
dotto collettore, in esse il flusso avviene in controcorrente. Questa struttura del nefrone si trova inserita in
parte all’interno della corticale, ciò è vero per le regioni superiori e si sviluppa all’interno della midollare.
Le anse di Henle hanno lunghezze diverse e di conseguenza svolgono funzioni diverse.
Nei vari tratti dell’ansa ci sono cellule con caratteristiche diverse: quelle delle regioni spesse sono cellule
cubiche, quelle delle regioni sottili sono più appiattite.
Nel tratto discendente le cellule sono permeabili all’acqua ma non ai Sali, non possiedono strutture di
membrana che lascino passare i Sali. Nella regione ascendente dell’ansa, tale regione è impermeabile
all’acqua ma permeabile ai sali: questi due tratti sono asimmetrici dal punto di vista funzionale.
Nel dotto collettore, abbiamo, una permeabilità all’acqua variabile, dipende dalla vasopressina, e una
permeabilità al sodio alta nelle regioni superiori e più bassa in quelle più profonde.
I tre tratti dell’ansa sono paralleli e diversi funzionalmente tra loro. Dalla corticale alla midollare si trova il
liquido contenuto nell’interstizio con un gradiente di osmolarità crescente verso la midollare. Man mano
che scendiamo nella midollare profonda aumenta l’osmolarità.
Tutti questi requisiti sono la base per il funzionamento dell’ansa di Henle.
L’ansa di Henle funziona con un meccanismo cosiddetto controcorrente.
Perché funzioni il meccanismo è necessario
che accanto alle regioni dell’ansa ci siano i
vasi sanguigni, che fuoriescono dall’arteriola
efferente, si diramano nei capillari
peritubulari e ad un certo punto scendono
nella midollare decorrendo in parallelo i con i
rami nell’ansa di Henle con il dotto collettore.
Questo vuol dire che questi vasi fanno parte
delle strutture che stiamo descrivendo e che
decorrono in parallelo con l’ansa di Henle. Si
chiamano vasa recta (vasi diritti), organizzati
anch’essi in parallelo.
Il sangue riceve le sostanze riassorbite
dall’ansa di Henle, ma osservando l’andamento delle frecce ci accorgiamo che le frecce nel sangue sono in
controcorrente rispetto a quelle dell’ansa. Il liquido tubulare scende, il sangue sale. Questo delinea un
sistema definito moltiplicatore in controcorrente. Il meccanismo controcorrente è comune a molti esseri
viventi come ad esempio le zampe degli uccelli. Il ruolo di tale strategia è quello di ridurre le perdite di un
determinato fattore e richiede che dei condotti siano disposti in parallelo tra loro e ciò che transita in tali
strutture si muova in controcorrente.
Per esempio, considerando gli uccelli sul ghiaccio
il sangue che scorre nei vasi parte dalle regioni
interne del corpo, a temperatura più alta di
quelle periferiche, porta la temperatura ai vari
distretti; questi animali sono abituati a stare con
le estremità a contatto con zone particolarmente
fredde. Il sangue che si dirige dalle zampe verso la
superficie del corpo, perde calore man mano
distribuendolo al tessuto che sta perfondendo,
arriva alle estremità poggiate sulla superficie
ghiacciata continuando a perdere calore.
Di conseguenza tornando indietro porterebbe la
temperatura molto bassa agli organi che
attraversa, ritornerebbe verso il core (nucleo) caldo con una temperatura bassa abbassando di
conseguenza anche la temperatura corporea. In realtà la disposizione dei vasi fa sì che il sangue scenda e
quando risale il vaso che sale è affiancato in correlazione fisica con il vaso che scende, quindi il sangue
scendendo perde calore ma una parte di questo calore viene recuperata dal sangue che sta tornando
indietro. Il meccanismo è simile all’ansa di Henle in quanto quello che si perde da un lato viene recuperata
dall’altro.
Perché possa funzionare il meccanismo in controcorrente è necessario che:
-la disposizione dei vari rami sia in parallelo;
-il flusso della pre-urina e del sangue sia in controcorrente nei vari rami;
-i rami dell’ansa di Henle funzionino in maniera diversa;
-queste strutture stiano in un liquido iso-osmotico con quello che scorre nell’ansa, e con il plasma che
scorre nei vasi sanguigni, crescente in osmolarità dalla corticale alla midollare;
Come funziona l’ansa di Henle?
Il liquido tubulare, superando il tubulo contorto prossimale, scendendo nel tratto discendente dell’ansa di
Henle, incontra all’esterno un liquido interstiziale ad osmolarità crescente (da 300mOsm a 1200 mOsm).
Man mano che scende l’acqua è attratta dal gradiente osmotico, lascia l’ansa e viene recuperata dal ramo
ascendente dei vasa recta in cui scorre il sangue che proviene dalla parte profonda che recupera l’acqua,
riduce la propria osmolarità e fuoriesce dalla midollare a 300 mOsm. Nello stesso tempo il liquido sceso
nell’ansa aumenta la propria osmolarità perdendo acqua e arrivando a 1200 mOsm. Inizia così ad
incontrare le regioni ascendenti non più permeabili all’acqua ma ai soluti (Na⁺,K⁺,Cl⁻) assorbiti dalle pareti
del tratto ascendente attraverso una serie di pompe di trasportatori attivi poste nell’interstizio da cui si
spostano nel sangue che si carica dei soluti fuoriusciti dall’ansa di Henle. Caricandosi dei soluti, il sangue
della regione discendente dei vasa recta aumenta la propria osmolarità fino ad arrivare al massimo
dell’osmolarità (presente nella parte del gomito) dopodiché risale, caricandosi di acqua proveniente dai vasi
e dal tratto discendente dell’ansa. Alla fine, guadagnerà in osmolarità e si sarà caricato dei soluti assorbiti
dall’ansa di Henle-
L’ansa di Henle regola la quantità di acqua e soluti con un meccanismo in controcorrente che permette
l’assorbimento dei soluti a livello del ramo ascendente dell’ansa vadano nel sangue a cui si aggiunge
l’acqua proveniente dal tratto discendente dell’ansa. Affinché questo avvenga è necessario che le varie
porzioni siano diverse funzionalmente (in controcorrente) e che all’interno del parenchima renale dalla
corticale alla midollare ci sia un gradiente di osmolarità crescente.
Il gradiente è sostenuto anche
dall’urea la quale viene recuperata a
livello del dotto collettore e
riassorbita nella porzione interna per
diffusione facilitata, passa nei vasa
recta, si concentra nelle regioni
permeabili ad essa, viene riassorbita
nella zona midollare in cui resta
entrando nel liquido tubulare e nel
sangue (in entrambe i punti fa
aumentare l’osmolarità) quindi in
parte è recuperata nel sangue e in
parte nell’ansa di Henle fino a
ritornare nuovamente nel dotto
collettore. Questo circuito midollare
nell’urea è importante per mantenere il gradiente cortico-midollare.
Il recupero di acqua e sali dipende dalla lunghezza dell’ansa di Henle quindi questo recupero sarà maggiore
nei nefroni juxtamidollari e minore nei nefroni corticali (per esempio gli uccelli hanno un’ansa lunghissima
e l’urina è solida).
Questi meccanismi descritti sono collegati al sistema cardiovascolare.
Attraverso il sangue che il cuore manda al rene, il cuore influenza l’attività del rene e il rene modula
l’attività cardiaca motivo per cui si parla di asse cardio-renale.
Il rene è anche la sede della pressione arteriosa in cui avviene la produzione del sistema ormonale renina-
angiotensina-aldosterone ovvero di uno dei protagonisti di questa autoregolazione siccome questo sistema
si attiva a partire dal rene in cui viene prodotta la renina, sostanza che dà il via al sistema.
Sistema renina-angiotensina
Il rene svolge anche una funzione di tipo ormonale, nel senso che contribuisce agli assi ormonali, mediante
l’attivazione del sistema chiamato renina-angiotensina.
Il sistema renina-angiotensina è sostanzialmente una cascata enzimatica, con i suoi substrati, i prodotti di
questa cascata enzimatica vanno ad agire sui recettori di membrana e svolgono degli effetti.
Il ruolo principale del sistema renina-angiotensina è quello di svolgere un’azione regolatoria endocrina (su
organi distanti), paracrina (su cellule limitrofe) e autocrina (sulle cellule stesse che hanno prodotto
l’ormone) dell’omeostasi idrosalina e cardiovascolare.
Le azioni principali del sistema sono una forte azione vasocostrittrice a livello arteriolare e l’induzione della
secrezione di aldosterone.
Agisce a livello renale incrementando l’assorbimento tubulare di NaCl. Il principale componente di questo
sistema è appunto l’angiotensina II, octapeptide che si trova in tutte le specie animali oltre che nell’uomo.

Possiamo notare nella tabella che la sequenza


amminoacidica è complessivamente conservata in
tutte le specie animali. Questo significa in termini
evolutivi che la sequenza è estremamente
importante dal punto di vista funzionale.

Nell’immagine possiamo notare il


glomerulo nella capsula di Bowman con
l’arteriola afferente e l’arteriola efferente
e questa differente organizzazione del
polo tubulare.
Nella regione del polo vascolare abbiamo
visto che ci sono delle strutture in rosso
che sono le cellule coinvolte
nell’attivazione del sistema renina-
angiotensina che vanno a costituire il
cosiddetto apparato juxtaglomerulare,
cioè vicino al glomerulo.
L’apparato juxtaglomerulare è costituito
dalle cellule granulari, dalle cellule del mesangio extraglomerulare e in più dalle cellule della macula densa.
Il sistema renina-angiotensina è basalmente attivo
e quindi interviene nel controllo dell’omeostasi
idrosalina e cardiovascolare in condizioni basali.
In alcune condizioni particolari quali, la riduzione
della pressione di perfusione renale, o l’attivazione
delle fibre simpatiche delle arteriole afferenti ed
efferenti, o ancora del minor carico di NaCl alla
macula densa, il sistema viene stimolato e viene
indotta una maggiore produzione dei vari effettori
del sistema.
Quando si abbassa la pressione arteriosa, si
abbassa anche la pressione di perfusione a livello
renale e quindi si abbassa la pressione nelle arteriole afferenti, si riduce il flusso ematico renale e il
glomerulo filtra di meno. Se filtra meno il glomerulo, si produce meno filtrato, arriva un carico di sodio
inferiore alla macula densa.
Ma se la pressione dell’arteria renale è più bassa significa che complessivamente la pressione arteriosa è
più bassa. Questo costituisce un segnale per l’attivazione del sistema nervoso simpatico, la regolazione del
meccanismo baroriflesso e quindi viene stimolato nelle arteriole afferenti ed efferenti il primo evento di
questo sistema che è la produzione della renina.

La renina è contenuta all’interno dei granuli delle cellule granulari, nella parete dell’arteriola afferente.
Affianco vi è un terminale nervoso simpatico, quindi le cellule granulari possiedono recettori β-adrenergici.
Si attiva il terminale nervoso e si attiva il rilascio della renina contenuta nei granuli. La renina è un enzima,
l’aspartil proteinasi, come tutte le altre proteine viene prodotta a livello del nucleo e nella forma inattiva,
cioè nella forma di zimogeno, viene processata all’interno dell’apparato del Golgi. Viene impacchettata
all’interno di granuli dove matura, da prorenina inattiva diventa renina matura. La forma inattiva presenta
solitamente dei residui che devono poi essere eliminati durante la maturazione, normalmente sono più
lunghe di quello che poi sarà l’enzima effettivo, sono inattivi i termini enzimatici e per questo vengono
chiamati zimogeni.
La prorenina matura all’interno dell’apparato del Golgi e viene conservata nel pool di granuli secretori, una
parte viene secrete in maniera costitutiva ed una parte in maniera regolata. La secrezione costitutiva è
quella che consente costantemente alla cellula di dar luogo ad una secrezione di renina, la secrezione
regolata invece, è quella che si attiva quando arriva lo stimolo per la produzione della renina, per cui alla
renina che viene secreta in maniera costitutiva si aggiunge la renina che invece viene secreta in modalità
regolata, cioè sotto stimolo.
La renina è il primo degli enzimi della catena enzimatica.
Questa catena enzimatica prevede che ci siano dei
substrati e degli enzimi. La renina prodotta va nel
sangue dove incontra il suo substrato, che è
l’angiotensinogeno (451 aa) prodotto a livello del
fegato.
La renina lavora sul angiotensinogeno per andare a
generare un peptide che è l’angiotensina I, peptide di 10
amminoacidi, che costituisce il primo degli effettori del
sistema ed è ancora substrato di un altro enzima
chiamato enzima di conversione dell’angiotensina o
ACE.
Quest’enzima ACE lavora sull’angiotensina I per produrre angiotensina II (octa peptide), principale
effettore del sistema o meglio il primo ad essere stato scoperto, ma non l’unico.
Dall’angiotensina II, attraverso un aminopeptidasi si stacca l’amminoacido N-terminale e si produce
l’angiotensina III che attraverso l’angiotensinasi fa produrre dei frammenti peptidici.
In alternativa agli enzimi renina e ACE che avviano il sistema, altri enzimi svolgono funzioni simili, cioè
intervengono in questa cascata enzimatica, enzimi come ad esempio la catepsina D che come la renina
svolge quest’azione di clivaggio dell’angiotensinogeno o la chimasi, catepsina A, che svolgono l’azione di
produzione dell’angiotensina II, o altri enzimi tipo la catepsina G, l’attivatore tissutale del plasminogeno che
saltano la tappa intermedia dell’angiotesina I e vanno direttamente a produrre l’angiotensina II.
Il sistema renina-angiotensina è un sistema abbastanza complesso, costituisce uno dei bersagli terapeutici
d’elezione nel trattamento dell’ipertensione arteriosa.
Una parte del sistema costituisce il RAS classico, quello che è stato studiato a lungo e che solo nell’ultimo
periodo è stato recuperato. Esiste oltre al RAS classico anche un altro RAS che ramifica utilizzando degli altri
enzimi, uno tra i quali è l’ACE II, omologo all’ACE ma che svolge funzioni differenti perché sempre
lavorando sull’angiotensina I che è substrato comune, va a produrre l’angiotensina 1-9 che è a sua volta
capace di dare delle azioni come le altre.
L’ACE II interviene poi sul substrato angiotensina II per produrre l’angiotensina 1-7 e poi si producono altre
angiotensine. Dall’angiotensina II si produce l’angiotensina A, dall’angiotensina A sempre l’ACE II va ad
agire per produrre un altro peptide che è l alamandina il quale ha degli altri effetti.
Questo sistema si attiva quando l’organismo va
incontro ad uno stato di ipotensione, ad una
stimolazione β adrenergica, ad una diminuzione
del carico di sodio tubulare.
Quando si abbassa la pressione arteriosa, aumenta
l’attività simpatica attraverso i centri di controllo
bulbari dell’attività cardiovascolare. La maggiore
attività simpatica va ad agire sulle cellule
juxtaglomerulari attraverso i recettori β-
adrenergici, e si stimola la produzione della renina.
Allo stesso tempo direttamente attraverso il
feedback tubulo-glomerulare il carico di sodio va a
stimolare le cellule juxtaglomerulari e la riduzione della velocità di filtrazione glomerulare sempre
attraverso tale feedback va a modulare mediante il rilascio di sostanze paracrine la secrezione di renina.
La renina una volta in circolo va ad agire sull’angiotensinogeno.
L’angiotensinogeno abbiamo detto essere una
glicoproteina epatica prodotta stimolata da una serie di
fattori quali ad esempio l’ormone adenocorticotropo
(ACTH), dai glucocorticoidi, dagli estrogeni, dalla stessa
ANG II con un feedback di autopotenziamento.
L’ANG II è anche un ormone di emergenza in quanto
possono verificarsi delle condizioni di ipotensione
severa, uno di questi è il caso dell’emorragia. In
presenza di una perdita di sangue massiva, il primo
degli effetti che si ha è una riduzione imponente del
volume di sangue, la riduzione della volemia causa un
immediato abbassamento della pressione arteriosa (la quale dipende dal volume ematico, dall’attività
cardiaca, dalle resistenze periferiche, dalla compliance vascolare), viene attivato il sistema renina-
angiotensina ma è la stessa angiotensina che sostiene ed aiuta la produzione dell’angiotensinogeno.
Si produce l’ANG I che ha degli effetti sulle cellule cromoaffini, sul sistema nervoso centrale e sul sistema
vascolare.
Ma il suo ruolo principale è però quello di produrre ANG II essendo substrato dell’ACE.

L’ACE è una zinco-metallo proteasi localizzata


prevalentemente ma non solo nella membrana
luminale delle cellule endoteliali del polmone.
L’enzima ACE è ancorato alla membrana plasmatica
delle cellule endoteliali. Nella forma ancorata alla
membrana l’ACE è inattivo, mentre quando viene
staccato dalla membrana l’ACE diventa attivo e
come tale va ad indurre la produzione dell’ANG II.

Accanto al sistema renina-


angiotensina fin ora analizzato,
sono stati scoperti negli anni dei
sistemi RAS tissutali, cioè in mole
cellule, come nelle cellule
cardiache, il sistema RAS è espresso
dalle cellule. Nelle cellule
all’interno del cuore troviamo tutti
gli effettori che ci informano che
queste stesse cellule in aggiunta
alle cellule renali, con questo RAS
tissutale, sono in grado di indurre
l’attivazione di questo sistema.
Questo sistema sostanzialmente
funziona perché i vari effettori
possiedono una serie di recettori
sulla membrana delle cellule
bersaglio. Questi recettori si trovano distribuiti in una serie di tessuti bersaglio molto ampi, sicuramente
questi tessuti bersaglio sono quelli che intervengono in qualche modo nella regolazione della pressione
arteriosa. Questi recettori sono in grado di legare gli ormoni che stiamo descrivendo dando gli effetti
biologici.
L’ANG II va ad agire su recettori chiamati AT (AT1-AT2), a questi recettori vanno però a legarsi altri effettori
della cascata renina-angiotensina, per esempio l’ANG III. Accanto a questi recettori classici sono stati
scoperti altri recettori, uno di questi il recettore Mas, che va a legare in maniera selettiva l’ang 1-7.
Gli effetti dell’attivazione del sistema renina-angiotensina sono:
Come abbiamo detto inizialmente,
l’attivazione del sistema renina-
angiotensina va ad agire sull’omeostasi
idrosalina e cardiovascolare.
Come fa ad avvenire ciò?
Innanzitutto, lavora sul volume dei fluidi
extracellulari, cioè fa si che si mantenga
o aumenti il volume extra-cellulare,
quindi anche il volume del sangue. In
contemporanea l’ANG II va ad
aumentare le resistenze periferiche, va
ad aumentare la gittata cardiaca. Questi sono effetti a breve termine ai quale si aggiunge un effetto a lungo
termine che è l’ipertrofia.
Per mantenere o incrementare il volume dei fluidi extra-cellulari, l’angiotensina va a svolgere una serie di
azioni, innanzitutto a livello renale inducendo vasocostrizione dei vasi renali, agendo sui trasporti, sui
meccanismi di riassorbimento. Il risultato è che viene aumentato il riassorbimento prossimale di acqua e
sodio, viene prodotto una minore quantità di filtrato, quindi viene indotta una minore perdita e un
maggiore recupero.
Nello stesso tempo l’angiotensina va ad agire sull’intestino, dove avviene il riassorbimento dell’acqua e dei
Sali che noi ingeriamo con la dieta, viene potenziata l’attività assorbitiva intestinale e quindi viene
aumentata la quantità di acqua e sali che vengono incamerati. L’ANG II va inoltre ad agire sulla corticale del
surrene attivando la produzione di aldosterone che a livello del nefrone distale aumenta il riassorbimento
del sale, per cui vene portato dentro il sale e di conseguenza viene mantenuta anche l’osmolarità.
L’ANG II va ad agire a livello del sistema nervoso centrale incrementando gli ingressi dell’acqua e dei sali,
infatti è un induttore della sete e dell’appetito di sale. Aumentando la sete aumenta l’ingresso dell’acqua,
se a questo si associa un aumento del riassorbimento dell’acqua a livello intestinale e del riassorbimento
dei Sali, abbiamo un ulteriore strada per avere un mantenimento ed un incremento del volume dei fluidi
extra-cellulari.
Andando ad agire sul sistema nervoso centrale, l’angiotensina induce il rilascio di ADH che aumenta il
riassorbimento tubulare distale di acqua e induce una riduzione delle perdite di acqua e Sali.
Nello stesso tempo, l’ANG II va ad agire sul sistema nervoso periferico stimolando l’attività simpatica che fa
aumentare le resistenze periferiche. L’effetto sulle resistenze periferiche è anche dato dall’ormone
antidiuretico (ADH). Le resistenze periferiche aumentano anche perché l’ANG II va ad agire sul muscolo
liscio vascolare, che è uno dei principali bersagli scoperti, inducendo vasocostrizione.
Nello stesso tempo l’ANG II va ad agire sul cuore, incrementando la contrattilità, aumenta quindi la gittata
cardiaca ed incrementa anche l’altro fattore che determina il valore della pressione arteriosa.
Questi sono effetti a breve termine, quelli che l’ANG II induce subito. Quando si alza la pressione arteriosa,
il sistema renina-angiotensina smette di essere operativo, rimane nella sua condizione basale.
Se però rimane operativo a lungo, l’effetto stimolatore delle cellule, sia del cuore che dei vasi, attiva
un’azione proliferativa, per cui si assiste ad un incremento, soprattutto delle cellule cardiache ventricolari,
con la conseguente ipertrofia. Quest effetto è inizialmente compensatorio, ma poi dannoso perché
l’ipertrofia non è corrispondente ad una maggiore potenza muscolare, ma semplicemente è un muscolo
ingrossato in maniera anomala.
Le azioni che svolge l’angiotensina, sono svolte attraverso i due principali recettori, AT1 e AT2, i quali sono
responsabili delle azioni principali dell’angiotensina II.

In particolare, l AT1 è responsabile della


vasocostrizione, è responsabile del
rilascio di aldosterone e vasopressina, è
responsabile della proliferazione, della
risposta ipertrofica ed è responsabile
della risposta idrosalina.
Dall’altro lato l’AT2 è quello coinvolto
negli effetti a lungo termine, nel
differenziamento, nell’apoptosi e da
azioni sia a lungo termine ma anche
controregolatorie rispetto all’AT1.
In entrambi i casi si tratta di recettori
accoppiati a proteine G, si classificano in
base alle loro affinità relative per una serie di farmaci. I recettori AT1 sono il bersaglio prevalente dei
farmaci noti come sartani.
A questi recettori si aggiunge il recettore Mas, che è il recettore per l’angiotensina 1-7, anche questo
accoppiato a proteine G, i cui effetti sono diversi.
Il recettore Mas da effetti di diffusione della pressione arteriosa, effetti di vasodilatazione, effetti
antifibrotici e antiproliferativi.
Quando si attiva il sistema renina-angiotensina, nel complesso, il fatto che si attivano anche meccanismi
opposti a quelli prevalenti, ci fa pensare ad un effetto di protezione che evita effetti estremi dell’attivazione
di tale sistema.
Possiamo vedere dalle frecce in basso
come c’è un RAS classico stimolatore ed
un RAS controregolatore che consentono
di mantenere quella che va sotto il nome
di omeostasi dello stato stazionario.

L’AT1 sono recettori accoppiati a proteine G,


inducono la contrazione del muscolo liscio
vascolare, la proliferazione cellulare.
Attraverso le proteine G con cui agiscono
inducono cascate che danno gli effetti elencati.

Poiché si tratta di una cascata molto


ampia, è possibile agire sulle varie
tappe della cascata.
Ad oggi le sostanze largamente
utilizzate per contrastare gli effetti
di un’eccessiva attivazione del
sistema renina-angiotensina, sono
gli inibitori dell’ACE, i bloccanti dei
recettori per l’angiotensina o ancora
bloccanti della cascata a valle inclusa
quella che va sull’aldosterone la cui
azione viene bloccata a valle della
sua produzione.

Affinché l’ANG II possa indurre le sue azioni, deve agire a livello delle cellule muscolari lisce vascolari, a
livello del corpuscolo renale, a livello dei podociti, a livello del mesangio, dell’epitelio tubulare, e deve
andare a stimolare la sete.
Effetto dipsogeno:
La stimolazione della sete è un meccanismo molto
particolare. Il grafico in basso è un grafico ottenuto
su ratti da laboratorio esposti a dosi crescenti di
angiotensina. Si è osservato che aumentando le
dosi di ANG II i ratti andavano a bere con maggiore
frequenza.
Questo effetto è un effetto che è garantito dal fatto
che nelle regioni cerebrali coinvolte nella
regolazione dell’osmolarità e nella regolazione
della sete, sono presenti cellule in grado di sentire
l’osmolarità dei liquidi corporei, ma sono anche
bersaglio dell’angiotensina perché contengono
recettori per l’angiotensina.
L’effetto che induce l’ingestione di acqua è un effetto
chiamato effetto dipsogeno.
Quando viene prodotta la renina dalle cellule
juxtaglomerulari, questa va ad attivare la cascata e
l’angiotensina va ad agire direttamente a livello dei siti
responsabili dell’effetto dipsogeno e va ad indurre
l’ingestione di acqua. Ciò è importante perchè se si è
abbassata la pressione arteriosa e se l’angiotensina va ad
agire per stimolare gli effetti per ridurre le perdite dei
liquidi ma per aumentarne l’assorbimento, è necessario
che i liquidi ci siano, per esempio a livello intestinale.
Quando si attiva il RAS in presenza di un abbassamento
della pressione arteriosa andare a stimolare l’ingestione
dell’acqua è sicuramente un grande vantaggio in quanto
aumenta la disponibilità di acqua che può essere assorbita e veicolata all’interno del sangue per andare ad
aumentare anche il volume ematico.
Bisogna tener conto che l’angiotensina induce la produzione di aldosterone, il quale fa recuperare il sale, se
non ci fosse in parallelo una quota di acqua che entra insieme al sale avremmo un incremento
dell’osmolarità. Questo non avviene perché l’angiotensina va ad indurre anche la produzione di
vasopressina, quindi recupera anche acqua, ma allo stesso tempo fornisce l’acqua stessa che può essere
recuperata.
Accanto a questo, il sistema renina-
angiotensina va ad agire in armonia con un
altro sistema ormonale che è quello dei peptidi
natriuretici atriali.
I peptidi natriuretici atriali sono degli ormoni
peptidici prodotti prevalentemente all’interno
dei granuli dei miociti atriali. I tre principali
sono ANP, BNP e CNP a cui si associano DNP
(veleno dei serpenti) e VNP (pesci) scoperti più
recentemente.
Vengono prodotti come la renina inizialmente
in una forma prepro, inattiva, vengono
impacchettati all’interno di granuli e vengono
poi rilasciati nel sangue o in maniera costitutiva o in maniera regolata. Questi ormoni svolgono un’azione
contro-regolatoria rispetto al sistema renina-angiotensina.

Come funzionano i due sistemi?


Quando diminuisce la pressione arteriosa viene prodotta l’angiotensina, quando viene prodotta
l’angiotensina e si attiva la cascata del RAS, viene ridotta la produzione di questi peptidi natriuretici.
Gli effetti dell’angiotensina sono l’antinatriuresi e la antidiurisi. Si riduce l’eliminazione di acqua e di Sali ma
aumentano le resistenze periferiche per effetto diretto sulla contrazione delle arteriole. Questo fa
aumentare la pressione arteriosa e di conseguenza diminuiscono le attività dei peptidi natriuretici atriali.
Ma nello stesso tempo, quando l’effetto dell’angiotensina si verifica, è efficace, aumenta di nuovo la
pressione arteriosa e supera i limiti anche imposti dal suo stesso ramo contro-regolatore dei recettori Mas,
le cellule atriali sono stimolate in senso di stiramento perché al cuore arriva più sangue.
L’atrio ricevendo un maggiore volume di sangue fa si che la parete atriale si stiri, questo stiramento viene
sentito da recettori di membrana sensibili allo stiramento che attiva la degranulazione di quei granuli che
contenevano il peptide natriuretico atriale. Avviene la secrezione regolata, il peptide viene rilasciato in
circolo e va ad agire sugli stessi bersagli dell’angiotensina, quindi sui vasi, rilassando le cellule muscolari, va
ad agire sul rene aumentando la diuresi e la natriuresi, quindi diminuisce il volume ematico.
Si riduce il rilascio di renina, la produzione di angiotensina e di aldosterone. Il risultato è il riabbassamento
della pressione arteriosa.
I due sistemi ormonali agiscono in parallelo uno contro-regolando l’altro, per cui considerandoli insieme, la
pressione arteriosa è sempre regolata dall’equilibrio che si genera tra i due sistemi.
Per far si che tutto ciò avvenga è necessario da un lato la collaborazione tra assi ormonali mediante
l’attivazione di feedback regolatori, dall’altro lato è necessario che le varie parti dell’organismo funzionino
in collaborazione fra loro.
Fisiologia del processo alimentare
Il processo alimentare è un processo che avviene sia su
un piano prettamente fisiologico, molecolare e organico,
sia su un piano comportamentale.
Noi mangiamo perché abbiamo bisogno di nutrienti che
vadano a sostenere la contrazione muscolare, la sintesi
proteica e così via.
Il processo alimentare dal punto di vista puramente
tecnico, altro non è che ingestione di sostanze che una
volta ingerite vengono elaborate in organi appositamente
deputati a questo scopo il cui fine è quello di ricavare da
queste sostanze complesse che noi ingeriamo, le
molecole di base ad alto contenuto energetico che ci consentono di vivere.
Nel mangiare noi proviamo una ricompensa emotiva che ci consente di perpetrare quotidianamente
quest’evento, rispondendo ad uno stimolo fisiologico dettato dalla necessità che l’organismo ha di
procurarsi i vari substrati energetici. Accanto a questo la ricerca moderna ha identificato una quantità
veramente notevole di sostanze endogene con funzione ormonale in termini di regolazione dell’assunzione
di cibo. Queste sostanze sono divise in sostanze oressigene e anoressigene, le sostanze oressigene
stimolano la fame, mentre quelle anoressigene interrompono la fame dando il senso di sazietà.
Al fenomeno fisiologico si associa la sfera psichica. Molto importanti sono in quest’ambito i sensi speciali.
Il processo alimentare è anche bersaglio di un forte condizionamento. Il condizionamento più naturale è
quello dato dal luogo in cui si vive, su questo condizionamento lavora in maniera massiva il
condizionamento pubblicitario.
Il processo alimentare può essere suddiviso in quattro fasi, una prima fase che è la cosiddetta fase
preingestiva che prevede la ricerca e la scelta dell’alimento, cioè il momento in cui decidiamo cosa
mangiare. E’ un evento di natura comportamentale, ci rendiamo conto che è arrivata l’ora di mangiare e in
maniera volontaria, coinvolgendo una serie di attività muscolari e scheletriche, andiamo a cercare
l’alimento. A questa fase preingestiva segue la fase ingestiva, questa fase ingestiva è sostanzialmente la
fase in cui prendiamo l’alimento lo portiamo verso la bocca. Una volta portato nella bocca l’alimento viene
trattato nel cavo orale, viene insalivato, è soggetto alla masticazione e viene poi deglutito. Anche in questo
caso, questa fase del processo alimentare è una face comportamentale, cioè è una fase che è volontaria,
condizionata dal comportamento di ingestione. Sono coinvolti una serie di impulsi di tipo nervoso, di
riflessi, come il riflesso della salivazione, il riflesso della masticazione e il riflesso della deglutizione.
Alla fase ingestiva segue poi una fase postingestiva, l’alimento una volta trattato a livello del cavo orale
viene fatto transitare nel resto del canale digerente e incomincia una fase indipendente dal
comportamento.
Dal momento in cui viene ingerito l’alimento segue un suo percorso e alla fine di questo percorso l’alimento
viene digerito, viene elaborato in senso di semplificazione, vengono generati substrati più semplici che
vengono poi assorbiti. Questa fase di assorbimento è seguita dalla fase nella quale le sostanze assorbite
passano in circolo raggiungendo le singole cellule e andando a fornire la base del metabolismo energetico.
A questa fase postingestiva, che è una fase di natura prettamente viscerale che sfugge dunque al controllo
della volontà, fa seguito la fase escretiva. La fase escretiva è quella che in parte noi controlliamo
(defecazione).
Quest’intero processo è un processo che si ripete ciclicamente durante l’intera giornata. L’avvio di tutto è la
percezione dello stimolo della fame che è sicuramente affidato ad una quota che dipende dalla scarsa
disponibilità energetica, ma è controllato a livello ormonale da una serie di sostanze, ognuna delle quali
sono prodotte dallo stesso apparato gastrointestinale.
Questo processo si svolge all’interno di questo condotto
continuo che incomincia con la bocca e termina con l’ano.
A questo tubo continuo si associano delle ghiandole che
sono abbondanti, alcune sono poste proprio nella parete
del canale e sono ghiandole quali le ghiandole gastriche e le
ghiandole intestinali. Ci sono poi delle ghiandole poste
all’esterno del canale che sono le ghiandole salivari, il
fegato e il pancreas.
La parola digestione rappresenta quella elaborazione di tipo
meccanico e chimico che fa si che un alimento complesso
quale può essere una pizza, si trasformi in unità semplici, i
legami chimici delle sostanze alimentari si rompono così da arrivare ai nutrienti di base e quindi unità di
zuccheri semplici, acidi grassi, vitamine lipo e idro solubili, oligoelementi, amminoacidi, ioni, sali minerali.
Questi altro non sono che i mattoni di basi utilizzati per ricavare energia e per poi risintetizzare sostanze
che per il nostro organismo sono fondamentali.
Nella bocca avviene
sostanzialmente la masticazione,
l’insalivazione e la deglutizione.
Non avviene assorbimento ed
incomincia la digestione dei
carboidrati, anche in parte dei
lipidi. Il bolo viene trattato, la
masticazione rappresenta la sua
prima elaborazione meccanica,
viene insalivato e deglutito e poi
transita e attraverso l’esofago
arriva nello stomaco.
Nello stomaco questa massa
viene rimescolata a causa di
contrazioni molto vigorose, si
mescola al succo gastrico, si
interrompe la digestione dei
carboidrati, continua la digestione dei lipidi ed inizia la digestione delle proteine. Nello stomaco vengono
assorbite sostanze liposolubili e tra queste l’alcool e l’aspirina.
Il chimo che si è prodotto transita nell’intestino tenue dove continua il movimento della parete che
consente il mescolamento, la propulsione, quindi la massa che non è più chimo ma si sta trasformando in
chilo, viene mescolata, segmentata e rimescolata, ed incontra una serie di enzimi estremamente ricca.
I primi enzimi che incontra sono gli enzimi di derivazione pancreatica. Incontra anche la bile che viene
immagazzinata all’interno della cistifellea e poi si versa nell’intestino tenue. Nell’intestino tenue riprende la
digestione dei carboidrati, continua quella dei lipidi, delle proteine, degli acidi nucleici, ed incomincia
l’assorbimento di peptidi, amminoacidi, glucosio, acqua, sali minerali e vitamine.
Nell’intestino crasso continua il mescolamento, la propulsione, anche qui la parete del canale è a contatto
con uno strato di muco. Nell’intestino crasso c’è solo la digestione batterica. Si completa l’assorbimento
dell’acqua, dei minerali, del sodio e delle vitamine e vengono compattate le feci pronte per la defecazione.
Quando parliamo di digestione, parliamo di quell’evento che semplifica l’alimento, mentre quando
parliamo di assorbimento parliamo dell’evento che fa si che la sostanza elementare venga assorbita dalle
cellule della parete e da qui si versi o direttamente o indirettamente nel sangue.
La parola digestione viene spesso usata nel linguaggio comune in maniera impropria, non fisiologica.
Perché tutto ciò possa avvenire è necessario che l’apparato digerente svolga funzioni di tipo motorio e
funzioni di tipo secernente.
Lungo tutto il canale, a partire dalla bocca fino alla fine, il canale è ricco di succhi, il primo dei quali è la
saliva, abbiamo poi il succo gastrico nello stomaco e il succo enterico nell’intestino.
La funzione dell’apparato digerente è controllata da un’attività nervosa. Il canale alimentare è innervato dal
sistema nervoso enterico che agisce in maniera particolare.
A livello strutturale abbiamo sempre una
struttura tristratificata, all’interno c’è un
rivestimento che va a formare il
rivestimento mucoso formato da cellule
epiteliali a volte funzionalmente molto
complesse. Questo strato mucoso si poggia
su una lamina propria e sulla regione
sottomucosa costituita da connettivo,
collegene, vasi ed elastina.
Questo strato si poggia poi su una regione
muscolare che si organizza in fasci che
possono avere andamento circolare o
andamento longitudinale.
Tutta la struttura è raccolta all’interno di
una sierosa che è il peritoneo. Questa sierosa come tutte le sierose (sierosa pericardica, sierosa pleurica) è
costituita da un foglietto viscerale a contatto con l’organo, uno spazio sieroso contenente il liquido
peritoneale e un foglietto parietale.
Questa struttura è riccamente popolata da terminali nervosi, da neuroni interi, da plessi nervosi e in
particolare dai plessi sottomucoso (posto sotto la mucosa) e mioenterico (posto tra gli strati muscolari
longitudinale e circolare) che vanno a costituire una parte importante del sistema enterico.
L’apparato gastrointestinale funziona anche grazie ad una ricca capacità di movimento, una sua intrinseca
motilità. La motilità gastrointestinale consente il rimescolamento del cibo e soprattutto consente che il cibo
proceda in direzione aborale.
La motilità a livello gastrico è garantita dal fatto
che ci sono delle cellule autoritmiche che fanno
partire delle onde elettriche alle quali fa seguito
un’onda di contrazione della muscolatura.
Il risultato della contrazione sarà il movimento
propulsivo e il movimento di rimescolamento.
La propulsione nel canale gastrointestinale è
affidata al riflesso peristaltico.
La peristalsi è quello spostamento del cibo che
avviene a livello dell’esofago, dello stomaco
distale, dell’intestino tenue e dell’intestino
crasso.
Alle spalle della massa alimentare la muscolatura
si contrae e genera una riduzione del lume alle
spalle della massa, questo spinge la massa verso
la zona anteriore che viene chiamata segmento accettore o segmento ricevente, il quale ha la muscolatura
della parete distesa, rilassata, per cui il canale accoglie la massa.
Man mano che la massa procede si contrarrà sempre l’anello di muscolatura alle spalle della massa, a
monte e a valle la muscolatura sarà rilassata. Questo movimento peristaltico è consentito dall’attivazione di
un arco riflesso che ha le caratteristiche degli archi riflessi.
Un altro tipo di motilità è la motilità per segmentazione ritmica che avviene prevalentemente a livello
dell’intestino tenue e dell’intestino crasso e fa si che gli anelli di muscolatura siano ritmicamente
periodicamente contratti. Nell’immagine possiamo vedere come nel tratto intestinale ci siano delle zone di
contrazione alternate con delle zone di dilatazione. Le zone di contrazione rappresentano le zone
corrispondenti a quella che era le spalle della massa, quindi sono quelle che tendono a generare la forza
che spinge la massa verso le regioni distese.
Il risultato di questa segmentazione è che viene
strozzata la massa contenuta all’interno del tratto,
nelle zone di contrazione, la massa quindi si addensa,
si raccoglie nel segmento accettore e nella fase
successiva sarà il segmento accettore che si
contrarrà spezzando la massa che si è addensata,
mentre si rilasserà quello che al tempo uno era il
segmento propulsivo. Questo fa si che la massa si
frammenti in punti sempre diversi.
Il movimento di contrazione segmentale è
particolarmente importante perché genera il
rimescolamento, fondamentale perchè espone
all’azione dei succhi che sono presenti nello stomaco. I succhi sono succhi che agiscono bagnando la massa
alimentare, gli enzimi che sono contenuti all’interno di questi succhi si pongono sulla superficie di questa
massa alimentare ed iniziano la loro azione sui substrati presenti sulla superficie per poi procedere verso
l’interno. Se la massa viene periodicamente frammentata, aumentano le superfici e quindi si può
rimescolare il contenuto alimentare con il contenuto del succo digestivo. Ciò consente di velocizzare e
ottimizzare il processo di lavorazione chimica della massa alimentare.
A livello dello stomaco la motilità prevede che parta una
serie di potenziali d’azione nella regione della grande
curvatura. C’è una zona pacemaker dalla quale si irradia
un’onda elettrica alla quale fa seguito la contrazione
della muscolatura. Il risultato di questa contrazione per
la struttura della muscolatura gastrica si esprime in
maniera diversa a seconda se siamo nel fondo o nel
corpo dello stomaco. Il fondo si contrae, si abbassa la
cupola, questa contrazione spinge il contenuto gastrico
verso il corpo e verso l’antro.
Dopo essere stato spinto, il contenuto gastrico viene
strizzato e dunque ulteriormente elaborato.
Affinchè tutto questo si possa realizzare è necessario il contributo delle cellule pacemaker, che sono le
cellule interstiziali di Cajal, che avviano la depolarizzazione delle cellule muscolari lisce e quindi la
contrazione e le modificazioni del lume.
Questa motilità viene anche regolata dal sistema nervoso autonomo, dal sistema nervoso centrale, dal
sistema nervoso enterico e mediante una serie di ormoni tra i quali anche quelli che regolano l’assunzione
del cibo.
Nell’apparato gastrointestinale abbiamo la massima
attività motoria quando è presente la massa alimentare,
perché come abbiamo visto l’attività motoria serve per
elaborarla, spingerla verso avanti, segmentarla e
rimescolarla. La motilità è stimolata dalla presenza
stessa dell’alimento.
C’è però una motilità al termine del processo digestivo,
quando tutta la massa è stata elaborata e dunque è
transitata nelle regioni terminali dell’intestino, che è una
motilità interdigestiva sottoforma dei cosiddetti
complessi motori migranti. Questi complessi motori
migranti incominciano nello stomaco distale o nel
duodeno. Nello stomaco distale sono le contrazioni
presenti nel momento della fame che corrispondono ai gorgogli dello stomaco da fame. Queste contrazioni
si chiamano migranti perché si muovono attraverso l’apparato gastro intestinale, inizia la contrazione a
livello dello sfintere gastro esofageo inferiore, incrementano le secrezioni gastrica e pancreatica.
Sostanzialmente quello che avviene è una prima fase nella
quale l’apparato gastrointestinale è in quiete, in questa fase
I manca l’attività contrattile (dura circa un’ora).
Al termine di quest’ora aumenta la secrezione di motilina,
ormone che stimola la motilità gastrointestinale. Ciò fa si
che si avviino queste fasi di contrazione irregolari che si
svolgono per circa 30 minuti (fase II). Queste contrazioni
irregolari sono poi seguite da una serie di contrazioni
regolari di massima intensità, per circa 15 minuti (fase III),
per poi ritornare nella fase I. Questi eventi si sviluppano in
una serie di cicli ripetuti interrotti dall’arrivo di cibo.
Lo scopo di questi complessi motori migranti è quello di provvedere a generare delle onde che spingono i
residui alimentari dallo stomaco verso l’intestino, contribuiscono alla ripulitura, alla liberazione del canale
gastro intestinale preparandolo alla successiva assunzione del cibo.
Affinchè questo possa avvenire regolarmente
interviene il sistema nervoso con una serie di attività
di controllo, esiste proprio un’asse cervello-apparato
gastrointestinale, con una serie di fibre appartenenti
al sistema nervoso autonomo che vanno a regolare
l’attività dei plessi del sistema nervoso enterico,
quindi del mioenterico e del sottomucoso, e vanno a
controllare l’attività motoria e l’attività secernente.
Nello stesso tempo questi plessi, mioenterico e
sottomucoso, ricevono dei segnali da chemocettori e
meccanocettori presenti lungo tutto il tratto
gastrointestinale e che informano questi plessi
nervosi circa la presenza del cibo che sta transitando.
Sempre queste strutture sensoriali comunicano con il
sistema nervoso centrale, il quale attraverso le fibre
nervose efferenti del sistema nervoso autonomo e
agendo attraverso il sistema nervoso enterico, va a
controllare ancora una volta le attività muscolari della
muscolaris externa, della muscolaris mucosae, delle cellule endocrine, delle cellule secernenti ma anche lo
stato di contrazione dei muscoli lisci dei vasi che perfondono l’intero apparato gastrointestinale.

La funzione
dell’apparato
gastro-intestinale è
anche sotto
controllo da parte
degli stimoli quali la
vista, l’odorato, ma
anche il ricordo del
cibo.
L’attivazione dei
recettori sensoriali,
ma anche di alcune
vie della memoria
legata al processo
alimentare, fa si che
questi intervengano
nelle vie fin ora
viste.
Una buona parte dell’attività gastrointestinale
è affidata ad una serie di archi riflessi.
Questi archi riflessi hanno le caratteristiche di
un arco riflesso viscerale comune, sono
costituiti da un recettore sensoriale, da una
fibra afferente, da un neurone di
integrazione, da una fibra efferente e
dall’organo bersaglio.
I riflessi gastrointestinali possono essere
anatomicamente collocati all’interno della
stessa parete dell’organo che si va a
considerare, in questo caso si parlerà di
riflesso intrinseco. Sono intrinseci quei riflessi
che coinvolgono esclusivamente il sistema
nervoso enterico, cioè quello contenuto
all’interno delle pareti, sono dunque riflessi locali e sono riflessi brevi, rapidi. Una porzione del riflesso è il
neurone sensoriale che percepisce lo stimolo che gli arriva dalla regione del lume, per esempio, e attiva
l’arco riflesso.
Accanto a questo riflesso di tipo intrinseco ci sono riflessi di tipo estrinseco che possono essere brevi o
lunghi. Questi riflessi sono estrinseci perché lasciano la parete gastrointestinale. Il neurone sensoriale
fuoriesce dalla parete, quindi lascia il sistema nervoso enterico e raggiunge un ganglio del sistema nervoso
autonomo. Qui sinapta con un neurone che appartiene al sistema nervoso autonomo e che torna verso la
parete gastrointestinale, dove incontra un interneurone il quale a sua volta sinapta con il neurone
effettore. I riflessi estrinseci possono essere brevi, quando arrivano fino al ganglio prevertebrale, o lunghi,
se arrivano fino al nucleo motore dorsale del vago a livello del bulbo.
Gli stimoli per questi riflessi derivano proprio dalla presenza del cibo all’interno del canale.
La peristalsi abbiamo detto essere un evento
motorio che consente alla massa di transitare in
direzione aborale, allontanandosi dalla bocca e
andando verso l’ano. Il riflesso peristaltico è un arco
riflesso, il primo degli eventi di questo arco riflesso è
la presenza della massa all’interno del canale. Come
conseguenza la parete del canale si distende perché
accoglie la massa, questa distensione fa si che
vengano mandati dei segnali agli interneuroni.
Questi interneuroni potranno essere eccitatori o
inibitori, sono eccitatori i neuroni in direzione ab-
orale, mentre quelli inibitori sono quelli in direzione opposta. Come risultato dell’attivazione di quest’aro
riflesso i neuroni eccitatori andranno ad attivare le regioni muscolari alle spalle della massa, che si
contrarranno, mentre si rilasseranno le regioni davanti alla massa. Man mano che la massa transita andrà a
stimolare i recettori posti un po' più avanti e si attiveranno le stesse catene di neuroni. Il risultato di questi
archi riflessi fa si che si inibisca la contrazione davanti alla massa e che si attivi la contrazione alle spalle
della massa.
I riflessi, oltre a quello peristaltico, sono moltissimi e sono comuni nell’attività gastrointestinale. Alcuni di
questi sono il riflesso gastrocolico e il riflesso duodenocolico, questi rappresentano l’attivazione della
motilità gastrointestinale in corrispondenza con l’assunzione del cibo. Il riflesso gastrocolico è il riflesso che
va dallo stomaco al colon, mentre, quello duodenocolico va dal duodeno al colon.
Lo stimolo per questi riflessi è l’assunzione del pasto. Il pasto entra all’interno dello stomaco, distende la
parete gastrica, si attiva il riflesso che è un riflesso estrinseco corto che arriva ai gangli simpatici
prevertebrati e viene stimolata la motilità del colon. La stessa cosa avviene nel duodeno.
Quest’evento prepara il tratto gastrointestinale consentendoli di accogliere il pasto ingerito.
LA MASTICAZIONE

Il processo alimentare si sviluppa in 3 momenti (preparatorio, elaborativo, assorbimento con conseguente


eliminazione): nel momento preparatorio tutte le porzioni del tratto digerente si preparano a ricevere
l’alimento producendo succhi localizzati nella bocca, nello stomaco e nell’intestino e predisposti ad agire
per l’elaborazione chimica degli elementi che vengono ingeriti.

Il processo della digestione si svolge sia meccanicamente e si parla di motilità che chimicamente facendo
quindi riferimento agli enzimi ed alle caratteristiche dei vari secreti (salivare nella bocca, gastrico nello
stomaco, succo enterico nell’intestino, succo pancreatico, bile), secreti che vengono prodotti e rilasciati
permettendo che le diverse porzioni interessate al transito dell’alimento si preparino a riceverlo.

Il primo secreto è rappresentato dalla saliva nella bocca, liquido che interviene nella fase iniziale del
processo digestivo che prevede il primo trattamento del cibo tramite la masticazione e di conseguenza
l’insalivazione; l’alimento viene portato nella bocca (atto volontario), segue così la fase elaborativa
rappresentata dalla triturazione meccanica del cibo ad opera dei denti durante la masticazione, atto
volontario e involontario, involontario perché inizia con il riflesso masticatorio dato dalle presenza del cibo
nella bocca e volontario dal momento che l’atto masticatorio può essere interrotto in qualsiasi momento: è
un atto involontario perché presiede un arco riflesso molto rapido ma è anche sotto controllo della volontà.

Il riflesso masticatorio richiede la presenza del cibo in bocca e che si controllino in maniera coordinata le
vie nervose che regolano l’attività contrattile dei muscoli della masticazione (temporale, pterigoideo,
massetere) dei muscoli delle guance, del palato e della lingua; il controllo nervoso è affidato ai nervi
trigemino, glossofaringeo e vago.

Il riflesso masticatorio inizia quando il cibo entra in bocca: quando la bocca è priva di cibo i muscoli della
masticazione sono contratti e la mascella inferiore (mandibola) sia sollevata, al contrario, quando si
abbassa la mascella inferiore e si abbassano i muscoli il cibo viene portato nella bocca e in quel momento i
pressocettori presenti nella cavità orale si rilassano la mandibola si abbassa per gravità, si allenta la
pressione e si rimuove l’inibizione con conseguente chiusura della mascella inferiore siccome vengono
riattivati i nervi che fanno contrarre i muscoli masticatori: così continua ciclicamente l’atto di
abbassamento e sollevamento della mandibola.

LA SALIVA

È prodotta dalle ghiandole salivari distribuite nel


viso, intorno alla cavità orale, alcune si trovano
sotto la lingua (sublinguali), altre sotto la mandibola
(sottomandibolari), altre ancora vicino le orecchie
(paratiroidi), sono ghiandole esocrine che tramite
dei condotti portano il loro secreto nella cavità
orale; la saliva viene prodotta all’interno del
salivone, struttura in cui le cellule sono disposte a
formare una sorta di canale, un tubo chiuso che
presenta un acino nella parte terminale dove vi sono
cellule di tipo mucoso o sieroso, cellule che
contengono granuli di zimogeni (enzimi inattivi) che
producono una saliva di tipo isotonico, man mano che questa passa attraverso il dotto del salivone
vengono riassorbiti Na⁺, Cl⁻, viene modificata la costituzione della saliva, vengono secreti K⁺ e bicarbonato e
cambia la costituzione della saliva.
La saliva è composta da acqua e da una serie di ioni, contiene le mucine (proteine che le danno il carattere
mucoso), i fattori di crescita, gli enzimi (α-amilasi salivare secreta dalla ghiandola paratiroide ed una lipasi
aspecifica) e le immunoglobuline: la saliva ha il compito di solubilizzare i cibi, umidifica il cavo orale, dà
avvio alla digestione siccome i primi enzimi che il cibo incontra sono l’α-amilasi e la lipasi, serve per pulire i
denti rimuovendo eventuali residui di cibo, viene prodotta in fasi durante la giornata; la fase più importante
è quella preparatoria che corrisponde con il momento in cui si percepiscono stimoli olfattivi, gustativi, di
memoria del cibo che fanno venire l’acquolina in bocca visto che viene percepito l’incremento della
secrezione salivare più idratata in questo momento, in questa prima fase detta fase cefalica la saliva viene
prodotta in quantità elevate e la bocca si prepara a ricevere il cibo, saliva che si riduce maggiormente
durante il sonno, la disidratazione, la febbre e può essere viscosa e poco idratata quando si è sotto
stimolazione simpatica e le catecolammine tendono a ridurre la produzione di saliva rendendola più viscosa
(meno adatta per la masticazione): questo è spiegato dal fatto che il sistema digerente è sotto controllo
inibitorio da parte del sistema nervoso simpatico.

LA DEGLUTIZIONE

Dopo che il cibo è stato insalivato e triturato durante la


masticazione viene deglutito; la deglutizione è una fase complessa
e delicata caratterizzata da movimenti coordinati, inizia nella fase
orale in cui viene staccato il bolo alimentare ad opera della lingua la
quale raccoglie il bolo (all’occorrenza lo separa in porzioni più
piccole se magari è molto grande) dirigendolo verso la regione
posteriore, a questo punto inizia la fase faringea che richiede che si
sposti il palato molle, si stirano le corde vocali, si sposta
l’epiglottide, tra i dotti aerei e quelli alimentari passa l’aria nella
trachea quando l’epiglottide è sollevata al contrario quando questa
si abbassa il palato molle si sposta e il bolo riesce a passare
dirigendosi verso l’esofago senza andare verso la trachea, lo
sfintere esofageo superiore resta tonicamente contratto e viene
rilassato mediante meccanismi riflessi per far passare il cibo, i
muscoli costrittori della faringe generano un’onda peristaltica la
quale spinge il bolo verso l’esofago, arriva nello sfintere esofageo
inferiore il quale si rilassa e il cibo transita all’interno dello stomaco attraverso il cardias (così definita
perché vicina al cuore) valvola che separa l’esofago dallo stomaco.

Il movimento del bolo è garantito dalla presenza delle onde di pressione che si muovono nell’esofago;
quest’ultimo è ricoperto nel lume da un epitelio squamoso pluristratificato e resistente al trauma nella
porzione basale ha uno strato di cellule germinative, ogni volta che passa il cibo il bolo entra in contatto con
le cellule superficiali dell’esofago questa parte dell’epitelio le squama e le cellule basali lo rigenerano
costantemente essendo cellule staminali in costante duplicazione, nella regione a salire verso il lume le
cellule che si sono duplicate migrano differenziandosi per andare a sostituire le cellule portate via durante
la deglutizione: se il bolo è ben umidificato, il passaggio attraverso l’esofago riduce i traumi sull’epitelio
esofageo che resta protetto anche grazie alla sua capacità rigenerativa.
LO STOMACO

Il cibo passa poi nello stomaco, regione


costituita da alcune porzioni quali il fondo, il
corpo e l’antro, la valvola pilorica chiude lo
stomaco separandolo dal duodeno, presenta
una muscolatura a 3 strati: strato longitudinale,
strato obliquo, strato circolare; internamente il
lume è caratterizzato da una serie di pliche e di
rughe che sono estrazioni di superficie, il volume
gastrico cambia in base al cibo se il lume lo
contiene o meno, le pliche e le rughe
amplificano la mucosa che ha elevata capacità
secretoria e la loro presenza consente allo
stomaco di distendersi ed accogliere il cibo.

Nella regione della grande curvatura, si trovano cellule pacemaker che fungono da punto d’avvio delle
onde elettriche che danno luogo alle contrazioni gastriche estremamente articolate.

La regione dello stomaco prossimale funge da serbatoio del cibo che ha una muscolatura più sottile a
differenza di quella dello stomaco distale che ha una muscolatura più robusta ed è coinvolto nel
rimescolamento e nella triturazione (funzioni meccaniche), lo stomaco permette la continuazione degli
eventi digestivi a carico del bolo che transitando nello stomaco diventa chimo.

Le varie porzioni dello stomaco hanno una capacità contrattile differente: lo stomaco prossimale è
caratterizzato da contrazioni lente e prolungate, si rilassa per via riflessa durante la deglutizione siccome il
riflesso del cibo che arriva nello stomaco come bolo venga accolto da uno stomaco prossimale rilassato;
invece, lo stomaco distale si contrae dopo il pasto in maniera fasica dopo circa 3 contrazioni al minuto,
contrazioni che si sovrappongono ad onde lente generate dal pacemaker gastrico, che si dirigono verso la
regione distale (piloro) accompagnate da due successive contrazioni degli anelli della muscolatura circolare.

Sulla superficie dell’epitelio mucoso si trovano una serie di puntini detti fossette gastriche che
rappresentano lo sbocco nel lume delle ghiandole gastriche o ghiandole ossintiche ovvero ghiandole
esocrine, introflessioni della mucosa che vanno verso la regione della sottomucosa profondamente e sono
caratterizzate dal fatto che le cellule epiteliali che compongono la ghiandola hanno capacità secernente
infatti sono in grado di produrre diversi secreti quindi si troveranno all’esterno cellule mucose ovvero
cellule che producono il muco, immagazzinato all’interno di vescicole che lo secernono all’esterno con un
meccanismo di esocitosi; scendendo si trovano: cellule parietali, cellule mucose del collo, cellule endocrine,
cellule principali (nel fondo della ghiandola): queste cellule secernono i loro prodotti i quali vengono versati
nel canale che sbocca verso la superficie dello stomaco, invece, le cellule endocrine producono ormoni che
vengono versati nel sangue che passa in circolo.
FUNZIONI GASTRICHE

Tali cellule producono il succo gastrico ovvero una secrezione prodotta in quantità abbondanti durante la
giornata fino a 3 L/giorno.

• A causa della presenza di HCl ha un pH=1-2 circa, acido che viene prodotto dalle cellule parietali od
ossintiche e viene prodotto insieme ad una sostanza detta fattore intrinseco prodotto solo da queste
cellule, usato per l’assorbimento della vitamina B12: l’attività delle cellule parietali è stimolata
dall’acetilcolina, dalla gastrina, dall’istamina;
• Le cellule mucose del collo ghiandolare producono il muco e il bicarbonato con scopo tamponante nei
confronti dell’acido gastrico;
• Posizionate nella parete vi sono le cellule principali che producono i due enzimi che si trovano nello
stomaco ovvero pepsina (pepsinogeno) e lipasi gastrica;
• Inoltre vi sono le cellule simil-enterocromaffine che producono l’instamina, le cellule D che producono
la somatostatina e le cellule G che producono la gastrina;
• Il secreto prodotto dalla ghiandola gastrica contribuisce da un lato alla produzione di succo gastrico e
dall’altro alla modulazione umorale di molti dei processi gastro-intestinali inclusa la produzione di succo
gastrico;
SECREZIONE GHIANDOLE GASTRICHE

L’evento più caratteristico di questa porzione ghiandolare


è la produzione di HCl prodotto a livello delle cellule
ossintiche: la membrana luminale di queste cellule
presenta una serie di ripiegamenti che continuano nella
cellula formando dei canalicoli intracellulari, sono cellule
con una membrana plasmatica estremamente espansa e le
proprietà funzionali di questa membrana sono abbondanti
si trovano sia sulla porzione della membrana del lume ma
anche nei canalicoli intracellulari.

Il succo gastrico svolge diverse funzioni:

1. Funzione battericida: l’alimento contiene una


quota batterica che viene aggredita dall’acidità
gastrica e viene sanificato;
2. Stimolatore della produzione dell’enzima pepsinogeno (zimogeno): è un enzima inattivo che viene
poi attivato dall’HCl in pepsina (enzima attivo) la quale inizierà nello stomaco la digestione delle
proteine;
3. Attivazione del pepsinogeno;
4. Attacco del connettivo dei cibi;
5. Denaturazione delle proteine: se la struttura delle proteine resta lineare risulta più facilmente
accessibile agli enzimi che possono essere digeriti;

LA PRODUZIONE DI HCl

Per poterlo produrre, le cellule ossintiche devono essere


dotate di anidrasi carbonica (responsabile
dell’idratazione dell’anidride carbonica ad acido
carbonico che forma bicarbonato e H⁺); in queste cellule
la CO₂ proveniente dal metabolismo genera protoni e
HCO₃⁻, protoni che vengono scambiato con K⁺ da
un’ATPasi di scambio, K⁺ entra nella cellula mentre i
protoni escono e si uniscono a Cl⁻ che fuoriesce dalla
cellula attraverso dei canali (es.: canali al cloro della
famiglia dei canali della fibrosi cistica): si forma così HCl
nel lume della ghiandola che dal dotto della ghiandola
fuoriesce insieme ad altri secreti nella ghiandola
gastrica, contemporaneamente HCO₃⁻ viene scambiato
con il cloro sulla membrana basolaterale, aumenta la
concentrazione del cloro nella cellula, HCO₃⁻ arriva nel
sangue perché tutte queste regioni sono fittamente
irrorate da vasi sanguigni lo alcalinizza e genera la marea alcalina che si ha dopo un pasto abbondante.

Per il funzionamento delle cellule vi è una produzione basale di HCl e le cellule sono sottoposte all’azione
modulatoria di sostanze quali somatostatina, instamina, gastrina, acetilcolina.

La gastrina controlla in maniera positiva il rilascio di HCl attraverso il controllo del calcio insieme
all’aceticolcolina con i recettori muscarinici di tipo M3 stimola la produzione di HCl, un altro controllo è
operato dalla somatostatina e dall’instamina: è una produzione basale.
Nel secreto gastrico, insieme all’HCl si trovano gli enzimi, il pepsinogeno, la pepsina, il bicarbonato, il
fattore intrinseco, il muco; tutta la mucosa gastrica è popolata da cellule mucipare che secernono questa
soluzione mucosa che contiene acqua, bicarbonato, polimeri della proteina mucina.

La mucina è una glicoproteina che viene continuamente prodotta nelle cellule mucose collo, immagazzinata
nei granuli e costantemente rilasciata ma la produzione è stimolata dall’acetilcolina: il muco forma una
barriera protettiva a ridosso dell’epitelio, questo è necessario per l’elevata corrosività di HCl quindi se
rimanesse a contatto con le cellule della parete gastrica queste si corroderebbero per la presenza
dell’acido. Il muco forma uno strato di gel che intrappola il bicarbonato al fine di creare uno stato
fisicamente protettivo ed un gradiente di pH in modo che a contatto con la parete cellulare pH=7 mentre il
lume gastrico sia pari a 2; sulla superficie del gel mucoso si dispongono una serie di fosfolipidi che
prendono con questo contatto tramite le loro teste polari e mandano le code apolari verso il lume gastrico
formando un’ulteriore barriera per respingere l’aggressione di HCl.

Quando la funzionalità della mucosa verso la produzione del muco è alterata la scarsa disponibilità di muco
fa sì che si generino le ulcere gastriche (la barriera epiteliale non è protetta dal muco e HCl accede alle
cellule provocando ustioni della parete gastrica ovvero ulcere che possono persino arrivare al
sanguinamento se la corrosione operata dall’acido arriva fino ai vasi sanguigni.

La produzione di HCl è stimolata da:

• Acetilcolina: neurotrasmettitore parasimpatico stimolatore dell’attività gastro-intestinale;


• Istamina: prodotta dalle cellule enterocromaffini della mucosa ed agisce stimolando la secrezione
gastrica tramite i recettori H2;
• Gastrina: prodotta dalle cellule G agisce mediante i recettori CCK-B (colicistochinina di tipo B)
tramite un meccanismo che prevede il calcio;

SECREZIONE GASTRICA

La fase cefalica coincide con la fase preparatoria nella bocca, incrementa la produzione della saliva e a
livello dello stomaco inizia ad aumentare la produzione di succo gastrico.

Una serie di riflessi condizionati incluso il gusto, la masticazione e la deglutizione attraverso la mediazione
del SNC utilizzando delle fibre vagali fanno sì che le cellule delle ghiandole gastriche siano stimolate a
produrre il succo gastrico: comunicando ciò che succede al cervello, le fibre del nervo vago si attivano
mediante potenziali d’azione, raggiungono lo stomaco e sinaptano sui neuroni del sistema nervoso enterico
i quali sono neuroni che, utilizzando l’acetilcolina, agiscono sui recettori M3 e stimolano la produzione di
HCl; nel frattempo i neuroni enterici controllano l’attività delle cellule G e inducono la produzione della
gastrina la quale agisce per via endocrina, si dirige verso il sangue e stimola le cellule parietali a produrre
HCl contemporaneamente gli stessi neuroni enterici bloccano l’attività delle cellule D che interrompono la
produzione della somatostatina la quale è un inibitore della produzione di gastrina di cui viene lasciata
libera la sua produzione. Dopo che sono state prodotte tutte queste sostanze, il cibo arriva nello stomaco in
cui inizia la fase gastrica controllata da riflessi che partono dalla parete gastrica, contemporaneamente
diminuisce la produzione della saliva ma incrementa la produzione gastrica dato che il cibo che entra nello
stomaco distende le pareti e questa distensione parietale viene sentita dai meccanocettori (di cui le pareti
sono ricche), questi recettori sensibili allo stiramento, che appartengono al sistema nervoso enterico,
vanno a sinaptare sulle cellule che rilasciano acetilcolina che stimolano la produzione di HCl, utilizzando
fibre del nervo vago afferenti, informano poi il SNC del fatto che lo stomaco contiene il cibo siccome la
parete è distesa; nel frattempo, i prodotti della digestione proteica stimolano le cellule G a produrre a
gastrina che si dirige nel sangue e stimola la produzione di HCl.

Contemporaneamente, la distensione parietale agisce sulle cellule G stimolando la produzione di gastrina


così il SNC, dopo essere stato informato, attiva le fibre vagali efferenti che, sinaptando sui neuroni enterici
bloccano l’attività delle cellule D e stimolano quella delle cellule G a produrre la gastrina: si ha quindi un
ulteriore incremento della produzione del succo gastrico, il cibo viene mescolato per opera delle
contrazioni della muscolatura circolare ed obliqua in modo che il bolo che si sta trasformando in chimo si
mescoli al succo gastrico così alla fine si produrrà un chimo di natura acida.

Quando il cibo, durante la contrazione dello stomaco distale, viene spinto verso la regione pilorica inizia lo
svuotamento gastrico o meglio il cibo transita dallo stomaco verso l’intestino e così inizia la fase intestinale
che nella saliva corrisponde ad una scarsa produzione di saliva mentre diminuisce la secrezione che avviene
nello stomaco: man mano che il chimo transita dallo stomaco verso l’intestino entra nell’intestino una
quota di chimo acido e si abbassa di conseguenza il pH del duodeno, nel frattempo nel duodeno entrano
lipidi (contenuti nel chimo e in parte trattati dalle lipasi salivare e gastrica), carboidrati (digeriti grazie all’α-
amilasi) e nello stomaco entra una soluzione iperosmotica (liquido ricco di sostanze). Questo transito del
chimo attiva una serie di risposte inibitorie che bloccano l’attività di secrezione delle cellule dello stomaco,
quindi bloccano la secrezione acida, la motilità gastrica ed inibita la secrezione di tutto il secreto gastrico; il
chimo che transita attiva una serie di stimoli nel duodeno che vanno a bloccare l’attività di secrezione dello
stomaco. Contemporaneamente, questa fase è accompagnata dall’attivazione della produzione pancreatica
dato che il duodeno accoglie il succo pancreatico prodotto in fasi.

SVUOTAMENTO GASTRICO

Lo svuotamento gastrico avviene in


maniera regolata ed è abbastanza lento, la
velocità dello svuotamento dipende dalla
granulometria del cibo quindi sarà più
rapido per i cibi di natura fluida o
semifluida: consente di rispettare la
capacità sia digestiva che assorbente del
duodeno ed evitare che esso venga invaso
da una quantità di chimo acido eccessiva.

Il grafico rappresenta la velocità di


svuotamento di una soluzione di glucosio
all’1% che rapidamente lascia lo stomaco, i
pezzetti di fegato di un cm³ hanno un tempo di svuotamento maggiore e le sfere plastiche di 7 mm restano
sempre nello stomaco essendo troppo grandi.

Lo svuotamento avviene per onde di contrazione successive siccome il meccanismo prevede una prima
onda di contrazione che parte dalla regione della grande curvatura dirigendosi verso antro pilorico, trova lo
sfintere pilorico aperto e viene fatta fuoriuscire una piccola porzione di chimo dallo stomaco verso il
duodeno: terminata quest’onda di contrazione il piloro si chiude, parte così una seconda onda di
contrazione che spinge nuovamente la massa verso il duodeno in cui trova il piloro chiuso e torna indietro
in questo modo si rimescola il cibo con un meccanismo detto retropulsione; successivamente, la terza onda
di contrazione trova il piloro aperto e passa l’altro fiotto di chimo dallo stomaco verso il duodeno
(meccanismo controllato da archi riflessi): esiste la sindrome da rapido svuotamento che coincide con
perdita di coscienza, sudorazione, in questi casi bisogna ridurre la quantità di chimo che si trova nello
stomaco in modo che nel duodeno arrivi una quantità molto piccola.

STRUTTURA PARETE INTESTINALE

L’intestino presenta una struttura con


la mucosa ripiegata a formare i villi
intestinali, le cellule dei villi hanno la
membrana luminale ripiegata a
formare i microvilli (orletto a spazzola),
regioni con attività enzimatica: sulla
parete vi sono cellule secernenti,
cellule di tipo caliciformi che
producono muco, enterociti. Nel villo si
trovano i vasi sanguigni e il vaso
linfatico (contribuisce a formare lo
scheletro vascolare del villo): il vaso
linfatico chilifero raccoglie acqua e i
prodotti della digestione lipidica
portandoli nei vasi simpatici più grandi
per coinvolgerli nella circolazione linfatica generale; vi sono inoltre neuroni che si dirigono fino all’apice del
villo.

ESPANSIONE

Il contatto delle cellule con il lume corrisponde a circa 200 m².


L’intestino presenta una funzione digestiva più chimica che
meccanica: nell’intestino tenue avvengono eventi enzimatici
importanti ed eventi meccanici (segmentazione, peristalsi
propulsiva), digestione ed assorbimento di sostanze nutritive,
acqua ed elettroliti mentre nell’intestino crasso termina la fase
digestiva, continua l’assorbimento di liquidi, elettroliti, si
formano e si raccolgono le feci che vengono periodicamente
eliminate e qui la motilità è data da: peristalsi propulsiva,
austrazioni, movimenti di massa (tipici del colon), defecazioni.
ENZIMI

Nella bocca avviene una prima digestione di amido e


lipidi, nello stomaco continua quella dei lipidi e si
interrompe quella dei carboidrati e inizia quella delle
proteine, nell’intestino avviene la digestione di
carboidrati, lipidi e proteine. L’amilasi è prodotta dalla
saliva e dal pancreas, nell’intestino si trovano una serie
di enzimi che digeriscono i disaccaridi. Questa serie di
enzimi aggredisce il cibo nei vari tratti trasformando le
molecole complesse in molecole semplici; il
rimescolamento e la segmentazione del cibo fanno sì
che nuove superfici vengano sempre esposte alla
secrezione degli enzimi (i succhi bagnano le superfici in
profondità in modo da avere una buona interazione
degli enzimi con i propri substrati anche nel profondo della massa.

PANCREAS

Alla digestione intestinale contribuisce in maniera


importante il pancreas esocrino: il pancreas è una
ghiandola che ha natura si endocrina che
esocrina, il pancreas endocrino produce insulina e
glucagone e il pancreas esocrino produce il succo
pancreatico il quale è prodotto dalle cellule
pancreatiche, si raccoglie in un dotto pancreatico
che sfocia nell’intestino tenue e si unisce al dotto
biliare comune (proveniente dalla cistifellea),
sfocia nell’ampolla di Vater passando attraverso
lo sfintere di Oddi contemporaneamente
l’intestino tenue riceve il secreto pancreatico e
quello biliare.

SECREZIONE PANCREATICA

Il succo pancreatico è costituito


da acqua, bicarbonato, enzimi
(succo basico); il bicarbonato
viene prodotto accoppiando
sistemi di trasporto apicali e
basolaterali, viene rilasciato in
scambio con il cloro, prodotto
dall’anidrasi carbonica contenuta
nelle cellule dei duttuli
pancreatici, fuoriesce nel lume
dei duttuli pancreatici, questo
meccanismo è accompagnato
dall’escrezione dei protoni.
Il succo pancreatico viene prodotto in fasi:

1. Fase cefalica: si ha l’incremento della produzione di saliva e del succo gastrico (limitata);
2. Fase gastrica: si riduce la produzione di saliva ed aumenta quella del succo gastrico, inizia ad
aumentare quella del succo pancreatico;
3. Fase intestinale: la produzione del succo gastrico aumenta quando il chimo acido arriva
nell’intestino tenue, abbassa il pH duodenale il quale induce il rilascio di secretina la quale stimola
le cellule duttali a produrre bicarbonato, le sostanze contenute in questa massa alimentare
predigerita stimolano le cellule del duodeno e del digiuno a rilasciare la colicistochinina, principale
stimolatore della secrezione pancreatica (pancreozimina); questi stimoli attivano riflessi vagovagali,
vengono recepiti da chemocettori che stimolano le fibre vagali afferenti che arrivano al SNC e
tramite fibre efferenti vagali ritornano sul pancreas stimolando la secrezione;

ENZIMI DEL SUCCO PANCREATICO

Si ottengono prodotti della digestione mediante scissione dei legami, idrolisi dei legami e si producono
sostanze semplici assorbibili a livello delle singole cellule che diventano materiale energetico da cui si
possono poi sintetizzare nuovamente le sostanze.
L’elaborazione delle macromolecole è sostanzialmente chimica ma è preceduta da un’elaborazione
meccanica della massa alimentare che viene trattata sin dalla bocca in maniera meccanica e in maniera
chimica per poter essere semplificata.

Il chimo acido viene trasferito nell’intestino,


durante lo svuotamento gastrico arriva nel
duodeno dove incontra una secrezione che
contiene un prodotto in cui è presente una
batteria di enzimi deputati alla digestione. Nel
duodeno il chimo acido inizia ad incontrare i
secreti intestinali a partire da quello più
importante a livello duodenale che è la
secrezione pancreatica. Il pancreas è una
ghiandola esterna all’apparato digerente ed ha
un prodotto sia endocrino (insulina e glucagone),
sia esocrino che è appunto il succo pancreatico. Il
succo pancreatico è sostanzialmente una soluzione acquosa composta da acqua, bicarbonato, una serie di
Sali ed enzimi. Questi enzimi vengono prodotti in forma inattiva infatti vengono chiamati zimogeni
pancreatici.
Come il succo gastrico e anche il succo salivare, il succo pancreatico viene prodotto in maniera variabile
nella fase cefalica, gastrica ed intestinale. Il momento di massima produzione del succo pancreatico è la
fase intestinale che viene stimolata dal pH duodenale che si abbassa con l’arrivo del chimo acido
proveniente dallo stomaco, viene prodotta la secretina che stimola le cellule dei dotti a produrre
bicarbonato, La caratteristica della secrezione pancreatica è che essa è una secrezione basica, tampona
dunque l’acidità gastrica. Nello stesso tempo i primi prodotti della digestione proteica, cioè gli
amminoacidi, i peptidi, ma anche gli acidi grassi, stimolano le cellule del duodeno e del digiuno a rilasciare
la colecistochinina che stimola la produzione pancreatica (pancreozimina). Per cui viene prodotto il succo
pancreatico che si versa all’interno del duodeno.
Lo scopo di queste batterie enzimatiche è quello di produrre
sostanze che vengono assorbite a livello della mucosa
intestinale e lo schema riassume i luoghi dell’assorbimento
delle sostanze assunte con la dieta.

I carboidrati in una dieta normale, equilibrata,


rappresentano quasi la metà delle calorie assunte
per ogni giorno, il carboidrato maggiormente
presente e generalmente l’amido. L’amido è un
carboidrato complesso, un polimero che può
essere più o meno ramificato e insieme al glicogeno
rappresenta un polimero di riserva. L’amido è il
polimero di riserva che noi troviamo in tutti gli
alimenti di origine vegetale. Accanto all’amido vi è
il glicogeno che è però il carboidrato di riserva dei
tessuti animali.
L’amido è il substrato che viene aggredito sin dalla
fase orale del processo digestivo, cioè quando le
sostanze entrano nella bocca. L’amido nella sua struttura ramificata presenta dei legami α-1,4, glucosidici
interni che sono il sito d’attacco dell’α-amilasi salivare e pancreatica.
Quando l’amido viene chimicamente trattato dall’α-amilasi si producono dei disaccaridi, tra cui il maltosio,
il saccarosio e il lattosio. Il maltosio insieme a tutti gli altri disaccaridi arrivano nell’intestino tenue dove
vengono aggrediti dalle disaccaridasi intestinali, si producono dunque monomeri, la maltasi separerà il
maltosio in 2 glucosio, la saccarasi separerà il saccarosio in 1 glucosio e 1 fruttosio e la lattasi separerà il
lattosio in 1 glucosio e 1 galattosio.
In molti individui l’enzima lattasi, a causa di una mutazione è inefficiente e quindi à la forma di intolleranza
al lattosio.
Quando l’amido viene trattato dall’α-amilasi salivare, si produce il maltosio, il maltotriosio e le destrine
alfa-limite. Nell’amido c’è un altro sito d’attacco, nei legami β-1,4-terminali, che è il sito d’attacco della β-
amilasi.
L’amido generalmente non è solo nell’alimento ma in una miscela di amilosio e amilopectina, due polimeri
del glucosio, amilosio meno ramificato e amilopectina più ramificata e più difficile da digerire in quanto le
ramificazioni aumentano le zone nelle quali non potrebbe agire l’α-amilasi. A seconda delle zone nelle
quali viene coltivato il grano, può variare la percentuale di amilosio e amilopectina e l’amido potrà dunque
essere più o meno digeribile.
Alla fine, ad opera dell’amido, ma ad opera anche
delle disaccaridasi ci troviamo ad avere a livello
dell’intestino tenue con la disponibilità dei
substrati glucosio, galattosio e fruttosio.
Questi monomeri arrivano in prossimità del lume
delle cellule intestinali e lì incontrano dei sistemi di
trasporto, in particolare il sistema di trasporto che
fa assorbire il glucosio e il galattosio è lo stesso
meccanismo che si ha nelle cellule del tubulo
contorto prossimale dove avviene il
riassorbimento del glucosio. La Na+/K+ ATPasi
genera il gradiente del sodio che viene sfruttato
dal trasportatore attivo secondario GLUT2, trasportatore accoppiato sodio/glucosio che funziona anche con
il galattosio. Per cui entrambi possono entrare e vengono poi trasferiti attraverso la membrana basolaterale
e vanno nel sangue ad opera delle glucosio permeasi. Il fruttosio non sfrutta un trasporto sodio-
dipendente, ma sfrutta il trasportatore GLUT5.
Quando il glucosio viene assorbito, va in circolo e deve dunque essere utilizzato in quanto lo scopo finale è
proprio quello che le cellule possano utilizzare tutti i substrati.
Il glucosio non potrebbe entrare nelle cellule se
non intervenisse l’insulina. L’insulina viene
prodotta dal pancreas endocrino proprio in
funzione del ciclo di assunzione dell’alimento.
Dopo il pasto aumenta la produzione di insulina,
l’insulina che circola nel sangue va a legarsi sui
recettori per l’insulina che si trovano a livello del
muscolo scheletrico o del tessuto adiposo. I
recettori per l’insulina legati all’insulina si
attivano, attivano una cascata di eventi
intracellulari che porta all’esocitosi di vescicole di
membrana intracellulari che contengono GLUT4.
La presenza dei GLUT4 fornisce alla membrana
plasmatica la capacità di essere attraversata dal
glucosio. Questo è quello che avviene nel muscolo scheletrico e nel tessuto adiposo.
Nel fegato, avviene che, nella fase assimilativa, l’epatocita assimila il glucosio che viene assorbito perché
sulla membrana si trovano i GLUT2 e il gradiente del glucosio favorisce l’ingresso.
La presenza di insulina legata al proprio recettore attiva un esochinasi all’interno della cellula che fosforila il
glucosio, si forma il glucosio-6-fosfato che mantiene basso il gradiente del glucosio che viene accumulato
all’interno della cellula.
Nella fase post-assimilativa, in cui incomincia ad abbassarsi la disponibilità di glucosio nel sangue, la bassa
concentrazione di insulina interrompe il processo di fosforilazione del glucosio e quindi il glucosio viene
ripreso dalle riserve di glicogeno e viene riutilizzato uscendo sempre secondo gradiente e utilizzando
sempre il GLUT2. Viene nuovamente resa disponibile la quota di glucosio per l’energetica delle cellule, il
glucosio viene reso di nuovo disponibile nel sangue.
Importanza nutrizionale:
I glucidi costituiscono più del 50% dell’energia assunta con la dieta, il principale è l’amido seguito da
saccarosio e lattosio.
I glucidi sono indispensabili per il funzionamento del sistema nervoso centrale (attività sinaptica, energia
che serve per far avvenire l’esocitosi del neurotrasmettitore ecc).
I glucidi sono quelli che danno la disponibilità energetica immediata, soprattutto i glucidi meno complessi.
La quantità di alimento varia in funzione del metabolismo basale, in funzione dell’età, del sesso, dell’attività
che si compie, della temperatura esterna, dello stato di salute ecc.
La razione alimentare quotidiana (RDA) mediamente è di 130 g/die, in gravidanza 175 g/die e in
allattamento 210 g/die.
Il cervello di bambini e adulti utilizza 100 g/die di glucosio.
Le proteine sono anche esse molecole
estremamente complesse, a livello dell’apparato
digerente vengono aggredite a livello gastrico,
vengono denaturate dall’HCl, vengono aggredite a
livello gastrico dalla pepsina che viene attivata
dallo stesso HCl.
Affinchè avvenga la digestione delle proteine
queste devono essere linearizzate e intervengono
enzimi che possono andare ad agire all’interno
della proteina, in mezzo alla catena e saranno
endopeptidasi, generando due peptidi più piccoli
ognuno con la propria estremità ammino e
carbossi teminale, queste possono essere esposte
all’azione di esopeptidasi, cioè quelle che staccano gli amminoacidi terminali. Saranno amminopeptidasi
quelle che staccano gli amminoacidi ammino terminali, saranno carbossipeptidasi quelli che staccano gli
amminoacidi carbossi terminali.
L’azione combinata da endopeptidasi ed esopeptidasi alla fine fa si che vengano prodotti amminoacidi di di
e tri peptidi.
La digestione delle proteine incomincia nello stomaco ad opera della pepsina, continua negli enzimi
pancreatici dove troviamo una serie di enzimi che vengono prodotti dal pancreas nella forma di zimogeni
che arrivano dal pancreas direttamente nell’intestino. Nell’intestino gli zimogeni devono essere attivati per
andare a svolgere la propria funzione sui prodotti proteici. Per attivare gli zimogeni pancreatici si attiva una
cascata, che prevede che uno di questi zimogeni, il tripsinogeno incontri una enteropeptidasi che si trova
sull’orletto a spazzola. La membrana degli enterociti si trova fittamente ripiegata in un orletto a spazzola.
Questa enteropeptidasi ha il tripsinogeno come substrato, l’enteropeptidasi lavora sul tripsinogeno
attivandolo e trasformandolo in tripsina. La tripsina è un enzima proteolitico potentissimo che va a sua
volta a lavorare su tutti gli zimogeni pancreatici, quindi gli enzimi prodotti in forma inattiva sono substrati
della tripsina che va ad agire sui legami peptidici degli zimogeni pancreatici e li attiva producendo enzimi
attivi che continuano la digestione delle proteine all’interno del lume intestinale.
Sarà dunque l’enteropeptidasi che attivando il tripsinogeno in tripsina, attiva la cascata di attivazione degli
zimogeni pancreatici che come enzimi attivi vanno a digerire le proteine producendo dipeptidi, tripeptidi e
amminoacidi liberi.
Alla fine, si ottengono questi amminoacidi liberi che vengono assorbiti con il sistema di trasporto attivo
secondario accoppiato al sodio in cui c’è sempre la Na+/K+ATPasi nella regione basolaterale, vengono presi
gli amminoacidi liberi che vengono trasferiti nel sangue e si dirigono verso il fegato. Anche i di e i tripeptidi
possiedono un meccanismo di trasporto accoppiato, questi sono accoppiati ai protoni, arrivano all’interno
delle cellule dell’intestino dove incontrano delle peptidasi (dipeptidasi e tripeptidasi) che producono degli
amminoacidi liberi.
Possono essere assorbiti anche piccoli peptidi per endocitosi, si forma la vescicola e poi avviene l’esocitosi
nel versante basolaterale, c’è un meccanismo di transcitosi, meccanismo poco selettivo che sembra essere
responsabile di alcune delle allergie dei neonati quando ancora i sistemi di trasporto non sono
completamente maturi e vengono assorbiti peptidi più grandi che possono essere no riconosciuti
dall’organismo e scatenare alcune delle allergie alimentari particolarmente presenti nei neonati.
Le proteine hanno una funzione sia energetica, sia plastica, per cui nella fase di accrescimento le proteine
per i bambini sono più importanti in termini nutrizionali rispetto agli adulti, soprattutto perché le proteine
sono costituite da amminoacidi alcuni dei quali non sono prodotti dal nostro organismo e possono arrivare
ad esso solo se assunti per via nutrizionale. Sono amminoacidi essenziali senza i quali non è compatibile un
buon metabolismo, sono contenuti tutti all’interno delle proteine animali, mentre le proteine di origine
vegetali non contengono tutti gli amminoacidi essenziali.

La bile viene prodotta a livello del fegato, degli


epatociti e si raccoglie all’interno di canalicoli
biliari e dunque all’interno del dotto biliare che
porta la bile all’interno della cistifellea dove viene
accumulata.

La bile viene secreta quando la colicistochinina


(prodotta dalle cellule duodenali e anche in
parte digiunali) e l’acetilcolina provocano la
contrazione della muscolatura liscia della
cistifellea, viene spremuta la colecisti e la bile
raggiunge il duodeno unendosi al succo
pancreatico attraverso lo sfintere di Oddi
rilassato. Nel duodeno la bile incontra il chimo
acido appena arrivato.
La bile è una soluzione acquosa, diversa a seconda se
consideriamo quella epatica o quella nella cistifellea.
Quella epatica è più acquosa in quanto contiene più NaCl,
invece l’epitelio della cistifellea assorbe acqua ed NaCl
rendendo la bile più concentrata.
Il colore verdastro è dato dalla bilirubina che è un prodotto
del metabolismo dell’emoglobina, contiene colesterolo,
contiene fosfolipidi e contiene soprattutto i Sali biliari.
I Sali biliari sono il costituente della bile che permette la
digestione dei lipidi.
La digestione dei lipidi è il meccanismo di digestione più
complesso, avviene per tappe consecutive con il contributo
sia degli enzimi pancreatici, sia della lipasi salivare, gastrica
e pancreatica ma richiede che intervengano anche i sali biliari.
Assumiamo lipidi in una quota variabile, da 60 a
100 g/die, circa il 90% nella forma di trigliceride e
circa il 10% nella forma di esteri del colesterolo,
fosfolipidi e vitamine liposolubili. Quando
l’alimento entra nello stomaco incontra la lipasi
gastrica che viene secreta dal fondo gastrico e
l’azione della lipasi a valori di pH abbastanza acidi
(pH 4-6) sui trigliceridi fa si che si produca un
digliceride ed un acido grasso libero.
L’azione invece della lipasi pancreatica che lavora
a pH neutro, da un monogliceride e due acidi
grassi liberi.
Quindi a livello dello stomaco e del duodeno si
formeranno acidi grassi liberi.

La caratteristica acquosa del contenuto intestinale non


è favorevole ai lipidi. Per poter essere digeriti i lipidi
devono essere emulsionati, si devono formare delle
gocce lipidiche.
Ciò avviene battendo il contenuto gastrico proprio ad
opera dell’attività motoria soprattutto dell’antro
gastrico. Il rimescolamento che avviene nell’antro dello
stomaco sul chimo e lo svuotamento attraverso lo
sfintere pilorico, emulsionano i lipidi. Ma le gocce
lipidiche emulsionate tendono ad unirsi tra di loro,
affinchè si possano stabilizzare queste gocce lipidiche è
necessario il contributo dei Sali biliari.
Le gocce lipidiche stabilizzate all’interno del duodeno sono stabilizzate nella forma di micelle miste, ci
saranno dunque i fosfolipidi, ci saranno i monogliceridi, ci sarà il colesterolo e tutto intorno saranno
disposti i Sali biliari che creeranno una specie di rivestimento stabilizzando la micella, ma nello stesso
tempo andranno a far si che gli enzimi pancreatici possano lavorale sui lipidi contenuti nelle micelle.
I Sali biliari aiutano a stabilizzare i lipidi e consentono alla colipasi di andare a fissare la lipasi pancreatica
sulla superficie delle gocciole lipidiche.
Le gocce lipidiche vengono emulsionate nei
meccanismi di mescolamento, i Sali biliari le
rivestono e le stabilizzano cosicchè la colipasi
aiuti la lipasi a formare i monogliceridi e gli acidi
grassi liberi.
I monogliceridi e gli acidi grassi liberi possono
attraversare la membrana degli enterociti a
livello dell’intestino tenue per diffusione
semplice essendo liposolubili.
La diffusione semplice consente ai monogliceridi
e agli acidi grassi liberi di entrare all’interno
degli enterociti. Anche il colesterolo che era
contenuto nella micella viene trasportato ad
opera di meccanismi di trasporto.
All’interno degli enterociti i monogliceridi vengono risintetizzati a trigiceridi nel reticolo endoplasmatico. I
trigliceridi si aggregano con il colesterolo e con i fosfolipidi vanno a formare nuovamente delle gocciole
lipidiche che si coprono di apolipoproteine e vanno a formare i chilomicroni. I chilomicroni fuoriescono
dalla membrana basolaterale e transitano nella regione interstiziale andando poi a formare la linfa.

I chilomicroni costituiscono una struttura


complessa e come tale non passa attraverso la
membrana dell’endotelio capillare, ma passa tra
una cellula e l’altra. Attraverso la linfa riesce però
a giungere all’interno del sangue.

Una volta che arriva nel sangue, il chilomicrone


incontra la lipoproteina lipasi che idrolizza
nuovamente i trigliceridi, riformando acidi grassi
e monogliceridi, si separa il colesterolo e gli acidi
grassi si legano all’albumina ed entrano nei
tessuti.
Ad esempio, entrano nelle cellule adipose dove
vengono riassemblati in trigliceridi, vengono
accumulati e poi resi di nuovo disponibili con la
lipolisi.
Il colesterolo LDL è legato alle proteine ed è
importante perché stabilizza la fluidità della
membrana.
Nello stesso tempo una volta che il chilomicrone si è separato, il residuo del chilomicrone passa attraverso
l’endotelio, arriva nelle cellule del fegato e li viene degradato. Si riforma colesterolo, acidi grassi,
lipoproteine e poi il colesterolo viene liberato nella bile dove viene utilizzato per stabilizzare le micelle.

Un altro degli eventi estremamente importante


per la nostra buona salute è l’assorbimento della
vitamina B12 che viene ingerita con gli alimenti di
origine animale. Si tratta di una vitamina
idrosolubile e non può essere né digerita né
assorbita semplicemente, prevede un
meccanismo molto complesso che chiama in
causa il fattore intrinseco.
La vitamina B12 è ingerita cin gli alimenti, legata
ad essi, arriva nella bocca ed incontra uno dei
prodotti contenuti all’interno della saliva che si
chiama aptocorrina. Quando l’alimento viene
deglutito, nel bolo c’è la vitamina B12 legata
all’alimento e l’aptocrrina salivare.
Quando il bolo arriva nello stomaco l’acido grasso fa staccare la vitamina B12 dagli alimenti, quindi questa è
libera e poiché si trova nel bolo insieme all’aptocorrina, nello stomaco si lega ad essa.
Si forma dunque un complesso vitamina B12-aptocorrina che si mescola all’interno dello stomaco con il
fattore intrinseco e arrivano insieme dallo stomaco all’interno dell’intestino.
Nel duodeno incontrano gli enzimi pancreatici, le proteasi pancreatiche staccano l’aptocorrina dalla
vitamina B12 che è nuovamente libera all’interno dell’intestino dove si lega al fattore intrinseco che era
arrivato insieme alla vitamina B12. Nella forma vitamina B12 fattore intrinseco, la vitamina B12 può essere
assorbita a livello dell’ileo terminale, entra nei capillari ematici insieme alla transcobalamina e viene ceduta
ai tessuti.
Nell’apparato gastrointestinale si assorbono anche il ferro, il
calcio, il sodio, l’acqua. Il ferro è anche esso di derivazione
alimentare, né assorbiamo una quota minima, circa il 10% di
quello introdotto con la dieta.
A livello gastrico il ferro viene trasformato dall’ambiente acido
da ferro ferrico (Fe3+) a ferro ferroso (Fe2+) che viene
assorbito a livello dell’intestino tenue, prevalentemente a
livello del duodeno e del digiun, arriva all’interno degli
enterociti sia nella forma di ferroeme sia nella forma di ferro
ferroso e poi viene trasportato nel sangue del capillare che si
trova nel villo legandosi alla transferrina come complesso ferro-transferrina (2Fe3+). All’interno della
cellula, nella forma di ferritina viene depositato.

L’unica fonte di acqua


che noi abbiamo, oltre
all’acqua metabolica, non
sufficiente per garantire
le richieste idriche
giornaliere, è l’acqua
della dieta.
Avere un corretto
assorbimento dell’acqua
a livello del colon è
estremamente
importante.
C’è un controllo mediato dall’asse
cervello sistema cervello-apparato
gastrointestinale, nel quale alcune
regioni cerebrali prevalentemente a
livello dell’ipotalamo sono
responsabili della definizione della
fame e dello stimolo della sazietà e
sono allo stesso tempo controllati e
cortocircuitano con le regioni
periferiche, per cui vi è un controllo
ricco e immediato. In ciò una buona
parte è legata agli aspetti di tipo
edonistico (piacere
gustativo/sensoriale).
Sistema respiratorio
Il sistema respiratorio è costituito
principalmente da due organi
respiratori: i polmoni, contenuti
all’interno della cassa toracica che
sono costituiti da un parenchima.
I polmoni sono il luogo dove
avvengono gli scambi gassosi tra il
sangue che arriva ai polmoni
attraverso il circolo polmonare e l’aria
che arriva ai polmoni attraverso le vie
aeree superiori.
Gli alveoli polmonari rappresentano
proprio la superficie di scambio,
hanno una struttura sacciforme che
amplifica la superficie di scambio così
tanto da avere una dimensione se la
distendessimo di circa 80 m2. Questa superficie respiratoria è affiancata dai vasi sanguigni che derivano
dalla circolazione polmonare che proviene dal ventricolo destro e si dirige attraverso i polmoni ramificando
in rami arteriosi sempre più piccoli. Intorno agli alveoli si schiude una rete di capillari alveolari, il sangue
viene convogliato in vasi di calibro maggiore per poi tornare al cuore all’atrio sinistro ossigenato con la vena
polmonare.
Nell’intero albero respiratorio alcune delle porzioni svolgono funzioni di conduzione dell’aria dall’esterno
verso le zone respiratorie, tale zona viene detta zona di conduzione ed è costituita da trachea, bronchi,
bronchioli e bronchioli terminali, l’aria entra attraversando queste regioni per poi arrivare ai bronchioli
respiratori e nei sacchi alveolari e torna indietro, fuoriesce, attraversando nuovamente queste porzioni.
Affinché l’aria arrivi agli alveoli è necessario
che transiti attraverso queste vie di
conduzione che sono rappresentate dalla
laringe, dalla trachea, dai bronchi fino ad
arrivare alle zone terminali. Queste vie di
conduzione sono vie delimitate da epitelio
non respiratorio, da epitelio di tipo colonnare
ricco di cellule ciliate e ricco di cellule
mucipare. Queste cellule ciliate sono cellule
che hanno una serie di ciglia molto fitte,
quasi a formare uno spazzolino. Le cellule
ciliate sono intervallate alle cellule epiteliali
colonnari e alle cellule caliciformi mucipare
(producono il muco).
Il muco è molto importante per la corretta
funzionalità respiratoria, viene spinto nelle vie aeree dalle ciglia. La sua funzione è quella di umettare la
superficie delle cellule epiteliali, questa umidità viene trasmessa in parte all’aria che viene respirata;
imbriglia inoltre le particelle di polvere che entrano durante l’atto respiratorio.
Il muco viene continuamente spinto dalle cellule verso la trachea così da essere eliminato.
Una volta superate le vie di conduzione l’aria
arriva agli alveoli. Ogni alveolo è in contatto con i
vasi sanguigni, con i capillari del letto vascolare
polmonare.

Il sangue arriva attraverso l’arteria polmonare


e nella regione terminale degli alveoli
attraverso una fitta rete di capillari che
avvolge l’alveolo e che poi confluisce con i
rami venosi che vanno verso l’atrio di sinistra.
Così come abbiamo il pericardio parietale e il
pericardio viscerale, anche in questo caso
abbiamo la pleura viscerale e la pleura
parietale, quello viscerale a contatto con
l’organo separato da quello parietale da uno
spazio, in questo caso lo spazio pleurico.
Affinché tutto il sistema funzioni in maniera
efficiente è necessario che l’epitelio
respiratorio sia costantemente ventilato e allo
stesso tempo anche perfuso, perché tutta la respirazione altro non è che lo scambio di gas respiratori tra
l’aria e il sangue. I due mezzi che devono entrare in contatto sono appunto l’aria e il sangue.
Circa il 10% del sangue corporeo si trova in ogni istante all’interno dei polmoni. Di questo 0,5 l di sangue
circa 75 ml partecipano allo scambio gassoso, ciò significa che 75 ml si trovano in prossimità degli alveoli.
La perfusione polmonare deriva dal sangue che fuoriesce dal ventricolo destro, noi sappiamo che il volume
di sangue che fuoriesce dal ventricolo destro è uguale a quello che fuoriesce dal ventricolo sinistro, però i
polmoni sono una struttura più piccola rispetto al resto dell’organismo, per cui nei polmoni lo stesso
volume di sangue che raggiunge tutta la periferia dell’organismo perfonde i polmoni che avranno perciò
una portata maggiore rispetto ai tessuti.
La distribuzione del sangue a livello polmonare avviene in un distretto che è sicuramente molto più piccolo
di quello dell’intero circolo sistemico, questo circuito polmonare è ad alta portata e a bassa resistenza, la
resistenza sul cuore di questo è che le pareti del ventricolo destro sono più sottili di quelle del ventricolo
sinistro. Il muscolo ventricolare destro è sottoposto in genere a delle pressioni più basse che sono
sufficienti alla corretta perfusione polmonare.
L’aria atmosferica misurata in
una giornata chiara non
particolarmente umida a livello
del mare è costituita
prevalentemente da azoto, ma
anche da ossigeno, da una bassa
% di CO2 e da una % di acqua.
Abbiamo una pressione parziale
dell’aria di circa 760 mmHg che
si mantiene sempre, sia quando
l’aria si umidifica che nell’aria
alveolare e nell’aria ispirata,
rimane grosso modo costante la
quota di azoto, mentre
cambiano le percentuali di
ossigeno, CO2 e acqua. L’aria
man mano che arriva negli
alveoli e subisce lo scambio respiratorio, si impoverisce di ossigeno mentre si carica di anidride carbonica.
Ciò ci da un’idea della direzione nella quale avvengono gli scambi.
Il principio in base al quale avviene questo scambio di ossigeno è semplicemente il gradiente di pressione
parziale, dove per pressione parziale secondo la legge di Henry si intende la concentrazione del gas che è
disciolto e il coefficiente di solubilità, il quale dipende dai vari gas.
Quando avvengono gli scambi respiratori, l’aria entra all’interno dei polmoni, raggiunge l’epitelio
respiratorio per poi venire espulsa durante l’atto espiratorio.
Ogni volta che noi compiamo un atto respiratorio, sia inspiratorio che espiratorio, mobilizziamo l’aria, ma
non rimuoviamo dall’apparato respiratorio tutta l’aria. I polmoni non rimangono privi di aria, rimane un
volume residuo di aria. Il rinnovo dell’aria all’interno degli a livello dei polmoni avviene in maniera graduale,
tale gradualità evita che ci siano degli sbalzi improvvisi delle pressioni parziali dei gas.

L’ossigeno contenuto nell’aria ispirata, dall’aria va verso il globulo rosso e l’anidride carbonica dal globulo
rosso va verso l’aria.
Man mano che il sangue transita dal capo arterioso verso le vene polmonari, la pressione parziale
dell’ossigeno aumenta, sale, arriva a 40 mmHg e fuoriesce con 104 mmHg perfettamente in equilibrio con
l’ossigeno dell’aria.
Al contrario l’anidride carbonica entra dal lato arterioso carico di CO2, questo essere carico di CO2
corrisponde 45 mmHg e fuoriesce povero di CO2, dove povero di CO2 corrisponde a 40 mmHg.
Possiamo notare come le due curve seguono due andamenti opposti.
All’interno dei polmoni l’aria arriva con un valore di circa
100 mmHg, arriva il sangue con 40 mmHg e fuoriesce con
100 mmHg. L’ossigeno si lega all’emoglobina saturandola,
va verso il cuore di sinistra e viene dirottato verso i tessuti,
cede l’ossigeno man mano fino ad arrivare ai 40 mmHg
valore con il quale il sangue ritorna a destra per poi
ritornare ai polmoni.
L’anidride carbonica fa il percorso inverso, all’interno dei
polmoni l’aria arriva a 40 mmHg, arriva il sangue con 45/46
mmHg e fuoriesce dai polmoni avendo perso 5/6 mmHg di
CO2, segue il percorso che conosciamo per poi riprendere il
circolo.
In entrambi i casi, sia nel caso dell’ossigeno che nel caso
dell’anidride carbonica lo scambio avviene per diffusione semplice e dunque per gradiente di pressione
parziale.
Gli atti respiratori sono una inspirazione, atto nel
quale l’aria viene condotta dentro il sistema
respiratorio e una espirazione atto nel quale l’aria
viene portata al di fuori dei polmoni. Gli atti
respiratori sono atti involontari, possiamo controllarli
m c’è una base autonoma e involontaria di questa
dinamica ciclica dei movimenti respiratori. Affinchè
tutto questo possa avvenire è necessario che si
coinvolgano una serie di muscoli, che sono i muscoli
sternocleidomastoideo, intercostale interno,
intercostale esterno, obliquo, i muscoli addominali e
il diaframma. Alcuni di questi muscoli vengono
coinvolti durante gli atti espiratori, come ad esempio
gli intercostali interni e gli addominali; altri durante
l’inspirazione; il diaframma, che è il muscolo che separa i visceri dalla cassa toracica subisce una
contrazione vigorosa spostandosi. Durante l’inspirazione il diaframma scende, durante l’espirazione il
diagramma risale. Questo gioco di diaframma che scende e che sale si associa al movimento della gabbia
toracica che durante l’inspirazione si distende e durante l’espirazione si riduce.
Affinché tutti questi atti respiratori possano
avvenire in modo corretto è necessario tener
conto delle pressioni che sono vigenti
all’interno della cassa toracica. Queste
pressioni sono determinanti per la
respirazione perché aiutano a generare quei
gradienti che da un lato consentono la
distensione del polmone e dall’altro lato
consento all’aria di transitare, generano infatti
quelle variazioni di pressione rispetto a quella
atmosferica che fanno entrare o uscire l’aria,
aiutano nel transito dell’aria.
Normalmente quando il polmone è a riposo è
disteso perché c’è una tensione elastica
esercitata dalla cassa toracica che genera una torsione verso l’esterno. Il polmone viene tirato verso
l’esterno, nello stesso tempo il polmone esercita una trazione verso l’interno e il bilancio di queste due
forze mantiene il polmone in una condizione distesa ma rilassata a riposo.
Durante gli atti respiratori cambiano i gradienti di pressione, all’interno della regione del sacco pleurico la
pressione è leggermente negativa e diventa ancora più negativa alla fine della inspirazione. Questa
pressione negativa esercita una forza che facilita l’ingresso dell’aria.
Quando la pressione intrapleurica aumenta e sale ad esempio in presenza di pneumotorace cioè di lesione
del foglietto pleurico parietale, il polmone non riesce a distendersi perché alla base della funzionalità
polmonare vi è l’elasticità del polmone, il polmone riceve l’aria e si distende grazie a delle forze elastiche,
grazie ad un gioco di pressioni che viene facilitato dai muscoli respiratori. Se però all’interno delle pleure
aumenta la quantità di aria che c’è in quanto si è generata una condizione appunto nota come
pneumotorace è chiaro che la pressione che la pressione che c’è nelle pleure supera la capacità di
distensibilità del polmone e il polmone collassa quindi non può partecipare agli atti respiratori.
Tutto parte perché si avvia una scarica elettrica, cioè
un potenziale d’azione, nei neuroni del nucleo del
tratto solitario (NTS) i quali vanno a far contrarre i
muscoli respiratori nella respirazione autonoma e la
contrazione dei muscoli respiratori fa espandere la
cavità toracica. In questo modo la pressione
all’interno delle pleure diminuisce e aumenta la
pressione transpolmonare. I polmoni aumentano di
volume, all’interno degli alveoli scende la pressione
per cui si abbassa la pressione alveolare al di sotto
della pressione atmosferica e l’aria entra nei
polmoni seguendo proprio questo gradiente.
A questo punto si interrompe la scarica nei neuroni del tratto solitario e quindi si interrompe il potenziale
d’azione.
I muscoli che avevano contribuito alla inspirazione si rilassano, la cavità toracica si riduce di volume, la
pressione intrapleurica aumenta mentre diminuisce quella transpolmonare. Si riduce il volume polmonare,
la pressione alveolare torna nuovamente superiore a quella atmosferica e l’aria può defluire nei polmoni.
Quando questo movimento avviene quello che
si verifica è che cambiano in maniera ciclica i
volumi all’interno delle cavità polmonari.
Nella inspirazione e nella espirazione normale
normalmente viene mobilizzato un volume
corrente di circa 500 ml. Il volume corrente è
proprio il volume che su mobilita durante gli
atti respiratori normali, la differenza che c’è tra
il massimo al termine di una inspirazione
normale e il minimo al termine di una
espirazione normale.
Il volume di aria che viene mobilizzata può
variare con delle espirazioni profonde, in
questo caso possiamo arrivare a mobilizzare
anche un altro litro di aria fino ad arrivare a lasciare nei polmoni un volume residuo di circa 1200 ml.
Dell’aria immessa attraverso delle inspirazioni profonde arrivando a riempiere un volume di circa 5/6 l a
secondo della cassa toracica con differenze tra maschi e femmine, arriviamo ad un volume massimo che
rappresenta la capacità polmonare totale. Di questo volume non tutto entra a contatto con lo spazio
respiratorio, quindi c’è un volume respiratorio e un volume che va a stare nel cosiddetto spazio morto,
nella zona dove non avvengono gli scambi. Possiamo calcolare le varie frazioni che ci dicono le varie
capacità polmonari, abbiamo la capacità polmonare totale che è una capacità funzionale inspiratoria che
rappresenta il massimo del volume che possiamo immettere con l’inspirazione o il massimo del volume che
possiamo emettere con l’espirazione; e la capacità vitale, cioè quella che comprende il volume di riserva
espiratoria e il volume di riserva inspiratoria.
Perché tutto questo funzioni bene è necessario
appunto che l’aria giunga ai polmoni con una
certa frequenza. Gli atti respiratori sono ciclici, le
scariche nei neuroni del tratto solitario sono
cicliche e vanno a definire proprio quella che è la
frequenza ventilatoria, ossia la frequenza con la
quale l’aria giunge in prossimità della superficie
respiratoria. Questa ventilazione può avere una
frequenza che nell’adulto corrisponde a circa 12-
20 atti respiratori al minuto.
Conoscendo la frequenza respiratoria e
conoscendo i vari volumi possiamo calcolare il
volume alveolare al minuto (Va).
Possiamo inoltre calcolare il rapporto ventilazione
perfusione che rappresenta uno dei parametri respiratori più importanti, tale rapporto non è altro che il
rapporto tra il volume alveolare al minuto (Va) e il flusso di sangue polmonare (Q). Tale parametro ci aiuta a
capire quanto è efficiente lo scambio tra l’aria contenuta negli alveoli e il flusso sanguigno nei capillari
polmonari. Questi due parametri devono andare in armonia tra di loro, nel senso che l’aria deve permanere
all’interno degli alveoli un certo tempo così come il sangue deve permanere all’interno dei capillari il tempo
sufficiente per far avvenire lo scambio.
Nel caso del polmone dei mammiferi l’aria entra ed esce dagli alveoli e il sangue invece passa, in altri
animali avviene diversamente, ad esempio nelle branchie dei pesci o ancora nei polmoni degli uccelli.
Il polmone compie dunque un lavoro per far avvenire correttamente questa ventilazione ed una parte di
questo lavoro serve per vincere la resistenza del polmone ad espandersi.
La facilitazione per l’espansione polmonare è garantita da una glicoproteina che è il surfactant, che riduce il
lavoro ventilatorio riducendo la tensione superficiale degli alveoli.
Il surfactant è una sostanza prodotta dalle cellule
alveolari di II tipo. Il surfactant è un tensioattivo,
cioè una miscela di sostanze formata da
fosfolipidi, quali prevalentemente la
fosfatidilcolina, da lipidi neutri, da acidi grassi, da
apoproteine e da ioni calcio. Sostanzialmente
questa sostanza a base lipidica si distribuisce sulla
superficie dell’alveolo. Viene prodotta sin dalla
vita intrauterina a partire dalla 25° settimana e si
completa 6 settimane prima del parto, tanto è
vero che nei neonati prematuro proprio la
mancanza di surfactant porta allo sviluppo della
sindrome da stress respiratorio del neonato.
Normalmente in qualunque tipo di interfaccia aria-
liquido, la superficie del liquido è sottoposta ad
una tensione, come se fosse una specie di
stiramento. Quando il liquido è l’acqua si
sviluppano legami a idrogeno tra le molecole
d’acqua e l’acqua tende a creare questa tensione
come di stiramento.
Anche nel caso dei polmoni questa tensione
superficiale è data dalle interazioni delle molecole
di liquido tra l’aria e le cellule alveolari.
Se non ci fosse il surfactante la tensione
superficiale rimarrebbe alta e ci vorrebbe più forza
per riuscire a distendere le bolle più piccole.
Questo perché risponde alla legge di Laplace che
dice che la pressione all’interno di una bolla (alveolo) è maggiore se la bolla è più piccola ed ha la stessa
tensione superficiale.
La presenza del surfactante fa si che si riduca la pressione superficiale e quindi a livello delle due bolle la
pressione risulta uguale, per cui si riempiono di aria nello stesso modo gli alveoli grandi e gli alveoli piccoli.
Non c’è il collasso alveolare di chi prevale tra l’alveolo grande e l’alveolo piccolo.
Questi meccanismi prevedono che ci siano degli
impulsi nervosi che attivano tutto l’intero
meccanismo muscolare, questi meccanismi nervosi
sono localizzati nei centri superiori, nei cosiddetti
centri respiratori bulbari o ancora a livello del ponte.
Tra bulbo e ponte ci sono dei circuiti neuronali
estremamente complessi che presiedono proprio al
controllo degli atti respiratori, deve partire un
potenziale d’azione che da avvio alla contrazione,
ma questa contrazione deve avere un termine.
Normalmente quando la respirazione è tranquilla i
muscoli coinvolti nella respirazione sono il
diaframma che è innervato dal nervo frenico, i
muscoli intercostali esterni che sono innervati dai
nervi intercostali, questi hanno i corpi cellulari nel midollo spinale e ricevono le informazioni proprio dai
centri respiratori pontini.
I centri nervosi per gli atti respiratori sono: il centro respiratorio bulbare con un gruppo respiratorio dorsale
e un gruppo respiratorio ventrale; ed i centri respiratori pontini, con il centro preumotassico e il centro
apneustico.
Il ritmo respiratorio di base viene generato dal gruppo
respiratorio dorsale dal quale partono dei seganli
nervosi “a rampa”, cioè ci sono delle cellule
autoritmiche che generano una rampa di potenziali,
cioè un’attività di scarica dei potenziali d’azione
inizialmente lenta, che aumenta velocemente per un
paio di secondi, poi queste scariche di potenziale si
fermano, i neuroni e i centri rimangono silenti per 3
secondi, dopodiché il polmone ritorna nelle condizioni
iniziali ed incomincia nuovamente la rampa
respiratoria.
Questi meccanismi nervosi, muscolari, sono sotto
controllo nervoso.
Tutto parte dalle cellule pacemaker del centro
generatore del ritmo, però sono sotto controllo
non solo le attività di queste cellule ma anche le
vie aeree, i muscoli respiratori, lo stato di
contrazione dei vasi sanguigni che portano e che
si trovano a livello polmonare, le ghiandole
mucose che popolano l’apparato respiratorio.
Per cui avremo un controllo prettamente vagale al
parasimpatico che da costrizione delle vie aeree,
dilatazione dei vasi sanguigni e aumento di
secrezione ghiandolare; ed in controllo simpatico
che è esattamente il contrario.
C’è poi un controllo di tipo non adrenergico non colinergico (NANC) di tipo sia inibitorio sia stimolatorio.
Sono coinvolte sostanze tipo la sostanza P, il peptide intestinale vasoattivo, quindi si tratta di un controllo
non solo nervoso ma anche umorale.
In molti casi questi peptidi o queste sostanze aggiuntive all’acetilcolina e alla noradrenalina funzionano da
neuromodulatori quindi sono prodotti da neuroni.
Il controllo della respirazione sostanzialmente è
affidato all’azione di chemocettori e
meccanocettori. I chemocettori sentono la
pressione parziale di ossigeno, la pressione
parziale di anidride carbonica e il pH, quindi la
loro presenza nel sangue va a stimolare i
chemocettori che controllano i centri
respiratori bulbari che attraverso gli impulsi
nervosi vanno verso il midollo spinale,
controllano i muscoli respiratori e mobilizzano
la gabbia toracica facendo variare volumi e
pressioni polmonari. Questa variazione di
volumi e pressioni polmonari viene sentita dai
meccanocettori che popolano le pareti della
cassa toracica e tutta la regione che è coinvolta nella respirazione e anche i meccanocettori vanno a
comunicare ai centri respiratori bulbari.
Il centro respiratorio bulbare riceve gli impulsi dai chemocettori e dai meccanocettori.
Il risultato è una variazione della ventilazione e quindi un controllo degli scambi a livello della membrana
alveolo capillare, per cui da un lato viene regolata la ventilazione, dall’altro lato viene regolata anche la
perfusione, perché anche questa dipende dall’attivazione dei chemocettori.
Anche l’attività cardiaca viene regolata in funzione della presenza di O2, CO2 e acqua.

Normalmente vanno in parallelo il


ritmo respiratorio e il ritmo
cardiaco. La frequenza cardiaca
aumenta di poco durante l’atto
inspiratorio, mentre diminuisce
durante l’atto espiratorio.
Durante l’espirazione si attivano le
cellule del nucleo ambiguo che
stimolano le terminazioni vagali che
danno inotropismo negativo sul
cuore.
Durante l’inspirazione, invece, le
cellule del nucleo ambiguo
smettono di segnalare e quindi si
interrompe anche l’attività sul vago.
La variabilità della frequenza
cardiaca anche in funzione del ritmo del respiro è vitale affinché il cuore possa essere flessibile alle esigenze
dell’organismo.

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