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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI


“CECCO D'ASCOLI”

PAROLE E REALTÀ
DELL’AMICIZIA MEDIEVALE

a cura di Isa Lori Sanfilippo - Antonio Rigon

Atti del convegno di studio


svoltosi in occasione della XXII edizione del
Premio internazionale Ascoli Piceno

Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO


ROMA 2012
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III serie diretta da


Antonio Rigon

Il progetto è stato realizzato con il contributo della


Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno

Comune di Ascoli Piceno Fondazione Cassa di Istituto storico italiano


Risparmio Ascoli Piceno per il medio evo

© Copyright 2012 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno

Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO


Redazione: SILVIA GIULIANO, SALVATORE SANSONE

ISBN 978-88-89190-97-5

Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2012


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SECONDA GIORNATA
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GLAUCO MARIA CANTARELLA

Amicizie vere e presunte.


Qualche eco dal pieno Medioevo
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1. Riccardo di Siracusa, Thomas Becket. Celebre il secondo, molto meno


conosciuto e frequentato il primo ovviamente, se non dai normannisti.
Non erano monaci.
L’amicizia, va da sé, non è solo un elemento monastico. Anche se l’ami-
cizia monastica è un argomento ghiotto a proposito del quale non ci si è
fatta mancare l’occasione di esercitarsi variamente: il caso di Aelredo di
Rielvaux e della sua concezione particolare dell’amicizia per l’importanza
profonda e teologica che le attribuisce è sufficientemente esemplare1. E,
indubbiamente, la fantasia si è scatenata: le sollecitazioni del presente,
come sempre, hanno stimolato nuovi punti di vista d’indagine e dunque
fatto procedere la ricerca verso prospettive nemmeno immaginabili pochi
anni prima, spesso fecondissime ma a volte piuttosto inadeguate, anzi fuor-
vianti. Quale ambiente migliore per le insorgenze di sessualità fra persone
dello stesso sesso che l’ambiente «concentrazionario» monastico? dove la
carenza di affettività, la perdita della madre (pensiamo a Guiberto di
Nogent) e la sua possibile sostituzione con la Vergine Maria, il rapporto se-
duttivo con i maestri, la sublimazione culturale della relazione antica e con-
temporanea puer-senior, le attenzioni istituzionalmente previste agli equi-
libri interni delle comunità2, tutto insomma può sollecitare gli adattamen-
ti di schemi psicoanalitici freudiani (dimenticando che lo stesso Freud, che
pure aveva qualche pratica di psicoanalisi…, aveva garbatamente messo in

1 Cfr. L. Braca, L’amicizia negli scritti di Aelredo di Rielvaux. Una conoscenza puntiforme,
in Civiltà monastica e riforme. Nuove ricerche e nuove prospettive all’alba del XXI secolo, cur.
G.M. Cantarella, «Reti Medievali» (Rivista», 11/1 2010), url: http://www.rivista.redimedie-
vali.it, 1-24.
2 N. D’Acunto, «Amicitia monastica». Considerazioni introduttive, ivi, pp. 1-7: 3-4; cfr.
il mio I monaci di Cluny, Torino 20106, pp. 63-65.
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guardia dalla tentazione di utilizzare l’offensiva psicoanalitica nei confron-


ti di testi scritti e antichi, perché in sé non in grado – soggettivamente e
oggettivamente – di reagire ad essa)3, sociologici, à la Foucault, anche alla
Malaparte («l’internazionale degli invertiti», «una società segreta governa-
ta dalle leggi di un’amicizia tenera e profonda»: La pelle4)… Mi è già capi-
tato di dire che noi, che siamo abituati a spostarci e viaggiare liberamente,
probabilmente non siamo in grado di apprezzare l’intensità del senso di
chiusura di un monastero: oggi, ma soprattutto nel medioevo. L’ambiente
del castello era forse meno concentrazionario5? O quello della corte? E
magari è per questo che negli anni ’80 del secolo scorso si è assistito ad una
interpretazione del mondo dei Plantageneti che ricordava tanto la contem-
poraneità6? I monaci, è vero, non potevano spostarsi liberamente: ma pote-
vano farlo se autorizzati. Il concentrazionismo non è mai assoluto, se non
è l’anticamera dello sterminio industriale (Vernichtung)…

2. Premessa lunga, noiosa e scontata. Ma almeno sarà chiaro che, per


quel che mi riguarda, se si parla di un argomento scivoloso, sfuggente e
vischioso (apparentemente una contraddizione in termini, una chymera
huius saeculi come diceva di se stesso Bernardo di Clairvaux) come quello
dell’amicizia (e ultimamente se ne parla di frequente: forse un’esigenza di
ridefinire il concetto o di ridare corpo e spessore, in un mondo di relazio-
ni frammentarie e parcellizzate, ad un lessico depotenziato o svuotato? chi
ha la mia età non può non ricordare che amico/amici era una qualificazio-

3 Cfr. S. Freud, Un sogno di Cartesio: lettera a Maxime Leroy (1929), trad. it. in S.
Freud, Opere, 11, Torino 1978, pp. 549-551.
4 C. Malaparte, La pelle, Milano 1978 (ma 1° ed. 1949), pp. 73, 114; comunque passim.
Per san Pier Damiani E. D’Angelo ha usato la seguente espressione: «La presenza di rela-
zioni sessuali “incestuose” ai livelli alti di prelatura espone la Chiesa al rischio della crea-
zione di sette omertose, legate da vincoli morbosi difficilissimi da spezzare»; e anche: «un
andazzo, durato secoli, che aveva contribuito a condurre la Chiesa sull’orlo di quel baratro
morale, cui solo la Riforma potette probabilmente strapparla» (San Pier Damiani, Liber
Gomorrhianus, ed. E. D’Angelo, Alessandria 2001, pp. 109, 110). Cfr. Kr. Skwierczyñski,
L’apologia della Chiesa, della società o di se stesso? Il «Liber Gomorrhianus» di s. Pier
Damiani, in Pier Damiani: l’eremita, il teologo, il riformatore (1007-2007). Atti del XXIX
Convegno del Centro Studi e Ricerche Antica Provincia Ecclesiastica Ravennate (Faenza-
Ravenna, 20-23 settembre 2007), Bologna 2009 (Ravennatensia, XXIII), pp. 259-279: 260-
261, 279. E ora Skwierczyñski, Mury sodomy. Piotra Damianiego «Ksiêga Gomory» i walka
z sodomi¹ wœród kleru, Kraków 2011.
5 Rimando al mio A margine. Riflessioni minime, in Civiltà monastica e riforme. Nuove
ricerche e nuove prospettive cit., pp. 1-17: 5.
6 H.J. Kuster - R.J. Cormier, Old Views and New Trends. Observations on the Problem
of Homosexuality in the Middle Ages, «Studi Medievali», III ser., 25 (1984), pp. 587-610.
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ne politica come compagno/compagni o camerata/camerati… Ma, in fondo,


tanto in Cicerone come in Sallustio l’«omnium divinarum humanarumque
rerum cum benevolentia et caritate consensio» o l’«idem velle atque idem
nolle» si ponevano sul piano della condivisione politica dell’affettività,
acquisizione problematica quest’ultima, a quanto pare, dell’immeticciamen-
to fra la cultura classica e la religione di Cristo; e come non ricordare che il
Liber ad amicum di Bonizone prevede un destinatario che è insieme compa-
gno di fede e compartecipe delle passioni e degli ideali della Riforma roma-
na?)7 si parla del codice retorico dell’amicizia, quello che definisce o tenta
di definire in termini razionali e abbordabili un campo che è essenzialmen-
te dell’affettività e della stima o della stima e dell’affettività, perché questa
sequenza binaria è perfettamente reversibile. Il codice retorico, per para-
dosso, potrebbe essere visto come una forma d’indagine psicoanalitica anti-
ca, se si pensa al fatto che il buon esito della terapia freudiana consisteva
nell’approdo all’ortoprassi…
Dunque potrebbero essere nel giusto coloro che vedono in certi tratti
l’emergenza di affetti veramente profondi e chissà fino a che punto inespri-
mibili: insomma, se nei primi mesi del 1151 Nicola di Montiéramey scri-
vendo a Pietro il Venerabile esordiva con una trasparente citazione-colla-
ge del Cantico dei Cantici e del Salmo 41 (tanto più trasparente quanto più
riconoscibile: e tanto più riconoscibile quanto più si voleva che lo fosse: e
costituendo l’inizio della lettera certamente lo era), «Indica michi quem
diligit anima mea, quando ueniam et apparebo ante faciem tuam», non
intendeva forse essere esplicito, cioè inteso chiaramente, cioè (meglio anco-
ra) evitare a tutti i costi di essere frainteso? Ovviamente la lettura del
Cantico dei Cantici era allegorica, ma comunque queste parole indicavano
esplicitamente ciò che il destinatario aveva a sua volta, una decina d’anni
prima, scritto al vescovo di Troyes: il «desiderium, immo esuriem…uiden-
di». L’assoluta necessità di vedere l’amico. E nel punto in cui lo stesso
Nicola aggiungeva: «Sanctissimae animae tuae commendo me, quia tuus
fui, tuus sum, tuus ero quamdiu fuero in uisceribus Christi», si raccoman-
dava forse alle preghiere dell’abate di Cluny? no, non proprio, o almeno
non solo: perché la lettera è una pressante richiesta a Pietro che insista

7 Laelius de amicitia 20.1; Bellum Catilinae 20.4. Braca, L’amicizia negli scritti di
Aelredo di Rielvaux cit., pp. 22-23; D’Acunto, «Amicitia monastica» cit., pp. 2-3. Bonizonis
episcopi Sutrini Liber ad amicum, ed. E. Dümmler, Hannoverae 1891 (M.G.H., Libelli de
lite, I), pp. 568-620.
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presso Bernardo di Clairvaux perché lo lasci andare a Cluny a visitare


l’amico, e termina con: «Quid plura? Praecipe ut ueniam».
E questo ci fa tornare alle prime righe e ci aiuta a capirle meglio. Perché
il Cantico dei Cantici recitava: «indica michi quem diligit anima mea ubi
pascas ubi cubes in meridie, ne vagari incipiam per greges sodalium tuo-
rum», e il Salmo 41 si capisce solo con la lettura del versetto precedente:
«Quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima
mea ad te, Deus; sitivit anima mea ad Deum fontem: vivum quando veniam
et parebo ante faciem Dei». Pietro è come l’Onnipotente, può ottenere che
il povero, accorato Nicola (perché, poi, chi abbia in mente il versetto
immediatamente successivo dello stesso Salmo sa che «fuerunt mihi lacri-
mae meae panis die ac nocte») non sia lasciato a sperdersi fra le greggi dei
suoi sodali8. Nicola non si limitava a cucire fra loro due citazioni: inventa-
va un nuovo testo, le cui implicazioni non dovevano affatto sfuggire al
destinatario.
Registro metaforico e registro pratico, dunque, quanto meno si mesco-
lano e si intrecciano. Anzi, forse sono chiamati a mescolarsi proprio per
rendersi inestricabili. È ciò che la storiografia chiamava, e forse ancora
chiama, spiritualità. Ma certo in questo caso si potrebbe essere più sospet-
tosi, più disincantati, anzi più perfidi…
Nicola di Montiéramey, una vita difficile. O meglio, piuttosto una vita
travagliata. Monaco benedettino, cappellano e segretario del vescovo di
Troyes, Attone; strettissimo amico Pietro il Venerabile almeno dal 1138 («a
close, and at times emotional, friendship», come ha scritto un Maestro di
tutti i cluniacisti, Giles Constable); poi, entrato Attone a Cluny nel
1145/1146, passato a Clairvaux e divenuto segretario e uomo di fiducia di
Bernardo di Clairvaux fino a quando questi (1152) non lo additò a papa
Eugenio III come ladro e traditore, anzi come un nuovo Arnaldo da
Brescia, di più: «ecce plus quam Arnaldus hic»; poi forse di nuovo a
Montiéramey e al servizio di Enrico, conte di Champagne, per l’ultimo
quarto di secolo della sua vita9. Una vita movimentata. Di cui sappiamo
molto poco, ma possiamo intuire abbastanza. Anche la reazione bernardi-

8 The Letters of Peter the Venerable, ed. G. Constable, I, Cambridge (Mass.) 1967, n.
179, pp. 421, 422. Cant. I.6, Ps. 41.2-3.
9 G. Constable, Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable, in Constable, The
Letters of Peter the Venerable, II, Cambridge (Mass.) 1967, pp. 316-330: 316. Opere di San
Bernardo, ed. F. Gastaldelli, VI/2, Lettere II, Milano 1987, n. CCXCVIII, p. 280 (dopo il
1152: ibid., p. 279 nota 1).
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na, in sé nemmen troppo sorprendente se si considerano i tratti fondamen-


tali del santo, può darci qualche indicazione rilevante: perché non fu sol-
tanto rabbiosa e furbonda, ma lucidamente mirata a trascinare verso la
rovina totale quell’ormai ex uomo di fiducia (in realtà non sappiamo nien-
te delle sue colpe, nonostante le affermazioni del sant’uomo; Bernardo
potrebbe anche aver prestato fede alle accuse di certi canonici di
Auxerre)10; anche questa reazione potrebbe far pensare alla delusione del-
l’amicizia (o meglio, in questo caso, della fiducia) tradita: «Nicolaus ille
exiit a nobis, quia non erat ex nobis»11; scoperta sconvolgente, certo, tanto
più per un uomo che, come Bernardo, aveva scritto in termini appassiona-
ti del rapporto con i suoi monaci e i suoi amici12; ma anche indizio inquie-
tante della capacità dello stesso Bernardo di scegliersi gli uomini di fidu-
cia, visto che Nicola lo era stato per anni... E apparentemente uomo privi-
legiato e selezionato per le sue relazioni con l’abate di Cluny: nel 1149/50
Bernardo aveva scritto a Pietro che aveva ricevuto le sue lettere in un
momento di grandissimo daffare, «abripui tamen me et eripui uotis et
responsionibus omnium, et inclusi me cum Nicholao illo quem diligit
anima uestra»13. Dunque che credito attribuire alle affermazioni di un paio
d’anni dopo: «Et ego longe ante hominem noveram; sed expectabam ut
aut Deus eum converteret, aut, instar Iudae, ipse se proderet: quod et fac-
tum est»14? Comunque Eugenio III evitò di seguire le indicazioni bernar-
dine, e anzi Adriano IV e Alessandro III manifestarono apprezzamento per
Nicola. Ma anche questa reazione, come le apparenti sensibléries tra Pietro
il Venerabile e Nicola, potrebbe dover essere letta in cifra, insomma decrit-
tandola a partire dal proprio codice retorico; Bernardo, come già aveva
fatto Pier Damiani, considerava i suoi monaci come un’unità inscindibile
di aspiranti all’unica perfezione possibile, quella della sua esperienza isti-

10
Cfr. Constable, Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable cit., p. 330 nota 64.
11
Ep. n. CCXCVIII cit., p. 278.
12
Cfr. Epistola n. LIII, in Opere di San Bernardo, ed. F. Gastaldelli, VI/1, Lettere I,
Milano 1986, p. 270 (presenta al cancelliere Aimerico due suoi monaci): «Tres in duobus
conspicitis, quoniam absque me esse non possunt, in quorum iugiter pectoribus requiesco,
et quidem securius atque suavius quam in proprio. Mentiri videor, sed ei qui amicitiae vim
numquam sensit, qui virtutem caritatis ignorat, qui non credit multitudinis credentium fuis-
se cor unum et animam unam: Qui ergo videt eos, videt et me, etsi non in meo corpore; et
quod loquuntur ipsi, ego pariter loquor, sed eorum linguis».
13The Letters of Peter the Venerable, ed. cit, n. 152, p. 172 (= Epistola n. CCCLXXXIX,
in Opere di San Bernardo, VI/2 cit., p. 500).
14 Ep. n. CCXCVIII cit., p. 278.
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tuzionale, e chi se ne separava non poteva che condannarsi all’elisione e


alla misura fra tutte da considerarsi la più tremenda, la damnatio memoriae,
che annullava15.
Pietro risponderà a Nicola: «Sed credo deo, quia rumpetur male fixa
stabilitas, et qui meam de te esuriem satiare nequeo, saltem hanc breui tem-
pore iocundo ac dulci tuo colloquio releuabo»16. Ritorna la parola esuries;
ma soprattutto compare un’espressione inquietante, visto che proviene dal
vertice di una delle massime istituzioni monastiche e in un’età in cui le
discussioni e le polemiche sull’interpretazione della Regula erano all’ordi-
ne del giorno: «male fixa stabilitas». Pietro sente tanto profondamente l’as-
senza dell’amico da tirare in ballo uno dei capisaldi della regola benedetti-
na, o tirando in ballo uno dei capisaldi della regola benedettina fornisce un
indizio, che per il destinatario potrebbe essere anche un’informazione?
Nicola, uomo inquieto. Voleva uscire da Clairvaux? Pietro il Venerabile
mirava a farlo entrare e trattenerlo a Cluny? e perché, perché aveva fame e
sete dell’amico o (insieme) perché Nicola conosceva molto delle cose
segrete di Bernardo (Bernardo ovviamente avrebbe detto che conosceva
troppo, dato che nella sua denuncia metteva in guardia il pontefice da let-
tere scritte da Nicola a suo nome e di cui lui non sapeva nulla: quindi, ahi-
lui, credibili e nella sostanza e nella forma)17, o anche perché stava cercan-
do di trasformare Cluny in ciò che non era mai stata, un centro di cultura
in cui attirare gli uomini di cultura, potenzialmente antagonista dunque nei
fatti e non nelle invettive e nelle censure (e dunque credibile e utile) agli
studia: e Nicola, pur non avendo la levatura di Abelardo, era certamente
uno di loro18… Codice retorico degli affetti dell’amicizia o (anche) gli
accenti dell’amicizia come sostegno a manovre e interessi concreti, come
strutture di interessi e giochi concreti? Magari è per questo che nell’autun-
no 1150 Pietro aveva scritto a Nicola «Si meus es ut dico, si opinio mea

15 U. Longo, «O utinam anima mea esset in corpore tuo!». Pier Damiani, l’amicitia
monastica e la riforma, in Civiltà monastica e riforme. Nuove ricerche e nuove prospettive cit.,
pp. 1-14: 7ss.. Ep. n. CCXCVIII, loc. cit.: «Nullus perpetua dignior inclusione, nihil ei per-
petuo silentio iustius». Si vedano le stimolanti indicazioni metodologiche di G. Schwedler,
«Damnatio memoriae»-oblio culturale: concetti e teorie del non ricordo, in Condannare
all’oblio. Pratiche della «damnatio memoriae» nel Medioevo, Roma 2010, pp. 5-17.
16 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 182, pp. 425-426 (marzo 1151: The Letters
of Peter the Venerable cit., II, p. 220).
17 Ep. n. CCXCVIII, p. 278: «Quis possit dicere ad quam multas personas sub nomine
meo, me ignorante, quae voluit scripsit?».
18 Cfr. Constable, Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable cit., pp. 328-330.
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non fallit, licet homo sub potestate [Mt 8.9; Lc 7.8] sis, mando tamen et
omnino uolo ut uenias»19? un anno prima, in un contesto di grande ed esi-
bita affettività, era stato più allusivo: «Maluissem te meum quam alterius,
sed quia ubique dei es, meum quoque te ubique reputo. Redde ergo uicem,
ut uere te diligentem diligas […] Nosti quod nichil temporalis commodi
praestoler a te, nosti quod nulla alia causa me mouerit ad amandum te, nisi
ea quae sola diligenda erant in te […] quia te litteratum, quia strenuum,
quia quod plus est religiosum»20. E magari è proprio per questo che l’epi-
stolario del Venerabile, curato da lui stesso, si chiude con una lettera anco-
ra a Nicola, che protesta amicizia e insieme impotenza e lucidità: come
potevi pretendere che ti scrivessi durante il mio viaggio in Italia? e anche
al ritorno a Cluny, dove per poco non sono stato sommerso dagli affari
della mia congregazione? Come hai potuto pensare che non ti fossi amico?
E le frasi finali sono caldissime e freddissime insieme: «Dominum abbatem
ut te nobis citissime mittat, rogaui. Tu uero nullo modo citius uenire gra-
ueris. Es enim michi et propter ista et propter quaedam alia multum neces-
sarius. Cursori quod tamdiu moratus est noli imputare, sed michi, excusa-
que eum, apud ceteros. Vale»21. Insomma: non mi metterò in altri proble-
mi con Bernardo solo perché tu insisti, mi sono già esposto molto e forse
troppo (del resto ne è testimonianza lo scambio di lettere, dell’autunno
1150, conservate nell’epistolario di Bernardo22)… ma visto che insisti tan-
to, «non ti sia grave» sbrigarti a venire! Che differenza con il bigliettino
scritto quattordici mesi prima «statim fere» apposta per accusare ricevuta

19 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 176, p. 417.


20 Ibid., n. 151, p. 372.
21 Ibid, n. 193, pp. 448-450 (maggio 1152: The Letters cit., II, p. 230): «Vt absque proe-
mio loquar, quid plane, quid est? Et tu ille es cui dicatur, modicae fidei quare dubitasti?
(Mt 14.31) Sed nec ego Christus sum, nec tu Petrus es. An bone uir ut cum stomacho
loquar, me putasti alium esse factum? […] Quod silui […] factum est, non quia nolui, sed
quia non potui. Quid poteram positus in itinere scribere, qui uix poteram uiuere? […]
Integra pene semper die equitanti, media nocte edendi, ualde mane surgenti, in agone con-
tinuo desudanti, quis animus ad meditandum, quae lingua ad dictandum, quae manus ad
scribendum parare se poterat? […] Inundauerunt aquae super caput meum, et pene dixi
paruus… Aquae istae populi fuerunt et gentes ab Italia, Germania, Hyspania, Anglia, ab
ipsa nostra Gallia Cluniacum diriuatae, ibique simul per totam illam absentiam meam, in
immensos causarum cumulos congregatae […] Iam uero in itinere meo super quo certifi-
cari rogasti, quid egerim, quid dixerim, quid inuenerim, ad litteras quas domino
Clareuallensi facio, per eas de his omnibus ad instruendum te mitto».
22 Cfr. Epp. CCLXIV-CCLXV, in Opere di San Bernardo, VI/2 cit., pp. 200-204; da
vedere l’eccellente status quaestionis del curatore, ivi, pp. 200-203 nota 1.
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delle mellae litterae mandategli da Nicola23… E degna conclusione di un


intero epistolario, perché riassume tutti i motivi dell’abbaziato di Pietro e
include il registro dell’amicizia, ma dimostra come il senso del ruolo pre-
valga su ogni altra motivazione!

3. Già. Tutto è lecito, anche essere sospettosi e guardinghi. Ma un mo-


mento, fermiamoci. Questa lettura può apparire o essere molto o troppo
riduttiva, anzi ispirata alla diffidenza nei confronti di queste fonti proprio
per la sovrabbondanza di segni che esse presentano, le tenerezze, i sospiri,
come se la sovrabbondanza di segni ne inficiasse necessariamente la credi-
bilità (come «i baciamani, scappellate e complimenti» dell’infastidito prin-
cipe di Salina in una celebre, cinica scena del Gattopardo: che difatti si sen-
tiva rispondere dal cinico o disincantato, e comunque vanaglorioso, colon-
nello Pallavicino: «qui da noi, in Italia, non si esagera mai in fatto di senti-
mentalismi e sbaciucchiamenti: sono gli argomenti politici più efficaci che
abbiamo»)24. Ma che cosa ci autorizza a trattare sempre tutto con diffiden-
za, come se gli uomini che hanno scritto quelle pagine fossero dei perfetti
ipocriti? Che cosa ci autorizza ad escludere la sincerità degli affetti? l’in-
tensità ambigua (nel senso di duplice e reciproca), ad esempio, del rappor-
to maestro-discepolo25… La comunione delle anime si esprime anche o
forse soprattutto con la comunicazione attraverso un medesimo registro di
stile, che marca l’appartenenza ad un medesimo mondo (non solo sociale
ma culturale, quindi costituito di valori e fecondato dall’arduo percorso
comune dell’acculturazione)26, che è quanto si dicono a vicenda Nicola e
Pietro il Venerabile anche quando in explicito affermano il contrario, e cioè
che la parola parlata val più della parola scritta – perché nel farlo ammic-
cano a Cicerone, ed anzi lo citano (Nicola: «Absit autem ut me consoletur
illa uerisimilis sed non uera sententia: Praesentiores, inquit, sunt qui se ani-
mis quam qui oculis intuentur, et plus est corde connecti, quam corpore
[…] Sed haec sicut arbitror, ex ratione non ex affectione locutus est ille
Romanae aeloquentiae splendor, cum quo aeloquentia nata est et educta in
lucem, Tullius hic est»; Pietro risponde alzando la posta: «Nam si talis est
stilus tuus, qualis est animus tuus? Si talis littera tua, qualis lingua tua?

23 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 180, pp. 422-423.


24 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 196050, pp. 276, 277.
25 Cfr. le considerazioni iniziali di Longo, «O utinam anima mea esset in corpore tuo!»
cit., pp. 1-3. A. Ricciardi, L’epistolario di Lupo di Ferrières. Intellettuali, relazioni culturali e
politica nell’età di Carlo il Calvo, Spoleto 2005, pp. 34ss.
26 Cfr. Cantarella, A margine cit., pp. 1-17: 4-5.
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AMICIZIE VERE E PRESUNTE 83

[…] Etsi conferre minorem maioribus licet, non solum tuum sequeris
Tullium Tullianus, de quo scripsisti […] sed quod est dignius imitaris apo-
stolum apostolicus», e giù a citare II Cor. 10.10-11)27.
Ma questo ci dice anche della cautela con cui ci si deve avvicinare a que-
sto mondo degli affetti, senza escludere nulla (come invece faceva un inor-
ridito Huizinga a proposito dell’«amicizia greca»28), ma anche senza
lasciarsi troppo prendere dalle svenevolezze, dai sentimentalismi testuali e
dalle costruzioni retoriche di adulazione e corteggiamento (si pensi a quan-
to Pier Damiani scriveva all’imperatrice Agnese fra il 1065 e il 1066 per
invitarla a rassegnarsi alla vita monastica: «poiché sono lontano dalla
vostra santa presenza e in questo tempo non posso essere insieme a voi,
assai mi dolgo e sospiro in quotidiano lamento»29), e senza lasciarsi anda-
re a giudizi di difficile probabilità sul personal charm, «the indescribable
quality which, like physical beauty, can dazzle the mind’s eye and blind the
judgment»30, e includere tutto: e qui le considerazioni generali di Huizinga
conservano il loro valore, e le si potrebbero integrare con quelle, recentis-

27 The Letters of Peter the Venerable, n. 179, p. 421; n. 182, p. 426.


28 Cfr. J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, trad. ital. Firenze 1978, pp. 69-71: 70.
29 Die Briefe des Petrus Damiani, ed. K. Reindel, Weimar 1989 (M.G.H., Die Briefe der
Deutschen Kaiserzeit, IV/3), n. 130 (ex. 1065 / 1066 in.), pp. 435-436: «Quoniam a sancta
praesentia vestra remotus sum, et hoc tempore vobiscum esse non possum, satis doleo et
cotidiana lamentatione suspiro. Interim autem antequam ad vos redeam, hortor sanctam
patientiam vestram, ut non ei grave sit aspera quaelibet ac dura perferre, et pro amore cae-
lestis sponsi solitudinem vel etiam necessarii sumptus inopiam sustinere. Cum enim
Christus pro te pertulerit crucem, quid mirum si tu sustineas pro illius amore pauperiem?
[…] Porro autem, qui hodie induitur purpura, cras includitur sepultura. Hodie quis homi-
nibus dominatur, cras autem a vermibus factus putredo corroditur. Hodie regalibus infulis
redimitur, cras vilibus panniculis exanime cadaver obvolvitur. Hodie splendet coronatus in
regalis excellentiae solio, cras fetet marcidus in sepulchro. Haec igitur et huiusmodi, domi-
na mi, suptiliter pensa, et huius vitae labores cum Iesu nunc aequanimiter tolera, ut cum
ipse qui iudicatus est iudicaturus advenerit, tu velut una de sapientibus virginibus ornatis
lampadibus ei decenter occurras, et pro temporali purpura stolam immortalitatis accipias.
Ac pro corona quae de terreno fuerat fabricata metallo, illud diadema suscipias quod in
caelo factum est de lapide precioso». Considerato quanto avviene a corte fra la fine del
1065 e il gennaio 1066, con l’estromissione di Adalberto di Amburgo-Brema e il ritorno di
Annone di Colonia, verrebbe da pensare ad una Agnese fremente per rientrare ufficialmen-
te nel circuito della vita politica e lasciare quella condizione monastica che, a giudicare dalle
parole di Pier Damiani, le andava stretta… Sulla situazione rimando al mio Pier Damiani e
lo scisma di Cadalo, in Pier Damiani: l’eremita, il teologo, il riformatore (1007-2007) cit., pp.
233-257: 252-255; sul brano in particolare, alla cursoria osservazione nel mio Medioevo. Un
filo di parole, Milano 20022, p. 146.
30 Parole di dom David Knowles, citate dal Constable a proposito proprio di Nicola
(Nicholas of Montiéramey and Peter the Venerable cit., p. 329). È solo una curiosità: ma
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84 GLAUCO MARIA CANTARELLA

sime, di Barbara Rosenwein31. Bisognerebbe allora fare uno sforzo per sot-
trarsi il più possibile alle suggestioni della contemporaneità (ad esempio,
non leggere il racconto dell’assassinio del prete «a puero, quem familiario-
rem habebat» che fa Guiberto di Nogent come se appartenesse all’età
post-tridentina o ai tempi nostri)32, pur sapendo che non è possibile…
Si tratta di comunicazioni scritte: e con le parole ci si misura a vicenda,
ci si avvicina e ci si comprende (è con compiacimento che Attone di Troyes
rispondeva nel 1141 a Pietro in un modo che a noi, se ancora afflitti dai
pre-giudizi crociani sulla retorica, potrebbe apparire affacciato sul limite
della scortesia: «Repressi autem me, ne eloquentia uestra paupertatem uer-
borum meorum sepeliret»)33, ma anche ci si tiene a distanza. Certe volte lo
si sottolinea: nel 1149 san Bernardo scrisse a Pietro il Venerabile che non
avrebbe sempre dovuto prenderlo alla lettera: «Multitudo negotiorum in
culpa est, quia dum scriptores nostri non bene retinent sensum nostrum,
ultra modo acuunt stilum suum, nec videre possum quae scribi praecipi».
Un’affermazione importante che potrebbe dare importanti indicazioni di
metodo allo studioso e riproporre la domanda: se l’autore fa corpo con un
gruppo scelto di scrittori, fino a che punto si può indagare lui? dove ini-
ziano loro34? Che ne sarebbe, insomma, della cosiddetta autorialità, tanto
più di fronte all’ammissione dell’assenza di controllo sulla pagina scritta?
ma, a questo, dobbiamo proprio crederci come voleva Bernardo?
Daccapo. Diffidenti, noi? lucidi, strumentali, loro?
Ma allora: uomini soli, tutti, noi e loro.
Sempre in guardia, loro, certo. Sempre attenti. Sempre consapevoli del
fatto che il «privato» non si dava – e dunque la loro comunicazione è tanto
più preziosa in quanto è offerta al pubblico, quel pubblico scelto (eletto) in
grado di decifrarla… Quel pubblico che proprio per questo si sentirà am-
messo al grande privilegio di partecipare del mondo dei grandi che comu-

un’espressione molto vicina a questa è stata usata da Claude Carozzi per sintetizzare
Adalberone di Laon e il codice della regalità: «cette qualité indescriptible qu’est la beauté»
(C. Carozzi, D’Adalbéron de Laon à Humbert de Moyenmoutier: la désacralisation de la roy-
auté, in La cristianità dei secoli XI e XII in Occidente: coscienza e strutture di una società,
Milano 1983, pp. 67-84: 72).
31 Cfr. B.H. Rosenwein, Emotional Communities in the Early Middle Ages, Ithaca NY-
London 2006, pp. 28-29.
32 Guibert de Nogent, Autobiographie, éd. et trad. E.-R. Labande, Paris 1981, III.XI,
p. 374.
33 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 95, p. 256.
34 Epistola n° CCCLXXXVII, in Opere di San Bernardo, VI/2 cit., p. 498 (la datazio-
ne, con eccellenti interrogativi metodologici, ivi, pp. 497-499 nota 2).
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nicano fra loro e insieme saprà di esserne, proprio perché testimone, so-
stanzialmente escluso, ma anche che in questo modo può disporre dei
modelli per creare un nuovo più specifico e appropriato mondo di relazio-
ni, fatto su misura, e che a sua volta potrebbe ispirare altri a fare altrettan-
to, innescare altri mondi, innervare altri circuiti… Il mondo dell’amicizia,
cioè, è probabilmente un modello: dunque con una sua forza pragmatica
oltreché pregnante.

4. Si, l’amicizia è un modello quasi ecclesiologico. Esoterico, come in


Pier Damiani, inclusivo, come in Pietro il Venerabile, di valenza teologica
e centrale, come in Aelredo di Rielvaux: comunque totale. È lo specchio
della vita monastica e delle sue bellezze, è la rappresentazione vivente della
sua forma ideale35.
Delle sue norme come delle sue trasgressioni. Perché l’amicizia stessa è,
paradossalmente, una trasgressione. I monaci, a Cluny, non possono parla-
re fra di loro: dunque come potrebbero coltivare amicizie? ma Pietro il
Venerabile menziona e pregusta lo iocundum ac dulce colloquium con il suo
Nicola, quando l’avrà con sé a Cluny36. È l’abate che scioglie dal vincolo
della norma, solo la sua autorizzazione rende legittima la trasgressione: a
Cluny, nell’età di Pietro, si doveva sapere bene, perché era già entrata nella
storia ufficiale dell’abbazia e dell’istituzione (e perché Nalgodo era stato
incaricato di attualizzare formalmente il testo), cos’era accaduto al monaco
impudente che si era rifiutato di rispettare il silenzio e il linguaggio dei
segni imposto da Odone: era diventato muto e in breve era morto senza
ottenere l’assoluzione37. Se è il colloquio che rende possibile l’amicizia,

35 Cfr. ancora Longo, «O utinam anima mea esset in corpore tuo!» cit., pp. 12ss.
36The Letters of Peterthe Venerable cit., n. 182, pp. 425-426: «et qui meam de te esu-
riem satiare nequeo, saltim hanc breui tempore iocundo ac dulci tuo colloquio releuabo.
Vere iocundo, uere dulci. Nam si talis est stilus tuus, qualis est animus tuus? Si talis littera
tua, qualis lingua tua? Non es enim, non es talis, quales quidam loquaces stilo, muti aelo-
quio, uel econuerso profusi loquentes, muti scribentes». Il contesto è trasparente: si riferi-
sce a conversazioni!
37 Cfr. ancora i miei I monaci di Cluny cit., p. 61; È esistito un «modello cluniacense»?,
in Dinamiche istituzionali delle reti monastiche e canonicali nell’Italia dei secoli X-XII,
Negarine di S. Pietro in Cariano 2007, pp. 61-85: 61-62. Sull’attività di Nalgodo è fonda-
mentale il pioneristico studio di M.L. Fini, Studio sulla «Vita Odonis reformata» di Nalgodo.
Il Fragmentum mutilum del codice latino NA 1496 della Bibliothèque Nationale di Parigi,
«Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna», Cl. di Scienze Morali, a. 69°,
Rendiconti, 63/2 (1974-1975), pp. 35-147, che tanto più andrebbe ripreso in quanto in que-
sti decenni la ricerca ha messo a punto nuove prospettive e nuovi modelli di interpretazio-
ne della storia cluniacense, monastica e delle istituzioni ecclesiastiche; ad esempio l’osser-
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l’amicizia non sarà tanto la norma quanto piuttosto l’eccezione, il premio


concesso dall’autorità abbaziale? il che forse potrebbe aiutarci a compren-
dere il perché della scelta del vocabolario e a riconsiderarne la possibilità
del grado, se non di sincerità (perché mai come nella lettura delle fonti
occorre ricordare la saggezza del «de interiore homine iudicat Deus»!)
almeno di verisimiglianza, di applicabilità al campo d’esperienza: per
descriverlo, riprodurlo, circoscriverlo. L’amicizia non sarà la trasgressione
che contraddice tanto le circospezioni istituzionali quanto la stessa essen-
za del monaco, «monachus hoc est solus»? Una concessione rara e prezio-
sissima, che la suprema prerogativa abbaziale (il controllo e l’amministra-
zione della discretio) offriva graziosamente a chi veniva riconosciuto meri-
tevole, e forse meritevole di essere elevato dopo essere stato messo alla
prova; il che ovviamente trasformava il tradimento della fiducia in disob-
bedienza istituzionale, colpa suprema: quella di cui, a stare a Bernardo di
Clairvaux, si era macchiato Nicola di Montiéramey… È una inestimabile
occasione della vita, che non a tutti viene concessa (nel senso strettissimo
della parola).
E allora potrebbe diventare più chiaro perché il lessico monastico del-
l’amicizia, pur avendo com’è forse inevitabile dei punti di contatto con i lin-
guaggi degli affetti esterni al mondo del monastero, ha una propria specifi-
cità: concreta, nella pratica quotidiana. Perché è traducibile in vita vissuta.
Come avviene nel mondo del secolo, nelle amicizie cavalleresche ad esem-
pio38. Perché è vita. E arriviamo di nuovo al campo dell’inesprimibile.
L’amicizia è davvero l’inesprimibile, per la mozione degli affetti e dei senti-
menti naturalmente ma anche, più banalmente, perché nella vita monastica
è proibita in generale l’espressione verbale – e allora resta l’inespresso, e
chissà di quante amicizie mute, immaginate, desiderate in Dio si è nutrito il
Moloch monastico… Il monaco è solo, unico nel mondo, solo con Dio, non
deve dimenticarselo! neppure se non si è monacato per scelta…

5. Ma ero partito dai casi di Riccardo di Siracusa e Thomas Becket.


Tutt’altro ambiente, ovviamente, problemi completamente diversi. Anche

vazione che l’A. faceva a proposito dell’«impegno speculativo, in qualche maniera scolasti-
co» e dei «valori piuttosto retorico-dialettici» dell’opera (p. 103) potrebbe ora essere
apprezzata meglio proprio in ragione dei nuovi contesti che sono stati delineati.
38 Cfr. G. Duby, Guillaume le Maréchal ou Le meilleur chevalier du monde, Paris 1984,
p. 62.
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perché in questo caso è stata la storiografia a dichiararli amici: il Kamp più


di trent’anni fa, di recente ripreso da Jean-Marie Martin39.
Riccardo, proveniente dall’Inghilterra, percorse nel regno del Sud una
carriera non sappiamo quanto rapida, perché non sappiamo per quali vie
e quando sia arrivato in Sicilia. Ripropongo qui le domande che ho fatto di
recente in altra sede: un uomo del circolo del Becket o un suo amico, che
però non era riuscito a trovare una collocazione in Inghilterra? il che impli-
cherebbe dunque che non aveva potuto contare su un patronato efficace…
Così avrebbe preso la via della Sicilia sperando di far fortuna con i propri
mezzi. Proviamo ad approfondire il campo delle ipotesi e delle suggestio-
ni, partendo dalle considerazioni del Kamp: Riccardo, uomo di studi a
Parigi, area d’elezione per i literati inglesi; uomo che segue la via del Sud,
come altri durante il regno di Ruggero II: Roberto di Selby sul finire degli
anni ‘30, poi Thomas Brown… Amico del Becket? e perché? Solo perché
il Becket nel 1168, dal suo esilio in Francia, gli scriverà una lettera devota
e fiorita in cui, dopo aver elogiato il suo timor di Dio e la duratura caritas,
gli raccomanderà suo nipote Goffredo? Ingenuamente ci si potrebbe chie-
dere: ma se erano tanto amici perché non gli ha mai scritto prima, quando
era potente e temuto in Inghilterra e fuori? Meglio: perché non l’ha assun-
to nel servizio regio o di Canterbury quando avrebbe potuto farlo? maga-
ri perché Enrico II l’aveva scelto come cancelliere solo nel 1155 e il suo
presunto «amico» forse era già in Sicilia?
Perché nel gennaio 1157 Riccardo è arcivescovo eletto di Siracusa e
rappresenta il re quando i consoli di Genova «una cum trecentis homini-
bus Ianuae de melioribus» giurano di «observare firmam et fidelem amici-
tiam» nei confronti di Guglielmo I: non può essere arrivato nel regno da
poco… È un uomo di primo piano, anche se non ai vertici del regno: a quei
livelli ci sono Maione, Matteo, Romualdo di Salerno, protagonisti del trat-
tato di Benevento dell’anno prima; però Riccardo era insieme con il re a
Salerno, proprio in quella circostanza… È un uomo in ascesa; e trovarlo
nel 1166 nel consiglio di reggenza, e non trovarvi invece Romualdo che nel

39 N. Kamp, Kirche und Monarchie im staufischen Königreich Sizilien, I.3, München


1975, pp. 1013-1018 (1013 nota 20 per la questione del cognome); J.-M. Martin,
L’immigrazione normanna, inglese e francese nel Regno normanno di Sicilia, in Studi in onore
di Salvatore Tramontana, cur. E. Cuozzo, Pratola Serra 2003, pp. 281-289: 288. Riprendo
d’ora in poi, sintetizzandolo, il mio Nel Regno del Sole. Falcando fra inglesi e normanni, in
Scritti di storia medievale offerti a Maria Consiglia De Matteis, Spoleto 2011, pp. 96-100
(chiedo perdono per l’autocitazione finale: ivi, 100).
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88 GLAUCO MARIA CANTARELLA

1156 era appunto una figura di primissimo piano, indica che ha saputo
costruirsi una carriera progressiva e inarrestabile… A lume di buon senso
è difficile pensare che fosse soltanto un uomo di Guglielmo I, cioè che
fosse arrivato nel regno solo nel 1154: in tre anni non si fa tanta strada, a
meno che non si appartenga a qualche famiglia di rilievo, di quelle che
lasciano tracce di sé; ma non è il caso del nostro. Se, invece, fosse arrivato
in Sicilia negli anni di Ruggero II, anzi nell’età di Roberto di Selby o
Thomas Brown, allora avrebbe potuto fare il proprio apprendistato pro-
prio nei centri dell’amministrazione del regno: e questo lo renderebbe anzi
uomo degli apparati «burocratici», dunque renderebbe comprensibile il suo
protagonismo nella difesa dei notai di corte contro Stefano del Perche
(1167-1168) nonché, prima dell’arrivo di quest’ultimo, la sua vicinanza a
Matteo di Salerno, con cui siede nel consiglio di reggenza insieme con il
qa’id Pietro.
Matteo ha fatto carriera perché è uomo di Maione, il qa’id Pietro per-
ché è uomo del diwán che ha goduto incondizionatamente della fiducia del
re, di Riccardo l’inglese possiamo solo constatare il fatto che la sua scalata
sociale gli ha fatto raggiungere uomini che una decina d’anni prima erano
già ai livelli più alti del regno; ma sappiamo anche che nel 1161 era stato,
insieme a Romualdo di Salerno, l’ispiratore della rivolta con cui la plebe
palermitana aveva liberato Guglielmo I dalla prigionia dove l’aveva ristret-
to la congiura dei nobili, e il portavoce ufficiale del re durante la regia epi-
fania ai palermitani: «hec et his similia que rex non sine lacrimis demissius
loquebatur, electus Siracusanus, vir licteratissimus et eloquens, ad popu-
lum referebat»; a lui, e non a Romualdo, era toccato essere la voce e la paro-
la del re…
«Licteratissimus et eloquens»: condizioni che non lo rendevano diver-
so da quei literati di professione che venivano cooptati nel servizio dei re
d’Inghilterra e degli arcivescovi di Canterbury o York e potevano trovare
impiego, ad esempio, nello Scacchiere: anche il luogo di formazione (le
scuole di Parigi) era il medesimo; supporlo nelle clientele di qualcuno chia-
mato in Sicilia dall’Inghilterra darebbe fondamenti più credibili alla sua
vertiginosa carriera. Riprendiamo brevemente il confronto fra le traiettorie
del Becket e di Riccardo: 1155, cancelliere del regno d’Inghilterra il
Becket, non sappiamo nulla di Riccardo; 1156/57, Riccardo eletto di Sira-
cusa e in ascesa alla corte palermitana; 1162, Becket arcivescovo di Can-
terbury; 1164 il Becket è esule presso Luigi VII da novembre; 1166,
Riccardo è designato da Guglielmo I al vertice del consiglio di reggenza in
Sicilia, anche se la regina-vedova preferirà in quel ruolo il qa’id Pietro;
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1168-1169, il Becket interviene in Sicilia in favore di Stefano del Perche


per conto proprio e del Re Cristianissimo Luigi VII: Riccardo, che appar-
tiene al partito di coloro che hanno conseguito la cacciata del Perche, è nel
secondo posto del consiglio ristretto. «Le due carriere non sono state sim-
metriche, i rapporti non sono stati paritari e magari non avrebbero potuto
esserlo: certo, alla grande caritas elogiata dall’esule possiamo credere, se
solo vogliamo farlo… In ogni caso lo stesso Becket ci parlerebbe di una
caritas a senso unico, da parte di un potente Riccardo verso l’antico
«amico» in disgrazia»; di più, la sua lettera si propone come una risposta
ad una comunicazione di Riccardo, dunque come un segno di riconosci-
mento e di riconoscenza: caritas? degnazione? l’amicizia ha una gerarchia
variabile che (come si sarebbe detto nel sec. XII) ruota e si capovolge
seguendo i corsi della terribile macchina della Fortuna?
Insomma, amicizia? Ci si potrebbe persino chiedere: davvero il Becket
non avrebbe potuto fare nulla per il suo «amico» anche quando era soltan-
to un compagno di sollazzi di Enrico II? Anche noi storici dovremmo
usare cautela nell’impiegare certe parole, che spesso sembrano chiamate in
causa per tirarci fuori dagli impacci, vere e proprie scorciatoie che, lungi
dal togliere dagli imbarazzi, dovrebbero causarne di maggiori. Da un
pezzo si è smesso di vedere in Bernardo di Clairvaux un amico dell’abate
di Cluny, anche se gli scriveva (o gli faceva scrivere…): «Legi et relegi dul-
cedinem, et magnam dulcedinem, quae de uestris litteris emanabat», e
Pietro a sua volta: «Si de amico et tanto licet conqueri, queror […] Sicut
dicitur, inter amicos omnia nuda… coram amico nudaui»40…

6. Il tema, ovviamente, per usare una meritatamente fortunata espres-


sione di Giuseppe Fornasari, rimane «non esaurito». Mi fermo qui. Solo
un’ultima divagazione, che non c’entra nulla, ma è suggerita dalla rilettura
di queste fonti: qualunque cosa si voglia pensare delle manifestazioni del-
l’amicizia, qualunque interpretazione si voglia dare, esse ci impartiscono
degli insegnamenti umanistici cui noi, umanisti per il lavoro che facciamo,
dovremmo più spesso prestare attenzione. I protagonisti di queste pagine
rassomigliano un po’ a noi, si dicono: faccio non ciò che voglio, ma ciò cui
sono costretto, anche se non posso e non voglio lamentarmi… «Irascor
occupationibus meis, quibus factum est non ut non uellem, sed ut non pos-
sem, et etiam ut nescirem» (Nicola a Pietro, inizi 1151); «Quid dicam?

40 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 152, p. 172; n. 180, pp. 423, 424.
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90 GLAUCO MARIA CANTARELLA

Tedet animam meam uitae meae [Iob.10.1]. Quare? Quia non quod uolo
hoc ago, sed quod odi illud facio. Datum est michi hoc, et nescio si desu-
per, ac uelut insuperabile accidens, fere a puero michi inhesit, ut pene sem-
per impellar ad haec quae nolo, et repellar ab his quae uolo. Et licet haec
dicam, non sum tamen de illis, qui non sunt contenti de sorte sua, qui pro-
pria fastidiunt, aliena ambiunt» (Pietro a Nicola, marzo 1151)41. Ma c’è
una voce discreta42 che, pur avendo il carattere di un vero e proprio ápax,
si propone con lucidità e saggezza: «Sed si negotiis credimus, quando
negotia finem habebunt?» (Attone di Troyes a Pietro il Venerabile, 1141)43.
Mi verrebbe quasi da dire: questa si, è la voce di un amico vero…
Sono voci che vengono dal passato, e che, come sempre fa la storia, non
insegnano nulla. Ma possono indurci a sostare e pensare*.

41 Ivi, n. 179, p. 421; n. 182, p. 425.


42 Sono ancora da vedere le bellissime annotazioni di P. Lamma, Momenti di storiogra-
fia cluniacense, Roma 1961, pp. 150-151.
43 The Letters of Peter the Venerable cit., n. 96, p. 257.
* Vorrei esprimere il mio ringraziamento agli amici, complici e sodali che hanno sop-
portato le mie manie di condivisione e di discussione delle ricerche: Germana Gandino
(Università del Piemonte Orientale, Vercelli); Umberto Longo (Università La Sapienza,
Roma); Francesco Paolo Terlizzi, Francesco Renzi (Università degli Studi, Bologna).

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