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IL NEW DEAL, PATEL

Il libro di Kiran Patel tenta un’ampia ricostruzione del periodo


storico che ha fatto seguito alla lunga “Grande Depressione” la quale,
in modo, differenziato ha interessato buona parte del mondo negli
anni trenta del novecento, e che ha determinato risposte con una certa
‘aria di famiglia’. Come recita il sottotitolo il “New Deal” non è stato
solo un insieme di politiche americane, anche se lo slogan è stato
coniato da Roosevelt, ma parte di un assetto politico diversamente
declinato in paesi diversi e che variamente si prolunga nel tempo.
Secondo alcuni fino a Reagan (per altri fino a Johnson).

Strettamente parlando il “New Deal” rooseveltiano fu una specifica


variante della configurazione che prese la reazione alla crisi nella
storia globale. Alcuni caratteri generali della configurazione sono
stati: la tendenza alla introversione; il nazionalismo economico e la
costruzione dello Stato Sociale; l’emergere di forme carismatiche di
leadership. Questi caratteri, comuni ad ogni pacchetto di soluzioni,
dall’Italia fascista alla Germania nazista, alla Unione Sovietica di
Stalin, alla Francia o la Gran Bretagna, si manifestarono nel contesto
di un deciso rallentamento della globalizzazione, e della rottura degli
accordi monetari pregressi.
Contrariamente alla percezione comune, l’insieme di politiche che
porta questo nome furono peraltro ben lontane dall’essere progettate e
coerenti: privilegiarono sempre valutazioni e reazioni a breve termine,
orientate a dare risposta a pressanti bisogni interni, oscillarono,
secondo i momenti e le coalizioni politiche di sostegno, tra il vecchio
laissez-faire[1] e forme, per quanto confuse, di ‘interventismo’[2].

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Ma questa reazione alle esigenze del momento, consolidatosi in
assetti di potere e circuiti amministrativi e produttivi durante la II
Guerra Mondiale[3], diventò di fatto la base sulla quale gli Stati Uniti
affermarono la loro leadership mondiale.

Un altro aspetto: il “New Deal” è strettamente connesso con alcune


condizioni abilitanti. Tra queste spicca la ‘politica migratoria’ che
Roosevelt trova pronta insediandosi e che lascia intatta, anche in
relazione ad un clima generale ad essa favorevole che non sfida: una
decisa chiusura ai flussi migratori esterni.

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Le radici della fase di attivismo introverso che caratterizza il “New
Deal” sono dunque da rintracciare negli imponenti squilibri del boom
precedente, e nelle profonde trasformazioni che il sistema economico
e sociale avevano attraversato durante i ‘ruggenti’ anni venti.
Restando sugli Stati Uniti, gli anni venti li avevano visti ascendere al
rango di nazione moderna per eccellenza, e avevano prodotto una
crescita imponente; ad esempio in due irripetibili anni, tra il 1921 ed il
1923 la produzione industriale era esplosa di un +63%, in otto anni,
fino al 1929 il Pil cresciuto del 50%, la motorizzazione procedeva
spedita, grazie al successo di auto come il modello T della Ford, o alla
diffusione di trattori ed autocarri, ma anche autobus. Poi radio,
frigoriferi, aspirapolvere e ferri da stiro elettrici, presenti nel 60%
delle case americane alla vigilia della crisi.
Inoltre si diffonde anche, in quegli anni, il prestito a rate, in un
contesto di aumento dei salari e di diminuzione dell’orario di lavoro
che determina l’esplosione del turismo, e l’affermazione sia di
Hollywood, sia del grande sport professionistico.

Ma negli stessi anni anche il commercio internazionale continua a


crescere, gli Stati Uniti sviluppano quindi un’enorme eccedenza

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commerciale, soprattutto verso l’Europa, che rispetto al periodo
prebellico si moltiplica per sette e si affermano marchi globali come
la Gilette, Ford, Hoover. Questo squilibrio commerciale determina,
come inevitabile e come avviene anche oggi, una pronunciata
finanziarizzazione e l’accumulo di riserve e debiti. Le eccedenze
commerciali alimentavano infatti la crescita sia di riserve monetarie,
sia di investimenti e prestiti esteri su larga scala. In particolare, i flussi
di prestiti Usa supereranno sempre di oltre cinque volte quelli della
Gran Bretagna, ad indicare una transizione egemonica tra i due, e per
lo più saranno diretti verso l’Europa. Peraltro gli imprenditori
americani, come Ford, non disdegnarono di fare affari con Stalin, o la
GM con il Giappone con il governo che lascia fare.

Una contraddizione è che, malgrado questa pronunciata


interconnessione, gli Stati Uniti non parteciperanno, durante gli anni
venti, alle organizzazioni internazionali e non aderiranno alla Società
delle Nazioni[4], nessun tentativo serio sarà fatto per gestire gli
squilibri, coerentemente con lo spirito del tempo.

L’influenza americana si estese anche ai modelli culturali, estetici, ed


a stili di governo dell’economia, come il taylorismo ed il fordismo.

È in questo contesto che, sulla base di un montante sentimento di


rischio e come probabile effetto delle enormi diseguaglianze che
stavano crescendo nel paese, il “Quota Act” del 1921, ed il successivo
“Immigration Act” del 1924, frenano drasticamente l’immigrazione e
determinano il crollo dei flussi migratori in ingresso dall’Europa ed
altrove, dai 360.000 all’anno del 1923-24 ai 165.000 del 1924-25.
Sulla base di un vasto consenso politico, che dura a lungo, si

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determinò in tal modo l’introduzione di un rigido sistema di quote che
rimase in vigore in pratica fino a che durò il “New Deal” (pur
essendo, appunto, precedente), ovvero fino agli anni sessanta inoltrati.
Le motivazioni di questi dispositivi erano, secondo l’autore, duplici:
pesava l’anticomunismo[5] e anche un indubbio retroterra razzista, in
particolare diretto all’est ed al sud Europa. Bisogna notare che, cito:
“anche i lavoratori erano favorevoli ad un controllo
dell’immigrazione: dal loro punto di vista ciò avrebbe contribuito a
difendere gli interessi della forza lavoro già presente nel paese” (p.
27). Peraltro, come spesso accade, anche gli ex immigrati erano
favorevoli a chiudere i cancelli attraverso i quali erano passati, ad
esempio era favorevole il fondatore e presidente del sindacato
americano (AFL), Samuel Gompers, ebreo immigrato. È evidente che
alle due ragioni addotte da Patel va aggiunta un’altra: l’erosione
insopportabile, in particolare in un’epoca di esibita opulenza delle
élite, delle condizioni di vita e lavoro delle frazioni popolari esposte
alla concorrenza costante dei nuovi flussi migratori[6].
Il filtro non fu comunque totale, la frontiera messicana restò a lungo
permeabile, ma solo per i locali, e ciò portò ad un doppio movimento
migratorio: gli afroamericani dal sud si spostarono al nord, a prendere
i posti che altrimenti erano occupati sistematicamente dai flussi
dall’Europa, e il vuoto fu riempito da nuovi immigrati messicani. In
questo modo l’agricoltura e l’economia del sud potè conservare i
margini di profittabilità, in una fase nella quale faticava ad essere
pienamente coinvolta dall’espansione generale[7], ed al contempo
l’industria del nord in grande espansione usò i bacini interni di forza
lavoro sottoutilizzata, ma politicamente più malleabile e più
controllabile[8], per evitare di dover pagare troppo il lavoro e perdere
il controllo. Un equilibrio instabile e temporaneo, che infatti negli
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anni trenta, man mano che venivano implementate le politiche
interventiste (e l’economia si riprendeva) di Roosevelt si rivoltò,
contro il suo desiderio, in una maggiore conflittualità.

Allargando lo sguardo questa tendenza restrittiva, pur


nell’ambivalenza funzionale, si trovò anche altrove: leggi simili si
riscontrano in Islanda, Norvegia, Russia, Australia, sudamerica (dove
il razzismo era normalmente inferiore). In effetti, gradualmente tutti
cominciarono a considerare l’omogeneità culturale come un requisito
necessario; insomma, l’internazionalismo degli anni venti non aveva
una colorazione cosmopolita.

Si arriva così al ‘giovedì nero’ della borsa di New York. Tredici


milioni di azioni sono vendute (il quadruplo di una normale giornata).
Ma tra ottobre 1929 e aprile 1930 una parte delle perdite viene
recuperata e nell’estate si parla già di ripresa. Dall’altra parte
dell’Atlantico ci furono poche reazioni, la cosa sembrava limitata agli
Usa e neppure così grave. Insomma, il crollo di borsa non fu il fattore
scatenante, e neppure la principale causa, fu molto più un sintomo. Il
sintomo di profonde contraddizioni economiche che si erano nel
tempo accumulate dentro la fase di globalizzazione non gestita (come
quella odierna).

Molte di queste contraddizioni risalgono al modo in cui si chiuse la


prima Guerra Mondiale, in particolare agli enormi debiti e riparazioni
di guerra. Gran Bretagna e Francia erano enormemente indebitate nei
confronti degli Stati Uniti, ma anche i debiti interni, Francia verso
Gran Bretagna e Russia, Italia, Serbia e domini britannici erano
enormemente indebitati. Era in piedi una rete di debiti e crediti che

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pesava come un macigno sull’economia del mondo, con gli Stati Uniti
nel non necessariamente piacevole ruolo di creditore globale. Poi c’è
da considerare l’impatto devastante del Trattato di Versailles, con
riparazioni indeterminate che spianarono la strada al nazismo. Negli
anni venti la Repubblica di Weimar, che era inoltre in deficit
commerciale, accumulò in questo modo il ruolo di maggior debitore
mondiale. La trappola era senza uscita perché i crediti verso Gran
Bretagna e Francia non si mettevano in connessione con i debiti di
guerra tedeschi (perché gli USA non avevano sottoscritto il protocollo
e non lo riconoscevano), e il tutto, pur nominale, contribuiva a tenere
in equilibrio i bilanci.

Quando però, nel 1928, alcuni segni della congiuntura imposero agli
Stati Uniti una politica monetaria più restrittiva il castello iniziò ad
andare a gambe all’aria. La riduzione dei flussi di prestito estero
determinò effetti domino in Europa a causa dei vincoli dei debiti. Fu
una esplosione globale: la Francia dovette dichiarare insolvenza nel
1932, di seguito Belgio, Grecia, Ungheria e Polonia. Nel 1934 diventò
insolvente la Gran Bretagna, mentre in sudamerica il 30% delle
esportazioni pagavano ormai solo gli interessi sul debito (non più
rinnovati da altri prestiti americani).
Purtroppo giunti a quel punto non erano disponibili facili vie di uscita:
se gli Stati Uniti avessero rinunciato ai crediti sarebbe stato un
suicidio, politico ed economico, ma se li avessero tenuti in vita senza
rinnovare i prestiti stringevano in cappio il mondo intero, rinnovare
indefinitivamente i prestiti, amplificandoli, comportava un constante
deflusso di capitale che alla fine non era sostenibile nella dimensione
necessaria. Questa è la conseguenza, in ultima analisi, di una

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situazione di profondo squilibrio commerciale, esasperata dalle spese
di guerra.

Insomma, si tratta del lascito della globalizzazione degli anni tra il


1870 ed il 1920.

Ma questa questione è connessa ad un’altra: il sistema aureo. Un


sistema che dal 1870 aveva garantito la stabilità monetaria era crollato
sotto i colpi della guerra (quando le spese si erano fatte impellenti e
letteralmente questione di vita e morte e non potevano più essere
limitate dalle riserve). Dopo il 1918 si moltiplicarono quindi i
tentativi di ripristinarlo, ma la posizione rivestita dalla Banca
d’Inghilterra prima della guerra non era più disponibile. Il tentativo di
ripristinarlo, sul finire degli anni venti, fu in particolare ostacolato dal
comportamento della Fed, che non lasciava defluire l’oro e lo
tesaurizzava, ma similmente si comportava la Banca di Francia. Alla
fine degli anni venti gli Stati Uniti avevano ormai tesaurizzato il 40%
dell’oro mondiale e questo squilibrio si aggiungeva agli altri.
In queste condizioni il “misticismo dell’oro” fece sì che quando i
flussi di credito si ridussero gli stati in difficoltà fecero ricorso alle
scarse riserve auree e per richiamarle ridussero drasticamente la spesa
interna[9].

Nel 1932 tutto questo si scarica in una drammatica crisi bancaria


europea, che parte dall’Austria e si propaga in Ungheria,
Cecoslovacchia, Romania, Polonia ed infine arriva in Germania[10].
A settembre la crisi porta fuori del sistema aureo la Gran Bretagna e
poi arriva in America, dove i risparmiatori corrono a ritirare i
risparmi. La FED reagisce nell’immediato alzando i tassi di interesse,

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probabilmente per ridurre il deflusso di oro e capitali, ma così facendo
crea una drastica riduzione della massa monetaria e una crisi
industriale.

La terza dimensione della grande crisi è la sofferenza del mondo


agricolo, all’epoca molto importante. le distruzioni della guerra in
Europa provocarono un calo della produttività agricola che indusse
molto paesi ad organizzarsi come fornitori. In Canada raddoppiò la
superficie dedicata a grano, e anche negli Stati Uniti aumentò di
molto. Inoltre furono introdotte le innovazioni tecnologiche della
‘rivoluzione verde’[11]. Ma tutto questo fece crescere enormemente il
debito agricolo (che triplicò negli Usa), e quando la produzione
agricola in Europa si riprese lasciò un’enorme sovrapproduzione e
quindi pressione al ribasso sui prezzi. Seguirono pignoramenti,
fallimenti, che si diffusero in tutto il mondo in un effetto domino.
L’incastro tra finanza, mercati agricoli e materie prime, in condizioni
di mancanza di liquidità e di fiducia, nel crollo del sistema aureo e
della piramide dei debiti, fece saltare completamente il sistema.

È di queste tensioni che è sintomo il crollo del ’29.

Ma gli Usa reagirono a questa catena di eventi e squilibri, in parte


creati dalla crescita impetuosa e disordinata di cui erano stati
protagonisti, attribuendone le cause all’esterno[12] e restringendo
quindi ulteriormente i flussi di prestiti esteri. Lo Smoot-Hawley
Act del 1930 portò a livelli record i dazi doganali e limitò il
commercio, sulla base di una irresistibile pressione che venne dal
Nord-Est industrializzato. Malgrado le resistenze, ed i tentativi
successivi di introdurre negoziati internazionali[13], l’istanza di

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“proteggere la nostra gente” era ormai divenuta centrale. Gli impatti
diretti sugli Stati Uniti furono marginali, ma quelli negativi in Canada,
Cuba, Spagna, si sentirono ed indussero a dazi di rappresaglia.
Progressivamente il mondo si segmentò in blocchi commerciali e
monetari, reciprocamente concorrenti. Tutto accadde molto
velocemente, nell’arco di soli tre anni. Il commercio internazionale
scese al 28% del valore che era nel 1929 in soli sei anni, al 1935.

Contemporaneamente, vale la pena di ricordarlo, l’Unione Sovietica


stava andando a gonfie vele, ed esercitava un notevole fascino. Nel
1931 a molti poteva sembrare che il sistema delle società occidentali
potesse effettivamente crollare.

Insomma, per quasi tutti gli osservatori del tempo la Grande


Depressione non è solo una crisi del lasseiz-faire, ma degli ordini
politici esistenti, nazionali ed internazionali, ed è una crisi dell’ideale
democratico per come si era configurato nel secolo XIX.

A luglio del 1932 Franklin Delano Roosevelt promise dunque, durante


un discorso, un “New Deal”, un “nuovo patto al popolo americano”.
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Lo slogan fu ripreso e coniato come parola d’ordine
dell’amministrazione dalla stampa, e quindi accettato dai ‘new
dealer’. Per parte sua il Presidente parlava piuttosto di “libertà dalla
paura” e “libertà dall’indigenza”, il concetto base che sembrò
emergere dalla sua azione, più che il “patto” (ovvero il
“compromesso”), è stato quello di “sicurezza”. Essenzialmente questo
obiettivo, di rendere le vite più stabili e più sicure, doveva per
Roosevelt essere raggiunto uscendo dall’individualismo che aveva
fallito insieme al laissez-faire.

La triangolazione che crea e costituisce, dunque, il ‘nuovo patto’ è


quella tra isolamento, intervento pubblico nazionale e ricerca della
sicurezza. Si tratta di uno schema che, in risposta a sfide comuni,
viene declinato in buona parte del mondo, anche se in ogni luogo
diversamente e rispondendo, naturalmente, a costellazioni di forze
diverse ed a volte opposte.

Al gennaio 1932, dunque prima delle elezioni e con Hoover


Presidente, di fronte alla crisi che aveva dimensioni enormi, con il
25% di disoccupazione e i prezzi agricoli crollati del 60%, metà della
produzione industriale ferma e due milioni di senzatetto, venne
costituita la Reconstruction Finance Corporation (RFC), società
federale per la ricostruzione del sistema finanziario. L’opera di
rifinanziamento delle banche procedette con qualche successo fino a
che il Congresso, già nel 1932, la obbligò a rendere pubblici i suoi
interventi. A questo punto l’effetto fu invertito: ogni banca che
chiedeva aiuto veniva esposta alla berlina e subiva un assalto agli
sportelli. Quale misura di emergenza molti governatori (il primo nel

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febbraio) chiusero le banche, provocando un effetto a catena che
coinvolse l’intero sistema creditizio della nazione.

Con Roosevelt insediato ad aprile del 1933, e il suo “brain


trust”[14] insediato, a settembre Henry B. Steagall portò
all’approvazione il “Emergency Banking Relief Act”, e dopo tre mesi
il più famoso “Glass-Steagall Act”, che separava le banche d’affari
dalle banche commerciali e attribuiva a queste ultime la garanzia
governativa sui depositi in grado di fermare le ricorrenti ‘corse agli
sportelli’. Completava il pacchetto di stabilizzazione finanziaria
l’introduzione di rigidi controlli valutari.
Il primo polo del triangolo autorafforzante del “New
Deal”, l’isolamento, si presenta dunque come separazione del sistema
bancario dagli scambi internazionali. Anche in questo caso si tratta di
una misura presa in molta parte del mondo.

La stessa cosa viene fatta per i prezzi agricoli, come la Gran Bretagna
anche gli Stati Uniti introducono dazi (Smoot-Hawey) già nel 1932,
durante l’amministrazione Hoover, ma i ‘new dealer’ vanno oltre: con
i prezzi che continuavano a scendere a maggio 1933 fanno approvare
l’Agricoltural Adjustment Act, a seguito del quale il Segretario
all’Agricoltura fissa le quote di commercializzazione di sette prodotti
di larghissima distribuzione[15] per ridurre le scorte e sostenere i
prezzi. Il meccanismo fu la retribuzione alla riduzione della
produzione su base volontaria, e lo strumento la Agricoltural
Adjustment Administration (AAA), un’altra agenzia federale, che
lavorava insieme alla Commodity Credit Corporation, la quale
garantiva il prezzo minimo per i prodotti agricoli. La nascita di questo
pilastro del New Deal, in continuità come molti altri con le azioni

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dell’amministrazione precedente, ma molto più coraggioso, fu deciso
attraverso la consultazione dei rappresentanti degli agricoltori ed
alcuni esperti. Con una procedura tipica dell’azione amministrativa di
Roosevelt furono coinvolti insieme le intelligenze accademiche (e i
tecnici dell’Amministrazione) e i corpi intermedi per filtrare le tante
possibili azioni e scegliere quella da perseguire.
L’azione sull’agricoltura era comunque nella stessa direzione, ma
molto più energica di quella di Hoover, secondo quanto scrive Patel
“intravedeva negli agricoltori dei potenziali elettori che andavano
convinti approvando leggi a loro favore, e contribuiva inoltre a
imporre una nuova idea dell’azione di stato” (p.80). Questa azione,
che coinvolgeva milioni di lavoratori agricoli fu di enorme visibilità
ed importanza, i prezzi non venivano più fissati dal mercato, ma
mediante un intervento politico, inoltre i finanziamenti federali
intervenivano a monte orientando la scelta di cosa produrre e dove. Le
potenti agenzie federali, la USDA e la AAA, crearono direttamente
migliaia di nuovi agenti governativi ed oltre 4.000 Comitati
Provinciali per il controllo della produzione, cosa che comportò la
necessità di gestire in modo tecnicamente adeguato una mole enorme
di dati ed informazioni, conservando una visione razionale e
globale[16].

Parte dell’ispirazione per queste politiche venne dai frequenti viaggi


di studio in Europa di “Zeke” Ezekiel (figura chiave della USDA), o
di Tugwell (vice del Segretario all’Agricoltura), o dell’esperto
forestale Ringland che fu particolarmente colpito dall’esempio
italiano.

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Ma l’intervento del “New Deal” non si limitò ai settori bancario e


agricolo; il settore industriale era stato affrontato nel mondo in modo
differenziato nel mondo[17], ma gli Stati Uniti procedettero ben oltre
la tradizionale (1890) legislazione antitrust. Si trattò di una completa
inversione di rotta, che fu accusata di essere ispirata al fascismo ed al
bolscevitismo: con il National Industrial Recovery Act del giugno
1933 fu avviata la pianificazione economico-finanziaria governativa
nel settore industriale. Concentrandosi sul mercato interno vene
promosso un processo di cartellizzazione di proporzioni epiche e sotto
la supervisione della National Recovery Administration (NRA),
sospendendo le leggi antitrust.
Insomma, dal capitalismo competitivo ed orientato al mercato del
laissez-faire ottocentesco si passava ad una economia amministrata.
La “Aquila Blu” (simbolo della NRA), diretta da Hugh Johnson,
combatteva la “dottrina criminale della competizione selvaggia e
dell’individualismo sfrenato”. La sua azione fu diretta in pochi anni a
creare “codici per la concorrenza leale” in merito a salari minimi,
orari di lavoro massimi, livelli dei prezzi garantiti. Oltre 550 Codici
che influenzarono direttamente le condizioni di lavoro di ventidue
milioni di lavoratori, più altri sedici in base ad accordi separati.

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L’azione della NRA fu vista da alcuni avversari come un
“adattamento in stile americano allo stato corporativo fascista”, e da
altri ancora di più come “essenzialmente fascista”[18].
C’è da dire che l’azione della NRA una qualche forma di
autoritarismo la mise in campo, per orientare alla “cooperazione
spontanea”, guidata dallo Stato, i datori di lavoro. Come ebbe a dire lo
stesso Roosevelt, “se i datori di lavoro di ogni settore si uniscono con
lealtà a queste moderne corporazioni, senza eccezioni, e accettano di
agire insieme e subito, nessuno si farà male”. L’idea era che invece
della concorrenza, che aveva determinato il disordine degli anni venti
e quindi il crollo dei trenta, “i problemi economici andassero risolti
con la trattativa e il comune accordo”.
Una parte del programma fu l’apposizione dello stemma della NRA
su imballaggi e vetrine, con forti pressioni per quelle che non
aderivano, e un’azione di propaganda con raduni di massa, sfilate,
grandi discorsi. Nel 1933 fu organizzata, ad esempio, una sfilata
imponente con 250.000 partecipanti e oltre un milione e mezzo di
spettatori.

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C’è in tutto questo una certa attrazione esplicita verso l’esempio del
corporativismo fascista, anche perché nel 1933 le democrazie
occidentali riconoscono il regime italiano, anche in chiave

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anticomunista. Come dice l’autore “il corporativismo era attraente
perché lasciava intatta la proprietà privata e altri principi fondamentali
del capitalismo, offrendo nello stesso tempo un’alternativa al laissez-
faire” (p.92). Veniva, insomma, garantita stabilità e sicurezza
rispondendo alle esigenze più proprie delle imprese, anzi
garantendone la sopravvivenza e redditività meglio di come alla fine
aveva fatto il welfare state.

Tuttavia, questo clima, anche se orientato a proteggere i profitti


insieme ai lavoratori, creò molto scontento nel mondo
dell’imprenditoria, che si sentiva costretta da un approccio autoritario.
Per alcuni, alla fine, si trattava di una ‘dottrina socialista’. È in questa
sotterranea rivolta che trova radice l’energia che fu messa in campo
successivamente nel rovesciare lo stesso New Deal. Per come la mette
Patel: “la politica conservatrice americana, che avrebbe raggiunto il
suo apice nell’era di Reagan, affonda dunque le sue radici in queste
forme di malcontento nei confronti del nascente ordine del New Deal”
(p.97).
A scontentare il mondo del capitale furono, naturalmente, anche le
nuove leggi fiscali promosse nel 1935. Le cosiddette riforme “spremi
ricco”, attraverso le quali furono elevate le tasse per i grandi redditi,
introdotte nuove imposte di successione, creata una pesante tassazione
per le imprese. Questa offensiva contribuì grandemente a porre
l’eredità storica che sarà utilizzata nel medio periodo per fare
affermare la controrivoluzione reaganiana e il neo-liberalismo. Infine
ebbe un ruolo il Wagner Act (1935) che estendeva notevolmente la
protezione dei lavoratori, facendo perdere alle élite imprenditoriali
buona parte del controllo che fino ad allora avevano avuto saldo.

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Quindi c’è la nuova sicurezza sociale, per la quale l’amministrazione
scelse un modello di tipo assicurativo, che fu implementato
lentamente, ma stabilmente e permanentemente. Un modello capace
di autofinanziarsi e molto vicino al modello tedesco (bismarkiano).

Del resto tutto questo attivismo ottenne effetti limitati; anche la


creazione nel 1933 della National Labor Board, un’agenzia per
gestire le vertenze tra lavoratori ed aziende, non riuscì a risolvere
alcune ambiguità di fondo. La NRA in pratica non sosteneva le
minoranze e le donne, i dipendenti pubblici e i lavoratori marginali; in
particolare i politici del sud, indispensabili per la tenuta della
coalizione politica, riuscirono ad assicurarsi che la spinta a proteggere
il lavoro non trabordasse verso i settori degli afroamericani.
Anche se solo per i lavoratori maschi, bianchi, e dell’industria,
l’azione delle agenzie federali ottenne un qualche miglioramento delle
condizioni di lavoro, scontentando i datori di lavoro, e dei relativi
diritti. Tutto questo non avvenne affatto in condizioni pacificate, un
celebre sciopero dei marittimi sulla West Coast nel 1934 portò a
centinaia di feriti e diversi morti.

Il “New Deal”, inoltre, oltre a non revocare le leggi limitanti


l’immigrazione promosse dall’amministrazione Hoover, la portò in
effetti ai minimi dal XIX secolo, in particolare furono promulgate
misure di tipo razziale, come il “Filipino Rempatriation Act” e venne
chiuso il confine sud. La conseguenza fu notevole: l’applicazione di
questo regime migratorio restrittivo ebbe importanti conseguenze
all’interno del paese. La manodopera agricola statunitense ‘si sbiancò’
notevolmente, in particolare negli stati del sud-ovest. Alcuni
americani trovarono lavoro anche se in genere erano mal pagati” (p.

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228). Si instaurò quello che Patel chiama “un nesso palese tra
l’irrigidimento del confine meridionale degli Stati Uniti e il
programma di politica interna dei New Dealers; l’isolamento
attraverso il restrizionismo e l’intervento dello stato in casa propria di
completavano a vicenda”. Queste politiche furono portate avanti
essenzialmente dal Congresso e si affermarono per ragioni molteplici,
nelle quali aveva luogo il protezionismo economico e la necessità di
fare qualcosa contro la disoccupazione e la crisi, ma anche semplice
xenofobia e, in alcuni casi, razzismo. A contrastare questa
impostazione nativista si spesero antropologi come Franz Boas,
Margaret Mead, Ruth Benedict[19]. Inoltre immigrati illustri di questo
periodo, come l’ex cancelliere tedesco Bruning, Albert Einstein e
Thomas Mann.

Alla fine nel maggio 1935 la Corte suprema dichiarò incompetente la


NRA sulla determinazione delle regole commerciali statali (in un caso
di polli non ispezionati), in questo modo terminò l’azione della più
controversa agenzia del “New Deal”, anche se la sua azione fu sempre
prevalentemente orientata a dare esempi più che a controllare
completamente l’attività industriale e commerciale del paese.
Un’attività che, se condotta fino alle sue estreme conseguenze,
avrebbe distrutto, come il Presidente sapeva bene, il consenso sulle
politiche dell’amministrazione senza, peraltro, essere davvero
possibile[20]. Qui si presenta, in altre parole, quel dilemma davanti al
quale molti anni dopo Mitterrand dirà che “o si è leninisti o non si
riesce a fare davvero qualcosa [con il capitalismo]”.

La creazione diretta di posti di lavoro fu demandata di fatto


alla Public Works Administration (PWA), che promosse con vari

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strumenti direttamente lavori pubblici ad una scala mai vista prima. Il
6% del Pil fu speso in pochissimi anni, superando il totale degli
investimenti privati, in lavori pubblici federali e locali. Oltre 3,3
miliardi di dollari furono spesi in appalti privati.
L’idea che era sottesa a questa ed altre politiche fluttuava, per così
dire, tra un tradizionale e sempre riemergente conservatorismo fiscale,
che frenava le punte più ardite, e la necessità di stimolare l’economia
attraverso gli investimenti, secondo l’idea, non da tutti condivisa[21],
che il problema fondamentale fosse di sottoconsumo.

Alcuni effetti non voluti furono che la concentrazione di fatto


sull’industria delle costruzioni e sulla grande industria all’inizio il
New Deal finì per rafforzare il modello tradizionale del capofamiglia
maschio (bianco), discriminando involontariamente donne e
afroamericani.
Anche il CCC, ad esempio, con il suo programma di campi di lavoro
all’aperto, orientati espressamente a valori conservatori (lavoro fisico,
formazione, stile di vita disciplinato, lontani dai centri abitati) fu
diretto solo a giovani cittadini maschi e bianchi. Si trattò di un
programma rivolto a tenere occupati ed a aumentare l’autostima, al
contempo educando e fornendo professionalizzazione, che fu di fatto
organizzato per ragioni pratiche coinvolgendo i militari, e che aveva
una grande somiglianza con gli analoghi campi fascisti e nazisti (gli
arbestsdienst).[22]

Un altro elemento che accomuna il “New Deal” americano con lo


spirito del tempo è la pianificazione. Tra fattori determinarono, negli

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anni trenta, il grande fascino e successo delle pratiche di
pianificazione dell’economia: la necessità di coordinare azioni
pubbliche condotte ad una scala che non aveva precedenti, il fascino
esercitato dalle applicazioni in corso ed in primo luogo da quelle
sovietiche, la paura del grande crollo attribuito al fallimento del
laissez-faire. In Unione Sovietica il primo piano quinquennale
(1928-32) eliminò la disoccupazione, raddoppiò la produzione di
ghisa ed acciaio, la più grande acciaieria del mondo a Magnitogorsk
fu costruita in quegli anni dal nulla, insieme ad un’intera città.

Secondo il modo nel quale fu vista all’epoca la cosa, in un solo


decennio un paese arretrato e contadino era stato trasformato in una
grande potenza industriale grazie alla pianificazione.

Peraltro anche nei paesi controllati dalle dittature fasciste, Italia e


Germania, la pianificazione aveva spazio, ma in modo meno coerente,

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16:17
per la presenza delle imprese private che non furono mai
completamente poste sotto controllo.
Invece tra i paesi democratici quello nel quale la pianificazione ebbe
maggiore spazio fu la Svezia, governata dai socialdemocratici dal
1932.

Dunque “il controllo diretto dello stato e la pianificazione


continuarono ad essere irregolari per tutti gli anni trenta”.

Negli Stati Uniti fu creata un’agenzia di pianificazione indipendente,


il National Planning Board (NPB), che affiancò le AAA e NRA nella
pianificazione settoriale. Il loro progetto di pianificazione
centralizzata, però, non fu accettato in un primo momento da
Roosevelt, che ragionava molto più a breve termine e voleva una
relazione stretta tra azioni e conseguenze (anche politiche). Del resto
la resistenza del Congresso era insormontabile, e prevaleva l’idea che
la pianificazione fosse in violazione dei diritti individuali e dunque
indebita ingerenza dello stato.

Le forme di pianificazione che si affermarono erano quindi piuttosto


settoriali e portate avanti da una congerie di agenzie diversificate. Un
esempio di pianificazione parziale, o settoriale, fu quella portata
avanti dalla famosa Tennessee Valley Authority, il cui scopo era di
pianificare la navigazione, bonificare le terre e controllare le frequenti
inondazioni, produrre elettricità e fertilizzanti e quindi promuovere lo
sviluppo agricolo. Anche questo era un programma avviato negli anni
venti, ma sottofinanziato e quindi in pratica fermo. Il rilancio del
progetto fu promosso dalla coalizione politica tra democratici locali e

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16:17
repubblicani progressisti, e aveva l’obiettivo di mostrare a tutti che il
capitalismo poteva essere contenuto e canalizzato per il bene comune.

L’insieme dell’intervento produsse effetti notevoli, e divenne uno dei


simboli principali del “New Deal”, insieme alle sue dighe
multifunzionali.

Malgrado questi successi, e l’innovativa comunicazione di Roosevelt,


con il suo uso dei nuovi strumenti di comunicazione di massa[23], il
40% degli americani fu sempre contraria al “New Deal” e nel 1935 la
disoccupazione era ancora molto alta. Ma la sensazione di acuto
pericolo era stata superata.

Un altro elemento caratteristico del New Deal fu la politica della casa,


per risolvere il problema dei senzatetto e soprattutto delle baracche
nelle periferie delle grandi città. Qui, però, la tendenza del sistema a
procedere per compromessi locali e di venire a patti con le forze

22
16:17
dell’impresa creò un cattivo compromesso tra diffusione e qualità
degli immobili (tenuta volutamente bassa per non fare concorrenza
alle case private, e quindi all’industria delle costruzioni) il quale sul
medio periodo compromisero l’autorità dello stato e furono adoperate
come argomento dalla propaganda neoliberale[24].

La politica del New Deal cominciò ad indebolirsi per la perdita dei


voti del sud, ma poi intervenne la guerra. La spesa militare,
travolgendo ogni ostacolo, trasformò definitivamente il paese facendo
anche venire meno il predominio del nord-est che continuava dai
tempi degli anni quaranta del secolo precedente e che aveva
provocato la guerra civile nel 1861. Fu la spesa militare a porre le basi
stabili della prosperità del dopoguerra, e chiamò, secondo molti, il
paese alla leadership globale.

Il “New Deal” è dunque qualcosa di molto complesso e non manca di


lati ambigui e contraddittori, fu tutt’altro che l’applicazione della
razionale teoria messa a punto negli anni venti e trenta da qualche
economista inglese, che fu casomai assorbito e razionalizzato negli
anni successivi[25], si trattò di una somma di politiche settoriali e
reattive, condotte a breve termine e per ‘prova ed errore’ sulla base di
un formidabile intuito politico. Né si trattò di una invenzione, sia pure
trovata lungo la strada, propria degli Stati Uniti, in quanto quasi tutti i
suoi ingredienti erano presenti anche altrove.
A volerla dire in modo semplice si trattò di un sentimento condiviso
di ciò che era urgente fare e di cosa non si voleva più. L’enorme

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16:17
sofferenza diffusa che colpì il mondo e che non si riusciva a risolvere,
a causa del perverso intreccio di problemi che si erano lungamente
accumulati nei decenni di crescita ‘manchesteriana’, chiedeva di
rigettare l’approccio permissivo e prendere la responsabilità di
proteggere le persone e le aziende dalle conseguenze di dinamiche
sulle quali esse non avevano responsabilità alcuna.
È questa spinta morale che indirizzò l’emergere di forme
carismatiche, nella disperazione e nello sconforto del momento, e la
costruzione di uno Stato provvidenziale ad una scala che non si era
mai vista prima (isolamento, intervento pubblico nazionale e ricerca
della sicurezza). L’enorme complessità dei problemi, con il crollo del
sistema monetario internazionale, e l’immane problema dei debiti e
crediti letteralmente impagabili che si erano accumulati, portò ad una
necessaria introversione al fine di proteggersi. Il nazionalismo
economico sfociò nella separazione dei mercati più bisognosi di
protezione dai circuiti internazionali che stavano, del resto,
collassando, è il caso del sistema finanziario (che resterà “represso”
fino a che la svolta neoliberale lo libererà di nuovo, riavviando la
crescita degli squilibri sistemici e dell’accumulazione ineguale) e dei
mercati agricoli.
Ma il “New Deal”, per rispondere al problema enorme della
disoccupazione e del calo dei prezzi e salari, che diffondeva
disperazione e malcontento in tutta la nazione, si sviluppò anche in un
contesto di chiusura radicale ai flussi migratori (anche qui non solo in
America). Ciò provocò imponenti flussi interni di aggiustamento e
con il tempo determinò anche una notevole crescita della conflittualità
nei luoghi di lavoro. Ma quest’ultima portò all’erosione del consenso
verso le politiche in oggetto da parte dei circuiti imprenditoriali.

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16:17
Altri elementi di scontento furono il dirigismo, in particolare della
NRA, le riforme fiscali “spremi ricco” del 1935, il Wagner Act per la
protezione del lavoro, il NLB, la NPB, e la politica della casa.

Nelle contraddizioni del “New Deal”, insomma, affondano le radici


dello scontento che in seguito, esaurita la spinta, riuscirà a coaugularsi
nelle politiche neoliberali (che si avviano ben prima di Reagan) e
nella crisi degli anni settanta.

Così come nelle contraddizioni e nelle ambiguità delle politiche


neoliberali è la radice di quel che ora verrà.

[1] - Ovvero il tradizionale liberalismo “manchesteriano” al quale le élite


politiche ed economiche si erano formate nei primi decenni del secolo.
L’attacco al lasseiz-faire è un tratto comune dell’epoca, persino autori
conservatori, come Wilhelm Ropke o Alexander von Rustov, che saranno
centrali nella costruzione della versione ordoliberale del neoliberismo
europeo, a partire dal Convegno Lippmann del agosto 1938, muoveranno
dalla critica al liberalismo tradizionale, e quindi dall’accettazione di una
maggiore presenza e protagonismo dello Stato. La differenza è che per
persone come Walter Lippmann il liberalismo non è laissez-faire, perché il
regime liberale presume la creazione di un ordine che non è creazione
spontanea e naturale. Durante gli anni trenta solo alcune frazioni,
rappresentate soprattutto da Von Mises e Robbins rifiutavano ancora
l’interventismo, sia pure “liberale”, ed esprimevano una vera e propria fobia
per lo stato, la maggioranza dei conservatori si stavano già orientando verso
la reinvenzione del liberalismo che passerà dopo un paio di decenni, passata
la stagione del New Deal, per “neo-liberale”.
[2] - L’autore sceglie questa parola, negando che ci fosse una specifica teoria
economica, tanto meno keynesiana, almeno nella prima fase degli anni
trenta, ma più la volontà di ‘fare qualcosa’ di fronte ad urgenze.
[3] - Quindi consolidatosi come “sistema militare-industriale” e connessa
amministrazione.

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[4] - Tuttavia le organizzazioni filantropiche americane, potentissime, le
sostennero economicamente.
[5] - Sono gli anni del processo a Sacco e Vanzetti.
[6] - In ogni caso, come avviene anche in questa fase, di uscita da una fase
di apparente laissez-faire (in realtà fortemente regolato, ma a salvaguardia
solo di specifici interessi geopolitici e di classe), lo scontro tra le frazioni di
élite che tenevano una posizione cosmopolita, ad esempio del “New York
Times” che esaltava la “fratellanza di tutti gli esseri umani”, e quelle che
invece promuovevano forme di restrizionismo infuriò a lungo ed
aspramente.
[7] - Ci fu una breve stagione di espansione, provocata dalle difficoltà di
approvvigionamento dell’Europa, per effetto delle distruzioni belliche, ma
rapidamente saturata con effetti nel tempo devastanti sui prezzi che diremo.
Questa è una delle dimensioni dove, in misura maggiore si misura l’effetto
sia del mancato coordinamento internazionale, sia del lasseiz-faire interno.
[8] - Cosa che cesserà negli anni sessanta, quando, come ebbe a dire
Malcom X, la violenza tornò a casa.
[9] - Fino a che il sistema aureo era in piedi l’emissione di nuova moneta
richiedeva l’impegno di riserve auree, che, però, andavano usate per i debiti
esteri e non ne restava per l’espansione monetaria interna, in condizioni di
restrizione monetaria i prezzi calano, ed il clima deflazionario determina
espansione dei debiti interni e disincentivo agli investimenti. Secondo un
meccanismo diverso è quel che sta accadendo anche adesso.
[10] - Provocando il drammatico incrudimento delle politiche deflazionarie
che saranno la causa immediata della vittoria di Hitler.
[11] - Meccanizzazione e fertilizzazione, in parte a causa di alcune scoperte
tecnologiche e di nuovi processi produttivi che erano stati introdotti in
quegli anni e che nella prima metà del secolo porteranno ad una enorme
crescita della produttività agricola. La crescita della produttività ebbe effetti
sui prezzi, ma anche sul lavoro agricolo, che ora richiedeva molto meno
manodopera, e quindi espulse milioni di persone che andavano occupate.
[12] - Dichiarazioni di Hoover a dicembre 1930, riportate a pag. 46.
[13] - Una legge del ’32, che li richiedeva, fu bloccata dal veto
presidenziale.
[14] - Si trattava di un piccolo gruppo di consiglieri: Rexford Tugwellm
Raymond Moley, Adolf Berle della Columbia University, il giudice Samuel
Roseman, e Felix Frankfurter di Harvard.
[15] - Trai quali il grano, il mais, la carne di maiale ed il latte.
[16] - Il “New Deal” è anche il banco di prova di alcune nuove tecnologie,
come le schede perforate, che furono implementate ad una scala mai vista

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per costruire sistemi di accumulo e gestione dell’informazione e la base di
una gestione tecnocratica che poi durante la guerra si tramuterà in una
pianificazione generalizzata.
[17] - La Gran Bretagna sostenne alcuni settori e non altri, la Francia
promosse una “cartellizzazione”, ma con qualche timidezza, la Germania
mise in piedi una vera e propria economia di comando con pronunciata
creazione di cartelli e monopoli, il Giappone cercò di andargli dietro.
[18] - Come si trovò a dire Montague, esperto di antitrust.
[19] - In particolare questi pubblicò nel 1934 “Modelli di cultura” nel
quale, mettendo a confronto Zuni, Dobu e Kwakiutl, mostra come la cultura,
una sorta di personalità comune, crei gli individui e non viceversa.
[20] - Gli uffici erano travolti da centinaia di migliaia di segnalazioni di
violazioni, malgrado l’assunzione di un vero e proprio esercito di funzionari
per le verifiche nessuno allo stato della tecnica dell’epoca poteva tenere
dietro e perseguire ogni caso. Inoltre se lo avesse fatto avrebbe coalizzato
contro l’Agenzia l’intero paese.
[21] - Ad esempio non dal Presidente.
[22] - A questo scopo furono anche espressamente studiati dagli esperti del
new deal americano.
[23] - Una delle caratteristiche della gestione carismatica del consenso di
Franklin D. Roosevelt fu l’uso della radio, nelle famose “chiacchierate dal
caminetto”, per dare la sensazione di un rapporto diretto e personale, per
quanto paternalistico.
[24] - Ad esempio questo è uno degli argomenti ricorrenti di Milton
Friedman.
[25] - Al contempo deformato e neutralizzato nelle parti più radicali.

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La grande depressione che venne avviata nel 1929 dal crollo della borsa di New York
e che sconvolse in profondità la società statunitense, creando enormi masse di
disoccupati, di senzatetto, di sbandati, si propagò rapidamente come un’onda
tellurica, peggiorando ovunque le condizioni di vita e producendo devastanti
contraccolpi politici, come in Germania, dove fu uno dei fattori che condussero
all’instaurarsi del regime nazista. Soprattutto, questa sorta di tsunami planetario finì
per offuscare quel concetto-base della modernità che era stato il progresso: l’idea che
il futuro sarebbe stato migliore del presente, proprio come il presente era stato
migliore del passato.

La società americana seppe tuttavia reagire grazie a una politica di interventi statali
promossa a partire dal 1932 dal presidente Franklin Delano Roosevelt, una vicenda
ora ripercorsa nell’importante volume dello storico anglo-tedesco Kiran Klaus Patel,
appena uscito da Einaudi con il titolo Il New Deal Una storia globale dove si dimostra

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16:17
come alle spalle ci fosse una congiuntura mondiale più che costanti inscritte nella
storia americana.

Esempio degli agricoltori


Giustamente celebrato per aver costituito l’unica vera risposta democratica alla crisi, il New

Deal appare dalle pagine di Patel non un’eccezione, ma una variante nel ventaglio delle

politiche di intervento adottate dai vari governi dell’epoca. Questo non vuol dire sminuire il

valore di un’esperienza che Roosevelt seppe tenere ben all’interno del sistema liberal-

democratico, ma sottolineare similitudini e differenze delle strategie promosse dai New

Dealers non solo con quelle attuate da regimi socialdemocratici nel Nord Europa – la Svezia

divenne presto un mito, prima negli Usa e poi nel mondo – ma anche con quelle messe in

capo dai regimi autoritari e/o totalitari in Germania, nell’Unione Sovietica e in Italia.


Una strada davvero originale fu intrapresa, per fare un esempio, nel dare sostegno agli

agricoltori, penalizzati dall’eccesso di produzione, punto nodale della crisi. Malgrado una

conferenza economica internazionale avesse già nel 1927 segnalato ai governi come la

soluzione al problema delle eccedenze non consistesse in un aumento delle tariffe, la

risposta generale fu proprio quella del protezionismo agrario.

Se le dittature puntarono sull’autarchia agricola (il fascismo ad esempio aveva già sviluppato

da anni la sua «battaglia del grano») anche paesi liberal-democratici come l’Australia, si

acconciarono a puntare sull’autosufficienza, lanciando nel 1930 la campagna Grow more

wheat, produci più grano. Anche Roosevelt seguì il generale orientamento protezionista, ma

poi, una volta erette le barriere dei dazi, scelse «una strada nuova e inesplorata», quella di

sovvenzionare i produttori che avessero accettato di cessare la produzione e di eliminare il

bestiame in eccesso.

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Anche sull’altro fronte sensibile della crisi, quello della crisi bancaria indotta dal problema dei

debiti internazionali e dal tracollo del sistema aureo internazionale, la soluzione statunitense,

quella dell’universalizzazione dell’intervento statale, ebbe precisi paralleli nelle esperienze di

altre parti del mondo. Più in generale fu comune la tendenza a puntare su un massiccio

intervento pubblico, che prese forme diverse – un arco di misure che vanno dall’intervento

emergenziale della mano pubblica ai piani quinquennali staliniani e quadriennali nazisti – ma

che comportarono in ogni caso lo stravolgimento delle regole classiche dell’economia di

mercato. Nel campo delle politiche industriali, ad esempio, gli Stati Uniti realizzarono

un’inversione di rotta completa rispetto all’epoca precedente, caratterizzata dal liberismo e

dalla legislazione anti-trust. Con gli anni Trenta si affermava invece una nuova tendenza alla

istituzionalizzazione dei cartelle e alla partecipazione pubblica al sistema industriale;

un’osmosi ben rappresentata dal simbolo della Nra (National Recovery Administration)

l’agenzia statale dedita al salvataggio aziendale: un’aquila blu che artiglia con la sua zampa

una ruota (l’industria) e con l’altra una saetta (il potere). Ancora una volta le esperienze

messe in campo dal fascismo (dall’Iri all’Eni) furono assai simili, come Mussolini non mancò

di far notare: Roosevelt stesso, del resto, e molti New Dealers con lui, rivolsero uno sguardo

attento, e in privato condiscendente, verso le esperienze fasciste, almeno fino al 1935;

anche le strategie di welfare naziste vennero attentamente scrutinate e il piano statunitense

per l’impiego della gioventù, ad esempio, aveva notevoli punti di contatto con

l’Arbeitsdienst tedesco.

La strategia di Roosevelt fu insomma assai abile: da un lato venne incontro alle esigenze di

protezione espresse dal corpo sociale, isolando l’economia americana per evitare fenomeni

di contagio depressivo, mentre dall’altro lato attivò una serie di agenzie finalizzate a

eseguire lavori pubblici, a lenire la disoccupazione, a costruire residenze popolari, e a

spostare la lotta al crimine su un piano federale, con il rafforzamento del Fbi. Distante da

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qualunque tentazione autoritaria, Roosevelt era convinto, come affermò nel 1936, che quella

intrapresa con successo in America fosse ben più di una guerra contro la povertà,

l’indigenza e la depressione economica: «È una guerra per la sopravvivenza della

democrazia».


Valendosi di un accorto uso della propaganda, specie radiofonica, Roosevelt fece fronte alla

disabilità che gli impediva quella teatralizzazione gestuale tipica degli oratori del suo tempo,

e inventò un nuovo format, quello delle «fireside chats» radiofoniche, che gli garantirono uno

straordinario rapporto empatico con gli americani e, di conseguenza, ben quattro rielezioni

successive.

Concentrata a lungo sui problemi interni, la sua politica si avvantaggiò di una generazione di

tecnici che affrontarono i problemi sociali con competenza e puntiglio: da esperienze come

quella della Tva (Tennessee Valley Authority) venne un impulso straordinario a

razionalizzare ed affrontare i problemi del sottosviluppo. Fu la «rivoluzione dei

temperamatite», condotta da una leva di giovani tecnici-manager che, dopo la fine della

seconda guerra mondale, si sarebbe diffusa negli organismi internazionali.

La sintesi di Isaiah Berlin


Intanto però, a partire dal 1938, Roosevelt si impegnò a far capire agli americani che

l’isolazionismo e il neutralismo di fronte alla minaccia nazista non potevano più durare e la

priorità che egli stesso aveva dato ai problemi interni e che i suoi avversari continuavano a

pretendere, coniando quello slogan America first! recentemente ripreso da Trump, non era

più difendibile. La guerra poi, ci mostra Patel, completò davvero il New Deal, non solo

perché mise fine alla depressione economica ma anche perché legittimò e normalizzò

definitivamente l’intervento statale in campo economico. Più tardi, negli anni Cinquanta,

Isaiah Berlin avrebbe guardando retrospettivamente all’esperienza del New Deal scrivendo

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16:17
che essa fu l’unica luce nell’oscurità, capace, in un momento di debolezza e di disperazione

del mondo democratico, di infondere forza e fiducia.

———————————————————-

Franklin Delano Roosevelt, ricorda Kiran Klaus Patel in apertura del suo recente Il
New Deal. Una storia globale (Einaudi, pp. 531, euro 34), non amava volare. E quando
parlava del New Deal, aggiunge lo storico tedesco-britannico di origine indiana, non
dimenticava mai di sottolineare «qui in America», come se i problemi del resto del
mondo fossero sostanzialmente diversi.

D’altra parte, la Depressione ridusse notevolmente le possibilità degli Americani di
viaggiare per il mondo, mentre alle restrittive politiche migratorie adottate negli «anni
ruggenti» si sovrapponeva una nuova forte ventata isolazionista, o comunque
unilateralista. Il che non toglie tuttavia che questa importante stagione di riforme
d’oltre Atlantico si inserisca nel quadro mosso e ibrido della storia transnazionale e
globale: quadro che Patel prova a restituire, smentendo una sua presunta natura
endogena ed eccezionalista. E scoprendo dunque – ma invero già un po’ lo
sapevamo, se solo avevamo letto i lavori di storia comparata sul tema di Maurizio
Vaudagna, Hans-Jurgen Puhle, Ira Katznelson, Danielo T. Rodgers e Wolfgang
Schivelbusch – che quella stagione non poco doveva all’interazione, diretta e
indiretta, con innumerevoli attori sparsi fuori degli Usa.

TOUR DE FORCE condotto in larga parte su una vasta letteratura secondaria intorno alle

risposte alla Grande crisi in almeno sette lingue, il lavoro si segnala anche per una felice

qualità di scrittura, che consente al lettore di muoversi con una certa disinvoltura fra le volute

di un tomo non esattamente da comodino, in mezzo a continui e affascinanti rovesciamenti

di scenario geografico, in una marea di vicende politiche ed economiche per la prima volta

riconsegnate alla trama mondiale alla quale appartengono.


Nato, come ricorda Patel nella premessa all’edizione italiana, negli anni immediatamente

precedenti l’inizio del mandato di Donald Trump, il libro, dice l’autore, risulta oggi se

possibile ancora più tempestivo, vista l’esigenza impellente di «ricordare quest’altra America

del New Deal», ma senza tentazioni compiaciute e narcisistiche. Piuttosto con l’intenzione di

mostrare «quanto sia stato importante il New Deal per la storia del mondo, ma anche quanto

lo sia stato il mondo per la storia del New Deal».

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Due le tesi chiave del volume. La prima è appunto che, se paragonate a quelle di altri paesi

industriali, anziché un’eccezione, le risposte economiche e politiche alla crisi date dai new

dealers appaiono spesso sospese fra due estremi presenti sulla scena internazionale.


Ad esempio, rispetto al dilemma cruciale laissez faire-interventismo, in realtà, secondo

Patel, gli Stati Uniti non scelsero davvero né l’una né l’altra soluzione. Le loro politiche

concrete gravitarono per lo più intorno a una forma moderata di intervento e mobilitazione

dello stato federale, spesso contraddicendosi, fra battute d’arresto e fallimenti che non ne

impedirono lo sviluppo. Furono il frutto di una continua sperimentazione e della disponibilità

a guardare con curiosità e pragmatismo alle pratiche internazionali più diverse, dalla Svezia

socialdemocratica alla stessa Italia fascista.

SE DUNQUE Roosevelt non amava volare, molto si muoveva, però, grazie agli scambi

intessuti da lui e dai suoi collaboratori, fisicamente e virtualmente, dentro e fuori

dell’emisfero occidentale. Tanto da indurre Mussolini, alla luce delle simiglianze, reali e

presunte, fra la National Recovery Administration e l’Istituto per la Riconversione Industriale

a rivendicare impettito che «l’atmosfera nella quale tutto il sistema dottrinario e pratico» del

New Deal «si muove è certamente affine a quella del fascismo». Salvo dimenticare

naturalmente che il New Deal restava saldamente ancorato entro i binari della

liberaldemocrazia, nonostante le accuse, alternativamente, di fascismo e bolscevismo, che

gli giungevano, rispettivamente, da sinistra e da destra.

AL TEMPO STESSO, dagli anni Quaranta i metodi di indagine sviluppati e perfezionati negli

Stati Uniti su questioni come la sicurezza e lo stato sociale, divennero un punto di

riferimento in chiave modernizzatrice per l’America Latina e l’Asia. E così si passa alla

seconda tesi di Patel. Che, cioè, la risposta apparentemente «nazionale» del New Deal

costituì al contrario il requisito essenziale e l’impalcatura istituzionale della costruzione di

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16:17
un’egemonia globale in cui, scrive l’autore, «alcuni critici hanno intravisto un nuovo impero

mondiale». E qui la brillante carrellata di Patel mostra decisamente la corda, adombrando

processi di diffusione del modello che tendono a sottovalutare la natura egemonica e di

potere del rapporto Usa-mondo.

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Il libro “Il New Deal. Una storia globale”, di Kiran Klaus Patel (Einaudi, 2018), lo annuncia il
titolo, si propone come una novità negli studi di quel periodo della storia americana, per il
suo sforzo di privilegiare le connessioni e le somiglianze con la storia di tanti paesi del
mondo (non solo i maggiori paesi europei, che pure compaiono di frequente, ma una varietà
di popoli e di continenti, dall’America Latina all’Australia, dall’India al Canada). Le
somiglianze mostrano in particolare come quell’epoca si venisse caratterizzando per
molteplici tentativi di addomesticare la crisi del capitalismo con una nuova intraprendenza
degli Stati, in particolare sui terreni dell’agricoltura e della previdenza sociale. Le
connessioni mettono soprattutto in evidenza come quel mondo tutto intero continuasse a
pagare un prezzo enorme alla Grande Guerra – il nodo dei debiti e dei nuovi prestiti, a cui,
nel corso degli anni ’30, si aggiunse la presa d’atto della connessa ingestibilità della parità
aurea, e la caduta spettacolare del commercio globale.
Se questo approccio produce una sterminata ricchezza di notizie e riferimenti, non
sono molto sicuro che, almeno per quello che riguarda le somiglianze delle politiche
sociali, produca sempre una comprensione più profonda della storia americana. Ma
su questo aspetto tornerò subito. Invece è fondamentale la comprensione che la
storia di quegli anni fosse segnata da una prosecuzione in altre forme del collasso
della globalità che era esploso con il conflitto mondiale. Il progressismo delle
politiche nazionali, almeno di quella americana, inteso come nuovo primato dei
governi, non si affermò nel contesto di processi di riglobalizzazione; al contrario si
accompagnò ad una battuta di arresto e a una inversione di quei processi: una
divaricazione enorme con il periodo degli inizi del secolo, ed anche con i tentativi
degli anni ’20 di tornare su quel sentiero. In un certo senso, quel progressismo
marciò all’insegna della America First: i newdealers lanciarono la loro scommessa
democratica ma, al tempo stesso, non fecero niente per assumere il ruolo di
riformatori degli equilibri globali.

In effetti, se si vogliono approfondire le ragioni di quella svolta progressista e del suo


permanenere nella memoria collettiva degli americani, questa prima distonia è da
tenere a mente: quel mondo non era affatto caratterizzato da “internazionalismo” (il
termine che allora si usava negli Stati Uniti, in opposizione all’ “isolazionismo” e,
negli anni successivi, a “neutralisno”). Gli americani, non furono solo la principale
fonte di prestiti concessi durante la guerra, lo furono anche dopo la guerra, prestiti
che servivano agli altri paesi – in primis al Regno Unito – per far crescere le
esportazioni e con quelle ripagare lentamente i debiti. Ma questa macchinosa catena
era agli sgoccioli: ad esempio, la gomma che gli inglesi producevano in India e che
riforniva materia prima per i pneumatici delle automobili Ford, esportata come
forma di pagamento dei debiti, non bastava più. Sia perché la politica monetaria

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internazionale andava verso un completo dissesto, sia perché gli americani
operavano in modo contraddittorio, erano generosi nei prestiti ma irremovibili alla
ristrutturazione di debiti e intraprendenti nel favorire le proprie produzioni (si
costruivano nel mondo le loro industrie della gomma, come fecero comprandosi una
immensa piantagione in Liberia).

Il New Deal nacque in questo contesto di ripiegamento nazionale, che divenne


clamoroso quando vari paesi cominciarono a dichiararsi insolventi rispetto al debito,
Germania compresa. E gli Stati Uniti ci aggiunsero del proprio. Nel giugno del 1933 i
rappresentanti di sessantacinque paesi si riunirono a Londra “coll’obbiettivo di
organizzare la lotta contro la depressione globale”. Roosevelt non amava gli aerei, e si
limitò ad inviare un messaggio mentre era a pesca sul suo yacht, messaggio che fece
telegrafare dall’incrociatore Indianapolis, che si trovava nei pressi. C’era scritto: “un
sistema economico solido è molto più determinante nello stato di salute di un paese
di quanto lo sia il prezzo della valuta nel modificare i termini della valute degli altri
paesi”. Difficilmente poteva essere più chiaro:  per applicarsi ai grandi cambiamenti
che aveva in mente per la società americana, gli Stati Uniti non avevano bisogno di
disperdere il consenso nel tentativo di trovare un equilibrio al traballante ordine
economico internazionale. Ma, poiché erano gli unici a poterlo fare, praticamente
partì dall’Indianapolis quella che Patel definisce una bomba: ironia della sorte, dallo
stesso incrociatore che dodici anni dopo avrebbe trasportato la prima bomba atomica
mai usata in una guerra. Negli stessi giorni a Ginevra era in corso una conferenza
internazionale per il disarmo: Germania e Giappone interpretarono la rinuncia alla
azione da parte di Roosevelt come un “liberi tutti”. In sostanza, il New Deal mosse i
suoi primi passi sguarnendo il fronte di una estrema e forse ormai disperata
composizione degli squilibri del mondo.

Quindi il collasso dei mercati azionari, il “Giovedì nero” di Wall Street del 1929, non
fu la ragione principale della crisi: semmai ne fu il “sintomo e il simbolo”. Oltre al
venire a maturazione del collasso della situazione dei debiti e del gold standard, una
terza causa reale della Depressione fu la crisi di sovraproduzione della agricoltura.
Anche in questo caso il grande squilibrio era nato con la guerra: “il conflitto
mondiale distrusse vaste aree agricole e privò le popolazioni delle tradizionali linee di
approvvigionamento. In Francia, Germania e Austria … la produzione diminuì di un
terzo e in certe regioni, come … le Fiandre, si smise di produrre carne e grano.” Negli
anni dal 1924 al 1929 gli Stati Uniti e il Canada alimentarono il mondo postbellico, i
primi con un accrescimento di nove milioni di acri della superficie coltivabile, i
secondi con un raddoppio della superfice, rispetto al decennio precedente alla
guerra. Questo sforzo ebbe un prezzo: il debito nella agricoltura americana, il debito
dei contadini per acquistare nuova terra e trattori, passò dai 3,3 miliardi di dollari
nel 1910 a 9,4 miliardi nel 1925. Ma sulla fine degli anni ’20 il fabbisogno di
esportazioni americane si ridusse e i prezzi si abbassarono, sino al crollo del 1929. Il
rimedio obbligato era quello di sussidi che compensassero la riduzione volontaria
delle superfici coltivate.

Fa dunque impressione che a questo pessimismo sulla condizione del mondo si


affiancasse un combattente volontarismo riformistico nella politica nazionale. In uno
stupendo libro ormai antico, la “Storia popolare degli Stati Uniti” di Leo Huberman
(edizione italiana, Einaudi, 1977), scritto nel 1947 riadattando un testo originario di

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storia per ragazzi del 1932, quell’intellettuale della sinistra marxista americana – in
seguito fondatore della Monthly Review assieme a Paul M. Sweezy – si chiedeva se il
New Deal fosse stato una rivoluzione, e rispondeva che non era stato una rivoluzione
dell’economia, ma certamente una rivoluzione delle idee. Si stenta a capire in quale
misura, se non ci si sofferma sulla drammaticità della Grande Depressione, che per
varie ragioni fu in America non più lunga, ma più esplosiva e intensa che negli altri
paesi.

Forse un’idea più precisa ci viene fornita proprio dai “discorsi al caminetto” di
Roosevelt di quegli anni. L’Europa era precipitata in una crisi generale già nel 1919, e
il paesaggio era ancora spesso quello delle distruzioni belliche; invece gli anni ’20
avevano spinto in alto gli Stati Uniti. Ma allorché quel primato andò in pezzi, quando
Roosevelt disse alla radio “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura
stessa”, parlava ad un paese con 14 milioni di persone senza lavoro, in cifre assolute e
in percentuale superiori a qualsiasi altro paese, pari alla popolazione del Regno
Unito. Un paese nel quale le banche avevano chiuso i battenti: ne fallirono in breve
tempo 10.000 su 25.000. Un paese nel quale, come disse in un discorso successivo
“Vedo un terzo della nazione male alloggiata, mal vestita e mal nutrita …” A Detroit,
Michigan, “una zona di slums di cinquanta isolati rivela una criminalità sette volte e
mezza superiore alla media cittadina … e un tasso di rubercolosi superiore sei volte e
mezza alla media cittadina”. A New York “… nei casamenti popolari tre quarti dei
bambini erano affetti da rachitismo”. E, nelle zone rurali, “le condizioni delle
abitazioni erano peggiori che nelle città”. In sintesi, la svolta del New Deal si applicò
ad una nazione piombata in poco tempo al punto più basso dopo una ubriacatura di
speranze. Scrisse lo storico Arnold J. Toynbee che nel 1931 “uomini e donne …
contemplavano sul serio e discutevano in maniera esplicita l’eventualità che il
sistema delle società occidentali crollasse e smettesse di funzionare”.

In che senso, dunque, una “rivoluzione dell idee”? Forse, un’immagine utile potrebbe
essere la seguente: il capitalismo delle bolle, del lassaiz faire, della più recente età
dorata, aveva mostrato di non essere ormai più capace di aderire alla società reale,
che per tanti aspetti si avvitava su se stessa, come un giocoliere di un circo che perda
d’un tratto il controllo dei tanti oggetti che tiene in movimento. Occorreva che il
Governo Federale fosse protagonista di un nuovo progetto di controllo sociale;
semplice nelle sue finalità – “rimettere al lavoro, alloggiare, vestire e nutrire” – ma
vastissimo nel suo campo di sperimentazione e, soprattutto, inedito.

Il New Deal ebbe molti detrattori ed avversari, eppure – a leggere le tante storie di
quegli anni – abbastanza inefficaci. Non si scontrarono due progetti, l’ideologia di
una crisi “purificatrice” alla Hayek non produsse una alternativa nel governo di
quegli anni. E il Governo Federale, superando di un balzo anche le resistenze della
tradizionale diffidenza sul ruolo dello Stato centrale, si applicò agli esperimenti in
teoria più audaci.

Assicurò i depositi in banca nel contesto di una riforma complessiva del sistema
bancario (la legge Glass-Steagall del 1933), che servì in un tempo ragionevolmente
breve ad uscire dalla spaventosa crisi di un sistema di piccoli istituti disposti a grandi
rischi.

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Riversò nella agricoltura americana – per effetto della legge sull’Agricoltural
Adjustment – un’enorme burocrazia di migliaia di agenti governativi che aiutavano
gli agricoltori a definire “la dimensione delle terre, l’impostazione dei prezzi,
l’assegnazione delle superfici coltivabili per ciascun coltivatore, il sostegno al
credito”. In pratica, il Governo Federale impiegò “circa sei mila addetti agricoli e
trenta mila volontari” solo per convincere più di un milione di agricoltori ad adottare
nuovi programmi per il grano. Patel, nel suo libro, mostra come esperimenti simili si
ebbero anche altrove, anche se i propositi ‘autarchici’ nelle dittature non si
misurarono con gli obbiettivi di una diversa razionalità e di una restrizione delle
superfici coltivabili. Anziché la retorica della razionalità programmatica, in quei casi
si finì nella retorica dello ‘spazio vitale’ e delle avventure coloniali.

Nel settore industriale – nel periodo tra il 1929 e il 1933 si era verificato un crollo di
circa il 50 per cento della produzione manifatturiera – si operò con la Legge per la
Ripresa dell’Industria Nazionale (NIRA). Sotto la supervisione di una agenzia
nazionale (la NRA) fu introdotto un processo molto vasto di “cartellizzazione”: in
pratica in vari settori si concordarono “codici per la concorrenza leale” che
includevano i salari minimi, gli orari di lavoro massimi e i livelli dei prezzi dei
prodotti. I benefici che ne derivavano ai partecipanti, consentirono accordi per ben
550 codici.

Probabilmente, l’effetto di programmazione pubblica fu minore e certamente più


contrastato rispetto al settore agricolo, ma l’obbligatorietà delle intese su materie
fondamentalmente sindacali come salari e orari, contribuì a facilitare un ruolo
inedito dei sindacati, cosicché la percentuale dei lavoratori sindacalizzati passò dal 5
per cento del 1933 al 22 per cento del 1945. Del resto, lo schema consensuale non
impedì un notevole sviluppo delle lotte sociali, dai 320 milia scioperanti nel 1932 si
arrivò a un milione e 470 mila nel 1934. Va detto che questi grandi mutamenti nella
cultura politica nazionale avvenivano su un terreno denso di contrasti; ad esempio,
nel 1935 la Corte Suprema bloccò le aspirazioni dirigistiche della NRA, dichiarandola
incostituzionale.

Ma il sostegno del New Deal all’industria e l’impegno contro la disoccupazione operò


con una congerie di altri strumenti, che spesso ebbero una esistenza temporanea. Fu
il caso della Amministrazione dei Lavori Pubblici (PWA), che ricevette una dotazione
iniziale di 3,3 miliardi di dollari (si pensi che nello stesso anno, il 1933, il totale degli
investimenti privati negli Stati Uniti fu pari a 3 miliardi di dollari). Con i soldi della
PWA venne creata la Amministrazione per il Lavoro Sociale (CWA), che a gennaio
del 1934 aveva messo al lavoro 4,2 milioni di americani. Poi esisteva la
Amministrazione Federale per la Mitigazione dell’Emergenza (FERA), che concedeva
prestiti agli Stati per la gestione di programmi di assistenza, che a sua volta creò la
più grande agenzia del New Deal – l’Agenzia per l’Avanzamento dei Lavori Pubblici
(WPA) – che tra il 1935 e il 1943 creò 8 milioni di posti di lavoro.

Si deve notare che questa estrema prolificità nella invenzione di strumenti avveniva
nel contesto di una grande ritardo di politiche assistenziali, almeno rispetto a varie
esperienze europee. Con essa, dunque, gradualmente si riempiva quel vuoto, con un
approccio che non si concentrava nel fornire sussidi monetari. Si mettevano, invece,
in campo strumenti di gestione di programmi operativi, che di solito si basavano

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sulla collaborazione tra Governo Federale e Stati, allo scopo di “mettere al lavoro”
anche provvisoriamente la popolazione disoccupata. Non deve essere stato
irrilevante, come conseguenza di questa vasta sperimentazione, che lo Stato Federale
– tradizionalmente ai margini delle politiche attive – finisse con l’occupare, o almeno
con il promuovere, un vastissimo campo di attività. Assistere, creare opportunità
anche temporanee, difendere il ruolo dei sindacati, sprigionare un attivismo senza
precedenti del Governo Federale, divennero i capisaldi di una esperienza
istituzionale che innovava nel profondo la cultura politica. Senza mettere in
discussione, ed anzi temporaneamente accentuando, l’isolamento americano, si
produssero delle novità sostanziali che avrebbero consentito, alla fine, di convincere
abbastanza agevolmente il popolo americano a entrare in guerra contro il
nazifascismo.

Del resto, molto altro si dovrebbe aggiungere. Nel mentre, in questa recensione, mi
faccio prendere dalla curiosità per vari aspetti particolari interessanti, mi rendo
anche conto delle squilibrio che si determina nel trascurare altri interi capitoli. Ad
esempio, l’esperienza della Tennessee Valley Authority che, partita nel 1933,
accompagnò l’intero periodo del New Deal con una vastissimo proposito di
elettrificazione, regimazione idraulica e sostegno alla agricoltura che interessava
sette Stati americani sul bacino del fiume Tennesse. La TVA è arrivata sino ad oggi
come la più grande azienda pubblica nel settore energetico, con 9 milioni di utenti.
Un esempio gigantesco di un tentativo di ‘modellazione’ del territorio, che conferma
come il New Deal non si fermò affatto dinanzi ad una scolastica delimitazione tra
poteri federali e poteri degli Stati, giocando invece la carta della collaborazione tra
tutte le istituzioni, in quel caso senza provocare la censura della Corte Suprema.
Nello stesso modo, molto più in piccolo, si collaborò a progetti urbanistici di
rimodellamento delle aree suburbane. Pagine di grande interesse sono anche quelle
che descrivono le iniziative che furono sviluppate per incentivare la cooperazione di
consumo o l’edilizia popolare, dove non mancarono esperienze, anche se il tratto
distintivo fu forse quello di non esporsi troppo ai pregiudizi ostili nei confronti di
politiche che si prestavano alla obiezione di un eccesso di “socialismo”. Non si deve
dimenticare, in effetti, che il dilagare della esperienza newdealista comunque doveva
misurarsi con la resistenza di posizioni conservatrici, che ad esempio limitarono
fortemente le innovazioni favorevoli alla popolazione di colore negli Stati del Sud.

Eppure, come ho detto, dopo un vasto esame di queste reazioni della varie nazioni
del mondo alla Depressione, si resta un po’ con la sensazione che quella miniera di
informazioni, nel libro di Patel, non aiuti sempre a chiarire la natura specifica della
esperienza americana.  È inevitabile che, nel riflettere sulla storia di quella cultura
politica, si abbiano in mente le vicende odierne, spesso intraducibili nella esperienza
storica europea; si pensi al gigantesco taglio delle tasse sulle società e sui più ricchi
del 2017, oppure si pensi ai tentativi molteplici di sottrarre l’assistenza sanitaria –
anche con incredibili sabotaggi della riforma di Obama – a 20 milioni di americani.
L’intera esperienza della Presidenza di Trump è evidentemente figlia di un’altra
America.

Dunque, le “rivoluzioni delle idee” non sono necessariamente definitivi


rovesciamenti di paradigmi, e spesso preparano il terreno a coabitazioni di tendenze
opposte, che coesistono a lungo con alterne fortune. Il che è coerente con il fatto che

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quelle due Americhe siano tornate frontalmente in conflitto con Reagan, e in
particolare dopo la vittoria di Trump nel 2016. Ma non è affatto semplice
comprendere la logica più profonda di questo fenomeno. Quand’è, in America, che in
questo scontro, ed anche in questa competizione, tra il mercato e la pubblica
amministrazione, si può tracciare almeno una somma, o una demarcazione finale?
Come è possibile che più di 80 anni dopo il New Deal, neanche il principio della
assistenza sanitaria universalistica sia accettato dai conservatori americani?

Come è noto, la spiegazione di un ‘populismo globale’ non aiuta granché a


comprendere quanto è accaduto, perché resta da capire come esso possa
comprendere fenomeni opposti, come il Tea Party e i “giacchetti gialli”. Non a caso
l’unico slogan che in questi anni ha avuto una declinazione multinazionale è forse
quello dell’America First, salvo doversi ora fare una ragione della imbarazzante
circostanza per la quale le guerra commerciale trumpiana incombe come una
minaccia di recessione nel resto del mondo. Pare quasi che il trumpismo parli alle
destre del mondo soprattutto per la sua pars destruens, per quello che distrugge
degli equilibri precedenti, mentre tutto quello che innova pare pazzesco o di ignota
destinazione e produce crescente imbarazzo ai suoi sostenitori nel mondo. (L’altro
aspetto internazionale è lo ‘sdoganamento’ di sentimenti razzisti, pur se anche questi
ultimi hanno una specificità nella storia americana che è tutta da comprendere e con
la quale anche il New Deal non osò arrivare ad una resa dei conti).

Del resto, ci sono anche molti aspetti della tradizione del New Deal che, in qualche
modo, si leggono nelle vicende attuali americane e sollevano speranze. La vittoria
democratica nelle elezioni di medio termine sembra tale da poter produrre un nuovo
passaggio nel prossimo futuro, che non consiste soltanto nella irruzione di nuovi
temi (coesistenza, globalismo ragionevole, tolleranza, diritti sociali, lotta al
cambiamento climatico, disarmo “interno”). L’impronta tipicamente americana a
queste tematiche si caratterizza per una evidente ‘duplicità’: si parte da condizioni,
diciamo così, di arretratezza (su tanti temi l’America spesso fornisce esperienze
desolanti), ma essi si impongono con una estrema concretezza alla lotta politica, una
concretezza abbastanza inconsueta nel torpore burocratico europeo. Viene
addirittura da chiedersi se gli effetti del sistema costituzionale statunitense dei “pesi
e dei contrappesi” – che spesso produce esiti bizzarri, per i quali un Presidente eletto
diventato “anatra zoppa” nelle elezioni di medio termine, lascia il campo ad una
pluralità di linee di comando che gli consentono di scatenare guerre commerciali  ma
non di costruire un muro sul confine – non sia la chiave di una “relativizzazione” del
potere politico, che limita il potere di guida e, al tempo stesso, impone concretezza
alla politica, privandola di eccessive sicurezze di lungo periodo. Ma ci sono alcuni
fatti che fanno riflettere: si abbandonano gli accordi di Parigi, ma si realizzano
esperienze di governo avanzate in molti Stati; il diritto di voto è spesso sabotato con
il “gerrymandering”, nonché ostacolato in vari modi a danno soprattutto delle
minoranze etniche, ma come spiega il recente articolo qua tradotto di Laura Tyson e
Lenny Mandonca, un nuovo movimento per la democrazia si sta affermando in molti
Stati ed ha vinto di recente quasi tutti gli appuntamenti referendari; il razzismo è
aggressivo, ma la convivenza delle etnie è il tratto distintivo delle dinamicissime
metropoli americane; l’assistenza sanitaria è sabotata dal Governo, ma i progressisti
ormai sono alle prese con l’obbiettivo del Medicare-per-tutti; Trump è alle prese con

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guai giudiziari per la gestione truffaldina della sua Università, ma l’eccellenza di
molte Università americane attrae cervelli da tutto il mondo etc.

Forse questa è l’eredità autentica del New Deal. In un paese che, quando irrompe
nella modernità sociale, lascia il segno e sposta in avanti gli equilibri del mondo.
Oppure, che a lungo li trattiene, anche quando sono in contrasto con sentimenti che
ormai sembrano prevalenti. 

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