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Baumgarten

Baumgarten(1714-1762) fu il più notevole dei seguaci di Wolff. La fama di Baumgarten è dovuta soprattutto
all’Aesthetica, che fa di lui il fondatore dell’estetica tedesca e uno dei più eminenti rappresentanti
dell’estetica del Settecento. A lui si deve l’introduzione del termine ‘estetica’. La metafisica è definita come
la scienza delle qualità delle cose, conoscibili senza la fede. Essa è preceduta dalla teoria della conoscenza,
che Baumgarten chiama gnoseologia. La gnoseologia si divide in due parti fondamentali: l’estetica, che
concerne la conoscenza sensibile, e la logica, che concerne la conoscenza intellettuale. L’originalità di
Baumgarten sta nel rilievo dato alla conoscenza sensibile, considerata non subordinata alla logica, ma
autonoma e indipendente, dotata di un valore intrinseco, diverso e indipendente da quello della
conoscenza logica. Questo valore intrinseco è il valore poetico.

Affermando l’autonomia della conoscenza sensibile rispetto alla logica, Baumgarten tenta di legittimare la
capacità di comunicare immagini. I risultati fondamentali dell’estetica di Baumgarten sono due:
il riconoscimento del valore autonomo della poesia e dell’attività estetica e il riconoscimento del valore di
un’attività umana che era ritenuta inferiore, e quindi l’affermazione della possibilità di una più compiuta
valutazione dell’uomo nella sua totalità.

Baumgarten definisce l’estetica per la prima volta come disciplina filosofica autonoma, “scienza della
conoscenza sensibile” e come “teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del bel pensare”.
Il fine dell’estetica è la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale e questa perfezione è la
bellezza. Cadono fuori dal dominio dell’estetica quelle perfezioni della conoscenza sensibile così nascoste
da rimanere sempre oscure per noi e quelle che non possiamo conoscere se non con l’intelletto.
All’interno della teoria della conoscenza di Baumgarten, il dominio dell’estetica riguarda soltanto le
rappresentazioni chiare ma confuse, quelle cose di cui possiamo comprendere il contenuto percepito ma
non possiamo isolarne le parti che lo compongono. Il dominio dell’estetica ha come limite inferiore, la
conoscenza sensibile oscura, ossia quando non si può conoscere con chiarezza il contenuto percepito, e un
limite superiore rappresentato dalla conoscenza logica distinta, ossia quando possiamo interpretare tutte le
parti comprese dal tutto. A questa sono superiori la conoscenza simbolica(con. Mediata dai simboli), la
conoscenza intuitiva(con. Il cui contenuto è colto senza mediazioni) e la conoscenza perfetta di Dio. La
bellezza, come perfezione della conoscenza sensibile, è universale, ma di un’universalità differente da
quella della conoscenza logica, perchè astrae dall’ordine e dai segni e realizza una forma di unificazione
puramente fenomenica(dal particolare concreto). La bellezza delle cose e dei pensieri è differente dalla
bellezza della coscienza e dalla bellezza degli oggetti e della materia.
Baumgarten ritiene che la grandezza, la verità, la chiarezza e la certezza, dunque la conoscenza, possano
concorrere a formare la bellezza.

Vico
Giambattista Vico nasce a Napoli nel 1668.
Alla base del pensiero di Vico sta il principio per cui l’uomo non può conoscere il mondo della natura, il
quale, essendo creato da Dio può essere oggetto soltanto della conoscenza divina. L’uomo può invece
conoscere con verità il mondo della matematica, che è un mondo di astrazioni che egli stesso ha creato.
L’uomo non può conoscere neppure la causa del proprio essere, perché non è egli stesso questa causa, in
quanto non si crea da sé.
Cartesio non avrebbe dovuto dire “io penso, dunque sono”, ma “io penso, dunque esisto”, poiché
l’esistenza è il modo di essere proprio della creatura.
La Scienza Nuova è un compedio di storia, filosofia e filologia. Vico non parla di estetica, ma parla di
fantasia creatrice riconoscendo un ruolo fondamentale all’immaginazione. Nella Scienza Nuova Vico
riconosce come oggetto proprio della conoscenza umana, in quanto opera degli uomini, il mondo della
storia, in cui l’uomo è prodotto e creazione della sua propria azione. Il mondo della storia è il mondo umano
per eccellenza, certamente fatto dagli uomini e di cui si possono quindi conoscere i principi. La storia non
un succedersi slegato di eventi, ma deve avere in se un ordine fondamentale, al quale lo svolgersi degli
avvenimenti tende al suo significato finale. La storia dunque si muove nel tempo, ma tende a un ordine che
è universale ed eterno. Vico ritiene che la storia ideale sia costituita dalla successione di tre età in senso
progressivo, a cui corrispondono tre strutture sociali e tre linguaggi differenti:
l’età degli dei - l’età di un’umanità primitiva, in cui prevaleva la sensazione, il momento sensibile
dell’esperienza, umanità soggetta a “stupore feroce”, a cui corr. il linguaggio basilare dei geroglifici e i miti
religiosi primitivi;
l’età degli eroi – età della fantasia, dell’epos, del mito e dell’arte, a cui corr. il linguaggio simbolico e il
dominio signorile;
l’età degli uomini – l’età della ragione, dell’intelletto analitico, della legge, della conoscenza, l’età in cui
questa visione della storia si precisava e allo stesso tempo declinava e tramontava; nel mondo degli uomini
razionali la forza vitale si spegne e inizia la decadenza per ricominciare da capo, recuperando l’età
primordiale ma ad un livello più alto(progresso nella ciclicità)
Alle tre età corrispondono dunque tre tipi di uomo(senso, fantasia, ragione), tre tipi di linguaggio e tre
stratificazioni diverse di società. I tipi tuttavia non si succedono in maniera rigida e si influenzano
reciprocamente e contemporaneamente(nell’età degli dei a un certo punto c’è sia il senso che al fantasia).
Se la causa della storia è l’uomo, cioè la mente umana, le leggi che regolano lo sviluppo della storia saranno
le stesse che regolano la mente umana. Alle facoltà dell’uomo di senso, fantasia e ragione corrispondono le
tre età della storia. Tale corrispondenza non è intesa in modo troppo rigido, in quanto la prima età risulta
caratterizzata sia dal senso che dalla fantasia. Nell’età degli dei, gli uomini sentirono nelle forze naturali che
li minacciavano divinità terribili e punitrici, costituendo governi teocratici, fondati sul timore di Dio. Nell’età
degli eroi incominciò la vita delle città e le repubbliche si fondarono sulla classe aristocratica che faceva
derivare da Dio la propria nobiltà. Nell’età degli uomini le plebi rivendicarono al loro uguaglianza con i
nobili, nacquero così le repubbliche popolari.
“Prima gli uomini sentono(perc.) senza avvertire(compr.), poi avvertono con animo perturbato e commosso,
poi arrivano a riflettere con mente pura.”
Nella scienza nuova Vico ha dato grande spazio allo studio della sapienza poetica, che è il prodotto della
sensibilità e della fantasia degli uomini primitivi. Vico afferma l’indipendenza della sapienza poetica dalla
riflessione, cioè dalla ragione e dall’intelletto. La sapienza poetica, fondata sulla fantasia, è essenzialmente
poesia, perché attraverso essa il trascendente prende corpo in tutte le cose e dappertutto fa vedere
divinità. La poesia è creazione e l’elemento primo di tale creazione è il linguaggio, nato naturalmente
dall’esigenza degli uomini di intendersi tra loro. La poesia non è l’espressione tramite immagini di una
verità razionalmente già conosciuta, ma un modo autonomo di intendere e di comunicare la verità. La
fantasia e la poesia sono tanto più robuste quanto più debole è il raziocinio. Vico riconosce per tanto il
valore autonomo della poesia e la sua indipendenza da ogni attività intellettuale. La poesia però si spegne e
decade via via che la riflessione prevale negli uomini: la fantasia che le da origine, infatti, è tanto più
robusta quanto più debole è il raziocinio e gli uomini si allontanano dal sensibile man mano che diventano
capaci di formulare concetti universali. Questo accade nello sviluppo dell’uomo singolo come nella storia
dell’umanità. La sapienza poetica per Vico non è che un modo di rendersi conto, sia pure oscuramente e
fantasticamente, di quell’ordine provvidenziale, di quella storia ideale eterna, che è il contenuto di ogni
attività umana. Nell’età degli dei e degli eroi vi è l’espressione di una fantasia spontanea, animista e
antropomorfa. Qui gli uomini erano tutti poeti per la robustezza della loro fantasia ed esprimevano nei miti
e nei racconti favolosi le verità che erano incapaci di chiarire con la riflessione, creando veri e propri modelli
universali fantastici, cioè immagini poetiche(fantastiche) rappresentative di caratteri universali del mondo e
della vita(es. Achille è l’univ. Fantastico del coraggio). Il mito è qui una narrazione caratterizzata
dall’espressione fantastica di un’umanità primitiva e della sua immaginazione collettiva.
Nella Scienza Nuova Vico intende acquisire un metodo del sapere, inserendo il concetto di provvidenza e
dando le prove della sua esistenza. Questa scienza procede come le branche del sapere inopinabili
attraverso una vocazione non soggettiva, ma universale e scientifica come la geometria.
Nel sistema di Vico Dio è salvato ed è evidente la manifestazione della sua provvidenza. Influenzato, infatti,
dalla visione cristiana, sostiene che la provvidenza e la libertà umana cooperano nella creazione al
compiersi della storia ideale eterna arriverà un momento di decadenza che corrisponderà ad un punto di
chiusura del cerchio e allo stesso tempo all’inizio di un altro.

Kant
Kant nasce in Prussia orientale nel 1724.
Il sistema kantiano è legato a una prospettiva gnoseologica, ponendo la ragione sotto il vaglio della ragione
stessa. La sua filosofia è definita critica e trascendentale e si muove in una tensione fra un approccio
conoscitivo e una destinazione morale, impostandosi come un tentativo di riflettere sulle condizioni a
proprio della conoscenza.

La critica della ragion pura è sostanzialmente un’analisi critica dei fondamenti del sapere.
Nella prima parte, indagando sul conoscere, si propone di mettere in luce le forme a priori della
conoscenza, distinguendo estetica e logica trascendentale. L’estetica trascendentale studia le forme a priori
della sensibilità(spazio e tempo), mentre la logica trascendentale studia le forme a propri dell’intelletto.
Egli evidenzia come logica ed estetica trascendentale si completano, diventano complementari e
interdipendenti nella struttura della conoscenza, intendendo per trascendentale quelle proprietà universali
comuni a tutte le cose, connesso al concetto di forma a priori, condizione che rende possibile la conoscenza
della realtà fenomenica.
L’estetica trascendentale studia la sensibilità e le sue forme a priori. Egli considera la sensibilità ricettiva,
perché essa non genera i propri contenuti, ma li accoglie per intuizione.
Tuttavia, la sensibilità non è solo ricettiva ma anche attiva, in quanto organizza il materiale delle sensazioni
tramite lo spazio e il tempo, forme a priori della sensibilità.
Lo spazio è forma del senso esterno, cioè quella rappresentazione a priori, necessaria, che sta a
fondamento di tutte le intuizioni esterne e del disporsi delle cose l’una accanto all’altra.
Il tempo è la forma del senso interno, cioè di quella rappresentazione a priori che sta a fondamento dei
nostri stati interni e del loro disporsi l’uno dopo l’altro, ovvero secondo un ordine di successione.
Pertanto, se non ogni cosa è nello spazio, ad esempio i sentimenti, ogni cosa è però nel tempo.

Secondo Kant la definizione di estetica di Baumgarten è piuttosto una definizione di “gusto” che di estetica.
Egli, invece, intende rintracciare le regole che le permettono l’elevazione a vera e propria scienza.
Ci sono delle regole e criteri per il gusto che si basano su fonti empiriche, e non solo a priori come in
Baumgarten. La conoscenza è pertanto possibile solo quando si applica la relazione congiunta e
interdipendente fra sensibilità e intelletto, la sintesi fra materia e forma:
per materia della conoscenza si intende la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che
provengono dall’esperienza( a posteriori); per forma della conoscenza si intende l’insieme delle modalità
fisse attraverso cui la mente umana ordina tali impressioni(a priori).
Kant ritiene che la mente filtri infatti attivamente i dati empirici attraverso le forme che le sono innate e
comuni a tutti i soggetti pesanti. Kant ribalta dunque i rapporti fra soggetto e oggetto, affermando che non
è la mente che si modella in modo passivo sulla realtà, ma la realtà che si modella sulle forme a priori
attraverso cui la percepiamo.
La conoscenza pertanto non risiede nella maggiore o minore chiarezza delle rappresentazioni come per
Baumgarten, ma nella sintesi delle diverse funzioni delle due strutture della conoscenza.
Kant distingue poi tre facoltà conoscitive principali:
la sensibilità è la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e tramite le forme a
priori di spazio e tempo;
l’intelletto è la facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite concetti puri o le categorie;
la ragione è la facoltà attraverso cui, procedendo oltre l’esperienza, cerchiamo di spiegare globalmente la
realtà mediante le idee di anima, mondo e Dio.

Critica del giudizio


Nella critica del giudizio Kant studia il sentimento, così come aveva già analizzato la conoscenza e la morale.
Contrapposizione fra il determinismo del mondo dei fenomeni e il mondo della libertà che ha come
fondamento le azioni umane, in un tentativo di armonizzare in termini finalistici le leggi naturali e l’agire del
soggetto. In questa contrapposizione muove la dimensione del conoscere e dell’agire e assume un ruolo di
mediazione il sentimento. Egli fa del sentimento una terza facoltà, intendendolo come la peculiare facoltà
con cui l’uomo fa esperienza della finalità del reale. Sebbene il sentimento tenda a riprodurre il mondo
fisico in termini di finalità e di libertà, per Kant esso rappresenta soltanto un’esigenza umana che, come
tale, non ha valore conoscitivo. L’esperienza estetica non è un’esperienza conoscitiva. Il
sentimento(giudizio) permette nel soggetto l’incontro tra i due mondi, conoscenza e morale, ma l’incontro
e non la conciliazione, poiché questa implicherebbe un’oggettività, mentre quest’accordo vale solo
soggettivamente. I giudizi sentimentali costituiscono il campo dei giudizi riflettenti, in contrapposizione al
campo dei giudizi determinanti. Il giudizio è la facoltà di ricondurre il particolare all’universale, può essere
distinto in:
giudizio determinante – momenti in cui il particolare e l’universale sono già dati; compito del giudizio
determinante è quello di applicare l’universale a un particolare; giudizi conoscitivi e scientifici.
giudizio riflettente – è dato solo il particolare; compito del giudizio riflettente è applicare il particolare
all’universale; si limitano a riflettere su di una natura già costituita mediante i giudizi determinanti e ad
apprenderla attraverso le nostre esigente di finalità e armonia. Mentre i giudizi determinanti sono oggettivi
e scientificamente validi, i giudizi riflettenti esprimono più che altro un bisogno, che è tipico di quell’essere
finito che è l’uomo.
Il giudizio riflettente si esercita sui prodotti dell’arte e su tutti quegli aspetti dove la natura dimostra una
certa finalità, quegli aspetti quindi non posti sotto le leggi necessarie dell’intelletto, ma dove invece c’è un
accordo finalistico fra le facoltà soggettive capaci di generare un sentimento di piacere.
I due tipi fondamentali di giudizio riflettente sono quello estetico e quello teleologico, entrambi giudizi
sentimentali puri, derivanti a propri dalla nostra mente, che di distinguono fra loro per il diverso rimando
finalistico:
nel giudizio estetico, che verte sulla bellezza, la finalità della natura è vissuta in modo immediato e
ateoretico, in un finalismo soggettivo.
nel giudizio teleologico, che riguarda il discorso sui fini della natura, la finalità della natura è pensata
concettualmente attraverso la nozione di fine, in un finalismo oggettivo e reale.
Nel primo caso la finalità esprime un venire incontro dell’oggetto alle aspettative del soggetto, mentre nel
secondo caso essa esprime un carattere proprio dell’oggetto. Se riguarda il rapporto di armonia fra soggetto
e oggetto, si ha il giudizio estetico, se riguarda invece un ordine finalistico interno alla natura stessa, si ha il
giudizio teleologico. Tuttavia, il giudizio sentimentale, con la sua finalità soggettiva o oggettiva, esprime pur
sempre un’esigenza umana, un bisogno soggettivo della nostra mente di rappresentarsi in modo finalistico
l’ordine delle cose.

L’analisi del bello.


Nella critica del giudizio il termine estetica torna ad assumere il significato comune di dottrina dell’arte e
della bellezza. Dopo aver premesso che bello non è ciò che comunque piace, ma ciò che piace nel giudizio
estetico(giudizio di gusto), Kant offre quattro definizioni della bellezza. Il bello è l’oggetto di un piacere
disinteressato, ciò che piace universalmente senza preconcetti, la finalità senza scopo di un oggetto e ciò
che suscita un piacere necessario. La rivoluzione estetica di Kant è copernicana nel senso che vi è uno
slittamento della prospettiva conoscitiva in favore del soggetto. Ogni soggetto ha così dei caratteri che
protendono a una conoscenza oggettiva e universale. Il problema di Kant non sta tanto nel definire cosa è
bello, ma in quali condizioni è possibile definire il bello, a partire dal fatto che ogni relativismo è escluso in
quanto ognuno possiede le medesime categorie. Kant pertanto distingue:
il piacevole, che è ciò che interessa i sensi;
il bello, che è un giudizio disinteressato e libero, svincolato dai sensi e dalla ragione, giudizio non-
conoscitivo;
il buono, che è ciò che pone un valore oggettivo ed è soggetto all’interesse della ragione, per cui determina
la morale.
L’universalità estetica si fonda dunque sulla comune struttura della mente umana e deriva dal libero gioco
delle facoltà di fronte all’immagine della cosa. Fondando il giudizio di gusto e la sua universalità sulla mente
umana, Kant perviene a una rivoluzione copernicana estetica, per cui la bellezza non è una proprietà
oggettiva o ontologica delle cose, ma il frutto di un incontro del fra noi e le cose, cioè qualcosa che nasce
solo per la mente e in rapporto alla mente.

L’analisi del sublime.


Dopo aver trattato il bello, Kant passa all’analisi del sublime, qualcosa che l’uomo non può controllare, ma
che può contemplare senza correre pericolo. Il sublime genera un’emozione ambivalente perché si è allo
stesso tempo attratti e respinti a causa di una sproporzione fra le facoltà del soggetto e la grandezza infinita
dell’oggetto. Kant distingue due tipi di sublime:
il sublime matematico nasce in presenza di qualcosa di smisuratamente grande, come le montagne, le
galassie, cose di fronte a cui in noi nasce uno stato d’animo ambivalente: da un lato proviamo dispiacere,
perché la nostra immaginazione non riesce ad abbracciarne la grandezza, dall’altro proviamo piacere,
perché la nostra ragione è portata da tali spettacolo ad elevarsi all’idea di infinito.
Il sublime matematico ha il potere di risvegliare in noi l’idea dell’infinito, che è superiore a ogni realtà e
immaginazione sensibile. Scopriamo così che il vero sublime non risiede tanto nella realtà che ci sta
difronte, quanto in noi medesimi.
Il sublime dinamico nasce in presenza delle forze naturali, in queste situazioni inizialmente avvertiamo la
nostra piccolezza materiale e la nostra impotenza, ma in seguito proviamo un vivo sentimento di piacere
per la nostra grandezza spirituale, dovuta alla nostra realtà di esseri umani coscienti.
La natura viene dunque chiamata sublime perché eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui
l’animo può sentire la sublimità della propria destinazione, rivelandone la dimensione superiore e
sovrasensibile. Il sublime rappresenta dunque la correlazione trascendentale tra giudizio e sentimento che
rivela l’esistenza di una facoltà superiore(la Ragione).
Il bello nell’arte.
Il bello finora discusso è il bello di natura, distinto dal bello artistico.
Kant definisce l’arte come un tipo di agire che produce opere e la suddivide in arte meccanica e arte
estetica. Quest’ultima, che ha per scopo immediato il sentimento di piacere, si divide a sua volta in arte
piacevole e arte bella. Mentre l’arte piacevole è generalmente indirizzata a uno scopo secondario, come
quello di intrattenere o rallegrare, l’arte bella è fine a se stessa e da un piacere disinteressato.
La spontaneità dell’arte bella proviene dal genio. Se per giudicare degli oggetti belli è necessario il gusto,
per produrre tali oggetti è indispensabile il genio, che è il tramite con cui la natura interviene sull’arte.
In questo senso, il bello artistico è affine al bello di natura, in quanto la natura è bella quando ha
l’apparenza dell’arte e l’arte è bella quando ha l’apparenza e la spontaneità della natura.

Hegel
L’Estetica di Hegel è una raccolta postuma di scritti tratti dalle lezioni tenute fra il 1818 e il 1829.
In questa raccolta è sottolineata l’importanza e la superiorità del bello artistico rispetto al bello naturale.
Se per Kant il bello naturale è preponderante(sublime), per Hegel è il bello artistico ad essere superiore,
perché espressione di spiritualità e libertà, superando il giudizio disinteressato del bello di Kant.
Il prodotto dell’uomo è, infatti, superiore al bello di natura, l’uomo, capace di spiritualità e di libertà, pone
un accento differente rispetto alla natura, in quanto permette di indagare sull’opera e sul processo di
creazione dell’opera. In questo senso, Hegel contempla e contiene sia la prospettiva conoscitiva dell’arte
che la prospettiva pragmatica della funzione dell’arte legata al farsi dell’opera.

L’arte rappresenta il primo gradino attraverso cui lo spirito acquista coscienza di se stesso, in quanto,
mediante essa, l’uomo assume la consapevolezza di sé mediante forme sensibili. Nell’arte lo spirito vive in
modo immediato e intuitivo la fusione fra soggetto e oggetto, spirito e natura. Hegel dialettizza la storia
dell’arte in tre momenti: l’arte simbolica, tipica delle civiltà pre-elleniche e caratterizzata dallo squilibrio fra
contenuto e forma, l’arte classica, caratterizzata da un armonico equilibrio fra contenuto spirituale e forma
sensibile, attuato mediante la figura umana, e l’arte romantica, propria dell’europa cristiana medievale e
moderna e caratterizzata da un nuovo squilibrio fra contenuto spirituale e forma sensibile.
Nel passaggio da una fase all’altra dell’arte corrisponde, per Hegel, un processo di graduale
smaterializzazione e spiritualizzazione subito dall’espressione artistica attraverso i secoli, infatti:
la forma artistica tipica dell’arte simbolica è l’architettura, in cui la materia è fortemente presente nelle
enormi proporzioni delle costruzioni;
nell’arte classica si privilegia la scultura, espressione di un perfetto equilibrio fra l’elemento materico e il
contenuto spirituale espresso dall’armonia delle forme ;
l’arte romantica, infine, di fronte a un elemento spirituale non più contenibile nella tridimensionalità, si
volge alla pittura e soprattutto alla musica e alla poesia, in una graduale e inesorabile rarefazione
dell’elemento materiale.
Ciò determina la cosiddetta crisi moderna dell’arte, in quando nessuno vede più nelle opere d’arte
l’espressione più elevata dell’idea, si rispetta l’arte e la si ammira, ma la si sottopone all’analisi del pensiero
per riconoscerne la funzione e la collocazione. Questa morte dell’arte va intrepretata come una sua
inadeguatezza a esprimere la complessa spiritualità moderna. Ciò che è sparito e non può tornare, per
Hegel, è il valore supremo dell’arte, quella considerazione che faceva di essa la più alta e compiuta
manifestazione dell’assoluto. Non può più tornare dunque la forma classica dell’arte, ma l’arte è e rimane
una categoria dello spirito.
Nietzsche

Mondo Greco

Talete
Talete fu un filosofo greco che visse fra la fine del VII a.c. e la prima metà del VI. Talete individua l’archè, il
principio di cui ciò che esiste è una manifestazione passeggera, nell’acqua(hydor),elemento fondamentale
per la vita e per la sua crescita. Individuando il principio nell’acqua, sottolinea il continuo flusso divino del
primo principio del reale, da ciò physis, “ciò che cresce, che esiste”.

Anassimandro
Anassimandro nacque nel 611 a.c. e fu il primo autore di scritti filosofici in Grecia. Anassimandro riconosce
l’archè nell’apeiron, un principio infinito e indeterminato dal quale tutte le cose hanno origine e nel quale
tornano a dissolversi quando è concluso il ciclo stabilito per esse da una legge necessaria.
L’apeiron non è un principio materiale, ma è immortale, illimitato, indistruttibile e indefinito. Tale sostanza
infinita è animata da un eterno movimento, in virtù del quale si separano da essa i contrari che generano
poi la molteplicità del reale. Le cose finite si costituiscono così per separazione dal principio primo.

Anassimene
Anassimene di Mileto, più giovane di Anassimandro e forse suo discepolo, nacque nel 546 a.c. Come Talete,
riconobbe come principio una materia determinata, che è l’aria, ma a tale materia attribuì i caratteri del
principio di Anassimandro: l’infinità e il movimento incessante. Egli vide nell’aria(nel soffio, pneuma) la
forza che anima il mondo. La produzione e la differenziazione delle cose del mondo sono dovute a processi
di condensazione e rarefazione. L’aria, infatti, rarefacendosi diventa fuoco e condensandosi, diventa vento
nuvole, acqua, terra e tutti i corpi composti. L’universo appare dunque omogeneo, l’apparente molteplicità
è data dai differenti gradi di densità di uno stesso elemento.

Eraclito
Eraclito visse a Efeso tra il VI e il V a.c. Alla base del pensiero di Eraclito vi è la contrapposizione fra la
filosofia e la mentalità comune degli uomini, contrapponendo pertanto gli uomini svegli ai dormienti.
Eraclito appare come il primo filosofo a iniziare un discorso sul Logos e sull’uomo.
Eraclito concepisce il mondo come un flusso perenne in cui tutto scorre, di cui individua il principio fisico
che costituisce le cose nel fuoco e la legge universale che le governa nel logos. Tale legge si configura come
la razionalità che pervade il reale, l’armonia oltre i contrari. In questo senso, i dormienti, cioè gli uomini
delle apparenze, che non indagano a fondo le cose, restano esclusi dalla comprensione dell’autentica legge
del tutto, mentre agli uomini in grado di uscire dal sonno è dato intendere le leggi oggettive del mondo, in
quanto detentori del logos. Agli occhi di Eraclito “la natura ama nascondersi” e pertanto, l’uomo da un lato
può forzare il velo delle apparenze, dall’altro deve avere cura di proteggerne la fragilità.

Parmenide
Parmenide nasce nel V sec. a.C. in Cilento, ad Elea. In Parmenide la questione dell’essere è centrale.
Agli occhi del filosofo, di fronte all’uomo si aprono due vie: il sentiero della verità, basato sulla ragione, che
ci porta a conoscere l’essere vero, e il sentiero dell’opinione(doxa), basato sui sensi, che ci porta a
conoscere l’essere apparente. Seguendo il sentiero della verità, secondo Parmenide, la ragione scopre che
l’essere è e non può non essere, intendendo affermare che solo l’essere esiste, mente il non essere non
esiste e non può essere pensato. La mente e il linguaggio possono solo riferirsi all’essere, mentre il non
essere è impensabile e inconcepibile. Parmenide insiste dunque sulla realtà logica e ontologica dell’essere,
rintracciando una serie di attributi dell’essere: esso è ingenerato e imperituro, quindi eterno, immutabile e
immobile, unico e omogeneo, finito, necessario. Il mondo così come testimoniato dai sensi, dunque,
presenta attributi opposti a quelli dell’essere vero, essendo molteplice, generato, perituro, temporale e
mutevole. A tal proposito egli ritiene che, poiché implica il non essere, risulta pura apparenza e illusione.
Ecco dunque il rifiuto del divenire come movimento e molteplicità, poiché lascia spazio al non-essere, la cui
esistenza è però impossibile. In Parmenide non si parla di molteplicità, ma di totalità. L’idea di Uno è
continuità e unicità, in quanto l’Uno si realizza nel presente e le differenze, se ci sono, sono, e non possono
essere nulla. Le differenze vengono così incluse e comprese nell’unicità. Parmenide mette in guardia
rispetto ai sensi, induttori di doxa, inclusa l’arte, sebbene egli ricorra al linguaggio del mito per esporre le
sue tesi. Lo strumento di comunicazione che Parmenide adotta è infatti l’epos poetico, egli scrive in versi
attraverso un’oralità poetico-mimetica, ma tuttavia, l’epos appare trattenuto e decostruito: pur usando i
versi, egli fa riferimento alla prosa. Nel proemio del Physis egli incontra la dea che lo guida con 7 fanciulle
figlie del sole, a scegliere fra la porta del giorno e della notte, attingendo a un’antica conoscenza verso il
vero, celato alla maggior parte degli uomini. Così, dopo aver lasciato la casa della notte verso la luce, egli si
toglie i veli dal capo, allontanandosi dal sentiero della contemplazione del nulla, ossia di ciò che non è.
Se l’essere è, non può che essere. Se l’essere è, non può essere nulla, perché è. Si confermano così i principi
di identità e di non contraddizione, per il quale ogni cosa è se stessa e per il quale è impossibile che una
cosa sia e non sia ciò che è allo stesso tempo. Agli occhi di Parmenide, solo l’essere può essere conosciuto
come unità, senza poter essere scomposto o disgiunto. In questo senso la physis non è la physis, ma
l’essere stesso. La physis è così la manifestazione visibile dell’essere, tenendo sempre presente che il
visibile non può essere reciso dall’invisibile, ed è resa possibile dalla coesistenza di due forze opposte,
positiva e negativa, luce e notte. Il divenire così non è scisso dall’essere, ma è uno con l’essere e non può
esservi differenza. La molteplicità è così giustificata come totalità, come manifestazione dell’uno

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